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Università degli Studi di Torino<br />
Facoltà di Lettere e Filosofia<br />
Corso di Laurea in Filosofia<br />
Tesi di Laurea in Filosofia Teoretica<br />
IL CONCETTO DI<br />
AUßERSEIN NELLA<br />
TEORIA DEGLI OGGETTI<br />
DI ALEXIUS MEINONG<br />
Relatore: Prof. Maurizio Ferraris<br />
Candidato: Alessandro Salice<br />
matr. num.: 9706874<br />
Anno Accademico 2001-2002
SOMMARIO<br />
§1. Introduzione. pag. 3<br />
PARTE PRIMA – IL CONTENUTO.<br />
§2. La novità del contenuto. pag. 6<br />
§3. Il contenuto in Meinong. pag. 11<br />
§4. Come intendere il contenuto. pag. 20<br />
a. Mereologia del contenuto. pag. 22<br />
b. La relazione di adeguazione. pag. 26<br />
c. Il contenuto come pura modificazione. pag. 30<br />
PARTE SECONDA – L’OGGETTO.<br />
§5. L’oggetto. pag. 33<br />
a. Excursus: il pregiudizio in favore del reale. pag. 39<br />
§6. Oggetti ideali e oggetti reali. pag. 42<br />
a. Oggetti ideali: gli oggetti di ordine superiore. pag. 45<br />
b. Oggetti ideali: gli obiettivi. pag. 46<br />
c. Seins- e Soseinsobjektive. pag. 53<br />
PARTE TERZA – L’AUßERSEIN.<br />
§7. L’Außersein in Meinong.<br />
a. Il paradosso. pag. 58<br />
b. L’involuzione nel paradosso e la soluzione<br />
meinonghiana. pag. 60<br />
§8. Cos’è l’Außersein? pag. 65<br />
§9. Estensione del concetto di Außersein.<br />
a. “L’essenza” della oggettività. pag. 74<br />
b. “Vedere” l’essenza. pag. 79<br />
c. Gli oggetti e la collocazione spaziale. pag. 86<br />
§10. Außersein senza oggetto? pag. 92<br />
PARTE QUARTA – CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE. pag. 107<br />
BIBLIOGRAFIA pag. 110<br />
2
§1. Introduzione.<br />
La produzione filosofica di Meinong si sviluppa in un periodo<br />
complessivo di circa cinquant’anni e potrebbe essere indicativamente<br />
suddivisa in una prima fase psicologista ed in una seconda fase logico<br />
realista 1; questa suddivisione si basa su un cambiamento della<br />
prospettiva teoretica dell’autore che però non coinvolge né gli interessi<br />
che lo muovono né il metodo dell’analisi 2, che nella sostanza<br />
rimangono immutati per tutto il suo periodo produttivo. Proprio a<br />
metà della sua produzione scientifica 3, con un saggio del 1899 che<br />
marcherebbe questo spostamento di prospettiva, “Über Gegenstände<br />
höherer Ordnung und deren Verhältnis zur inneren Wahrnehmung”, Meinong<br />
infatti modula i cardini della propria psicologia filosofica 4 sulla base di<br />
1 E’ la strada battuta dal libro di John Findlay, per molti versi divenuto un<br />
classico degli studi su Meinong, “Meinong’s Theory of Objects” (1933), che<br />
tratta della teoria degli oggetti proprio a partire dal 1899, sostanzialmente<br />
ignorando i contributi delle opere precedenti. L’iscrizione di Meinong nella<br />
storia del realismo logico è operata da Morscher (1972): pag. 78.<br />
2 In fondo, quella di Meinong è sempre rimasta una “filosofia dal basso”, come<br />
scrive Haller (1966: pag. 321) “cioè una filosofia che non trascura la pretesa<br />
(Anspruch) dell’esperienza” (cfr. anche (Haller): 1973: pag. 151). L’espressione<br />
“filosofia dal basso” è coniata dallo stesso Meinong (1988b): pag. 100.<br />
3 La prima pubblicazione scientifica – “Zur Charakteristik der »Gesinnungs-<br />
Philosophie« der Gegenwart” – GA VII, pag. 63-75, risale infatti al 1875<br />
mentre l’ultima “Zur Grundlegung der allgemeinen Werttheorie. Statt einer<br />
zweiten Auflage der »Psychologisch-ethischen Untersuchungen zur<br />
Werttheorie« “ – GA III, pag. 469-656, data 1923, facendo sì che anche<br />
temporalmente, e non solo filosoficamente, il saggio „Über Gegenstände<br />
höherer Ordnung und deren Verhältnis zur inneren Wahrnehmung“, (1899) –<br />
GA II, pag. 377-471, si collochi esattamente nel mezzo del lavoro teoretico<br />
dell’autore. Con l’abbreviazione GA si fa riferimento ai volumi delle opere<br />
complete (Gesamtausgabe) di Meinong.<br />
4 Espressione suggeritami da Findlay (1972): pag. 15: “Einige Hauptpunkte in<br />
Meinongs philosophischer Psychologie”.<br />
3
impulsi provenienti da un altro brentaniano, Twardowski 5,<br />
assegnandogli da un lato il ruolo di argomentazione dirimente contro lo<br />
psicologismo in filosofia, dall’altro la chiave di volta della futura<br />
Gegenstandstheorie 6. L’enfasi data a questo passaggio può essere più o<br />
meno accentuata e peraltro sarà Meinong stesso a riconoscere, nella sua<br />
penultima opera, la Selbstdarstellung, più che una frattura, una linea di<br />
continuità all’interno del suo percorso teoretico, leggendo nel testo del<br />
1899 solo una messa in chiaro di temi e metodi, appunto, già<br />
precedentemente affrontati:<br />
“(…) gli scopi della quale [della teoria degli oggetti], senza<br />
che ciò mi fosse chiaro, erano più o meno stati considerati<br />
in tutte le mie precedenti pubblicazioni (…).” 7<br />
In qualsiasi modo si legga complessivamente lo sviluppo di tale<br />
pensiero, resta comunque il fatto, a mio avviso peculiare, che<br />
5 In: “Zur Lehre vom Inhalt und Gegenstand der Vorstellungen”, Wien, 1894.<br />
6 La denominazione “teoria degli oggetti” (“Gegenstandstheorie”) viene usato<br />
per la prima volta nel saggio “Bemerkungen über den Farbenkörper und das<br />
Mischungsgesetz”, cfr. Meinong (1903): pag. 499<br />
7 in: Meinong: (1998b): pag. 59. Così Meinong scrive già nel 1899 ancor più<br />
esplicitamente, in un abbozzo di lettera a Max Heinze, che il suo scopo dagli<br />
Hume-Studien in poi era stato quello di elaborare una<br />
“teoria della conoscenza da fondarsi su una teoria degli oggetti, in<br />
particolare degli “oggetti di ordine superiore” (relazione e<br />
complessioni)”<br />
riportato nella introduzione di Haller a Meinong GA II: pag. VII.<br />
[Il sistema di citazioni è stato organizzato in modo che al nome dell’autore<br />
segua la data di pubblicazione del testo nell’edizione consultata o della sua<br />
eventuale traduzione in italiano. In quest’ultimo caso, verrà sempre indicata<br />
l’abbreviazione “trad. it.”, il che significa che tutti gli altri casi vanno intesi<br />
come traduzioni personali.]<br />
4
l’introduzione della differenza tra contenuto e oggetto, è una novità del<br />
testo del 1899 fortemente influente peraltro su tutte le opere successive<br />
del filosofo e che una corretta comprensione del tema dell’Außersein,<br />
che occupa una posizione centrale nella Gegenstandstheorie, non può non<br />
passare attraverso l’approfondimento e l’esplicitazione operata da<br />
Meinong della tripartizione twardowskiana 8. Infatti la corretta<br />
individuazione della componente psichica permette a Meinong di<br />
allontanare i rischi dello psicologismo, ovvero di emanciparsi da essa<br />
per tendere all’analisi della sfera oggettuale. Sarà allora come<br />
completamento del momento oggettuale che si svilupperà la teoria degli<br />
oggetti, i nessi interni della quale sono poi saldati dal concetto di<br />
Außersein.<br />
Ricapitolando quindi, in modo questa volta concettuale e non<br />
cronologico: si vuole prendere in esame il concetto di Außersein, che<br />
viene introdotto da Meinong unicamente in seguito all’esigenza<br />
manifestata dalla teoria degli oggetti di un perno sul quale basarsi. La<br />
teoria degli oggetti è però, a sua volta, un tentativo di complemento<br />
esaustivo del momento oggettuale, che scaturisce dalla necessità interna<br />
del modello psichico accettato a partire dal 1899 dall’autore. Con<br />
l’articolarsi quindi del sistema meinonghiano in una linea che a ritroso<br />
passa dal modello psichico proposto, alla teoria degli oggetti ed agli<br />
attinenti modi di essere, fino al modo “d’essere” ultimo, quello<br />
dell’Außersein, si traccia nello stesso tempo una via favorevole<br />
all’esposizione, che qui verrà seguita.<br />
8 Non è infatti un caso che ogni testo sulla teoria degli oggetti di Meinong debba<br />
5
PARTE PRIMA – IL CONTENUTO.<br />
§2. La novità del contenuto.<br />
L’introduzione della differenza tra contenuto e oggetto con il<br />
testo “Gli oggetti di ordine superiore in rapporto alla percezione<br />
interna” del 1899 segna in Meinong, come si è detto, la cosiddetta<br />
svolta logico-realista. Per comprendere di preciso cosa si intenda con<br />
tale svolta e da quale corrente di pensiero Meinong, col suddetto testo,<br />
si congeda, bisogna brevemente riferirsi al suo maestro, Franz<br />
Brentano 9.<br />
La celeberrima tesi di quest’ultimo, quella dell’intenzionalità,<br />
sostiene che:<br />
“Ogni fenomeno psichico è caratterizzato da ciò che gli<br />
scolastici medioevali chiamarono l’in/esistenza intenzionale<br />
(ovvero mentale) di un oggetto, e che noi, anche se con<br />
espressioni non del tutto prive di ambiguità, vorremmo<br />
definire il riferimento a un contenuto, la direzione verso un<br />
iniziare almeno con un riferimento a Twardowski, cfr. J.N. Findlay (1933) e<br />
Michele Lenoci (1972).<br />
9 Meinong seguì per più di quattro semestri le lezioni di Franz Brentano a<br />
Vienna e il pensiero di quest’ultimo lo marcò profondamente; per una<br />
valutazione complessiva dei rapporti, spesso conflittuali, fra i due personaggi,<br />
cfr. Dölling (1999): cap. II.3, pag. 25-41.<br />
6
obbietto (che non va inteso come una realtà), ovvero<br />
l’oggettività immanente” 10.<br />
L’intenzionalità come indice classificatorio per tutti i fenomeni<br />
psichici avrà molta fortuna fra i suoi allievi, tanto da acquisire quasi un<br />
valore di ovvietà 11, e andrà di pari passo con un’accettazione in larga<br />
parte consensuale della descrizione che Brentano ne fa con la classica<br />
individuazione di tre tipi di atti fondamentali e del loro gerarchico<br />
articolarsi: primaria tra i tre atti è la presentazione 12 (Vorstellung), su di<br />
essa si basa l’atto di giudizio (urteilen) ed infine sul giudizio si sviluppano<br />
i fenomeni di amore e di odio 13. Se questa teoria viene quindi recepita<br />
senza sostanziali modifiche sia da Twardowski che da Meinong e<br />
persino da Husserl, sebbene ognuno apporti approfondimenti più o<br />
meno rilevanti, non lo stesso si può dire sul problema che essa suscita a<br />
10 Brentano (1997): trad. it. pp. 154.<br />
11 Cfr. Coffa (1998): trad. it. pag. 143.<br />
12 Seguo qui l’uso di alcuni testi in lingua inglese che tendono a tradurre il<br />
termine tedesco “Vorstellung” con “presentation” visto che sembra essere più<br />
adatto ad una resa fedele del termine nel significato meinonghiano. Indicherò<br />
nel seguito tra parentesi se l’uso di “presentazione” si riferirà non a<br />
“Vorstellung” ma a “Präsentation”. In merito, trovo anche conferma da Marek<br />
(2001) che scrive a proposito di un suo articolo in inglese:<br />
“Il termine tedesco “Vorstellung” è reso con “presentation”, il<br />
suo verbo corrispondente “vorstellen” con “present”. L’impiego<br />
di Meinong di “Präsentation” e “präsentieren” viene anche<br />
tradotto con “presentation” e “present”, ma ciò verrà fatto<br />
notare. Nelle opere in inglese su Meinong si può trovare come<br />
traduzioni alternative di “Vorstellung” l’espressione “idea”<br />
(talvolta in Grossman e Findlay) e “representations” (in<br />
Heanue)” : Marek (2001): pag.261, nota 1.<br />
Anche la traduzione di Albertazzi (1997) della “Psicologia dal punto di vista<br />
empirico” segue questa traduzione, cfr. pag. XXVI; al contrario, Melandri, nella<br />
sua traduzione del testo del 1899, utilizza ancora il termine “rappresentazione”.<br />
Sulla specifica differenza della resa di Vorstellung con “presentazione” o<br />
“rappresentazione”, cfr. Nef (1998): pag. 139.<br />
7
iguardo del significato attribuito a termini quali “contenuto” e<br />
“oggetto”. Per riassumere il problema con Dale Jacquette:<br />
“La difficoltà con la tesi iniziale di Brentano sulla oggettività<br />
immanente è che essa sembra collocare il mondo reale oltre<br />
il raggiungimento del pensiero (beyond the reach of thought). Gli<br />
oggetti del pensiero, che con certe qualificazioni Brentano<br />
caratterizza anche come contenuti di pensiero,<br />
appartengono all’atto mentale stesso, sono contenuti al suo<br />
interno. Per prendere solo uno degli esempi di Brentano,<br />
nel desiderio qualcosa è desiderato, quindi il desiderio ha un<br />
oggetto intenzionale. Ma a quale categoria metafisica<br />
l’oggetto desiderato appartiene, dove esso è locato?” 14.<br />
La mancanza di una netta differenziazione tra contenuto e<br />
oggetto, insomma, fa involvere la visione brentaniana se non<br />
nell’idealismo, quantomeno nello psicologismo 15, dal momento che non<br />
si riesce a fissare in modo univoco lo status ontologico del quale è<br />
13 Brentano (1997): libro II, in particolare: cap. 2, 3, 4.<br />
14 Jacquette (1990/91): pag. 179-180.<br />
15 Intendendo qui per psicologismo ogni dottrina che riconduce all’attività<br />
psichica ogni correlato oggettuale. Cfr. Engel, (2000): trad. it. pag. 44:<br />
“Lo psicologismo designa generalmente una confusione fra ciò che<br />
è di natura non psicologica e ciò che si suppone (a torto) di natura<br />
psicologica. Più esattamente lo psicologismo è un certo tipo di<br />
spiegazione o di analisi di una nozione, di un insieme di fenomeni<br />
o di entità in termini psicologici, ovvero in termini di fenomeni o<br />
di entità che sono di pertinenza della psicologia, e questo tipo di<br />
spiegazione o di analisi è considerata illegittima”.<br />
8
portatore l’oggetto afferrato dall’atto e soprattutto se quest’ultimo sia<br />
riducibile o meno ad attività psichiche.<br />
Questo problema viene rilevato abbastanza presto e già nella<br />
“Logica” di Höfler, pubblicata sotto la supervisione di Meinong, una<br />
prima differenza tra contenuto e oggetto sembra farsi avanti, pena poi<br />
non essere mantenuta nel corso di tutta l’opera:<br />
“(1) Quello che sopra si è chiamata il “contenuto di una<br />
presentazione o di un giudizio” sta interamente entro il<br />
soggetto, come l’atto presentante o giudicante stesso. (2) Il<br />
termine oggetto è utilizzato in modo duplice: da un lato è<br />
utilizzato per ciò che esiste in se stesso, “la cosa in sé”<br />
attuale, reale…alla quale la nostra presentazione o giudizio,<br />
per così dire, si dirige. Dall’altro lato esso è usato per<br />
l’immagine mentale “in” noi, la più o meno accurata<br />
immagine di quella realtà, la quasi-immagine della quale (o<br />
piuttosto, il segno) è identico col contenuto menzionato in<br />
1. Per distinguere ciò dall’oggetto indipendente dal pensiero,<br />
si può anche chiamare il contenuto di una presentazione e<br />
di un giudizio (ugualmente: di un sentimento o di un atto di<br />
volontà) “l’oggetto immanente o intenzionale” di questi<br />
fenomeni mentali (…)” 16.<br />
16 Höfler (1890): pag. 7; è Marek (2001) a far notare come Höfler mutui a sua<br />
volta probabilmente da Zimmermann la vaga distinzione tra oggetto e<br />
contenuto: la terza edizione del suo testo “Philosophische Propädeutik ” (1867)<br />
infatti venne lungamente studiata e annotata da Höfler. Cfr. Marek (2001), pag.<br />
262-263.<br />
9
Sarà però Kasimir Twardowski nel 1894 con la sua opera “Zur<br />
Lehre vom Inhalt und Gegenstand der Vorstellung” a fissare questa distinzione<br />
e ad investirla complessivamente con una analisi filosofica. Per evitare<br />
di soffermarmi troppo su questa densa opera dirò solamente che<br />
l’individuazione del contenuto va di pari passo con alcune confusioni<br />
dovute al mancato riconoscimento del ruolo e della natura<br />
eminentemente psicologici del contenuto, a favore invece di una<br />
trattazione in termini di immagine/copia dell’oggetto (sull’uso dei quali,<br />
peraltro, l’autore stesso talvolta tentenna): il contenuto altro non<br />
sarebbe cioè che una copia o una immagine, nella mente, di ciò che<br />
l’oggetto è fuori di essa. Significativo a tal proposito è l’esempio che egli<br />
porta del rapporto tra il dipinto di un paesaggio e il paesaggio stesso,<br />
secondo il quale il paesaggio corrisponderebbe all’oggetto, e il dipinto<br />
del paesaggio al contenuto della presentazione. Esempio che, se verrà<br />
poi rifiutato nel corso dell’opera stessa 17, non gli impedisce peraltro di<br />
compiere l’errore di attribuire al contenuto caratteristiche proprie solo<br />
dell’oggetto 18, come ad esempio quella di una struttura mereologica.<br />
17 Scrive Twardowski:<br />
“Ciò che noi abbiamo notato in riferimento al termine “dipinto”<br />
nell’uso di un quadro e di un paesaggio, vale mutatis mutandis<br />
per la determinazione “presentato”, così come essa viene usata<br />
per il contenuto e per l’oggetto di una presentazione”,<br />
Twardowski (1894): pag. 14.<br />
Ed in seguito, a pag. 67:<br />
“ Sembra oggi una domanda generalmente risolta in senso<br />
negativo, quella se vada accettata o meno un tipo di similitudine<br />
fotografica tra contenuto e oggetto. ”<br />
18 Un altra interpretazione di lettura del contenuto in Twardowski si darebbe su<br />
base semantica, secondo la quale il contenuto sarebbe il senso (Sinn) fregeano e<br />
l’oggetto il significato (Bedeutung), cfr.:<br />
10
§.3 Il contenuto in Meinong.<br />
L’introduzione della differenza tra contenuto e oggetto operata da<br />
Meinong nel 1899 ha un procedere sistematico che si sviluppa<br />
esplicitamente in un ristretto numero di pagine 19. Essa viene mutuata da<br />
Twardowski, ma, dal momento che, a detta dello stesso Meinong, lo<br />
studio in questione non è rivolto in prima istanza alla discussione di<br />
questa distinzione tecnica, bensì allo studio degli oggetti di ordine<br />
superiore, l’autore non discuterà le tesi del collega polacco, ma si<br />
limiterà ad esporre le proprie 20.<br />
La trattazione inizia con la chiara adesione da parte di Meinong<br />
alla tesi dell’intenzionalità brentaniana:<br />
“Ovviamente la distinzione di Twardowski (…) è un tipo di<br />
parallelo psicologico della distinzione di Frege tra “Sinn” e<br />
“Bedeutung” dell’espressione nel linguaggio”<br />
in: Cavallin (1997): pag. 53.<br />
19 Nello specifico, unicamente nel secondo paragrafo della prima sezione:<br />
“Oggetto (Gegenstand) e contenuto”, Meinong (1899): 381. Questo terzo<br />
paragrafo è dedicato esclusivamente all’analisi di quei passaggi; ulteriori<br />
riferimenti al problema del contenuto in altre opere verranno riportati nei<br />
paragrafi successivi.<br />
20 Scrive Meinong in nota:<br />
“In proposito, molto stimolante e istruttivo è il lavoro di K.<br />
Twardowski, Zur Lehre vom Inhalt und Gegenstand der<br />
Vorstellungen, Wien 1894, al quale ci riferiamo qui in generale,<br />
essendo troppo dispersiva una sua dettagliata recensione”, in:<br />
Meinong (1899): pag. 381; trad. it., pag. 33.<br />
11
“Che a ogni fatto psichico sia essenziale avere un oggetto<br />
(Gegenstand), sarà concesso senza riserve per quanto riguarda<br />
ciò di cui qui ci occupiamo” 21.<br />
Se è quindi un fatto ovvio e scontato che l’atto psichico sia<br />
caratterizzato dal riferirsi ad un oggetto 22 (Gegenstand), non altrettanto<br />
ovvio per tale tesi è che nell’atto vi sia una differenza tra contenuto<br />
(Inhalt) e oggetto (Gegenstand). Continua infatti Meinong:<br />
“Si ammetterà parimenti di buon grado, probabilmente,<br />
anche che non esiste né rappresentazione 23 né giudizio<br />
senza contenuto: ma questo contenuto, nell’opinione di non<br />
pochi, si ridurrà all’ipotesi che contenuto e oggetto<br />
(Gegenstand) siano all’incirca lo stesso”. 24<br />
Meinong confessa di aver anche lui lungamente usato senza<br />
chiarezza le due espressioni, ma di essersi poi ricreduto e di ritenere<br />
quindi, al momento presente, inadeguato quell’uso iniziale. Si tratta ora<br />
di identificare nell’atto (è importante notare che Meinong assume nella<br />
21 Meinong (1899): pp. 381; trad. it., pag. 33.<br />
22 A causa dell’ovvio rischio di fraintendimenti che la parola “oggetto” può<br />
causare, traducendo egualmente le parole tedesche Objekt e Gegenstand,<br />
indicherò sempre tra parentesi nei passaggi che possono dare adito a tali<br />
confusioni a quale termine tedesco si sta facendo riferimento.<br />
23 Vd. nota 12.<br />
24 Meinong (1899): 381; trad. it. pag. 33.<br />
12
trattazione la presentazione come atto paradigmatico 25) un elemento a<br />
sé stante, differente sia dall’atto stesso che dal contenuto; per farlo<br />
bisognerà prendere in rassegna vari tipi di presentazione, metterli in<br />
luce, e scoprire innanzitutto se tale elemento si dia effettivamente e, in<br />
tal caso, di che natura esso sia.<br />
Il contenuto viene isolato in prima istanza con una prova diretta,<br />
per quanto riguarda i casi di presentazioni che abbiano come oggetto<br />
degli oggetti inesistenti (si vedrà come la denominazione “oggetto<br />
inesistente” sia in una certa misura fallace e con quale essa verrà<br />
sostituita da Meinong). Ovvero noi possediamo delle presentazioni che<br />
sono dirette a degli oggetti che hanno la particolare caratteristica di non<br />
essere, per una qualche ragione, esistenti. Di tali oggetti inesistenti<br />
Meinong propone una mappa quadripartita:<br />
i. il primo caso tratta di oggetti caratterizzati da una sorta di<br />
contraddizione interna (ad esempio: il quadrato rotondo) – e per<br />
questo intrinsecamente incapaci di esistenza – si vedrà nei capitoli<br />
seguenti quale importanza avrà l’analisi di questo tipo di oggetti<br />
per lo sviluppo successivo della Gegenstandstheorie;<br />
ii. il secondo di oggetti che di fatto (tatsächlich) sono inesistenti (come<br />
per esempio, la montagna d’oro), ovvero la cui inesistenza<br />
dipende unicamente da motivi empirici;<br />
iii. il terzo è il caso di oggetti quali “differenza” o “relazione” (poi<br />
chiamati oggetti ideali) – dei quali tratterò in seguito;<br />
25 Questa sembra essere causa di difficoltà per l’intendimento della natura del<br />
contenuto, soprattutto nella descrizione della sua struttura in termini<br />
mereologici. Tratterò in seguito di questi problemi.<br />
13
iv. ed infine il quarto caso si interessa di oggetti passati o futuri,<br />
quindi di fatto al momento non presenti, per quanto essi siano<br />
stati presenti, o possano esserlo in futuro.<br />
Di tutti questi oggetti noi abbiamo una presentazione, possiamo<br />
persino enunciare dei giudizi veri su di essa, per quanto i loro oggetti<br />
non esistano. Quindi, posto che le presentazioni di tali oggetti ci siano,<br />
come si può negare il fatto che tali presentazioni hanno degli specifici<br />
contenuti, ai quali esse si dirigono? Scrive Meinong:<br />
“(…) esiste dunque la rappresentazione [corrispondente].<br />
Ma chi vorrebbe sostenere, se non per amore di paradosso,<br />
che la rappresentazione sì, esiste, non però il suo<br />
contenuto?” 26<br />
Per quanto riguarda l’oggetto, bisogna porre attenzione alla<br />
differenza, ancora mantenuta da Meinong (a differenza di Twardowski,<br />
che rigetta interamente il termine scolastico di “immanenza”, usandolo<br />
solo più in riferimento critico alla teoria di Brentano), che corre tra<br />
oggetto trascendente (che nei casi qui considerati non esiste) e l’oggetto<br />
immanente, ovvero, scrive Meinong, tra la realtà (Wirklichkeit) e il puro<br />
presentato (das bloß Vorgestellte) 27. L’uso di Meinong di “oggetto<br />
immanente” indicherebbe di solito un oggetto interamente contenuto<br />
nella presentazione, appunto, non trascendente, ma l’utilizzo<br />
26 Meinong (1899): pag. 382; trad. it. pag. 33.<br />
27 Cfr. Meinong (1899): pag.383; trad. it. pag. 34.<br />
14
meinonghiano del termine non sempre è lineare lasciando adito ad una<br />
velata confusione tra il contenuto e l’oggetto immanente, dal momento<br />
che anche il contenuto è, per così dire, immanente all’atto, come infatti<br />
mette in luce Jacquette Dale:<br />
“Gli sforzi [di Meinong] per chiarificare l’esatto uso di<br />
queste espressioni è difficile da seguire, e i suoi ripetuti<br />
tentativi per raggiungere chiarezza confondono solo le cose,<br />
così che non si può non ammirare la decisione di<br />
Twardowski di metter da parte la terminologia e procedere<br />
solo con i nuovi termini chiarificati di “contenuto” e<br />
“oggetto” e con la distinzione tra oggetti dati nelle e<br />
attraverso le presentazioni.” 28<br />
28<br />
Jacquette Dale, (1990/91): pag. 186. Una possibile delucidazione può però<br />
venire da Marek (2001):<br />
“Il contenuto è qualcosa di immanente, ma usualmente non è un<br />
oggetto immanente nel senso che è un oggetto di una<br />
presentazione e che anche esiste nella presentazione. L’oggetto<br />
mentale diventa un oggetto immanente solo se è oggetto di una<br />
cosiddetta autopresentazione, cioè una esperienza riflessiva<br />
nella quale il contenuto in un certo senso presenta se stesso.”<br />
Marek, (2001), pag. 269.<br />
Marek sostiene che se è vero che il contenuto è sempre un elemento immanente<br />
all’atto (lo è infatti per definizione), non è detto che esso sia un “oggetto<br />
immanente”, che sia cioè intenzionato da un atto; lo sarebbe solo se divenisse<br />
l’oggetto di un particolare tipo di atto presentante detto di “autopresentazione”.<br />
I testi a cui però Marek fa riferimento sono tutti successivi a quello del 1899 e,<br />
peraltro, il caso specifico di un contenuto, oggetto di un’autopresentazione,<br />
verrà chiamato da Meinong “quasi contenuto” (Quasi-Inhalt), vale a dire né un<br />
contenuto né un oggetto immanente, lasciando così concludere che la<br />
confusione tra oggetto immanente e contenuto rimane e che il caso di “quasi<br />
contenuto”, più che chiarificare tale confusione, tratta di un caso particolare di<br />
15
Meinong mantiene quindi la differenza tra oggetto “immanente” e<br />
“trascendente”: nei casi sopra menzionati l’oggetto trascendente<br />
mancherebbe, ma sarebbe dubbio lo status dell’oggetto immanente, che<br />
esisterebbe tutt’al più “limitatamente alla presentazione”. Vista però<br />
l’assurdità di porre un genere di esistenza privilegiato proprio solo della<br />
presentazione (un “in der Vorstellung Existieren”), cosa che sarebbe una<br />
palese assurdità, Meinong preferisce parlare di tali oggetti come di<br />
oggetti “pseudoesistenti” e della loro forma di esistenza come di<br />
“pseudoesistenza”. In questa opera il termine “pseudoesistenza” viene<br />
usato per connotare quindi unicamente una esistenza “nella mente” 29.<br />
“«L’esistere nella rappresentazione» a rigore non è affatto un<br />
esistere, (…) allora per evitare fraintendimenti sarà<br />
vantaggioso tener per fermo che quella pretesa esistenza al<br />
massimo merita d’esser chiamata pseudoesistenza.”. 30<br />
E’ interessante a questo punto rilevare come la ferma esistenza<br />
del contenuto di fronte ad un oggetto, in questi casi tutt’al più<br />
pseudoesistente, sia anche un indice della sua funzione all’interno della<br />
presentazione: grazie ad esso, cioè, riusciamo a rendere “reali” (o<br />
meglio, a dirigere i nostri atti oltre che – come si vedrà – verso oggetti<br />
esistenti anche verso) oggetti pseudoesistenti. Ma non solo, l’analisi del<br />
quarto caso di oggetti non presenti, rende anche chiara una ulteriore<br />
presentazione, quello appunto, di autopresentazione – cfr. Meinong (1910): §43,<br />
pag. 264; (1917) § 1, pag. 291 e §6, pag. 328.<br />
29 Cfr. Meinong (1988a): pag. 11.<br />
16
funzione del contenuto, ovvero una certa capacità di “presentificare”<br />
l’oggetto della presentazione: per il suo tramite, infatti, oggetti passati o<br />
futuri possono diventare oggetti presenti all’atto che li ha di mira, anche<br />
se, certo, nella modalità particolare della “presentificazione” (sono<br />
oggetti passati “resi presenti all’atto”, non essendo presenti di per sé).<br />
Con la decisa affermazione della realtà del contenuto Meinong diverge<br />
tra l’altro dalla posizione di Twardowski, che esitava sulla sua reale<br />
esistenza 31, precisa infatti l’autore:<br />
“(…) i contenuti sono sempre altrettanto reali che le<br />
rappresentazioni, di cui sono i loro contenuti” 32<br />
Il passaggio all’estensione del contenuto per ogni oggetto nel<br />
meccanismo presentativo passa attraverso una considerazione di ordine<br />
diverso. Mentre, infatti, nei precedenti quattro casi, l’autore<br />
argomentava in forza dell’evidenza assicuratagli dalla effettiva<br />
possibilità di dirigere i propri atti psichici verso un oggetto<br />
pseudoesistente, dando così una prova diretta dell’esistenza del<br />
contenuto, a questo punto dell’analisi egli si deve accontentare di una<br />
prova indiretta. Si ammetta infatti la presentazione di un oggetto qualsiasi<br />
A, fisico, reale e presente, e poi la si confronti con la presentazione di<br />
un oggetto B dalle stesse caratteristiche (fisico, reale…) di A. In<br />
30 Meinong (1899): pag. 383; trad. it. pag. 34.<br />
31 Cfr. Twardowski (1894): pag. 31:<br />
“Per quanto esso [il contenuto] formi con quello [l’atto] una<br />
unica realtà psichica, mentre l’atto della presentazione è<br />
qualcosa di reale, al contenuto manca sempre la realtà (…)”.<br />
17
entrambe queste presentazioni esiste un momento comune, appunto,<br />
quello di essere presentazioni, cioè l’atto. Ma in esse si è per forza<br />
costretti ad accettare un elemento che si faccia carico della diversità<br />
degli oggetti presentati, difatti, non solo l’oggetto A e quello B sono<br />
diversi, ma anche la presentazione dell’oggetto A è diversa da quella<br />
dell’oggetto B. Questo elemento non può essere ovviamente l’elemento<br />
comune dell’atto né può essere l’oggetto, essendo questo chiaramente<br />
esterno all’atto che lo intenziona, e non interno alla corrispondente<br />
presentazione; si tratterà quindi di individuare una componente<br />
mediana tra l’atto e l’oggetto, ovvero il contenuto psichico 33.<br />
“Tali accadimenti psichici mostrano dunque tutti – a parte<br />
l’illimitata variabilità dell’oggetto (Gegenstand) – un momento<br />
a essi comune, appunto ciò in virtù di cui tutti sono<br />
rappresentazioni, che è poi il rappresentare, ovvero l’atto<br />
rappresentativo. D’altronde però le rappresentazioni, in<br />
quanto siano rappresentazioni di oggetti diversi, non<br />
possono esser del tutto eguali tra loro, (…) la diversità degli<br />
oggetti dovrà in qualche modo ricondursi alla diversità delle<br />
corrispondenti rappresentazioni. Ora ciò in cui le<br />
rappresentazioni di oggetti diversi – a parte la loro<br />
concordanza nell’atto – sono tra loro diverse, è appunto<br />
32 Meinong (1899): pag. 383; trad. it. pag. 34<br />
33 E’ interessante notare che esattamente la stessa preoccupazione muove il<br />
medesimo tipo di dimostrazione indiretta seguita da Husserl, allorché l’autore<br />
intraprende lo studio della materia di un atto intenzionale: cfr. Husserl (1900):<br />
V Untersuchung, pag. 434; trad. it. pag. 222; “oggetti che nella presentazione<br />
non sono nulla, non possono nemmeno differenziare una rappresentazione<br />
18
quel che esige d’esser chiamato “contenuto della<br />
rappresentazione” (…)”. 34<br />
Quest’ultimo argomento viene accompagnato dalla precisazione<br />
di ulteriori caratteristiche del contenuto. La prima è che si ha un<br />
contenuto anche di oggetti fisici e presenti. E’ ovvio allora, che il<br />
contenuto di oggetti fisici non può essere a sua volta fisico, bensì solo<br />
di natura psichica. Ciò ha come conseguenza il fatto che rappresentare<br />
un oggetto blu non comporta a sua volta un contenuto di colore blu:<br />
proprietà del contenuto “di questo tipo” 35 non vengano trasmesse al<br />
contenuto. E con questa ultima affermazione Meinong sembrerebbe<br />
lasciarsi alle spalle, questa volta in modo definitivo, la posizione<br />
twardowskiana che tendeva ad assimilare la descrizione del contenuto<br />
alla descrizione della rappresentazione.<br />
Infine l’interesse di Meinong si dirige, in conclusione del<br />
paragrafo, su quello che l’autore chiama il “motivo esterno” per il quale<br />
non si riesce nettamente a distinguere il contenuto. Esso consisterebbe<br />
nella natura del linguaggio che per Meinong significherebbe l’oggetto,<br />
pur esprimendo il contenuto 36, il che vuol dire, in sostanza, che il<br />
dall’altra (…)”. Per quanto alla “materia” husserliana non si possa sovrascrivere<br />
adeguatamente il “contenuto” meinonghiano.<br />
34 Meinong (1899): pag. 384; trad. it. pag. 35<br />
35 Meinong usa l’espressione “Attribute solcher Art” (Meinong (1899): pag.<br />
383), ma è difficile dire a quale tipo di attributo egli faccia propriamente<br />
riferimento. Stando agli esempi che porta sembrerebbe riferirsi solo alle<br />
cosiddette qualità secondarie, ma è dubbio che un elemento psichico possa farsi<br />
carico di qualità primarie. Questo problema è peraltro affine a quello presentato<br />
alla nota 25 e verrà ripreso e ridiscusso in seguito.<br />
36 Sul meccanismo della significazione mi soffermerò più profusamente nella<br />
seconda parte (cfr. §6, b.)<br />
19
linguaggio è dominato da un atteggiamento naturale che lo spinge a<br />
porre in risalto sempre l’oggetto e a far slittare il contenuto in secondo<br />
piano.<br />
§4. Come intendere il contenuto.<br />
La posizione del contenuto così come essa avviene nel 1899 resta,<br />
in Meinong, sostanzialmente immutata per tutto lo sviluppo successivo<br />
del suo pensiero. Ciò significa che essa, dal momento che rappresenta<br />
chiaramente una soluzione al problema dello “Zugang” – ovvero il<br />
contenuto assolve alla funzione di accesso all’oggetto (Gegenstand) nel<br />
larghissimo senso ad esso attribuito da Meinong – assumerà in seguito<br />
il ruolo di perno della Gegenstandstheorie. A ben vedere, quindi, non è<br />
l’esclusione dall’analisi filosofica di ogni riferimento alla sfera psichica a<br />
risultare dirimente per il successo di una teoria realista 37 e per evitare<br />
cadute di tipo psicologistico 38, dirimente è invece proprio la corretta<br />
individuazione di un elemento eminentemente psichico come il<br />
contenuto.<br />
37 Per “realismo” sia per ora da intendere unicamente quella<br />
“[…] disciplina, per la quale la logica (con inclusione della teoria<br />
della conoscenza) ha a che fare con certe categorie di oggetti, che<br />
sono realmente differenti tanto dai fenomeni psichici quanto dalle<br />
espressioni linguistiche”, in: Morscher (1972): pag. 69.<br />
Sulla reale collocazione della filosofia di Meinong all’interno di un concetto più<br />
allargato di quello di “realismo” (e sul concetto dello stesso Meinong a<br />
riguardo) si veda §5, a.<br />
38 Via battuta soprattutto dalla fenomenologia husserliana, in particolare, con la<br />
svolta trascendentale del 1913, anno di pubblicazione del primo volume delle<br />
Ideen; cfr. Husserl (2002).<br />
20
Ma se così è, non si può negare che esistano comunque alcuni<br />
fraintendimenti sulla natura del contenuto da parte di Meinong.<br />
Innanzitutto, come è stato fatto precedentemente notare, la discussione<br />
sul contenuto avviene quasi sempre nei termini di contenuto di<br />
presentazione. Questo, se da un lato facilita le cose, visto che Meinong<br />
è così in grado di porre il discorso su un piano di diretta evidenza, ad<br />
esempio con l’uso ricorrente di esempi, dall’altro le complica. Si<br />
inseriscono infatti, nell’argomentazione sulla presentazione e sul<br />
contenuto di presentazione, difficoltà e pregiudizi sulla natura della<br />
percezione, che finiscono per confondere i veri risultati, ai quali<br />
Meinong pare in effetti pervenire. La difficoltà primaria consiste nel<br />
fatto che Meinong, proprio come Twardowski, assume ancora un<br />
paradigma di spiegazione atomistico nella teoria della percezione 39. Tale<br />
posizione facilmente riconducibile agli empiristi inglesi (soprattutto in<br />
Locke 40) viene anche riconosciuta da Findlay:<br />
“Dobbiamo notare come Meinong soffra degli stessi<br />
pregiudizi atomistici [di Twardowski]; egli dedica un intero<br />
capitolo in Über Annahmen per cercare di venire a capo, con<br />
eroici tentativi, delle difficoltà connesse con la nostra<br />
apprensione di oggetti complessi” 41,<br />
39 Rilevare ciò non significa altro che, ancora una volta, sulla teoria percettiva di<br />
un autore si gioca sempre gran parte della “solidità” di un sistema filosofico.<br />
40 Autore per il quale si parla di una “visione del mondo polverizzata, ridotta ad<br />
un ammasso di idee semplici o qualità”, Viano: (2001), pag. XVI, in Locke<br />
(2001).<br />
41 Findlay (1933): pag. 17. Findlay fa qui riferimento all’ottavo capitolo di<br />
“Über Annahmen” – “Annahme bei Komplexen. Weiteres über das Meinen” –<br />
Meinong (1910): pag. 247-286.<br />
21
e consiste nell’idea che una presentazione complessa sia una<br />
sommatoria di presentazioni atomiche. Ora, secondo una spiegazione<br />
di questo tipo, quando si ha percezione di un oggetto complesso P,<br />
formato da a, b, c…, si avrà, utilizzando termini esemplificativi come ad<br />
esempio una funzione, f(P) = Σ (a, b, c…). Le conseguenze sono, a mio<br />
avviso, due.<br />
a. Mereologia del contenuto.<br />
In primo luogo, è chiaro che, in un contesto teorico del genere,<br />
quanto permette alla percezione di realizzarsi nel suo riferimento<br />
all’oggetto, ossia il contenuto, si dà nella forma complessa di una<br />
sommatoria di contenuti singoli per ogni a, b, c…fatto che allora<br />
giustificherebbe l’assegnazione di una struttura di tipo mereologico al<br />
contenuto. Prendiamo l’esempio discusso da Meinong:<br />
“Volendo per es. rappresentar l’oggetto “quattro noci”,<br />
l’operazione non si compirà facendo sì che nella mia<br />
percezione o immaginazione nei luoghi a, b, c, d, del mio<br />
campo visivo compaia ogni volta una noce, essendo questa<br />
rappresentazione […] non un collettivo obiettivo di noci<br />
rappresentate, bensì qualcosa in più: il risultato di una<br />
numerazione o comunque di una attività collettiva, e<br />
precisamente quel risultato che si costituisce come oggetto<br />
22
di ordine superiore sopra gli oggetti rappresentazioni-di-<br />
noce” 42<br />
Si tratta del famoso esempio che apre la strada alla discussione<br />
degli oggetti di ordine superiore. Meinong qui afferma che il gruppo di<br />
quattro noci non risulta da una pura enumerazione di rappresentazioni,<br />
poiché ad essa si deve sommare una “attività collettiva”, una<br />
“numerazione” capace di presentarci l’oggetto “quattro noci” (e non di<br />
“giudicare” che quelle che vediamo sono quattro noci). A prescindere<br />
per ora da quale sia la natura di questa attività e di quanto essa ci dia un<br />
risultato fedele all’oggetto, ci si trova qui in presenza di quello che<br />
Meinong chiamerebbe un caso di “coincidenza parziale” 43<br />
(Partialkoinzidenz), visto che la complessione delle quattro noci coincide<br />
con la relazione che si instaura tra le quattro noci: cioè tra i membri<br />
quattro noci a, b, c, d corre una relazione r che li rende membri anche di<br />
una complessione, di un tutto 44. Per quanto riguarda l’oggetto (Objekt)<br />
non mi sembra ci sia nulla da eccepire, ci sono quattro noci, che si danno<br />
nella forma di quattro noci, ci si trova giust’appunto davanti un oggetto<br />
42 Meinong (1899): pag. 388; trad. it. pag. 38.<br />
43 Perlomeno, così viene tradotto da Melandri (cfr. Meinong (1899): trad. it.<br />
pag. 39); non è escluso però che, sulla base di quanto tale principio sostiene,<br />
esso possa anche venir tradotto con “coincidenza delle parti”, considerato anche<br />
che in tedesco il termine “parziale” più che con “partial” si rende con “partiell”<br />
e che poco prima di introdurre il termine “Partialkoinzidenz” Meinong parla di<br />
“teilweise Identität”, traducibile propriamente con “identità parziale” (così che,<br />
in Melandri, viene persa la differenza tra “teilweise” e “partial” essendo resi<br />
entrambi con “parziale”).<br />
44 Questa intercambiabilità è espressa anche con il principio:<br />
“dove complessione, ivi relazione e viceversa”<br />
in Meinong (1899): pag. 389; trad. it. pag. 39.<br />
23
di ordine superiore. Ma si può applicare questo discorso al contenuto?<br />
Secondo Meinong sì:<br />
“E dalle considerazioni già fatte desumo il diritto di esigere<br />
questa coincidenza tra teoria delle complessioni e teoria<br />
delle relazioni tanto per i contenuti quanto per gli oggetti”. 45<br />
Esistono cioè dei contenuti psichici articolati in inferiora e<br />
superiora, organizzati in complessioni, tra i membri delle quali valgono<br />
delle precise relazioni. Nel già citato ottavo capitolo di Über Annahmen<br />
questa tendenza sarà ancora più esplicita, comparirà infatti il termine di<br />
“Teilinhalt” e le presentazioni saranno suddivise in<br />
“Vorstellungszusammenstellung” e “Vorstellungszusammensetzung” per<br />
denominare rispettivamente presentazioni dove i contenuti per un<br />
oggetto complesso siano “naturalmente dati” oppure siano dati in<br />
modo “relativamente artificiale” 46. Insomma,<br />
“Se, come Meinong ha mostrato, ci sono oggetti di ordine<br />
superiore, che si costituiscono su oggetti di ordine inferiore,<br />
allora deve darsi un corrispettivo dalla parte dei contenuti<br />
(…)”. 47<br />
45 Meinong (1899): pag. 390; trad. it. pag. 39<br />
46 Meinong (1910): pag. 254.<br />
47 Stock (1995): pag. 476<br />
24
Meinong giunge a queste conclusioni, a mio avviso, proprio<br />
perché soffre ancora di pregiudizi atomistici. Ma compiere<br />
un’operazione di questo tipo risulta, sulla base del testo stesso di<br />
Meinong, quanto meno problematico. Infatti se, come si è visto, un<br />
contenuto in forza della sua natura psichica non può essere né giallo, né<br />
blu, ma neppure, a quanto pare, quadrato o triangolare, profondo,<br />
concavo o convesso, avere insomma le caratteristiche di un oggetto,<br />
riducendosi esclusivamente alla modificazione psichica che l’oggetto<br />
causa in noi, allora non si spiega in che senso esso possa essere<br />
“fondato”, avere cioè parti, con dei rispettivi inferiora e dei superiora. A<br />
conferma di ciò va detto che il contenuto propriamente non è un<br />
oggetto (Gegenstand):<br />
“Ora però la non-identità di oggetto e contenuto emerge<br />
non solo quanto alla loro esistenza, ma anche non meno<br />
quanto alla diversità della loro natura (Beschaffenheit)” 48,<br />
e per questo motivo:<br />
“tra oggetto e contenuto regna una differenza categoriale” 49,<br />
48 Meinong (1899): pag. 383; trad. it. pag. 34.<br />
49 Findlay (1972): pag. 18.<br />
25
ma allora come può lo Inhalt farsi carico di una natura simile ad esso?<br />
b. La relazione di adeguazione.<br />
La seconda conseguenza è strettamente connessa alla prima:<br />
Meinong sostiene, discutendo l’esempio delle quattro noci, che<br />
l’oggetto di ordine superiore è il frutto di un qualche tipo di attività.<br />
Questo “tipo di attività” verrà chiamata produzione di presentazione<br />
(Vorstellungsproduktion) e costituisce forse uno dei maggiori contributi<br />
che la Grazer Schule abbia dato alla psicologia di fine ottocento 50. Con<br />
l’introduzione di questa attività psichica Meinong riesce a slegarsi dal<br />
paradigma della presentazione come copia (che, come si è visto, è<br />
ancora in campo con Twardowski), difatti se:<br />
“Tutto ciò che in loro [nelle presentazioni di percezione<br />
(Wahrnehmungsvorstellung)] non è sensazione (Empfindung)<br />
bensì presentazione, deve essere prodotto”. 51<br />
50 Influssi profondi sopravvivono anche in Italia, tramite i lavori di Benussi, e<br />
dei suoi allievi, Musatti, Metelli, Kanisza e, a tutt’oggi, Bozzi.<br />
51 Ameseder (1904b): pag. 489.<br />
26
allora l’oggetto non combacia con la presentazione come se fosse una<br />
copia, bensì esiste tra i due elementi uno scarto derivante dalla attività<br />
della “produzione”. Tuttavia nel promuovere la teoria della produzione<br />
di presentazione non si è abbandonato l’elementismo percettivo 52, al<br />
contrario, esistono proprio delle presentazioni elementari<br />
(Elementarvorstellung), ovvero delle sensazioni (Empfindungen) 53, sulle quali<br />
la attività di produzione si adopera per produrre delle presentazioni di<br />
percezione: il che vale a dire che per ogni presentazione elementare<br />
esiste un contenuto elementare.<br />
In che modo però, una volta assunto questo “scarto” tra l’oggetto<br />
e la presentazione di percezione, assicurare allora che il contenuto<br />
complesso sia fedele all’oggetto 54? Meinong accetta un certo tipo di<br />
corrispondenza tra oggetto (Gegenstand) e contenuto 55, ma questo non<br />
risolve il problema, infatti di che tipo di corrispondenza si sta parlando?<br />
“Meinong la chiama “relazione di adeguazione”<br />
(Adäquatheitsrelation) e la intende come una relazione ideale,<br />
ma oltre a ciò la caratterizza unicamente in modo negativo.<br />
Essa soprattutto non è una relazione di uguaglianza o di<br />
similitudine, non è un rapporto icastico (Abbildungsbeziehung)<br />
52 Cfr.: “Qui sta l’errore di Meinong, (…): cioè nel credere che gli ingredienti di<br />
strutture complesse possano essere ridotti agli elementi che li costruiscono”, in:<br />
Bozzi (1996): pag. 294.<br />
53 Ameseder (1904b): pag. 486.<br />
54 La domanda potrebbe essere riformulata nel senso di un teoria<br />
corrispondentista della verità: in che modo assicurare la corrispondenza della<br />
cosa e dell’intelletto?<br />
55 Si tratta per Meinong di una forma di relazione, nello specifico, di una<br />
relazione ideale. Cfr. Meinong (1899): pag. 398; trad. it. pag. 46 e inoltre<br />
Meinong (1910): pag. 265.<br />
27
e inoltre non è una relazione reale, per quanto sia illusoria<br />
anche una interpretazione causale”. 56<br />
Ma perché accettare che un tipo di relazione, quella ideale di<br />
adeguazione, debba sussistere tra l’oggetto e il contenuto? Infatti il<br />
contenuto non si pone sullo stesso piano ontologico dell’oggetto<br />
(Gegenstand), ed è difficile dire fino a che punto tra due elementi così<br />
eterogenei possa intercorrere una tale sorta di relazione. Meinong stesso<br />
ammette tali difficoltà con una rassegnata dichiarazione:<br />
“Come liberamente accada, che il rapporto di adeguazione<br />
(Adäquatheitsverhältnis) tra oggetto e contenuto sussista<br />
talvolta con grande somiglianza, tal altra con così grande<br />
dissomiglianza, di questo devo rimanere in debito di una<br />
risposta”. 57<br />
Credo che quanto faccia involvere l’autore in queste infinite<br />
difficoltà sia una sorta di metabasis eis allo genos, vale a dire il trattare il<br />
contenuto ancora come una sorta di “oggetto” nella testa. Una metabasis<br />
che si compirebbe in alcuni passaggi, ad esempio di Über Annahmen<br />
dove, in nota, Meinong riporta:<br />
56 Marek (1995): pag. 351.<br />
57 Meinong (1910): pag. 265.<br />
28
“oggetto è tutto l’afferrabile, quindi in particolare anche il<br />
contenuto, come risulta particolarmente chiaro nelle<br />
presenti circostanze, nelle quali ci stiamo occupando<br />
dell’oggetto “contenuto” già da tempo, afferrandolo e<br />
giudicandolo”. 58<br />
Ora, è chiaro che noi possiamo parlare del, e studiare il,<br />
contenuto nella nostra mente, “rendendolo” così un oggetto, ma questo<br />
non vuol dire che si sia ridotto realmente il contenuto in un oggetto 59.<br />
La questione, a mio avviso, si può risolvere con gli strumenti che<br />
Meinong stesso ci fornisce nelle sue opere: quanto riportato si pone in<br />
stridente contrasto con quanto lo stesso Meinong rimarca più volte,<br />
cioè che il contenuto è quel qualcosa di psichico che ci permette un<br />
riferimento all’oggetto e che, di conseguenza, si distingue da esso. Una<br />
riconferma di questo effettivo risultato nella trattazione del contenuto si<br />
trova in uno degli ultimi testi di Meinong Über emotionale Präsentation,<br />
dove l’autore si sente in dovere di dare una “precisazione del concetto<br />
di contenuto” (Zur Präzisierung des Inhaltsbegriffes) 60. Se infatti lo Inhalt è<br />
stato lungamente un “oggetto senza patria”, per parafrasare<br />
un’espressione dello stesso Meinong 61, in questo testo si colloca<br />
definitivamente il contenuto nella sfera psichica, più precisamente lo si<br />
58 Meinong (1910): pag. 267.<br />
59 In senso traslato potremmo prendere come analogia il problema kantiano<br />
della KdrV tra conoscenza di sé come fenomeno e come noumeno – cfr. KdrV<br />
B153, trad. it., pag. 175 e seg. – dove noi conosceremmo il contenuto<br />
fenomenicamente come oggetto, lasciando risiedere la sua noumenicità nel suo<br />
essere psichico.<br />
60 Faccio riferimento al paragrafo 7 del testo in questione.<br />
29
pone, per così dire, dentro il vissuto psichico (Erlebnis); dopo aver<br />
affermato il carattere metaforico dell’espressione “contenuto” 62, Meinong<br />
infatti scrive:<br />
“(…) l’oggetto è qualcosa di altro rispetto al vissuto<br />
(Erlebnis) che lo afferra o al vissuto adatto all’apprensione<br />
dell’oggetto. Ciò che io a suo tempo [nel saggio del 1899] ho<br />
utilizzato come “contenuto”, è in prima istanza un pezzo<br />
(Stück) di un tale vissuto (…)”. 63<br />
e propriamente quella parte che:<br />
“(…) è assegnata (zugeordnet) all’oggetto (Gegenstand) da<br />
afferrarsi con l’aiuto del vissuto, o meglio, all’oggetto<br />
immediatamente presentato (präsentiert) tramite il vissuto,<br />
così da rimanere costante o modificarsi con questo<br />
oggetto” 64.<br />
61<br />
Cfr. Meinong (1906): pag. 8, titolo della prima sezione: “Heimatlose<br />
Gegenstände”.<br />
62<br />
Meinong (1917): pag. 54.<br />
63<br />
Meinong (1917): pag, 55.<br />
64<br />
Meinong (1917): GA III, pag. 63.<br />
30
c. Il contenuto come pura modificazione.<br />
Per spingersi un po’ oltre il testo di Meinong, si potrebbe quindi<br />
pensare il contenuto in termini aristotelici 65 null’altro che una “specie di<br />
alterazione” (alloiosis tis) 66, vale a dire quella che si dà,<br />
“come (oion) la cera” che “riceve l’impronta dell’anello senza<br />
il ferro o l’oro: riceve bensì l’impronta dell’oro o del bronzo,<br />
ma non in quanto è oro o bronzo” 67.<br />
La contemporanea ricerca neurobiologica sembra essersi spinta<br />
più in là, ma nella sostanza tratta di un approfondimento dell’idea<br />
aristotelica, quando parla di “mappe neurali” 68:<br />
“Quando le particelle di luce, i fotoni, colpiscono la retina<br />
secondo una particolare configurazione collegata a un<br />
oggetto, le cellule nervose attivate in tale configurazione –<br />
65 E Findlay accetta questo paragone, cfr.:<br />
“Getta una qualche luce sulla teoria del contenuto e dell’oggetto il<br />
paragonarla con la posizione di Aristotele in merito alla<br />
sensazione” in: (1933): pag. 37. Cfr. anche Findlay (1973): pag.<br />
167.<br />
66 Aristotele, De Anima, B5, 416 b 35, trad. it. pag. 143.<br />
67 Aristotele, De Anima, B11, 424 a 20, trad. it. pag. 183.<br />
68 Un concetto, quello di “mappa”, che<br />
“(…) quando si discute di neurobiologia della mente è inevitabile<br />
e irresistibile quasi quanto rappresentazione”. Damasio (2000):<br />
trad. it. pag. 386.<br />
31
un cerchio o una croce, poniamo – costituiscono una<br />
“mappa” neurale transitoria. Anche a livelli successivi del<br />
sistema nervoso, per esempio nelle cortecce visive, si<br />
formano altre mappe collegate” 69.<br />
Dove a “mappa neurale” credo sia a questo punto possibile se<br />
non sovrapporre, quantomeno accostare, senza particolari rischi, il<br />
concetto di “contenuto”. Inoltre, la prospettiva neurobiologica può<br />
sostenere la nostra tesi anche da un altro punto di vista: giacché, dal<br />
momento che il riferimento ad un contenuto vale per Meinong per ogni<br />
tipo di oggetto (Gegenstand), ovvero anche per un oggetto che non sia<br />
direttamente presente, così dovremo trovare anche in questo caso una<br />
“specie di alterazione”, ed infatti:<br />
“Di conseguenza, anche quando stiamo “soltanto”<br />
pensando ad un oggetto, tendiamo a ricostruire ricordi non<br />
soltanto di una forma o di un colore, ma anche del<br />
coinvolgimento percettivo richiesto dall’oggetto e delle<br />
reazioni emotive di accompagnamento, per quanto lievi<br />
possano essere state. Mentre giacciamo immobili dopo<br />
un’iniezione di curaro o sogniamo a occhi aperti nel buio, le<br />
immagini che formiamo nella mente segnalano sempre<br />
all’organismo il suo coinvolgimento nell’attività di<br />
69 Damasio (2000): trad. it. pag. 387. Prescindo, qui, dal prendere posizione in<br />
merito agli intenti di Damasio in “Emozione e coscienza”.<br />
32
formazione delle immagini ed evocano qualche reazione<br />
emotiva”. 70<br />
A mio avviso, questo “coinvolgimento”, così come le “reazioni<br />
emotive di accompagnamento”, possono essere intese come un<br />
contenuto psichico, lasciando cadere problemi di natura metafisica,<br />
quali la struttura del contenuto o la sua adeguazione con l’oggetto: non<br />
esiste una struttura del contenuto, visto che si tratta solo di una<br />
modificazione che ci permette un accesso all’oggetto, e perciò non può<br />
neanche vigere propriamente una relazione di “adeguazione” tra un<br />
oggetto e la diretta modificazione che esso causa in un organismo, non<br />
ponendosi il contenuto sullo stesso piano ontologico dell’oggetto.<br />
PARTE SECONDA – L’OGGETTO.<br />
§ 5. L’oggetto (der Gegenstand).<br />
Dopo aver tracciato la possibilità primaria dell’accesso ad un<br />
oggetto da parte di un soggetto, ed averla fissata nei termini di un<br />
contenuto psichico, bisogna prendere in esame cosa Meinong intende<br />
con il termine “oggetto”. Capire l’ampiezza di significato che il termine<br />
Gegenstand acquisisce in Meinong è – in realtà – null’altro che<br />
condividere l’intuizione fondante del sistema dell’autore. Di fatto,<br />
70 Damasio (2000): trad. it. pag. 182/183.<br />
33
quello che il filosofo di Graz presenta nei suoi scritti è forse uno dei<br />
tentativi più ambiziosi, nella storia della filosofia, di spingere la scienza<br />
fino ai limiti estremi delle sue capacità: l’idea stessa di Gegenstandstheorie<br />
incarna, più di ogni altra, quella di una scienza assoluta, ai principi della<br />
quale tutto possa essere ricondotto. Appunto perché, per Meinong, tutto<br />
è un oggetto o è costituito da – oggetti. Questo, se da un lato è un<br />
punto di forza della disciplina in questione, dall’altro risulta essere<br />
problematico proprio per l’ampiezza che caratterizza il suo “oggetto”,<br />
poiché infatti:<br />
“per definire in modo fedele, cosa in prima istanza sia<br />
oggetto, manca sia un genere che una differenza, poiché<br />
tutto è oggetto”. 71<br />
Si tratta allora di comprendere cosa sia questo “tutto”, o la sua<br />
controparte, l’oggetto. Una primissima determinazione ci viene da<br />
Ameseder:<br />
“Ciò che un oggetto è, si lascia in primo luogo (zunächst)<br />
caratterizzare psicologicamente”. 72<br />
71 Meinong (1988b): pag. 68.<br />
72 Ameseder (1904a): pag. 53; Ameseder, del quale abbiamo riportato già alcune<br />
citazioni, in particolare al riguardo della Vorstellungsproduktion, fu studente di<br />
Meinong e, sebbene non abbia mai conseguito la Habilitation, contribuì, in<br />
particolare con il testo qui citato – Beiträge zur Grundlegung der<br />
34
“Psicologicamente”, cioè, ogni psichico è diretto a qualcosa,<br />
afferra qualcosa, che non è, di suo, neanche parzialmente, identico con<br />
lo psichico che lo afferra: questo afferrato (Erfaßtes) è un oggetto 73.<br />
Ovvero non si può non partire che da un piano psichico per avvicinarci<br />
poi gradualmente alle determinazioni dell’oggetto. E’ per questo motivo<br />
che ad un “primo livello” gli oggetti si possono catalogare attraverso il<br />
modo di afferramento; scrive Meinong:<br />
“Come il concetto di oggetto (Gegenstand) in generale,<br />
sebbene cum grano salis, può essere definito dall’afferrare<br />
(Erfassen), così le classi degli oggetti principali<br />
(Hauptgegenstandsklassen) possono essere caratterizzate dalle<br />
classi principali dei vissuti afferranti (erfassende Erlebnisse)<br />
(…). Alle quattro classi principali (…) del presentare<br />
(Vorstellen), del pensare (Denken), del sentire (Fühlen) e del<br />
desiderare (Begehren) si contrappongono le classi di oggetto<br />
degli oggetti (Objekte) 74, degli obiettivi (Objektive), dei<br />
dignitativi (Dignitative) e dei desiderativi (Desiderative), lo<br />
Gegenstandstheorie pubblicato nelle Untersuchungen zur Gegenstandstheorie<br />
und Psychologie (1904) – , all’elaborazione della teoria degli oggetti.<br />
73 Cfr. Ameseder (1904a): pag. 53-54.<br />
74 Si spiega così il possibile fraintendimento in italiano del termine “oggetto”<br />
che può intendere sia il Gegenstand che l’Objekt, anche Meinong si trova in<br />
imbarazzo di fronte all’uso di questo tipo di terminologia – scrive:<br />
“che in questo modo la parola Objekt abbia un senso più ristretto<br />
che la parola Gegenstand è un disguido (Übelstand)<br />
terminologico, che io sono stato in grado di eliminare unicamente<br />
non senza la più grossa artificiosità”; Meinong (1988b): pag. 70.<br />
35
specifico dei quali però non è costituito dai vissuti<br />
afferranti.” 75<br />
Quindi, se è vero che per Meinong “non ci sono criteri di<br />
ammissione delle classi di oggetti (…) giacché ogni riferimento<br />
effettuabile non può che rinviare all’ambito degli oggetti” 76, è però<br />
anche vero che dirimente per la definizione dell’oggetto non sarà il<br />
riferimento effettuabile, bensì solo l’oggetto stesso, perché la tavola<br />
degli oggetti che Meinong riporta va accettata solo “cum grano salis” 77.<br />
Esso non si riduce infatti al piano psicologico dell’afferramento,<br />
neanche in parte, tant’è che nel paragonare l’oggetto e l’afferrato<br />
75 Meinong (1988b): pag. 70; da notare che la mappa degli oggetti<br />
meinonghiana solo tardi si allarga e prende in considerazione anche dignitativi e<br />
desiderativi, in particolare solo dopo il testo del 1917 (Über emotionale<br />
Präsentation): in precedenza erano trattati solamente oggetti e obiettivi; motivo<br />
che spinge alcuni commentatori a parlare di una Urversion della<br />
Gegenstandstheorie (cfr. Reicher (2001): pag. 180), ovvero di una sua prima<br />
versione, fissata nei suoi tratti essenziali nell’opera collettanea curata da<br />
Meinong, “Untersuchungen zur Gegenstandstheorie und Psychologie”, che<br />
presenta oltre al già citato testo meinonghiano “Über Gegenstandstheorie”<br />
contributi da parte di allievi come Benussi, Ameseder, Mally. Per i miei scopi,<br />
poiché dignitativi e desiderativi, per così dire, aprono il capitolo della “teoria<br />
dei valori”, che io qui non prendo in considerazione, mi limiterò a esaminare le<br />
restanti due classi, oggetti e obiettivi.<br />
76 Brigati (1992): pag. 7.<br />
77 In fondo, non c’è alcuna ragione oggettiva per accettarla in toto, difatti in<br />
Über Annahmen Meinong deve ammettere che:<br />
“al momento non è conseguibile una evidenza razionale riguardo<br />
al fatto che la disgiunzione di tutti gli oggetti (Gegenstände) in<br />
oggetti (Objekte) e obiettivi sia completa” in: Meinong (1910):<br />
pag. 61.<br />
Ed infatti, con gli anni si sono annessi dignitativi e desiderativi secondo l’unica<br />
giustificazione possibile, quella psicologica, che però non può assicurare<br />
l’evidenza a priori richiesta dalla teoria degli oggetti, tant’è vero che persino<br />
nella teoria degli oggetti ampliata (ovvero con l’introduzione di dignitativi e<br />
desiderativi) Meinong tiene ancora aperta la possibilità dell’introduzione di<br />
36
dobbiamo per forza di cose assumere che l’estensione del primo è di<br />
gran lunga maggiore del secondo, poiché la relazione che permette ad<br />
un oggetto di essere detto “afferrato” da un soggetto, è solo una delle<br />
relazioni che lo caratterizzano 78, quindi:<br />
“l’oggetto in quanto tale deve essere determinabile<br />
indipendentemente da questa relazione [di afferramento]<br />
(…). L’indipendenza dell’oggetto si basa sul fatto che esso<br />
può essere, anche quando il contenuto afferrante non è e<br />
che esso eventualmente può non essere, quando il<br />
contenuto è”. 79<br />
Come si è visto, infatti, il contenuto deve per forza essere reale,<br />
di fronte all’oggetto, che può anche non esserlo e che anzi può<br />
benissimo essere (e questo è probabilmente il caso più frequente)<br />
quando l’atto non è. Il che si traduce nella banale constatazione che ci<br />
sono oggetti, anche se questi non vengono afferrati da noi 80. I due piani<br />
sono quindi, per così dire, sfasati, fuori fase, e solo talvolta si instaura<br />
una relazione tra essi. Si vedono quindi realizzati quattro casi:<br />
nuove classi fondamentali di oggetti, cfr. Meinong (1917): pag. 113 e Morscher<br />
(1973): pag. 182-183.<br />
78<br />
Cfr. Ameseder (1904a): pag. 54.<br />
79<br />
Ameseder (1904a): pag. 54.<br />
80<br />
Mi sembra, questo, un argomento irrinunciabile per ogni ricerca filosofica, in<br />
virtù della capacità di trascendentimento della propria realtà effettiva (del “Da-“<br />
nel proprio Da-sein) della quale la filosofia si fa promotrice (o, forse, della<br />
quale essa dovrebbe farsi promotrice). Se tutto fosse già in qualche modo<br />
conosciuto, dove si collocherebbe quella matrice taumastica di fronte al mondo,<br />
37
i. l’oggetto è reale e il contenuto corrispondente pure;<br />
ii. l’oggetto non è reale, ma il contenuto corrispondente è reale;<br />
iii. l’oggetto è reale ma il contenuto corrispondente non è reale;<br />
iv. l’oggetto non è reale e neanche il contenuto corrispondente lo è.<br />
Io ho utilizzato per questi casi la determinazione “è reale” come<br />
equivalente della copula del paragrafo precedente. Ma anche qui, questo<br />
termine non sembra mantenere lo stesso significato per il piano<br />
oggettuale o per quello psichico, mostrando uno sfasamento tra i due<br />
piani, infatti:<br />
i. nel primo caso si realizza l’eventualità molto comune della<br />
nostra vita quotidiana, ad esempio, vediamo qualcosa, un<br />
oggetto reale qualsiasi, come un tavolo, lo tocchiamo, ne<br />
predichiamo una qualche proprietà;<br />
ii. nel secondo caso, trattato già sopra, anche se l’oggetto non è<br />
reale, noi riusciamo ad afferrarlo, come ad esempio capita<br />
quando giudichiamo una relazione di uguaglianza;<br />
iii. questa è un’altra eventualità molto ricorrente, vale a dire un<br />
oggetto è reale, ma noi non lo afferriamo, perché non abbiamo<br />
alcun contenuto che ce lo permetta. Ad esempio, non vediamo<br />
ad occhi nudi tutti i batteri che vivono sulla nostra pelle, dal<br />
momento che nessun contenuto ci permette di afferrarli,<br />
essendo essi troppo piccoli;<br />
in prima linea sempre da scoprire e da incontrare, e che innerverebbe la<br />
filosofia stessa?<br />
38
iv. è il caso simmetrico ad i., ovvero non è reale l’oggetto e non è<br />
reale neanche il contenuto, ma questa simmetria è solo<br />
apparente, infatti dire che l’oggetto non è reale non è sinonimo<br />
qui dell’affermare che il contenuto non è reale.<br />
Insomma, dire che il contenuto non è reale equivale a dire che<br />
non c’è, non esiste, per un motivo qualunque (generalizzabile con l’idea<br />
che l’organismo non è stato in grado di modificarsi – per cause sue o<br />
dell’oggetto stesso – in modo tale da poter accedere ad un oggetto) 81, e<br />
ciò preclude l’accesso a qualsiasi oggetto. Mentre invece, che l’oggetto<br />
(Gegenstand) non sia reale, non significa che esso non si dia o che non ci<br />
sia. Giacché a reale non si contrappone, sul piano oggettuale, solamente<br />
il puro nulla, bensì anche l’ideale, o, il che è lo stesso, l’oggetto<br />
(Gegenstand) può essere sia reale che ideale. Riporta Meinong:<br />
“Ma l’interezza di ciò che esiste, comprensiva di ciò che è<br />
esistito e che esisterà, è infinitamente piccola paragonata<br />
all’interezza degli oggetti di conoscenza<br />
(Erkenntnisgegenstände); e che ciò venga lasciato così<br />
facilmente senza considerazione (unbeachtet lassen), trova<br />
certo la sua ragione nel fatto che l’interesse così<br />
particolarmente vivace per il reale, che si trova nella nostra<br />
natura, favorisce l’esagerazione (Übertreibung), per la quale il<br />
non reale viene trattato come un puro nulla (ein bloßes<br />
Nichts), nel quale il nostro conoscere non trova se non<br />
81 Per riassumere si può dire che lo psichico rientra tra gli oggetti (Objekte)<br />
reali: “i vissuti sono sempre oggetti (Objekte), mai obiettivi”, in: Meinong<br />
(1910): pag. 50.<br />
39
proprio nessuno, quantomeno nessun degno punto<br />
d’appiglio (Angriffspunkt)” 82.<br />
a. Excursus: il pregiudizio in favore del reale e la Gegenstandstheorie.<br />
L’uomo è insomma per sua natura orientato verso il reale, tende a<br />
pensare che esistono solo cose reali, cose che si possono toccare,<br />
guardare, gustare e via dicendo: tutto questo perché egli vive in un<br />
mondo nel quale i primi bisogni da soddisfare sono di tipo<br />
schiettamente naturale. Si tratta, per usare dei termini husserliani, del<br />
cosiddetto “atteggiamento naturale” (natürliche Einstellung) 83, che<br />
Meinong non stigmatizza, né attacca indiscriminatamente: in fondo la<br />
stessa Gegenstandstheorie mantiene delle posizioni ambigue nei confronti<br />
di questo atteggiamento. Da un lato, infatti, è stato da più parti<br />
riconosciuto la vicinanza di Meinong alle filosofie del “senso<br />
comune” 84, a causa soprattutto dell’analisi linguistica meinonghiana che<br />
si sofferma sulla possibilità naturale del linguaggio di esprimersi su (per<br />
es.) un cavallo alato o una montagna d’oro. Dall’altro, ne prende<br />
chiaramente le distanze con lo sforzo indefesso di muoversi contro quel<br />
“pregiudizio nei confronti del reale” (Vorurteil zugunsten des Wirklichen) 85<br />
82 Meinong (1988a): pag. 4.<br />
83 Cfr. Soprattutto: Husserl (2001): Libro I, sez. II, cap. 1.<br />
84 Cfr. Routley (1979): pag. 5; opinione condivisa anche da Findlay:<br />
“(…) Meinong si mantiene vicino all’intuizione dell’uomo<br />
comune. L’uomo comune sente che similarità, motivi (patterns),<br />
relazioni, numeri, sono in un qualche senso “veramente presenti”<br />
(…)” in: Findlay (1933): pag. 73.<br />
85 Meinong (1988a): pag. 3<br />
40
che larga parte ha avuto nell’impedire l’elaborazione di una completa<br />
teoria dell’oggetto 86.<br />
Per un verso, Meinong ammette che esiste già una “parziale<br />
teoria dell’oggetto”, la quale si proporrebbe di investire con le sue<br />
ricerche tutta l’ampiezza del reale, dell’esistente: la metafisica 87, la quale<br />
tuttavia ha una portata, anche sulla base della citazione precedente,<br />
appunto, solo parziale. Essa non riuscirebbe infatti ad ergersi al di sopra<br />
di ciò che esiste e riconoscere una validità a ciò che non esiste, non è<br />
reale. Dall’altro, a fianco della metafisica, per Meinong esisterebbero<br />
scienze, anche dall’alto livello di sviluppo, che si interessano e studiano<br />
oggetti inesistenti; è il caso ad esempio della matematica e della<br />
geometria (anche definite da Meinong wirklichkeitsfremde Wissenschaften 88<br />
– “scienze aliene, lontane dalla realtà”), che, difatti, non riescono a<br />
trovare una collocazione definitiva nella spartana dicotomia tra Geistes- e<br />
86 Un pregnante esempio dell’azione di questo pregiudizio è stato già dato nel<br />
riferire del comportamento del linguaggio nei confronti del contenuto:<br />
linguaggio che non riuscirebbe a significare il contenuto, perché già sempre<br />
diretto verso l’oggetto indicato dal contenuto e che per questo motivo manca di<br />
un apparato lessicale capace di denominare tale elemento psichico.<br />
87 Risulta a questo riguardo molto interessante il lavoro “Über Christian Wolffs<br />
Ontologie” (1910) di Evans Pichler, altro allievo di Meinong, che con grande<br />
chiarezza riscrive l’ontologia wolffiana in termini di teoria degli oggetti. La tesi<br />
principale è la seguente:<br />
“Ens significa in Wolff – e già negli scolastici – semplicemente<br />
cosa (Ding) o oggetto (Gegenstand). Quindi l’ontologia è<br />
secondo la definizione wolffiana la scienza degli oggetti in<br />
generale, senza riguardo all’essere o al non essere. Questa<br />
traduzione di ens viene fissata dapprima dalla metafisica tedesca<br />
di Wolff, dove ens viene tradotto senza mezzi termini con “cosa”<br />
(Ding). La precedenza dell’espressione “oggetto” (Gegenstand)<br />
su “cosa” inizia invece per la prima volta con la KdrV” in Pichler<br />
(1910): pag.3<br />
Nelle pagine finali del libro, Pichler prende poi anche in considerazione la<br />
posizione kantiana in merito, riferendo come la logica trascendentale altro non<br />
sia, a suo avviso, che lo schizzo di una ontologia – nel senso però di una teoria<br />
degli oggetti. Cfr. Pichler (1910): pag. 73 e seg.<br />
41
Naturwissenschaften 89, ma che, nondimeno, vengono classificate da<br />
Meinong come pezzi di teoria degli oggetti 90.<br />
Se però matematica e geometria già raggiungono il piano<br />
dell’idealità 91, rimangono pur sempre in quello della possibilità,<br />
precludendosi così lo studio dei cosiddetti oggetti impossibili.<br />
Mancherebbe quindi una scienza generalissima preposta allo studio<br />
allargato anche degli oggetti impossibili 92 oltre che dei numerosissimi<br />
altri oggetti “senza patria” (heimatlose Gegenstände, l’espressione è dello<br />
stesso Meinong 93): si tratterebbe della Gegenstandstheorie, che però,<br />
nuovamente, con l’abbattimento del pregiudizio del reale non si<br />
ripropone l’esclusione dell’esistenza e del reale dal suo bacino 94, bensì<br />
solo un allargamento esponenziale del bacino stesso, capace di<br />
estendersi fino a comprendere l’oggetto in quanto tale. Diventa quindi<br />
chiaro sulla base di queste semplici annotazioni come la definizione di<br />
“realista” o di “realismo” per la filosofia meinonghiana risulti<br />
quantomeno scomoda, foss’anche solo perché “realismo”, in Meinong,<br />
assume chiaramente il significato di “parzialità” 95.<br />
88<br />
Cfr. Meinong (1988a): pag. 6.<br />
89<br />
Cfr. Meinong (1988a): pag. 7.<br />
90<br />
Cfr. Meinong (1988a): pag. 27.<br />
91<br />
Oggetto di matematica e geometria sono infatti “oggetti ideali di ordine<br />
superiore”, cfr. Meinong (1906): pag. 246.<br />
92<br />
Approfondirò gli oggetti impossibili alla fine di questa parte.<br />
93<br />
Meinong (1906): pag. 214.<br />
94<br />
Dato che invece varrebbe per l’epoché husserliana per la sua pretesa di metter<br />
tra parentesi l’elemento reale ed esistente e contemplarlo unicamente nella sua<br />
purezza fenomenologica.<br />
95<br />
Che il concetto di “realismo” stia troppo stretto alla Gegenstandstheorie viene<br />
peraltro riconosciuto anche dallo stesso Meinong, cfr. Meinong (1988b): pag.<br />
104. E a qualcosa di simile a questa parzialità (dove però l’asse era tutto<br />
spostato dall’altra parte, ovvero verso l’idealismo), Schelling cercò di far fronte<br />
con la denominazione del proprio sistema, nelle opere giovanili, di “idealrealismo”.<br />
Cfr. Schelling (1997): pag. 141.<br />
42
Ricapitolando, è stato grazie ad una considerazione psicologica,<br />
quella dello sfasamento tra il piano psichico e quello oggettuale, che si è<br />
infine giunti ad una prima determinazione puramente oggettiva, quella<br />
di ideale/reale, sulla quale mi soffermerò prima di procedere nelle<br />
ulteriori determinazioni dell’oggetto.<br />
§6. Oggetti ideali e oggetti reali.<br />
Servirebbe forse una giustificazione iniziale che permetta di<br />
spostarsi dal parlare di “oggetti” e “tipi di oggetti” al parlare di “essere”<br />
e “modalità di essere” e viceversa, ma Meinong, peraltro sempre<br />
estremamente attento all’elaborazione di una precisa e univoca<br />
terminologia, non sembra dare grosso rilievo a questa problematica,<br />
utilizzando in modo sostanzialmente equivalente “essere ideale o reale”<br />
con “oggetto reale o ideale”. Si vedrà però come questa oscillazione, a<br />
questo livello ontologico ancora implicita, porterà a delle grosse<br />
tensioni argomentative nelle pagine che il filosofo dedica alla<br />
descrizione dell’Außersein, dove il problema balzerà in primo piano. Per<br />
ora, anche seguendo l’uso stesso dell’autore, passerò, senza soffermarmi<br />
ulteriormente sulle ragioni di questo passaggio, dal discorso sugli<br />
oggetti reali e ideali a quello sull’essere ideale e reale.<br />
Come si è visto, il verbo “essere” in Meinong assume molti<br />
significati, secondo la tradizionale dizione aristotelica per la quale “einai<br />
43
pollakos legetai” 96, esiste cioè un significato allargato di essere per il quale<br />
è essere sia quello ideale che quello reale, ne esiste poi uno ristretto per il<br />
quale essere coincide con essere reale. Infatti, se nella sfera degli oggetti<br />
il non reale (Nichtwirkliches) non è sinonimo di “niente” (Nichts), poiché<br />
può voler dire “ideale”, allora potremmo parimenti dire che il reale<br />
(Wirkliches) non combacia perfettamente con l’essere (Sein), dal<br />
momento che anche l’ideale è “essere”. Se però si vuole assegnare al<br />
reale una forma ristretta di essere, questa allora verrà detta esistenza<br />
(Existenz). Ma quale forma ristretta di essere potrà venir assegnata<br />
all’ideale? Evidentemente, Meinong si trova di fronte al problema di<br />
riuscire a definire lo status ontologico di cui l’ideale si fa portatore: se,<br />
infatti, esso è, in un qualche senso, quale sarà questo senso? La risposta<br />
ci viene data con l’introduzione di un nuovo termine – quello di<br />
sussistenza o Bestand. Con l’introduzione di questa nozione Meinong<br />
riesce a collocare all’interno dell’essere anche oggetti in senso stretto<br />
non reali – è il caso degli obiettivi; Meinong utilizza spesso una<br />
citazione di Ameseder 97, nella quale l’autore scrive:<br />
“Anche l’essere ha essere, così esso è per esempio o<br />
un’esistenza (Existenz) o un sussistere (Bestehen). Quegli<br />
oggetti (Gegenstände), che sono essere e hanno essere, sono<br />
essenzialmente altro da quelli che hanno essere, ma che<br />
non sono essi stessi essere. Quegli oggetti, che sono essere<br />
e che si riconoscono nell’espressione linguistica attraverso<br />
96 Aristotele: Metafisica, Γ, 2, 1003a, 33; trad. it. pag. 86.<br />
97 Da ricordare, tra gli altri luoghi, anche Meinong (1906): pag. 226 e (1910):<br />
pag. 44 e (1988b): pag. 72.<br />
44
la “che-costruzione” (daß-Konstruktion) 98, vengono chiamati<br />
da Meinong “obiettivi”. Oggetti (Gegenstände) che non sono<br />
obiettivi, sono oggetti (Objekte)” 99.<br />
Solo gli oggetti di ordine inferiore sono reali, e viceversa solo gli<br />
obiettivi, insieme agli oggetti di ordine superiore, sono le due classi di<br />
oggetto che propriamente, essendo, sussistono, ma non esistono.<br />
precisamente?<br />
Come caratterizzare queste classi di oggetti (Gegenstände) più<br />
a. Oggetti ideali: gli oggetti di ordine superiore.<br />
Innanzitutto, gli oggetti (Gegenstände) possono essere – come si è<br />
visto – di ordine inferiore e superiore 100 (niederer und höherer Ordnung). Gli<br />
oggetti di ordine superiore sono i cosiddetti oggetti “fondati”, ovvero<br />
98 Si fa riferimento alla costruzione della subordinata dipendente oggettiva<br />
tedesca, un chiarimento più esteso verrà dato in seguito, nell’analisi della classe<br />
degli obiettivi.<br />
99 Ameseder, (1904a): pag. 54-55; N.B. il testo è precedente al 1917.<br />
100 Si noti, che la diversità di ordine non è un privilegio unico degli Objekte,<br />
bensì anche degli Objektiven – in Über Annahmen si parlava ancora solo di<br />
Wesensverwandtschaft, di parentela essenziale, tra le due classi di oggetti (1910,<br />
pag. 72), la sintesi arriverà poi in Über emotionale Präsentation (1917: pag.<br />
106) e viene così riassunta in un testo ancora successivo:<br />
“(…) si riconosce così anche nell’obiettivo un oggetto ideale di<br />
ordine superiore, al quale si può assegnare, come per gli oggetti<br />
(Objekte), un più o meno di determinazione. Come per gli oggetti<br />
(Objekte), ci sono serie di ordini (Ordnungsreihen) anche per gli<br />
obiettivi, e, di nuovo, queste serie sono aperte verso l’alto, dal<br />
momento che esse, conformemente al principio degli infima<br />
obbligatori, pretendono in basso sempre un oggetto (Objekt)<br />
come chiusura (Abschluß)”: Meinong (1988b): pag. 73.<br />
45
oggetti che non possono esistere per sé, ma che hanno sempre bisogno<br />
di “costituenti primi” 101 (potrebbero essere anche altri oggetti fondati,<br />
ma è necessario che poi anche questi oggetti si riconducano ad una<br />
serie), di infima, ovvero di altri oggetti che stanno alla base della<br />
“struttura” (principio, denominato da Meinong, dell’obbligatorietà degli<br />
infima 102). L’esempio principe di questo tipo di oggetti è quello della<br />
“diversità”: abbiamo un oggetto “diversità” nel momento in cui ci<br />
poniamo di fronte, ad es., una cosa blu ed una rossa. Tale oggetto è<br />
detto di “ordine superiore”, ovvero fondato (fundiert) dagli infima rosso<br />
e blu, e non potrebbe sussistere senza oggetti sul quale fondarsi 103:<br />
“sussistere”, infatti esso non esiste a fianco della cosa rossa e del blu,<br />
eppure c’è in un qualche modo, che Meinong definisce, appunto, di<br />
sussistenza. A fianco dell’oggetto diversità, ne abbiamo una serie infinita,<br />
come, ad esempio, i numeri (che difatti non esistono a fianco delle cose<br />
numerate). Preposta alla presentazione di questo tipo di oggetti è la già<br />
citata capacità di produzione di presentazione (Vorstellungsproduktion).<br />
b. Oggetti ideali: gli obiettivi.<br />
Inoltre, come si è già detto, al concetto di “oggetto” (Gegenstand)<br />
si può sussumere sia l’oggetto (Objekt) sia l’obiettivo (Objektiv). Spostarsi<br />
dalla discussione degli oggetti a quella degli obiettivi significa anche<br />
spostarsi all’interno della gerarchia degli atti intenzionali, dal piano della<br />
101 Sembrerebbe quindi che l’unica caratteristica di genere che definisce gli<br />
oggetti di ordine superiore sia quella di essere fondati: cfr Haller (1973): pag.<br />
154: “Meinong chiama tutti gli oggetti, che ne presuppongono (voraussetzen)<br />
altri, oggetti di ordine superiore o Superiora”.<br />
102 Cfr. Meinong (1988b): pag. 71.<br />
103 Chiamati da Meinong, anche “oggetti empirici” (Erfahrungsgegenstände) –<br />
cfr. Meinong (1899): pag. 396; trad. it. pag. 45.<br />
46
presentazione, a quello delle assunzioni e dei giudizi: tra questi piani<br />
esiste infatti una differenza non solo strutturale, ma anche gerarchica 104.<br />
Peraltro, in Meinong, più armonica che in Brentano, grazie al fatto che<br />
la scoperta delle assunzioni 105 come momento a sé stante nella vita<br />
psichica permette di passare dalla presentazione al giudizio in modo più<br />
continuo. Alla presentazione, infatti, l’assunzione aggiungerebbe il<br />
carattere affermativo o negativo, ma senza quello del dare l’assenso,<br />
ovvero dell’esser convinto o convinzione (Überzeugtheit - Überzeugung) di<br />
cui si fa invece portatore il giudizio. Meinong descrive così la scoperta<br />
di questa “regione di mezzo” (Zwischengebiet) tra giudizio e<br />
presentazione, quella delle assunzioni:<br />
“Che ogni convinzione dovesse essere o affermativa o<br />
negativa, mi è sempre parso ovvio; non mi sarei mai<br />
aspettato di trovare affermazione e negazione, là dove la<br />
convinzione manca. (…) La menzionata terra di mezzo tra<br />
presentazione e giudizio è subito co-data (mitgegeben), non<br />
appena si distingue che non solo la convinzione ma anche<br />
non meno l’opposizione tra affermazione e negazione<br />
104<br />
Articolata in dipendenze essenziali, quali quella ad es. del giudizio dalla<br />
presentazione.<br />
105<br />
La scoperta di questo tipo di vissuto psichico, che raggruppa, tra gli altri,<br />
anche particolari fenomeni come la “bugia” (die Lüge), il gioco o alcune forme<br />
d’arte, ad es., la rappresentazione teatrale, è una novità che Meinong introduce<br />
già nella prima edizione di Über Annahmen del 1902, che poi verrà riedita in<br />
una seconda edizione ampliata e approfondita soprattutto per quanto riguarda le<br />
parti dedicate alla discussione sull’obiettivo.<br />
47
costituiscono un fatto essenzialmente alieno alla<br />
presentazione (vorstellungsfremde Tatsache)” 106.<br />
Se l’oggetto (Objekt) è prerogativa della presentazione,<br />
l’obiettivo lo è di assunzione e giudizio.<br />
Va notato che, a conferma di un coerente percorso del pensiero<br />
meinonghiano, che si caratterizza innanzitutto come una “filosofia dal<br />
basso”, e della mancanza di fondamento di alcuni pregiudizi denigratori<br />
di certa parte dei commentatori nei confronti del filosofo di Graz 107,<br />
anche gli obiettivi (come già gli oggetti di ordine superiore) non sono<br />
degli oggetti “caduti” dall’alto, frutto unico di un presunto spirito<br />
pedante del loro scopritore, bensì, al contrario, sono il risultato di una<br />
rigorosa deduzione.<br />
Come sempre, quindi, si parte dal basso. Come funziona il<br />
fenomeno della significazione? Il meccanismo per gli infima è semplice<br />
106 Meinong (1910): pag. 4. Meinong in questo passaggio sostiene che:<br />
a. affermazione, negazione e convinzione non sono un fatto di presentazione;<br />
b. non ci può essere giudizio senza convinzione e affermazione o negazione;<br />
c. ci può essere affermazione e negazione senza convinzione, e quindi si dà<br />
uno “spazio psichico” autonomo: è il caso dell’assunzione o Annahme.<br />
L’assunzione infatti si caratterizza per la capacità di “assumere” l’obiettivo<br />
di una proposizione, affermandolo o negandolo, ma senza che vi sia<br />
presente il momento della convinzione. Proprio come capita nel caso di una<br />
bugia, dove si nega/afferma qualcosa senza che il bugiardo creda a quello<br />
che dice.<br />
107 Uno fra tutti quello di un Meinong “massimo moltiplicatore di entità nella<br />
storia della filosofia” di Gilbert Ryle dalle pagine dell’ Oxford Magazine del 25<br />
Ottobre 1933. D’altra parte, non si vede che problema ci possa essere nel<br />
sostenere che, se “si vede un oggetto”, allora anche “si dice un oggetto”, cioè<br />
sostenere che quello che si dice non possa anch’esso essere un oggetto – certo,<br />
un oggetto che non si vede, ma che però, appunto, si dice. Il problema<br />
48
da individuare e ripercorrere, come si legge all’inizio del secondo<br />
capitolo di Über Annahmen: l’idea è che nel pronunciare la parola “sole”<br />
siano innestati una serie di riferimenti semantici per i quali, con quella<br />
parola, esprimiamo (ausdrücken) la presentazione soggettiva che abbiamo<br />
di “sole”, mentre significhiamo (bedeuten) l’oggetto “sole”. L’idea sembra<br />
essere anche ovvia se si considera che, nell’espressione, non possiamo<br />
se non rivolgerci alla personale presentazione che abbiamo del sole,<br />
essendo quello l’unico accesso datoci all’oggetto “sole”, eppure non<br />
vogliamo certo indicare quel personale vissuto, bensì proprio l’oggetto<br />
sole, al quale però, di nuovo, abbiamo avuto accesso solo tramite il<br />
vissuto di presentazione 108.<br />
“(…) una parola “significa” (bedeutet) sempre l’oggetto<br />
(Gegenstand) della presentazione, che “esprime” (ausdrückt),<br />
ed esprime viceversa la presentazione dell’oggetto che<br />
significa” 109.<br />
Questo basilare riferimento al funzionamento del linguaggio, se<br />
ancora non ci ha permesso di definire cosa un obiettivo sia, perlomeno<br />
ci suggerisce come il significato già a questo livello sia per Meinong un<br />
oggetto (Gegenstand) 110. Ora, come per gli oggetti (Objekte), esistono<br />
risiederebbe allora nel comprendere quanto si intende con “oggetto”, cosa che è<br />
– guarda caso – il fine del programma meinonghiano.<br />
108<br />
L’esempio del sole è utilizzato dall’autore in: Meinong (1910): pag. 25.<br />
109<br />
Meinong (1910): pag. 25.<br />
110<br />
Ben diversa la posizione elaborata in quello stesso giro di anni da Husserl,<br />
per la quale il significato (Bedeutung) coincide non con un oggetto<br />
(Gegenstand), o meglio, con una oggettualità qualsiasi (Gegenständlichkeit),<br />
49
anche per le parole dei complessi, che possono essere o dei meri<br />
aggregati (bloße Wortzusammenstellung) oppure delle proposizioni (Sätze),<br />
e, in alcuni casi, le proposizioni possono portare ad espressione un<br />
vissuto di giudizio. Quale sarà allora il significato di una proposizione<br />
esprimente un giudizio? Il suo correlato oggettivo non è più un oggetto<br />
(Objekt), bensì un obiettivo:<br />
“(…) e si fa presto avanti la supposizione che come<br />
sopravvenga alle parole la caratteristica di significare<br />
oggetti, così si diano costruzioni linguistiche (Sprachgebilde),<br />
che per significati hanno degli obiettivi”. 111<br />
Ovvero, in una proposizione, noi abbiamo sì ancora un oggetto<br />
sul quale giudichiamo (über den geurteilt oder der beurteilt wird), ma abbiamo<br />
anche un oggetto che viene giudicato (der geurteilt wird) 112. Vale a dire che,<br />
bensì con l’atto donatore di significato (bedeutungsverleihender Akt) –<br />
considerato come atto essenziale – che poi può essere riempito o meno dai<br />
rispettivi atti riempienti di significato (bedeteungserfüllende Akte) – considerati<br />
come inessenziali. Cfr. Husserl (1900): I Untersuchung, pag. 23-105.<br />
111<br />
Meinong (1910): pag. 53.<br />
112<br />
Cfr.: Meinong (1910): pag 44:<br />
“nel nostro esempio troviamo, a fianco di un oggetto<br />
(Gegenstand) sul quale si giudica o che viene giudicato (über den<br />
geurteilt oder der beurteilt wird), ancora un altro che è giudicato<br />
(der geurteilt wird)”.<br />
L’espressione sembra un po’ infelice, ed anche Meinong ne riconosce la<br />
tortuosità (herkömmliche Wendung) – credo soprattutto perché essa viene volta<br />
alla forma passiva e in una costruzione relativa – ma bisogna tenere presente<br />
che in tedesco essa risulta più chiara dalla differenza dei verbi in gioco:<br />
ponendo queste espressioni in forma attiva, risulterebbe “über etwas urteilen”,<br />
“etwas beurteilen” e “etwas urteilen” – le prime due sono espressioni alle quali<br />
manca il senso di transitività dell’azione di giudizio (grammaticalmente alla<br />
50
prendendo come esempio la proposizione “la neve è bianca”, avremo<br />
che la neve è l’oggetto (Objekt) sul quale noi stiamo giudicando anche se<br />
propriamente essa stessa non è “l’oggetto” di nessuna operazione, di<br />
nessun giudizio, perché non si sta predicando la neve che si ha davanti<br />
come bianca o fredda…essa cioè non rientra ontologicamente nel<br />
nostro giudizio. Scrive Meinong:<br />
“Quindi il giudizio non ha un solo oggetto (Gegenstand),<br />
bensì due, che pretenderebbero entrambi di chiamarsi<br />
oggetto di giudizio (Urteilsgegenstand). Però si dà la<br />
precedenza, cosa consigliabile da più punti, a chiamare<br />
oggetto di giudizio in primo luogo solo ciò che è<br />
caratteristico [del giudizio], come alla presentazione<br />
l’oggetto di presentazione, quindi sotto “oggetto di<br />
giudizio” si può esclusivamente intendere l’obiettivo” 113.<br />
Quanto quindi rientra nel giudizio, anzi quanto è il suo oggetto,<br />
oltre ad essere ciò che si giudica, è l’oggetto (Gegenstand) “che la neve è<br />
bianca” o “che la neve è fredda”, cioè, l’obiettivo – che mostra la sua<br />
estraneità ad ogni vissuto di presentazione proprio nel non esistere a<br />
fianco della neve che abbiamo davanti (proprio come l’oggetto<br />
“diversità” non esiste a fianco degli oggetti diversi). La forma<br />
prima, concettualmente alla seconda: il prefisso be- infatti “in costruzioni con<br />
verbi transitivi con un oggetto proposizionale [N.B. in questo caso, “über<br />
etwas”] rende quest’ultimo un oggetto in caso accusativo” cfr. Duden alla voce<br />
“be-“ 1.b., pag. 213), mentre invece “etwas urteilen” pone in risalto proprio<br />
l’azione diretta ad un oggetto, la sua piena transitività.<br />
51
fondamentale per l’espressione dell’obiettivo è quella che in tedesco si<br />
esprime con la costruzione subordinata oggettiva introdotta dalla<br />
congiunzione “daß” (si spiega così quella “daß Konstruktion” che<br />
compariva nella citazione dei capitoli precedenti di Ameseder) e, in<br />
italiano, con il “che” 114. Quindi:<br />
“«che A esiste» o anche «che esso non esiste», ciò sussiste<br />
(…) ma non esiste per così dire una volta di più. Del tutto<br />
lo stesso è da affermare naturalmente anche per gli<br />
obiettivi, che hanno già del sussistente come materiale<br />
(Material): «che tre è più grande di due» o anche «che storto<br />
non è dritto», tutto ciò può ugualmente solo «sussistere» 115<br />
mai esistere.” 116<br />
Inoltre, affinché si dia un obiettivo è necessario che si dia in<br />
prima istanza un oggetto come sua base (nella citazione precedente: il<br />
113 Meinong (1910): pag. 44.<br />
114 Si noterà la vicinanza di questa teoria con quella del “complexe significabile”<br />
in autori medioevali quali Wodeham, Crathorn e Gregorio da Rimini: sulle<br />
origini della nozione di “complexe significabile” e dei suoi rapporti con teorie<br />
avversarie di altri autori quali Pietro Aureolo e Guglielmo da Ockham, cfr.<br />
Tachau (1988). Uno studio storico comparato delle teorie medioevali in<br />
connessione con la querelle Meinong-Russell sugli Objektive è stato inoltre<br />
condotto da Elie (1937).<br />
115 Da notare che l’obiettivo “può” sussistere – infatti a differenza degli oggetti<br />
di ordine superiore che sono fatti di presentazione e non di giudizio, l’obiettivo<br />
può anche non sussistere, pur rimanendo un oggetto ideale. Un obiettivo che<br />
sussiste è anche detto fattuale (tatsächlich), quello che non sussiste, infattuale<br />
(untatsächlich). Fattuale è un obiettivo accompagnato da evidenza. Cfr.<br />
Meinong (1910): pag. 85.<br />
116 Meinong (1910): pag. 63.<br />
52
“materiale” dell’obiettivo). La complessità dell’obiettivo segue però di<br />
pari passo quella del linguaggio e così, come base di un obiettivo può<br />
anche esser dato un altro obiettivo, ma la struttura alla fine dovrà<br />
sempre fondarsi in oggetti, sui quali si giudica:<br />
“(…) e su questa strada si possono trovare una serie più<br />
lunga o più corta, di obiettivi di ordine sempre inferiore; in<br />
ogni caso però questa serie, che può così verificarsi, se si<br />
vuole restare nei limiti del possibile, deve concludersi con<br />
un oggetto (Objekt)”. 117<br />
Per questo motivo, tra l’altro, Meinong sostiene che l’atto di<br />
giudizio è un vissuto dipendente 118 (“unselbständig”, lo stesso termine<br />
che egli usa per gli oggetti fondati che sono appunto dipendenti o non<br />
indipendenti), dal momento che, infatti, gli è necessario un vissuto<br />
presentante 119.<br />
c. Seins- e Soseinsobjektive<br />
Ora, tra i vari tipi particolari di obiettivi che Meinong elenca,<br />
due sono quelli fondamentali: l’obiettivo di essere (Seinsobjektiv) e<br />
117<br />
Meinong (1910): pag. 63.<br />
118<br />
“(…) Il giudizio è quindi sempre un vissuto dipendente (…)” in: Meinong<br />
(1910): pag. 46.<br />
119<br />
Nel senso allargato di Präsentation e non solo di Vorstellung, visto che un<br />
obiettivo non può essere presentato da una Vorstellung – su quale vissuto sia<br />
preposto alla presentazione di un obiettivo al giudizio Meinong esita e non<br />
sembra dare una risposta definitiva – cfr. Lenoci (1972): pag. 130-131.<br />
53
l’obiettivo di esser-così (Soseinsobjektiv) 120. La deduzione di queste due<br />
forme di obiettivi deriva dalla catalogazione di tutti i giudizi in due<br />
forme (quella, appunto, di essere e di essere così) riassumibili in questo<br />
modo:<br />
i. A è;<br />
ii. A è B.<br />
La trattazione di queste due forme di obiettivi è fondamentale<br />
per riuscire a passare all’ultima determinazione dell’essere dell’oggetto<br />
(inteso sia come attributo oggettivo che soggettivo), quella dell’essere-<br />
oltre o dell’essere-fuori, ovvero, comunque lo si voglia tradurre,<br />
dell’Außersein 121.<br />
120 Ad essi si aggiungeranno in seguito anche gli obiettivi di “essere con” o di<br />
implicazione (Mitseinsobjektive) che indicherebbero la forma di giudizio “se A,<br />
allora B”, cfr. Meinong (1988b): pag. 74.<br />
121 In realtà, lo anticipo qui, il termine Außersein sembra difficilmente<br />
traducibile (e per questo lo userò nella sua forma non tradotta), non tanto perché<br />
non si ha un corrispondente italiano della preposizione außer, quanto perché<br />
non se ne ha uno univoco, essendocene troppi. Tale preposizione infatti ha sì un<br />
significato principale, quello di “esclusione”, di essere escluso, ma ad esso<br />
subentra un’accezione non facilmente riducibile alla precedente, quella di<br />
esclusione/collocazione spaziale. Forse alcuni esempi possono rendere più<br />
intuitivo quanto sostengo. Si prendano i termini tedeschi:<br />
i. außer-ordentlich;<br />
ii. außer-irdisch;<br />
iii. außer Hause;<br />
iv. außerdem.<br />
nei primi due casi, il concetto di esclusione espresso da “außer-” si renderebbe<br />
in italiano con, rispettivamente, stra-ordinario e extra-terrestre, mentre in iii.<br />
außer- si dovrebbe tradurre con “fuori casa”. Infine in iv., anche se si tratta di un<br />
avverbio a sé stante, è facilmente riconoscibile (come spesso in tedesco) la<br />
composizione di “außer-” e del pronome in dativo “-dem”: la traduzione italiana<br />
suonerebbe “oltre a ciò” o anche “inoltre”. Poiché non riesco a trovare un<br />
parallelo di fronte a questa plurivocità di significati (stra-essere? Extra-essere?<br />
Fuori-essere? Oltre-essere?), preferisco allora mantenere la parola tedesca.<br />
54
L’obiettivo di esser così corrisponde alle determinazioni di un<br />
oggetto, alle sue determinazioni essenziali: un oggetto non può non<br />
“esser così”. Potrebbe sembrare, sostiene Meinong, che si debba parlare<br />
di una determinazione di esser così solo in presenza di una<br />
determinazione di essere. Ovvero che si possa predicare “la rosa è<br />
rossa” solamente se siamo in presenza dell’obiettivo “la rosa è”. Ma<br />
questo non sarebbe altro che una ulteriore testimonianza del<br />
pregiudizio a favore del reale, dal momento che nulla ci trattiene dal<br />
predicare una qualche proprietà della rosa, anche in sua assenza: per<br />
riuscire cioè a predicare che la rosa è rossa non abbiamo bisogno<br />
preliminarmente di predicare “la rosa è”, essendo il Soseinsobjektiv<br />
indipendente dal Seinsobjektiv.<br />
“Che senso avrebbe in verità, affermare della mia scrivania<br />
che se essa esistesse, allora sarebbe rettangolare? Certo è<br />
che, se io non avessi alcuna scrivania, cioè se “la mia<br />
scrivania” non esistesse, io non avrei neanche il diritto di<br />
denominarla come rettangolare. Ma per nessun’altra ragione<br />
all’infuori del fatto che io intendo con “la mia scrivania”,<br />
secondo il naturale utilizzo della lingua, unicamente<br />
qualcosa di reale; se non esiste l’oggetto indicato, allora il<br />
giudizio diretto al reale su una proprietà di questo oggetto<br />
non ha alcuna base. Ma nondimeno l’oggetto ha le sue<br />
proprietà, il suo Sosein: è ciò che è o come è, anche se non<br />
esiste (…)” 122<br />
122 Meinong (1906): pag. 46.<br />
55
Per riassumere questo fenomeno, Meinong fa proprio il<br />
principio, coniato da Ernst Mally 123, di “indipendenza dell’esser così<br />
dall’essere” (Prinzip der Unabhängigkeit des Soseins vom Sein).<br />
“(…) il Sosein di un oggetto non è per così dire coinvolto<br />
(mitbetroffen) dal suo corrispondente non-essere”. 124<br />
In questo principio troviamo insomma giustificata la validità di<br />
una “daseinsfreie Wissenschaft”, ovvero di una disciplina che non<br />
contempla assunti di esistenza nei suoi principi, quale appunto la<br />
Gegenstandstheorie pretende di essere. Inoltre, se a questa posizione<br />
teorica sembra connessa una buona prospettiva epistemologica che<br />
renda conto di scienze, come la già menzionata matematica, che<br />
operano senza bisogno di asserzioni preliminari circa l’esistenza dei suoi<br />
oggetti di studi 125, pare però (e a Meinong per primo) che essa possa<br />
facilmente essere condotta di fronte alla responsabilità di una rapida<br />
involuzione in insanabili paradossi.<br />
123 Enunciato in: “Untersuchung zur Gegenstandstheorie des Messens”, cap. I,<br />
§3 – ennesimo contributo dell’opera del 1904.<br />
124 Meinong (1988a): pag. 8.<br />
125 In realtà lo studio di oggetti ideali o persino inesistenti è ben più esteso:<br />
Meinong fa l’esempio dell’idealità delle qualità sensibili, che propriamente non<br />
esisterebbero, ma delle quali fisica, fisiologia e psicologia si occuperebbero (cfr.<br />
Meinong (1988a): pag. 8 e anche Meinong (1906): pp.215). E ad esse,<br />
aggiungerei, anche tutti i costrutti teorici della fisica – un esempio per tutti,<br />
quello di campo o di forza.<br />
56
Infatti, come comportarsi di fronte a casi come quello del<br />
“quadrato rotondo”? Secondo tale principio possiamo attribuire delle<br />
determinazioni di Sosein a qualcosa (ergo ad un oggetto) e sostenere che il<br />
quadrato è tanto rotondo quanto quadrato. Ma, chiaramente, il cerchio<br />
quadrato è per principio impossibile: come conciliare quindi il fatto che,<br />
da un lato, si possono attribuire a qualcosa delle determinazioni<br />
essenziali e, dall’altro, rilevare che questo qualcosa è impossibile, che,<br />
cioè, il suo essere è escluso tanto dal reale quanto dall’ideale? O ancora,<br />
per riformulare il problema: per enunciare un verità quale quella che un<br />
quadrato rotondo non esiste, dobbiamo in qualche modo attingere<br />
alcune proprietà del quadrato rotondo, cioè quella di essere quadrato e<br />
di essere rotondo: si darebbe quindi un quadrato rotondo del quale noi<br />
enunciamo quelle proprietà, ma ciò è per principio impossibile. Si<br />
svilupperebbe insomma un paradosso secondo il quale:<br />
“(…) ci sono oggetti, per i quali vale, che tali oggetti non ci<br />
sono (es gibt Gegenstände, von denen gilt, daß es dergleichen<br />
Gegenstände nicht gibt) (…)” 126.<br />
Seguendo quindi quel percorso di emancipazione dallo psichico<br />
che dalla considerazione del contenuto psichico ha portato alle<br />
primissime determinazioni dell’oggetto in termini di oggetto ideale e<br />
reale, fino allo scarto definitivo tra oggetti possibili e oggetti impossibili,<br />
si giunge infine al paradosso (apparente) di dover concedere una<br />
qualche forma di essere anche ad enti come “il cerchio quadrato”.<br />
57
L’introduzione a questo punto della categoria (senza assegnare per il<br />
momento nessuna ipoteca ontologica sul termine di “categoria”) che<br />
prende il nome di Außersein è, per Meinong, obbligata: la scoperta di<br />
questo elemento e una sua possibile lettura interesserà l’ultima parte di<br />
questo lavoro.<br />
PARTE TERZA – DAS AUßERSEIN.<br />
§ 7. L’Außersein in Meinong.<br />
a. Il paradosso<br />
Con la precedente citazione, quindi, la posizione di Meinong<br />
sembrerebbe rivoltarsi su se stessa e volgersi al paradosso: si darebbero<br />
insomma degli oggetti, per i quali si è costretti ad affermare che essi si<br />
danno ed allo stesso tempo non si danno. Un paradosso di questo<br />
126 Meinong (1988a): pag. 9. Sulla traduzione di “es gibt” si veda §9, par. a.<br />
58
genere spingerebbe la teoria dell’oggetto, perlomeno così come è stata<br />
intesa dall’autore, a scontrarsi con la più insolubile delle contraddizioni,<br />
quella che ad un tempo afferma e nega la datità di un oggetto. Si<br />
dovrebbe allora negare complessivamente la possibilità stessa del<br />
compito meinonghiano di una disciplina che si propone lo studio puro<br />
dell’oggetto, ovvero delineare in modo generalissimo quali sono le<br />
caratteristiche essenziali che rendono tale un oggetto.<br />
Per la verità, Meinong non sembra essere eccessivamente<br />
preoccupato dei possibili risvolti ai quali le sue stesse premesse lo<br />
hanno condotto. Nei suoi testi tratta senza particolare enfasi il<br />
problema che gli si presenta di fronte e, con l’introduzione di un nuovo<br />
elemento nell’argomentazione, quello appunto dell’Außersein, cerca di<br />
venire a capo delle difficoltà. Inoltre, il fatto che egli non si confronti<br />
con questo nodo centrale del suo sistema se non in passaggi di – tutto<br />
sommato – limitata estensione, senza dedicargli mai un’estesa ed<br />
esaustiva analisi, indurrebbe a pensare che l’autore non sentisse in<br />
modo particolarmente pressante la problematicità del nervo concettuale<br />
da lui stesso scoperto.<br />
Prima di investire specificamente tale categoria con un’analisi<br />
approfondita, bisognerebbe quindi soffermarsi sulle motivazioni<br />
generali per le quali Meinong non tematizza mai direttamente nei suoi<br />
testi l’Außersein. Ritengo che tali motivazioni possano essere ricondotte<br />
a due principali.<br />
La prima risiede nell’impostazione stessa del sistema<br />
meinonghiano, che ad un determinato momento ha preteso<br />
l’introduzione del concetto funzionale di Außersein: per evitare che<br />
59
l’intera elaborazione si volgesse ad un absurdum, il filosofo ha introdotto<br />
un elemento schiettamente funzionale per assicurare l’intero edificio<br />
teorico, senza accompagnarlo, però, con un’adeguata identificazione<br />
della sua natura.<br />
La seconda consiste proprio nella natura problematica<br />
dell’Außersein, il quale, anche per il nome che porta (l’attribuzione del<br />
quale non è dato di secondaria importanza, come si vedrà), si<br />
presterebbe facilmente ad aprire la Gegenstandstheorie ad assunti di natura<br />
metafisica, ammettendo una nozione non empiricamente verificabile e<br />
di difficile determinazione. Ora, non è un mistero quanto la tradizione<br />
filosofica austriaca facente capo a Brentano avesse invise (e fosse aliena<br />
a) posizioni di stampo metafisico 127. Meinong, da parte sua, condivide<br />
questa avversione e, fedele al progetto di una filosofia scientifica e di<br />
stampo empirista, disattende la ricerca di una definizione univoca e<br />
definitiva della nozione di Außersein, concentrandosi su altri problemi,<br />
che il filosofo ravvisava come più autentici. Il vero paradosso<br />
sembrerebbe allora essere come gli sforzi di Meinong di preservare una<br />
127 Difficile definire a quale tipo di metafisica (al di là delle sue forme storiche,<br />
quali il kantismo o l’idealismo tedesco…) si stia qui facendo riferimento, dal<br />
momento che, come si è visto, Meinong stesso aveva una idea ben precisa di<br />
cosa fosse la metafisica (un tentativo più o meno riuscito di elaborare una<br />
disciplina onnicomprensiva, ma sempre limitata al reale). Quindi è forse meglio<br />
indicare, più che un tipo, un modo di fare metafisica che Meinong e i<br />
brentaniani non condividevano. Riassumerei con una citazione (che, credo,<br />
potrebbe essere sottoscritta da tutti i brentaniani) quale sia questo modo – scrive<br />
Husserl su Bolzano (prendendo come avversario polemico evidentemente<br />
Hegel):<br />
“In Bolzano, contemporaneo di Hegel, non troviamo nemmeno una<br />
traccia della profonda ambiguità della filosofia sistematica che<br />
aveva di mira una saggezza universale (Weltweisheit) ed una<br />
concezione del mondo ricca di idee (Weltanschauung), piuttosto<br />
che un sapere fondato sull’analisi teoretica e che tanto frenò, con<br />
un’infelice confusione di questi intenti fondamentalmente diversi,<br />
60
filosofia “dal basso”, supportata da ampi ricorsi all’empiria, lo abbiano<br />
spinto di fronte ad un traguardo che sembra essere tutto meno che un<br />
concetto empiricamente verificabile.<br />
b. L’involuzione nel paradosso e la soluzione meinonghiana.<br />
Così per come avviene, l’introduzione dell’Außersein non è altro<br />
che la soluzione di un paradosso. Ricapitolo ora come la<br />
Gegenstandstheorie involve nel paradosso e qual è la strada scelta da<br />
Meinong per uscirne.<br />
Torniamo ad analizzare la proposizione “il cerchio quadrato non<br />
esiste” cercando di capire meglio l’argomentazione meinonghiana. Ora,<br />
questa proposizione rientra nei casi di quei particolari tipi di obiettivi<br />
chiamati Nichtseinsobjektive, vale a dire obiettivi di non essere, una forma<br />
derivata dei Seinsobjektive. Se volessimo volgerla nella sua forma<br />
oggettuale pura dovremmo esprimere la frase con una subordinata<br />
oggettiva: “che il cerchio quadrato non esiste”. Questo è un obiettivo,<br />
ovvero un oggetto di ordine superiore e, in quanto tale, quindi, deve<br />
avere un Infimum, cioè uno o più oggetti (Objekte) che lo fondino 128. In<br />
questo caso l’Infimum corrispondente è, ovviamente, il cerchio quadrato.<br />
Purtroppo la natura del cerchio quadrato ne preclude l’esistenza<br />
(Existenz) – ed è proprio esprimendo questo fatto che il nostro<br />
obiettivo (cioè “che un cerchio quadrato non esiste”) risulta vero. Prima<br />
di poter affermare che non esiste, si deve quindi afferrare in un qualche<br />
il progresso della filosofia scientifica”. In. Husserl (1900):<br />
Prolegomena zur reinen Logik , pag. 226, trad. it., pag. 231.<br />
128 Cfr. §6, b.<br />
61
modo tale oggetto, afferrarne delle determinazioni di Sosein, di essere-<br />
così, e cioè proprio quelle di essere rotondo e di essere quadrato.<br />
Che il cerchio quadrato non sia reale, lo si è visto, non è una<br />
limitazione particolarmente stringente, dal momento che a fianco<br />
dell’insieme degli oggetti reali, si trova quello degli oggetti ideali. Il<br />
cerchio in questione, però, non potrebbe appartenere nemmeno a<br />
questo secondo insieme, dal momento che la sua contraddizione<br />
interna (essere ad un tempo quadrato e circolare) non glielo permette:<br />
non c’è insomma alcun dubbio, essendo un oggetto impossibile, il<br />
cerchio quadrato è “senza patria”. Esso non rientra nei due insieme di<br />
oggetti finora conosciuti, non situandosi né tra gli oggetti reali né tra<br />
quelli ideali. Il paradosso in cui gli oggetti impossibili allora spingono la<br />
Gegenstandstheorie è proprio questo: essa è costretta ad assumere che “si<br />
danno oggetti per i quali vale che tali oggetti non si danno”.<br />
Ma ad un’analisi più attenta, si può vedere come tale paradosso<br />
sia solo apparente, difatti esso tiene insieme due determinazioni che<br />
non sono fra di loro equivalenti. La prima parte del paradosso “si danno<br />
oggetti…” tratta infatti di un modo di datità che non coincide con quello<br />
della seconda parte “(…) per i quali vale che tali oggetti non si danno”.<br />
Ora, secondo l’argomentazione precedente, gli oggetti<br />
impossibili non possono né esistere, né sussistere: chiaramente quindi<br />
l’esistenza e la sussistenza sono i modi di datità negati nella seconda<br />
parte del paradosso: “per i quali vale”, parafrasando, “che tali oggetti non si<br />
danno”. Questo però non esclude necessariamente che non ci possa<br />
essere un ulteriore modo di datità, grazie al quale gli oggetti impossibili<br />
“si danno” comunque, sebbene in maniera essenzialmente differente<br />
62
dai modi dell’esistenza e della sussistenza. Tale modo di datità è quello<br />
dell’Außersein. Insomma, quanto viene affermato nella prima parte del<br />
paradosso non è lo stesso che verrà poi subito dopo negato.<br />
Riscriviamo quindi il paradosso esplicitando tutti i momenti<br />
impliciti: “si danno oggetti – nel modo dell’Außersein – per i quali vale<br />
che tali oggetti non si danno – nel modo dell’esistenza o della<br />
sussistenza” 129. Riformulato così 130 il paradosso perde la sua natura<br />
problematica e sembra solamente dirci che, ancora una volta, c’è<br />
129 Meinong nel 1904 non argomenta in questo modo – egli sceglie un’altra via<br />
riassumibile per punti in questo modo:<br />
“(1) Si consideri il fatto che non c’è un quadrato rotondo (i.e. che il<br />
cerchio quadrato non ha essere – esistenza o sussistenza).<br />
(2) In ogni caso, l’obiettivo “che non c’è un quadrato rotondo” ha<br />
essere (i.e. sussiste).<br />
(3) Ora, l’obiettivo sta in una relazione con il suo oggetto/i come<br />
un intero sta alle sue parti.<br />
(4) Il quadrato rotondo è una parte dell’obiettivo che il quadrato<br />
rotondo non ha essere.<br />
(5) Ma se l’intero ha essere, così lo devono avere le parti.<br />
Quindi,<br />
(6) Il quadrato rotondo deve avere essere.<br />
(7) Ma, per (1), il tipo di essere che esso ha non può essere né<br />
esistenza né sussistenza.<br />
Quindi,<br />
(8) Ci deve essere un terzo modo di essere che appartiene al<br />
quadrato rotondo”.<br />
In: Perszyk (1993): pag. 55-56.<br />
Ho scelto di esporre in modo diverso la soluzione del paradosso per due motivi:<br />
a. evitare di utilizzare l’argomento parti/intero (punti 3, 4 e 5), che<br />
effettivamente non trova ulteriore riscontro negli altri passaggi in cui si<br />
discute del problema dell’Außersein, e che avrebbe potuto produrre<br />
confusione (tra l’altro il rapporto che intercorre tra obiettivo e oggetto non<br />
viene quasi mai espresso da Meinong in termini di parti/intero, bensì in<br />
rapporti di fondazione);<br />
b. evitare di concludere subito con l’introduzione di un terzo modo di essere<br />
per quanto riguarda l’Außersein, dato che – come si vedrà – l’autore stesso<br />
esita nel prendere posizione in questo senso ed è al momento prematuro<br />
fissarlo.<br />
130 Applicata al caso particolare del cerchio quadrato tale riscrizione risulta<br />
essere ancora più intuitiva: “è dato un cerchio quadrato, nel modo<br />
dell’Außersein, per il quale vale che tale cerchio quadrato né esiste, né sussiste”.<br />
63
qualcosa d’altro, non esaurendo esistenza e sussistenza l’intera estensione<br />
dell’oggetto. A ben vedere quindi il tutto sembra ricondursi al motore<br />
teorico iniziale che muove Meinong: il problema cioè di riuscire a<br />
definire cosa sia un “oggetto” e quali siano i caratteri ultimi che lo<br />
rendono tale 131.<br />
A questo punto della ricerca Meinong scopre insomma che il<br />
Gegenstand eccede i limiti imposti da sussistenza ed esistenza e si estende<br />
131 La maggior parte degli studi riguardanti l’Außersein sono condotti in termini<br />
semantici, soprattutto riallacciandosi alla polemica Russell-Meinong. Russell fu<br />
attento lettore di Meinong e estimatore del suo metodo analitico e per un certo<br />
periodo sembrò anche condividere l’impostazione meinonghiana, in particolare<br />
quando scrive:<br />
“Ente è ciò che pertiene a ogni termine concepibile, a ogni<br />
possibile oggetto del pensiero, in breve, a ogni cosa che può mai<br />
occorrere in una qualsiasi proposizione, vera o falsa, e che pertiene<br />
a tutte le proposizioni in quanto tali (…) I numeri, gli dei omerici,<br />
le relazioni, le chimere e gli spazi quadridimensionali sono tutti<br />
enti, perché se non fossero entità di sorta, non potremmo enunciare<br />
nessuna proposizione attorno ad essi” in: Russell (1988): pag.42.<br />
Poi, con la pubblicazione del saggio On Denoting del 1905, il filosofo inglese<br />
mutò la propria posizione e criticò aspramente le conclusioni del collega<br />
austriaco. In realtà però Russell, più che la teoria di Meinong, prese<br />
probabilmente di mira le sue stesse tesi del 1903, apparentemente vicine, ma in<br />
realtà diverse da quelle meinonghiane. Egli inoltre marcò con le sue critiche la<br />
ricezione di Meinong nel mondo anglosassone.<br />
Alla luce della teoria della denotazione di Russell, spesso si intende quindi<br />
l’intera problematica dell’Außersein come la soluzione di un problema<br />
semantico quale “cosa denota l’espressione «un cerchio quadrato» e quale<br />
valore di verità ha una proposizione sul cerchio quadrato?”. Sebbene una<br />
trattazione di questo tipo sia pienamente legittima, ritengo però che inserire<br />
l’Außersein unicamente nel solco di un problema semantico sollevato dalla<br />
teoria russelliana della denotazione sia (cfr. Jacques (1973)):<br />
a. fallace: Meinong infatti non ha mai elaborato una teoria della denotazione,<br />
non gli si può quindi imputare errori provenienti da una teoria non sua;<br />
b. riduttivo: infatti – lo si è visto – il significato, in quanto Gegenstand (cfr.<br />
§6, b), è solo uno degli oggetti che costituiscono il bacino di interesse della<br />
teoria degli oggetti: la tesi dell’Außersein scaturisce dal bisogno di<br />
determinare cosa è l’oggetto, cioè comprendere in che senso anche un<br />
cerchio quadrato è un oggetto (quadrato e circolare, indipendentemente dal<br />
soggetto che lo pensa), ma solo in modo mediato stabilire che valore di<br />
verità ha una proposizione su un cerchio quadrato.<br />
64
en più in là. Ci si potrebbe compiacere a questo punto della soluzione<br />
del paradosso, non fosse che, dal momento che non si tratta<br />
semplicemente di una soluzione nominale, si rivela indispensabile<br />
determinare qual è la natura dell’Außersein e chiarire cosa significa<br />
sostenere che un oggetto sia außerseiend 132. Prima di tentare una possibile<br />
interpretazione, prenderò in considerazione quanto Meinong scrive<br />
riguardo a queste due questioni.<br />
§8. Cos’è l’Außersein?<br />
Come è stato detto, non sono molti i passaggi nei quali Meinong<br />
fa riferimento all’Außersein. Cercherò quindi di dare una sinossi di<br />
quanto l’autore sostiene procedendo a “zigzag” 133, seguendo una strada<br />
più concettuale che cronologica.<br />
132 Grossman (1974b): pag. 67 rileva:<br />
“la dottrina di Meinong dell’Außersein dell’oggetto puro<br />
consiste, a mio avviso, delle seguenti quattro tesi principali: (1)<br />
entità non esistenti, come la montagna d’oro e il quadrato<br />
rotondo, non hanno alcuna forma di essere. (2) Ciononostante<br />
queste entità sono costituenti di certi stati di cose. (3) Esse inoltre<br />
hanno un numero di proprietà ordinarie (ordinary properties) – la<br />
montagna d’oro, ad esempio, è d’oro. (4) L’essere non è parte di<br />
alcun oggetto.”<br />
Sicuramente l’Außersein viene introdotto come possibile soluzione ai problemi<br />
avanzati dalla Gegenstandstheorie e in particolare a quelli sollevati dagli oggetti<br />
inesistenti; in realtà però questi quattro punti più che esplicare la tesi<br />
dell’Außersein sembrano semplicemente mettere in luce schematicamente le sue<br />
conseguenze teoretiche: vale a dire – se si assume il ruolo dell’Außersein, allora<br />
si possono accettare come validi i quattro punti sopra elencati. Ma questo però<br />
non rispetta il compito di identificare la natura dell’Außersein: definire<br />
apoditticamente cosa si indica col termine “Außersein”.<br />
133 O meglio “attraverso il testo di Meinong” – in una certa misura, quindi,<br />
vicino al lavoro che Derrida compie sulle Ricerche Logiche di Husserl, cioè un<br />
65
Innanzitutto, nella trattazione del paradosso che si è condotta, è<br />
emerso che l’Außersein è qualcosa che si pone al di là sia dell’esistenza,<br />
che della sussistenza 134. Si potrebbe in prima istanza pensare che si tratti<br />
di un terzo tipo di essere a fianco dei due precedenti. Ma, se così fosse,<br />
saremmo di fronte ad un tipo d’essere ben particolare, dal momento<br />
che<br />
“non è permesso ad un non-essere dello stesso tipo<br />
(derselben Art) di contrapporglisi” 135.<br />
Secondo il Meinong del 1904, oltre che a non essere di nessun<br />
vantaggio, contravverrebbe alla basilare regola ockhamiana della<br />
parsimonia ammettere un’ulteriore nicchia ontologica per gli oggetti<br />
impossibili 136. Il problema si pone in questi termini: si è alla ricerca di<br />
un genere ontologico che valga per gli oggetti impossibili, che, non<br />
esistendo e non sussistendo, rendono inadeguate le due precedenti<br />
categorie ontologiche (cfr. esistenza e sussistenza). Ora, queste due<br />
categorie ontologiche sono “essere” nel senso più ampio della parola<br />
(im weiteren Wortsinne 137), invece gli oggetti impossibili, non esistendo e<br />
non sussistendo, non possono rientrare in questo “essere”. Se si<br />
ammettesse allora un essere S, comprensivo degli oggetti impossibili,<br />
lavoro che si muove “attraverso il testo di Husserl, cioè in una lettura che non<br />
può semplicemente essere quella di un commento, né quella di una<br />
interpretazione”, in: Derrida (1967): pag. 88<br />
134<br />
Cfr. “non è né esistenza, né sussistenza” in: Meinong (1988a): pag. 10.<br />
135<br />
Meinong (1988a): pag. 10.<br />
136<br />
Cfr. Meinong (1910): pag. 80.<br />
137<br />
Cfr. Meinong (1988b): pag. 72.<br />
66
esso sarà di un ordine superiore n rispetto all’essere di sussistenza ed<br />
esistenza (includerebbe cioè qualcosa in più dell’essere precedente).<br />
Assumendo questo essere, si sarebbe allora costretti per logica ad<br />
ammettere la sua negazione, diciamo ¬S. Una volta compiuto questo<br />
passo, però, non ci si potrà sottrarre dal sovrapporre a S e a ¬S un<br />
ulteriore essere P di ordine n+1, comprensivo anche di ¬S, dal<br />
momento che anche ¬S in un certo senso “ci sarebbe”: otterremmo<br />
insomma una ramificazione ontologica che procede all’infinito. Il che è<br />
una tesi “se non impossibile quantomeno fortemente implausibile” 138.<br />
Per evitare questo cul-de-sac, Meinong si decide per l’unica<br />
alternativa possibile: l’Außersein non è un esistere, non è un sussistere e,<br />
almeno per il testo del 1904, non è neanche un essere 139. Infatti:<br />
“Un essere, al quale non si contrappone per principio<br />
nessun non-essere, può essere ancora chiamato un<br />
essere?” 140<br />
L’autore ci informa dei suoi precedenti tentativi di nominare ciò<br />
a cui egli fa riferimento: soprattutto espressioni come “Quasisein” o<br />
“Quasitranszendenz” lo hanno tenuto occupato 141, ma alla fine si è risolto<br />
138 Cfr. Findlay (1933): pag. 47.<br />
139 Ecco in cosa differisce la posizione di Meinong da quella di Russell, per<br />
Meinong la chimera non è un ente, non ha/è essere. Cfr. nota 131.<br />
140 Meinong (1988a): pag. 11.<br />
141 Cfr. Meinong (1988a): pag. 11.<br />
67
per un rifiuto, giacché il rischio di espressioni del genere è di<br />
ontologizzare l’Außersein 142. Il “barbarismo” 143 Außersein è<br />
“scaturito dallo sforzo, di accordarsi sull’interpretazione di<br />
ogni particolare “c’è” [“è dato”] (es gibt) – del quale sembra<br />
non poter essere privato neanche il più alieno all’essere fra<br />
gli oggetti (seinsfremdesten Gegenständen) – senza il ricorso ad<br />
una nuova, terza modalità d’essere a fianco di esistenza e<br />
di sussistenza.” 144<br />
Se l’Außersein non è essere, non è però neanche un puro nulla.<br />
Per evitare allora di finire in una sorta di teologia negativa e nel<br />
tentativo di definire in modo positivo cosa l’Außersein sia, Meinong<br />
sceglie un’altra strada: al posto di investire frontalmente l’Außersein e<br />
parlare di “qualcosa” che non è né esistenza né sussistenza, per poi<br />
proseguire lungo una strada che altrimenti sarebbe stata tutta al<br />
negativo, egli si dirige all’oggetto puro. In fin dei conti, per il filosofo, il<br />
cerchio quadrato è un oggetto e quindi è esso che si fa portatore di<br />
“essere Außersein”. Ed infatti trattando dell’oggetto puro il filosofo<br />
sembrerebbe venire a capo del problema: egli volge al participio<br />
presente la forma infinitiva e sostiene che “l’oggetto è außerseiend” 145. In<br />
142<br />
Cfr. Meinong (1988a): pag. 11.<br />
143<br />
In Meinong (1910): pag. 79 – è connotato come “(…) etwas barbarischen<br />
(…)”.<br />
144<br />
Meinong (1910): pag. 79.<br />
145<br />
Ed è quindi sempre per porre in primo piano il nesso con l’oggetto che il<br />
termine “Außersein” compare nel testo del 1904 solo due volte ma mai da solo,<br />
Meinong specifica sempre “l’Außersein dell’oggetto puro”.<br />
68
questo modo, al posto di rivolgersi direttamente allo status ontologico<br />
dell’Außersein, si sposta l’ottica, sostenendo che ad essere außerseiend è<br />
unicamente l’oggetto puro. Questo passaggio concettuale non è un<br />
banale escamotage 146, prova ne è che Meinong presto si trova a far<br />
fronte ad un nuovo problema, vale a dire fissare univocamente quale<br />
oggetto si fa portatore dell’Außersein.<br />
Sostenere che l’oggetto è Außersein potrebbe significare come<br />
minimo due cose:<br />
i. ci sono degli oggetti che sono außerseiend e al fianco di essi si<br />
oppure,<br />
trovano tutti gli altri oggetti (sussistenti ed esistenti);<br />
ii. tutti gli oggetti sono außerseiend in quanto oggetti puri, e, di<br />
questi, alcuni sono solamente außerseiend (bloß außerseiend), altri<br />
sommano al fatto di essere Außersein la caratteristica della<br />
esistenza ed altri ancora quella della sussistenza 147.<br />
Analizziamo per gradi queste due possibilità. Nel caso i.<br />
avremmo come außerseiende solo gli oggetti impossibili quali il cerchio<br />
quadrato. Ciò significa che tra tutti gli oggetti solo alcuni avrebbero la<br />
prerogativa di essere Außersein, mentre tutti gli altri sarebbero di natura<br />
146 Tutt’al contrario, con questo passaggio Meinong fissa uno dei punti<br />
maggiormente caratteristici (e, a mio avviso, uno dei più promettenti per gli<br />
spazi che lascia aperti a futuri sviluppi) della sua filosofia, egli si congeda<br />
definitivamente da ogni residuo ontologico: la sua è una Gegenstandstheorie,<br />
teoria promotrice di un’analisi generalissima diretta all’oggetto e<br />
all’oggettualità e non più unicamente ad una sua singola dimensione: l’essere.<br />
147 Così che “capita (happens) che la tour Eiffel esiste e capita che la montagna<br />
dorata non esiste” (il corsivo è mio), in: Jacquette: (2001): pag. 386.<br />
69
essenzialmente diversa. Il paradosso verrebbe comunque risolto 148, ma<br />
quale argomento sostiene questa soluzione? Secondo i. esistono delle<br />
regioni ontologiche, quali l’esistenza, la sussistenza e l’Außersein, alle<br />
quali appartengono rispettivamente gli oggetti esistenti, sussistenti e gli<br />
Außerseiende. Così facendo, però, si fa rientrare dalla finestra quanto si è<br />
fatto uscire dalla porta: l’Außersein ridiventa una nicchia ontologica, un<br />
Quasisein, nel quale relegare ogni oggetto impossibile. Ma questa è una<br />
posizione che lo stesso Meinong aveva già rifiutato, dal momento che<br />
secondo questa lettura l’Außersein sarebbe una terza forma d’essere ed<br />
avrebbe perciò un contrario.<br />
Nel caso ii., si è detto, tutti gli oggetti, in quanto puri, sono<br />
außerseiend, e solo ad alcuni di essi si aggiunge la caratteristica di essere<br />
esistenti o quella di essere sussistenti 149. La plausibilità di questa<br />
interpretazione, oltre ad essere confermata esplicitamente dall’autore,<br />
che scrive:<br />
“Tale Außersein sembra dover assolutamente sopravvenire<br />
(zukommen) ad ogni oggetto” 150,<br />
148 Anzi, sarebbe una pura tautologia, risolvendosi nell’affermazione che ci sono<br />
oggetti außerseiende che non esistono e neanche sussistono. E siccome per<br />
definizione l’Außersein non è esistenza e sussistenza, allora va da sé che un<br />
oggetto außerseiend non possa essere esistente o sussistente.<br />
149 E’ in questo contesto che spesso è stata riconosciuta l’affinità della posizione<br />
meinonghiana con quella kantiana: il riferimento è ovviamente all’idea che<br />
l’esistenza non è un predicato reale dell’oggetto – i cento talleri reali insomma<br />
non comprendono nulla di più nel concetto dei cento talleri possibili. Cfr. KdrV<br />
A599, B 627, trad. it., pag. 481.<br />
150 Meinong (1917): pag. 22.<br />
70
trova un’assicurazione nel dettato di Meinong: non semplicemente<br />
l’oggetto è außerseiend, bensì l’oggetto puro (der reine Gegenstand) è<br />
außerseiend. Dal momento quindi che il termine “puro” viene preso da<br />
Meinong come sinonimo di “ontologicamente neutro”, sembra da un<br />
lato difficile accettare che solo parte degli oggetti del mondo siano puri<br />
e, peraltro, proprio quelli appartenenti ad un insieme estremamente<br />
particolare, come gli oggetti “inesistenti” (quanto il caso i. lascerebbe<br />
intendere). Dall’altro, sottolinea il fatto che ogni oggetto preso in sé, al<br />
di là della sua “collocazione ontologica” – insomma ogni oggetto preso<br />
nella sua purezza di oggetto – è außerseiend. Così il cerchio quadrato è<br />
bloß außerseiend (cioè non somma alla sua natura di Außersein una qualche<br />
altra determinazione ontologica), ma anche un tavolo, se preso<br />
puramente come una sommatoria di determinazioni di Sosein, ovvero<br />
considerato al di là dell’ambito dell’esistenza, è außerseiend, sebbene non<br />
bloß außerseiend, giacché appunto il tavolo, a differenza del cerchio<br />
quadrato, è qui, esiste, io lo tocco e ci sbatto contro.<br />
Si ha così uno spostamento notevole di prospettiva, nella misura<br />
in cui si muove l’Außersein da variabile, per così dire, indipendente, alla<br />
quale cioè l’oggetto fa riferimento, a variabile dipendente, vale a dire, a<br />
caratteristica dell’oggetto. Innestando l’Außersein sull’oggetto e non<br />
viceversa, promuovendo cioè l’idea che ogni oggetto è per principio<br />
außerseiend, si instaura insomma un nesso che lega l’oggettualità 151 con<br />
l’Außersein, al punto da farli coincidere. Insomma, l’Außersein è la<br />
caratteristica ultima dell’oggetto, o, il che è lo stesso, un oggetto è tale<br />
151 “Oggettualità” è un’espressione che – a mia conoscenza – non viene usata da<br />
Meinong, ma che impiego per intendere la caratteristica essenziale che rende<br />
ogni oggetto un oggetto.<br />
71
solo nella misura in cui è “portatore” di Außersein. I due sono termini<br />
equivalenti.<br />
Instaurare questa equivalenza dà sicuramente la possibilità per<br />
ulteriori analisi, prima però di continuare con questa lettura<br />
dell’Außersein, bisogna rilevare come la posizione del 1904 non risulti<br />
essere quella definitiva dell’autore. Già nel 1908 il filosofo di Graz<br />
ritorna sulle acquisizioni precedenti, negandole 152. Egli scrive infatti:<br />
“Ma se sussiste qui la datità (Gegebenheit), per quanto non in<br />
un essere vero e proprio dell’uno o dell’altro tipo [cfr. della<br />
esistenza o della sussistenza], allora – io ritengo – essa è<br />
comprensibile unicamente (so ist ihr […] doch nur in der<br />
Weise einiges Verständis abzugewinnen) se in essa si riscontra<br />
(aufweisen) una modalità – per così dire – il più possibile<br />
d’essere (ein sozusagen möglichst Seinsartiges) 153, quand’anche<br />
non essere in senso proprio. […] Per ogni oggetto io<br />
afferro […] qualcosa, che rappresenta una prima traccia<br />
(eine erste Spur) di ciò che noi abbiamo di fronte, per così<br />
dire, in forma più elaborata come sussistenza o esistenza.<br />
Questo minimum, che non è ancora un essere nel senso<br />
152 Quanto Meinong afferma in questi testi non può non essere preso nel suo<br />
pieno valore, e cioè in quello specifico di una oscillazione tutta particolare<br />
nell’identificare correttamente e definitivamente l’Außersein; ogni lettura che<br />
parta univocamente solo da un testo di Meinong, sebbene in piena legittimità,<br />
non potrebbe nello stesso tempo pretendere di esporre la teoria definitiva di<br />
Meinong a proposito.<br />
153 Ho tradotto l’aggettivo sostantivato “Seinsartig” con “modalità d’essere”,<br />
intendendo “Seins-” con “d’essere” e “-artig” con “modalità” oppure “dalla<br />
modalità di-”.<br />
72
comune ma che però è qualcosa dalla modalità d’essere<br />
(etwas Seinsartiges), ho voluto chiamarlo Außersein […].” 154<br />
Se però nel testo del 1908 155 Meinong parla ancora solo di una<br />
“modalità di essere” o di un “minimum dalla modalità d’essere”,<br />
accostando quindi chiaramente lo Außersein ad un tipo d’essere, per<br />
quanto magari non di essere “in senso proprio” (im eigentlichen Sinne), nel<br />
1913 egli è molto più chiaro:<br />
“La disgiunzione tra esistenza e sussistenza è però<br />
esaustiva (vollständig)? L’Außersein, che a mala pena si lascia<br />
afferrare in modo negativo, costituisce però comunque<br />
qualcosa come un terzo modo di essere.” 156<br />
La prospettiva di un Außersein come Quasisein, come terzo modo<br />
di essere a fianco di esistenza e sussistenza, viene quindi da Meinong<br />
stesso, sebbene in lavori mai pubblicati 157, rivalutata.<br />
Si sono quindi delineate due possibili chiavi di lettura<br />
dell’Außersein, entrambe tenute in considerazione dall’autore. Si<br />
154 Meinong (1908): pag. 153.<br />
155 Per la verità, anche nella seconda edizione di Über Annahmen si trovano<br />
tracce di questo ripensamento: cfr. Meinong (1910): pag. 80.<br />
156 Meinong (1913): pag. 261.<br />
157 Il primo testo del 1908 costituisce solo un frammento del Nachlaß, mentre la<br />
citazione seguente è tratta da appunti per lezioni tenute nel semestre estivo del<br />
1913.<br />
73
potrebbe dire che la prima (rubricata sopra sotto i.), non essendo stata<br />
discussa nelle pubblicazioni del filosofo se non come tesi polemica<br />
negativa a favore della seconda, è la tesi “non ufficiale”. Mentre invece<br />
la seconda (ii.), quella di un Außersein ormai emancipato da ogni<br />
considerazione di natura ontologica sia, per così dire, anche quella<br />
meinonghiana “ufficiale”, visto che è quella che l’autore presenta nelle<br />
sue opere pubblicate.<br />
Il mio tentativo consisterà ora nel dare una interpretazione<br />
unitaria del concetto in questione, tentando contemporaneamente di<br />
risolvere le difficoltà che queste due strade implicano. Mi servirò nella<br />
discussione della mia tesi degli strumenti teorici di altri filosofi che si<br />
sono interessati di problemi più o meno attinenti, senza considerare<br />
l’intero loro sistema, se non quando ciò non si riveli strettamente<br />
necessario. Inoltre, non affermo che il risultato della mia tesi sia quanto<br />
Meinong abbia sostenuto nelle sue opere, il mio è solo un tentativo,<br />
partendo dal testo di Meinong, di esplicitare nel modo più coerente<br />
possibile cosa l’Außersein sia.<br />
§9. Estensione del concetto di Außersein.<br />
a. “L’essenza” della oggettività.<br />
Si sono viste le difficoltà che spingono l’autore a scegliere di<br />
spostare il baricentro dell’attenzione dall’Außersein all’oggetto che ha<br />
Außersein e di come, battendo questa tesi, si possa giungere ad una<br />
74
apida identificazione del carattere dell’Außersein con quello della<br />
oggettualità in generale. Ciò significa identificare come tratto<br />
fondamentale dell’oggetto l’Außersein: l’Außersein è quel carattere senza il<br />
quale l’oggetto non sarebbe tale. Stabilire che esiste questa<br />
corrispondenza tra Außersein e oggettualità aggiunge alla trattazione una<br />
prima determinazione positiva, per quanto anch’essa solo nominale, se<br />
non si riesce a definirla in modo più approfondito. In fondo, infatti,<br />
non si sa ancora cosa l’Außersein sia. Questo è, se si vuole, il limite<br />
ultimo del lavoro di Meinong, l’autore infatti si arresta senza decidersi<br />
definitivamente in merito.<br />
Prima di procedere oltre lungo l’analisi, c’è da chiedersi se si<br />
sono rilevati proprio tutti i tratti fondamentali dell’oggetto. In tal senso,<br />
vorrei allora apportare un contributo ulteriore presente nei testi di<br />
Meinong: cioè un ulteriore dato che possa arricchire, grazie alla sua<br />
generale estensione ad ogni oggetto, la nozione ancora sterile di<br />
Außersein. Si tratta di esplicitare un elemento presente nei testi di<br />
Meinong sul quale però la nostra attenzione non si è finora soffermata,<br />
probabilmente per il fatto che la traduzione italiana dell’espressione<br />
tedesca corrispondente non fa fede al medesimo significato,<br />
ostacolando così il riconoscimento della sua pregnanza per tale analisi.<br />
Questo elemento – che si è introdotto in sordina insieme con il<br />
paradosso discusso nei paragrafi precedenti 158 – è quello per il quale<br />
l’oggetto, più che “esserci” (in forma attiva: “c’è” – di solito è la<br />
traduzione italiana prediletta della forma tedesca) – è dato (es gibt).<br />
Questa terminologia viene sistematicamente utilizzata da Meinong<br />
soprattutto quando cerca di definire quel qualcosa al di là dell’essere e<br />
158 Per quel paradosso non vale che “ci sono” oggetti che non “ci sono”, bensì,<br />
traducendo letteralmente, che “sono dati” oggetti che “non sono dati”.<br />
75
del non essere (jenseits von Sein und Nichtsein 159) che è l’oggetto puro.<br />
D’altra parte però neanche Meinong sembra sfruttare a pieno questa<br />
risorsa, poiché lascia che l’analisi identifichi i suoi fini solo nella<br />
delimitazione negativa della nozione di Außersein più che in una sua<br />
determinazione positiva. Insomma, l’oggetto non “c’è”, ma è “dato”,<br />
ovvero si concentra l’attenzione prima che su una forma d’essere, su<br />
una forma di datità (Gegebenheit) 160. Tale forma di datità è però<br />
particolare: essa cioè non intrattiene nessuna relazione essenziale col<br />
fatto di essere una datità “per un soggetto”. Infatti:<br />
“agli oggetti non è essenziale essere afferrati, bensì poter<br />
esser afferrati (den Gegenständen ist es nicht wesentlich, erfaßt zu<br />
werden, wohl aber erfaßt werden zu können)” 161<br />
E, in modo ancora più chiaro:<br />
“Di fronte all’afferramento (dem Erfassen gengenüber) il suo<br />
oggetto è il precedente logico (das logisch Frühere), anche quando<br />
questo oggetto segue temporalmente l’afferramento.” 162<br />
159 Meinong (1988a): pag. 12.<br />
160 Cfr. a riguardo Meinong (1908): pag. 153, dove l’autore instaura chiaramente<br />
il nesso tra Außersein e Gegebenheit.<br />
161 Meinong (1988b): pag. 76.<br />
162 Meinong (1988b): 103. Cfr. anche:<br />
“(…) l’oggetto deve (muß) essere pre-dato (vorgegeben) al<br />
vissuto in un qualche modo, sia secondo l’esistenza, sia secondo<br />
76
Questa ulteriore esplicitazione, ha consentito di delineare, oltre a<br />
quella già fissata di Außersein, due ulteriori “coordinate” generali che<br />
determinano la natura dell’oggetto. Questi tre punti, per quanto non<br />
ancora esaustivamente analizzati, si potrebbero chiamare i caratteri<br />
formali di un oggetto e possono essere riassunti per sommi capi così:<br />
l’oggetto<br />
i. è, preso nella sua purezza di Außersein, un puro nesso di<br />
determinazioni di esser-così;<br />
ii. propriamente non “c’è”, ma è “dato”;<br />
iii. questa datità è del tutto indifferente nei confronti di un<br />
eventuale soggetto che la afferri.<br />
Questa nuova formulazione, pur avendo messo in luce nuovi<br />
elementi, non riesce ancora a esplicitare quale sia il tratto che unifica<br />
questi tre caratteri e soprattutto cosa significa che un oggetto sia<br />
Außersein: si sono colti solo i caratteri sparsi dell’oggetto, ma non se ne è<br />
ancora compresa la loro reciproca complessione essenziale.<br />
Si ripercorra allora una volta di più il tentativo complessivo del<br />
filosofo di Graz: eliminare ogni particolarità individuale che la parola<br />
oggetto può suscitare e contemplarlo nella sua più ampia generalità<br />
possibile. Lungo questa strada si è giunti a fissare il legame tra Außersein<br />
e oggetto puro. Tale via si può anche caratterizzare come un<br />
la sussistenza, o quantomeno secondo l’Außersein. Per quanto in<br />
nessun modo l’oggetto è ridotto al vissuto né tanto meno il<br />
vissuto afferrante all’oggetto”. In Meinong (1917): pag. 17.<br />
77
progressivo e metodico avvicinamento al carattere fondamentale<br />
dell’oggetto nella forma di una continua generalizzazione (dall’oggetto<br />
reale e ideale, a quello impossibile ed infine all’oggetto puro) che si<br />
risolve alla fine in un asintotico avvicinamento privo di una visione<br />
d’insieme.<br />
Se però fosse possibile riscrivere il tentativo meinonghiano in<br />
termini diversi, si potrebbe gettare maggiore luce su cosa si sta<br />
ricercando. Se infatti venisse fissata la meta ideale alla quale la ricerca<br />
sarebbe supposta tendere, se ne potrebbe guadagnare in termini di<br />
puntualità e sintesi. Riconoscendo allora un pendant tra Meinong e il<br />
lavoro svolto in quello stesso giro d’anni da Edmund Husserl 163, si<br />
potrebbe fondatamente sostenere, che il filosofo di Graz è alla ricerca<br />
di quanto Husserl chiamava “l’essenza” dell’oggetto: la ricerca cioè di<br />
quel qualcosa che resta invariabile in ogni possibile variazione 164 della<br />
quale l’oggetto si fa portatore (das invariable Was) 165:<br />
163 La vicinanza tra Husserl e Meinong è confermata non solamente dall’essere<br />
stati entrambi allievi di Brentano, ma anche dalla comunanza dei problemi ai<br />
quali i due autori lavoravano. Questo legame è stato già largamente<br />
riconosciuto: per una valutazione complessiva, cfr. Findlay (1973), dove<br />
l’autore promuove la tesi di un Meinong “fenomenologo”, mentre per il<br />
carattere specifico del legame in merito alla tematica dell’Außersein, cfr.<br />
Jacquette (2001).<br />
164 In sostanza, quello che ho chiamato nel paragrafo precedente “oggettualità”.<br />
165 Cfr. Husserl (1995): trad. it. pag. 411.<br />
78
“(…) al senso di ogni essere contingente [per i nostri intenti: “al<br />
senso di ogni oggetto”] appartiene appunto un’essenza, un<br />
eidos afferrabile nella sua purezza (…)” 166.<br />
Una volta instaurato questo legame – per il quale cioè Meinong<br />
mirerebbe a quanto si potrebbe chiamare “l’essenza dell’oggetto” –<br />
sarebbe allora legittimo 167 cercare di operare qualcosa che Meinong<br />
però mai si ripropose di condurre, vale a dire una “visione eidetica”<br />
(Wesenserschauung) di tale essenza. Se fosse possibile vedere l’idea generale<br />
dell’oggetto, si potrebbe allora riempire di un significato più denso la<br />
nozione di Außersein e sperare così di procedere oltre nella determinazione<br />
del carattere fondamentale di quest’ultimo. In fondo, infatti, Meinong si<br />
è fermato ad una considerazione esteriore dei rapporti essenziali che<br />
vigono tra l’Außersein e l’oggettualità, senza proseguire nella discussione<br />
del problema che il legame instaurato sollevava.<br />
166 Husserl (2001): trad. it. pag. 15; sulla nozione di essenza e sulla sua duplice<br />
natura, materiale e formale, si articola poi la “logica formale” husserliana, così<br />
come essa viene elaborata nelle Ideen.<br />
167 Certo, questa legittimità va accettata solo cum grano salis, nella misura in<br />
cui Meinong considererebbe anche l’essenza un oggetto (e d’altra parte così<br />
viene anche riconosciuta da Husserl, cfr. Husserl (2001): trad. it. pag. 18).<br />
Scrive infatti il filosofo di Graz:<br />
“Ma cosa differenzia allora l’Eidos dall’oggetto nel senso<br />
“dell’oggetto puro”, al quale io ho assegnato Außersein?”<br />
Meinong (1913/1914): pag. 291.<br />
Questo però non preclude a priori la possibilità di tentare di utilizzare gli<br />
strumenti elaborati da Husserl ed applicarli in modo euristico alla ricerca<br />
meinonghiana.<br />
79
. “Vedere” l’essenza.<br />
Per quanto riguarda la visione eidetica, essa è definita nelle Ideen<br />
come una intuizione “radicalmente comune” alla intuizione empirica,<br />
cioè “coscienza di qualcosa, di un oggetto, di un qualcosa su cui si<br />
dirige lo sguardo e che le è dato “in se stesso” in questa intuizione”; ma<br />
nello stesso tempo le due intuizioni sono “distinte per principio”<br />
poiché una si interessa solo di dati di fatto, di singolarità empiriche,<br />
mentre l’altra di essenze, di eide 168. Ad essa però, nel testo del 1913, non<br />
viene prescritta nessuna metodica operativa: non si sa cioè come Husserl<br />
vorrebbe compiere questa visione d’essenza 169. Una chiara indicazione<br />
in questo senso ci verrà data dall’autore molto più tardi, in “Erfahrung<br />
und Urteil” dove alla Wesenserschauung verrà affiancata l’idea di eidetische<br />
Variation. La “variazione eidetica” deve insomma essere capace di<br />
liberare il fenomeno dal suo carattere di contingenza (Zufälligkeit) e per<br />
riuscirci essa si propone di variare nella pura fantasia (in reiner Phantasie)<br />
ogni carattere contingente 170. Quanto “resiste” a questa variazione, vale<br />
168 Cfr. Husserl (2001): trad. it. pag. 16-19.<br />
169 L’idea era originariamente quella di una “astrazione ideante”, ma poi questo<br />
procedere viene ritenuto insufficiente.<br />
170 Cfr. Husserl (1995): trad. it. pag. 314 – 315: “Si mostra allora che questa<br />
molteplicità di riproduzioni è attraversata da un’unità, che cioè nella libera<br />
variazione di un’immagine originaria, per esempio di una cosa, viene mantenuto<br />
in maniera necessaria un invariante come la forma universale necessaria senza<br />
la quale qualcosa come questa cosa, come esempio della sua specie, sarebbe<br />
impensabile. Questa forma emerge nell’esercizio di una variazione arbitraria<br />
come un contenuto assolutamente identico, un quid invariabile, secondo il quale<br />
si identificano tutte le varianti, un’essenza universale, mentre le loro differenze<br />
sono per noi irrilevanti. Noi possiamo volgere lo sguardo verso questa essenza<br />
come l’invariabile necessario che a tutte le variazioni, esercitate nel modo del<br />
“qualsivoglia” e comunque proseguibili, prescrive il loro limite, anche se sono<br />
variazioni della stessa immagine originaria.”<br />
80
a dire, quel carattere, modificando il quale non si riesce più ad avere di<br />
fronte lo stesso fenomeno, è l’essenza del fenomeno stesso 171.<br />
E’ così possibile operare una variazione eidetica sull’oggetto e<br />
trovare il nesso fondamentale di tutti i suoi caratteri. Si provi a variare<br />
liberamente i tre caratteri formali raggruppati attorno al concetto di<br />
“oggetto”, e quanto “resiste” a questa libera variazione verrà definita<br />
come l’essenza di tale nozione. Si possono così variare nell’oggetto:<br />
i. ogni particolare esser-così (ogni determinazione di Sosein).<br />
Questa variazione richiede però uno specifico chiarimento. Si è<br />
visto come l’oggetto individuale si identifichi con l’insieme delle<br />
determinazioni di Sosein; il motivo per il quale si deve poter<br />
variare nella fantasia ogni Sosein dell’oggetto individuale è che<br />
non si sta ricercando il carattere che rende un oggetto questo<br />
oggetto particolare (questo dato lo si è già acquisito: sono proprio i<br />
Sosein che rendono l’oggetto questo oggetto particolare), bensì quel<br />
carattere che rende tale l’oggetto in generale, vale a dire, quel<br />
carattere che rende tale qualsiasi oggetto. La variazione eidetica di<br />
ogni esser-così è allora giustificata dal fatto che, nel modificare<br />
liberamente ogni esser-così dell’oggetto (cioè trovandosi di<br />
fronte qualsiasi oggetto), ci si trova sempre e comunque di fronte<br />
ancora un oggetto, dimostrando così che le determinazioni di<br />
Sosein non sono quel invariables Was, quell’essenza dell’oggetto, di<br />
cui si è alla ricerca 172;<br />
171 Cfr. Husserl (1995): trad. it. §87, a.<br />
172 Se non fosse possibile compiere questa operazione (modificare ogni Sosein<br />
di un oggetto e di conseguenza variare liberamente ogni oggetto), non si<br />
riuscirebbe a prescindere proprio da quella Zufälligkeit, da quella contingenza,<br />
che invece la visione eidetica si propone di abbandonare.<br />
81
ii. ogni modo particolare di datità (esistenza o sussistenza);<br />
iii. la presenza del soggetto afferrante (cioè se si assume anche la<br />
mancanza di un soggetto afferrante).<br />
Quanto non si può variare, cioè l’unico carattere fondamentale<br />
comune a tutti gli oggetti e che però resiste alla variazione (come un che<br />
di “residuo”, nello stesso senso in cui Husserl parla della coscienza<br />
come di un residuo fenomenologico 173) è l’irriducibilità dell’esser dato<br />
in senso assoluto dell’oggetto. Noi possiamo variare come vogliamo<br />
ogni Sosein di un oggetto (ovvero avere qualsiasi oggetto di fronte a<br />
Il problema potrebbe però sussistere nella infinità del processo in atto: per<br />
operare una tale variazione, dovremmo infatti essere capaci di variare<br />
liberamente proprio ogni Sosein di un qualsiasi correlato oggettuale, così, ad<br />
esempio, di una mela, dovremmo poter variare tutti i suoi Sosein e da «“rossa” e<br />
“rotonda” e…», renderla nella fantasia «“blu” e “ottagonale” e…» o «“verde” e<br />
“quadrata” e…» (operazioni equivalenti a trasformare la mela originaria in un<br />
altro oggetto) e così all’infinito. E’ chiaro che un tale compito è irrealizzabile. Il<br />
problema viene però già ravvisato e risolto da Husserl:<br />
“Che l’eidos sia riferito ad una molteplicità, liberamente ad<br />
libitum riproducibile, di variazioni che vengono a coincidere,<br />
cioè ad una infinità aperta, non vuol dire che debba richiedersi un<br />
reale processo all’infinito, ossia una produzione reale di tutte le<br />
varianti […]. Allora noi, anche quando ci interrompiamo, non<br />
abbiamo tuttavia inteso la molteplicità di fatto delle varianti<br />
intuitive, singole, e trasportate l’una nell’altra […]; ma invece,<br />
come ogni singolo ha il carattere di essere esemplare ad libitum,<br />
così anche alla molteplicità delle variazioni appartiene pur<br />
sempre un essere ad libitum. […] A ogni molteplicità<br />
variazionale appartiene essenzialmente questa mirabile e tanto<br />
importante coscienza dello “e così via ad libitum”. Solo mediante<br />
essa è dato ciò che noi diciamo una molteplicità “apertamene<br />
infinita”.” In Husserl (1995): trad. it. pag. 315-316.<br />
173 Cfr. “Essa (la coscienza) rimane come »residuo fenomenologico«” in Husserl<br />
(2001): trad. it. pag. 77 – tra l’altro, la citazione prosegue poi così “…come una<br />
regione dell’essere per principio peculiare, che può di fatto diventare il campo<br />
di una nuova scienza – della fenomenologia”; nella argomentazione<br />
sull’Außersein, invece, non si parla più di una “regione dell’essere”, essendo ad<br />
un livello più generale. Da rilevare inoltre che il punto era ben chiaro a<br />
Meinong che riporta proprio come commento alle Ideen di Husserl: “in nessun<br />
82
noi), fino a presentarci un oggetto impossibile, al di fuori delle sfera di<br />
esistenza e sussistenza, e possiamo anche prescindere da un soggetto<br />
che lo afferri: esso resta comunque un oggetto dato, che sta lì 174.<br />
Insomma, se si variano tutti questi caratteri, si trova come<br />
l’oggetto coincide, nella sua purezza di Außersein, con un essere dato,<br />
con un esser-lì originario. L’oggetto è dato, ma non solo, esso è sempre lì, fuori<br />
di noi. Potrebbe sembrare una contraddizione sostenere che sussiste uno<br />
“stare lì” o un “esser dato” dell’oggetto se non si prende anche in<br />
considerazione in rapporto a cosa l’oggetto stia lì, o ancora a chi esso è<br />
dato, riducendo così il carattere più fondamentale dell’oggetto ad una<br />
dipendenza nei confronti del soggetto e quindi contravvenendo proprio<br />
alla regola della indipendenza dell’oggetto dal soggetto. Quello però che<br />
con “stare lì” si vuole esprimere è proprio il più ampio margine di<br />
indipendenza disponibile: quello della separazione, della esteriorità<br />
“spaziale”. Nel guardare un oggetto A, noi intratteniamo una relazione<br />
con l’oggetto: esso è definito in prima istanza dal fatto di essere-lì, fuori<br />
di noi. Ora, poco importa a quale distanza noi ci collochiamo ed è<br />
altrettanto irrilevante se noi siamo in grado o meno di percepire<br />
l’oggetto: esso infatti è comunque presente in tutta la sua esteriorità.<br />
Non è necessario che ogni “esser-lì” debba essere un “esser-lì” di cui si<br />
abbia conoscenza. Tale esteriorità rende l’oggetto tanto<br />
gnoseologicamente quanto ontologicamente del tutto indipendente. Sia<br />
il cerchio quadrato che il tavolo che ho di fronte non sono per nulla<br />
influenzati dalla percezione che io ne posso avere, essi sono lì in modo<br />
caso la fenomenologia può essere presa in senso così ampio, da inglobare<br />
l’intera Gegenstandtheorie”. In Meinong: (1913/1914): pag. 289<br />
174 Ha una soluzione il problema degli n corpi? Essa certo trascende tutte le<br />
nostre potenzialità, ma la soluzione è data e, per di più, non dipende da noi, ci è<br />
esterna, “sta lì”. A tal riguardo, cfr. Husserl (1900): pag. 185; trad. it., pag. 191.<br />
83
del tutto indipendente da me o da qualsiasi altro soggetto 175. Non solo:<br />
essi “sono lì” anche nei confronti di tutti gli altri oggetti. Vale a dire il<br />
cerchio quadrato è lì rispetto al tavolo e viceversa. I due oggetti, prima<br />
di qualsiasi altra relazione, intrattengono un rapporto di esteriorità nei<br />
loro reciproci confronti. Anche qualcosa che non c’è, insomma, può<br />
essere lì, e quel che è più importante per una teoria dell’oggetto, è<br />
proprio attorno a questa irriducibile esteriorità che esso si struttura<br />
“oggettualmente” 176, cioè che si danno i suoi caratteri di Sosein in modo<br />
indipendente da ogni soggetto.<br />
Va da sé che questa esteriorità è “spaziale” solo in senso<br />
metaforico: non si parla infatti di nessuna relazione metrica che<br />
intercorre tra il cerchio quadrato e il tavolo che ho di fronte. Essa è<br />
solo – per così dire – “fenomenologicamente” spaziale 177.<br />
175 Caso emblematico di riduzione dell’oggetto da esser-lì ad esser-qui, caso<br />
emblematico insomma della soppressione dell’esteriorità dell’oggetto, è<br />
rappresentato dal passaggio che in Husserl parte dalle Ricerche Logiche e porta<br />
fino alle Ideen: nelle LU Husserl distingue infatti un contenuto effettivo e un<br />
contenuto intenzionale della percezione esterna. La ricerca, nel testo del 1901,<br />
era volta unicamente ad uno studio descrittivo dei contenuti effettivi, ma<br />
durante il decennio che porta fino al 1913 Husserl modificherà le sue opinioni<br />
ed alla fine riterrà di dover includere nella ricerca anche il contenuto<br />
intenzionale, quindi non solo la manifestazione, ma anche ciò che si manifesta,<br />
dando così il via alla fenomenologia trascendentale e costitutiva. L’oggetto, da<br />
qualcosa che sta-lì, indipendentemente dalla coscienza, viene fatto rientrare in<br />
essa, perdendo così il suo carattere di esteriorità. Cfr. Costa: pag. 440 in:<br />
Husserl (2001).<br />
176 L’oggetto in questa prospettiva si “struttura” e non si costituisce. Vale a dire<br />
non esiste alcun processo di costituzione dell’oggetto, che è dato al contrario<br />
sempre in modo indipendente dal soggetto, esso cioè si presenta sempre<br />
secondo regole organizzative proprie che non dipendono dal soggetto afferrante.<br />
Dimostrazione sperimentale è data dallo studio gestaltista della “organizzazione<br />
dello spazio visivo”. Ben diverso il caso della fenomenologia husserliana dove<br />
la strutturazione è invece una Konstitution, cfr. Husserl (1991).<br />
177 Per la metafora spaziale, cfr. §10.<br />
84
L’oggetto insomma, ce lo ricorda il suo etimo sia in quanto<br />
Gegen-stand che in quanto ob-iectum, è quel qualcosa che sta lì e, sul piano<br />
etimologico, un’altra conferma si può trovare a questo punto anche nel<br />
termine Außer-sein, che si potrebbe intendere come uno stare-lì, fuori<br />
dall’essere. Esso è insomma quel carattere dell’oggetto che ha la<br />
possibilità di stare “fuori” dall’essere, lì fuori, secondo quella irriducibile<br />
determinazione “spaziale” che viene espressa (cfr. nota 121) dallo<br />
Außer-.<br />
Per riassumere, cosa accomuna un triangolo, un tavolo, un<br />
cerchio quadrato e, poniamo, il triangolo di Kanizsa? Il fatto che essi<br />
sono tutti oggetti, ovvero si strutturano in piena indipendenza dal<br />
soggetto e che sia nei suoi, sia anche in un loro eventuale reciproco<br />
confronto, essi sono posti in un rapporto di completa esteriorità. Il<br />
modo di datità è indifferente; infatti, ad esempio, il rosso fuori di me segue<br />
le stesse leggi del rosso che immagino in me: entrambi mi sono “esterni”<br />
e indipendenti – basti pensare che non possiamo afferrare un rosso,<br />
senza nello stesso tempo afferrare una superficie e questo vale sia per il<br />
rosso percepito sia anche per il rosso puramente presentato nella<br />
coscienza.<br />
Si potrebbe ritenere che, seguendo i grandi progetti idealistici 178,<br />
l’esteriorità si possa ridurre ad una esteriorità solo temporale. Ma che<br />
questo “lì” sia un “lì” di natura “spaziale”, prima ancora di essere<br />
temporale, ci viene dimostrato proprio da un caso particolare di oggetti<br />
che, come si è visto, fanno parte dell’insieme degli oggetti ideali: gli<br />
obiettivi. Anche gli obiettivi, come tutti gli oggetti, sono “esterni”,<br />
85
stanno lì, sono cioè außerseiend, ma a differenza degli oggetti reali che<br />
sono inclusi in un flusso temporale, gli obiettivi, secondo Meinong, non<br />
hanno alcun rapporto col tempo: essi sono intemporali 179. Il che<br />
significa che il tempo è solo un modo dell’esteriorità e non quello<br />
fondamentale 180, infatti l’esteriorità temporale presuppone sempre<br />
quella spaziale. Pertanto, gli obiettivi rimangono “esterni”, pur non<br />
rientrando in alcun rapporto temporale fra di loro.<br />
Si è quindi giunti a riempire di significato la nozione di Außersein.<br />
Resta da vedere in che modo esso attiene agli oggetti. Cioè<br />
comprendere come è possibile “nei fatti” che ogni oggetto sia Außersein<br />
e possa quindi essere collocato spazialmente.<br />
c. Gli oggetti e la collocazione spaziale.<br />
Uno dei modi con cui Meinong descrive l’oggetto è la sua natura<br />
di essere un fascio di determinazioni di Sosein. L’oggetto è sempre così,<br />
è sempre determinato. E’ allora chiaro che il discorso generale che<br />
sopra si è condotto riguardo all’Außersein deve trovare una sistemazione<br />
178 Faccio riferimento a Kant, Heidegger e (in parte) allo stesso Husserl, autori<br />
per i quali il ruolo della temporalità svolge un ruolo trascendentale<br />
fondamentale.<br />
179 Meinong (1910): pag. 64, 76.<br />
180 Anzi per Meinong esso si riduce a momento soggettivo, un:<br />
“inserimento ingiustificato nella nostra concezione dell’esistenza<br />
di un momento del tutto soggettivo quale si palesa nella<br />
circostanza per cui ogni esistenza appare determinata come<br />
passata, presente e futura; mentre questa determinazione non è<br />
altro, ogni volta, che una relazione tra tempo del giudizio e tempo<br />
dell’oggetto, la quale per il reale in sé è altrettanto casuale<br />
proprio come per il medesimo è casuale se e quando esso è<br />
86
adeguata nei confronti di ogni singolo oggetto. Ma che cosa significa<br />
che ogni oggetto è dato lì, in che senso esso intrattiene dei rapporti<br />
spaziali?<br />
Per dimostrare questa attinenza intrinseca della determinazione<br />
spaziale alla strutturazione dell’oggetto vorrei fare riferimento ad una<br />
posizione filosofica che, per certi versi, è vicina a quella di Meinong:<br />
quella leibniziana.<br />
Ora, secondo Leibniz, si può dire che “di una cosa vi è una<br />
unica essenza, ma (che) vi sono più definizioni che esprimono la stessa<br />
essenza”, è però preferibile se “seguendo l’uso comune si dicesse che<br />
l’essenza dell’oro è ciò che lo costituisce e che gli dà quelle qualità<br />
sensibili che lo fanno riconoscere e fonda la sua definizione nominale,<br />
mentre ne avremmo la definizione reale e causale se potessimo spiegare la<br />
sua struttura interna” 181. La definizione nominale viene anche definita<br />
come “l’enumerazione delle note sufficienti” 182. Quando siamo in<br />
grado di esprimere una definizione nominale attorno ad una cosa o ad<br />
una nozione, ne abbiamo una conoscenza distinta 183 che può essere<br />
adeguata o inadeguata, intuitiva o cieca–simbolica. Il risultato è che, se<br />
conosciuto da chicchessia” in: Meinong (1899): pag. 457, trad. it.<br />
pag. 95.<br />
181 Leibniz (1765): trad. it. pag. 418; la definizione causale è quella che non solo<br />
ci permette di conoscere il “modo secondo il quale la cosa può essere prodotta”,<br />
(Leibniz (1684): trad. it. pag. 679), “ma mostra anche che i loro nessi reciproci<br />
non danno luogo a contraddizione”, cfr. Mugnai (1996): pag. 68.<br />
182 Leibniz (1684), trad. it. pag. 677; vengono dette distinte quelle idee che<br />
“sono ben distinte in sé stesse e (che) distinguono nell’oggetto i segni che lo<br />
fanno riconoscere, che ne danno l’analisi o la definizione”, Leibniz (1765): trad.<br />
it. pag. 380.<br />
183 La nozione distinta è una forma della conoscenza chiara (l’altra forma è la<br />
conoscenza confusa – quella che di solito si ha in forza solo di una percezione<br />
sensibile); alla conoscenza chiara si contrappone quella oscura, vale a dire, la<br />
87
si è in grado di avere una conoscenza adeguata (come è il caso della<br />
conoscenza dei numeri – che le si “avvicina fortemente”), cioè se si è<br />
“spinta l’analisi fino all’ultimo termine” 184, e in ciò non abbiamo<br />
utilizzato dei segni (il che ci assicurerebbe una conoscenza adeguata, sì,<br />
ma “cieca o simbolica”), bensì abbiamo proceduto solamente in forza<br />
di intuizioni (dato possibile però solo per le nozioni primitive 185 o<br />
distinte), allora otterremo una conoscenza perfetta. E’, questo, il motivo<br />
per il quale, un cieco 186, al quale si fossero date le definizioni esatte di<br />
una sfera e di un cubo e che avesse toccato entrambi i solidi, se di colpo<br />
riacquistasse la vista, sarebbe in grado di indicare, semplicemente<br />
vedendoli, quale dei due solidi è il cubo e quale la sfera 187. Ma forse<br />
ancora più significativo per i nostri intenti è questo ulteriore esempio: il<br />
chiliagono, per quanto impossibile da rappresentare, è definito dal fatto<br />
di avere mille lati. Una volta acquisita questa definizione, si può<br />
dimostrare “ogni sorta di verità” su di esso 188.<br />
Insomma, la conoscenza si svolge per Leibniz lungo il<br />
reperimento di note dell’oggetto, di sue determinazioni o proprietà, di<br />
suoi – in termini meinonghiani – Sosein 189. Noi conosciamo un oggetto<br />
conoscenza che non consente di riconoscere appieno la cosa rappresentata. Cfr.<br />
Leibniz (1684): trad. it. pag. 675-676.<br />
184 E se si è in grado di formulare una “definizione reale” a riguardo, cioè di<br />
mostrare che le determinazioni della nozione, non essendo tra di loro<br />
contraddittorie, rendono possibile la nozione.<br />
185 Le nozioni primitive sono o di ragione o di fatto. Di ragione sono le verità<br />
identiche (“che non sembra non facciano che ripetere la stessa cosa”), di fatto<br />
sono delle “esperienze immediate interne”. Leibniz (1765): trad. it. pag. 491-<br />
497.<br />
186 Si tratta del famoso esperimento di Molyneux.<br />
187 Leibniz (1765): trad. it. pag. 261.<br />
188 Leibniz (1765): trad. it. pag. 386.<br />
189 Il parallelo è stato già riconosciuto, cfr. Parsons (1978): l’autore ritiene che<br />
la teoria leibniziana sia un “frammento” della teoria degli oggetti (Parsons parla<br />
di “ontologia”) di Meinong: i due filosofi infatti concorderebbero proprio nelle<br />
88
se ne possiamo elencare le sue determinazioni. Questa è anche la<br />
prospettiva gnoseologica meinonghiana: un oggetto è conosciuto se è<br />
possibile enumerarne le determinazioni di Sosein. Inserita in questa<br />
convergenza di vedute, la trattazione che Leibniz fa dello spazio, dà<br />
degli spunti interessanti che possono servire al nostro intento di<br />
comprendere meglio in che senso gli oggetti sono collocati<br />
spazialmente.<br />
Secondo Leibniz, che ha come bersaglio polemico anche<br />
Newton e la sua concezione dello spazio come sensorium divino 190, non<br />
esiste uno spazio vuoto 191 ed esso è solamente l’ordine delle cose 192. Il<br />
che significa, ad esempio, che la collocazione del tavolo che ho di<br />
fronte non ha delle coordinate assolute, ma che essa si definisce in base<br />
a tutti gli altri oggetti, sicché, “se un nuovo coesistente acquista lo<br />
stesso rapporto che il primo aveva avuto con altri, si dice che è venuto<br />
al suo posto” 193. Ancora più chiaramente:<br />
“«posto» (place) è ciò che si dice essere lo stesso per A e<br />
per B, quando il rapporto di coesistenza di B con C, E, F,<br />
loro teorie su quelle che Parsons chiama “proprietà nucleari” dell’oggetto: cioè<br />
le sue determinazioni di Sosein o le sue “note”, sulle proprietà nucleari cfr.<br />
anche Parsons (1977).<br />
190 Che la natura dello spazio sia una questione che presenta una profonda<br />
rilevanza metafisica e non solamente un oggetto di discussione fisicomatematico,<br />
è ben messo in luce dalle implicazioni filosofiche dell’evoluzione<br />
di questa nozione nel periodo a cavallo tra il XV e il XVIII secolo. Cfr. Koyré:<br />
“From the closed World to the Infinite Universe”.<br />
191 Sarebbe allora interessante notare en passant come in fondo non ci sia una<br />
grossa differenza nel sostenere che “non esiste uno spazio vuoto” (Leibniz) e<br />
che “tutto è oggetto” (cfr. Meinong (1988b): pag. 68): le due espressioni<br />
sembrano essere quasi equivalenti.<br />
192 Non mi interesso qui degli argomenti di natura teologica.<br />
89
G, è perfettamente congruente con il rapporto di<br />
coesistenza che A ha avuto con i medesimi, supposto che<br />
non vi sia stata altra causa di cangiamento in C, E, F,<br />
G.” 194<br />
Lo spazio secondo Leibniz non è nulla in sé, ma è un ordine, un<br />
rapporto che le cose intrattengono le une con le altre, senza le quali<br />
quindi non ci sarebbe alcuno spazio (così come nessun tempo). Un<br />
punto interessante è inoltre che in questo rapporto non rientrano solo<br />
le cose, ma anche “i possibili” 195, cioè “tempo e spazio si riferiscono<br />
(anche) a possibilità indipendenti dall’esistenza” 196. Insomma lo spazio<br />
è una funzione del corpo e dei possibili 197, esso è costitutivo<br />
dell’oggetto nella misura in cui – diremmo – esso è una delle sue<br />
determinazioni di Sosein.<br />
Così, seguendo il pensiero leibniziano, riusciamo a determinare<br />
la collocazione spaziale come un momento costitutivo dell’oggetto. Se,<br />
cioè, riconduciamo la collocazione spaziale ad una determinazione di<br />
Sosein, allora, grazie alla scissione fissata dal principio di indipendenza<br />
tra Sosein e Sein, anche l’oggetto preso al di là della sua esistenza o<br />
sussistenza, cioè nella sua purezza, mantiene delle determinazioni di<br />
natura spaziale. Quindi, in forza del principio meinonghiano, secondo il<br />
quale anche un oggetto impossibile è a pieno titolo un oggetto, si può<br />
estendere la posizione di Leibniz, originariamente limitata agli oggetti<br />
193 Leibniz (1715-1716): trad. it. pag. 350.<br />
194 Leibniz (1715-1716): trad. it. pag. 350.<br />
195 Leibniz (1765): trad. it. pag. 274.<br />
196 Leibniz (1765): trad. it. pag. 278.<br />
197 Leibniz (1715-1716): trad. it. pag. 322.<br />
90
eali o possibili, anche a quelli impossibili, dal momento che anche ad<br />
essi ineriscono delle determinazioni spaziali di Sosein. Inoltre, sulla base<br />
di quanto si è scoperto riguardo all’Außersein, poiché si ritiene che esso<br />
sia – per così dire – la condizione di possibilità dell’essere oggetto,<br />
allora sarà solo grazie al fatto che un oggetto è dato lì (Außersein), che<br />
esso potrà essere caratterizzato da ulteriori determinazioni spaziali nei<br />
confronti di altri oggetti ed eventualmente nei confronti di un soggetto.<br />
Se questo discorso è facilmente applicabile a tutti gli oggetti<br />
reali 198, e per parte di quelli ideali (si pensi ad esempio alle figure<br />
geometriche), come poter connotare il Sosein spaziale di, poniamo, un<br />
obiettivo quale, ad esempio, “che la mela è rossa”? E’ cioè facilmente<br />
intuibile in che senso una mela stia lì fuori in modo indipendente<br />
(Außersein) ed anche in che senso una mela stia lì nei confronti, ad<br />
esempio, dell’albero da cui pende, ma è difficilmente comprensibile in<br />
che senso oggetti come “la mela” presa nella sua purezza o l’obbiettivo<br />
“che la mela è rossa”, siano spazialmente collocati, ovvero in che senso<br />
essi hanno una determinazione di Sosein spaziale. Insomma, in quale<br />
spazio si situa l’obiettivo “che la mela è rossa”, oppure l’oggetto puro<br />
“mela”?<br />
Per risolvere questa difficoltà, bisogna innanzitutto sottolineare<br />
come si siano venuti a determinare due significati di collocazione o<br />
determinazione spaziale: il primo che coincide con la datità e<br />
l’esteriorità dell’oggetto, cioè con il suo Außersein, e il secondo invece<br />
198 Per i quali le determinazioni di Sosein si strutturano in modo metrico.<br />
91
con il suo Sosein spaziale, cioè il suo essere elemento di un ordine<br />
spaziale 199. La prima è la condizione della seconda.<br />
Da quanto si è osservato, tutti gli oggetti sono portatori di<br />
Außersein ed in questo senso lo è quindi anche la “mela pura” (cioè data,<br />
esterna al soggetto ed a ogni altro oggetto) o l’obiettivo “che la mela è<br />
rossa”. Per quanto concerne invece la determinazione di Sosein, questi<br />
oggetti devono essere in un ordine spaziale che sia in grado di valere<br />
nonostante essi siano oggetti non esistenti o presi come non esistenti.<br />
Certo non si può ritenere che l’obiettivo “che la mela è rossa” si trovi in<br />
un qualche rapporto spaziale con l’obiettivo “che la mela è rotonda”. E’<br />
assurdo ritenere infatti che tra questi due oggetti possa valere un ordine<br />
spaziale inteso come quello vigente per gli oggetti fisici (anche se questo<br />
però non esclude il progetto di teorizzare un vero e proprio “spazio<br />
logico”, diverso da quello fisico 200). Ma senza discutere, o addentrarsi<br />
in, un progetto del genere, si può comunque argomentare sostenendo<br />
199 Per questo ho sempre virgolettato il termine “spazio” (e derivati) in<br />
riferimento all’Außersein, mentre quando riferisco tale espressione alla<br />
determinazione di Sosein lo lascio senza virgolette.<br />
200 Senza contare che una tale tesi è stata già elaborata da Wittgenstein nel suo<br />
Tractatus e non è un caso che, ad esempio, proprio di questo testo sia stato<br />
detto: “Le pagine iniziali del Tractatus sono Gegenstandstheorie pura e<br />
semplice, e il loro tedesco echeggia spesso quello di Meinong” in Ryle (1972):<br />
pag.8. La nozione di Sachverhalt (stato di cose) infatti ricorda da vicino quella<br />
di Objektive. Per evitare però di allargare troppo il mio lavoro, farò unicamente<br />
riferimento alla voce “logical Space (logischer Raum)” del Wittgenstein<br />
Dictionary di Glock; cfr. Glock (1996): pag. 220. Ora, secondo Wittgenstein<br />
l’esistenza contingente degli stati di cose è inserita in un ordine a priori di<br />
possibilità, per le quali è possibile parlare di uno “spazio logico”, infatti: “ci<br />
sono numerose dimensioni per l’analogia tra lo spazio e l’insieme di possibilità<br />
logiche”. Soprattutto quattro sono i punti presi in considerazione: (1) esiste un<br />
“luogo” (Ort) nello spazio logico, determinato da una proposizione; questo<br />
luogo (2) è garantito da una serie di coordinate (quanto noi abbiamo chiamato<br />
“determinazioni di Sosein”), come ad esempio l’esistenza dei suoi componenti;<br />
(3) lo spazio può essere occupato (pieno) o vuoto; ed infine (4) tale spazio è il<br />
campo di ogni possibile cambiamento o combinazione degli oggetti in fatti.<br />
92
che con almeno due elementi esterni (esterni in quanto portatori di<br />
Außersein) questo obiettivo entra in un ordine spaziale: innanzitutto con il<br />
suo infimum, cioè con l’oggetto che l’obiettivo prende come suo<br />
materiale (la mela), e poi con il soggetto che lo intenziona con un atto<br />
di giudizio. Con questi due elementi si dà insomma un ordine<br />
prospettico spaziale nel quale anche l’obiettivo si situa.<br />
Infine, per riassumere, l’Außersein garantisce quella esteriorità e<br />
indipendenza dell’oggetto che permette l’innestarsi, su questa<br />
esteriorità, di determinazioni di Sosein capaci di inserire l’oggetto in una<br />
griglia spaziale con altri oggetti o con un soggetto. Proprio perché due<br />
oggetti sono esterni l’uno all’altro, essi possono infatti entrare in una<br />
relazione spaziale.<br />
§10. Außersein senza oggetto?<br />
Ho cercato in questi ultimi due capitoli di dare una<br />
interpretazione unitaria del termine Außersein, dei suoi rapporti con<br />
l’oggetto, del modo con cui, a partire da esso, l’oggetto si può<br />
strutturare in quanto tale e di come, infine, ciò vada inteso, in prima<br />
istanza, in senso spaziale.<br />
Si ricorderà però l’oscillazione che Meinong mostrava nel<br />
trattare l’Außersein o come una nozione a sé (era la versione “non<br />
ufficiale”, che poneva il problema di un Quasisein come terzo modo<br />
d’essere), o come identificantesi con l’oggettualità dell’oggetto. La<br />
strada che io ho cercato di battere nei due capitoli precedenti era uno<br />
svolgimento della tesi “ufficiale” di Meinong: ve n’è una diversa?<br />
Inoltre, è proficuo parlare di Außersein in sé, ovvero senza fare alcun<br />
93
iferimento all’oggetto? Sulla base di alcuni elementi individuati nella<br />
trattazione precedente, ritengo di sì. Uno di questi è di sicuro il chiaro<br />
imbarazzo che si ha nell’usare espressioni quali «l’oggetto “è”<br />
Außersein», che di certo non è ancora una qualificazione adeguata del<br />
rapporto che vige tra Außersein e oggetto, dal momento che il primo<br />
non è una proprietà del secondo al pari di qualsiasi Sosein, visto che<br />
l’Außersein è la condizione grazie alla quale si struttura ogni Sosein. Un<br />
altro motivo, connesso col precedente, per il quale sarebbe auspicabile<br />
trattare l’Außersein sotto una diversa prospettiva, combacia con un dato<br />
intuitivo immediato: posto che l’oggetto per essere oggetto debba<br />
essere “dato lì”, esso dove starebbe?<br />
Certo, se già era lontano dalle tesi di Meinong il trattare<br />
l’Außersein come esteriorità spaziale dell’oggetto, non si può nascondere<br />
che lo sia ancora di più adesso cercare di battere una via che già nella<br />
prospettiva di Meinong era tentennante. Ma dal momento che ritengo<br />
filosoficamente più interessante e fruttuoso rendere produttivo un<br />
concetto, tentando di farlo reagire (come se si trattasse di una reazione<br />
chimica) con altri elementi, piuttosto che esporlo nella sua austerità,<br />
procederò oltre.<br />
Finora ci si è occupati dell’Außersein solo nella sua relazione con<br />
l’oggetto, ed è stato detto in breve che:<br />
i. l’oggetto, prima ancora di esistere, di sussistere o di essere, è<br />
dato; si situa cioè “al di là dell’essere e del non essere” (Jenseits<br />
von Sein und Nichtsein 201);<br />
201 Meinong (1988a): pag. 12; Meinong parla dell’oggetto puro in quanto<br />
Außersein come posto al di là dell’essere e del non essere.<br />
94
ii. questa particolare datità, per garantire l’indipendenza ontologica<br />
dell’oggetto da ogni soggetto e da ogni altro oggetto, deve essere<br />
connotata spazialmente;<br />
iii. l’oggetto, grazie al fatto di essere “fuori” ogni altro oggetto e<br />
ogni soggetto, determina attorno a tale datità i suoi Sosein; tra<br />
questi Sosein vanno elencati anche quelli che inseriscono<br />
l’oggetto in questione in una griglia ordinata spazialmente con<br />
tutti gli altri oggetti.<br />
Queste sono state le conclusioni delle analisi precedenti; sulla<br />
base di esse si provi adesso a ribaltare il punto di vista, lasciando<br />
momentaneamente da parte l’oggetto, come proponeva la tesi del<br />
Quasisein. Se infatti è stato detto che l’oggetto è tale sempre e solo se<br />
dato lì, allora che cos’è quel “lì” nel quale l’oggetto è essenzialmente<br />
dato? Dove si trova l’oggetto puro? Sembra delinearsi così un nuovo<br />
oggetto di analisi: uno spazio o un luogo all’interno del quale si<br />
situerebbe sempre l’oggetto puro; o meglio, visto il legame essenziale che<br />
vige tra le due nozioni, si propone all’analisi uno spazio, il collocarsi<br />
all’interno del quale rende oggetto un oggetto. Si è però sprovvisti degli<br />
strumenti teorici adatti per riuscire ad analizzare questo nuovo<br />
elemento. Il reperimento di tali strumenti passerà allora attraverso il<br />
riferimento ad argomenti filosofici contigui, ma maturati in un contesto<br />
di natura apparentemente diversa.<br />
Si ricostruisca adesso la struttura gnoseologica meinonghiana,<br />
per la quale il soggetto intenziona un oggetto per il tramite di un<br />
contenuto. Per quanto è stato detto, l’oggetto può anche non essere e<br />
ciononostante essere intenzionato. Questo grazie al fatto di essere dato<br />
95
lì, di essere esteriore al soggetto, che è propriamente l’unico modo<br />
perché l’intenzionalità si possa attivare.<br />
Esattamente da questo stesso punto di partenza inizia il lavoro al<br />
quale noi vogliamo riferirci per vedere se sia possibile analizzare<br />
l’Außersein al di fuori della considerazione del suo legame con l’oggetto:<br />
“Nella contemporanea gnoseologia si separa l’oggetto, il<br />
contenuto e l’atto e si spiega la relazione di questi elementi<br />
fra di loro” 202.<br />
Mi riferisco al testo “Luogo” di Nishida Kitaro 203. Trarre da<br />
questo autore gli strumenti teorici di cui si ha bisogno potrebbe<br />
considerarsi problematico: esso infatti implicherebbe il mettere in<br />
relazione due autori che a causa della loro lontananza geografica e<br />
culturale richiederebbero di per sé delle considerazioni preliminari, le<br />
quali andrebbero però a coincidere con l’intera filosofia interculturale e<br />
i suoi metodi. D’altra parte il presente lavoro non si interessa né di tali<br />
argomenti nello specifico né mira a delucidarli: l’unico suo intento è<br />
quello di proporre una lettura coerente dell’Außersein e lo stesso ricorso<br />
202 Nishida (1926): pag. 72; tutte le indicazioni di pagina di questo testo sono<br />
tratte dalla traduzione tedesca.<br />
203 Il cognome precede, secondo l’uso giapponese, il nome. Per una storia del<br />
pensiero di questo autore, nonché della scuola a cui fece capo in Giappone, cfr.:<br />
Pörtner/Heise (1995): pag. 347-356; Ohashi (1990): pag. 11-45, (1986): pag.<br />
121 – 134, inoltre i due numeri monografici dedicati a questa scuola: “Revue<br />
Philosophique de Louvain”, n. 4, 1994; e “Études phénoménologiques”, n.18,<br />
1993, oltre a Cestari (1996), una visione di più amplio raggio sulla filosofia<br />
96
a testi nishidiani viene eseguito unicamente nella speranza di trarne<br />
spunti ed impulsi volti a questo fine 204. Quindi non mi soffermerò su<br />
questi temi e discuterò di Nishida Kitaro come di un qualsiasi altro<br />
filosofo occidentale 205. D’altra parte, oltre che per la vicinanza dei<br />
problemi trattati, come la citazione precedente dimostra, sappiamo che<br />
Nishida aveva ben presente il lavoro dei brentaniani tanto da aver letto,<br />
tra gli altri, Meinong stesso e aver preso anche posizione con il pensiero<br />
dell’autore in alcuni passi 206.<br />
Ora, l’atto deve avere come oggetto qualcosa che gli è<br />
trascendente. E’ chiaro però che per riuscire ad afferrare tale<br />
trascendenza l’atto deve poter entrare in una qualche relazione con<br />
l’oggetto 207. Come è possibile? Secondo Nishida, una tale relazione è<br />
giapponese contemporanea – in particolare dell’era Meiji – è proposta da:<br />
Piovesana (1968).<br />
204 Il testo a cui faccio riferimento segna infatti solo un momento dell’intero<br />
sviluppo del pensiero dell’autore, che tradizionalmente viene riassunto in tre<br />
fasi. La prima è interessata all’elaborazione di una teoria della intuizione pura e<br />
viene fatta iniziare con la prima pubblicazione dell’autore (“Studio sul bene”,<br />
1911 – trad. ted. “Über das Gute”, 2001), la seconda mira a teorizzare, attorno<br />
alla scoperta della nozione di “luogo”, una “logica del luogo” (questa fase inizia<br />
nel ’26, proprio con il testo qui trattato), mentre l’ultima fase ha al suo centro<br />
soprattutto temi di filosofia della storia e della religione (1930 ca. – 1945); per<br />
questo sviluppo si confronti: Andolfato e Pasqualotto in: Nishida (1996) e<br />
Cestari in: Nishida (2001).<br />
205 Dando quindi per scontato che l’autore in questione sia innanzitutto un<br />
filosofo nel senso occidentale del termine, che si sia cioè interessato di quei<br />
problemi appartenenti a quella tradizione culturale nella quale si è sviluppata la<br />
filosofia così come è da noi conosciuta e, infine, che non ci sia alcun tipo di<br />
filtro, linguistico o concettuale, attraverso il quale debba passare la ricezione di<br />
tale autore e delle sue idee. Ma che questa serie di assunzioni non sia così<br />
lineare è dimostrato anche solo dalla travagliata introduzione di un equivalente<br />
giapponese che traducesse il termine “filosofia”; a riguardo, cfr. Marchianò in:<br />
Cestari (1996) pag. 7-23.<br />
206 Cfr. Nishida (1987): pag.72, 113, 114, 162, il testo è una raccolta di saggi<br />
incentrati su temi di gnoseologia dove l’autore fa più volte riferimento al testo<br />
“Über Gegenstandstheorie” del 1904.<br />
207 Questo è chiaro anche in base a quanto abbiamo scritto nei precedenti<br />
capitoli, se l’oggetto fosse preso unicamente nella sua valenza di Außersein, di<br />
97
esa possibile dal fatto che oggetto e soggetto si trovano nello stesso<br />
luogo. Questo luogo però, in quanto si deve fare carico anche di essere<br />
condizione dell’indipendenza dell’oggetto, non può essere<br />
semplicemente un soggettivo campo di coscienza, un puro<br />
Bewußtseinsfeld – esso è sì una prima forma con cui possiamo intendere<br />
questo luogo 208, ma:<br />
“Si accetti che l’oggetto trascende l’atto soggettivo ed è<br />
indipendente, allora il luogo dal quale l’oggetto oggettivo<br />
(objektiver Gegenstand) scaturisce non può essere<br />
soggettivo” 209<br />
Questo, in una certa misura, può essere confermato anche dalle<br />
analisi precedentemente condotte: esse, partendo dall’oggetto,<br />
concludevano che esiste, nell’oggetto, una determinazione di Sosein per<br />
pura esteriorità, senza avere la capacità di instaurare delle relazioni di Sosein<br />
con il soggetto, allora esso resterebbe sì oggetto, ma non si avrebbe alcuna<br />
possibilità di afferrarlo: esso resterebbe oggetto, ma fuori ogni attingibilità. Su<br />
questo punto Meinong mantiene tuttavia una posizione imbarazzante, per la<br />
quale all’oggetto non è essenziale l’essere afferrato, bensì il poter essere<br />
afferrato (cfr. Meinong (1988b): pag. 76). Ma ad es. il problema degli n corpi<br />
che trascende ogni possibilità cognitiva umana non può essere afferrato (è un<br />
compito troppo complesso per le facoltà umane), pur restando – al contrario di<br />
quanto Meinong in quel passaggio sembrerebbe affermare – un oggetto. E’<br />
possibile però risolvere la questione leggendo la “possibilità” in senso<br />
estremamente allargato, come “non contraddittorietà” (e, credo, così si dovrebbe<br />
intendere quella citazione): è logicamente possibile (e cioè non contraddittorio)<br />
afferrare la soluzione degli n corpi, quindi tale soluzione è un oggetto.<br />
208 “Noi possiamo inizialmente (zunächst) pensare questo luogo come questo<br />
campo di coscienza”, Nishida (1926): pag. 74.<br />
209 Nishida (1987): pag. 73.<br />
98
la quale esso si colloca in un determinato posto nei confronti di tutti gli<br />
altri oggetti, nonché di un soggetto:<br />
“Il luogo-in-cui (Ort-Worin), nel quale si trova l’oggetto,<br />
deve anche essere il luogo-in-cui, nel quale si trova anche<br />
la coscienza ”. 210<br />
Insomma, è solo grazie al fatto che oggetto e soggetto si trovano<br />
in un luogo comune che essi possono entrare in relazione tra di loro.<br />
Tra queste nozioni topologiche vige però una struttura articolata.<br />
Infatti, ogni oggetto “essente”, che è (sostituendo coi termini<br />
meinonghiani, che esiste o sussiste), per essere conosciuto da un<br />
soggetto, si colloca insieme ad esso in un luogo “essente”, nel luogo<br />
dell’essere, nel quale esso viene intenzionato dall’atto. Viceversa, un<br />
oggetto “negativo” come potrebbe essere “– 2” si colloca in un altro<br />
luogo, diverso da quello dell’essere, che si potrebbe chiamare luogo del<br />
non essere. Si prenda ora però il senso ampio di oggetto, per il quale<br />
anche un cerchio quadrato è un oggetto; il problema che esso comporta<br />
sarà: dove sta un cerchio quadrato? Esso si colloca “oltre” la dicotomia<br />
tra essere e non essere, non può quindi rientrare in un “luogo<br />
dell’essere”, dandosi in una regione ulteriore. E’ interessante a questo<br />
proposito notare come di fronte al problema meinonghiano di definire<br />
questo “oltre”, l’autore giapponese scelga una via diversa. In questo<br />
indubbiamente influenzato da una sensibilità differente rispetto a quella<br />
210 Nishida (1926): pag. 84.<br />
99
occidentale e parmenidea 211, alla domanda: “come poter comprendere<br />
qualcosa che è capace di stare al di là dell’essere e del non essere?” 212<br />
Nishida, al posto di decidersi per una ricerca mirata all’oggetto (come<br />
invece Meinong fa), investe frontalmente tale “qualcosa” e lo definisce<br />
nuovamente sì come “luogo”, ma come un luogo di maggior<br />
profondità paragonato a quello dell’essere o del non essere al di là dei<br />
quali esso si colloca: esso è, espresso in un linguaggio<br />
metafisicheggiante, il “vuoto” o il “luogo del nulla assoluto” 213.<br />
211 Basti pensare, da un lato, alle nozioni centrali di impermanenza e di vuoto<br />
della metafisica buddista che per così dire è il background culturale, dal quale<br />
Nishida prende le mosse. Dall’altro, bisogna ricordare che, per quanto Nishida<br />
non ammettesse nessun contatto tra le due sfere (in una lettera a Nishitani Keiji,<br />
suo amico e studente, appartenente alla scuola di Kyoto, Nishida scrive a<br />
riguardo di chi accostava la sua filosofia allo zen: “questa gente non capisce né<br />
lo zen né la mia filosofia”, in: Cestari (2001): pag. 10), il filosofo stesso<br />
apparteneva alla scuola zen Rinzai, la quale, insieme alla seconda scuola zen<br />
principale, la scuola Soto, fa un largo uso di categorie quali quelle di “vuoto” e<br />
di “nulla”, avendole mutuate dal taoismo cinese già prima del loro sbarco in<br />
Giappone nel XIII secolo (1191 la Rinzai, 1227 la Soto). Alla luce di questo<br />
paragone, non può essere allora la forza del pregiudizio in favore del reale (nella<br />
forma di un ontologismo parmenideo) che spinge Meinong a scontrarsi con un<br />
Außersein che, se visto in sé, non viene riconosciuto altrimenti che come un<br />
Quasisein?<br />
212 Nishida non parla di oggetti impossibili, ma si può considerare come un<br />
analogo della nozione di oggetto impossibile quella di koan, cioè della<br />
“domande, discussioni o storie impossibili”, che è una pratica di meditazione<br />
ricorrente nello zen Rinzai; un esempio di koan è la seguente discussione:<br />
“Monaco: come si può esprimere il silenzio?<br />
Maestro: io non lo esprimerò qui.<br />
Monaco: dove allora?<br />
Maestro: la scorsa notte, a mezzanotte, ho perduto tre soldi<br />
accanto al letto”<br />
Riportato in: Harvey (1990): pag. 153; cfr. anche Pasqualotto (2002): pag. 67.<br />
Se Meinong si è interessato al problema del senso per il quale si dice che un<br />
cerchio quadrato è un oggetto, si può dire che Nishida si è interessato alla logica<br />
che sottostà a formulazioni linguistiche come i koan.<br />
213 Un luogo dal significato certamente metaforico, dove si trova infatti il<br />
cerchio quadrato? La connotazione spaziale è palesemente solo metaforica, non<br />
si può infatti ammettere un vero e proprio spazio metrico per cose che non<br />
esistono o per fenomeni interni alla coscienza. Una stretta vicinanza si può<br />
riconoscere, (a riguardo, cfr. Elberfeld (1994)), con la “vendita dei sogni” che<br />
100
“Il vero nulla deve contenere in sé l’ente e il non ente<br />
(come contrapposto 214), esso è il luogo che lascia scaturire<br />
l’essere e il nulla”. 215<br />
Se l’Außersein (in quanto ciò che sta al di là dell’essere e del non<br />
essere) viene allora riconosciuto come “vuoto” o “luogo del nulla<br />
assoluto” (sono espressioni equivalenti), l’espressione “non essere”<br />
assume due significati. Il primo di questi è la negazione dell’essere, una<br />
pura contrapposizione negativa all’essere (poniamo: 2 e –2), che si<br />
colloca in fondo sullo stesso piano di ciò che nega (è il non essere che<br />
affianca l’essere, al di là dei quali sta l’Außersein), mentre il secondo<br />
significato assume un diverso valore, infatti esso non si pone più sullo<br />
stesso piano dell’essere come diretta negazione, bensì è quanto sottende<br />
sia all’essere che al non essere, ciò che li contiene entrambi, stando<br />
nello stesso tempo “oltre entrambi”. In questo Nishida giunge a<br />
riconoscere il cul-de-sac meinonghiano del Quasisein: se infatti si<br />
ponesse un terzo modo di essere, allora si riproporrebbe una sua<br />
smercerebbe la teoria platonica della khora, come di un terzo genere (triton allo<br />
genos) tra il mondo delle idee e quello del divenire, nel quale entrambi vengono<br />
collocati. Anche in quel caso Platone poteva argomentare solamente sul filo<br />
della metafora onirica:<br />
“Il terzo genere è quello dello spazio (khora), che non ammette<br />
deperimento e procura una sede a tutto quanto nasce, e si può<br />
afferrare senza la sensazione con un ragionamento illegittimo, a<br />
stento credibile, tenendo conto del quale noi vendiamo sogni e<br />
diciamo che necessariamente l’essere deve stare tutto in un luogo<br />
e possedere uno spazio, mentre questo non è possibile che si trovi<br />
né sulla terra, né in cielo”, Platone, Timeo, 52b.<br />
214 Questa “regione” ontologica viene anche definita “luogo del nulla relativo”,<br />
in contrapposizione con quella del nulla assoluto.<br />
101
negazione, che si collocherebbe tuttavia sempre sul medesimo piano 216,<br />
giacché:<br />
“Lo stesso nulla che nega ogni essere è ancora un tipo di<br />
essere, dal momento che esso è solo un nulla contrapposto<br />
[si intenda: “relativo” perché contrapposto ad un<br />
essere]”. 217<br />
Intendendo quindi il senso di “jenseits”, di “al di là”, come una<br />
collocazione “spaziale”, si può perciò sfuggire al gioco di posizione e di<br />
negazione, assumendo che l’unico modo per non ontologizzare<br />
nuovamente lo “jenseits” o lo “Außer-” sia comprenderlo nei termini di<br />
vuoto o di nulla radicale, quanto cioè contiene entrambe le sfere<br />
ontologiche. Così l’oggetto impossibile – insieme all’oggetto preso nella<br />
purezza – che non è né essere, né non essere, è nel vuoto. Esso, non<br />
rientrando né nel luogo dell’essere né in quello del non essere, si colloca<br />
all’esterno di entrambi, in un “fuori” che è quello delimitato dal<br />
“vuoto”, da quel (se si volesse coniare una espressione ibrida) luogo<br />
dell’Außersein che lo accoglie.<br />
Peraltro, anche il luogo dell’essere e quello del nulla relativi si<br />
pongono in esso, così da poter dire, conseguentemente con quanto<br />
rilevato nei capitoli precedenti sulla attinenza di ogni oggetto con<br />
215 Nishida (1926): pag. 81.<br />
216 Dando vita ad un circolo vizioso di infinite modalità di essere e di loro<br />
negazioni, cfr. §8.<br />
217 Nishida (1926): pag. 83.<br />
102
l’Außersein, che, come in un sistema di cerchi concentrici, tutti gli oggetti<br />
sono nell’Außersein 218, e di questi qualcuno rientra nello stesso tempo<br />
nel cerchio dell’essere, qualcun altro nel cerchio del non essere. Certo,<br />
si spiega così l’imbarazzo che spingeva a mettere sempre tra virgolette<br />
espressioni come «l’oggetto “è” Außersein», in questo modo si rischia<br />
infatti di ridurre l’Außersein ad una categoria ontologica; al contrario<br />
concependolo come un “luogo”, come “vuoto”, tale espressione si<br />
modificherebbe in una più adeguata «l’oggetto è nell’Außersein».<br />
Riassumendo, in questo modo si è stabilito che: per essere oggetto, ad ogni<br />
oggetto è sufficiente il suo darsi nell’Außersein, che poi l’oggetto sia (esista o sussista)<br />
o non sia, ciò è una determinazione ulteriore ed estrinseca, dipendente unicamente dal<br />
suo collocarsi ulteriore nei luoghi corrispondenti.<br />
Essere e non essere non sono però che due delle dicotomie che<br />
secondo Nishida vengono contenute nel “luogo del nulla assoluto”, in<br />
esso rientra ogni tipo di ulteriore dicotomia, come quella di forma e<br />
materia, di universale e particolare, quella intersoggettiva dell’io e del<br />
tu 219.<br />
Il parallelo con la posizione di Meinong sull’Außersein è allora<br />
lampante: per l’austriaco infatti l’Außersein comprende tutto e così viene<br />
descritto da Findlay (e, non a caso, con una metafora spaziale!):<br />
218 Mentre l’Außersein in quanto vuoto sarebbe un cerchio con il centro<br />
ovunque e la circonferenza in nessun posto, cfr. Nishida (1996): pag. 91-92; in<br />
questo riprendendo la “sphaera cuius centrum ubique, circumferentia nullibi” di<br />
Cusano, il quale peraltro sembra mutuarlo a sua volta dall’anonimo del Liber<br />
XXIV philosophorum, cfr. Koyré (1974): pag. 26 e la voce “Liber XXIV<br />
philosophorum” del “deutsche Literatur des Mittelalters – Verfasserlexikon”,<br />
(1985): Band V, pag. 767.<br />
103
“Il regno dell’Außersein non ha alcuna esclusione, ogni<br />
possibilità o impossibilità è compresa in esso […].<br />
Außersein è uno strano tipo di deserto nel quale non è<br />
possibile nessun progresso mentale, ma il deserto ha molte<br />
oasi […] tali oasi sono quindi il numero infinito dei mondi<br />
possibili che, stando a Leibniz, sono stati presentati alla<br />
scelta di Dio; ognuno di questi è interessante e altamente<br />
organizzato come il nostro universo, tuttavia noi non<br />
abbiamo né il tempo né l’ingegno (wit) per “pensarli” (think<br />
them out).” 220<br />
Lo stesso vale per Nishida, per lui infatti ogni “potenzialità”,<br />
ogni possibilità nel senso del termine usato dall’autore, per il quale<br />
anche un cerchio quadrato è ritenuto possibile, viene realizzata nel<br />
“luogo del nulla assoluto”, ovvero anche per lui tutto sta in esso, infatti:<br />
“Nel luogo del nulla contrapposto, così come nel campo<br />
di coscienza (nella psicologia), resta ancora una forma di<br />
possibilità (non realizzata). Nel luogo del vero nulla,<br />
invece, […] si esaurisce ogni possibilità (non ancora<br />
realizzata)”. 221<br />
219<br />
A questa è dedicato il testo del 1932, “l’io e il tu”, tradotto anche in italiano<br />
(1996).<br />
220 Findlay (1933): pag. 57-58.<br />
221<br />
Nishida (1926): pag. 103. Così che si potrebbe reciprocamente sostenere che:<br />
da un lato il quesito impossibile (koan) trova una soluzione nel luogo del nulla<br />
104
Ma dal momento che la nozione limite di Außersein sembrerebbe<br />
stare per qualcosa che non è oggetto, non si contravviene in questo<br />
modo all’assunto iniziale meinonghiano per il quale “tutto è oggetto”?<br />
Sembrerebbe di no, infatti considerarlo come vuoto è solo una<br />
“prospettiva di analisi” che cerca di garantire maggiore autonomia<br />
teoretica a questa nozione. D’altra parte, il legame di Außersein con<br />
l’oggetto, così fissamente saldato nei paragrafi precedenti, non viene<br />
meno: senza oggetto non ci sarebbe neanche un vuoto 222. Solamente<br />
grazie ad un oggetto possiamo scorgere il vuoto che esso sottende.<br />
Casi particolari di tale legame essenziale rispetto ad oggetti<br />
esistenti sono, ad esempio, innanzitutto l’articolazione percettiva in<br />
figura/sfondo, così lungamente studiata dagli studi sperimentali<br />
gestaltisti. Cos’è “lo sfondo di un oggetto” se non qualcosa che si<br />
“estende dietro”, vale a dire “oltre” l’oggetto 223, ma che effettivamente<br />
non ha esistenza propria? Anche quando si presenta alla coscienza un<br />
oggetto inesistente, se ne ha uno sfondo, esso per così dire si staglia<br />
nella nostra coscienza come qualcosa dietro al quale sta il suo sfondo,<br />
giustificando così la sua estraneità al soggetto che lo pensa. Un altro<br />
caso particolare può ancora essere il legame che unisce la presenza<br />
parassitaria di un buco, in quanto oggetto immateriale, e l’oggetto che<br />
ospita questo buco 224, o le rispettive relazioni di inclusione/esclusione<br />
assoluto o ha una soluzione in termini di Außersein, dall’altro il cerchio<br />
quadrato in quanto Außersein si dà in un tale luogo.<br />
222 Cfr. “il vuoto non è un’entità astratta, né un principio originario: perciò esso<br />
non si materializza in qualcosa di fisico, perché non c’è prima e oltre gli<br />
elementi fisici che lo mostrano”, in: Pasqualotto (2002): pag. 125.<br />
223 Kanizsa (1980): pag. 41.<br />
224 Cfr. Casati/Varzi (2002), soprattutto il par. “Lineamenti di una teoria”, pag.<br />
237-257.<br />
105
che vigono per il buco stesso. Volendo, ci si può esprimere sostenendo<br />
meinonghianamente che è possibile studiare il vuoto, esso è infatti, per<br />
quanto sui generis, un oggetto non esistente 225.<br />
Intendendo con “Außersein” una nozione come quella di “luogo”<br />
o di “vuoto”, per quanto superficialmente essa sia stata qui definita, si<br />
potrebbe dare insomma un ultimo fondamento alla teoria degli oggetti.<br />
Ogni oggetto cioè in quanto è “fuori”, esterno ad ogni altro oggetto e al<br />
soggetto, è allo stesso tempo immerso nell’Außersein, senza che ciò gli<br />
precluda di collocarsi anche nel luogo dell’essere o del non essere (di<br />
essere un oggetto esistente o sussistente, o la loro negazione).<br />
Ora, se la Gegenstandstheorie riesce a slegarsi da ogni valutazione di<br />
natura strettamente ontologica, l’Außersein è quanto le potrebbe<br />
assicurare una giustificazione ultima; ritengo che senza un principio<br />
sufficientemente saldo sul quale poggiare, essa rischia di disperdere le<br />
sue forze negli infiniti labirinti di difficoltà teoretiche che lo studio di<br />
ogni singolo tipo di oggetto avanza. Interpretare l’Außersein come vuoto<br />
significa allora semplicemente sottolineare, lungi dall’intricarsi in crampi<br />
metafisici, come l’oggetto in quanto tale alluda sempre a quanto gli sta<br />
dietro, vale a dire a qualcosa che propriamente non c’è, ma che si dà,<br />
per quanto, sempre e comunque, in presenza di un oggetto. Persino un<br />
oggetto inesistente apre attorno a sé il vuoto che lo contiene: è in esso<br />
difatti che si assemblano le determinazioni di Sosein che pure lo<br />
escludono dal regno della realtà e della idealità. Se venisse a mancare<br />
l’oggetto non si darebbe neanche il vuoto nel quale l’oggetto è<br />
225 Si intravede allora la possibilità di una “fenomenologia del luogo” così come<br />
essa è stata denominata da Ohashi: “il “luogo” fu formato (gebildet) nella<br />
filosofia da K. Nishida e portato ad una profonda comprensione; ma la<br />
106
posizionato. Ma in effetti esso è nulla, non si vede, non si tocca, non si<br />
gusta, eppure in esso si colloca tutto quello che si può vedere, toccare e<br />
gustare. Per questa nozione non valgono i rapporti logici tradizionali<br />
articolati in soggetto-copula-predicato; i suoi sono sempre dei rapporti<br />
di inclusione/esclusione, tutti di natura prettamente spaziale 226. Esso è<br />
– secondo il significato ideografico originario del carattere cinese che lo<br />
esprime (giapp. “mu”, cin. “wu”) – la stilizzazione di una balla di fieno in<br />
fuoco, che indica quanto resta dopo l’azione delle fiamme:<br />
propriamente, nulla, eppure, non semplicemente una negazione di<br />
essere, bensì il vuoto nel quale la balla prima era collocata, il vuoto che<br />
si apre nel momento della sua sopravvenuta mancanza 227. Si raggiunge<br />
in questo modo un fondo ultimo: l’oggetto indica il vuoto che lo<br />
contiene, pur non essendo nulla.<br />
formazione di categorie fenomenologiche per il “vuoto” rimane ancora un<br />
compito” in: Ohashi (1984): pag. 12.<br />
226 Secondo tali rapporti, ad esempio, la nozione generale è il luogo nel quale si<br />
può collocare o meno l’individuale (così come la qualità generale contiene la<br />
cosa); sullo studio di essi si basa il tentativo nishidiano di elaborare una “logica<br />
del luogo”. “Un particolare è ciò che giace all’interno dell’universale e<br />
l’universale è il basho (luogo) al cui interno giace un particolare” in:<br />
Pasqualotto: Nishida (1996), pag. 187.<br />
227 Pasqualotto (2002): pag. 6.<br />
107
PARTE QUARTA: CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE<br />
Alla fine di questo lavoro, vorrei riassumere brevemente la linea<br />
concettuale che tiene insieme e dà unità alle sue varie sezioni e nello<br />
stesso tempo fissare le conclusioni alle quali sono pervenuto.<br />
La prima sezione è incentrata sulla questione del contenuto in<br />
Meinong. Si è rilevato, da un lato come, grazie alla sua identificazione,<br />
l’autore è stato in grado di delimitare in modo preciso il confine fra lo<br />
psichico e l’oggetto, il mancato riconoscimento del quale avrebbe fatto<br />
involvere rapidamente il sistema in forme più o meno marcate di<br />
psicologismo o di idealismo; dall’altro, come il contenuto sia<br />
quell’elemento psichico che permette un accesso all’oggetto. Senza un<br />
contenuto, insomma, non ci sarebbe potuta essere una teoria<br />
dell’oggetto. E’ quindi solo dall’emancipazione dallo psichico che una<br />
teoria dell’oggetto può prendere le mosse.<br />
Nell’intento di esaurire tutti i significati che la parola Gegenstand<br />
assume nella sua teoria, Meinong elenca allora svariati tipi di oggetti,<br />
tutti con le proprie leggi e caratteristiche essenziali. Fondamentale per<br />
ognuno è però il cosiddetto principio di indipendenza, per il quale<br />
l’essere-così di un oggetto prescinde dal suo essere. Questo principio<br />
indica per un verso un procedere metodico per la teoria degli oggetti:<br />
essa deve porsi come disciplina che non contempla al suo interno alcun<br />
assunto esistenziale, e cioè come daseinsfrei. Dall’altro pone il problema<br />
degli oggetti impossibili, che sembrano involvere la teoria in un<br />
apparente paradosso, tali oggetti infatti “si danno, ma nello stesso<br />
108
tempo non si danno”. Per la soluzione di tale paradosso Meinong fa<br />
ricorso ad un elemento di grande importanza: l’Außersein.<br />
Si cercherebbe però invano nei vari testi di Meinong un<br />
riconoscimento univoco della natura di questo elemento. La trattazione<br />
dell’autore infatti oscilla tra due poli: quello di trattare questa nozione in<br />
sé, con il rischio di ridurla ad un terzo modo di essere, o quello invece<br />
di ancorarla all’oggetto, posizione teoricamente produttiva, ma che ha<br />
scarso mordente, dal momento che non viene definita ulteriormente.<br />
Il mio tentativo di lettura prosegue lungo queste due tendenze.<br />
Lungo la prima, ho cercato di mostrare, grazie ad un supporto<br />
metodologico alieno a Meinong, ma peraltro a lui vicino perlomeno nei<br />
fini che si ripropone, grazie cioè alla visione o variazione eidetica, come<br />
l’Außersein possa essere “visto” in termini di datità, esteriorità e<br />
indipendenza dell’oggetto nei confronti di ogni soggetto e di ogni altro<br />
oggetto. Imboccando questa strada, però, restava da spiegare come<br />
fosse possibile che queste esteriorità entrassero in relazione tra di loro.<br />
Il mezzo del quale mi sono servito per colmare questa lacuna è stata la<br />
nozione leibniziana dello spazio, secondo la quale lo spazio, lungi<br />
dall’essere un essere a sé, attiene agli oggetti essendone propriamente<br />
“l’ordine” che vige tra di loro. Conseguentemente, ogni oggetto viene<br />
fatto rientrare in questo ordine, ma sempre dopo averne realizzato la<br />
condizione primaria richiesta: vale a dire quella di essere “esterno” ad<br />
ogni altro oggetto.<br />
Lungo la seconda tendenza, mosso proprio dall’imbarazzo di<br />
dover utilizzare espressioni quali “l’oggetto è Außersein”, ho cercato di<br />
provare la liceità di una analisi che si rivolgesse in prima istanza<br />
109
all’Außersein, prescindendo, in una certa misura, dall’oggetto. In fondo,<br />
se l’oggetto “è lì”, esteriormente dato, dovrà pur essere dato in qualche<br />
luogo. Per trattare questa nuova nozione ho adoperato gli strumenti<br />
teorici elaborati da un autore lontano, Nishida Kitaro, ed ho proposto<br />
di considerare l’Außersein come vuoto, come qualcosa che non c’è, ma<br />
che si dà insieme all’oggetto. In questo modo, l’oggetto non “sarebbe<br />
Außersein”, bensì sarebbe “immerso” nell’Außersein; la relazione<br />
essenziale fra i due elementi verrebbe mantenuta, dal momento che<br />
l’uno non si può dare senza l’altro, ma così da permettere maggiore<br />
autonomia teoretica alla nozione di Außersein.<br />
Infine, spero col mio lavoro di aver contribuito a tutti quegli<br />
studi che negli ultimi anni, dalle prospettive più disparate, si adoperano<br />
per smentire quell’opinione diffusa per la quale:<br />
“la Gegenstandstheorie è morta, sepolta e non è prossima alla<br />
resurrezione” 228<br />
Al contrario, la teoria degli oggetti è una disciplina che ha ancora<br />
molto da proporre alla filosofia nei suoi molteplici interessi di ricerca.<br />
Forse e auspicabilmente essa non si presenterà più nei modi spesso<br />
troppo artificiosi e macchinosi con cui è stata messa in campo da<br />
Meinong, ma la sua geniale intuizione di fondo, quella per la quale,<br />
anche qualcosa che non c’è ha pieno diritto di studio, articolandosi<br />
anch’esso oggettualmente, in modo cioè indipendente da ogni soggetto,<br />
affida, a chi voglia intenderla, un enorme campo di studio, esteso oltre<br />
qualsiasi limite concepibile, già solo per il fatto che ogni limite<br />
considerabile altro non è che – un oggetto.<br />
228 Ryle (1972): pag. 7.<br />
110
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Editrice.<br />
- (1903): “Bemerkungen über den Farbenkörper und das<br />
Mischungssgesetz”, GA I, S. 495-575;<br />
- (1906): “Über die Stellung der Gegenstandstheorie im System der<br />
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- (1908): “Über Inhalt und Gegenstand”, GA VIII, pag. 145-160;<br />
- (1910): “Über Annahmen. Zweite umgearbeitete Auflage”, GA IV,<br />
pag. 1-384.<br />
- (1913): “Zweites Kolleg über gegenstandstheorethische Logik”,<br />
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- (1913/1914): “Bemerkungen zu E. Husserls >Ideen zu einer<br />
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