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Università degli Studi di Torino<br />

Facoltà di Lettere e Filosofia<br />

Corso di Laurea in Filosofia<br />

Tesi di Laurea in Filosofia Teoretica<br />

IL CONCETTO DI<br />

AUßERSEIN NELLA<br />

TEORIA DEGLI OGGETTI<br />

DI ALEXIUS MEINONG<br />

Relatore: Prof. Maurizio Ferraris<br />

Candidato: Alessandro Salice<br />

matr. num.: 9706874<br />

Anno Accademico 2001-2002


SOMMARIO<br />

§1. Introduzione. pag. 3<br />

PARTE PRIMA – IL CONTENUTO.<br />

§2. La novità del contenuto. pag. 6<br />

§3. Il contenuto in Meinong. pag. 11<br />

§4. Come intendere il contenuto. pag. 20<br />

a. Mereologia del contenuto. pag. 22<br />

b. La relazione di adeguazione. pag. 26<br />

c. Il contenuto come pura modificazione. pag. 30<br />

PARTE SECONDA – L’OGGETTO.<br />

§5. L’oggetto. pag. 33<br />

a. Excursus: il pregiudizio in favore del reale. pag. 39<br />

§6. Oggetti ideali e oggetti reali. pag. 42<br />

a. Oggetti ideali: gli oggetti di ordine superiore. pag. 45<br />

b. Oggetti ideali: gli obiettivi. pag. 46<br />

c. Seins- e Soseinsobjektive. pag. 53<br />

PARTE TERZA – L’AUßERSEIN.<br />

§7. L’Außersein in Meinong.<br />

a. Il paradosso. pag. 58<br />

b. L’involuzione nel paradosso e la soluzione<br />

meinonghiana. pag. 60<br />

§8. Cos’è l’Außersein? pag. 65<br />

§9. Estensione del concetto di Außersein.<br />

a. “L’essenza” della oggettività. pag. 74<br />

b. “Vedere” l’essenza. pag. 79<br />

c. Gli oggetti e la collocazione spaziale. pag. 86<br />

§10. Außersein senza oggetto? pag. 92<br />

PARTE QUARTA – CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE. pag. 107<br />

BIBLIOGRAFIA pag. 110<br />

2


§1. Introduzione.<br />

La produzione filosofica di Meinong si sviluppa in un periodo<br />

complessivo di circa cinquant’anni e potrebbe essere indicativamente<br />

suddivisa in una prima fase psicologista ed in una seconda fase logico<br />

realista 1; questa suddivisione si basa su un cambiamento della<br />

prospettiva teoretica dell’autore che però non coinvolge né gli interessi<br />

che lo muovono né il metodo dell’analisi 2, che nella sostanza<br />

rimangono immutati per tutto il suo periodo produttivo. Proprio a<br />

metà della sua produzione scientifica 3, con un saggio del 1899 che<br />

marcherebbe questo spostamento di prospettiva, “Über Gegenstände<br />

höherer Ordnung und deren Verhältnis zur inneren Wahrnehmung”, Meinong<br />

infatti modula i cardini della propria psicologia filosofica 4 sulla base di<br />

1 E’ la strada battuta dal libro di John Findlay, per molti versi divenuto un<br />

classico degli studi su Meinong, “Meinong’s Theory of Objects” (1933), che<br />

tratta della teoria degli oggetti proprio a partire dal 1899, sostanzialmente<br />

ignorando i contributi delle opere precedenti. L’iscrizione di Meinong nella<br />

storia del realismo logico è operata da Morscher (1972): pag. 78.<br />

2 In fondo, quella di Meinong è sempre rimasta una “filosofia dal basso”, come<br />

scrive Haller (1966: pag. 321) “cioè una filosofia che non trascura la pretesa<br />

(Anspruch) dell’esperienza” (cfr. anche (Haller): 1973: pag. 151). L’espressione<br />

“filosofia dal basso” è coniata dallo stesso Meinong (1988b): pag. 100.<br />

3 La prima pubblicazione scientifica – “Zur Charakteristik der »Gesinnungs-<br />

Philosophie« der Gegenwart” – GA VII, pag. 63-75, risale infatti al 1875<br />

mentre l’ultima “Zur Grundlegung der allgemeinen Werttheorie. Statt einer<br />

zweiten Auflage der »Psychologisch-ethischen Untersuchungen zur<br />

Werttheorie« “ – GA III, pag. 469-656, data 1923, facendo sì che anche<br />

temporalmente, e non solo filosoficamente, il saggio „Über Gegenstände<br />

höherer Ordnung und deren Verhältnis zur inneren Wahrnehmung“, (1899) –<br />

GA II, pag. 377-471, si collochi esattamente nel mezzo del lavoro teoretico<br />

dell’autore. Con l’abbreviazione GA si fa riferimento ai volumi delle opere<br />

complete (Gesamtausgabe) di Meinong.<br />

4 Espressione suggeritami da Findlay (1972): pag. 15: “Einige Hauptpunkte in<br />

Meinongs philosophischer Psychologie”.<br />

3


impulsi provenienti da un altro brentaniano, Twardowski 5,<br />

assegnandogli da un lato il ruolo di argomentazione dirimente contro lo<br />

psicologismo in filosofia, dall’altro la chiave di volta della futura<br />

Gegenstandstheorie 6. L’enfasi data a questo passaggio può essere più o<br />

meno accentuata e peraltro sarà Meinong stesso a riconoscere, nella sua<br />

penultima opera, la Selbstdarstellung, più che una frattura, una linea di<br />

continuità all’interno del suo percorso teoretico, leggendo nel testo del<br />

1899 solo una messa in chiaro di temi e metodi, appunto, già<br />

precedentemente affrontati:<br />

“(…) gli scopi della quale [della teoria degli oggetti], senza<br />

che ciò mi fosse chiaro, erano più o meno stati considerati<br />

in tutte le mie precedenti pubblicazioni (…).” 7<br />

In qualsiasi modo si legga complessivamente lo sviluppo di tale<br />

pensiero, resta comunque il fatto, a mio avviso peculiare, che<br />

5 In: “Zur Lehre vom Inhalt und Gegenstand der Vorstellungen”, Wien, 1894.<br />

6 La denominazione “teoria degli oggetti” (“Gegenstandstheorie”) viene usato<br />

per la prima volta nel saggio “Bemerkungen über den Farbenkörper und das<br />

Mischungsgesetz”, cfr. Meinong (1903): pag. 499<br />

7 in: Meinong: (1998b): pag. 59. Così Meinong scrive già nel 1899 ancor più<br />

esplicitamente, in un abbozzo di lettera a Max Heinze, che il suo scopo dagli<br />

Hume-Studien in poi era stato quello di elaborare una<br />

“teoria della conoscenza da fondarsi su una teoria degli oggetti, in<br />

particolare degli “oggetti di ordine superiore” (relazione e<br />

complessioni)”<br />

riportato nella introduzione di Haller a Meinong GA II: pag. VII.<br />

[Il sistema di citazioni è stato organizzato in modo che al nome dell’autore<br />

segua la data di pubblicazione del testo nell’edizione consultata o della sua<br />

eventuale traduzione in italiano. In quest’ultimo caso, verrà sempre indicata<br />

l’abbreviazione “trad. it.”, il che significa che tutti gli altri casi vanno intesi<br />

come traduzioni personali.]<br />

4


l’introduzione della differenza tra contenuto e oggetto, è una novità del<br />

testo del 1899 fortemente influente peraltro su tutte le opere successive<br />

del filosofo e che una corretta comprensione del tema dell’Außersein,<br />

che occupa una posizione centrale nella Gegenstandstheorie, non può non<br />

passare attraverso l’approfondimento e l’esplicitazione operata da<br />

Meinong della tripartizione twardowskiana 8. Infatti la corretta<br />

individuazione della componente psichica permette a Meinong di<br />

allontanare i rischi dello psicologismo, ovvero di emanciparsi da essa<br />

per tendere all’analisi della sfera oggettuale. Sarà allora come<br />

completamento del momento oggettuale che si svilupperà la teoria degli<br />

oggetti, i nessi interni della quale sono poi saldati dal concetto di<br />

Außersein.<br />

Ricapitolando quindi, in modo questa volta concettuale e non<br />

cronologico: si vuole prendere in esame il concetto di Außersein, che<br />

viene introdotto da Meinong unicamente in seguito all’esigenza<br />

manifestata dalla teoria degli oggetti di un perno sul quale basarsi. La<br />

teoria degli oggetti è però, a sua volta, un tentativo di complemento<br />

esaustivo del momento oggettuale, che scaturisce dalla necessità interna<br />

del modello psichico accettato a partire dal 1899 dall’autore. Con<br />

l’articolarsi quindi del sistema meinonghiano in una linea che a ritroso<br />

passa dal modello psichico proposto, alla teoria degli oggetti ed agli<br />

attinenti modi di essere, fino al modo “d’essere” ultimo, quello<br />

dell’Außersein, si traccia nello stesso tempo una via favorevole<br />

all’esposizione, che qui verrà seguita.<br />

8 Non è infatti un caso che ogni testo sulla teoria degli oggetti di Meinong debba<br />

5


PARTE PRIMA – IL CONTENUTO.<br />

§2. La novità del contenuto.<br />

L’introduzione della differenza tra contenuto e oggetto con il<br />

testo “Gli oggetti di ordine superiore in rapporto alla percezione<br />

interna” del 1899 segna in Meinong, come si è detto, la cosiddetta<br />

svolta logico-realista. Per comprendere di preciso cosa si intenda con<br />

tale svolta e da quale corrente di pensiero Meinong, col suddetto testo,<br />

si congeda, bisogna brevemente riferirsi al suo maestro, Franz<br />

Brentano 9.<br />

La celeberrima tesi di quest’ultimo, quella dell’intenzionalità,<br />

sostiene che:<br />

“Ogni fenomeno psichico è caratterizzato da ciò che gli<br />

scolastici medioevali chiamarono l’in/esistenza intenzionale<br />

(ovvero mentale) di un oggetto, e che noi, anche se con<br />

espressioni non del tutto prive di ambiguità, vorremmo<br />

definire il riferimento a un contenuto, la direzione verso un<br />

iniziare almeno con un riferimento a Twardowski, cfr. J.N. Findlay (1933) e<br />

Michele Lenoci (1972).<br />

9 Meinong seguì per più di quattro semestri le lezioni di Franz Brentano a<br />

Vienna e il pensiero di quest’ultimo lo marcò profondamente; per una<br />

valutazione complessiva dei rapporti, spesso conflittuali, fra i due personaggi,<br />

cfr. Dölling (1999): cap. II.3, pag. 25-41.<br />

6


obbietto (che non va inteso come una realtà), ovvero<br />

l’oggettività immanente” 10.<br />

L’intenzionalità come indice classificatorio per tutti i fenomeni<br />

psichici avrà molta fortuna fra i suoi allievi, tanto da acquisire quasi un<br />

valore di ovvietà 11, e andrà di pari passo con un’accettazione in larga<br />

parte consensuale della descrizione che Brentano ne fa con la classica<br />

individuazione di tre tipi di atti fondamentali e del loro gerarchico<br />

articolarsi: primaria tra i tre atti è la presentazione 12 (Vorstellung), su di<br />

essa si basa l’atto di giudizio (urteilen) ed infine sul giudizio si sviluppano<br />

i fenomeni di amore e di odio 13. Se questa teoria viene quindi recepita<br />

senza sostanziali modifiche sia da Twardowski che da Meinong e<br />

persino da Husserl, sebbene ognuno apporti approfondimenti più o<br />

meno rilevanti, non lo stesso si può dire sul problema che essa suscita a<br />

10 Brentano (1997): trad. it. pp. 154.<br />

11 Cfr. Coffa (1998): trad. it. pag. 143.<br />

12 Seguo qui l’uso di alcuni testi in lingua inglese che tendono a tradurre il<br />

termine tedesco “Vorstellung” con “presentation” visto che sembra essere più<br />

adatto ad una resa fedele del termine nel significato meinonghiano. Indicherò<br />

nel seguito tra parentesi se l’uso di “presentazione” si riferirà non a<br />

“Vorstellung” ma a “Präsentation”. In merito, trovo anche conferma da Marek<br />

(2001) che scrive a proposito di un suo articolo in inglese:<br />

“Il termine tedesco “Vorstellung” è reso con “presentation”, il<br />

suo verbo corrispondente “vorstellen” con “present”. L’impiego<br />

di Meinong di “Präsentation” e “präsentieren” viene anche<br />

tradotto con “presentation” e “present”, ma ciò verrà fatto<br />

notare. Nelle opere in inglese su Meinong si può trovare come<br />

traduzioni alternative di “Vorstellung” l’espressione “idea”<br />

(talvolta in Grossman e Findlay) e “representations” (in<br />

Heanue)” : Marek (2001): pag.261, nota 1.<br />

Anche la traduzione di Albertazzi (1997) della “Psicologia dal punto di vista<br />

empirico” segue questa traduzione, cfr. pag. XXVI; al contrario, Melandri, nella<br />

sua traduzione del testo del 1899, utilizza ancora il termine “rappresentazione”.<br />

Sulla specifica differenza della resa di Vorstellung con “presentazione” o<br />

“rappresentazione”, cfr. Nef (1998): pag. 139.<br />

7


iguardo del significato attribuito a termini quali “contenuto” e<br />

“oggetto”. Per riassumere il problema con Dale Jacquette:<br />

“La difficoltà con la tesi iniziale di Brentano sulla oggettività<br />

immanente è che essa sembra collocare il mondo reale oltre<br />

il raggiungimento del pensiero (beyond the reach of thought). Gli<br />

oggetti del pensiero, che con certe qualificazioni Brentano<br />

caratterizza anche come contenuti di pensiero,<br />

appartengono all’atto mentale stesso, sono contenuti al suo<br />

interno. Per prendere solo uno degli esempi di Brentano,<br />

nel desiderio qualcosa è desiderato, quindi il desiderio ha un<br />

oggetto intenzionale. Ma a quale categoria metafisica<br />

l’oggetto desiderato appartiene, dove esso è locato?” 14.<br />

La mancanza di una netta differenziazione tra contenuto e<br />

oggetto, insomma, fa involvere la visione brentaniana se non<br />

nell’idealismo, quantomeno nello psicologismo 15, dal momento che non<br />

si riesce a fissare in modo univoco lo status ontologico del quale è<br />

13 Brentano (1997): libro II, in particolare: cap. 2, 3, 4.<br />

14 Jacquette (1990/91): pag. 179-180.<br />

15 Intendendo qui per psicologismo ogni dottrina che riconduce all’attività<br />

psichica ogni correlato oggettuale. Cfr. Engel, (2000): trad. it. pag. 44:<br />

“Lo psicologismo designa generalmente una confusione fra ciò che<br />

è di natura non psicologica e ciò che si suppone (a torto) di natura<br />

psicologica. Più esattamente lo psicologismo è un certo tipo di<br />

spiegazione o di analisi di una nozione, di un insieme di fenomeni<br />

o di entità in termini psicologici, ovvero in termini di fenomeni o<br />

di entità che sono di pertinenza della psicologia, e questo tipo di<br />

spiegazione o di analisi è considerata illegittima”.<br />

8


portatore l’oggetto afferrato dall’atto e soprattutto se quest’ultimo sia<br />

riducibile o meno ad attività psichiche.<br />

Questo problema viene rilevato abbastanza presto e già nella<br />

“Logica” di Höfler, pubblicata sotto la supervisione di Meinong, una<br />

prima differenza tra contenuto e oggetto sembra farsi avanti, pena poi<br />

non essere mantenuta nel corso di tutta l’opera:<br />

“(1) Quello che sopra si è chiamata il “contenuto di una<br />

presentazione o di un giudizio” sta interamente entro il<br />

soggetto, come l’atto presentante o giudicante stesso. (2) Il<br />

termine oggetto è utilizzato in modo duplice: da un lato è<br />

utilizzato per ciò che esiste in se stesso, “la cosa in sé”<br />

attuale, reale…alla quale la nostra presentazione o giudizio,<br />

per così dire, si dirige. Dall’altro lato esso è usato per<br />

l’immagine mentale “in” noi, la più o meno accurata<br />

immagine di quella realtà, la quasi-immagine della quale (o<br />

piuttosto, il segno) è identico col contenuto menzionato in<br />

1. Per distinguere ciò dall’oggetto indipendente dal pensiero,<br />

si può anche chiamare il contenuto di una presentazione e<br />

di un giudizio (ugualmente: di un sentimento o di un atto di<br />

volontà) “l’oggetto immanente o intenzionale” di questi<br />

fenomeni mentali (…)” 16.<br />

16 Höfler (1890): pag. 7; è Marek (2001) a far notare come Höfler mutui a sua<br />

volta probabilmente da Zimmermann la vaga distinzione tra oggetto e<br />

contenuto: la terza edizione del suo testo “Philosophische Propädeutik ” (1867)<br />

infatti venne lungamente studiata e annotata da Höfler. Cfr. Marek (2001), pag.<br />

262-263.<br />

9


Sarà però Kasimir Twardowski nel 1894 con la sua opera “Zur<br />

Lehre vom Inhalt und Gegenstand der Vorstellung” a fissare questa distinzione<br />

e ad investirla complessivamente con una analisi filosofica. Per evitare<br />

di soffermarmi troppo su questa densa opera dirò solamente che<br />

l’individuazione del contenuto va di pari passo con alcune confusioni<br />

dovute al mancato riconoscimento del ruolo e della natura<br />

eminentemente psicologici del contenuto, a favore invece di una<br />

trattazione in termini di immagine/copia dell’oggetto (sull’uso dei quali,<br />

peraltro, l’autore stesso talvolta tentenna): il contenuto altro non<br />

sarebbe cioè che una copia o una immagine, nella mente, di ciò che<br />

l’oggetto è fuori di essa. Significativo a tal proposito è l’esempio che egli<br />

porta del rapporto tra il dipinto di un paesaggio e il paesaggio stesso,<br />

secondo il quale il paesaggio corrisponderebbe all’oggetto, e il dipinto<br />

del paesaggio al contenuto della presentazione. Esempio che, se verrà<br />

poi rifiutato nel corso dell’opera stessa 17, non gli impedisce peraltro di<br />

compiere l’errore di attribuire al contenuto caratteristiche proprie solo<br />

dell’oggetto 18, come ad esempio quella di una struttura mereologica.<br />

17 Scrive Twardowski:<br />

“Ciò che noi abbiamo notato in riferimento al termine “dipinto”<br />

nell’uso di un quadro e di un paesaggio, vale mutatis mutandis<br />

per la determinazione “presentato”, così come essa viene usata<br />

per il contenuto e per l’oggetto di una presentazione”,<br />

Twardowski (1894): pag. 14.<br />

Ed in seguito, a pag. 67:<br />

“ Sembra oggi una domanda generalmente risolta in senso<br />

negativo, quella se vada accettata o meno un tipo di similitudine<br />

fotografica tra contenuto e oggetto. ”<br />

18 Un altra interpretazione di lettura del contenuto in Twardowski si darebbe su<br />

base semantica, secondo la quale il contenuto sarebbe il senso (Sinn) fregeano e<br />

l’oggetto il significato (Bedeutung), cfr.:<br />

10


§.3 Il contenuto in Meinong.<br />

L’introduzione della differenza tra contenuto e oggetto operata da<br />

Meinong nel 1899 ha un procedere sistematico che si sviluppa<br />

esplicitamente in un ristretto numero di pagine 19. Essa viene mutuata da<br />

Twardowski, ma, dal momento che, a detta dello stesso Meinong, lo<br />

studio in questione non è rivolto in prima istanza alla discussione di<br />

questa distinzione tecnica, bensì allo studio degli oggetti di ordine<br />

superiore, l’autore non discuterà le tesi del collega polacco, ma si<br />

limiterà ad esporre le proprie 20.<br />

La trattazione inizia con la chiara adesione da parte di Meinong<br />

alla tesi dell’intenzionalità brentaniana:<br />

“Ovviamente la distinzione di Twardowski (…) è un tipo di<br />

parallelo psicologico della distinzione di Frege tra “Sinn” e<br />

“Bedeutung” dell’espressione nel linguaggio”<br />

in: Cavallin (1997): pag. 53.<br />

19 Nello specifico, unicamente nel secondo paragrafo della prima sezione:<br />

“Oggetto (Gegenstand) e contenuto”, Meinong (1899): 381. Questo terzo<br />

paragrafo è dedicato esclusivamente all’analisi di quei passaggi; ulteriori<br />

riferimenti al problema del contenuto in altre opere verranno riportati nei<br />

paragrafi successivi.<br />

20 Scrive Meinong in nota:<br />

“In proposito, molto stimolante e istruttivo è il lavoro di K.<br />

Twardowski, Zur Lehre vom Inhalt und Gegenstand der<br />

Vorstellungen, Wien 1894, al quale ci riferiamo qui in generale,<br />

essendo troppo dispersiva una sua dettagliata recensione”, in:<br />

Meinong (1899): pag. 381; trad. it., pag. 33.<br />

11


“Che a ogni fatto psichico sia essenziale avere un oggetto<br />

(Gegenstand), sarà concesso senza riserve per quanto riguarda<br />

ciò di cui qui ci occupiamo” 21.<br />

Se è quindi un fatto ovvio e scontato che l’atto psichico sia<br />

caratterizzato dal riferirsi ad un oggetto 22 (Gegenstand), non altrettanto<br />

ovvio per tale tesi è che nell’atto vi sia una differenza tra contenuto<br />

(Inhalt) e oggetto (Gegenstand). Continua infatti Meinong:<br />

“Si ammetterà parimenti di buon grado, probabilmente,<br />

anche che non esiste né rappresentazione 23 né giudizio<br />

senza contenuto: ma questo contenuto, nell’opinione di non<br />

pochi, si ridurrà all’ipotesi che contenuto e oggetto<br />

(Gegenstand) siano all’incirca lo stesso”. 24<br />

Meinong confessa di aver anche lui lungamente usato senza<br />

chiarezza le due espressioni, ma di essersi poi ricreduto e di ritenere<br />

quindi, al momento presente, inadeguato quell’uso iniziale. Si tratta ora<br />

di identificare nell’atto (è importante notare che Meinong assume nella<br />

21 Meinong (1899): pp. 381; trad. it., pag. 33.<br />

22 A causa dell’ovvio rischio di fraintendimenti che la parola “oggetto” può<br />

causare, traducendo egualmente le parole tedesche Objekt e Gegenstand,<br />

indicherò sempre tra parentesi nei passaggi che possono dare adito a tali<br />

confusioni a quale termine tedesco si sta facendo riferimento.<br />

23 Vd. nota 12.<br />

24 Meinong (1899): 381; trad. it. pag. 33.<br />

12


trattazione la presentazione come atto paradigmatico 25) un elemento a<br />

sé stante, differente sia dall’atto stesso che dal contenuto; per farlo<br />

bisognerà prendere in rassegna vari tipi di presentazione, metterli in<br />

luce, e scoprire innanzitutto se tale elemento si dia effettivamente e, in<br />

tal caso, di che natura esso sia.<br />

Il contenuto viene isolato in prima istanza con una prova diretta,<br />

per quanto riguarda i casi di presentazioni che abbiano come oggetto<br />

degli oggetti inesistenti (si vedrà come la denominazione “oggetto<br />

inesistente” sia in una certa misura fallace e con quale essa verrà<br />

sostituita da Meinong). Ovvero noi possediamo delle presentazioni che<br />

sono dirette a degli oggetti che hanno la particolare caratteristica di non<br />

essere, per una qualche ragione, esistenti. Di tali oggetti inesistenti<br />

Meinong propone una mappa quadripartita:<br />

i. il primo caso tratta di oggetti caratterizzati da una sorta di<br />

contraddizione interna (ad esempio: il quadrato rotondo) – e per<br />

questo intrinsecamente incapaci di esistenza – si vedrà nei capitoli<br />

seguenti quale importanza avrà l’analisi di questo tipo di oggetti<br />

per lo sviluppo successivo della Gegenstandstheorie;<br />

ii. il secondo di oggetti che di fatto (tatsächlich) sono inesistenti (come<br />

per esempio, la montagna d’oro), ovvero la cui inesistenza<br />

dipende unicamente da motivi empirici;<br />

iii. il terzo è il caso di oggetti quali “differenza” o “relazione” (poi<br />

chiamati oggetti ideali) – dei quali tratterò in seguito;<br />

25 Questa sembra essere causa di difficoltà per l’intendimento della natura del<br />

contenuto, soprattutto nella descrizione della sua struttura in termini<br />

mereologici. Tratterò in seguito di questi problemi.<br />

13


iv. ed infine il quarto caso si interessa di oggetti passati o futuri,<br />

quindi di fatto al momento non presenti, per quanto essi siano<br />

stati presenti, o possano esserlo in futuro.<br />

Di tutti questi oggetti noi abbiamo una presentazione, possiamo<br />

persino enunciare dei giudizi veri su di essa, per quanto i loro oggetti<br />

non esistano. Quindi, posto che le presentazioni di tali oggetti ci siano,<br />

come si può negare il fatto che tali presentazioni hanno degli specifici<br />

contenuti, ai quali esse si dirigono? Scrive Meinong:<br />

“(…) esiste dunque la rappresentazione [corrispondente].<br />

Ma chi vorrebbe sostenere, se non per amore di paradosso,<br />

che la rappresentazione sì, esiste, non però il suo<br />

contenuto?” 26<br />

Per quanto riguarda l’oggetto, bisogna porre attenzione alla<br />

differenza, ancora mantenuta da Meinong (a differenza di Twardowski,<br />

che rigetta interamente il termine scolastico di “immanenza”, usandolo<br />

solo più in riferimento critico alla teoria di Brentano), che corre tra<br />

oggetto trascendente (che nei casi qui considerati non esiste) e l’oggetto<br />

immanente, ovvero, scrive Meinong, tra la realtà (Wirklichkeit) e il puro<br />

presentato (das bloß Vorgestellte) 27. L’uso di Meinong di “oggetto<br />

immanente” indicherebbe di solito un oggetto interamente contenuto<br />

nella presentazione, appunto, non trascendente, ma l’utilizzo<br />

26 Meinong (1899): pag. 382; trad. it. pag. 33.<br />

27 Cfr. Meinong (1899): pag.383; trad. it. pag. 34.<br />

14


meinonghiano del termine non sempre è lineare lasciando adito ad una<br />

velata confusione tra il contenuto e l’oggetto immanente, dal momento<br />

che anche il contenuto è, per così dire, immanente all’atto, come infatti<br />

mette in luce Jacquette Dale:<br />

“Gli sforzi [di Meinong] per chiarificare l’esatto uso di<br />

queste espressioni è difficile da seguire, e i suoi ripetuti<br />

tentativi per raggiungere chiarezza confondono solo le cose,<br />

così che non si può non ammirare la decisione di<br />

Twardowski di metter da parte la terminologia e procedere<br />

solo con i nuovi termini chiarificati di “contenuto” e<br />

“oggetto” e con la distinzione tra oggetti dati nelle e<br />

attraverso le presentazioni.” 28<br />

28<br />

Jacquette Dale, (1990/91): pag. 186. Una possibile delucidazione può però<br />

venire da Marek (2001):<br />

“Il contenuto è qualcosa di immanente, ma usualmente non è un<br />

oggetto immanente nel senso che è un oggetto di una<br />

presentazione e che anche esiste nella presentazione. L’oggetto<br />

mentale diventa un oggetto immanente solo se è oggetto di una<br />

cosiddetta autopresentazione, cioè una esperienza riflessiva<br />

nella quale il contenuto in un certo senso presenta se stesso.”<br />

Marek, (2001), pag. 269.<br />

Marek sostiene che se è vero che il contenuto è sempre un elemento immanente<br />

all’atto (lo è infatti per definizione), non è detto che esso sia un “oggetto<br />

immanente”, che sia cioè intenzionato da un atto; lo sarebbe solo se divenisse<br />

l’oggetto di un particolare tipo di atto presentante detto di “autopresentazione”.<br />

I testi a cui però Marek fa riferimento sono tutti successivi a quello del 1899 e,<br />

peraltro, il caso specifico di un contenuto, oggetto di un’autopresentazione,<br />

verrà chiamato da Meinong “quasi contenuto” (Quasi-Inhalt), vale a dire né un<br />

contenuto né un oggetto immanente, lasciando così concludere che la<br />

confusione tra oggetto immanente e contenuto rimane e che il caso di “quasi<br />

contenuto”, più che chiarificare tale confusione, tratta di un caso particolare di<br />

15


Meinong mantiene quindi la differenza tra oggetto “immanente” e<br />

“trascendente”: nei casi sopra menzionati l’oggetto trascendente<br />

mancherebbe, ma sarebbe dubbio lo status dell’oggetto immanente, che<br />

esisterebbe tutt’al più “limitatamente alla presentazione”. Vista però<br />

l’assurdità di porre un genere di esistenza privilegiato proprio solo della<br />

presentazione (un “in der Vorstellung Existieren”), cosa che sarebbe una<br />

palese assurdità, Meinong preferisce parlare di tali oggetti come di<br />

oggetti “pseudoesistenti” e della loro forma di esistenza come di<br />

“pseudoesistenza”. In questa opera il termine “pseudoesistenza” viene<br />

usato per connotare quindi unicamente una esistenza “nella mente” 29.<br />

“«L’esistere nella rappresentazione» a rigore non è affatto un<br />

esistere, (…) allora per evitare fraintendimenti sarà<br />

vantaggioso tener per fermo che quella pretesa esistenza al<br />

massimo merita d’esser chiamata pseudoesistenza.”. 30<br />

E’ interessante a questo punto rilevare come la ferma esistenza<br />

del contenuto di fronte ad un oggetto, in questi casi tutt’al più<br />

pseudoesistente, sia anche un indice della sua funzione all’interno della<br />

presentazione: grazie ad esso, cioè, riusciamo a rendere “reali” (o<br />

meglio, a dirigere i nostri atti oltre che – come si vedrà – verso oggetti<br />

esistenti anche verso) oggetti pseudoesistenti. Ma non solo, l’analisi del<br />

quarto caso di oggetti non presenti, rende anche chiara una ulteriore<br />

presentazione, quello appunto, di autopresentazione – cfr. Meinong (1910): §43,<br />

pag. 264; (1917) § 1, pag. 291 e §6, pag. 328.<br />

29 Cfr. Meinong (1988a): pag. 11.<br />

16


funzione del contenuto, ovvero una certa capacità di “presentificare”<br />

l’oggetto della presentazione: per il suo tramite, infatti, oggetti passati o<br />

futuri possono diventare oggetti presenti all’atto che li ha di mira, anche<br />

se, certo, nella modalità particolare della “presentificazione” (sono<br />

oggetti passati “resi presenti all’atto”, non essendo presenti di per sé).<br />

Con la decisa affermazione della realtà del contenuto Meinong diverge<br />

tra l’altro dalla posizione di Twardowski, che esitava sulla sua reale<br />

esistenza 31, precisa infatti l’autore:<br />

“(…) i contenuti sono sempre altrettanto reali che le<br />

rappresentazioni, di cui sono i loro contenuti” 32<br />

Il passaggio all’estensione del contenuto per ogni oggetto nel<br />

meccanismo presentativo passa attraverso una considerazione di ordine<br />

diverso. Mentre, infatti, nei precedenti quattro casi, l’autore<br />

argomentava in forza dell’evidenza assicuratagli dalla effettiva<br />

possibilità di dirigere i propri atti psichici verso un oggetto<br />

pseudoesistente, dando così una prova diretta dell’esistenza del<br />

contenuto, a questo punto dell’analisi egli si deve accontentare di una<br />

prova indiretta. Si ammetta infatti la presentazione di un oggetto qualsiasi<br />

A, fisico, reale e presente, e poi la si confronti con la presentazione di<br />

un oggetto B dalle stesse caratteristiche (fisico, reale…) di A. In<br />

30 Meinong (1899): pag. 383; trad. it. pag. 34.<br />

31 Cfr. Twardowski (1894): pag. 31:<br />

“Per quanto esso [il contenuto] formi con quello [l’atto] una<br />

unica realtà psichica, mentre l’atto della presentazione è<br />

qualcosa di reale, al contenuto manca sempre la realtà (…)”.<br />

17


entrambe queste presentazioni esiste un momento comune, appunto,<br />

quello di essere presentazioni, cioè l’atto. Ma in esse si è per forza<br />

costretti ad accettare un elemento che si faccia carico della diversità<br />

degli oggetti presentati, difatti, non solo l’oggetto A e quello B sono<br />

diversi, ma anche la presentazione dell’oggetto A è diversa da quella<br />

dell’oggetto B. Questo elemento non può essere ovviamente l’elemento<br />

comune dell’atto né può essere l’oggetto, essendo questo chiaramente<br />

esterno all’atto che lo intenziona, e non interno alla corrispondente<br />

presentazione; si tratterà quindi di individuare una componente<br />

mediana tra l’atto e l’oggetto, ovvero il contenuto psichico 33.<br />

“Tali accadimenti psichici mostrano dunque tutti – a parte<br />

l’illimitata variabilità dell’oggetto (Gegenstand) – un momento<br />

a essi comune, appunto ciò in virtù di cui tutti sono<br />

rappresentazioni, che è poi il rappresentare, ovvero l’atto<br />

rappresentativo. D’altronde però le rappresentazioni, in<br />

quanto siano rappresentazioni di oggetti diversi, non<br />

possono esser del tutto eguali tra loro, (…) la diversità degli<br />

oggetti dovrà in qualche modo ricondursi alla diversità delle<br />

corrispondenti rappresentazioni. Ora ciò in cui le<br />

rappresentazioni di oggetti diversi – a parte la loro<br />

concordanza nell’atto – sono tra loro diverse, è appunto<br />

32 Meinong (1899): pag. 383; trad. it. pag. 34<br />

33 E’ interessante notare che esattamente la stessa preoccupazione muove il<br />

medesimo tipo di dimostrazione indiretta seguita da Husserl, allorché l’autore<br />

intraprende lo studio della materia di un atto intenzionale: cfr. Husserl (1900):<br />

V Untersuchung, pag. 434; trad. it. pag. 222; “oggetti che nella presentazione<br />

non sono nulla, non possono nemmeno differenziare una rappresentazione<br />

18


quel che esige d’esser chiamato “contenuto della<br />

rappresentazione” (…)”. 34<br />

Quest’ultimo argomento viene accompagnato dalla precisazione<br />

di ulteriori caratteristiche del contenuto. La prima è che si ha un<br />

contenuto anche di oggetti fisici e presenti. E’ ovvio allora, che il<br />

contenuto di oggetti fisici non può essere a sua volta fisico, bensì solo<br />

di natura psichica. Ciò ha come conseguenza il fatto che rappresentare<br />

un oggetto blu non comporta a sua volta un contenuto di colore blu:<br />

proprietà del contenuto “di questo tipo” 35 non vengano trasmesse al<br />

contenuto. E con questa ultima affermazione Meinong sembrerebbe<br />

lasciarsi alle spalle, questa volta in modo definitivo, la posizione<br />

twardowskiana che tendeva ad assimilare la descrizione del contenuto<br />

alla descrizione della rappresentazione.<br />

Infine l’interesse di Meinong si dirige, in conclusione del<br />

paragrafo, su quello che l’autore chiama il “motivo esterno” per il quale<br />

non si riesce nettamente a distinguere il contenuto. Esso consisterebbe<br />

nella natura del linguaggio che per Meinong significherebbe l’oggetto,<br />

pur esprimendo il contenuto 36, il che vuol dire, in sostanza, che il<br />

dall’altra (…)”. Per quanto alla “materia” husserliana non si possa sovrascrivere<br />

adeguatamente il “contenuto” meinonghiano.<br />

34 Meinong (1899): pag. 384; trad. it. pag. 35<br />

35 Meinong usa l’espressione “Attribute solcher Art” (Meinong (1899): pag.<br />

383), ma è difficile dire a quale tipo di attributo egli faccia propriamente<br />

riferimento. Stando agli esempi che porta sembrerebbe riferirsi solo alle<br />

cosiddette qualità secondarie, ma è dubbio che un elemento psichico possa farsi<br />

carico di qualità primarie. Questo problema è peraltro affine a quello presentato<br />

alla nota 25 e verrà ripreso e ridiscusso in seguito.<br />

36 Sul meccanismo della significazione mi soffermerò più profusamente nella<br />

seconda parte (cfr. §6, b.)<br />

19


linguaggio è dominato da un atteggiamento naturale che lo spinge a<br />

porre in risalto sempre l’oggetto e a far slittare il contenuto in secondo<br />

piano.<br />

§4. Come intendere il contenuto.<br />

La posizione del contenuto così come essa avviene nel 1899 resta,<br />

in Meinong, sostanzialmente immutata per tutto lo sviluppo successivo<br />

del suo pensiero. Ciò significa che essa, dal momento che rappresenta<br />

chiaramente una soluzione al problema dello “Zugang” – ovvero il<br />

contenuto assolve alla funzione di accesso all’oggetto (Gegenstand) nel<br />

larghissimo senso ad esso attribuito da Meinong – assumerà in seguito<br />

il ruolo di perno della Gegenstandstheorie. A ben vedere, quindi, non è<br />

l’esclusione dall’analisi filosofica di ogni riferimento alla sfera psichica a<br />

risultare dirimente per il successo di una teoria realista 37 e per evitare<br />

cadute di tipo psicologistico 38, dirimente è invece proprio la corretta<br />

individuazione di un elemento eminentemente psichico come il<br />

contenuto.<br />

37 Per “realismo” sia per ora da intendere unicamente quella<br />

“[…] disciplina, per la quale la logica (con inclusione della teoria<br />

della conoscenza) ha a che fare con certe categorie di oggetti, che<br />

sono realmente differenti tanto dai fenomeni psichici quanto dalle<br />

espressioni linguistiche”, in: Morscher (1972): pag. 69.<br />

Sulla reale collocazione della filosofia di Meinong all’interno di un concetto più<br />

allargato di quello di “realismo” (e sul concetto dello stesso Meinong a<br />

riguardo) si veda §5, a.<br />

38 Via battuta soprattutto dalla fenomenologia husserliana, in particolare, con la<br />

svolta trascendentale del 1913, anno di pubblicazione del primo volume delle<br />

Ideen; cfr. Husserl (2002).<br />

20


Ma se così è, non si può negare che esistano comunque alcuni<br />

fraintendimenti sulla natura del contenuto da parte di Meinong.<br />

Innanzitutto, come è stato fatto precedentemente notare, la discussione<br />

sul contenuto avviene quasi sempre nei termini di contenuto di<br />

presentazione. Questo, se da un lato facilita le cose, visto che Meinong<br />

è così in grado di porre il discorso su un piano di diretta evidenza, ad<br />

esempio con l’uso ricorrente di esempi, dall’altro le complica. Si<br />

inseriscono infatti, nell’argomentazione sulla presentazione e sul<br />

contenuto di presentazione, difficoltà e pregiudizi sulla natura della<br />

percezione, che finiscono per confondere i veri risultati, ai quali<br />

Meinong pare in effetti pervenire. La difficoltà primaria consiste nel<br />

fatto che Meinong, proprio come Twardowski, assume ancora un<br />

paradigma di spiegazione atomistico nella teoria della percezione 39. Tale<br />

posizione facilmente riconducibile agli empiristi inglesi (soprattutto in<br />

Locke 40) viene anche riconosciuta da Findlay:<br />

“Dobbiamo notare come Meinong soffra degli stessi<br />

pregiudizi atomistici [di Twardowski]; egli dedica un intero<br />

capitolo in Über Annahmen per cercare di venire a capo, con<br />

eroici tentativi, delle difficoltà connesse con la nostra<br />

apprensione di oggetti complessi” 41,<br />

39 Rilevare ciò non significa altro che, ancora una volta, sulla teoria percettiva di<br />

un autore si gioca sempre gran parte della “solidità” di un sistema filosofico.<br />

40 Autore per il quale si parla di una “visione del mondo polverizzata, ridotta ad<br />

un ammasso di idee semplici o qualità”, Viano: (2001), pag. XVI, in Locke<br />

(2001).<br />

41 Findlay (1933): pag. 17. Findlay fa qui riferimento all’ottavo capitolo di<br />

“Über Annahmen” – “Annahme bei Komplexen. Weiteres über das Meinen” –<br />

Meinong (1910): pag. 247-286.<br />

21


e consiste nell’idea che una presentazione complessa sia una<br />

sommatoria di presentazioni atomiche. Ora, secondo una spiegazione<br />

di questo tipo, quando si ha percezione di un oggetto complesso P,<br />

formato da a, b, c…, si avrà, utilizzando termini esemplificativi come ad<br />

esempio una funzione, f(P) = Σ (a, b, c…). Le conseguenze sono, a mio<br />

avviso, due.<br />

a. Mereologia del contenuto.<br />

In primo luogo, è chiaro che, in un contesto teorico del genere,<br />

quanto permette alla percezione di realizzarsi nel suo riferimento<br />

all’oggetto, ossia il contenuto, si dà nella forma complessa di una<br />

sommatoria di contenuti singoli per ogni a, b, c…fatto che allora<br />

giustificherebbe l’assegnazione di una struttura di tipo mereologico al<br />

contenuto. Prendiamo l’esempio discusso da Meinong:<br />

“Volendo per es. rappresentar l’oggetto “quattro noci”,<br />

l’operazione non si compirà facendo sì che nella mia<br />

percezione o immaginazione nei luoghi a, b, c, d, del mio<br />

campo visivo compaia ogni volta una noce, essendo questa<br />

rappresentazione […] non un collettivo obiettivo di noci<br />

rappresentate, bensì qualcosa in più: il risultato di una<br />

numerazione o comunque di una attività collettiva, e<br />

precisamente quel risultato che si costituisce come oggetto<br />

22


di ordine superiore sopra gli oggetti rappresentazioni-di-<br />

noce” 42<br />

Si tratta del famoso esempio che apre la strada alla discussione<br />

degli oggetti di ordine superiore. Meinong qui afferma che il gruppo di<br />

quattro noci non risulta da una pura enumerazione di rappresentazioni,<br />

poiché ad essa si deve sommare una “attività collettiva”, una<br />

“numerazione” capace di presentarci l’oggetto “quattro noci” (e non di<br />

“giudicare” che quelle che vediamo sono quattro noci). A prescindere<br />

per ora da quale sia la natura di questa attività e di quanto essa ci dia un<br />

risultato fedele all’oggetto, ci si trova qui in presenza di quello che<br />

Meinong chiamerebbe un caso di “coincidenza parziale” 43<br />

(Partialkoinzidenz), visto che la complessione delle quattro noci coincide<br />

con la relazione che si instaura tra le quattro noci: cioè tra i membri<br />

quattro noci a, b, c, d corre una relazione r che li rende membri anche di<br />

una complessione, di un tutto 44. Per quanto riguarda l’oggetto (Objekt)<br />

non mi sembra ci sia nulla da eccepire, ci sono quattro noci, che si danno<br />

nella forma di quattro noci, ci si trova giust’appunto davanti un oggetto<br />

42 Meinong (1899): pag. 388; trad. it. pag. 38.<br />

43 Perlomeno, così viene tradotto da Melandri (cfr. Meinong (1899): trad. it.<br />

pag. 39); non è escluso però che, sulla base di quanto tale principio sostiene,<br />

esso possa anche venir tradotto con “coincidenza delle parti”, considerato anche<br />

che in tedesco il termine “parziale” più che con “partial” si rende con “partiell”<br />

e che poco prima di introdurre il termine “Partialkoinzidenz” Meinong parla di<br />

“teilweise Identität”, traducibile propriamente con “identità parziale” (così che,<br />

in Melandri, viene persa la differenza tra “teilweise” e “partial” essendo resi<br />

entrambi con “parziale”).<br />

44 Questa intercambiabilità è espressa anche con il principio:<br />

“dove complessione, ivi relazione e viceversa”<br />

in Meinong (1899): pag. 389; trad. it. pag. 39.<br />

23


di ordine superiore. Ma si può applicare questo discorso al contenuto?<br />

Secondo Meinong sì:<br />

“E dalle considerazioni già fatte desumo il diritto di esigere<br />

questa coincidenza tra teoria delle complessioni e teoria<br />

delle relazioni tanto per i contenuti quanto per gli oggetti”. 45<br />

Esistono cioè dei contenuti psichici articolati in inferiora e<br />

superiora, organizzati in complessioni, tra i membri delle quali valgono<br />

delle precise relazioni. Nel già citato ottavo capitolo di Über Annahmen<br />

questa tendenza sarà ancora più esplicita, comparirà infatti il termine di<br />

“Teilinhalt” e le presentazioni saranno suddivise in<br />

“Vorstellungszusammenstellung” e “Vorstellungszusammensetzung” per<br />

denominare rispettivamente presentazioni dove i contenuti per un<br />

oggetto complesso siano “naturalmente dati” oppure siano dati in<br />

modo “relativamente artificiale” 46. Insomma,<br />

“Se, come Meinong ha mostrato, ci sono oggetti di ordine<br />

superiore, che si costituiscono su oggetti di ordine inferiore,<br />

allora deve darsi un corrispettivo dalla parte dei contenuti<br />

(…)”. 47<br />

45 Meinong (1899): pag. 390; trad. it. pag. 39<br />

46 Meinong (1910): pag. 254.<br />

47 Stock (1995): pag. 476<br />

24


Meinong giunge a queste conclusioni, a mio avviso, proprio<br />

perché soffre ancora di pregiudizi atomistici. Ma compiere<br />

un’operazione di questo tipo risulta, sulla base del testo stesso di<br />

Meinong, quanto meno problematico. Infatti se, come si è visto, un<br />

contenuto in forza della sua natura psichica non può essere né giallo, né<br />

blu, ma neppure, a quanto pare, quadrato o triangolare, profondo,<br />

concavo o convesso, avere insomma le caratteristiche di un oggetto,<br />

riducendosi esclusivamente alla modificazione psichica che l’oggetto<br />

causa in noi, allora non si spiega in che senso esso possa essere<br />

“fondato”, avere cioè parti, con dei rispettivi inferiora e dei superiora. A<br />

conferma di ciò va detto che il contenuto propriamente non è un<br />

oggetto (Gegenstand):<br />

“Ora però la non-identità di oggetto e contenuto emerge<br />

non solo quanto alla loro esistenza, ma anche non meno<br />

quanto alla diversità della loro natura (Beschaffenheit)” 48,<br />

e per questo motivo:<br />

“tra oggetto e contenuto regna una differenza categoriale” 49,<br />

48 Meinong (1899): pag. 383; trad. it. pag. 34.<br />

49 Findlay (1972): pag. 18.<br />

25


ma allora come può lo Inhalt farsi carico di una natura simile ad esso?<br />

b. La relazione di adeguazione.<br />

La seconda conseguenza è strettamente connessa alla prima:<br />

Meinong sostiene, discutendo l’esempio delle quattro noci, che<br />

l’oggetto di ordine superiore è il frutto di un qualche tipo di attività.<br />

Questo “tipo di attività” verrà chiamata produzione di presentazione<br />

(Vorstellungsproduktion) e costituisce forse uno dei maggiori contributi<br />

che la Grazer Schule abbia dato alla psicologia di fine ottocento 50. Con<br />

l’introduzione di questa attività psichica Meinong riesce a slegarsi dal<br />

paradigma della presentazione come copia (che, come si è visto, è<br />

ancora in campo con Twardowski), difatti se:<br />

“Tutto ciò che in loro [nelle presentazioni di percezione<br />

(Wahrnehmungsvorstellung)] non è sensazione (Empfindung)<br />

bensì presentazione, deve essere prodotto”. 51<br />

50 Influssi profondi sopravvivono anche in Italia, tramite i lavori di Benussi, e<br />

dei suoi allievi, Musatti, Metelli, Kanisza e, a tutt’oggi, Bozzi.<br />

51 Ameseder (1904b): pag. 489.<br />

26


allora l’oggetto non combacia con la presentazione come se fosse una<br />

copia, bensì esiste tra i due elementi uno scarto derivante dalla attività<br />

della “produzione”. Tuttavia nel promuovere la teoria della produzione<br />

di presentazione non si è abbandonato l’elementismo percettivo 52, al<br />

contrario, esistono proprio delle presentazioni elementari<br />

(Elementarvorstellung), ovvero delle sensazioni (Empfindungen) 53, sulle quali<br />

la attività di produzione si adopera per produrre delle presentazioni di<br />

percezione: il che vale a dire che per ogni presentazione elementare<br />

esiste un contenuto elementare.<br />

In che modo però, una volta assunto questo “scarto” tra l’oggetto<br />

e la presentazione di percezione, assicurare allora che il contenuto<br />

complesso sia fedele all’oggetto 54? Meinong accetta un certo tipo di<br />

corrispondenza tra oggetto (Gegenstand) e contenuto 55, ma questo non<br />

risolve il problema, infatti di che tipo di corrispondenza si sta parlando?<br />

“Meinong la chiama “relazione di adeguazione”<br />

(Adäquatheitsrelation) e la intende come una relazione ideale,<br />

ma oltre a ciò la caratterizza unicamente in modo negativo.<br />

Essa soprattutto non è una relazione di uguaglianza o di<br />

similitudine, non è un rapporto icastico (Abbildungsbeziehung)<br />

52 Cfr.: “Qui sta l’errore di Meinong, (…): cioè nel credere che gli ingredienti di<br />

strutture complesse possano essere ridotti agli elementi che li costruiscono”, in:<br />

Bozzi (1996): pag. 294.<br />

53 Ameseder (1904b): pag. 486.<br />

54 La domanda potrebbe essere riformulata nel senso di un teoria<br />

corrispondentista della verità: in che modo assicurare la corrispondenza della<br />

cosa e dell’intelletto?<br />

55 Si tratta per Meinong di una forma di relazione, nello specifico, di una<br />

relazione ideale. Cfr. Meinong (1899): pag. 398; trad. it. pag. 46 e inoltre<br />

Meinong (1910): pag. 265.<br />

27


e inoltre non è una relazione reale, per quanto sia illusoria<br />

anche una interpretazione causale”. 56<br />

Ma perché accettare che un tipo di relazione, quella ideale di<br />

adeguazione, debba sussistere tra l’oggetto e il contenuto? Infatti il<br />

contenuto non si pone sullo stesso piano ontologico dell’oggetto<br />

(Gegenstand), ed è difficile dire fino a che punto tra due elementi così<br />

eterogenei possa intercorrere una tale sorta di relazione. Meinong stesso<br />

ammette tali difficoltà con una rassegnata dichiarazione:<br />

“Come liberamente accada, che il rapporto di adeguazione<br />

(Adäquatheitsverhältnis) tra oggetto e contenuto sussista<br />

talvolta con grande somiglianza, tal altra con così grande<br />

dissomiglianza, di questo devo rimanere in debito di una<br />

risposta”. 57<br />

Credo che quanto faccia involvere l’autore in queste infinite<br />

difficoltà sia una sorta di metabasis eis allo genos, vale a dire il trattare il<br />

contenuto ancora come una sorta di “oggetto” nella testa. Una metabasis<br />

che si compirebbe in alcuni passaggi, ad esempio di Über Annahmen<br />

dove, in nota, Meinong riporta:<br />

56 Marek (1995): pag. 351.<br />

57 Meinong (1910): pag. 265.<br />

28


“oggetto è tutto l’afferrabile, quindi in particolare anche il<br />

contenuto, come risulta particolarmente chiaro nelle<br />

presenti circostanze, nelle quali ci stiamo occupando<br />

dell’oggetto “contenuto” già da tempo, afferrandolo e<br />

giudicandolo”. 58<br />

Ora, è chiaro che noi possiamo parlare del, e studiare il,<br />

contenuto nella nostra mente, “rendendolo” così un oggetto, ma questo<br />

non vuol dire che si sia ridotto realmente il contenuto in un oggetto 59.<br />

La questione, a mio avviso, si può risolvere con gli strumenti che<br />

Meinong stesso ci fornisce nelle sue opere: quanto riportato si pone in<br />

stridente contrasto con quanto lo stesso Meinong rimarca più volte,<br />

cioè che il contenuto è quel qualcosa di psichico che ci permette un<br />

riferimento all’oggetto e che, di conseguenza, si distingue da esso. Una<br />

riconferma di questo effettivo risultato nella trattazione del contenuto si<br />

trova in uno degli ultimi testi di Meinong Über emotionale Präsentation,<br />

dove l’autore si sente in dovere di dare una “precisazione del concetto<br />

di contenuto” (Zur Präzisierung des Inhaltsbegriffes) 60. Se infatti lo Inhalt è<br />

stato lungamente un “oggetto senza patria”, per parafrasare<br />

un’espressione dello stesso Meinong 61, in questo testo si colloca<br />

definitivamente il contenuto nella sfera psichica, più precisamente lo si<br />

58 Meinong (1910): pag. 267.<br />

59 In senso traslato potremmo prendere come analogia il problema kantiano<br />

della KdrV tra conoscenza di sé come fenomeno e come noumeno – cfr. KdrV<br />

B153, trad. it., pag. 175 e seg. – dove noi conosceremmo il contenuto<br />

fenomenicamente come oggetto, lasciando risiedere la sua noumenicità nel suo<br />

essere psichico.<br />

60 Faccio riferimento al paragrafo 7 del testo in questione.<br />

29


pone, per così dire, dentro il vissuto psichico (Erlebnis); dopo aver<br />

affermato il carattere metaforico dell’espressione “contenuto” 62, Meinong<br />

infatti scrive:<br />

“(…) l’oggetto è qualcosa di altro rispetto al vissuto<br />

(Erlebnis) che lo afferra o al vissuto adatto all’apprensione<br />

dell’oggetto. Ciò che io a suo tempo [nel saggio del 1899] ho<br />

utilizzato come “contenuto”, è in prima istanza un pezzo<br />

(Stück) di un tale vissuto (…)”. 63<br />

e propriamente quella parte che:<br />

“(…) è assegnata (zugeordnet) all’oggetto (Gegenstand) da<br />

afferrarsi con l’aiuto del vissuto, o meglio, all’oggetto<br />

immediatamente presentato (präsentiert) tramite il vissuto,<br />

così da rimanere costante o modificarsi con questo<br />

oggetto” 64.<br />

61<br />

Cfr. Meinong (1906): pag. 8, titolo della prima sezione: “Heimatlose<br />

Gegenstände”.<br />

62<br />

Meinong (1917): pag. 54.<br />

63<br />

Meinong (1917): pag, 55.<br />

64<br />

Meinong (1917): GA III, pag. 63.<br />

30


c. Il contenuto come pura modificazione.<br />

Per spingersi un po’ oltre il testo di Meinong, si potrebbe quindi<br />

pensare il contenuto in termini aristotelici 65 null’altro che una “specie di<br />

alterazione” (alloiosis tis) 66, vale a dire quella che si dà,<br />

“come (oion) la cera” che “riceve l’impronta dell’anello senza<br />

il ferro o l’oro: riceve bensì l’impronta dell’oro o del bronzo,<br />

ma non in quanto è oro o bronzo” 67.<br />

La contemporanea ricerca neurobiologica sembra essersi spinta<br />

più in là, ma nella sostanza tratta di un approfondimento dell’idea<br />

aristotelica, quando parla di “mappe neurali” 68:<br />

“Quando le particelle di luce, i fotoni, colpiscono la retina<br />

secondo una particolare configurazione collegata a un<br />

oggetto, le cellule nervose attivate in tale configurazione –<br />

65 E Findlay accetta questo paragone, cfr.:<br />

“Getta una qualche luce sulla teoria del contenuto e dell’oggetto il<br />

paragonarla con la posizione di Aristotele in merito alla<br />

sensazione” in: (1933): pag. 37. Cfr. anche Findlay (1973): pag.<br />

167.<br />

66 Aristotele, De Anima, B5, 416 b 35, trad. it. pag. 143.<br />

67 Aristotele, De Anima, B11, 424 a 20, trad. it. pag. 183.<br />

68 Un concetto, quello di “mappa”, che<br />

“(…) quando si discute di neurobiologia della mente è inevitabile<br />

e irresistibile quasi quanto rappresentazione”. Damasio (2000):<br />

trad. it. pag. 386.<br />

31


un cerchio o una croce, poniamo – costituiscono una<br />

“mappa” neurale transitoria. Anche a livelli successivi del<br />

sistema nervoso, per esempio nelle cortecce visive, si<br />

formano altre mappe collegate” 69.<br />

Dove a “mappa neurale” credo sia a questo punto possibile se<br />

non sovrapporre, quantomeno accostare, senza particolari rischi, il<br />

concetto di “contenuto”. Inoltre, la prospettiva neurobiologica può<br />

sostenere la nostra tesi anche da un altro punto di vista: giacché, dal<br />

momento che il riferimento ad un contenuto vale per Meinong per ogni<br />

tipo di oggetto (Gegenstand), ovvero anche per un oggetto che non sia<br />

direttamente presente, così dovremo trovare anche in questo caso una<br />

“specie di alterazione”, ed infatti:<br />

“Di conseguenza, anche quando stiamo “soltanto”<br />

pensando ad un oggetto, tendiamo a ricostruire ricordi non<br />

soltanto di una forma o di un colore, ma anche del<br />

coinvolgimento percettivo richiesto dall’oggetto e delle<br />

reazioni emotive di accompagnamento, per quanto lievi<br />

possano essere state. Mentre giacciamo immobili dopo<br />

un’iniezione di curaro o sogniamo a occhi aperti nel buio, le<br />

immagini che formiamo nella mente segnalano sempre<br />

all’organismo il suo coinvolgimento nell’attività di<br />

69 Damasio (2000): trad. it. pag. 387. Prescindo, qui, dal prendere posizione in<br />

merito agli intenti di Damasio in “Emozione e coscienza”.<br />

32


formazione delle immagini ed evocano qualche reazione<br />

emotiva”. 70<br />

A mio avviso, questo “coinvolgimento”, così come le “reazioni<br />

emotive di accompagnamento”, possono essere intese come un<br />

contenuto psichico, lasciando cadere problemi di natura metafisica,<br />

quali la struttura del contenuto o la sua adeguazione con l’oggetto: non<br />

esiste una struttura del contenuto, visto che si tratta solo di una<br />

modificazione che ci permette un accesso all’oggetto, e perciò non può<br />

neanche vigere propriamente una relazione di “adeguazione” tra un<br />

oggetto e la diretta modificazione che esso causa in un organismo, non<br />

ponendosi il contenuto sullo stesso piano ontologico dell’oggetto.<br />

PARTE SECONDA – L’OGGETTO.<br />

§ 5. L’oggetto (der Gegenstand).<br />

Dopo aver tracciato la possibilità primaria dell’accesso ad un<br />

oggetto da parte di un soggetto, ed averla fissata nei termini di un<br />

contenuto psichico, bisogna prendere in esame cosa Meinong intende<br />

con il termine “oggetto”. Capire l’ampiezza di significato che il termine<br />

Gegenstand acquisisce in Meinong è – in realtà – null’altro che<br />

condividere l’intuizione fondante del sistema dell’autore. Di fatto,<br />

70 Damasio (2000): trad. it. pag. 182/183.<br />

33


quello che il filosofo di Graz presenta nei suoi scritti è forse uno dei<br />

tentativi più ambiziosi, nella storia della filosofia, di spingere la scienza<br />

fino ai limiti estremi delle sue capacità: l’idea stessa di Gegenstandstheorie<br />

incarna, più di ogni altra, quella di una scienza assoluta, ai principi della<br />

quale tutto possa essere ricondotto. Appunto perché, per Meinong, tutto<br />

è un oggetto o è costituito da – oggetti. Questo, se da un lato è un<br />

punto di forza della disciplina in questione, dall’altro risulta essere<br />

problematico proprio per l’ampiezza che caratterizza il suo “oggetto”,<br />

poiché infatti:<br />

“per definire in modo fedele, cosa in prima istanza sia<br />

oggetto, manca sia un genere che una differenza, poiché<br />

tutto è oggetto”. 71<br />

Si tratta allora di comprendere cosa sia questo “tutto”, o la sua<br />

controparte, l’oggetto. Una primissima determinazione ci viene da<br />

Ameseder:<br />

“Ciò che un oggetto è, si lascia in primo luogo (zunächst)<br />

caratterizzare psicologicamente”. 72<br />

71 Meinong (1988b): pag. 68.<br />

72 Ameseder (1904a): pag. 53; Ameseder, del quale abbiamo riportato già alcune<br />

citazioni, in particolare al riguardo della Vorstellungsproduktion, fu studente di<br />

Meinong e, sebbene non abbia mai conseguito la Habilitation, contribuì, in<br />

particolare con il testo qui citato – Beiträge zur Grundlegung der<br />

34


“Psicologicamente”, cioè, ogni psichico è diretto a qualcosa,<br />

afferra qualcosa, che non è, di suo, neanche parzialmente, identico con<br />

lo psichico che lo afferra: questo afferrato (Erfaßtes) è un oggetto 73.<br />

Ovvero non si può non partire che da un piano psichico per avvicinarci<br />

poi gradualmente alle determinazioni dell’oggetto. E’ per questo motivo<br />

che ad un “primo livello” gli oggetti si possono catalogare attraverso il<br />

modo di afferramento; scrive Meinong:<br />

“Come il concetto di oggetto (Gegenstand) in generale,<br />

sebbene cum grano salis, può essere definito dall’afferrare<br />

(Erfassen), così le classi degli oggetti principali<br />

(Hauptgegenstandsklassen) possono essere caratterizzate dalle<br />

classi principali dei vissuti afferranti (erfassende Erlebnisse)<br />

(…). Alle quattro classi principali (…) del presentare<br />

(Vorstellen), del pensare (Denken), del sentire (Fühlen) e del<br />

desiderare (Begehren) si contrappongono le classi di oggetto<br />

degli oggetti (Objekte) 74, degli obiettivi (Objektive), dei<br />

dignitativi (Dignitative) e dei desiderativi (Desiderative), lo<br />

Gegenstandstheorie pubblicato nelle Untersuchungen zur Gegenstandstheorie<br />

und Psychologie (1904) – , all’elaborazione della teoria degli oggetti.<br />

73 Cfr. Ameseder (1904a): pag. 53-54.<br />

74 Si spiega così il possibile fraintendimento in italiano del termine “oggetto”<br />

che può intendere sia il Gegenstand che l’Objekt, anche Meinong si trova in<br />

imbarazzo di fronte all’uso di questo tipo di terminologia – scrive:<br />

“che in questo modo la parola Objekt abbia un senso più ristretto<br />

che la parola Gegenstand è un disguido (Übelstand)<br />

terminologico, che io sono stato in grado di eliminare unicamente<br />

non senza la più grossa artificiosità”; Meinong (1988b): pag. 70.<br />

35


specifico dei quali però non è costituito dai vissuti<br />

afferranti.” 75<br />

Quindi, se è vero che per Meinong “non ci sono criteri di<br />

ammissione delle classi di oggetti (…) giacché ogni riferimento<br />

effettuabile non può che rinviare all’ambito degli oggetti” 76, è però<br />

anche vero che dirimente per la definizione dell’oggetto non sarà il<br />

riferimento effettuabile, bensì solo l’oggetto stesso, perché la tavola<br />

degli oggetti che Meinong riporta va accettata solo “cum grano salis” 77.<br />

Esso non si riduce infatti al piano psicologico dell’afferramento,<br />

neanche in parte, tant’è che nel paragonare l’oggetto e l’afferrato<br />

75 Meinong (1988b): pag. 70; da notare che la mappa degli oggetti<br />

meinonghiana solo tardi si allarga e prende in considerazione anche dignitativi e<br />

desiderativi, in particolare solo dopo il testo del 1917 (Über emotionale<br />

Präsentation): in precedenza erano trattati solamente oggetti e obiettivi; motivo<br />

che spinge alcuni commentatori a parlare di una Urversion della<br />

Gegenstandstheorie (cfr. Reicher (2001): pag. 180), ovvero di una sua prima<br />

versione, fissata nei suoi tratti essenziali nell’opera collettanea curata da<br />

Meinong, “Untersuchungen zur Gegenstandstheorie und Psychologie”, che<br />

presenta oltre al già citato testo meinonghiano “Über Gegenstandstheorie”<br />

contributi da parte di allievi come Benussi, Ameseder, Mally. Per i miei scopi,<br />

poiché dignitativi e desiderativi, per così dire, aprono il capitolo della “teoria<br />

dei valori”, che io qui non prendo in considerazione, mi limiterò a esaminare le<br />

restanti due classi, oggetti e obiettivi.<br />

76 Brigati (1992): pag. 7.<br />

77 In fondo, non c’è alcuna ragione oggettiva per accettarla in toto, difatti in<br />

Über Annahmen Meinong deve ammettere che:<br />

“al momento non è conseguibile una evidenza razionale riguardo<br />

al fatto che la disgiunzione di tutti gli oggetti (Gegenstände) in<br />

oggetti (Objekte) e obiettivi sia completa” in: Meinong (1910):<br />

pag. 61.<br />

Ed infatti, con gli anni si sono annessi dignitativi e desiderativi secondo l’unica<br />

giustificazione possibile, quella psicologica, che però non può assicurare<br />

l’evidenza a priori richiesta dalla teoria degli oggetti, tant’è vero che persino<br />

nella teoria degli oggetti ampliata (ovvero con l’introduzione di dignitativi e<br />

desiderativi) Meinong tiene ancora aperta la possibilità dell’introduzione di<br />

36


dobbiamo per forza di cose assumere che l’estensione del primo è di<br />

gran lunga maggiore del secondo, poiché la relazione che permette ad<br />

un oggetto di essere detto “afferrato” da un soggetto, è solo una delle<br />

relazioni che lo caratterizzano 78, quindi:<br />

“l’oggetto in quanto tale deve essere determinabile<br />

indipendentemente da questa relazione [di afferramento]<br />

(…). L’indipendenza dell’oggetto si basa sul fatto che esso<br />

può essere, anche quando il contenuto afferrante non è e<br />

che esso eventualmente può non essere, quando il<br />

contenuto è”. 79<br />

Come si è visto, infatti, il contenuto deve per forza essere reale,<br />

di fronte all’oggetto, che può anche non esserlo e che anzi può<br />

benissimo essere (e questo è probabilmente il caso più frequente)<br />

quando l’atto non è. Il che si traduce nella banale constatazione che ci<br />

sono oggetti, anche se questi non vengono afferrati da noi 80. I due piani<br />

sono quindi, per così dire, sfasati, fuori fase, e solo talvolta si instaura<br />

una relazione tra essi. Si vedono quindi realizzati quattro casi:<br />

nuove classi fondamentali di oggetti, cfr. Meinong (1917): pag. 113 e Morscher<br />

(1973): pag. 182-183.<br />

78<br />

Cfr. Ameseder (1904a): pag. 54.<br />

79<br />

Ameseder (1904a): pag. 54.<br />

80<br />

Mi sembra, questo, un argomento irrinunciabile per ogni ricerca filosofica, in<br />

virtù della capacità di trascendentimento della propria realtà effettiva (del “Da-“<br />

nel proprio Da-sein) della quale la filosofia si fa promotrice (o, forse, della<br />

quale essa dovrebbe farsi promotrice). Se tutto fosse già in qualche modo<br />

conosciuto, dove si collocherebbe quella matrice taumastica di fronte al mondo,<br />

37


i. l’oggetto è reale e il contenuto corrispondente pure;<br />

ii. l’oggetto non è reale, ma il contenuto corrispondente è reale;<br />

iii. l’oggetto è reale ma il contenuto corrispondente non è reale;<br />

iv. l’oggetto non è reale e neanche il contenuto corrispondente lo è.<br />

Io ho utilizzato per questi casi la determinazione “è reale” come<br />

equivalente della copula del paragrafo precedente. Ma anche qui, questo<br />

termine non sembra mantenere lo stesso significato per il piano<br />

oggettuale o per quello psichico, mostrando uno sfasamento tra i due<br />

piani, infatti:<br />

i. nel primo caso si realizza l’eventualità molto comune della<br />

nostra vita quotidiana, ad esempio, vediamo qualcosa, un<br />

oggetto reale qualsiasi, come un tavolo, lo tocchiamo, ne<br />

predichiamo una qualche proprietà;<br />

ii. nel secondo caso, trattato già sopra, anche se l’oggetto non è<br />

reale, noi riusciamo ad afferrarlo, come ad esempio capita<br />

quando giudichiamo una relazione di uguaglianza;<br />

iii. questa è un’altra eventualità molto ricorrente, vale a dire un<br />

oggetto è reale, ma noi non lo afferriamo, perché non abbiamo<br />

alcun contenuto che ce lo permetta. Ad esempio, non vediamo<br />

ad occhi nudi tutti i batteri che vivono sulla nostra pelle, dal<br />

momento che nessun contenuto ci permette di afferrarli,<br />

essendo essi troppo piccoli;<br />

in prima linea sempre da scoprire e da incontrare, e che innerverebbe la<br />

filosofia stessa?<br />

38


iv. è il caso simmetrico ad i., ovvero non è reale l’oggetto e non è<br />

reale neanche il contenuto, ma questa simmetria è solo<br />

apparente, infatti dire che l’oggetto non è reale non è sinonimo<br />

qui dell’affermare che il contenuto non è reale.<br />

Insomma, dire che il contenuto non è reale equivale a dire che<br />

non c’è, non esiste, per un motivo qualunque (generalizzabile con l’idea<br />

che l’organismo non è stato in grado di modificarsi – per cause sue o<br />

dell’oggetto stesso – in modo tale da poter accedere ad un oggetto) 81, e<br />

ciò preclude l’accesso a qualsiasi oggetto. Mentre invece, che l’oggetto<br />

(Gegenstand) non sia reale, non significa che esso non si dia o che non ci<br />

sia. Giacché a reale non si contrappone, sul piano oggettuale, solamente<br />

il puro nulla, bensì anche l’ideale, o, il che è lo stesso, l’oggetto<br />

(Gegenstand) può essere sia reale che ideale. Riporta Meinong:<br />

“Ma l’interezza di ciò che esiste, comprensiva di ciò che è<br />

esistito e che esisterà, è infinitamente piccola paragonata<br />

all’interezza degli oggetti di conoscenza<br />

(Erkenntnisgegenstände); e che ciò venga lasciato così<br />

facilmente senza considerazione (unbeachtet lassen), trova<br />

certo la sua ragione nel fatto che l’interesse così<br />

particolarmente vivace per il reale, che si trova nella nostra<br />

natura, favorisce l’esagerazione (Übertreibung), per la quale il<br />

non reale viene trattato come un puro nulla (ein bloßes<br />

Nichts), nel quale il nostro conoscere non trova se non<br />

81 Per riassumere si può dire che lo psichico rientra tra gli oggetti (Objekte)<br />

reali: “i vissuti sono sempre oggetti (Objekte), mai obiettivi”, in: Meinong<br />

(1910): pag. 50.<br />

39


proprio nessuno, quantomeno nessun degno punto<br />

d’appiglio (Angriffspunkt)” 82.<br />

a. Excursus: il pregiudizio in favore del reale e la Gegenstandstheorie.<br />

L’uomo è insomma per sua natura orientato verso il reale, tende a<br />

pensare che esistono solo cose reali, cose che si possono toccare,<br />

guardare, gustare e via dicendo: tutto questo perché egli vive in un<br />

mondo nel quale i primi bisogni da soddisfare sono di tipo<br />

schiettamente naturale. Si tratta, per usare dei termini husserliani, del<br />

cosiddetto “atteggiamento naturale” (natürliche Einstellung) 83, che<br />

Meinong non stigmatizza, né attacca indiscriminatamente: in fondo la<br />

stessa Gegenstandstheorie mantiene delle posizioni ambigue nei confronti<br />

di questo atteggiamento. Da un lato, infatti, è stato da più parti<br />

riconosciuto la vicinanza di Meinong alle filosofie del “senso<br />

comune” 84, a causa soprattutto dell’analisi linguistica meinonghiana che<br />

si sofferma sulla possibilità naturale del linguaggio di esprimersi su (per<br />

es.) un cavallo alato o una montagna d’oro. Dall’altro, ne prende<br />

chiaramente le distanze con lo sforzo indefesso di muoversi contro quel<br />

“pregiudizio nei confronti del reale” (Vorurteil zugunsten des Wirklichen) 85<br />

82 Meinong (1988a): pag. 4.<br />

83 Cfr. Soprattutto: Husserl (2001): Libro I, sez. II, cap. 1.<br />

84 Cfr. Routley (1979): pag. 5; opinione condivisa anche da Findlay:<br />

“(…) Meinong si mantiene vicino all’intuizione dell’uomo<br />

comune. L’uomo comune sente che similarità, motivi (patterns),<br />

relazioni, numeri, sono in un qualche senso “veramente presenti”<br />

(…)” in: Findlay (1933): pag. 73.<br />

85 Meinong (1988a): pag. 3<br />

40


che larga parte ha avuto nell’impedire l’elaborazione di una completa<br />

teoria dell’oggetto 86.<br />

Per un verso, Meinong ammette che esiste già una “parziale<br />

teoria dell’oggetto”, la quale si proporrebbe di investire con le sue<br />

ricerche tutta l’ampiezza del reale, dell’esistente: la metafisica 87, la quale<br />

tuttavia ha una portata, anche sulla base della citazione precedente,<br />

appunto, solo parziale. Essa non riuscirebbe infatti ad ergersi al di sopra<br />

di ciò che esiste e riconoscere una validità a ciò che non esiste, non è<br />

reale. Dall’altro, a fianco della metafisica, per Meinong esisterebbero<br />

scienze, anche dall’alto livello di sviluppo, che si interessano e studiano<br />

oggetti inesistenti; è il caso ad esempio della matematica e della<br />

geometria (anche definite da Meinong wirklichkeitsfremde Wissenschaften 88<br />

– “scienze aliene, lontane dalla realtà”), che, difatti, non riescono a<br />

trovare una collocazione definitiva nella spartana dicotomia tra Geistes- e<br />

86 Un pregnante esempio dell’azione di questo pregiudizio è stato già dato nel<br />

riferire del comportamento del linguaggio nei confronti del contenuto:<br />

linguaggio che non riuscirebbe a significare il contenuto, perché già sempre<br />

diretto verso l’oggetto indicato dal contenuto e che per questo motivo manca di<br />

un apparato lessicale capace di denominare tale elemento psichico.<br />

87 Risulta a questo riguardo molto interessante il lavoro “Über Christian Wolffs<br />

Ontologie” (1910) di Evans Pichler, altro allievo di Meinong, che con grande<br />

chiarezza riscrive l’ontologia wolffiana in termini di teoria degli oggetti. La tesi<br />

principale è la seguente:<br />

“Ens significa in Wolff – e già negli scolastici – semplicemente<br />

cosa (Ding) o oggetto (Gegenstand). Quindi l’ontologia è<br />

secondo la definizione wolffiana la scienza degli oggetti in<br />

generale, senza riguardo all’essere o al non essere. Questa<br />

traduzione di ens viene fissata dapprima dalla metafisica tedesca<br />

di Wolff, dove ens viene tradotto senza mezzi termini con “cosa”<br />

(Ding). La precedenza dell’espressione “oggetto” (Gegenstand)<br />

su “cosa” inizia invece per la prima volta con la KdrV” in Pichler<br />

(1910): pag.3<br />

Nelle pagine finali del libro, Pichler prende poi anche in considerazione la<br />

posizione kantiana in merito, riferendo come la logica trascendentale altro non<br />

sia, a suo avviso, che lo schizzo di una ontologia – nel senso però di una teoria<br />

degli oggetti. Cfr. Pichler (1910): pag. 73 e seg.<br />

41


Naturwissenschaften 89, ma che, nondimeno, vengono classificate da<br />

Meinong come pezzi di teoria degli oggetti 90.<br />

Se però matematica e geometria già raggiungono il piano<br />

dell’idealità 91, rimangono pur sempre in quello della possibilità,<br />

precludendosi così lo studio dei cosiddetti oggetti impossibili.<br />

Mancherebbe quindi una scienza generalissima preposta allo studio<br />

allargato anche degli oggetti impossibili 92 oltre che dei numerosissimi<br />

altri oggetti “senza patria” (heimatlose Gegenstände, l’espressione è dello<br />

stesso Meinong 93): si tratterebbe della Gegenstandstheorie, che però,<br />

nuovamente, con l’abbattimento del pregiudizio del reale non si<br />

ripropone l’esclusione dell’esistenza e del reale dal suo bacino 94, bensì<br />

solo un allargamento esponenziale del bacino stesso, capace di<br />

estendersi fino a comprendere l’oggetto in quanto tale. Diventa quindi<br />

chiaro sulla base di queste semplici annotazioni come la definizione di<br />

“realista” o di “realismo” per la filosofia meinonghiana risulti<br />

quantomeno scomoda, foss’anche solo perché “realismo”, in Meinong,<br />

assume chiaramente il significato di “parzialità” 95.<br />

88<br />

Cfr. Meinong (1988a): pag. 6.<br />

89<br />

Cfr. Meinong (1988a): pag. 7.<br />

90<br />

Cfr. Meinong (1988a): pag. 27.<br />

91<br />

Oggetto di matematica e geometria sono infatti “oggetti ideali di ordine<br />

superiore”, cfr. Meinong (1906): pag. 246.<br />

92<br />

Approfondirò gli oggetti impossibili alla fine di questa parte.<br />

93<br />

Meinong (1906): pag. 214.<br />

94<br />

Dato che invece varrebbe per l’epoché husserliana per la sua pretesa di metter<br />

tra parentesi l’elemento reale ed esistente e contemplarlo unicamente nella sua<br />

purezza fenomenologica.<br />

95<br />

Che il concetto di “realismo” stia troppo stretto alla Gegenstandstheorie viene<br />

peraltro riconosciuto anche dallo stesso Meinong, cfr. Meinong (1988b): pag.<br />

104. E a qualcosa di simile a questa parzialità (dove però l’asse era tutto<br />

spostato dall’altra parte, ovvero verso l’idealismo), Schelling cercò di far fronte<br />

con la denominazione del proprio sistema, nelle opere giovanili, di “idealrealismo”.<br />

Cfr. Schelling (1997): pag. 141.<br />

42


Ricapitolando, è stato grazie ad una considerazione psicologica,<br />

quella dello sfasamento tra il piano psichico e quello oggettuale, che si è<br />

infine giunti ad una prima determinazione puramente oggettiva, quella<br />

di ideale/reale, sulla quale mi soffermerò prima di procedere nelle<br />

ulteriori determinazioni dell’oggetto.<br />

§6. Oggetti ideali e oggetti reali.<br />

Servirebbe forse una giustificazione iniziale che permetta di<br />

spostarsi dal parlare di “oggetti” e “tipi di oggetti” al parlare di “essere”<br />

e “modalità di essere” e viceversa, ma Meinong, peraltro sempre<br />

estremamente attento all’elaborazione di una precisa e univoca<br />

terminologia, non sembra dare grosso rilievo a questa problematica,<br />

utilizzando in modo sostanzialmente equivalente “essere ideale o reale”<br />

con “oggetto reale o ideale”. Si vedrà però come questa oscillazione, a<br />

questo livello ontologico ancora implicita, porterà a delle grosse<br />

tensioni argomentative nelle pagine che il filosofo dedica alla<br />

descrizione dell’Außersein, dove il problema balzerà in primo piano. Per<br />

ora, anche seguendo l’uso stesso dell’autore, passerò, senza soffermarmi<br />

ulteriormente sulle ragioni di questo passaggio, dal discorso sugli<br />

oggetti reali e ideali a quello sull’essere ideale e reale.<br />

Come si è visto, il verbo “essere” in Meinong assume molti<br />

significati, secondo la tradizionale dizione aristotelica per la quale “einai<br />

43


pollakos legetai” 96, esiste cioè un significato allargato di essere per il quale<br />

è essere sia quello ideale che quello reale, ne esiste poi uno ristretto per il<br />

quale essere coincide con essere reale. Infatti, se nella sfera degli oggetti<br />

il non reale (Nichtwirkliches) non è sinonimo di “niente” (Nichts), poiché<br />

può voler dire “ideale”, allora potremmo parimenti dire che il reale<br />

(Wirkliches) non combacia perfettamente con l’essere (Sein), dal<br />

momento che anche l’ideale è “essere”. Se però si vuole assegnare al<br />

reale una forma ristretta di essere, questa allora verrà detta esistenza<br />

(Existenz). Ma quale forma ristretta di essere potrà venir assegnata<br />

all’ideale? Evidentemente, Meinong si trova di fronte al problema di<br />

riuscire a definire lo status ontologico di cui l’ideale si fa portatore: se,<br />

infatti, esso è, in un qualche senso, quale sarà questo senso? La risposta<br />

ci viene data con l’introduzione di un nuovo termine – quello di<br />

sussistenza o Bestand. Con l’introduzione di questa nozione Meinong<br />

riesce a collocare all’interno dell’essere anche oggetti in senso stretto<br />

non reali – è il caso degli obiettivi; Meinong utilizza spesso una<br />

citazione di Ameseder 97, nella quale l’autore scrive:<br />

“Anche l’essere ha essere, così esso è per esempio o<br />

un’esistenza (Existenz) o un sussistere (Bestehen). Quegli<br />

oggetti (Gegenstände), che sono essere e hanno essere, sono<br />

essenzialmente altro da quelli che hanno essere, ma che<br />

non sono essi stessi essere. Quegli oggetti, che sono essere<br />

e che si riconoscono nell’espressione linguistica attraverso<br />

96 Aristotele: Metafisica, Γ, 2, 1003a, 33; trad. it. pag. 86.<br />

97 Da ricordare, tra gli altri luoghi, anche Meinong (1906): pag. 226 e (1910):<br />

pag. 44 e (1988b): pag. 72.<br />

44


la “che-costruzione” (daß-Konstruktion) 98, vengono chiamati<br />

da Meinong “obiettivi”. Oggetti (Gegenstände) che non sono<br />

obiettivi, sono oggetti (Objekte)” 99.<br />

Solo gli oggetti di ordine inferiore sono reali, e viceversa solo gli<br />

obiettivi, insieme agli oggetti di ordine superiore, sono le due classi di<br />

oggetto che propriamente, essendo, sussistono, ma non esistono.<br />

precisamente?<br />

Come caratterizzare queste classi di oggetti (Gegenstände) più<br />

a. Oggetti ideali: gli oggetti di ordine superiore.<br />

Innanzitutto, gli oggetti (Gegenstände) possono essere – come si è<br />

visto – di ordine inferiore e superiore 100 (niederer und höherer Ordnung). Gli<br />

oggetti di ordine superiore sono i cosiddetti oggetti “fondati”, ovvero<br />

98 Si fa riferimento alla costruzione della subordinata dipendente oggettiva<br />

tedesca, un chiarimento più esteso verrà dato in seguito, nell’analisi della classe<br />

degli obiettivi.<br />

99 Ameseder, (1904a): pag. 54-55; N.B. il testo è precedente al 1917.<br />

100 Si noti, che la diversità di ordine non è un privilegio unico degli Objekte,<br />

bensì anche degli Objektiven – in Über Annahmen si parlava ancora solo di<br />

Wesensverwandtschaft, di parentela essenziale, tra le due classi di oggetti (1910,<br />

pag. 72), la sintesi arriverà poi in Über emotionale Präsentation (1917: pag.<br />

106) e viene così riassunta in un testo ancora successivo:<br />

“(…) si riconosce così anche nell’obiettivo un oggetto ideale di<br />

ordine superiore, al quale si può assegnare, come per gli oggetti<br />

(Objekte), un più o meno di determinazione. Come per gli oggetti<br />

(Objekte), ci sono serie di ordini (Ordnungsreihen) anche per gli<br />

obiettivi, e, di nuovo, queste serie sono aperte verso l’alto, dal<br />

momento che esse, conformemente al principio degli infima<br />

obbligatori, pretendono in basso sempre un oggetto (Objekt)<br />

come chiusura (Abschluß)”: Meinong (1988b): pag. 73.<br />

45


oggetti che non possono esistere per sé, ma che hanno sempre bisogno<br />

di “costituenti primi” 101 (potrebbero essere anche altri oggetti fondati,<br />

ma è necessario che poi anche questi oggetti si riconducano ad una<br />

serie), di infima, ovvero di altri oggetti che stanno alla base della<br />

“struttura” (principio, denominato da Meinong, dell’obbligatorietà degli<br />

infima 102). L’esempio principe di questo tipo di oggetti è quello della<br />

“diversità”: abbiamo un oggetto “diversità” nel momento in cui ci<br />

poniamo di fronte, ad es., una cosa blu ed una rossa. Tale oggetto è<br />

detto di “ordine superiore”, ovvero fondato (fundiert) dagli infima rosso<br />

e blu, e non potrebbe sussistere senza oggetti sul quale fondarsi 103:<br />

“sussistere”, infatti esso non esiste a fianco della cosa rossa e del blu,<br />

eppure c’è in un qualche modo, che Meinong definisce, appunto, di<br />

sussistenza. A fianco dell’oggetto diversità, ne abbiamo una serie infinita,<br />

come, ad esempio, i numeri (che difatti non esistono a fianco delle cose<br />

numerate). Preposta alla presentazione di questo tipo di oggetti è la già<br />

citata capacità di produzione di presentazione (Vorstellungsproduktion).<br />

b. Oggetti ideali: gli obiettivi.<br />

Inoltre, come si è già detto, al concetto di “oggetto” (Gegenstand)<br />

si può sussumere sia l’oggetto (Objekt) sia l’obiettivo (Objektiv). Spostarsi<br />

dalla discussione degli oggetti a quella degli obiettivi significa anche<br />

spostarsi all’interno della gerarchia degli atti intenzionali, dal piano della<br />

101 Sembrerebbe quindi che l’unica caratteristica di genere che definisce gli<br />

oggetti di ordine superiore sia quella di essere fondati: cfr Haller (1973): pag.<br />

154: “Meinong chiama tutti gli oggetti, che ne presuppongono (voraussetzen)<br />

altri, oggetti di ordine superiore o Superiora”.<br />

102 Cfr. Meinong (1988b): pag. 71.<br />

103 Chiamati da Meinong, anche “oggetti empirici” (Erfahrungsgegenstände) –<br />

cfr. Meinong (1899): pag. 396; trad. it. pag. 45.<br />

46


presentazione, a quello delle assunzioni e dei giudizi: tra questi piani<br />

esiste infatti una differenza non solo strutturale, ma anche gerarchica 104.<br />

Peraltro, in Meinong, più armonica che in Brentano, grazie al fatto che<br />

la scoperta delle assunzioni 105 come momento a sé stante nella vita<br />

psichica permette di passare dalla presentazione al giudizio in modo più<br />

continuo. Alla presentazione, infatti, l’assunzione aggiungerebbe il<br />

carattere affermativo o negativo, ma senza quello del dare l’assenso,<br />

ovvero dell’esser convinto o convinzione (Überzeugtheit - Überzeugung) di<br />

cui si fa invece portatore il giudizio. Meinong descrive così la scoperta<br />

di questa “regione di mezzo” (Zwischengebiet) tra giudizio e<br />

presentazione, quella delle assunzioni:<br />

“Che ogni convinzione dovesse essere o affermativa o<br />

negativa, mi è sempre parso ovvio; non mi sarei mai<br />

aspettato di trovare affermazione e negazione, là dove la<br />

convinzione manca. (…) La menzionata terra di mezzo tra<br />

presentazione e giudizio è subito co-data (mitgegeben), non<br />

appena si distingue che non solo la convinzione ma anche<br />

non meno l’opposizione tra affermazione e negazione<br />

104<br />

Articolata in dipendenze essenziali, quali quella ad es. del giudizio dalla<br />

presentazione.<br />

105<br />

La scoperta di questo tipo di vissuto psichico, che raggruppa, tra gli altri,<br />

anche particolari fenomeni come la “bugia” (die Lüge), il gioco o alcune forme<br />

d’arte, ad es., la rappresentazione teatrale, è una novità che Meinong introduce<br />

già nella prima edizione di Über Annahmen del 1902, che poi verrà riedita in<br />

una seconda edizione ampliata e approfondita soprattutto per quanto riguarda le<br />

parti dedicate alla discussione sull’obiettivo.<br />

47


costituiscono un fatto essenzialmente alieno alla<br />

presentazione (vorstellungsfremde Tatsache)” 106.<br />

Se l’oggetto (Objekt) è prerogativa della presentazione,<br />

l’obiettivo lo è di assunzione e giudizio.<br />

Va notato che, a conferma di un coerente percorso del pensiero<br />

meinonghiano, che si caratterizza innanzitutto come una “filosofia dal<br />

basso”, e della mancanza di fondamento di alcuni pregiudizi denigratori<br />

di certa parte dei commentatori nei confronti del filosofo di Graz 107,<br />

anche gli obiettivi (come già gli oggetti di ordine superiore) non sono<br />

degli oggetti “caduti” dall’alto, frutto unico di un presunto spirito<br />

pedante del loro scopritore, bensì, al contrario, sono il risultato di una<br />

rigorosa deduzione.<br />

Come sempre, quindi, si parte dal basso. Come funziona il<br />

fenomeno della significazione? Il meccanismo per gli infima è semplice<br />

106 Meinong (1910): pag. 4. Meinong in questo passaggio sostiene che:<br />

a. affermazione, negazione e convinzione non sono un fatto di presentazione;<br />

b. non ci può essere giudizio senza convinzione e affermazione o negazione;<br />

c. ci può essere affermazione e negazione senza convinzione, e quindi si dà<br />

uno “spazio psichico” autonomo: è il caso dell’assunzione o Annahme.<br />

L’assunzione infatti si caratterizza per la capacità di “assumere” l’obiettivo<br />

di una proposizione, affermandolo o negandolo, ma senza che vi sia<br />

presente il momento della convinzione. Proprio come capita nel caso di una<br />

bugia, dove si nega/afferma qualcosa senza che il bugiardo creda a quello<br />

che dice.<br />

107 Uno fra tutti quello di un Meinong “massimo moltiplicatore di entità nella<br />

storia della filosofia” di Gilbert Ryle dalle pagine dell’ Oxford Magazine del 25<br />

Ottobre 1933. D’altra parte, non si vede che problema ci possa essere nel<br />

sostenere che, se “si vede un oggetto”, allora anche “si dice un oggetto”, cioè<br />

sostenere che quello che si dice non possa anch’esso essere un oggetto – certo,<br />

un oggetto che non si vede, ma che però, appunto, si dice. Il problema<br />

48


da individuare e ripercorrere, come si legge all’inizio del secondo<br />

capitolo di Über Annahmen: l’idea è che nel pronunciare la parola “sole”<br />

siano innestati una serie di riferimenti semantici per i quali, con quella<br />

parola, esprimiamo (ausdrücken) la presentazione soggettiva che abbiamo<br />

di “sole”, mentre significhiamo (bedeuten) l’oggetto “sole”. L’idea sembra<br />

essere anche ovvia se si considera che, nell’espressione, non possiamo<br />

se non rivolgerci alla personale presentazione che abbiamo del sole,<br />

essendo quello l’unico accesso datoci all’oggetto “sole”, eppure non<br />

vogliamo certo indicare quel personale vissuto, bensì proprio l’oggetto<br />

sole, al quale però, di nuovo, abbiamo avuto accesso solo tramite il<br />

vissuto di presentazione 108.<br />

“(…) una parola “significa” (bedeutet) sempre l’oggetto<br />

(Gegenstand) della presentazione, che “esprime” (ausdrückt),<br />

ed esprime viceversa la presentazione dell’oggetto che<br />

significa” 109.<br />

Questo basilare riferimento al funzionamento del linguaggio, se<br />

ancora non ci ha permesso di definire cosa un obiettivo sia, perlomeno<br />

ci suggerisce come il significato già a questo livello sia per Meinong un<br />

oggetto (Gegenstand) 110. Ora, come per gli oggetti (Objekte), esistono<br />

risiederebbe allora nel comprendere quanto si intende con “oggetto”, cosa che è<br />

– guarda caso – il fine del programma meinonghiano.<br />

108<br />

L’esempio del sole è utilizzato dall’autore in: Meinong (1910): pag. 25.<br />

109<br />

Meinong (1910): pag. 25.<br />

110<br />

Ben diversa la posizione elaborata in quello stesso giro di anni da Husserl,<br />

per la quale il significato (Bedeutung) coincide non con un oggetto<br />

(Gegenstand), o meglio, con una oggettualità qualsiasi (Gegenständlichkeit),<br />

49


anche per le parole dei complessi, che possono essere o dei meri<br />

aggregati (bloße Wortzusammenstellung) oppure delle proposizioni (Sätze),<br />

e, in alcuni casi, le proposizioni possono portare ad espressione un<br />

vissuto di giudizio. Quale sarà allora il significato di una proposizione<br />

esprimente un giudizio? Il suo correlato oggettivo non è più un oggetto<br />

(Objekt), bensì un obiettivo:<br />

“(…) e si fa presto avanti la supposizione che come<br />

sopravvenga alle parole la caratteristica di significare<br />

oggetti, così si diano costruzioni linguistiche (Sprachgebilde),<br />

che per significati hanno degli obiettivi”. 111<br />

Ovvero, in una proposizione, noi abbiamo sì ancora un oggetto<br />

sul quale giudichiamo (über den geurteilt oder der beurteilt wird), ma abbiamo<br />

anche un oggetto che viene giudicato (der geurteilt wird) 112. Vale a dire che,<br />

bensì con l’atto donatore di significato (bedeutungsverleihender Akt) –<br />

considerato come atto essenziale – che poi può essere riempito o meno dai<br />

rispettivi atti riempienti di significato (bedeteungserfüllende Akte) – considerati<br />

come inessenziali. Cfr. Husserl (1900): I Untersuchung, pag. 23-105.<br />

111<br />

Meinong (1910): pag. 53.<br />

112<br />

Cfr.: Meinong (1910): pag 44:<br />

“nel nostro esempio troviamo, a fianco di un oggetto<br />

(Gegenstand) sul quale si giudica o che viene giudicato (über den<br />

geurteilt oder der beurteilt wird), ancora un altro che è giudicato<br />

(der geurteilt wird)”.<br />

L’espressione sembra un po’ infelice, ed anche Meinong ne riconosce la<br />

tortuosità (herkömmliche Wendung) – credo soprattutto perché essa viene volta<br />

alla forma passiva e in una costruzione relativa – ma bisogna tenere presente<br />

che in tedesco essa risulta più chiara dalla differenza dei verbi in gioco:<br />

ponendo queste espressioni in forma attiva, risulterebbe “über etwas urteilen”,<br />

“etwas beurteilen” e “etwas urteilen” – le prime due sono espressioni alle quali<br />

manca il senso di transitività dell’azione di giudizio (grammaticalmente alla<br />

50


prendendo come esempio la proposizione “la neve è bianca”, avremo<br />

che la neve è l’oggetto (Objekt) sul quale noi stiamo giudicando anche se<br />

propriamente essa stessa non è “l’oggetto” di nessuna operazione, di<br />

nessun giudizio, perché non si sta predicando la neve che si ha davanti<br />

come bianca o fredda…essa cioè non rientra ontologicamente nel<br />

nostro giudizio. Scrive Meinong:<br />

“Quindi il giudizio non ha un solo oggetto (Gegenstand),<br />

bensì due, che pretenderebbero entrambi di chiamarsi<br />

oggetto di giudizio (Urteilsgegenstand). Però si dà la<br />

precedenza, cosa consigliabile da più punti, a chiamare<br />

oggetto di giudizio in primo luogo solo ciò che è<br />

caratteristico [del giudizio], come alla presentazione<br />

l’oggetto di presentazione, quindi sotto “oggetto di<br />

giudizio” si può esclusivamente intendere l’obiettivo” 113.<br />

Quanto quindi rientra nel giudizio, anzi quanto è il suo oggetto,<br />

oltre ad essere ciò che si giudica, è l’oggetto (Gegenstand) “che la neve è<br />

bianca” o “che la neve è fredda”, cioè, l’obiettivo – che mostra la sua<br />

estraneità ad ogni vissuto di presentazione proprio nel non esistere a<br />

fianco della neve che abbiamo davanti (proprio come l’oggetto<br />

“diversità” non esiste a fianco degli oggetti diversi). La forma<br />

prima, concettualmente alla seconda: il prefisso be- infatti “in costruzioni con<br />

verbi transitivi con un oggetto proposizionale [N.B. in questo caso, “über<br />

etwas”] rende quest’ultimo un oggetto in caso accusativo” cfr. Duden alla voce<br />

“be-“ 1.b., pag. 213), mentre invece “etwas urteilen” pone in risalto proprio<br />

l’azione diretta ad un oggetto, la sua piena transitività.<br />

51


fondamentale per l’espressione dell’obiettivo è quella che in tedesco si<br />

esprime con la costruzione subordinata oggettiva introdotta dalla<br />

congiunzione “daß” (si spiega così quella “daß Konstruktion” che<br />

compariva nella citazione dei capitoli precedenti di Ameseder) e, in<br />

italiano, con il “che” 114. Quindi:<br />

“«che A esiste» o anche «che esso non esiste», ciò sussiste<br />

(…) ma non esiste per così dire una volta di più. Del tutto<br />

lo stesso è da affermare naturalmente anche per gli<br />

obiettivi, che hanno già del sussistente come materiale<br />

(Material): «che tre è più grande di due» o anche «che storto<br />

non è dritto», tutto ciò può ugualmente solo «sussistere» 115<br />

mai esistere.” 116<br />

Inoltre, affinché si dia un obiettivo è necessario che si dia in<br />

prima istanza un oggetto come sua base (nella citazione precedente: il<br />

113 Meinong (1910): pag. 44.<br />

114 Si noterà la vicinanza di questa teoria con quella del “complexe significabile”<br />

in autori medioevali quali Wodeham, Crathorn e Gregorio da Rimini: sulle<br />

origini della nozione di “complexe significabile” e dei suoi rapporti con teorie<br />

avversarie di altri autori quali Pietro Aureolo e Guglielmo da Ockham, cfr.<br />

Tachau (1988). Uno studio storico comparato delle teorie medioevali in<br />

connessione con la querelle Meinong-Russell sugli Objektive è stato inoltre<br />

condotto da Elie (1937).<br />

115 Da notare che l’obiettivo “può” sussistere – infatti a differenza degli oggetti<br />

di ordine superiore che sono fatti di presentazione e non di giudizio, l’obiettivo<br />

può anche non sussistere, pur rimanendo un oggetto ideale. Un obiettivo che<br />

sussiste è anche detto fattuale (tatsächlich), quello che non sussiste, infattuale<br />

(untatsächlich). Fattuale è un obiettivo accompagnato da evidenza. Cfr.<br />

Meinong (1910): pag. 85.<br />

116 Meinong (1910): pag. 63.<br />

52


“materiale” dell’obiettivo). La complessità dell’obiettivo segue però di<br />

pari passo quella del linguaggio e così, come base di un obiettivo può<br />

anche esser dato un altro obiettivo, ma la struttura alla fine dovrà<br />

sempre fondarsi in oggetti, sui quali si giudica:<br />

“(…) e su questa strada si possono trovare una serie più<br />

lunga o più corta, di obiettivi di ordine sempre inferiore; in<br />

ogni caso però questa serie, che può così verificarsi, se si<br />

vuole restare nei limiti del possibile, deve concludersi con<br />

un oggetto (Objekt)”. 117<br />

Per questo motivo, tra l’altro, Meinong sostiene che l’atto di<br />

giudizio è un vissuto dipendente 118 (“unselbständig”, lo stesso termine<br />

che egli usa per gli oggetti fondati che sono appunto dipendenti o non<br />

indipendenti), dal momento che, infatti, gli è necessario un vissuto<br />

presentante 119.<br />

c. Seins- e Soseinsobjektive<br />

Ora, tra i vari tipi particolari di obiettivi che Meinong elenca,<br />

due sono quelli fondamentali: l’obiettivo di essere (Seinsobjektiv) e<br />

117<br />

Meinong (1910): pag. 63.<br />

118<br />

“(…) Il giudizio è quindi sempre un vissuto dipendente (…)” in: Meinong<br />

(1910): pag. 46.<br />

119<br />

Nel senso allargato di Präsentation e non solo di Vorstellung, visto che un<br />

obiettivo non può essere presentato da una Vorstellung – su quale vissuto sia<br />

preposto alla presentazione di un obiettivo al giudizio Meinong esita e non<br />

sembra dare una risposta definitiva – cfr. Lenoci (1972): pag. 130-131.<br />

53


l’obiettivo di esser-così (Soseinsobjektiv) 120. La deduzione di queste due<br />

forme di obiettivi deriva dalla catalogazione di tutti i giudizi in due<br />

forme (quella, appunto, di essere e di essere così) riassumibili in questo<br />

modo:<br />

i. A è;<br />

ii. A è B.<br />

La trattazione di queste due forme di obiettivi è fondamentale<br />

per riuscire a passare all’ultima determinazione dell’essere dell’oggetto<br />

(inteso sia come attributo oggettivo che soggettivo), quella dell’essere-<br />

oltre o dell’essere-fuori, ovvero, comunque lo si voglia tradurre,<br />

dell’Außersein 121.<br />

120 Ad essi si aggiungeranno in seguito anche gli obiettivi di “essere con” o di<br />

implicazione (Mitseinsobjektive) che indicherebbero la forma di giudizio “se A,<br />

allora B”, cfr. Meinong (1988b): pag. 74.<br />

121 In realtà, lo anticipo qui, il termine Außersein sembra difficilmente<br />

traducibile (e per questo lo userò nella sua forma non tradotta), non tanto perché<br />

non si ha un corrispondente italiano della preposizione außer, quanto perché<br />

non se ne ha uno univoco, essendocene troppi. Tale preposizione infatti ha sì un<br />

significato principale, quello di “esclusione”, di essere escluso, ma ad esso<br />

subentra un’accezione non facilmente riducibile alla precedente, quella di<br />

esclusione/collocazione spaziale. Forse alcuni esempi possono rendere più<br />

intuitivo quanto sostengo. Si prendano i termini tedeschi:<br />

i. außer-ordentlich;<br />

ii. außer-irdisch;<br />

iii. außer Hause;<br />

iv. außerdem.<br />

nei primi due casi, il concetto di esclusione espresso da “außer-” si renderebbe<br />

in italiano con, rispettivamente, stra-ordinario e extra-terrestre, mentre in iii.<br />

außer- si dovrebbe tradurre con “fuori casa”. Infine in iv., anche se si tratta di un<br />

avverbio a sé stante, è facilmente riconoscibile (come spesso in tedesco) la<br />

composizione di “außer-” e del pronome in dativo “-dem”: la traduzione italiana<br />

suonerebbe “oltre a ciò” o anche “inoltre”. Poiché non riesco a trovare un<br />

parallelo di fronte a questa plurivocità di significati (stra-essere? Extra-essere?<br />

Fuori-essere? Oltre-essere?), preferisco allora mantenere la parola tedesca.<br />

54


L’obiettivo di esser così corrisponde alle determinazioni di un<br />

oggetto, alle sue determinazioni essenziali: un oggetto non può non<br />

“esser così”. Potrebbe sembrare, sostiene Meinong, che si debba parlare<br />

di una determinazione di esser così solo in presenza di una<br />

determinazione di essere. Ovvero che si possa predicare “la rosa è<br />

rossa” solamente se siamo in presenza dell’obiettivo “la rosa è”. Ma<br />

questo non sarebbe altro che una ulteriore testimonianza del<br />

pregiudizio a favore del reale, dal momento che nulla ci trattiene dal<br />

predicare una qualche proprietà della rosa, anche in sua assenza: per<br />

riuscire cioè a predicare che la rosa è rossa non abbiamo bisogno<br />

preliminarmente di predicare “la rosa è”, essendo il Soseinsobjektiv<br />

indipendente dal Seinsobjektiv.<br />

“Che senso avrebbe in verità, affermare della mia scrivania<br />

che se essa esistesse, allora sarebbe rettangolare? Certo è<br />

che, se io non avessi alcuna scrivania, cioè se “la mia<br />

scrivania” non esistesse, io non avrei neanche il diritto di<br />

denominarla come rettangolare. Ma per nessun’altra ragione<br />

all’infuori del fatto che io intendo con “la mia scrivania”,<br />

secondo il naturale utilizzo della lingua, unicamente<br />

qualcosa di reale; se non esiste l’oggetto indicato, allora il<br />

giudizio diretto al reale su una proprietà di questo oggetto<br />

non ha alcuna base. Ma nondimeno l’oggetto ha le sue<br />

proprietà, il suo Sosein: è ciò che è o come è, anche se non<br />

esiste (…)” 122<br />

122 Meinong (1906): pag. 46.<br />

55


Per riassumere questo fenomeno, Meinong fa proprio il<br />

principio, coniato da Ernst Mally 123, di “indipendenza dell’esser così<br />

dall’essere” (Prinzip der Unabhängigkeit des Soseins vom Sein).<br />

“(…) il Sosein di un oggetto non è per così dire coinvolto<br />

(mitbetroffen) dal suo corrispondente non-essere”. 124<br />

In questo principio troviamo insomma giustificata la validità di<br />

una “daseinsfreie Wissenschaft”, ovvero di una disciplina che non<br />

contempla assunti di esistenza nei suoi principi, quale appunto la<br />

Gegenstandstheorie pretende di essere. Inoltre, se a questa posizione<br />

teorica sembra connessa una buona prospettiva epistemologica che<br />

renda conto di scienze, come la già menzionata matematica, che<br />

operano senza bisogno di asserzioni preliminari circa l’esistenza dei suoi<br />

oggetti di studi 125, pare però (e a Meinong per primo) che essa possa<br />

facilmente essere condotta di fronte alla responsabilità di una rapida<br />

involuzione in insanabili paradossi.<br />

123 Enunciato in: “Untersuchung zur Gegenstandstheorie des Messens”, cap. I,<br />

§3 – ennesimo contributo dell’opera del 1904.<br />

124 Meinong (1988a): pag. 8.<br />

125 In realtà lo studio di oggetti ideali o persino inesistenti è ben più esteso:<br />

Meinong fa l’esempio dell’idealità delle qualità sensibili, che propriamente non<br />

esisterebbero, ma delle quali fisica, fisiologia e psicologia si occuperebbero (cfr.<br />

Meinong (1988a): pag. 8 e anche Meinong (1906): pp.215). E ad esse,<br />

aggiungerei, anche tutti i costrutti teorici della fisica – un esempio per tutti,<br />

quello di campo o di forza.<br />

56


Infatti, come comportarsi di fronte a casi come quello del<br />

“quadrato rotondo”? Secondo tale principio possiamo attribuire delle<br />

determinazioni di Sosein a qualcosa (ergo ad un oggetto) e sostenere che il<br />

quadrato è tanto rotondo quanto quadrato. Ma, chiaramente, il cerchio<br />

quadrato è per principio impossibile: come conciliare quindi il fatto che,<br />

da un lato, si possono attribuire a qualcosa delle determinazioni<br />

essenziali e, dall’altro, rilevare che questo qualcosa è impossibile, che,<br />

cioè, il suo essere è escluso tanto dal reale quanto dall’ideale? O ancora,<br />

per riformulare il problema: per enunciare un verità quale quella che un<br />

quadrato rotondo non esiste, dobbiamo in qualche modo attingere<br />

alcune proprietà del quadrato rotondo, cioè quella di essere quadrato e<br />

di essere rotondo: si darebbe quindi un quadrato rotondo del quale noi<br />

enunciamo quelle proprietà, ma ciò è per principio impossibile. Si<br />

svilupperebbe insomma un paradosso secondo il quale:<br />

“(…) ci sono oggetti, per i quali vale, che tali oggetti non ci<br />

sono (es gibt Gegenstände, von denen gilt, daß es dergleichen<br />

Gegenstände nicht gibt) (…)” 126.<br />

Seguendo quindi quel percorso di emancipazione dallo psichico<br />

che dalla considerazione del contenuto psichico ha portato alle<br />

primissime determinazioni dell’oggetto in termini di oggetto ideale e<br />

reale, fino allo scarto definitivo tra oggetti possibili e oggetti impossibili,<br />

si giunge infine al paradosso (apparente) di dover concedere una<br />

qualche forma di essere anche ad enti come “il cerchio quadrato”.<br />

57


L’introduzione a questo punto della categoria (senza assegnare per il<br />

momento nessuna ipoteca ontologica sul termine di “categoria”) che<br />

prende il nome di Außersein è, per Meinong, obbligata: la scoperta di<br />

questo elemento e una sua possibile lettura interesserà l’ultima parte di<br />

questo lavoro.<br />

PARTE TERZA – DAS AUßERSEIN.<br />

§ 7. L’Außersein in Meinong.<br />

a. Il paradosso<br />

Con la precedente citazione, quindi, la posizione di Meinong<br />

sembrerebbe rivoltarsi su se stessa e volgersi al paradosso: si darebbero<br />

insomma degli oggetti, per i quali si è costretti ad affermare che essi si<br />

danno ed allo stesso tempo non si danno. Un paradosso di questo<br />

126 Meinong (1988a): pag. 9. Sulla traduzione di “es gibt” si veda §9, par. a.<br />

58


genere spingerebbe la teoria dell’oggetto, perlomeno così come è stata<br />

intesa dall’autore, a scontrarsi con la più insolubile delle contraddizioni,<br />

quella che ad un tempo afferma e nega la datità di un oggetto. Si<br />

dovrebbe allora negare complessivamente la possibilità stessa del<br />

compito meinonghiano di una disciplina che si propone lo studio puro<br />

dell’oggetto, ovvero delineare in modo generalissimo quali sono le<br />

caratteristiche essenziali che rendono tale un oggetto.<br />

Per la verità, Meinong non sembra essere eccessivamente<br />

preoccupato dei possibili risvolti ai quali le sue stesse premesse lo<br />

hanno condotto. Nei suoi testi tratta senza particolare enfasi il<br />

problema che gli si presenta di fronte e, con l’introduzione di un nuovo<br />

elemento nell’argomentazione, quello appunto dell’Außersein, cerca di<br />

venire a capo delle difficoltà. Inoltre, il fatto che egli non si confronti<br />

con questo nodo centrale del suo sistema se non in passaggi di – tutto<br />

sommato – limitata estensione, senza dedicargli mai un’estesa ed<br />

esaustiva analisi, indurrebbe a pensare che l’autore non sentisse in<br />

modo particolarmente pressante la problematicità del nervo concettuale<br />

da lui stesso scoperto.<br />

Prima di investire specificamente tale categoria con un’analisi<br />

approfondita, bisognerebbe quindi soffermarsi sulle motivazioni<br />

generali per le quali Meinong non tematizza mai direttamente nei suoi<br />

testi l’Außersein. Ritengo che tali motivazioni possano essere ricondotte<br />

a due principali.<br />

La prima risiede nell’impostazione stessa del sistema<br />

meinonghiano, che ad un determinato momento ha preteso<br />

l’introduzione del concetto funzionale di Außersein: per evitare che<br />

59


l’intera elaborazione si volgesse ad un absurdum, il filosofo ha introdotto<br />

un elemento schiettamente funzionale per assicurare l’intero edificio<br />

teorico, senza accompagnarlo, però, con un’adeguata identificazione<br />

della sua natura.<br />

La seconda consiste proprio nella natura problematica<br />

dell’Außersein, il quale, anche per il nome che porta (l’attribuzione del<br />

quale non è dato di secondaria importanza, come si vedrà), si<br />

presterebbe facilmente ad aprire la Gegenstandstheorie ad assunti di natura<br />

metafisica, ammettendo una nozione non empiricamente verificabile e<br />

di difficile determinazione. Ora, non è un mistero quanto la tradizione<br />

filosofica austriaca facente capo a Brentano avesse invise (e fosse aliena<br />

a) posizioni di stampo metafisico 127. Meinong, da parte sua, condivide<br />

questa avversione e, fedele al progetto di una filosofia scientifica e di<br />

stampo empirista, disattende la ricerca di una definizione univoca e<br />

definitiva della nozione di Außersein, concentrandosi su altri problemi,<br />

che il filosofo ravvisava come più autentici. Il vero paradosso<br />

sembrerebbe allora essere come gli sforzi di Meinong di preservare una<br />

127 Difficile definire a quale tipo di metafisica (al di là delle sue forme storiche,<br />

quali il kantismo o l’idealismo tedesco…) si stia qui facendo riferimento, dal<br />

momento che, come si è visto, Meinong stesso aveva una idea ben precisa di<br />

cosa fosse la metafisica (un tentativo più o meno riuscito di elaborare una<br />

disciplina onnicomprensiva, ma sempre limitata al reale). Quindi è forse meglio<br />

indicare, più che un tipo, un modo di fare metafisica che Meinong e i<br />

brentaniani non condividevano. Riassumerei con una citazione (che, credo,<br />

potrebbe essere sottoscritta da tutti i brentaniani) quale sia questo modo – scrive<br />

Husserl su Bolzano (prendendo come avversario polemico evidentemente<br />

Hegel):<br />

“In Bolzano, contemporaneo di Hegel, non troviamo nemmeno una<br />

traccia della profonda ambiguità della filosofia sistematica che<br />

aveva di mira una saggezza universale (Weltweisheit) ed una<br />

concezione del mondo ricca di idee (Weltanschauung), piuttosto<br />

che un sapere fondato sull’analisi teoretica e che tanto frenò, con<br />

un’infelice confusione di questi intenti fondamentalmente diversi,<br />

60


filosofia “dal basso”, supportata da ampi ricorsi all’empiria, lo abbiano<br />

spinto di fronte ad un traguardo che sembra essere tutto meno che un<br />

concetto empiricamente verificabile.<br />

b. L’involuzione nel paradosso e la soluzione meinonghiana.<br />

Così per come avviene, l’introduzione dell’Außersein non è altro<br />

che la soluzione di un paradosso. Ricapitolo ora come la<br />

Gegenstandstheorie involve nel paradosso e qual è la strada scelta da<br />

Meinong per uscirne.<br />

Torniamo ad analizzare la proposizione “il cerchio quadrato non<br />

esiste” cercando di capire meglio l’argomentazione meinonghiana. Ora,<br />

questa proposizione rientra nei casi di quei particolari tipi di obiettivi<br />

chiamati Nichtseinsobjektive, vale a dire obiettivi di non essere, una forma<br />

derivata dei Seinsobjektive. Se volessimo volgerla nella sua forma<br />

oggettuale pura dovremmo esprimere la frase con una subordinata<br />

oggettiva: “che il cerchio quadrato non esiste”. Questo è un obiettivo,<br />

ovvero un oggetto di ordine superiore e, in quanto tale, quindi, deve<br />

avere un Infimum, cioè uno o più oggetti (Objekte) che lo fondino 128. In<br />

questo caso l’Infimum corrispondente è, ovviamente, il cerchio quadrato.<br />

Purtroppo la natura del cerchio quadrato ne preclude l’esistenza<br />

(Existenz) – ed è proprio esprimendo questo fatto che il nostro<br />

obiettivo (cioè “che un cerchio quadrato non esiste”) risulta vero. Prima<br />

di poter affermare che non esiste, si deve quindi afferrare in un qualche<br />

il progresso della filosofia scientifica”. In. Husserl (1900):<br />

Prolegomena zur reinen Logik , pag. 226, trad. it., pag. 231.<br />

128 Cfr. §6, b.<br />

61


modo tale oggetto, afferrarne delle determinazioni di Sosein, di essere-<br />

così, e cioè proprio quelle di essere rotondo e di essere quadrato.<br />

Che il cerchio quadrato non sia reale, lo si è visto, non è una<br />

limitazione particolarmente stringente, dal momento che a fianco<br />

dell’insieme degli oggetti reali, si trova quello degli oggetti ideali. Il<br />

cerchio in questione, però, non potrebbe appartenere nemmeno a<br />

questo secondo insieme, dal momento che la sua contraddizione<br />

interna (essere ad un tempo quadrato e circolare) non glielo permette:<br />

non c’è insomma alcun dubbio, essendo un oggetto impossibile, il<br />

cerchio quadrato è “senza patria”. Esso non rientra nei due insieme di<br />

oggetti finora conosciuti, non situandosi né tra gli oggetti reali né tra<br />

quelli ideali. Il paradosso in cui gli oggetti impossibili allora spingono la<br />

Gegenstandstheorie è proprio questo: essa è costretta ad assumere che “si<br />

danno oggetti per i quali vale che tali oggetti non si danno”.<br />

Ma ad un’analisi più attenta, si può vedere come tale paradosso<br />

sia solo apparente, difatti esso tiene insieme due determinazioni che<br />

non sono fra di loro equivalenti. La prima parte del paradosso “si danno<br />

oggetti…” tratta infatti di un modo di datità che non coincide con quello<br />

della seconda parte “(…) per i quali vale che tali oggetti non si danno”.<br />

Ora, secondo l’argomentazione precedente, gli oggetti<br />

impossibili non possono né esistere, né sussistere: chiaramente quindi<br />

l’esistenza e la sussistenza sono i modi di datità negati nella seconda<br />

parte del paradosso: “per i quali vale”, parafrasando, “che tali oggetti non si<br />

danno”. Questo però non esclude necessariamente che non ci possa<br />

essere un ulteriore modo di datità, grazie al quale gli oggetti impossibili<br />

“si danno” comunque, sebbene in maniera essenzialmente differente<br />

62


dai modi dell’esistenza e della sussistenza. Tale modo di datità è quello<br />

dell’Außersein. Insomma, quanto viene affermato nella prima parte del<br />

paradosso non è lo stesso che verrà poi subito dopo negato.<br />

Riscriviamo quindi il paradosso esplicitando tutti i momenti<br />

impliciti: “si danno oggetti – nel modo dell’Außersein – per i quali vale<br />

che tali oggetti non si danno – nel modo dell’esistenza o della<br />

sussistenza” 129. Riformulato così 130 il paradosso perde la sua natura<br />

problematica e sembra solamente dirci che, ancora una volta, c’è<br />

129 Meinong nel 1904 non argomenta in questo modo – egli sceglie un’altra via<br />

riassumibile per punti in questo modo:<br />

“(1) Si consideri il fatto che non c’è un quadrato rotondo (i.e. che il<br />

cerchio quadrato non ha essere – esistenza o sussistenza).<br />

(2) In ogni caso, l’obiettivo “che non c’è un quadrato rotondo” ha<br />

essere (i.e. sussiste).<br />

(3) Ora, l’obiettivo sta in una relazione con il suo oggetto/i come<br />

un intero sta alle sue parti.<br />

(4) Il quadrato rotondo è una parte dell’obiettivo che il quadrato<br />

rotondo non ha essere.<br />

(5) Ma se l’intero ha essere, così lo devono avere le parti.<br />

Quindi,<br />

(6) Il quadrato rotondo deve avere essere.<br />

(7) Ma, per (1), il tipo di essere che esso ha non può essere né<br />

esistenza né sussistenza.<br />

Quindi,<br />

(8) Ci deve essere un terzo modo di essere che appartiene al<br />

quadrato rotondo”.<br />

In: Perszyk (1993): pag. 55-56.<br />

Ho scelto di esporre in modo diverso la soluzione del paradosso per due motivi:<br />

a. evitare di utilizzare l’argomento parti/intero (punti 3, 4 e 5), che<br />

effettivamente non trova ulteriore riscontro negli altri passaggi in cui si<br />

discute del problema dell’Außersein, e che avrebbe potuto produrre<br />

confusione (tra l’altro il rapporto che intercorre tra obiettivo e oggetto non<br />

viene quasi mai espresso da Meinong in termini di parti/intero, bensì in<br />

rapporti di fondazione);<br />

b. evitare di concludere subito con l’introduzione di un terzo modo di essere<br />

per quanto riguarda l’Außersein, dato che – come si vedrà – l’autore stesso<br />

esita nel prendere posizione in questo senso ed è al momento prematuro<br />

fissarlo.<br />

130 Applicata al caso particolare del cerchio quadrato tale riscrizione risulta<br />

essere ancora più intuitiva: “è dato un cerchio quadrato, nel modo<br />

dell’Außersein, per il quale vale che tale cerchio quadrato né esiste, né sussiste”.<br />

63


qualcosa d’altro, non esaurendo esistenza e sussistenza l’intera estensione<br />

dell’oggetto. A ben vedere quindi il tutto sembra ricondursi al motore<br />

teorico iniziale che muove Meinong: il problema cioè di riuscire a<br />

definire cosa sia un “oggetto” e quali siano i caratteri ultimi che lo<br />

rendono tale 131.<br />

A questo punto della ricerca Meinong scopre insomma che il<br />

Gegenstand eccede i limiti imposti da sussistenza ed esistenza e si estende<br />

131 La maggior parte degli studi riguardanti l’Außersein sono condotti in termini<br />

semantici, soprattutto riallacciandosi alla polemica Russell-Meinong. Russell fu<br />

attento lettore di Meinong e estimatore del suo metodo analitico e per un certo<br />

periodo sembrò anche condividere l’impostazione meinonghiana, in particolare<br />

quando scrive:<br />

“Ente è ciò che pertiene a ogni termine concepibile, a ogni<br />

possibile oggetto del pensiero, in breve, a ogni cosa che può mai<br />

occorrere in una qualsiasi proposizione, vera o falsa, e che pertiene<br />

a tutte le proposizioni in quanto tali (…) I numeri, gli dei omerici,<br />

le relazioni, le chimere e gli spazi quadridimensionali sono tutti<br />

enti, perché se non fossero entità di sorta, non potremmo enunciare<br />

nessuna proposizione attorno ad essi” in: Russell (1988): pag.42.<br />

Poi, con la pubblicazione del saggio On Denoting del 1905, il filosofo inglese<br />

mutò la propria posizione e criticò aspramente le conclusioni del collega<br />

austriaco. In realtà però Russell, più che la teoria di Meinong, prese<br />

probabilmente di mira le sue stesse tesi del 1903, apparentemente vicine, ma in<br />

realtà diverse da quelle meinonghiane. Egli inoltre marcò con le sue critiche la<br />

ricezione di Meinong nel mondo anglosassone.<br />

Alla luce della teoria della denotazione di Russell, spesso si intende quindi<br />

l’intera problematica dell’Außersein come la soluzione di un problema<br />

semantico quale “cosa denota l’espressione «un cerchio quadrato» e quale<br />

valore di verità ha una proposizione sul cerchio quadrato?”. Sebbene una<br />

trattazione di questo tipo sia pienamente legittima, ritengo però che inserire<br />

l’Außersein unicamente nel solco di un problema semantico sollevato dalla<br />

teoria russelliana della denotazione sia (cfr. Jacques (1973)):<br />

a. fallace: Meinong infatti non ha mai elaborato una teoria della denotazione,<br />

non gli si può quindi imputare errori provenienti da una teoria non sua;<br />

b. riduttivo: infatti – lo si è visto – il significato, in quanto Gegenstand (cfr.<br />

§6, b), è solo uno degli oggetti che costituiscono il bacino di interesse della<br />

teoria degli oggetti: la tesi dell’Außersein scaturisce dal bisogno di<br />

determinare cosa è l’oggetto, cioè comprendere in che senso anche un<br />

cerchio quadrato è un oggetto (quadrato e circolare, indipendentemente dal<br />

soggetto che lo pensa), ma solo in modo mediato stabilire che valore di<br />

verità ha una proposizione su un cerchio quadrato.<br />

64


en più in là. Ci si potrebbe compiacere a questo punto della soluzione<br />

del paradosso, non fosse che, dal momento che non si tratta<br />

semplicemente di una soluzione nominale, si rivela indispensabile<br />

determinare qual è la natura dell’Außersein e chiarire cosa significa<br />

sostenere che un oggetto sia außerseiend 132. Prima di tentare una possibile<br />

interpretazione, prenderò in considerazione quanto Meinong scrive<br />

riguardo a queste due questioni.<br />

§8. Cos’è l’Außersein?<br />

Come è stato detto, non sono molti i passaggi nei quali Meinong<br />

fa riferimento all’Außersein. Cercherò quindi di dare una sinossi di<br />

quanto l’autore sostiene procedendo a “zigzag” 133, seguendo una strada<br />

più concettuale che cronologica.<br />

132 Grossman (1974b): pag. 67 rileva:<br />

“la dottrina di Meinong dell’Außersein dell’oggetto puro<br />

consiste, a mio avviso, delle seguenti quattro tesi principali: (1)<br />

entità non esistenti, come la montagna d’oro e il quadrato<br />

rotondo, non hanno alcuna forma di essere. (2) Ciononostante<br />

queste entità sono costituenti di certi stati di cose. (3) Esse inoltre<br />

hanno un numero di proprietà ordinarie (ordinary properties) – la<br />

montagna d’oro, ad esempio, è d’oro. (4) L’essere non è parte di<br />

alcun oggetto.”<br />

Sicuramente l’Außersein viene introdotto come possibile soluzione ai problemi<br />

avanzati dalla Gegenstandstheorie e in particolare a quelli sollevati dagli oggetti<br />

inesistenti; in realtà però questi quattro punti più che esplicare la tesi<br />

dell’Außersein sembrano semplicemente mettere in luce schematicamente le sue<br />

conseguenze teoretiche: vale a dire – se si assume il ruolo dell’Außersein, allora<br />

si possono accettare come validi i quattro punti sopra elencati. Ma questo però<br />

non rispetta il compito di identificare la natura dell’Außersein: definire<br />

apoditticamente cosa si indica col termine “Außersein”.<br />

133 O meglio “attraverso il testo di Meinong” – in una certa misura, quindi,<br />

vicino al lavoro che Derrida compie sulle Ricerche Logiche di Husserl, cioè un<br />

65


Innanzitutto, nella trattazione del paradosso che si è condotta, è<br />

emerso che l’Außersein è qualcosa che si pone al di là sia dell’esistenza,<br />

che della sussistenza 134. Si potrebbe in prima istanza pensare che si tratti<br />

di un terzo tipo di essere a fianco dei due precedenti. Ma, se così fosse,<br />

saremmo di fronte ad un tipo d’essere ben particolare, dal momento<br />

che<br />

“non è permesso ad un non-essere dello stesso tipo<br />

(derselben Art) di contrapporglisi” 135.<br />

Secondo il Meinong del 1904, oltre che a non essere di nessun<br />

vantaggio, contravverrebbe alla basilare regola ockhamiana della<br />

parsimonia ammettere un’ulteriore nicchia ontologica per gli oggetti<br />

impossibili 136. Il problema si pone in questi termini: si è alla ricerca di<br />

un genere ontologico che valga per gli oggetti impossibili, che, non<br />

esistendo e non sussistendo, rendono inadeguate le due precedenti<br />

categorie ontologiche (cfr. esistenza e sussistenza). Ora, queste due<br />

categorie ontologiche sono “essere” nel senso più ampio della parola<br />

(im weiteren Wortsinne 137), invece gli oggetti impossibili, non esistendo e<br />

non sussistendo, non possono rientrare in questo “essere”. Se si<br />

ammettesse allora un essere S, comprensivo degli oggetti impossibili,<br />

lavoro che si muove “attraverso il testo di Husserl, cioè in una lettura che non<br />

può semplicemente essere quella di un commento, né quella di una<br />

interpretazione”, in: Derrida (1967): pag. 88<br />

134<br />

Cfr. “non è né esistenza, né sussistenza” in: Meinong (1988a): pag. 10.<br />

135<br />

Meinong (1988a): pag. 10.<br />

136<br />

Cfr. Meinong (1910): pag. 80.<br />

137<br />

Cfr. Meinong (1988b): pag. 72.<br />

66


esso sarà di un ordine superiore n rispetto all’essere di sussistenza ed<br />

esistenza (includerebbe cioè qualcosa in più dell’essere precedente).<br />

Assumendo questo essere, si sarebbe allora costretti per logica ad<br />

ammettere la sua negazione, diciamo ¬S. Una volta compiuto questo<br />

passo, però, non ci si potrà sottrarre dal sovrapporre a S e a ¬S un<br />

ulteriore essere P di ordine n+1, comprensivo anche di ¬S, dal<br />

momento che anche ¬S in un certo senso “ci sarebbe”: otterremmo<br />

insomma una ramificazione ontologica che procede all’infinito. Il che è<br />

una tesi “se non impossibile quantomeno fortemente implausibile” 138.<br />

Per evitare questo cul-de-sac, Meinong si decide per l’unica<br />

alternativa possibile: l’Außersein non è un esistere, non è un sussistere e,<br />

almeno per il testo del 1904, non è neanche un essere 139. Infatti:<br />

“Un essere, al quale non si contrappone per principio<br />

nessun non-essere, può essere ancora chiamato un<br />

essere?” 140<br />

L’autore ci informa dei suoi precedenti tentativi di nominare ciò<br />

a cui egli fa riferimento: soprattutto espressioni come “Quasisein” o<br />

“Quasitranszendenz” lo hanno tenuto occupato 141, ma alla fine si è risolto<br />

138 Cfr. Findlay (1933): pag. 47.<br />

139 Ecco in cosa differisce la posizione di Meinong da quella di Russell, per<br />

Meinong la chimera non è un ente, non ha/è essere. Cfr. nota 131.<br />

140 Meinong (1988a): pag. 11.<br />

141 Cfr. Meinong (1988a): pag. 11.<br />

67


per un rifiuto, giacché il rischio di espressioni del genere è di<br />

ontologizzare l’Außersein 142. Il “barbarismo” 143 Außersein è<br />

“scaturito dallo sforzo, di accordarsi sull’interpretazione di<br />

ogni particolare “c’è” [“è dato”] (es gibt) – del quale sembra<br />

non poter essere privato neanche il più alieno all’essere fra<br />

gli oggetti (seinsfremdesten Gegenständen) – senza il ricorso ad<br />

una nuova, terza modalità d’essere a fianco di esistenza e<br />

di sussistenza.” 144<br />

Se l’Außersein non è essere, non è però neanche un puro nulla.<br />

Per evitare allora di finire in una sorta di teologia negativa e nel<br />

tentativo di definire in modo positivo cosa l’Außersein sia, Meinong<br />

sceglie un’altra strada: al posto di investire frontalmente l’Außersein e<br />

parlare di “qualcosa” che non è né esistenza né sussistenza, per poi<br />

proseguire lungo una strada che altrimenti sarebbe stata tutta al<br />

negativo, egli si dirige all’oggetto puro. In fin dei conti, per il filosofo, il<br />

cerchio quadrato è un oggetto e quindi è esso che si fa portatore di<br />

“essere Außersein”. Ed infatti trattando dell’oggetto puro il filosofo<br />

sembrerebbe venire a capo del problema: egli volge al participio<br />

presente la forma infinitiva e sostiene che “l’oggetto è außerseiend” 145. In<br />

142<br />

Cfr. Meinong (1988a): pag. 11.<br />

143<br />

In Meinong (1910): pag. 79 – è connotato come “(…) etwas barbarischen<br />

(…)”.<br />

144<br />

Meinong (1910): pag. 79.<br />

145<br />

Ed è quindi sempre per porre in primo piano il nesso con l’oggetto che il<br />

termine “Außersein” compare nel testo del 1904 solo due volte ma mai da solo,<br />

Meinong specifica sempre “l’Außersein dell’oggetto puro”.<br />

68


questo modo, al posto di rivolgersi direttamente allo status ontologico<br />

dell’Außersein, si sposta l’ottica, sostenendo che ad essere außerseiend è<br />

unicamente l’oggetto puro. Questo passaggio concettuale non è un<br />

banale escamotage 146, prova ne è che Meinong presto si trova a far<br />

fronte ad un nuovo problema, vale a dire fissare univocamente quale<br />

oggetto si fa portatore dell’Außersein.<br />

Sostenere che l’oggetto è Außersein potrebbe significare come<br />

minimo due cose:<br />

i. ci sono degli oggetti che sono außerseiend e al fianco di essi si<br />

oppure,<br />

trovano tutti gli altri oggetti (sussistenti ed esistenti);<br />

ii. tutti gli oggetti sono außerseiend in quanto oggetti puri, e, di<br />

questi, alcuni sono solamente außerseiend (bloß außerseiend), altri<br />

sommano al fatto di essere Außersein la caratteristica della<br />

esistenza ed altri ancora quella della sussistenza 147.<br />

Analizziamo per gradi queste due possibilità. Nel caso i.<br />

avremmo come außerseiende solo gli oggetti impossibili quali il cerchio<br />

quadrato. Ciò significa che tra tutti gli oggetti solo alcuni avrebbero la<br />

prerogativa di essere Außersein, mentre tutti gli altri sarebbero di natura<br />

146 Tutt’al contrario, con questo passaggio Meinong fissa uno dei punti<br />

maggiormente caratteristici (e, a mio avviso, uno dei più promettenti per gli<br />

spazi che lascia aperti a futuri sviluppi) della sua filosofia, egli si congeda<br />

definitivamente da ogni residuo ontologico: la sua è una Gegenstandstheorie,<br />

teoria promotrice di un’analisi generalissima diretta all’oggetto e<br />

all’oggettualità e non più unicamente ad una sua singola dimensione: l’essere.<br />

147 Così che “capita (happens) che la tour Eiffel esiste e capita che la montagna<br />

dorata non esiste” (il corsivo è mio), in: Jacquette: (2001): pag. 386.<br />

69


essenzialmente diversa. Il paradosso verrebbe comunque risolto 148, ma<br />

quale argomento sostiene questa soluzione? Secondo i. esistono delle<br />

regioni ontologiche, quali l’esistenza, la sussistenza e l’Außersein, alle<br />

quali appartengono rispettivamente gli oggetti esistenti, sussistenti e gli<br />

Außerseiende. Così facendo, però, si fa rientrare dalla finestra quanto si è<br />

fatto uscire dalla porta: l’Außersein ridiventa una nicchia ontologica, un<br />

Quasisein, nel quale relegare ogni oggetto impossibile. Ma questa è una<br />

posizione che lo stesso Meinong aveva già rifiutato, dal momento che<br />

secondo questa lettura l’Außersein sarebbe una terza forma d’essere ed<br />

avrebbe perciò un contrario.<br />

Nel caso ii., si è detto, tutti gli oggetti, in quanto puri, sono<br />

außerseiend, e solo ad alcuni di essi si aggiunge la caratteristica di essere<br />

esistenti o quella di essere sussistenti 149. La plausibilità di questa<br />

interpretazione, oltre ad essere confermata esplicitamente dall’autore,<br />

che scrive:<br />

“Tale Außersein sembra dover assolutamente sopravvenire<br />

(zukommen) ad ogni oggetto” 150,<br />

148 Anzi, sarebbe una pura tautologia, risolvendosi nell’affermazione che ci sono<br />

oggetti außerseiende che non esistono e neanche sussistono. E siccome per<br />

definizione l’Außersein non è esistenza e sussistenza, allora va da sé che un<br />

oggetto außerseiend non possa essere esistente o sussistente.<br />

149 E’ in questo contesto che spesso è stata riconosciuta l’affinità della posizione<br />

meinonghiana con quella kantiana: il riferimento è ovviamente all’idea che<br />

l’esistenza non è un predicato reale dell’oggetto – i cento talleri reali insomma<br />

non comprendono nulla di più nel concetto dei cento talleri possibili. Cfr. KdrV<br />

A599, B 627, trad. it., pag. 481.<br />

150 Meinong (1917): pag. 22.<br />

70


trova un’assicurazione nel dettato di Meinong: non semplicemente<br />

l’oggetto è außerseiend, bensì l’oggetto puro (der reine Gegenstand) è<br />

außerseiend. Dal momento quindi che il termine “puro” viene preso da<br />

Meinong come sinonimo di “ontologicamente neutro”, sembra da un<br />

lato difficile accettare che solo parte degli oggetti del mondo siano puri<br />

e, peraltro, proprio quelli appartenenti ad un insieme estremamente<br />

particolare, come gli oggetti “inesistenti” (quanto il caso i. lascerebbe<br />

intendere). Dall’altro, sottolinea il fatto che ogni oggetto preso in sé, al<br />

di là della sua “collocazione ontologica” – insomma ogni oggetto preso<br />

nella sua purezza di oggetto – è außerseiend. Così il cerchio quadrato è<br />

bloß außerseiend (cioè non somma alla sua natura di Außersein una qualche<br />

altra determinazione ontologica), ma anche un tavolo, se preso<br />

puramente come una sommatoria di determinazioni di Sosein, ovvero<br />

considerato al di là dell’ambito dell’esistenza, è außerseiend, sebbene non<br />

bloß außerseiend, giacché appunto il tavolo, a differenza del cerchio<br />

quadrato, è qui, esiste, io lo tocco e ci sbatto contro.<br />

Si ha così uno spostamento notevole di prospettiva, nella misura<br />

in cui si muove l’Außersein da variabile, per così dire, indipendente, alla<br />

quale cioè l’oggetto fa riferimento, a variabile dipendente, vale a dire, a<br />

caratteristica dell’oggetto. Innestando l’Außersein sull’oggetto e non<br />

viceversa, promuovendo cioè l’idea che ogni oggetto è per principio<br />

außerseiend, si instaura insomma un nesso che lega l’oggettualità 151 con<br />

l’Außersein, al punto da farli coincidere. Insomma, l’Außersein è la<br />

caratteristica ultima dell’oggetto, o, il che è lo stesso, un oggetto è tale<br />

151 “Oggettualità” è un’espressione che – a mia conoscenza – non viene usata da<br />

Meinong, ma che impiego per intendere la caratteristica essenziale che rende<br />

ogni oggetto un oggetto.<br />

71


solo nella misura in cui è “portatore” di Außersein. I due sono termini<br />

equivalenti.<br />

Instaurare questa equivalenza dà sicuramente la possibilità per<br />

ulteriori analisi, prima però di continuare con questa lettura<br />

dell’Außersein, bisogna rilevare come la posizione del 1904 non risulti<br />

essere quella definitiva dell’autore. Già nel 1908 il filosofo di Graz<br />

ritorna sulle acquisizioni precedenti, negandole 152. Egli scrive infatti:<br />

“Ma se sussiste qui la datità (Gegebenheit), per quanto non in<br />

un essere vero e proprio dell’uno o dell’altro tipo [cfr. della<br />

esistenza o della sussistenza], allora – io ritengo – essa è<br />

comprensibile unicamente (so ist ihr […] doch nur in der<br />

Weise einiges Verständis abzugewinnen) se in essa si riscontra<br />

(aufweisen) una modalità – per così dire – il più possibile<br />

d’essere (ein sozusagen möglichst Seinsartiges) 153, quand’anche<br />

non essere in senso proprio. […] Per ogni oggetto io<br />

afferro […] qualcosa, che rappresenta una prima traccia<br />

(eine erste Spur) di ciò che noi abbiamo di fronte, per così<br />

dire, in forma più elaborata come sussistenza o esistenza.<br />

Questo minimum, che non è ancora un essere nel senso<br />

152 Quanto Meinong afferma in questi testi non può non essere preso nel suo<br />

pieno valore, e cioè in quello specifico di una oscillazione tutta particolare<br />

nell’identificare correttamente e definitivamente l’Außersein; ogni lettura che<br />

parta univocamente solo da un testo di Meinong, sebbene in piena legittimità,<br />

non potrebbe nello stesso tempo pretendere di esporre la teoria definitiva di<br />

Meinong a proposito.<br />

153 Ho tradotto l’aggettivo sostantivato “Seinsartig” con “modalità d’essere”,<br />

intendendo “Seins-” con “d’essere” e “-artig” con “modalità” oppure “dalla<br />

modalità di-”.<br />

72


comune ma che però è qualcosa dalla modalità d’essere<br />

(etwas Seinsartiges), ho voluto chiamarlo Außersein […].” 154<br />

Se però nel testo del 1908 155 Meinong parla ancora solo di una<br />

“modalità di essere” o di un “minimum dalla modalità d’essere”,<br />

accostando quindi chiaramente lo Außersein ad un tipo d’essere, per<br />

quanto magari non di essere “in senso proprio” (im eigentlichen Sinne), nel<br />

1913 egli è molto più chiaro:<br />

“La disgiunzione tra esistenza e sussistenza è però<br />

esaustiva (vollständig)? L’Außersein, che a mala pena si lascia<br />

afferrare in modo negativo, costituisce però comunque<br />

qualcosa come un terzo modo di essere.” 156<br />

La prospettiva di un Außersein come Quasisein, come terzo modo<br />

di essere a fianco di esistenza e sussistenza, viene quindi da Meinong<br />

stesso, sebbene in lavori mai pubblicati 157, rivalutata.<br />

Si sono quindi delineate due possibili chiavi di lettura<br />

dell’Außersein, entrambe tenute in considerazione dall’autore. Si<br />

154 Meinong (1908): pag. 153.<br />

155 Per la verità, anche nella seconda edizione di Über Annahmen si trovano<br />

tracce di questo ripensamento: cfr. Meinong (1910): pag. 80.<br />

156 Meinong (1913): pag. 261.<br />

157 Il primo testo del 1908 costituisce solo un frammento del Nachlaß, mentre la<br />

citazione seguente è tratta da appunti per lezioni tenute nel semestre estivo del<br />

1913.<br />

73


potrebbe dire che la prima (rubricata sopra sotto i.), non essendo stata<br />

discussa nelle pubblicazioni del filosofo se non come tesi polemica<br />

negativa a favore della seconda, è la tesi “non ufficiale”. Mentre invece<br />

la seconda (ii.), quella di un Außersein ormai emancipato da ogni<br />

considerazione di natura ontologica sia, per così dire, anche quella<br />

meinonghiana “ufficiale”, visto che è quella che l’autore presenta nelle<br />

sue opere pubblicate.<br />

Il mio tentativo consisterà ora nel dare una interpretazione<br />

unitaria del concetto in questione, tentando contemporaneamente di<br />

risolvere le difficoltà che queste due strade implicano. Mi servirò nella<br />

discussione della mia tesi degli strumenti teorici di altri filosofi che si<br />

sono interessati di problemi più o meno attinenti, senza considerare<br />

l’intero loro sistema, se non quando ciò non si riveli strettamente<br />

necessario. Inoltre, non affermo che il risultato della mia tesi sia quanto<br />

Meinong abbia sostenuto nelle sue opere, il mio è solo un tentativo,<br />

partendo dal testo di Meinong, di esplicitare nel modo più coerente<br />

possibile cosa l’Außersein sia.<br />

§9. Estensione del concetto di Außersein.<br />

a. “L’essenza” della oggettività.<br />

Si sono viste le difficoltà che spingono l’autore a scegliere di<br />

spostare il baricentro dell’attenzione dall’Außersein all’oggetto che ha<br />

Außersein e di come, battendo questa tesi, si possa giungere ad una<br />

74


apida identificazione del carattere dell’Außersein con quello della<br />

oggettualità in generale. Ciò significa identificare come tratto<br />

fondamentale dell’oggetto l’Außersein: l’Außersein è quel carattere senza il<br />

quale l’oggetto non sarebbe tale. Stabilire che esiste questa<br />

corrispondenza tra Außersein e oggettualità aggiunge alla trattazione una<br />

prima determinazione positiva, per quanto anch’essa solo nominale, se<br />

non si riesce a definirla in modo più approfondito. In fondo, infatti,<br />

non si sa ancora cosa l’Außersein sia. Questo è, se si vuole, il limite<br />

ultimo del lavoro di Meinong, l’autore infatti si arresta senza decidersi<br />

definitivamente in merito.<br />

Prima di procedere oltre lungo l’analisi, c’è da chiedersi se si<br />

sono rilevati proprio tutti i tratti fondamentali dell’oggetto. In tal senso,<br />

vorrei allora apportare un contributo ulteriore presente nei testi di<br />

Meinong: cioè un ulteriore dato che possa arricchire, grazie alla sua<br />

generale estensione ad ogni oggetto, la nozione ancora sterile di<br />

Außersein. Si tratta di esplicitare un elemento presente nei testi di<br />

Meinong sul quale però la nostra attenzione non si è finora soffermata,<br />

probabilmente per il fatto che la traduzione italiana dell’espressione<br />

tedesca corrispondente non fa fede al medesimo significato,<br />

ostacolando così il riconoscimento della sua pregnanza per tale analisi.<br />

Questo elemento – che si è introdotto in sordina insieme con il<br />

paradosso discusso nei paragrafi precedenti 158 – è quello per il quale<br />

l’oggetto, più che “esserci” (in forma attiva: “c’è” – di solito è la<br />

traduzione italiana prediletta della forma tedesca) – è dato (es gibt).<br />

Questa terminologia viene sistematicamente utilizzata da Meinong<br />

soprattutto quando cerca di definire quel qualcosa al di là dell’essere e<br />

158 Per quel paradosso non vale che “ci sono” oggetti che non “ci sono”, bensì,<br />

traducendo letteralmente, che “sono dati” oggetti che “non sono dati”.<br />

75


del non essere (jenseits von Sein und Nichtsein 159) che è l’oggetto puro.<br />

D’altra parte però neanche Meinong sembra sfruttare a pieno questa<br />

risorsa, poiché lascia che l’analisi identifichi i suoi fini solo nella<br />

delimitazione negativa della nozione di Außersein più che in una sua<br />

determinazione positiva. Insomma, l’oggetto non “c’è”, ma è “dato”,<br />

ovvero si concentra l’attenzione prima che su una forma d’essere, su<br />

una forma di datità (Gegebenheit) 160. Tale forma di datità è però<br />

particolare: essa cioè non intrattiene nessuna relazione essenziale col<br />

fatto di essere una datità “per un soggetto”. Infatti:<br />

“agli oggetti non è essenziale essere afferrati, bensì poter<br />

esser afferrati (den Gegenständen ist es nicht wesentlich, erfaßt zu<br />

werden, wohl aber erfaßt werden zu können)” 161<br />

E, in modo ancora più chiaro:<br />

“Di fronte all’afferramento (dem Erfassen gengenüber) il suo<br />

oggetto è il precedente logico (das logisch Frühere), anche quando<br />

questo oggetto segue temporalmente l’afferramento.” 162<br />

159 Meinong (1988a): pag. 12.<br />

160 Cfr. a riguardo Meinong (1908): pag. 153, dove l’autore instaura chiaramente<br />

il nesso tra Außersein e Gegebenheit.<br />

161 Meinong (1988b): pag. 76.<br />

162 Meinong (1988b): 103. Cfr. anche:<br />

“(…) l’oggetto deve (muß) essere pre-dato (vorgegeben) al<br />

vissuto in un qualche modo, sia secondo l’esistenza, sia secondo<br />

76


Questa ulteriore esplicitazione, ha consentito di delineare, oltre a<br />

quella già fissata di Außersein, due ulteriori “coordinate” generali che<br />

determinano la natura dell’oggetto. Questi tre punti, per quanto non<br />

ancora esaustivamente analizzati, si potrebbero chiamare i caratteri<br />

formali di un oggetto e possono essere riassunti per sommi capi così:<br />

l’oggetto<br />

i. è, preso nella sua purezza di Außersein, un puro nesso di<br />

determinazioni di esser-così;<br />

ii. propriamente non “c’è”, ma è “dato”;<br />

iii. questa datità è del tutto indifferente nei confronti di un<br />

eventuale soggetto che la afferri.<br />

Questa nuova formulazione, pur avendo messo in luce nuovi<br />

elementi, non riesce ancora a esplicitare quale sia il tratto che unifica<br />

questi tre caratteri e soprattutto cosa significa che un oggetto sia<br />

Außersein: si sono colti solo i caratteri sparsi dell’oggetto, ma non se ne è<br />

ancora compresa la loro reciproca complessione essenziale.<br />

Si ripercorra allora una volta di più il tentativo complessivo del<br />

filosofo di Graz: eliminare ogni particolarità individuale che la parola<br />

oggetto può suscitare e contemplarlo nella sua più ampia generalità<br />

possibile. Lungo questa strada si è giunti a fissare il legame tra Außersein<br />

e oggetto puro. Tale via si può anche caratterizzare come un<br />

la sussistenza, o quantomeno secondo l’Außersein. Per quanto in<br />

nessun modo l’oggetto è ridotto al vissuto né tanto meno il<br />

vissuto afferrante all’oggetto”. In Meinong (1917): pag. 17.<br />

77


progressivo e metodico avvicinamento al carattere fondamentale<br />

dell’oggetto nella forma di una continua generalizzazione (dall’oggetto<br />

reale e ideale, a quello impossibile ed infine all’oggetto puro) che si<br />

risolve alla fine in un asintotico avvicinamento privo di una visione<br />

d’insieme.<br />

Se però fosse possibile riscrivere il tentativo meinonghiano in<br />

termini diversi, si potrebbe gettare maggiore luce su cosa si sta<br />

ricercando. Se infatti venisse fissata la meta ideale alla quale la ricerca<br />

sarebbe supposta tendere, se ne potrebbe guadagnare in termini di<br />

puntualità e sintesi. Riconoscendo allora un pendant tra Meinong e il<br />

lavoro svolto in quello stesso giro d’anni da Edmund Husserl 163, si<br />

potrebbe fondatamente sostenere, che il filosofo di Graz è alla ricerca<br />

di quanto Husserl chiamava “l’essenza” dell’oggetto: la ricerca cioè di<br />

quel qualcosa che resta invariabile in ogni possibile variazione 164 della<br />

quale l’oggetto si fa portatore (das invariable Was) 165:<br />

163 La vicinanza tra Husserl e Meinong è confermata non solamente dall’essere<br />

stati entrambi allievi di Brentano, ma anche dalla comunanza dei problemi ai<br />

quali i due autori lavoravano. Questo legame è stato già largamente<br />

riconosciuto: per una valutazione complessiva, cfr. Findlay (1973), dove<br />

l’autore promuove la tesi di un Meinong “fenomenologo”, mentre per il<br />

carattere specifico del legame in merito alla tematica dell’Außersein, cfr.<br />

Jacquette (2001).<br />

164 In sostanza, quello che ho chiamato nel paragrafo precedente “oggettualità”.<br />

165 Cfr. Husserl (1995): trad. it. pag. 411.<br />

78


“(…) al senso di ogni essere contingente [per i nostri intenti: “al<br />

senso di ogni oggetto”] appartiene appunto un’essenza, un<br />

eidos afferrabile nella sua purezza (…)” 166.<br />

Una volta instaurato questo legame – per il quale cioè Meinong<br />

mirerebbe a quanto si potrebbe chiamare “l’essenza dell’oggetto” –<br />

sarebbe allora legittimo 167 cercare di operare qualcosa che Meinong<br />

però mai si ripropose di condurre, vale a dire una “visione eidetica”<br />

(Wesenserschauung) di tale essenza. Se fosse possibile vedere l’idea generale<br />

dell’oggetto, si potrebbe allora riempire di un significato più denso la<br />

nozione di Außersein e sperare così di procedere oltre nella determinazione<br />

del carattere fondamentale di quest’ultimo. In fondo, infatti, Meinong si<br />

è fermato ad una considerazione esteriore dei rapporti essenziali che<br />

vigono tra l’Außersein e l’oggettualità, senza proseguire nella discussione<br />

del problema che il legame instaurato sollevava.<br />

166 Husserl (2001): trad. it. pag. 15; sulla nozione di essenza e sulla sua duplice<br />

natura, materiale e formale, si articola poi la “logica formale” husserliana, così<br />

come essa viene elaborata nelle Ideen.<br />

167 Certo, questa legittimità va accettata solo cum grano salis, nella misura in<br />

cui Meinong considererebbe anche l’essenza un oggetto (e d’altra parte così<br />

viene anche riconosciuta da Husserl, cfr. Husserl (2001): trad. it. pag. 18).<br />

Scrive infatti il filosofo di Graz:<br />

“Ma cosa differenzia allora l’Eidos dall’oggetto nel senso<br />

“dell’oggetto puro”, al quale io ho assegnato Außersein?”<br />

Meinong (1913/1914): pag. 291.<br />

Questo però non preclude a priori la possibilità di tentare di utilizzare gli<br />

strumenti elaborati da Husserl ed applicarli in modo euristico alla ricerca<br />

meinonghiana.<br />

79


. “Vedere” l’essenza.<br />

Per quanto riguarda la visione eidetica, essa è definita nelle Ideen<br />

come una intuizione “radicalmente comune” alla intuizione empirica,<br />

cioè “coscienza di qualcosa, di un oggetto, di un qualcosa su cui si<br />

dirige lo sguardo e che le è dato “in se stesso” in questa intuizione”; ma<br />

nello stesso tempo le due intuizioni sono “distinte per principio”<br />

poiché una si interessa solo di dati di fatto, di singolarità empiriche,<br />

mentre l’altra di essenze, di eide 168. Ad essa però, nel testo del 1913, non<br />

viene prescritta nessuna metodica operativa: non si sa cioè come Husserl<br />

vorrebbe compiere questa visione d’essenza 169. Una chiara indicazione<br />

in questo senso ci verrà data dall’autore molto più tardi, in “Erfahrung<br />

und Urteil” dove alla Wesenserschauung verrà affiancata l’idea di eidetische<br />

Variation. La “variazione eidetica” deve insomma essere capace di<br />

liberare il fenomeno dal suo carattere di contingenza (Zufälligkeit) e per<br />

riuscirci essa si propone di variare nella pura fantasia (in reiner Phantasie)<br />

ogni carattere contingente 170. Quanto “resiste” a questa variazione, vale<br />

168 Cfr. Husserl (2001): trad. it. pag. 16-19.<br />

169 L’idea era originariamente quella di una “astrazione ideante”, ma poi questo<br />

procedere viene ritenuto insufficiente.<br />

170 Cfr. Husserl (1995): trad. it. pag. 314 – 315: “Si mostra allora che questa<br />

molteplicità di riproduzioni è attraversata da un’unità, che cioè nella libera<br />

variazione di un’immagine originaria, per esempio di una cosa, viene mantenuto<br />

in maniera necessaria un invariante come la forma universale necessaria senza<br />

la quale qualcosa come questa cosa, come esempio della sua specie, sarebbe<br />

impensabile. Questa forma emerge nell’esercizio di una variazione arbitraria<br />

come un contenuto assolutamente identico, un quid invariabile, secondo il quale<br />

si identificano tutte le varianti, un’essenza universale, mentre le loro differenze<br />

sono per noi irrilevanti. Noi possiamo volgere lo sguardo verso questa essenza<br />

come l’invariabile necessario che a tutte le variazioni, esercitate nel modo del<br />

“qualsivoglia” e comunque proseguibili, prescrive il loro limite, anche se sono<br />

variazioni della stessa immagine originaria.”<br />

80


a dire, quel carattere, modificando il quale non si riesce più ad avere di<br />

fronte lo stesso fenomeno, è l’essenza del fenomeno stesso 171.<br />

E’ così possibile operare una variazione eidetica sull’oggetto e<br />

trovare il nesso fondamentale di tutti i suoi caratteri. Si provi a variare<br />

liberamente i tre caratteri formali raggruppati attorno al concetto di<br />

“oggetto”, e quanto “resiste” a questa libera variazione verrà definita<br />

come l’essenza di tale nozione. Si possono così variare nell’oggetto:<br />

i. ogni particolare esser-così (ogni determinazione di Sosein).<br />

Questa variazione richiede però uno specifico chiarimento. Si è<br />

visto come l’oggetto individuale si identifichi con l’insieme delle<br />

determinazioni di Sosein; il motivo per il quale si deve poter<br />

variare nella fantasia ogni Sosein dell’oggetto individuale è che<br />

non si sta ricercando il carattere che rende un oggetto questo<br />

oggetto particolare (questo dato lo si è già acquisito: sono proprio i<br />

Sosein che rendono l’oggetto questo oggetto particolare), bensì quel<br />

carattere che rende tale l’oggetto in generale, vale a dire, quel<br />

carattere che rende tale qualsiasi oggetto. La variazione eidetica di<br />

ogni esser-così è allora giustificata dal fatto che, nel modificare<br />

liberamente ogni esser-così dell’oggetto (cioè trovandosi di<br />

fronte qualsiasi oggetto), ci si trova sempre e comunque di fronte<br />

ancora un oggetto, dimostrando così che le determinazioni di<br />

Sosein non sono quel invariables Was, quell’essenza dell’oggetto, di<br />

cui si è alla ricerca 172;<br />

171 Cfr. Husserl (1995): trad. it. §87, a.<br />

172 Se non fosse possibile compiere questa operazione (modificare ogni Sosein<br />

di un oggetto e di conseguenza variare liberamente ogni oggetto), non si<br />

riuscirebbe a prescindere proprio da quella Zufälligkeit, da quella contingenza,<br />

che invece la visione eidetica si propone di abbandonare.<br />

81


ii. ogni modo particolare di datità (esistenza o sussistenza);<br />

iii. la presenza del soggetto afferrante (cioè se si assume anche la<br />

mancanza di un soggetto afferrante).<br />

Quanto non si può variare, cioè l’unico carattere fondamentale<br />

comune a tutti gli oggetti e che però resiste alla variazione (come un che<br />

di “residuo”, nello stesso senso in cui Husserl parla della coscienza<br />

come di un residuo fenomenologico 173) è l’irriducibilità dell’esser dato<br />

in senso assoluto dell’oggetto. Noi possiamo variare come vogliamo<br />

ogni Sosein di un oggetto (ovvero avere qualsiasi oggetto di fronte a<br />

Il problema potrebbe però sussistere nella infinità del processo in atto: per<br />

operare una tale variazione, dovremmo infatti essere capaci di variare<br />

liberamente proprio ogni Sosein di un qualsiasi correlato oggettuale, così, ad<br />

esempio, di una mela, dovremmo poter variare tutti i suoi Sosein e da «“rossa” e<br />

“rotonda” e…», renderla nella fantasia «“blu” e “ottagonale” e…» o «“verde” e<br />

“quadrata” e…» (operazioni equivalenti a trasformare la mela originaria in un<br />

altro oggetto) e così all’infinito. E’ chiaro che un tale compito è irrealizzabile. Il<br />

problema viene però già ravvisato e risolto da Husserl:<br />

“Che l’eidos sia riferito ad una molteplicità, liberamente ad<br />

libitum riproducibile, di variazioni che vengono a coincidere,<br />

cioè ad una infinità aperta, non vuol dire che debba richiedersi un<br />

reale processo all’infinito, ossia una produzione reale di tutte le<br />

varianti […]. Allora noi, anche quando ci interrompiamo, non<br />

abbiamo tuttavia inteso la molteplicità di fatto delle varianti<br />

intuitive, singole, e trasportate l’una nell’altra […]; ma invece,<br />

come ogni singolo ha il carattere di essere esemplare ad libitum,<br />

così anche alla molteplicità delle variazioni appartiene pur<br />

sempre un essere ad libitum. […] A ogni molteplicità<br />

variazionale appartiene essenzialmente questa mirabile e tanto<br />

importante coscienza dello “e così via ad libitum”. Solo mediante<br />

essa è dato ciò che noi diciamo una molteplicità “apertamene<br />

infinita”.” In Husserl (1995): trad. it. pag. 315-316.<br />

173 Cfr. “Essa (la coscienza) rimane come »residuo fenomenologico«” in Husserl<br />

(2001): trad. it. pag. 77 – tra l’altro, la citazione prosegue poi così “…come una<br />

regione dell’essere per principio peculiare, che può di fatto diventare il campo<br />

di una nuova scienza – della fenomenologia”; nella argomentazione<br />

sull’Außersein, invece, non si parla più di una “regione dell’essere”, essendo ad<br />

un livello più generale. Da rilevare inoltre che il punto era ben chiaro a<br />

Meinong che riporta proprio come commento alle Ideen di Husserl: “in nessun<br />

82


noi), fino a presentarci un oggetto impossibile, al di fuori delle sfera di<br />

esistenza e sussistenza, e possiamo anche prescindere da un soggetto<br />

che lo afferri: esso resta comunque un oggetto dato, che sta lì 174.<br />

Insomma, se si variano tutti questi caratteri, si trova come<br />

l’oggetto coincide, nella sua purezza di Außersein, con un essere dato,<br />

con un esser-lì originario. L’oggetto è dato, ma non solo, esso è sempre lì, fuori<br />

di noi. Potrebbe sembrare una contraddizione sostenere che sussiste uno<br />

“stare lì” o un “esser dato” dell’oggetto se non si prende anche in<br />

considerazione in rapporto a cosa l’oggetto stia lì, o ancora a chi esso è<br />

dato, riducendo così il carattere più fondamentale dell’oggetto ad una<br />

dipendenza nei confronti del soggetto e quindi contravvenendo proprio<br />

alla regola della indipendenza dell’oggetto dal soggetto. Quello però che<br />

con “stare lì” si vuole esprimere è proprio il più ampio margine di<br />

indipendenza disponibile: quello della separazione, della esteriorità<br />

“spaziale”. Nel guardare un oggetto A, noi intratteniamo una relazione<br />

con l’oggetto: esso è definito in prima istanza dal fatto di essere-lì, fuori<br />

di noi. Ora, poco importa a quale distanza noi ci collochiamo ed è<br />

altrettanto irrilevante se noi siamo in grado o meno di percepire<br />

l’oggetto: esso infatti è comunque presente in tutta la sua esteriorità.<br />

Non è necessario che ogni “esser-lì” debba essere un “esser-lì” di cui si<br />

abbia conoscenza. Tale esteriorità rende l’oggetto tanto<br />

gnoseologicamente quanto ontologicamente del tutto indipendente. Sia<br />

il cerchio quadrato che il tavolo che ho di fronte non sono per nulla<br />

influenzati dalla percezione che io ne posso avere, essi sono lì in modo<br />

caso la fenomenologia può essere presa in senso così ampio, da inglobare<br />

l’intera Gegenstandtheorie”. In Meinong: (1913/1914): pag. 289<br />

174 Ha una soluzione il problema degli n corpi? Essa certo trascende tutte le<br />

nostre potenzialità, ma la soluzione è data e, per di più, non dipende da noi, ci è<br />

esterna, “sta lì”. A tal riguardo, cfr. Husserl (1900): pag. 185; trad. it., pag. 191.<br />

83


del tutto indipendente da me o da qualsiasi altro soggetto 175. Non solo:<br />

essi “sono lì” anche nei confronti di tutti gli altri oggetti. Vale a dire il<br />

cerchio quadrato è lì rispetto al tavolo e viceversa. I due oggetti, prima<br />

di qualsiasi altra relazione, intrattengono un rapporto di esteriorità nei<br />

loro reciproci confronti. Anche qualcosa che non c’è, insomma, può<br />

essere lì, e quel che è più importante per una teoria dell’oggetto, è<br />

proprio attorno a questa irriducibile esteriorità che esso si struttura<br />

“oggettualmente” 176, cioè che si danno i suoi caratteri di Sosein in modo<br />

indipendente da ogni soggetto.<br />

Va da sé che questa esteriorità è “spaziale” solo in senso<br />

metaforico: non si parla infatti di nessuna relazione metrica che<br />

intercorre tra il cerchio quadrato e il tavolo che ho di fronte. Essa è<br />

solo – per così dire – “fenomenologicamente” spaziale 177.<br />

175 Caso emblematico di riduzione dell’oggetto da esser-lì ad esser-qui, caso<br />

emblematico insomma della soppressione dell’esteriorità dell’oggetto, è<br />

rappresentato dal passaggio che in Husserl parte dalle Ricerche Logiche e porta<br />

fino alle Ideen: nelle LU Husserl distingue infatti un contenuto effettivo e un<br />

contenuto intenzionale della percezione esterna. La ricerca, nel testo del 1901,<br />

era volta unicamente ad uno studio descrittivo dei contenuti effettivi, ma<br />

durante il decennio che porta fino al 1913 Husserl modificherà le sue opinioni<br />

ed alla fine riterrà di dover includere nella ricerca anche il contenuto<br />

intenzionale, quindi non solo la manifestazione, ma anche ciò che si manifesta,<br />

dando così il via alla fenomenologia trascendentale e costitutiva. L’oggetto, da<br />

qualcosa che sta-lì, indipendentemente dalla coscienza, viene fatto rientrare in<br />

essa, perdendo così il suo carattere di esteriorità. Cfr. Costa: pag. 440 in:<br />

Husserl (2001).<br />

176 L’oggetto in questa prospettiva si “struttura” e non si costituisce. Vale a dire<br />

non esiste alcun processo di costituzione dell’oggetto, che è dato al contrario<br />

sempre in modo indipendente dal soggetto, esso cioè si presenta sempre<br />

secondo regole organizzative proprie che non dipendono dal soggetto afferrante.<br />

Dimostrazione sperimentale è data dallo studio gestaltista della “organizzazione<br />

dello spazio visivo”. Ben diverso il caso della fenomenologia husserliana dove<br />

la strutturazione è invece una Konstitution, cfr. Husserl (1991).<br />

177 Per la metafora spaziale, cfr. §10.<br />

84


L’oggetto insomma, ce lo ricorda il suo etimo sia in quanto<br />

Gegen-stand che in quanto ob-iectum, è quel qualcosa che sta lì e, sul piano<br />

etimologico, un’altra conferma si può trovare a questo punto anche nel<br />

termine Außer-sein, che si potrebbe intendere come uno stare-lì, fuori<br />

dall’essere. Esso è insomma quel carattere dell’oggetto che ha la<br />

possibilità di stare “fuori” dall’essere, lì fuori, secondo quella irriducibile<br />

determinazione “spaziale” che viene espressa (cfr. nota 121) dallo<br />

Außer-.<br />

Per riassumere, cosa accomuna un triangolo, un tavolo, un<br />

cerchio quadrato e, poniamo, il triangolo di Kanizsa? Il fatto che essi<br />

sono tutti oggetti, ovvero si strutturano in piena indipendenza dal<br />

soggetto e che sia nei suoi, sia anche in un loro eventuale reciproco<br />

confronto, essi sono posti in un rapporto di completa esteriorità. Il<br />

modo di datità è indifferente; infatti, ad esempio, il rosso fuori di me segue<br />

le stesse leggi del rosso che immagino in me: entrambi mi sono “esterni”<br />

e indipendenti – basti pensare che non possiamo afferrare un rosso,<br />

senza nello stesso tempo afferrare una superficie e questo vale sia per il<br />

rosso percepito sia anche per il rosso puramente presentato nella<br />

coscienza.<br />

Si potrebbe ritenere che, seguendo i grandi progetti idealistici 178,<br />

l’esteriorità si possa ridurre ad una esteriorità solo temporale. Ma che<br />

questo “lì” sia un “lì” di natura “spaziale”, prima ancora di essere<br />

temporale, ci viene dimostrato proprio da un caso particolare di oggetti<br />

che, come si è visto, fanno parte dell’insieme degli oggetti ideali: gli<br />

obiettivi. Anche gli obiettivi, come tutti gli oggetti, sono “esterni”,<br />

85


stanno lì, sono cioè außerseiend, ma a differenza degli oggetti reali che<br />

sono inclusi in un flusso temporale, gli obiettivi, secondo Meinong, non<br />

hanno alcun rapporto col tempo: essi sono intemporali 179. Il che<br />

significa che il tempo è solo un modo dell’esteriorità e non quello<br />

fondamentale 180, infatti l’esteriorità temporale presuppone sempre<br />

quella spaziale. Pertanto, gli obiettivi rimangono “esterni”, pur non<br />

rientrando in alcun rapporto temporale fra di loro.<br />

Si è quindi giunti a riempire di significato la nozione di Außersein.<br />

Resta da vedere in che modo esso attiene agli oggetti. Cioè<br />

comprendere come è possibile “nei fatti” che ogni oggetto sia Außersein<br />

e possa quindi essere collocato spazialmente.<br />

c. Gli oggetti e la collocazione spaziale.<br />

Uno dei modi con cui Meinong descrive l’oggetto è la sua natura<br />

di essere un fascio di determinazioni di Sosein. L’oggetto è sempre così,<br />

è sempre determinato. E’ allora chiaro che il discorso generale che<br />

sopra si è condotto riguardo all’Außersein deve trovare una sistemazione<br />

178 Faccio riferimento a Kant, Heidegger e (in parte) allo stesso Husserl, autori<br />

per i quali il ruolo della temporalità svolge un ruolo trascendentale<br />

fondamentale.<br />

179 Meinong (1910): pag. 64, 76.<br />

180 Anzi per Meinong esso si riduce a momento soggettivo, un:<br />

“inserimento ingiustificato nella nostra concezione dell’esistenza<br />

di un momento del tutto soggettivo quale si palesa nella<br />

circostanza per cui ogni esistenza appare determinata come<br />

passata, presente e futura; mentre questa determinazione non è<br />

altro, ogni volta, che una relazione tra tempo del giudizio e tempo<br />

dell’oggetto, la quale per il reale in sé è altrettanto casuale<br />

proprio come per il medesimo è casuale se e quando esso è<br />

86


adeguata nei confronti di ogni singolo oggetto. Ma che cosa significa<br />

che ogni oggetto è dato lì, in che senso esso intrattiene dei rapporti<br />

spaziali?<br />

Per dimostrare questa attinenza intrinseca della determinazione<br />

spaziale alla strutturazione dell’oggetto vorrei fare riferimento ad una<br />

posizione filosofica che, per certi versi, è vicina a quella di Meinong:<br />

quella leibniziana.<br />

Ora, secondo Leibniz, si può dire che “di una cosa vi è una<br />

unica essenza, ma (che) vi sono più definizioni che esprimono la stessa<br />

essenza”, è però preferibile se “seguendo l’uso comune si dicesse che<br />

l’essenza dell’oro è ciò che lo costituisce e che gli dà quelle qualità<br />

sensibili che lo fanno riconoscere e fonda la sua definizione nominale,<br />

mentre ne avremmo la definizione reale e causale se potessimo spiegare la<br />

sua struttura interna” 181. La definizione nominale viene anche definita<br />

come “l’enumerazione delle note sufficienti” 182. Quando siamo in<br />

grado di esprimere una definizione nominale attorno ad una cosa o ad<br />

una nozione, ne abbiamo una conoscenza distinta 183 che può essere<br />

adeguata o inadeguata, intuitiva o cieca–simbolica. Il risultato è che, se<br />

conosciuto da chicchessia” in: Meinong (1899): pag. 457, trad. it.<br />

pag. 95.<br />

181 Leibniz (1765): trad. it. pag. 418; la definizione causale è quella che non solo<br />

ci permette di conoscere il “modo secondo il quale la cosa può essere prodotta”,<br />

(Leibniz (1684): trad. it. pag. 679), “ma mostra anche che i loro nessi reciproci<br />

non danno luogo a contraddizione”, cfr. Mugnai (1996): pag. 68.<br />

182 Leibniz (1684), trad. it. pag. 677; vengono dette distinte quelle idee che<br />

“sono ben distinte in sé stesse e (che) distinguono nell’oggetto i segni che lo<br />

fanno riconoscere, che ne danno l’analisi o la definizione”, Leibniz (1765): trad.<br />

it. pag. 380.<br />

183 La nozione distinta è una forma della conoscenza chiara (l’altra forma è la<br />

conoscenza confusa – quella che di solito si ha in forza solo di una percezione<br />

sensibile); alla conoscenza chiara si contrappone quella oscura, vale a dire, la<br />

87


si è in grado di avere una conoscenza adeguata (come è il caso della<br />

conoscenza dei numeri – che le si “avvicina fortemente”), cioè se si è<br />

“spinta l’analisi fino all’ultimo termine” 184, e in ciò non abbiamo<br />

utilizzato dei segni (il che ci assicurerebbe una conoscenza adeguata, sì,<br />

ma “cieca o simbolica”), bensì abbiamo proceduto solamente in forza<br />

di intuizioni (dato possibile però solo per le nozioni primitive 185 o<br />

distinte), allora otterremo una conoscenza perfetta. E’, questo, il motivo<br />

per il quale, un cieco 186, al quale si fossero date le definizioni esatte di<br />

una sfera e di un cubo e che avesse toccato entrambi i solidi, se di colpo<br />

riacquistasse la vista, sarebbe in grado di indicare, semplicemente<br />

vedendoli, quale dei due solidi è il cubo e quale la sfera 187. Ma forse<br />

ancora più significativo per i nostri intenti è questo ulteriore esempio: il<br />

chiliagono, per quanto impossibile da rappresentare, è definito dal fatto<br />

di avere mille lati. Una volta acquisita questa definizione, si può<br />

dimostrare “ogni sorta di verità” su di esso 188.<br />

Insomma, la conoscenza si svolge per Leibniz lungo il<br />

reperimento di note dell’oggetto, di sue determinazioni o proprietà, di<br />

suoi – in termini meinonghiani – Sosein 189. Noi conosciamo un oggetto<br />

conoscenza che non consente di riconoscere appieno la cosa rappresentata. Cfr.<br />

Leibniz (1684): trad. it. pag. 675-676.<br />

184 E se si è in grado di formulare una “definizione reale” a riguardo, cioè di<br />

mostrare che le determinazioni della nozione, non essendo tra di loro<br />

contraddittorie, rendono possibile la nozione.<br />

185 Le nozioni primitive sono o di ragione o di fatto. Di ragione sono le verità<br />

identiche (“che non sembra non facciano che ripetere la stessa cosa”), di fatto<br />

sono delle “esperienze immediate interne”. Leibniz (1765): trad. it. pag. 491-<br />

497.<br />

186 Si tratta del famoso esperimento di Molyneux.<br />

187 Leibniz (1765): trad. it. pag. 261.<br />

188 Leibniz (1765): trad. it. pag. 386.<br />

189 Il parallelo è stato già riconosciuto, cfr. Parsons (1978): l’autore ritiene che<br />

la teoria leibniziana sia un “frammento” della teoria degli oggetti (Parsons parla<br />

di “ontologia”) di Meinong: i due filosofi infatti concorderebbero proprio nelle<br />

88


se ne possiamo elencare le sue determinazioni. Questa è anche la<br />

prospettiva gnoseologica meinonghiana: un oggetto è conosciuto se è<br />

possibile enumerarne le determinazioni di Sosein. Inserita in questa<br />

convergenza di vedute, la trattazione che Leibniz fa dello spazio, dà<br />

degli spunti interessanti che possono servire al nostro intento di<br />

comprendere meglio in che senso gli oggetti sono collocati<br />

spazialmente.<br />

Secondo Leibniz, che ha come bersaglio polemico anche<br />

Newton e la sua concezione dello spazio come sensorium divino 190, non<br />

esiste uno spazio vuoto 191 ed esso è solamente l’ordine delle cose 192. Il<br />

che significa, ad esempio, che la collocazione del tavolo che ho di<br />

fronte non ha delle coordinate assolute, ma che essa si definisce in base<br />

a tutti gli altri oggetti, sicché, “se un nuovo coesistente acquista lo<br />

stesso rapporto che il primo aveva avuto con altri, si dice che è venuto<br />

al suo posto” 193. Ancora più chiaramente:<br />

“«posto» (place) è ciò che si dice essere lo stesso per A e<br />

per B, quando il rapporto di coesistenza di B con C, E, F,<br />

loro teorie su quelle che Parsons chiama “proprietà nucleari” dell’oggetto: cioè<br />

le sue determinazioni di Sosein o le sue “note”, sulle proprietà nucleari cfr.<br />

anche Parsons (1977).<br />

190 Che la natura dello spazio sia una questione che presenta una profonda<br />

rilevanza metafisica e non solamente un oggetto di discussione fisicomatematico,<br />

è ben messo in luce dalle implicazioni filosofiche dell’evoluzione<br />

di questa nozione nel periodo a cavallo tra il XV e il XVIII secolo. Cfr. Koyré:<br />

“From the closed World to the Infinite Universe”.<br />

191 Sarebbe allora interessante notare en passant come in fondo non ci sia una<br />

grossa differenza nel sostenere che “non esiste uno spazio vuoto” (Leibniz) e<br />

che “tutto è oggetto” (cfr. Meinong (1988b): pag. 68): le due espressioni<br />

sembrano essere quasi equivalenti.<br />

192 Non mi interesso qui degli argomenti di natura teologica.<br />

89


G, è perfettamente congruente con il rapporto di<br />

coesistenza che A ha avuto con i medesimi, supposto che<br />

non vi sia stata altra causa di cangiamento in C, E, F,<br />

G.” 194<br />

Lo spazio secondo Leibniz non è nulla in sé, ma è un ordine, un<br />

rapporto che le cose intrattengono le une con le altre, senza le quali<br />

quindi non ci sarebbe alcuno spazio (così come nessun tempo). Un<br />

punto interessante è inoltre che in questo rapporto non rientrano solo<br />

le cose, ma anche “i possibili” 195, cioè “tempo e spazio si riferiscono<br />

(anche) a possibilità indipendenti dall’esistenza” 196. Insomma lo spazio<br />

è una funzione del corpo e dei possibili 197, esso è costitutivo<br />

dell’oggetto nella misura in cui – diremmo – esso è una delle sue<br />

determinazioni di Sosein.<br />

Così, seguendo il pensiero leibniziano, riusciamo a determinare<br />

la collocazione spaziale come un momento costitutivo dell’oggetto. Se,<br />

cioè, riconduciamo la collocazione spaziale ad una determinazione di<br />

Sosein, allora, grazie alla scissione fissata dal principio di indipendenza<br />

tra Sosein e Sein, anche l’oggetto preso al di là della sua esistenza o<br />

sussistenza, cioè nella sua purezza, mantiene delle determinazioni di<br />

natura spaziale. Quindi, in forza del principio meinonghiano, secondo il<br />

quale anche un oggetto impossibile è a pieno titolo un oggetto, si può<br />

estendere la posizione di Leibniz, originariamente limitata agli oggetti<br />

193 Leibniz (1715-1716): trad. it. pag. 350.<br />

194 Leibniz (1715-1716): trad. it. pag. 350.<br />

195 Leibniz (1765): trad. it. pag. 274.<br />

196 Leibniz (1765): trad. it. pag. 278.<br />

197 Leibniz (1715-1716): trad. it. pag. 322.<br />

90


eali o possibili, anche a quelli impossibili, dal momento che anche ad<br />

essi ineriscono delle determinazioni spaziali di Sosein. Inoltre, sulla base<br />

di quanto si è scoperto riguardo all’Außersein, poiché si ritiene che esso<br />

sia – per così dire – la condizione di possibilità dell’essere oggetto,<br />

allora sarà solo grazie al fatto che un oggetto è dato lì (Außersein), che<br />

esso potrà essere caratterizzato da ulteriori determinazioni spaziali nei<br />

confronti di altri oggetti ed eventualmente nei confronti di un soggetto.<br />

Se questo discorso è facilmente applicabile a tutti gli oggetti<br />

reali 198, e per parte di quelli ideali (si pensi ad esempio alle figure<br />

geometriche), come poter connotare il Sosein spaziale di, poniamo, un<br />

obiettivo quale, ad esempio, “che la mela è rossa”? E’ cioè facilmente<br />

intuibile in che senso una mela stia lì fuori in modo indipendente<br />

(Außersein) ed anche in che senso una mela stia lì nei confronti, ad<br />

esempio, dell’albero da cui pende, ma è difficilmente comprensibile in<br />

che senso oggetti come “la mela” presa nella sua purezza o l’obbiettivo<br />

“che la mela è rossa”, siano spazialmente collocati, ovvero in che senso<br />

essi hanno una determinazione di Sosein spaziale. Insomma, in quale<br />

spazio si situa l’obiettivo “che la mela è rossa”, oppure l’oggetto puro<br />

“mela”?<br />

Per risolvere questa difficoltà, bisogna innanzitutto sottolineare<br />

come si siano venuti a determinare due significati di collocazione o<br />

determinazione spaziale: il primo che coincide con la datità e<br />

l’esteriorità dell’oggetto, cioè con il suo Außersein, e il secondo invece<br />

198 Per i quali le determinazioni di Sosein si strutturano in modo metrico.<br />

91


con il suo Sosein spaziale, cioè il suo essere elemento di un ordine<br />

spaziale 199. La prima è la condizione della seconda.<br />

Da quanto si è osservato, tutti gli oggetti sono portatori di<br />

Außersein ed in questo senso lo è quindi anche la “mela pura” (cioè data,<br />

esterna al soggetto ed a ogni altro oggetto) o l’obiettivo “che la mela è<br />

rossa”. Per quanto concerne invece la determinazione di Sosein, questi<br />

oggetti devono essere in un ordine spaziale che sia in grado di valere<br />

nonostante essi siano oggetti non esistenti o presi come non esistenti.<br />

Certo non si può ritenere che l’obiettivo “che la mela è rossa” si trovi in<br />

un qualche rapporto spaziale con l’obiettivo “che la mela è rotonda”. E’<br />

assurdo ritenere infatti che tra questi due oggetti possa valere un ordine<br />

spaziale inteso come quello vigente per gli oggetti fisici (anche se questo<br />

però non esclude il progetto di teorizzare un vero e proprio “spazio<br />

logico”, diverso da quello fisico 200). Ma senza discutere, o addentrarsi<br />

in, un progetto del genere, si può comunque argomentare sostenendo<br />

199 Per questo ho sempre virgolettato il termine “spazio” (e derivati) in<br />

riferimento all’Außersein, mentre quando riferisco tale espressione alla<br />

determinazione di Sosein lo lascio senza virgolette.<br />

200 Senza contare che una tale tesi è stata già elaborata da Wittgenstein nel suo<br />

Tractatus e non è un caso che, ad esempio, proprio di questo testo sia stato<br />

detto: “Le pagine iniziali del Tractatus sono Gegenstandstheorie pura e<br />

semplice, e il loro tedesco echeggia spesso quello di Meinong” in Ryle (1972):<br />

pag.8. La nozione di Sachverhalt (stato di cose) infatti ricorda da vicino quella<br />

di Objektive. Per evitare però di allargare troppo il mio lavoro, farò unicamente<br />

riferimento alla voce “logical Space (logischer Raum)” del Wittgenstein<br />

Dictionary di Glock; cfr. Glock (1996): pag. 220. Ora, secondo Wittgenstein<br />

l’esistenza contingente degli stati di cose è inserita in un ordine a priori di<br />

possibilità, per le quali è possibile parlare di uno “spazio logico”, infatti: “ci<br />

sono numerose dimensioni per l’analogia tra lo spazio e l’insieme di possibilità<br />

logiche”. Soprattutto quattro sono i punti presi in considerazione: (1) esiste un<br />

“luogo” (Ort) nello spazio logico, determinato da una proposizione; questo<br />

luogo (2) è garantito da una serie di coordinate (quanto noi abbiamo chiamato<br />

“determinazioni di Sosein”), come ad esempio l’esistenza dei suoi componenti;<br />

(3) lo spazio può essere occupato (pieno) o vuoto; ed infine (4) tale spazio è il<br />

campo di ogni possibile cambiamento o combinazione degli oggetti in fatti.<br />

92


che con almeno due elementi esterni (esterni in quanto portatori di<br />

Außersein) questo obiettivo entra in un ordine spaziale: innanzitutto con il<br />

suo infimum, cioè con l’oggetto che l’obiettivo prende come suo<br />

materiale (la mela), e poi con il soggetto che lo intenziona con un atto<br />

di giudizio. Con questi due elementi si dà insomma un ordine<br />

prospettico spaziale nel quale anche l’obiettivo si situa.<br />

Infine, per riassumere, l’Außersein garantisce quella esteriorità e<br />

indipendenza dell’oggetto che permette l’innestarsi, su questa<br />

esteriorità, di determinazioni di Sosein capaci di inserire l’oggetto in una<br />

griglia spaziale con altri oggetti o con un soggetto. Proprio perché due<br />

oggetti sono esterni l’uno all’altro, essi possono infatti entrare in una<br />

relazione spaziale.<br />

§10. Außersein senza oggetto?<br />

Ho cercato in questi ultimi due capitoli di dare una<br />

interpretazione unitaria del termine Außersein, dei suoi rapporti con<br />

l’oggetto, del modo con cui, a partire da esso, l’oggetto si può<br />

strutturare in quanto tale e di come, infine, ciò vada inteso, in prima<br />

istanza, in senso spaziale.<br />

Si ricorderà però l’oscillazione che Meinong mostrava nel<br />

trattare l’Außersein o come una nozione a sé (era la versione “non<br />

ufficiale”, che poneva il problema di un Quasisein come terzo modo<br />

d’essere), o come identificantesi con l’oggettualità dell’oggetto. La<br />

strada che io ho cercato di battere nei due capitoli precedenti era uno<br />

svolgimento della tesi “ufficiale” di Meinong: ve n’è una diversa?<br />

Inoltre, è proficuo parlare di Außersein in sé, ovvero senza fare alcun<br />

93


iferimento all’oggetto? Sulla base di alcuni elementi individuati nella<br />

trattazione precedente, ritengo di sì. Uno di questi è di sicuro il chiaro<br />

imbarazzo che si ha nell’usare espressioni quali «l’oggetto “è”<br />

Außersein», che di certo non è ancora una qualificazione adeguata del<br />

rapporto che vige tra Außersein e oggetto, dal momento che il primo<br />

non è una proprietà del secondo al pari di qualsiasi Sosein, visto che<br />

l’Außersein è la condizione grazie alla quale si struttura ogni Sosein. Un<br />

altro motivo, connesso col precedente, per il quale sarebbe auspicabile<br />

trattare l’Außersein sotto una diversa prospettiva, combacia con un dato<br />

intuitivo immediato: posto che l’oggetto per essere oggetto debba<br />

essere “dato lì”, esso dove starebbe?<br />

Certo, se già era lontano dalle tesi di Meinong il trattare<br />

l’Außersein come esteriorità spaziale dell’oggetto, non si può nascondere<br />

che lo sia ancora di più adesso cercare di battere una via che già nella<br />

prospettiva di Meinong era tentennante. Ma dal momento che ritengo<br />

filosoficamente più interessante e fruttuoso rendere produttivo un<br />

concetto, tentando di farlo reagire (come se si trattasse di una reazione<br />

chimica) con altri elementi, piuttosto che esporlo nella sua austerità,<br />

procederò oltre.<br />

Finora ci si è occupati dell’Außersein solo nella sua relazione con<br />

l’oggetto, ed è stato detto in breve che:<br />

i. l’oggetto, prima ancora di esistere, di sussistere o di essere, è<br />

dato; si situa cioè “al di là dell’essere e del non essere” (Jenseits<br />

von Sein und Nichtsein 201);<br />

201 Meinong (1988a): pag. 12; Meinong parla dell’oggetto puro in quanto<br />

Außersein come posto al di là dell’essere e del non essere.<br />

94


ii. questa particolare datità, per garantire l’indipendenza ontologica<br />

dell’oggetto da ogni soggetto e da ogni altro oggetto, deve essere<br />

connotata spazialmente;<br />

iii. l’oggetto, grazie al fatto di essere “fuori” ogni altro oggetto e<br />

ogni soggetto, determina attorno a tale datità i suoi Sosein; tra<br />

questi Sosein vanno elencati anche quelli che inseriscono<br />

l’oggetto in questione in una griglia ordinata spazialmente con<br />

tutti gli altri oggetti.<br />

Queste sono state le conclusioni delle analisi precedenti; sulla<br />

base di esse si provi adesso a ribaltare il punto di vista, lasciando<br />

momentaneamente da parte l’oggetto, come proponeva la tesi del<br />

Quasisein. Se infatti è stato detto che l’oggetto è tale sempre e solo se<br />

dato lì, allora che cos’è quel “lì” nel quale l’oggetto è essenzialmente<br />

dato? Dove si trova l’oggetto puro? Sembra delinearsi così un nuovo<br />

oggetto di analisi: uno spazio o un luogo all’interno del quale si<br />

situerebbe sempre l’oggetto puro; o meglio, visto il legame essenziale che<br />

vige tra le due nozioni, si propone all’analisi uno spazio, il collocarsi<br />

all’interno del quale rende oggetto un oggetto. Si è però sprovvisti degli<br />

strumenti teorici adatti per riuscire ad analizzare questo nuovo<br />

elemento. Il reperimento di tali strumenti passerà allora attraverso il<br />

riferimento ad argomenti filosofici contigui, ma maturati in un contesto<br />

di natura apparentemente diversa.<br />

Si ricostruisca adesso la struttura gnoseologica meinonghiana,<br />

per la quale il soggetto intenziona un oggetto per il tramite di un<br />

contenuto. Per quanto è stato detto, l’oggetto può anche non essere e<br />

ciononostante essere intenzionato. Questo grazie al fatto di essere dato<br />

95


lì, di essere esteriore al soggetto, che è propriamente l’unico modo<br />

perché l’intenzionalità si possa attivare.<br />

Esattamente da questo stesso punto di partenza inizia il lavoro al<br />

quale noi vogliamo riferirci per vedere se sia possibile analizzare<br />

l’Außersein al di fuori della considerazione del suo legame con l’oggetto:<br />

“Nella contemporanea gnoseologia si separa l’oggetto, il<br />

contenuto e l’atto e si spiega la relazione di questi elementi<br />

fra di loro” 202.<br />

Mi riferisco al testo “Luogo” di Nishida Kitaro 203. Trarre da<br />

questo autore gli strumenti teorici di cui si ha bisogno potrebbe<br />

considerarsi problematico: esso infatti implicherebbe il mettere in<br />

relazione due autori che a causa della loro lontananza geografica e<br />

culturale richiederebbero di per sé delle considerazioni preliminari, le<br />

quali andrebbero però a coincidere con l’intera filosofia interculturale e<br />

i suoi metodi. D’altra parte il presente lavoro non si interessa né di tali<br />

argomenti nello specifico né mira a delucidarli: l’unico suo intento è<br />

quello di proporre una lettura coerente dell’Außersein e lo stesso ricorso<br />

202 Nishida (1926): pag. 72; tutte le indicazioni di pagina di questo testo sono<br />

tratte dalla traduzione tedesca.<br />

203 Il cognome precede, secondo l’uso giapponese, il nome. Per una storia del<br />

pensiero di questo autore, nonché della scuola a cui fece capo in Giappone, cfr.:<br />

Pörtner/Heise (1995): pag. 347-356; Ohashi (1990): pag. 11-45, (1986): pag.<br />

121 – 134, inoltre i due numeri monografici dedicati a questa scuola: “Revue<br />

Philosophique de Louvain”, n. 4, 1994; e “Études phénoménologiques”, n.18,<br />

1993, oltre a Cestari (1996), una visione di più amplio raggio sulla filosofia<br />

96


a testi nishidiani viene eseguito unicamente nella speranza di trarne<br />

spunti ed impulsi volti a questo fine 204. Quindi non mi soffermerò su<br />

questi temi e discuterò di Nishida Kitaro come di un qualsiasi altro<br />

filosofo occidentale 205. D’altra parte, oltre che per la vicinanza dei<br />

problemi trattati, come la citazione precedente dimostra, sappiamo che<br />

Nishida aveva ben presente il lavoro dei brentaniani tanto da aver letto,<br />

tra gli altri, Meinong stesso e aver preso anche posizione con il pensiero<br />

dell’autore in alcuni passi 206.<br />

Ora, l’atto deve avere come oggetto qualcosa che gli è<br />

trascendente. E’ chiaro però che per riuscire ad afferrare tale<br />

trascendenza l’atto deve poter entrare in una qualche relazione con<br />

l’oggetto 207. Come è possibile? Secondo Nishida, una tale relazione è<br />

giapponese contemporanea – in particolare dell’era Meiji – è proposta da:<br />

Piovesana (1968).<br />

204 Il testo a cui faccio riferimento segna infatti solo un momento dell’intero<br />

sviluppo del pensiero dell’autore, che tradizionalmente viene riassunto in tre<br />

fasi. La prima è interessata all’elaborazione di una teoria della intuizione pura e<br />

viene fatta iniziare con la prima pubblicazione dell’autore (“Studio sul bene”,<br />

1911 – trad. ted. “Über das Gute”, 2001), la seconda mira a teorizzare, attorno<br />

alla scoperta della nozione di “luogo”, una “logica del luogo” (questa fase inizia<br />

nel ’26, proprio con il testo qui trattato), mentre l’ultima fase ha al suo centro<br />

soprattutto temi di filosofia della storia e della religione (1930 ca. – 1945); per<br />

questo sviluppo si confronti: Andolfato e Pasqualotto in: Nishida (1996) e<br />

Cestari in: Nishida (2001).<br />

205 Dando quindi per scontato che l’autore in questione sia innanzitutto un<br />

filosofo nel senso occidentale del termine, che si sia cioè interessato di quei<br />

problemi appartenenti a quella tradizione culturale nella quale si è sviluppata la<br />

filosofia così come è da noi conosciuta e, infine, che non ci sia alcun tipo di<br />

filtro, linguistico o concettuale, attraverso il quale debba passare la ricezione di<br />

tale autore e delle sue idee. Ma che questa serie di assunzioni non sia così<br />

lineare è dimostrato anche solo dalla travagliata introduzione di un equivalente<br />

giapponese che traducesse il termine “filosofia”; a riguardo, cfr. Marchianò in:<br />

Cestari (1996) pag. 7-23.<br />

206 Cfr. Nishida (1987): pag.72, 113, 114, 162, il testo è una raccolta di saggi<br />

incentrati su temi di gnoseologia dove l’autore fa più volte riferimento al testo<br />

“Über Gegenstandstheorie” del 1904.<br />

207 Questo è chiaro anche in base a quanto abbiamo scritto nei precedenti<br />

capitoli, se l’oggetto fosse preso unicamente nella sua valenza di Außersein, di<br />

97


esa possibile dal fatto che oggetto e soggetto si trovano nello stesso<br />

luogo. Questo luogo però, in quanto si deve fare carico anche di essere<br />

condizione dell’indipendenza dell’oggetto, non può essere<br />

semplicemente un soggettivo campo di coscienza, un puro<br />

Bewußtseinsfeld – esso è sì una prima forma con cui possiamo intendere<br />

questo luogo 208, ma:<br />

“Si accetti che l’oggetto trascende l’atto soggettivo ed è<br />

indipendente, allora il luogo dal quale l’oggetto oggettivo<br />

(objektiver Gegenstand) scaturisce non può essere<br />

soggettivo” 209<br />

Questo, in una certa misura, può essere confermato anche dalle<br />

analisi precedentemente condotte: esse, partendo dall’oggetto,<br />

concludevano che esiste, nell’oggetto, una determinazione di Sosein per<br />

pura esteriorità, senza avere la capacità di instaurare delle relazioni di Sosein<br />

con il soggetto, allora esso resterebbe sì oggetto, ma non si avrebbe alcuna<br />

possibilità di afferrarlo: esso resterebbe oggetto, ma fuori ogni attingibilità. Su<br />

questo punto Meinong mantiene tuttavia una posizione imbarazzante, per la<br />

quale all’oggetto non è essenziale l’essere afferrato, bensì il poter essere<br />

afferrato (cfr. Meinong (1988b): pag. 76). Ma ad es. il problema degli n corpi<br />

che trascende ogni possibilità cognitiva umana non può essere afferrato (è un<br />

compito troppo complesso per le facoltà umane), pur restando – al contrario di<br />

quanto Meinong in quel passaggio sembrerebbe affermare – un oggetto. E’<br />

possibile però risolvere la questione leggendo la “possibilità” in senso<br />

estremamente allargato, come “non contraddittorietà” (e, credo, così si dovrebbe<br />

intendere quella citazione): è logicamente possibile (e cioè non contraddittorio)<br />

afferrare la soluzione degli n corpi, quindi tale soluzione è un oggetto.<br />

208 “Noi possiamo inizialmente (zunächst) pensare questo luogo come questo<br />

campo di coscienza”, Nishida (1926): pag. 74.<br />

209 Nishida (1987): pag. 73.<br />

98


la quale esso si colloca in un determinato posto nei confronti di tutti gli<br />

altri oggetti, nonché di un soggetto:<br />

“Il luogo-in-cui (Ort-Worin), nel quale si trova l’oggetto,<br />

deve anche essere il luogo-in-cui, nel quale si trova anche<br />

la coscienza ”. 210<br />

Insomma, è solo grazie al fatto che oggetto e soggetto si trovano<br />

in un luogo comune che essi possono entrare in relazione tra di loro.<br />

Tra queste nozioni topologiche vige però una struttura articolata.<br />

Infatti, ogni oggetto “essente”, che è (sostituendo coi termini<br />

meinonghiani, che esiste o sussiste), per essere conosciuto da un<br />

soggetto, si colloca insieme ad esso in un luogo “essente”, nel luogo<br />

dell’essere, nel quale esso viene intenzionato dall’atto. Viceversa, un<br />

oggetto “negativo” come potrebbe essere “– 2” si colloca in un altro<br />

luogo, diverso da quello dell’essere, che si potrebbe chiamare luogo del<br />

non essere. Si prenda ora però il senso ampio di oggetto, per il quale<br />

anche un cerchio quadrato è un oggetto; il problema che esso comporta<br />

sarà: dove sta un cerchio quadrato? Esso si colloca “oltre” la dicotomia<br />

tra essere e non essere, non può quindi rientrare in un “luogo<br />

dell’essere”, dandosi in una regione ulteriore. E’ interessante a questo<br />

proposito notare come di fronte al problema meinonghiano di definire<br />

questo “oltre”, l’autore giapponese scelga una via diversa. In questo<br />

indubbiamente influenzato da una sensibilità differente rispetto a quella<br />

210 Nishida (1926): pag. 84.<br />

99


occidentale e parmenidea 211, alla domanda: “come poter comprendere<br />

qualcosa che è capace di stare al di là dell’essere e del non essere?” 212<br />

Nishida, al posto di decidersi per una ricerca mirata all’oggetto (come<br />

invece Meinong fa), investe frontalmente tale “qualcosa” e lo definisce<br />

nuovamente sì come “luogo”, ma come un luogo di maggior<br />

profondità paragonato a quello dell’essere o del non essere al di là dei<br />

quali esso si colloca: esso è, espresso in un linguaggio<br />

metafisicheggiante, il “vuoto” o il “luogo del nulla assoluto” 213.<br />

211 Basti pensare, da un lato, alle nozioni centrali di impermanenza e di vuoto<br />

della metafisica buddista che per così dire è il background culturale, dal quale<br />

Nishida prende le mosse. Dall’altro, bisogna ricordare che, per quanto Nishida<br />

non ammettesse nessun contatto tra le due sfere (in una lettera a Nishitani Keiji,<br />

suo amico e studente, appartenente alla scuola di Kyoto, Nishida scrive a<br />

riguardo di chi accostava la sua filosofia allo zen: “questa gente non capisce né<br />

lo zen né la mia filosofia”, in: Cestari (2001): pag. 10), il filosofo stesso<br />

apparteneva alla scuola zen Rinzai, la quale, insieme alla seconda scuola zen<br />

principale, la scuola Soto, fa un largo uso di categorie quali quelle di “vuoto” e<br />

di “nulla”, avendole mutuate dal taoismo cinese già prima del loro sbarco in<br />

Giappone nel XIII secolo (1191 la Rinzai, 1227 la Soto). Alla luce di questo<br />

paragone, non può essere allora la forza del pregiudizio in favore del reale (nella<br />

forma di un ontologismo parmenideo) che spinge Meinong a scontrarsi con un<br />

Außersein che, se visto in sé, non viene riconosciuto altrimenti che come un<br />

Quasisein?<br />

212 Nishida non parla di oggetti impossibili, ma si può considerare come un<br />

analogo della nozione di oggetto impossibile quella di koan, cioè della<br />

“domande, discussioni o storie impossibili”, che è una pratica di meditazione<br />

ricorrente nello zen Rinzai; un esempio di koan è la seguente discussione:<br />

“Monaco: come si può esprimere il silenzio?<br />

Maestro: io non lo esprimerò qui.<br />

Monaco: dove allora?<br />

Maestro: la scorsa notte, a mezzanotte, ho perduto tre soldi<br />

accanto al letto”<br />

Riportato in: Harvey (1990): pag. 153; cfr. anche Pasqualotto (2002): pag. 67.<br />

Se Meinong si è interessato al problema del senso per il quale si dice che un<br />

cerchio quadrato è un oggetto, si può dire che Nishida si è interessato alla logica<br />

che sottostà a formulazioni linguistiche come i koan.<br />

213 Un luogo dal significato certamente metaforico, dove si trova infatti il<br />

cerchio quadrato? La connotazione spaziale è palesemente solo metaforica, non<br />

si può infatti ammettere un vero e proprio spazio metrico per cose che non<br />

esistono o per fenomeni interni alla coscienza. Una stretta vicinanza si può<br />

riconoscere, (a riguardo, cfr. Elberfeld (1994)), con la “vendita dei sogni” che<br />

100


“Il vero nulla deve contenere in sé l’ente e il non ente<br />

(come contrapposto 214), esso è il luogo che lascia scaturire<br />

l’essere e il nulla”. 215<br />

Se l’Außersein (in quanto ciò che sta al di là dell’essere e del non<br />

essere) viene allora riconosciuto come “vuoto” o “luogo del nulla<br />

assoluto” (sono espressioni equivalenti), l’espressione “non essere”<br />

assume due significati. Il primo di questi è la negazione dell’essere, una<br />

pura contrapposizione negativa all’essere (poniamo: 2 e –2), che si<br />

colloca in fondo sullo stesso piano di ciò che nega (è il non essere che<br />

affianca l’essere, al di là dei quali sta l’Außersein), mentre il secondo<br />

significato assume un diverso valore, infatti esso non si pone più sullo<br />

stesso piano dell’essere come diretta negazione, bensì è quanto sottende<br />

sia all’essere che al non essere, ciò che li contiene entrambi, stando<br />

nello stesso tempo “oltre entrambi”. In questo Nishida giunge a<br />

riconoscere il cul-de-sac meinonghiano del Quasisein: se infatti si<br />

ponesse un terzo modo di essere, allora si riproporrebbe una sua<br />

smercerebbe la teoria platonica della khora, come di un terzo genere (triton allo<br />

genos) tra il mondo delle idee e quello del divenire, nel quale entrambi vengono<br />

collocati. Anche in quel caso Platone poteva argomentare solamente sul filo<br />

della metafora onirica:<br />

“Il terzo genere è quello dello spazio (khora), che non ammette<br />

deperimento e procura una sede a tutto quanto nasce, e si può<br />

afferrare senza la sensazione con un ragionamento illegittimo, a<br />

stento credibile, tenendo conto del quale noi vendiamo sogni e<br />

diciamo che necessariamente l’essere deve stare tutto in un luogo<br />

e possedere uno spazio, mentre questo non è possibile che si trovi<br />

né sulla terra, né in cielo”, Platone, Timeo, 52b.<br />

214 Questa “regione” ontologica viene anche definita “luogo del nulla relativo”,<br />

in contrapposizione con quella del nulla assoluto.<br />

101


negazione, che si collocherebbe tuttavia sempre sul medesimo piano 216,<br />

giacché:<br />

“Lo stesso nulla che nega ogni essere è ancora un tipo di<br />

essere, dal momento che esso è solo un nulla contrapposto<br />

[si intenda: “relativo” perché contrapposto ad un<br />

essere]”. 217<br />

Intendendo quindi il senso di “jenseits”, di “al di là”, come una<br />

collocazione “spaziale”, si può perciò sfuggire al gioco di posizione e di<br />

negazione, assumendo che l’unico modo per non ontologizzare<br />

nuovamente lo “jenseits” o lo “Außer-” sia comprenderlo nei termini di<br />

vuoto o di nulla radicale, quanto cioè contiene entrambe le sfere<br />

ontologiche. Così l’oggetto impossibile – insieme all’oggetto preso nella<br />

purezza – che non è né essere, né non essere, è nel vuoto. Esso, non<br />

rientrando né nel luogo dell’essere né in quello del non essere, si colloca<br />

all’esterno di entrambi, in un “fuori” che è quello delimitato dal<br />

“vuoto”, da quel (se si volesse coniare una espressione ibrida) luogo<br />

dell’Außersein che lo accoglie.<br />

Peraltro, anche il luogo dell’essere e quello del nulla relativi si<br />

pongono in esso, così da poter dire, conseguentemente con quanto<br />

rilevato nei capitoli precedenti sulla attinenza di ogni oggetto con<br />

215 Nishida (1926): pag. 81.<br />

216 Dando vita ad un circolo vizioso di infinite modalità di essere e di loro<br />

negazioni, cfr. §8.<br />

217 Nishida (1926): pag. 83.<br />

102


l’Außersein, che, come in un sistema di cerchi concentrici, tutti gli oggetti<br />

sono nell’Außersein 218, e di questi qualcuno rientra nello stesso tempo<br />

nel cerchio dell’essere, qualcun altro nel cerchio del non essere. Certo,<br />

si spiega così l’imbarazzo che spingeva a mettere sempre tra virgolette<br />

espressioni come «l’oggetto “è” Außersein», in questo modo si rischia<br />

infatti di ridurre l’Außersein ad una categoria ontologica; al contrario<br />

concependolo come un “luogo”, come “vuoto”, tale espressione si<br />

modificherebbe in una più adeguata «l’oggetto è nell’Außersein».<br />

Riassumendo, in questo modo si è stabilito che: per essere oggetto, ad ogni<br />

oggetto è sufficiente il suo darsi nell’Außersein, che poi l’oggetto sia (esista o sussista)<br />

o non sia, ciò è una determinazione ulteriore ed estrinseca, dipendente unicamente dal<br />

suo collocarsi ulteriore nei luoghi corrispondenti.<br />

Essere e non essere non sono però che due delle dicotomie che<br />

secondo Nishida vengono contenute nel “luogo del nulla assoluto”, in<br />

esso rientra ogni tipo di ulteriore dicotomia, come quella di forma e<br />

materia, di universale e particolare, quella intersoggettiva dell’io e del<br />

tu 219.<br />

Il parallelo con la posizione di Meinong sull’Außersein è allora<br />

lampante: per l’austriaco infatti l’Außersein comprende tutto e così viene<br />

descritto da Findlay (e, non a caso, con una metafora spaziale!):<br />

218 Mentre l’Außersein in quanto vuoto sarebbe un cerchio con il centro<br />

ovunque e la circonferenza in nessun posto, cfr. Nishida (1996): pag. 91-92; in<br />

questo riprendendo la “sphaera cuius centrum ubique, circumferentia nullibi” di<br />

Cusano, il quale peraltro sembra mutuarlo a sua volta dall’anonimo del Liber<br />

XXIV philosophorum, cfr. Koyré (1974): pag. 26 e la voce “Liber XXIV<br />

philosophorum” del “deutsche Literatur des Mittelalters – Verfasserlexikon”,<br />

(1985): Band V, pag. 767.<br />

103


“Il regno dell’Außersein non ha alcuna esclusione, ogni<br />

possibilità o impossibilità è compresa in esso […].<br />

Außersein è uno strano tipo di deserto nel quale non è<br />

possibile nessun progresso mentale, ma il deserto ha molte<br />

oasi […] tali oasi sono quindi il numero infinito dei mondi<br />

possibili che, stando a Leibniz, sono stati presentati alla<br />

scelta di Dio; ognuno di questi è interessante e altamente<br />

organizzato come il nostro universo, tuttavia noi non<br />

abbiamo né il tempo né l’ingegno (wit) per “pensarli” (think<br />

them out).” 220<br />

Lo stesso vale per Nishida, per lui infatti ogni “potenzialità”,<br />

ogni possibilità nel senso del termine usato dall’autore, per il quale<br />

anche un cerchio quadrato è ritenuto possibile, viene realizzata nel<br />

“luogo del nulla assoluto”, ovvero anche per lui tutto sta in esso, infatti:<br />

“Nel luogo del nulla contrapposto, così come nel campo<br />

di coscienza (nella psicologia), resta ancora una forma di<br />

possibilità (non realizzata). Nel luogo del vero nulla,<br />

invece, […] si esaurisce ogni possibilità (non ancora<br />

realizzata)”. 221<br />

219<br />

A questa è dedicato il testo del 1932, “l’io e il tu”, tradotto anche in italiano<br />

(1996).<br />

220 Findlay (1933): pag. 57-58.<br />

221<br />

Nishida (1926): pag. 103. Così che si potrebbe reciprocamente sostenere che:<br />

da un lato il quesito impossibile (koan) trova una soluzione nel luogo del nulla<br />

104


Ma dal momento che la nozione limite di Außersein sembrerebbe<br />

stare per qualcosa che non è oggetto, non si contravviene in questo<br />

modo all’assunto iniziale meinonghiano per il quale “tutto è oggetto”?<br />

Sembrerebbe di no, infatti considerarlo come vuoto è solo una<br />

“prospettiva di analisi” che cerca di garantire maggiore autonomia<br />

teoretica a questa nozione. D’altra parte, il legame di Außersein con<br />

l’oggetto, così fissamente saldato nei paragrafi precedenti, non viene<br />

meno: senza oggetto non ci sarebbe neanche un vuoto 222. Solamente<br />

grazie ad un oggetto possiamo scorgere il vuoto che esso sottende.<br />

Casi particolari di tale legame essenziale rispetto ad oggetti<br />

esistenti sono, ad esempio, innanzitutto l’articolazione percettiva in<br />

figura/sfondo, così lungamente studiata dagli studi sperimentali<br />

gestaltisti. Cos’è “lo sfondo di un oggetto” se non qualcosa che si<br />

“estende dietro”, vale a dire “oltre” l’oggetto 223, ma che effettivamente<br />

non ha esistenza propria? Anche quando si presenta alla coscienza un<br />

oggetto inesistente, se ne ha uno sfondo, esso per così dire si staglia<br />

nella nostra coscienza come qualcosa dietro al quale sta il suo sfondo,<br />

giustificando così la sua estraneità al soggetto che lo pensa. Un altro<br />

caso particolare può ancora essere il legame che unisce la presenza<br />

parassitaria di un buco, in quanto oggetto immateriale, e l’oggetto che<br />

ospita questo buco 224, o le rispettive relazioni di inclusione/esclusione<br />

assoluto o ha una soluzione in termini di Außersein, dall’altro il cerchio<br />

quadrato in quanto Außersein si dà in un tale luogo.<br />

222 Cfr. “il vuoto non è un’entità astratta, né un principio originario: perciò esso<br />

non si materializza in qualcosa di fisico, perché non c’è prima e oltre gli<br />

elementi fisici che lo mostrano”, in: Pasqualotto (2002): pag. 125.<br />

223 Kanizsa (1980): pag. 41.<br />

224 Cfr. Casati/Varzi (2002), soprattutto il par. “Lineamenti di una teoria”, pag.<br />

237-257.<br />

105


che vigono per il buco stesso. Volendo, ci si può esprimere sostenendo<br />

meinonghianamente che è possibile studiare il vuoto, esso è infatti, per<br />

quanto sui generis, un oggetto non esistente 225.<br />

Intendendo con “Außersein” una nozione come quella di “luogo”<br />

o di “vuoto”, per quanto superficialmente essa sia stata qui definita, si<br />

potrebbe dare insomma un ultimo fondamento alla teoria degli oggetti.<br />

Ogni oggetto cioè in quanto è “fuori”, esterno ad ogni altro oggetto e al<br />

soggetto, è allo stesso tempo immerso nell’Außersein, senza che ciò gli<br />

precluda di collocarsi anche nel luogo dell’essere o del non essere (di<br />

essere un oggetto esistente o sussistente, o la loro negazione).<br />

Ora, se la Gegenstandstheorie riesce a slegarsi da ogni valutazione di<br />

natura strettamente ontologica, l’Außersein è quanto le potrebbe<br />

assicurare una giustificazione ultima; ritengo che senza un principio<br />

sufficientemente saldo sul quale poggiare, essa rischia di disperdere le<br />

sue forze negli infiniti labirinti di difficoltà teoretiche che lo studio di<br />

ogni singolo tipo di oggetto avanza. Interpretare l’Außersein come vuoto<br />

significa allora semplicemente sottolineare, lungi dall’intricarsi in crampi<br />

metafisici, come l’oggetto in quanto tale alluda sempre a quanto gli sta<br />

dietro, vale a dire a qualcosa che propriamente non c’è, ma che si dà,<br />

per quanto, sempre e comunque, in presenza di un oggetto. Persino un<br />

oggetto inesistente apre attorno a sé il vuoto che lo contiene: è in esso<br />

difatti che si assemblano le determinazioni di Sosein che pure lo<br />

escludono dal regno della realtà e della idealità. Se venisse a mancare<br />

l’oggetto non si darebbe neanche il vuoto nel quale l’oggetto è<br />

225 Si intravede allora la possibilità di una “fenomenologia del luogo” così come<br />

essa è stata denominata da Ohashi: “il “luogo” fu formato (gebildet) nella<br />

filosofia da K. Nishida e portato ad una profonda comprensione; ma la<br />

106


posizionato. Ma in effetti esso è nulla, non si vede, non si tocca, non si<br />

gusta, eppure in esso si colloca tutto quello che si può vedere, toccare e<br />

gustare. Per questa nozione non valgono i rapporti logici tradizionali<br />

articolati in soggetto-copula-predicato; i suoi sono sempre dei rapporti<br />

di inclusione/esclusione, tutti di natura prettamente spaziale 226. Esso è<br />

– secondo il significato ideografico originario del carattere cinese che lo<br />

esprime (giapp. “mu”, cin. “wu”) – la stilizzazione di una balla di fieno in<br />

fuoco, che indica quanto resta dopo l’azione delle fiamme:<br />

propriamente, nulla, eppure, non semplicemente una negazione di<br />

essere, bensì il vuoto nel quale la balla prima era collocata, il vuoto che<br />

si apre nel momento della sua sopravvenuta mancanza 227. Si raggiunge<br />

in questo modo un fondo ultimo: l’oggetto indica il vuoto che lo<br />

contiene, pur non essendo nulla.<br />

formazione di categorie fenomenologiche per il “vuoto” rimane ancora un<br />

compito” in: Ohashi (1984): pag. 12.<br />

226 Secondo tali rapporti, ad esempio, la nozione generale è il luogo nel quale si<br />

può collocare o meno l’individuale (così come la qualità generale contiene la<br />

cosa); sullo studio di essi si basa il tentativo nishidiano di elaborare una “logica<br />

del luogo”. “Un particolare è ciò che giace all’interno dell’universale e<br />

l’universale è il basho (luogo) al cui interno giace un particolare” in:<br />

Pasqualotto: Nishida (1996), pag. 187.<br />

227 Pasqualotto (2002): pag. 6.<br />

107


PARTE QUARTA: CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE<br />

Alla fine di questo lavoro, vorrei riassumere brevemente la linea<br />

concettuale che tiene insieme e dà unità alle sue varie sezioni e nello<br />

stesso tempo fissare le conclusioni alle quali sono pervenuto.<br />

La prima sezione è incentrata sulla questione del contenuto in<br />

Meinong. Si è rilevato, da un lato come, grazie alla sua identificazione,<br />

l’autore è stato in grado di delimitare in modo preciso il confine fra lo<br />

psichico e l’oggetto, il mancato riconoscimento del quale avrebbe fatto<br />

involvere rapidamente il sistema in forme più o meno marcate di<br />

psicologismo o di idealismo; dall’altro, come il contenuto sia<br />

quell’elemento psichico che permette un accesso all’oggetto. Senza un<br />

contenuto, insomma, non ci sarebbe potuta essere una teoria<br />

dell’oggetto. E’ quindi solo dall’emancipazione dallo psichico che una<br />

teoria dell’oggetto può prendere le mosse.<br />

Nell’intento di esaurire tutti i significati che la parola Gegenstand<br />

assume nella sua teoria, Meinong elenca allora svariati tipi di oggetti,<br />

tutti con le proprie leggi e caratteristiche essenziali. Fondamentale per<br />

ognuno è però il cosiddetto principio di indipendenza, per il quale<br />

l’essere-così di un oggetto prescinde dal suo essere. Questo principio<br />

indica per un verso un procedere metodico per la teoria degli oggetti:<br />

essa deve porsi come disciplina che non contempla al suo interno alcun<br />

assunto esistenziale, e cioè come daseinsfrei. Dall’altro pone il problema<br />

degli oggetti impossibili, che sembrano involvere la teoria in un<br />

apparente paradosso, tali oggetti infatti “si danno, ma nello stesso<br />

108


tempo non si danno”. Per la soluzione di tale paradosso Meinong fa<br />

ricorso ad un elemento di grande importanza: l’Außersein.<br />

Si cercherebbe però invano nei vari testi di Meinong un<br />

riconoscimento univoco della natura di questo elemento. La trattazione<br />

dell’autore infatti oscilla tra due poli: quello di trattare questa nozione in<br />

sé, con il rischio di ridurla ad un terzo modo di essere, o quello invece<br />

di ancorarla all’oggetto, posizione teoricamente produttiva, ma che ha<br />

scarso mordente, dal momento che non viene definita ulteriormente.<br />

Il mio tentativo di lettura prosegue lungo queste due tendenze.<br />

Lungo la prima, ho cercato di mostrare, grazie ad un supporto<br />

metodologico alieno a Meinong, ma peraltro a lui vicino perlomeno nei<br />

fini che si ripropone, grazie cioè alla visione o variazione eidetica, come<br />

l’Außersein possa essere “visto” in termini di datità, esteriorità e<br />

indipendenza dell’oggetto nei confronti di ogni soggetto e di ogni altro<br />

oggetto. Imboccando questa strada, però, restava da spiegare come<br />

fosse possibile che queste esteriorità entrassero in relazione tra di loro.<br />

Il mezzo del quale mi sono servito per colmare questa lacuna è stata la<br />

nozione leibniziana dello spazio, secondo la quale lo spazio, lungi<br />

dall’essere un essere a sé, attiene agli oggetti essendone propriamente<br />

“l’ordine” che vige tra di loro. Conseguentemente, ogni oggetto viene<br />

fatto rientrare in questo ordine, ma sempre dopo averne realizzato la<br />

condizione primaria richiesta: vale a dire quella di essere “esterno” ad<br />

ogni altro oggetto.<br />

Lungo la seconda tendenza, mosso proprio dall’imbarazzo di<br />

dover utilizzare espressioni quali “l’oggetto è Außersein”, ho cercato di<br />

provare la liceità di una analisi che si rivolgesse in prima istanza<br />

109


all’Außersein, prescindendo, in una certa misura, dall’oggetto. In fondo,<br />

se l’oggetto “è lì”, esteriormente dato, dovrà pur essere dato in qualche<br />

luogo. Per trattare questa nuova nozione ho adoperato gli strumenti<br />

teorici elaborati da un autore lontano, Nishida Kitaro, ed ho proposto<br />

di considerare l’Außersein come vuoto, come qualcosa che non c’è, ma<br />

che si dà insieme all’oggetto. In questo modo, l’oggetto non “sarebbe<br />

Außersein”, bensì sarebbe “immerso” nell’Außersein; la relazione<br />

essenziale fra i due elementi verrebbe mantenuta, dal momento che<br />

l’uno non si può dare senza l’altro, ma così da permettere maggiore<br />

autonomia teoretica alla nozione di Außersein.<br />

Infine, spero col mio lavoro di aver contribuito a tutti quegli<br />

studi che negli ultimi anni, dalle prospettive più disparate, si adoperano<br />

per smentire quell’opinione diffusa per la quale:<br />

“la Gegenstandstheorie è morta, sepolta e non è prossima alla<br />

resurrezione” 228<br />

Al contrario, la teoria degli oggetti è una disciplina che ha ancora<br />

molto da proporre alla filosofia nei suoi molteplici interessi di ricerca.<br />

Forse e auspicabilmente essa non si presenterà più nei modi spesso<br />

troppo artificiosi e macchinosi con cui è stata messa in campo da<br />

Meinong, ma la sua geniale intuizione di fondo, quella per la quale,<br />

anche qualcosa che non c’è ha pieno diritto di studio, articolandosi<br />

anch’esso oggettualmente, in modo cioè indipendente da ogni soggetto,<br />

affida, a chi voglia intenderla, un enorme campo di studio, esteso oltre<br />

qualsiasi limite concepibile, già solo per il fatto che ogni limite<br />

considerabile altro non è che – un oggetto.<br />

228 Ryle (1972): pag. 7.<br />

110


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school of Alexius Meinong”, pag. 261-287, Aldershot, Ashgate.<br />

Meinong, Alexius* (1899): “Über Gegenstände höherer Ordnung und<br />

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trad. it. di Melandri, Enzo (1979): “Gli oggetti di ordine superiore in<br />

rapporto alla percezione interna”, pag. 29-111, Firenze, Faenza<br />

Editrice.<br />

- (1903): “Bemerkungen über den Farbenkörper und das<br />

Mischungssgesetz”, GA I, S. 495-575;<br />

- (1906): “Über die Stellung der Gegenstandstheorie im System der<br />

Wissenschaften”, GA V, pag. 197-365;<br />

- (1908): “Über Inhalt und Gegenstand”, GA VIII, pag. 145-160;<br />

- (1910): “Über Annahmen. Zweite umgearbeitete Auflage”, GA IV,<br />

pag. 1-384.<br />

- (1913): “Zweites Kolleg über gegenstandstheorethische Logik”,<br />

GA VIII, pag. 237-272;<br />

- (1913/1914): “Bemerkungen zu E. Husserls >Ideen zu einer<br />

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- (1996): “L’io e il tu”, a cura di Renato Andolfato con Postfazione<br />

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a cura di Peter Pörtner, Frankfurt am Main und Leipzig, Insel<br />

Verlag.<br />

- (2001): “Il corpo e la conoscenza; l’intuizione attive e l’eredità di<br />

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- (1986): “Zur Philosophie der Kyoto-Schule”, in: Zeitschrift für<br />

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Alber.<br />

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118

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