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<strong>Linee</strong> <strong>di</strong> <strong>Ricerca</strong><br />
Marco Santambrogio<br />
SEMANTICA E SCIENZE DELLA MENTE<br />
Versione 1.0<br />
<strong>Linee</strong><br />
<strong>di</strong><br />
<strong>Ricerca</strong><br />
SWIF - Sito Web Italiano per la Filosofia<br />
Rivista elettronica <strong>di</strong> filosofia - Registrazione n. ISSN 1126-4780
AUTORE<br />
<strong>Linee</strong> <strong>di</strong> <strong>Ricerca</strong> – SWIF<br />
Coor<strong>di</strong>namento E<strong>di</strong>toriale: Gian Maria Greco<br />
Supervisione Tecnica: Fabrizio Martina<br />
Supervisione: Luciano Flori<strong>di</strong><br />
Redazione: Eva Franchino, Federica Scali.<br />
Marco Santambrogio [marcosan@unipr.it] è professore or<strong>di</strong>nario <strong>di</strong> Filosofia del Linguaggio presso l’Università<br />
<strong>di</strong> Parma. E’ tra i soci fondatori della European Society for Analytic Philosophy, della Società Italiana <strong>di</strong> Filosofia<br />
Analitica, del Collegio <strong>di</strong> Milano. Nella filosofia del linguaggio si è soprattutto occupato della semantica degli<br />
atteggiamenti proposizionali e dei problemi della credenza, delle teorie del riferimento <strong>di</strong>retto e delle teorie del<br />
significato. Tra gli altri suoi interessi, la filosofia morale e i problemi dell’uguaglianza. Ha pubblicato il volume<br />
Parola e oggetto (1994) e saggi su Nous, Synthese, Journal of Philosophy, Dialectica.<br />
La revisione e<strong>di</strong>toriale <strong>di</strong> questo capitolo è a cura <strong>di</strong> Gian Maria Greco.<br />
LdR è un e-book, inteso come numero speciale della rivista SWIF. È e<strong>di</strong>to da Luciano Flori<strong>di</strong> con il coor<strong>di</strong>namento e<strong>di</strong>toriale<br />
<strong>di</strong> Gian Maria Greco e la supervisione tecnica <strong>di</strong> Fabrizio Martina.<br />
LdR - <strong>Linee</strong> <strong>di</strong> <strong>Ricerca</strong> è il servizio <strong>di</strong> Bibliotec@SWIF finalizzato all’aggiornamento filosofico. LdR è un e-book in progress,<br />
in cui ciascun testo è un capitolo autonomo. In esso l'autore o l'autrice, presupponendo solo un minimo <strong>di</strong> conoscenze <strong>di</strong> base,<br />
fornisce una visione panoramica e critica dei temi principali, dei problemi più importanti, delle teorie più significative e degli<br />
autori più influenti, nell'ambito <strong>di</strong> una specifica area <strong>di</strong> ricerca della filosofia contemporanea attualmente in <strong>di</strong>scussione e <strong>di</strong><br />
notevole importanza. Il fine è quello <strong>di</strong> fornire al pubblico italiano un'idea generale su quali sono gli argomenti <strong>di</strong> ricerca <strong>di</strong> maggior<br />
interesse nei vari settori della filosofia contemporanea oggi, con uno stile non-storico, accessibile ad un pubblico <strong>di</strong> filosofi non<br />
esperti nello specifico settore ma interessati ad essere aggiornati.<br />
Tutti i testi <strong>di</strong> <strong>Linee</strong> <strong>di</strong> <strong>Ricerca</strong> sono <strong>di</strong> proprietà dei rispettivi autori. È consentita la copia per uso esclusivamente personale.<br />
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Per citare un testo <strong>di</strong> <strong>Linee</strong> <strong>di</strong> <strong>Ricerca</strong> si consiglia <strong>di</strong> utilizzare la seguente notazione:<br />
AUTORE, Titolo, in L. Flori<strong>di</strong> (a cura <strong>di</strong>), <strong>Linee</strong> <strong>di</strong> <strong>Ricerca</strong>, SWIF, 2006, ISSN 1126-4780, p. X, www.swif.it/biblioteca/lr.
SWIF – LINEE DI RICERCA<br />
SEMANTICA E SCIENZA DELLA MENTE<br />
MARCO SANTAMBROGIO<br />
Versione 1.0<br />
Su molti aspetti della realtà abbiamo ottime teorie scientifiche. Sappiamo<br />
anche molte cose interessanti sulla mente degli esseri umani. Ma ancora non<br />
abbiamo una vera e propria scienza della mente. Da questa scienza ci aspetteremmo<br />
che sapesse <strong>di</strong>rci con sicurezza <strong>di</strong> che natura sono le cose che ci passano per la<br />
mente – opinioni, desideri, conoscenze, sensazioni, passioni … – più o meno come<br />
il fisico sa <strong>di</strong>rci che cosa sono il moto, la luce e il calore, e in che cosa <strong>di</strong>fferiscono<br />
tra loro l’acqua e il ghiaccio. Invece non sappiamo ancora esattamente che cosa<br />
siano un’opinione e un desiderio, né in che cosa entrambi <strong>di</strong>fferiscano da una<br />
conoscenza. Un’altra cosa che vorremmo sapere, ma ancora non sappiamo, è in<br />
quale rapporto stiano le cose che accadono in una mente, e che non possono essere<br />
osservate se non dalla persona a cui quella mente appartiene, con le azioni che quella<br />
persona compie e che anche gli altri possono vedere.<br />
Credere o avere un’opinione, conoscere e sapere, sperare e temere, supporre<br />
e considerare e così via sono stati o eventi mentali – qualcosa che la mente fa o<br />
con<strong>di</strong>zioni in cui si trova. Poiché in questo articolo non ci preoccuperemo <strong>di</strong><br />
<strong>di</strong>stinguere gli stati dagli eventi, parleremo genericamente <strong>di</strong> atteggiamenti mentali.<br />
Quelli che abbiamo elencato sono solo un tipo <strong>di</strong> atteggiamenti mentali. Ma ne<br />
esistono altri: anche provare dolore o piacere, essere irrequieti, vigili, tranquilli,<br />
M. Santambrogio, Semantica e scienza della mente, in L. Flori<strong>di</strong> (a cura <strong>di</strong>), <strong>Linee</strong> <strong>di</strong> <strong>Ricerca</strong>, SWIF, 2006,<br />
pp. 824-847. Sito Web Italiano per la Filosofia – ISSN 1126-4780 – www.swif.it/biblioteca/lr
Marco Santambrogio – Semantica e scienza della mente<br />
curiosi, appagati, sensibili, insensibili sono mo<strong>di</strong> in cui una mente può atteggiarsi –<br />
atteggiamenti mentali. C’è una <strong>di</strong>fferenza però tra i primi e i secon<strong>di</strong>. Come esempio<br />
<strong>di</strong> un atteggiamento del primo tipo pren<strong>di</strong>amo quello <strong>di</strong> credere qualcosa; come<br />
esempio del secondo, provare dolore. Quando cre<strong>di</strong>amo qualcosa – ad esempio, che<br />
Marte è rosso – il nostro atteggiamento ha un contenuto. C’è qualcosa che la mente<br />
crede. Possiamo credere allo stesso modo (fermamente, con esitazione,<br />
giustificatamene, irrazionalmente, e così via) molte cose <strong>di</strong>verse: ad esempio che la<br />
Luna è fredda, o che il Sole è caldo. La modalità della credenza può essere la stessa<br />
ma il contenuto è <strong>di</strong>verso. Invece un piacere o un dolore non hanno un vero e<br />
proprio contenuto. Hanno un’intensità variabile, una o più cause, forse una tonalità o<br />
un carattere <strong>di</strong>stintivo che ce li fa riconoscere se ci capita <strong>di</strong> provarli più volte a<br />
<strong>di</strong>stanza <strong>di</strong> tempo, somiglianze con altri piaceri e altri dolori – ma non un contenuto.<br />
Ma che cos’è esattamente un contenuto? Non è facile a <strong>di</strong>rsi.<br />
Potremmo cercare <strong>di</strong> caratterizzare il contenuto <strong>di</strong>cendo che due o più<br />
persone (o la stessa persona in due momenti <strong>di</strong>versi) possono credere la stessa cosa,<br />
nel senso che il contenuto <strong>di</strong> ciò che credono è lo stesso, anche se sono <strong>di</strong>versi gli<br />
eventi che hanno luogo nelle loro menti o nel loro cervello (e sono <strong>di</strong>versi anche<br />
solo per il fatto che hanno luogo in persone <strong>di</strong>verse). Un contenuto può dunque<br />
essere con<strong>di</strong>viso. Invece, quando <strong>di</strong>ciamo che due persone provano lo stesso dolore,<br />
inten<strong>di</strong>amo <strong>di</strong>re che provano due dolori simili, ma non c’è niente che esse abbiano<br />
veramente in comune. Ma – si potrebbe obiettare – se entrambe avessero un dolore<br />
della stessa intensità e con una stessa causa esattamente nello stesso punto del<br />
mignolo sinistro, non sarebbe questo un contenuto con<strong>di</strong>viso? E se non lo è, perché<br />
non lo è?<br />
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Bisogna ammettere che tutto quanto abbiamo detto fin qui è molto vago e<br />
non possiamo veramente sperare <strong>di</strong> e<strong>di</strong>ficare su osservazioni <strong>di</strong> questo tipo una<br />
scienza della mente che sia paragonabile alle scienze della natura che conosciamo.<br />
Certo, un dolore è sicuramente <strong>di</strong>verso da una credenza e la nozione <strong>di</strong> contenuto ha<br />
qualcosa a che fare con la loro <strong>di</strong>fferenza. Ma dovremmo riuscire ad essere più<br />
precisi. Per trasformare le osservazioni intuitive e vaghe in qualcosa <strong>di</strong> più preciso<br />
(forse anche <strong>di</strong> più “scientifico”) possiamo ricorrere a un’idea che sembra aver avuto<br />
successo in altri casi: ricorriamo al linguaggio, con la speranza che esso ci gui<strong>di</strong> con<br />
sicurezza nell’esplorazione della mente. Invece <strong>di</strong> ispezionare mentalmente i nostri<br />
stessi stati ed eventi mentali per scoprire le loro caratteristiche, possiamo passare ad<br />
esaminare come ne parliamo. Parlando, noi manifestiamo quello che accade nella<br />
nostra mente e quello che cre<strong>di</strong>amo <strong>di</strong> vedere nella mente degli altri. Il pensiero si<br />
manifesta nel linguaggio. Stu<strong>di</strong>andolo nelle sue manifestazioni possiamo pensare <strong>di</strong><br />
riuscire a cogliere qualcosa del pensiero che ci sfuggirebbe se cercassimo <strong>di</strong><br />
affrontarlo <strong>di</strong>rettamente, senza badare agli strumenti che servono a manifestarlo.<br />
Ad esempio, non può essere soltanto un caso o una particolarità dell’italiano<br />
o <strong>di</strong> altre lingue, senza un significato che riguarda oltre al linguaggio le cose <strong>di</strong> cui<br />
parliamo, che mentre si può sensatamente <strong>di</strong>re ‘Eva sa che Marte è rosso’ e anche<br />
‘Eva e Isa sanno la stessa cosa e cioè che Marte è rosso’, non possiamo invece <strong>di</strong>re<br />
*‘Eva ha il dolore che il suo <strong>di</strong>to si è scottato’. Non solo una cosa del genere non è<br />
vera, ma non ha proprio senso ed è anche grammaticalmente inaccettabile 1 .<br />
Possiamo invece <strong>di</strong>re ‘Eva ha un dolore perché il suo <strong>di</strong>to si è scottato’ (esprimiamo<br />
1 I linguisti sono soliti far precedere un asterisco agli enunciati sgrammaticati (o meglio<br />
agrammaticali), che non appartengono neppure alla lingua <strong>di</strong> cui si parla. Abbiamo seguito qui questo<br />
loro uso.<br />
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così la causa del dolore) e ‘Eva ha un dolore al <strong>di</strong>to’ (la localizzazione). Se <strong>di</strong>ciamo<br />
‘Isa ha lo stesso dolore <strong>di</strong> Eva’, possiamo chiarire questa nostra affermazione<br />
aggiungendo ‘Anche Isa ha un dolore al <strong>di</strong>to’ o ‘Anche Isa ha un forte dolore’ o<br />
‘Anche Isa ha un dolore perché si è scottata il <strong>di</strong>to’. Ma la localizzazione, l’intensità<br />
e la causa non sono la stessa cosa del contenuto.<br />
Possiamo <strong>di</strong>re tutto ciò più brevemente. I verbi come ‘credere’, ‘conoscere’,<br />
‘sapere’, ‘sperare’ e così via ammettono la costruzione ‘che + enunciato’ – ad<br />
esempio, ‘che Marte è rosso’ o ‘che Marte sia rosso’ – oltre ad altre costruzioni che<br />
qui non interessano. Invece i pre<strong>di</strong>cati come ‘provare dolore’ non ammettono questa<br />
costruzione. A questo punto è facile <strong>di</strong>re che cosa sia un contenuto e perché non<br />
esista un contenuto che sia attribuibile agli stati in cui ci troviamo quando proviamo<br />
dolore o siamo irrequieti o vigili o tranquilli e così via: un contenuto è<br />
semplicemente ciò che è espresso da una clausola della forma ‘+ enunciato’ che<br />
segue i verbi che ammettono questa costruzione. Questa non è una definizione,<br />
perché per il momento non sappiamo che cosa voglia <strong>di</strong>re esattamente ‘esprimere’<br />
ma <strong>di</strong> qualunque cosa si tratti (e qualche idea in proposito l’abbiamo) conveniamo <strong>di</strong><br />
chiamare ‘proposizione’ ciò che è espresso da una clausola del tipo ‘che +<br />
enunciato’. Ora possiamo riassumere tutto quello che abbiamo detto fin qui ancor<br />
più brevemente: i verbi come ‘credere’, ‘conoscere’, ‘sperare’, ‘temere’ ecc.<br />
esprimono atteggiamenti mentali proprio come ‘provare dolore’, ma a <strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong><br />
quest’ultimo esprimono atteggiamenti proposizionali.<br />
Possiamo <strong>di</strong>re <strong>di</strong> aver fatto qualche passo avanti, prendendo così il<br />
linguaggio come nostra guida? In un certo senso, sì. Ad esempio, ora ci ren<strong>di</strong>amo<br />
conto che la <strong>di</strong>fferenza tra ‘credere’ e ‘sapere’ da un lato e ‘provare dolore’<br />
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dall’altro – <strong>di</strong>fferenza che abbiamo localizzato nella presenza o assenza <strong>di</strong> un<br />
contenuto – non ha niente a che vedere con la <strong>di</strong>stinzione tra intelletto (o ragione o<br />
cognizione) e sensazione corporea. Infatti anche il verbo ‘sentire’ che tra le molte<br />
accezioni ha certamente anche quella <strong>di</strong> ‘percepire con i sensi’ ammette la<br />
costruzione proposizionale. Anche se in alcuni casi il nostro sentire comporta una<br />
buona dose <strong>di</strong> cognizione (come quando <strong>di</strong>ciamo ad esempio ‘Isa sente che la<br />
scottatura al <strong>di</strong>to non è ancora guarita’) non sempre è così: <strong>di</strong>ciamo con tutta<br />
naturalezza ‘Isa sente che il <strong>di</strong>to le fa male’ e questo equivale a tutti gli effetti a ‘Isa<br />
sente (o prova, o ha) male al <strong>di</strong>to’. Abbiamo visto che quest’ultimo enunciato non<br />
esprime un contenuto della sensazione <strong>di</strong> dolore, ma solo la sua localizzazione.<br />
Dall’equivalenza tra i due enunciati segue che il contenuto del primo si riduce a ben<br />
poco – in sostanza alla capacità <strong>di</strong> localizzare il dolore. Se c’è una <strong>di</strong>stinzione da<br />
tracciare tra cognizione e sensazione, probabilmente tale <strong>di</strong>stinzione attraversa anche<br />
i contenuti.<br />
Dunque prendere il linguaggio come guida potrebbe farci procedere più<br />
rapidamente e con maggior sicurezza. Forse stu<strong>di</strong>ando le nostre attribuzioni <strong>di</strong><br />
credenza, <strong>di</strong> conoscenza e così via, potremo arrivare a capire anche, ad esempio, che<br />
cosa inten<strong>di</strong>amo <strong>di</strong>re quando affermiamo che due persone hanno le stesse credenze o<br />
conoscenze o – come <strong>di</strong>remo d’ora in poi con maggiore generalità – gli stessi<br />
pensieri. Prima <strong>di</strong> farlo però dobbiamo soffermarci a considerare una perplessità che<br />
qualche osservatore potrebbe avere sulla nostra strategia.<br />
Se qualcuno suggerisse agli astronomi <strong>di</strong> oggi (o anche a quelli del tempo <strong>di</strong><br />
Galileo) <strong>di</strong> analizzare il linguaggio con cui descriviamo le nostre osservazioni<br />
astronomiche per venire a sapere qualcosa <strong>di</strong> più sui moti celesti, probabilmente lo<br />
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prenderemmo per matto, perché l’unico modo <strong>di</strong> esplorare il cielo sembra essere<br />
quello <strong>di</strong> guardarlo. Non serve starsene in poltrona a riflettere sul linguaggio e<br />
risolvere problemi più simili ai rebus e alle parole crociate che a quelli sulle<br />
traiettorie dei pianeti. Ma allora, perché il mondo mentale dovrebbe essere tanto<br />
<strong>di</strong>verso da quello celeste e perché il linguaggio dovrebbe <strong>di</strong>rci qualcosa sulla mente?<br />
È stato sostenuto che lo stu<strong>di</strong>o del linguaggio non solo è utile alla filosofia,<br />
ma costituisce ad<strong>di</strong>rittura la via d’accesso privilegiata ai suoi problemi principali.<br />
Consiste in questo la cosiddetta “svolta linguistica”. Ora, quali sono le ragioni della<br />
svolta linguistica? Quello che abbiamo detto qui sopra è troppo generico per<br />
costituire una risposta sod<strong>di</strong>sfacente. Dire che tra i problemi centrali della filosofia<br />
c’è quello <strong>di</strong> stabilire che cosa sia il pensiero, che ‘pensare’ è, proprio come<br />
‘credere’ e ‘sapere’, un verbo <strong>di</strong> atteggiamento proposizionale, e che i mo<strong>di</strong> in cui<br />
esprimiamo nel linguaggio il nostro pensiero o lo attribuiamo ad altri <strong>di</strong> sicuro<br />
rivelano qualcosa sul pensiero stesso – tutto questo è francamente insufficiente.<br />
Una risposta più plausibile è forse questa. Abbiamo identificato i pensieri<br />
con quegli atteggiamenti mentali che hanno un contenuto. Sugli eventi che hanno<br />
luogo nella mente quando pensiamo, lo stu<strong>di</strong>o filosofico del linguaggio non ha<br />
niente da <strong>di</strong>re <strong>di</strong>rettamente, ma sui loro contenuti, che possono essere comuni a<br />
molti eventi, che possono aver luogo in persone <strong>di</strong>verse e possono essere espressi in<br />
parole e comunicati da una persona a un’altra – su questo lo stu<strong>di</strong>o del linguaggio ha<br />
evidentemente parecchio da <strong>di</strong>re. Se non altro ci può <strong>di</strong>re che cosa può essere<br />
espresso in parole, perché può <strong>di</strong>rci quali sono gli enunciati possibili e quin<strong>di</strong> quali<br />
sono i pensieri possibili. E poiché due eventi psicologici non possono contare come<br />
due casi in cui si ha lo stesso pensiero a meno che il contenuto non sia lo stesso nei<br />
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due casi, ecco che in<strong>di</strong>rettamente lo stu<strong>di</strong>o filosofico del linguaggio ha rilievo anche<br />
per lo stu<strong>di</strong>o degli eventi psicologici.<br />
A un livello molto generale ci sono molte cose da chiarire sui contenuti e<br />
perciò sugli episo<strong>di</strong> <strong>di</strong> pensiero. La filosofia, e specificamente la filosofia del<br />
linguaggio, si muove a questo livello molto generale e ha quin<strong>di</strong> un compito<br />
insostituibile <strong>di</strong> chiarimento delle nozioni fondamentali <strong>di</strong> una scienza della mente.<br />
D’altra parte, siamo proprio sicuri che la riflessione in poltrona su quello che<br />
inten<strong>di</strong>amo <strong>di</strong>re usando termini come ‘forza’, ‘massa’ e così via, non abbia proprio il<br />
minimo interesse per il fisico? L’uso degli esperimenti mentali da parte dei fisici, da<br />
Galileo ad Einstein, sembra <strong>di</strong>re il contrario. Può darsi che questa risposta sia<br />
sufficiente, anche se personalmente non ne sono proprio sicuro. (Si osservi<br />
comunque che la domanda da cui eravamo partiti non era “Che cosa può fare la<br />
filosofia, intesa come una riflessione a livello molto generale e astratto, per la<br />
scienza della mente?” bensì “Che cosa può fare per la scienza della mente lo stu<strong>di</strong>o<br />
del linguaggio?”) Per il momento, comunque, lasciamo la cosa in sospeso.<br />
Ritorniamo agli interrogativi da cui eravamo partiti, che riguardavano la<br />
natura dei pensieri (credenze, conoscenze, eccetera). Ora cerchiamo <strong>di</strong> prendere sul<br />
serio l’idea che il linguaggio sia la nostra guida e ve<strong>di</strong>amo dove ci porta. Una<br />
domanda a cui certamente dovremmo saper rispondere, per poter <strong>di</strong>re <strong>di</strong> sapere che<br />
cosa è un pensiero, è questa: quando possiamo <strong>di</strong>re <strong>di</strong> avere due pensieri e quando<br />
invece ne abbiamo uno solo? I pensieri sono cose che si contano o no?<br />
Abbiamo già <strong>di</strong>stinto l’evento del pensare, che ha luogo in una particolare<br />
persona in uno o più istanti <strong>di</strong> tempo, dal contenuto che può essere comune a più<br />
eventi e a più persone. Immaginiamo ora una persona in un dato istante pensi che<br />
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Marte è rosso e in un istante successivo pensi ancora che Marte è rosso, ma cominci<br />
anche a visualizzarsi Marte così come le è apparso recentemente attraverso un<br />
telescopio. Abbiamo qui due eventi <strong>di</strong> pensiero <strong>di</strong>stinti o un unico evento? Molto<br />
<strong>di</strong>pende dal contenuto: se i contenuti sono <strong>di</strong>versi sarà meglio <strong>di</strong>re che abbiamo due<br />
eventi <strong>di</strong>stinti, altrimenti un unico evento. Ma nel rispondere a queste domande<br />
dobbiamo tener presenti una quantità <strong>di</strong> considerazioni. Non possiamo ignorare, ad<br />
esempio, il modo in cui normalmente si descriverebbe una cosa del genere (non<br />
stiamo supponendo che esista un unico modo <strong>di</strong> descriverla, o anche un modo<br />
fortemente preferito dalla maggioranza dei parlanti. Sicuramente esistono infiniti<br />
mo<strong>di</strong> <strong>di</strong>versi e tutti legittimi e accurati <strong>di</strong> descrivere una stessa cosa). Se lo<br />
ignorassimo, la nozione <strong>di</strong> pensiero che ne risulterebbe avrebbe poca somiglianza<br />
con quello che normalmente chiamiamo ‘pensiero’. In sé, non c’è niente <strong>di</strong> male a<br />
introdurre nozioni <strong>di</strong>verse da quelle usate correntemente: è accaduto molte volte in<br />
passato che una nozione intuitiva venisse sostituita da una nozione sostanzialmente<br />
<strong>di</strong>versa ai fini e all’interno <strong>di</strong> una teoria scientifica. Così i giu<strong>di</strong>zi intuitivi <strong>di</strong> caldo e<br />
<strong>di</strong> freddo sono stati sostituiti da quelli sulla temperatura dei corpi. Bisogna<br />
considerare però che noi ci serviamo delle credenze e in generale dei pensieri delle<br />
persone per spiegare i loro comportamenti. Diciamo ad esempio “Il Tal dei Tali è<br />
partito alle sei perché pensava che a quell’ora ci sarebbe stato meno traffico”. Se<br />
decidessimo <strong>di</strong> usare il termine ‘pensiero’ in modo completamente <strong>di</strong>verso da quello<br />
abituale, queste spiegazioni sarebbero ancora adottabili? Se ne può <strong>di</strong>scutere, ma è<br />
anche chiaro che c’è ampio spazio qui per prendere delle decisioni, poiché i dati del<br />
problema non ci impongono un’unica soluzione. Si osservi che anche se fossimo<br />
riusciti a osservare, con tutta la precisione desiderabile, che cosa avviene nel<br />
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cervello <strong>di</strong> quella persona per tutto il tempo che vogliamo, ancora ci sarebbe spazio<br />
per decisioni, perché sicuramente interverranno molti cambiamenti da un istante<br />
all’altro nel cervello <strong>di</strong> qualunque persona e spetta a noi stabilire che cosa vogliamo<br />
considerare come una perturbazione trascurabile e che cosa invece come un<br />
cambiamento <strong>di</strong> rilievo.<br />
Per prima cosa però dobbiamo prendere decisioni sui contenuti. Il caso della<br />
persona che pensa e poi anche visualizza che Marte è rosso è molto <strong>di</strong>fficile. Forse<br />
troppo, come inizio. Cominciamo allora da casi più semplici. Supponiamo che sia<br />
vera la seguente descrizione <strong>di</strong> un evento <strong>di</strong> pensiero che riguarda Eva: ‘Eva pensa<br />
che Marte sia rosso’. Lo stesso per quest’altra descrizione che riguarda Ada: ‘Ada<br />
pensa che Marte sia rosso’. Supponiamo però che ci siano molte <strong>di</strong>fferenze tra Eva e<br />
Ada riguardo a quello che è passato loro per la testa. Eva è un astronoma, sta<br />
scrivendo una tesi <strong>di</strong> dottorato su Marte e sa visualizzarlo con molta accuratezza,<br />
mentre Ada è una classicista e <strong>di</strong> Marte sa solo che è il pianeta del <strong>di</strong>o greco della<br />
guerra. Il modo in cui Eva e Ada si rappresentano Marte è molto <strong>di</strong>verso: Eva<br />
associa al nome ‘Marte’ un’immagine del pianeta, mentre Ada, per la quale i corpi<br />
celesti sono solo puntini luminosi tutti uguali, accompagna il suo pensiero con un<br />
ricordo <strong>di</strong> bronzee armature. Diremo che Eva e Ada pensano la stessa cosa, nel<br />
senso che hanno in mente lo stesso contenuto? Potremmo decidere <strong>di</strong> no e stabilire<br />
che una con<strong>di</strong>zione necessaria per avere uno stesso (contenuto <strong>di</strong>) pensiero sia quella<br />
<strong>di</strong> rappresentarsi nello stesso modo l’oggetto a cui ci si riferisce. Prendere questa<br />
strada equivale a <strong>di</strong>re che i due enunciati ‘Eva pensa che Marte sia rosso’ e ‘Ada<br />
pensa che Marte sia rosso’ potrebbero essere entrambi veri e l’enunciato ‘Eva e Ada<br />
pensano la stessa cosa’ potrebbe essere falso. È chiaro che in questo caso<br />
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rinunceremmo all’idea <strong>di</strong> prendere seriamente il linguaggio come nostra guida per<br />
identificare i contenuti dei pensieri. E invece noi abbiamo stabilito <strong>di</strong> prendere il<br />
linguaggio come nostra guida. Dunque le rappresentazioni che ci facciamo delle<br />
cose non contano per l’identità del contenuto <strong>di</strong> un pensiero, perché persone <strong>di</strong>verse<br />
possono rappresentarsi le cose in modo <strong>di</strong>verso e tuttavia avere gli stessi pensieri.<br />
C’è qualche altra cosa che Eva e Ada devono avere in comune per avere un<br />
pensiero con lo stesso contenuto, ad esempio che Marte è rosso? Sembra <strong>di</strong> no: non<br />
è necessario che entrambe sappiano, ad esempio, che Marte era il <strong>di</strong>o della guerra,<br />
né che Marte è il quarto dei pianeti maggiori del sistema solare, né che è <strong>di</strong>stante<br />
dalla Terra <strong>di</strong> tanto, né che appare in cielo in certe posizioni in certi perio<strong>di</strong>. Non<br />
devono sapere neppure che il pianeta si chiama ‘Marte’, né che si tratta <strong>di</strong> un<br />
pianeta. Lo stesso ragionamento che ci fa concludere che le rappresentazioni<br />
in<strong>di</strong>viduali sono irrilevanti per fissare il contenuto suggerisce anche che il contenuto<br />
delle credenze <strong>di</strong> Eva e Ada riguarda <strong>di</strong>rettamente il corpo celeste,<br />
in<strong>di</strong>pendentemente da tutte le sue proprietà. Tutto ciò che serve perché Eva e Ada<br />
abbiano pensieri con lo stesso contenuto – che Marte sia rosso – è che <strong>di</strong> entrambe si<br />
possa <strong>di</strong>re con verità che pensano che Marte sia rosso.<br />
Consideriamo ora un caso leggermente <strong>di</strong>verso. Supponiamo che entrambi questi<br />
due enunciati siano veri:<br />
1. Eva pensa che Espero brilli<br />
2. Isa pensa che Fosforo brilli.<br />
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Noi sappiamo, ma forse Eva e Isa non lo sanno, che Espero è identico a Fosforo. Ci<br />
chie<strong>di</strong>amo: Eva e Isa hanno lo stesso pensiero? Equivalentemente, ci chie<strong>di</strong>amo se si<br />
possa inferire dalla verità <strong>di</strong><br />
3. Isa pensa che Fosforo brilli,<br />
la verità <strong>di</strong><br />
4. Isa pensa che Espero brilli.<br />
È chiaro che queste due formulazioni del problema sono equivalenti: se (4) si può<br />
inferire da (3), allora Eva e Isa hanno lo stesso pensiero perché entrambe credono<br />
che Espero brilli e noi abbiamo deciso <strong>di</strong> prendere il linguaggio come nostra guida.<br />
Inversamente, se Eva e Isa hanno lo stesso pensiero, qualora siano veri (1) e (2),<br />
allora certamente Isa, quando pensa che Fosforo brilli, ha lo stesso pensiero <strong>di</strong><br />
quando lei stessa pensa che Espero brilli. Dunque la verità <strong>di</strong> (3) ci assicura della<br />
verità <strong>di</strong> (4).<br />
Abbiamo appena visto che il problema <strong>di</strong> stabilire l’identità <strong>di</strong> certi pensieri<br />
(meglio, <strong>di</strong> certi contenuti) si riduce a quello <strong>di</strong> stabilire se valga una certa inferenza.<br />
Stabilire se valgano delle inferenze è una questione che interessa la logica, oltre che<br />
la linguistica. La scelta dei criteri <strong>di</strong> identità dei pensieri è così sottoposta a un<br />
nuovo vincolo. Qualunque sia il modo in cui deci<strong>di</strong>amo <strong>di</strong> prendere la nozione <strong>di</strong><br />
pensiero, questo modo deve andare d’accordo con una teoria delle inferenze corrette<br />
per gli enunciati del linguaggio in cui sono formulate le attribuzioni <strong>di</strong> credenza. Ma<br />
questo è specificamente il compito della teoria semantica. Ne conclu<strong>di</strong>amo che la<br />
semantica ha qualcosa da <strong>di</strong>re sull’identità dei pensieri. E questa è la formulazione<br />
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più chiara che possiamo dare alla tesi per cui pren<strong>di</strong>amo il linguaggio come guida<br />
nello stu<strong>di</strong>o del pensiero.<br />
Ma potrebbe non valere l’inferenza da (3) a (4)? In ogni altra regione del<br />
linguaggio, e cioè per tutti gli enunciati che non contengono verbi <strong>di</strong> atteggiamenti<br />
preposizionali, vale la legge <strong>di</strong> Leibniz secondo cui i nomi propri che si riferiscono<br />
alla stessa cosa si possono sostituire gli uni agli altri salva veritate – senza cioè<br />
cambiare il valore <strong>di</strong> verità dell’enunciato che li contiene. Negli ultimi decenni del<br />
Novecento si è scoperto che il principio vale anche nei contesti modali e cioè nel<br />
caso degli enunciati del tipo ‘Sarebbe stato possibile che Platone non fosse allievo <strong>di</strong><br />
Socrate, e quin<strong>di</strong> che Socrate non fosse il suo maestro’ e ‘È obbligatorio non <strong>di</strong>re<br />
mai bugie’. Di per sé questa non è naturalmente una ragione sufficiente per<br />
concludere che la legge <strong>di</strong> Leibniz debba valere anche per gli atteggiamenti<br />
proposizionali che potrebbero costituire l’unica vera eccezione a un principio<br />
altrimenti sal<strong>di</strong>ssimo e universale. Ma non è nemmeno una considerazione<br />
irrilevante. Comunque stiano le cose, si osservi che la nostra decisione circa<br />
l’identità dei contenuti (e quin<strong>di</strong> anche dei pensieri) è ora soggetta a un altro<br />
vincolo: la teoria semantica che rende conto delle inferenze valide dovrebbe risultare<br />
ragionevolmente semplice e uniforme. Le eccezioni dovrebbero ridursi al minimo e i<br />
principi <strong>di</strong> base dovrebbero essere pochi e semplici.<br />
Ve<strong>di</strong>amo ora come si presenta complessivamente la questione del contenuto<br />
del pensiero dal punto <strong>di</strong> vista della teoria semantica, sottolineando che questa è solo<br />
una delle molte considerazioni pertinenti al problema <strong>di</strong> stabilire che cosa siano un<br />
contenuto <strong>di</strong> pensiero. La nozione centrale <strong>di</strong> una teoria semantica è la nozione <strong>di</strong><br />
verità. Non è in<strong>di</strong>spensabile che la teoria arrivi a definire in che cosa consiste la<br />
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verità <strong>di</strong> un qualunque enunciato: è anzi possibile che una definizione generale vera<br />
e propria non sia possibile. Ma comunque stiano le cose su questo punto, la nozione<br />
<strong>di</strong> verità resta centrale, poiché il compito della teoria è quello <strong>di</strong> specificare, per<br />
ciascuna espressione del linguaggio, quale sia il suo contributo al valore <strong>di</strong> verità<br />
degli enunciati in cui compare. In questo contributo consiste infatti il significato<br />
dell’espressione. Ad esempio, se riusciamo a stabilire che <strong>di</strong>fferenza passa tra il<br />
termine ‘purosangue’ e il termine ‘ronzino’ per quel che riguarda il rispettivo<br />
contributo alla verità <strong>di</strong> un qualunque enunciato, possiamo <strong>di</strong>re <strong>di</strong> aver stabilito la<br />
<strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> significato tra i due termini.<br />
Chiamiamo il contributo <strong>di</strong> un’espressione alla verità <strong>di</strong> qualunque enunciato<br />
in cui compare il suo valore semantico. La teoria semantica deve in primo luogo<br />
assegnare a ciascuna espressione il suo valore semantico e poi deve spiegare come i<br />
valori semantici <strong>di</strong> tutte le espressioni che compongono un enunciato si combinino<br />
tra <strong>di</strong> loro e producano appunto il valore <strong>di</strong> verità <strong>di</strong> quell’enunciato. Ad esempio, è<br />
plausibile pensare che il valore semantico <strong>di</strong> un nome proprio come ‘Marte’ sia<br />
l’oggetto che porta quel nome – il pianeta – perché il nome ‘Marte’ quando occorre<br />
in un enunciato serve a far riferimento a quell’in<strong>di</strong>viduo (in<strong>di</strong>pendentemente dalle<br />
proprietà che ha o che qualcuno pensa che abbia). Analogamente, il valore<br />
semantico del pre<strong>di</strong>cato ‘essere rosso’ può essere preso come l’insieme delle cose<br />
rosse (la sua estensione). Ora, è plausibile pensare che la teoria stabilisca che un<br />
enunciato che è composto da espressioni i cui valori semantici sono rispettivamente<br />
un oggetto e un insieme <strong>di</strong> oggetti sia vero se e solo se l’oggetto appartiene<br />
all’insieme. Così ‘Marte è rosso’ è vero se e solo se il pianeta Marte appartiene<br />
all’insieme delle cose rosse.<br />
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Marco Santambrogio – Semantica e scienza della mente<br />
Dal modo in cui abbiamo spiegato in che cosa consiste il valore semantico <strong>di</strong><br />
una espressione – cioè il suo contributo al valore <strong>di</strong> verità degli enunciati in cui<br />
occorre – si vede imme<strong>di</strong>atamente che vale il seguente principio: due espressioni<br />
hanno lo stesso contenuto semantico se, e solo se, esse sono interscambiabili in<br />
qualunque enunciato in cui occorrono salva veritate. Infatti è chiaro che se due<br />
espressioni hanno lo stesso valore semantico, allora esse danno lo stesso contributo e<br />
quin<strong>di</strong> non fa <strong>di</strong>fferenza, quanto alla verità <strong>di</strong> un enunciato, quale delle due vi<br />
occorra. Inversamente, se non fa <strong>di</strong>fferenza quale delle due occorra allora il loro<br />
contributo – che è il loro valore semantico – deve essere lo stesso.<br />
Ora siamo in grado <strong>di</strong> vedere in che cosa consiste la <strong>di</strong>fficoltà principale<br />
rappresentata dagli enunciati che attribuiscono pensieri per la teoria semantica.<br />
Abbiamo visto che, come valore semantico <strong>di</strong> un nome proprio, la scelta più naturale<br />
cade sull’oggetto che è portatore del nome. Riconsideriamo allora i due enunciati<br />
3. Isa pensa che Fosforo brilli,<br />
4. Isa pensa che Espero brilli.<br />
Il valore semantico <strong>di</strong> ‘Fosforo’ dovrebbe essere lo stesso del nome ‘Espero’.<br />
Dunque i due nomi dovrebbero essere sostituibili salva veritate. Dunque (3)<br />
dovrebbe implicare (4) e i due enunciati dovrebbero attribuire a Isa lo stesso<br />
pensiero, o almeno lo stesso contenuto <strong>di</strong> pensiero. E il principio <strong>di</strong> Leibniz<br />
dovrebbe valere in questo caso. Eppure sembra possibilissimo che Isa pensi che<br />
Fosforo brilli senza pensare anche che Espero brilli, se non sa che Espero è Fosforo.<br />
Questa è la nostra <strong>di</strong>fficoltà principale.<br />
Come potremmo risolverla? Potrebbe essere una soluzione quella <strong>di</strong><br />
abbandonare l’idea che il contributo <strong>di</strong> ‘Espero’ alla verità <strong>di</strong> (3) sia lo stesso <strong>di</strong><br />
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quello <strong>di</strong> ‘Fosforo’. Questo però andrebbe contro il principio <strong>di</strong> Leibniz, il quale non<br />
solo vale per tutti gli enunciati che non attribuiscono pensieri, ma soprattutto è<br />
sorretto da una salda intuizione. Una rosa, <strong>di</strong>ce Shakespeare, comunque la si chiami<br />
avrebbe lo stesso profumo. Se parliamo <strong>di</strong> una cosa per attribuirle una proprietà, e<br />
non <strong>di</strong> un suo nome, che <strong>di</strong>fferenza può fare che si usi uno o un altro dei suoi nomi?<br />
È la cosa che ha la proprietà, non il suo nome. E non dovrebbe fare nessuna<br />
<strong>di</strong>fferenza che la proprietà sia quella <strong>di</strong> essere profumata o invece <strong>di</strong> essere pensata<br />
come profumata da Isa o da qualcun altro. Di fatto, se Isa affermasse <strong>di</strong> vostra<br />
cugina Evelina, Eva per gli amici, ‘Evelina è simpatica’, nessuno avrebbe niente da<br />
obiettare se voi riferiste in giro ‘Isa pensa che Eva sia simpatica’, anche se Isa non è<br />
al corrente che Evelina a volte, dagli amici, è chiamata anche ‘Eva’. Lo stesso per<br />
Espero e Fosforo. Questa soluzione sembra <strong>di</strong>fficile da percorrere.<br />
Un’altra soluzione si potrebbe forse trovare nell’ammettere che i due nomi<br />
‘Espero’ e ‘Fosforo’ abbiano un valore quando occorrono negli enunciati che non<br />
attribuiscono pensieri e un valore <strong>di</strong>verso quando occorrono negli enunciati come (3)<br />
e (4) che attribuiscono pensieri. Questo però costituirebbe una anomalia o almeno<br />
una complicazione notevole nella teoria semantica, che vorremmo fosse il più<br />
semplice e uniforme possibile. C’è qualche altra soluzione? Forse sì, ma in ogni<br />
caso non è nostro compito presentarla qui.<br />
Il compito che ci eravamo proposti era molto più limitato. Volevamo<br />
mostrare in primo luogo che non è un’idea troppo implausibile quella <strong>di</strong> prendere<br />
come nostra guida il linguaggio, quando si tratta <strong>di</strong> chiarire la natura del pensiero.<br />
Inoltre volevamo <strong>di</strong>re che chiarire la natura del pensiero è da un lato compito della<br />
filosofia, che spesso si è fatta guidare dal linguaggio quando si è trattato <strong>di</strong> chiarire<br />
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Marco Santambrogio – Semantica e scienza della mente<br />
la natura <strong>di</strong> concetti e nozioni molto generali, e dall’altro è un passo preliminare e<br />
inevitabile quando si tratta <strong>di</strong> gettare le fondamenta <strong>di</strong> una scienza della mente. Si<br />
possono fare ricerche <strong>di</strong> tutti i tipi su quello che la gente crede o sa – ad esempio,<br />
che cosa sanno gli italiani del proprio passato e della cultura classica? Come<br />
giu<strong>di</strong>cano i propri politici? Che cosa sa della propria lingua madre un bambino <strong>di</strong><br />
due anni e <strong>di</strong> quanto tempo ha bisogno per imparare a parlarla fluentemente? In che<br />
cosa <strong>di</strong>fferiscono le conoscenze matematiche <strong>di</strong> un bambino normale da quelle <strong>di</strong> un<br />
genio della matematica? I bambini credono in Dio? E così via per infinite altre<br />
questioni – ma <strong>di</strong>fficilmente si potrà sostenere che i risultati delle ricerche su tutti<br />
questi argomenti costituiscono un corpo <strong>di</strong> conoscenza scientifica, invece che un<br />
ammasso <strong>di</strong> vaghe curiosità, a meno che non si usino i termini ‘credenza’ e<br />
‘conoscenza’ in maniera rigorosa o non vaga. Ed è una tesi molto ragionevole quella<br />
per cui è compito della filosofia chiarire come dobbiamo intendere questi termini e<br />
come eventualmente dobbiamo mo<strong>di</strong>ficarne l’uso quoti<strong>di</strong>ano e informale che ne<br />
facciamo nel parlare corrente per ottenere nozioni abbastanza rigorose da poter<br />
essere usate nella ricerca scientifica. C’è un senso in cui si può <strong>di</strong>re che anche i<br />
primi passi che mosse Galileo in <strong>di</strong>rezione della teoria fisica moderna appartenevano<br />
tanto alla fisica quanto alla filosofia, poiché consistevano in un chiarimento delle<br />
nozioni fondamentali da usare per descrivere ragionamenti ed esperimenti. Fa parte<br />
<strong>di</strong> questo chiarimento anche la tesi, tipicamente galileiana, secondo cui il gran libro<br />
della natura è scritto in caratteri matematici. In questo senso la filosofia può servire a<br />
gettare le fondamenta <strong>di</strong> una scienza e non c’è ragione <strong>di</strong> pensare che la scienza<br />
della mente debba essere <strong>di</strong>versa in questo dalla fisica.<br />
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Inoltre, ci siamo proposti <strong>di</strong> mostrare come la filosofia debba affrontare i<br />
problemi che riguardano la natura dei pensieri, una volta che abbia deciso <strong>di</strong><br />
prendere il linguaggio come propria guida. Abbiamo visto che, come minimo, deve<br />
riuscire a formulare una teoria semantica coerente e spiegare a quali con<strong>di</strong>zioni sia<br />
vero (e a quali con<strong>di</strong>zioni sia falso) un enunciato come ‘Ada pensa che Fosforo<br />
brilli’, che attribuisce un pensiero a un soggetto. Abbiamo visto infine che porsi<br />
questo problema equivale a porsi il problema <strong>di</strong> quali inferenze tra enunciati del tipo<br />
<strong>di</strong> ‘Ada pensa che p’ e ‘Ada pensa che q’ siano logicamente garantite.<br />
Ma una volta che siamo arrivati a questa formulazione del problema iniziale,<br />
<strong>di</strong> come gettare le basi <strong>di</strong> una scienza della mente, possiamo chiederci se tutta quanta<br />
la storia che siamo venuti svolgendo non possa essere raccontata in modo molto più<br />
semplice – un modo che mette imme<strong>di</strong>atamente in chiaro quale siano i rapporti tra il<br />
pensiero e il linguaggio senza dover passare per la tesi filosoficamente incerta per<br />
cui il linguaggio costituisce una guida affidabile per la riflessione filosofica. Ecco la<br />
versione semplice della storia. Se per sapere, sia pure in modo estremamente<br />
generale, che cosa siano i pensieri e le loro <strong>di</strong>verse sottospecie (le credenze, le<br />
conoscenze, le assunzioni, le speranze, e così via) dobbiamo alla fin fine chiederci a<br />
quali con<strong>di</strong>zioni siano vere (e a quali con<strong>di</strong>zioni siano false) le attribuzioni dei<br />
pensieri e cioè gli enunciati come ‘Ada sa che Fosforo brilla’ e ‘Isa teme che Espero<br />
non brilli’, allora forse tutta la sostanza del concetto <strong>di</strong> pensiero si trova in queste<br />
attribuzioni. Il concetto <strong>di</strong> pensiero è costruito a partire da queste attribuzioni. In<br />
altre parole, forse più chiaramente: noi non sappiamo prima che cosa siano i pensieri<br />
e poi a quali con<strong>di</strong>zioni si possano legittimamente attribuire i pensieri, ma prima<br />
impariamo a quali con<strong>di</strong>zioni possiamo affermare, ad esempio, che Ada pensa che<br />
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Fosforo brilli, e Isa pensa la stessa cosa ed Eva pensa che Espero non brilli e così via<br />
per infinite altre attribuzioni, e a quali con<strong>di</strong>zioni ciascuna <strong>di</strong> queste attribuzioni ne<br />
implica altre, e poi su questa base ci facciamo un’idea <strong>di</strong> che cosa siano i pensieri.<br />
La <strong>di</strong>fferenza non è affatto trascurabile. Possiamo infatti immaginare <strong>di</strong> sapere a<br />
gran<strong>di</strong> linee in quali circostanze una attribuzione come ‘Ada pensa che Fosforo<br />
brilli’ sia vera. Molto approssimativamente, sembra chiaro che è vero che Ada ha il<br />
pensiero attribuitole se e solo se sarebbe <strong>di</strong>sposta ad assentire all’affermazione che<br />
Fosforo brilla, in certe circostanze – ad esempio, nel caso in cui capisca bene<br />
l’enunciato ‘Fosforo brilla’ e sia quin<strong>di</strong> una parlante competente dell’italiano,<br />
oppure capisca bene un enunciato <strong>di</strong> un’altra lingua che sia sinonimo, per quanto è<br />
possibile, dell’enunciato italiano; e inoltre abbia riflettuto abbastanza seriamente a<br />
quello che ha sentito, non intenda mentire, non intenda fare dell’ironia, non voglia<br />
prenderci in giro facendoci credere cose non vere e così via. È dunque il<br />
comportamento verbale <strong>di</strong> Ada – non solo il suo comportamento verbale attuale, ma<br />
anche quello potenziale o <strong>di</strong>sposizionale – quello a cui dobbiamo guardare per<br />
sapere se sia vera o no l’attribuzione ad Ada <strong>di</strong> un certo pensiero o <strong>di</strong> una certa<br />
credenza. E una volta che sappiamo a quali con<strong>di</strong>zioni siano vere le attribuzioni dei<br />
pensieri, se i pensieri sono in un certo senso ‘costruiti’ a partire da queste<br />
attribuzioni, allora possiamo <strong>di</strong>re anche <strong>di</strong> sapere che cosa sono i pensieri stessi.<br />
Non stiamo sostenendo una forma <strong>di</strong> comportamentismo, nel senso in cui il<br />
termine è stato usato da una scuola psicologica che è nata all’inizio del Novecento e<br />
si è più o meno esaurita verso gli anni Cinquanta o Sessanta. In primo luogo il<br />
comportamento verbale non è la stessa cosa del comportamento in senso lato, ma<br />
una sua forma molto speciale. In secondo luogo non c’è nessuna pretesa <strong>di</strong> eliminare<br />
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i concetti intenzionali, come appunto quello <strong>di</strong> pensiero, a favore <strong>di</strong> concetti non<br />
intenzionali. Il comportamentismo pensava <strong>di</strong> poter fare a meno dei concetti<br />
intenzionali e <strong>di</strong> poter tradurre tutte le attribuzioni <strong>di</strong> pensieri in affermazioni che<br />
riguardano solo i comportamenti osservabili (del tipo ‘Il tal soggetto si muove in<br />
questo o quel modo, mostra un aumento della pressione sanguigna, variazioni <strong>di</strong><br />
potenziale elettrico sulla pelle, arrossamento, eccetera.’). Noi abbiamo parlato <strong>di</strong><br />
circostanze in cui il soggetto capisce una lingua e un particolare enunciato, è<br />
riflessivo, attento, sincero e così via – tutti concetti intenzionali quant’altri mai.<br />
Inoltre, non inten<strong>di</strong>amo affatto ignorare, come se fosse in qualche modo poco<br />
rispettabile, l’osservazione in prima persona della propria mente – l’introspezione.<br />
Le auto-attribuzioni <strong>di</strong> credenza sono importanti quanto quelle in terza persona.<br />
Dunque decisamente non stiamo riproponendo una teoria psicologica che si è<br />
<strong>di</strong>mostrata fallimentare. Stiamo solo sostenendo che un particolare comportamento,<br />
quello verbale, ha un’importanza tutta speciale per capire che cosa inten<strong>di</strong>amo col<br />
concetto <strong>di</strong> mente e che cosa riteniamo che avvenga nella mente degli esseri umani.<br />
Ma – si obietterà – è assurdo pensare che solo gli esseri umani che sanno<br />
parlare abbiano una mente! Le persone che non riescono a comunicare, per una<br />
ragione o per l’altra, non possono avere <strong>di</strong>sposizioni ad assentire a una affermazione<br />
come ‘Espero brilla’, e sicuramente non hanno nessuna <strong>di</strong>sposizione del genere gli<br />
animali non umani. Dunque mai nessuna attribuzione <strong>di</strong> un pensiero a uno <strong>di</strong> loro<br />
potrebbe essere vera. E se la mente è costruita a partire dalle attribuzioni <strong>di</strong> pensieri,<br />
dobbiamo concludere che non hanno né pensieri né una mente. Assurdo!<br />
Credo che si tratti <strong>di</strong> una conclusione un po’ precipitosa. Trascuriamo i casi<br />
un po’ troppo <strong>di</strong>fficili delle persone che per una ragione o per l’altra non possono<br />
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Marco Santambrogio – Semantica e scienza della mente<br />
comunicare in nessun modo, nemmeno potenzialmente, e limitiamoci a considerare<br />
gli animali non umani, che sembra proprio che non abbiano un linguaggio. Non<br />
inten<strong>di</strong>amo negare del tutto che un cane, a cui manca solo la parola, abbia una mente<br />
e almeno alcuni pensieri, abbastanza semplici. Ma che cosa inten<strong>di</strong>amo <strong>di</strong>re<br />
veramente quando <strong>di</strong>ciamo ‘Guarda come si agita Cerbero: ha capito che voglio<br />
portarlo fuori’? Se non vogliamo solo <strong>di</strong>re che ha un certo comportamento, né che se<br />
esaminassimo il suo cervello troveremmo un certo tipo <strong>di</strong> attività nei suoi neuroni –<br />
cose che basterebbero a un comportamentista per attribuirgli una mente paragonabile<br />
a quella umana – probabilmente inten<strong>di</strong>amo <strong>di</strong>re questo: se fingessimo che Cerbero<br />
sia capace <strong>di</strong> parlare, allora sarebbe vero, nella finzione, che Cerbero ha la<br />
<strong>di</strong>sposizione ad assentire alla nostra affermazione ‘Sto per portarti fuori’. Certo, una<br />
finzione non è la stessa cosa della realtà e solo per finta e non per davvero Cerbero<br />
ha quella <strong>di</strong>sposizione. Per questa via non arriviamo ad attribuire veramente a<br />
Cerbero una mente: fingiamo soltanto che ne abbia una. Ma che male c’è? Non<br />
neghiamo con questo che nel suo cervello avvengano cose molto simili a quelle che<br />
avvengono nel nostro quando un amico ci propone una passeggiata: anzi, inten<strong>di</strong>amo<br />
proprio affermare la somiglianza. E pren<strong>di</strong>amo molto sul serio l’espressione ‘Gli<br />
manca solo la parola’. Affermiamo anzi <strong>di</strong> sapere che cosa ci <strong>di</strong>rebbe se la parola<br />
l’avesse davvero. Vogliamo solo <strong>di</strong>re una cosa del tutto ovvia: che Cerbero la parola<br />
non ce l’ha ma è come se l’avesse.<br />
<strong>Linee</strong> <strong>di</strong> <strong>Ricerca</strong> – SWIF – ISSN 1126-4780 – www.swif.it/biblioteca/lr<br />
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BREVE BIBLIOGRAFIA RAGIONATA<br />
L. Flori<strong>di</strong> (a cura <strong>di</strong>), <strong>Linee</strong> <strong>di</strong> <strong>Ricerca</strong>, SWIF, 2003-6<br />
L’articolo da cui ha avuto inizio tutta la ricerca sugli atteggiamenti preposizionali<br />
nell’ambito della filosofia analitica è il famoso saggio <strong>di</strong> Gottlob Frege, “Senso e<br />
significato”, del 1892. Un altro suo testo sullo stesso tema più articolato e<br />
successivo <strong>di</strong> parecchi anni è “Il pensiero”, del 1918. Per quanto Frege sia uno<br />
scrittore generalmente chiaro, si consiglia <strong>di</strong> accompagnare la lettura <strong>di</strong> questi testi<br />
con quella dell’eccellente introduzione alla filosofia analitica del linguaggio <strong>di</strong> Paolo<br />
Casalegno [1997]. Ci si renderà conto così della complessità del problema che a<br />
<strong>di</strong>stanza <strong>di</strong> oltre cento anni dalla pubblicazione del primo articolo <strong>di</strong> Frege è ancora<br />
aperto e della forma che il problema assume nell’ambito della teoria semantica.<br />
Michael Dummett è il più autorevole interprete <strong>di</strong> Frege e ha <strong>di</strong>feso con forza in<br />
Dummett [2001] la tesi per cui tutta la riflessione filosofica sul pensiero dovrebbe<br />
aver inizio da un esame del modo in cui il pensiero si esprime nel linguaggio. Il suo<br />
monumentale libro su Frege, Dummett [1973] parzialmente tradotto in italiano, è<br />
molto <strong>di</strong> più <strong>di</strong> un’introduzione al pensiero dello scopritore della logica moderna e<br />
iniziatore della filosofia analitica, ma è troppo impegnativo per un lettore inesperto.<br />
Un classico in cui il problema degli atteggiamenti preposizionali è prospettato con<br />
chiarezza, insieme a molti altri temi, è Quine [1960]. La letteratura su questi<br />
argomenti è ormai sterminata ed esistono molti testi introduttivi e molte antologie<br />
dei lavori più significativi sull’argomento in lingua inglese. Ma come sempre<br />
affrontarne la lettura da auto<strong>di</strong>datti comporta seri rischi. Il lettore italiano troverà<br />
utili i testi (molto <strong>di</strong>versi tra loro) <strong>di</strong> Diego Marconi [1999], <strong>di</strong> Eva Picar<strong>di</strong> [1999], e<br />
<strong>di</strong> Carlo Penco [2004].<br />
<strong>Linee</strong> <strong>di</strong> <strong>Ricerca</strong> – SWIF – ISSN 1126-4780 – www.swif.it/biblioteca/lr<br />
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Marco Santambrogio – Semantica e scienza della mente<br />
- Casalegno Paolo, Filosofia del Linguaggio. Un’introduzione, La Nuova<br />
Italia Scientifica, Firenze 1997<br />
- Dummett Michael, Frege. Philosophy of Language, Duckworth, London,<br />
1973, trad. it. parziale Filosofia del linguaggio. Saggio su Frege, a cura <strong>di</strong><br />
Carlo Penco, Marietti, Casale Monferrato, 1983<br />
- Dummett Michael, Le origini della filosofia analitica, Einau<strong>di</strong>, Torino, 2001<br />
- Frege Gottlob, “Il pensiero”, in Frege G., Ricerche logiche, a cura <strong>di</strong> M. Di<br />
Francesco, trad. it. <strong>di</strong> R.Casati, Guerini, Milano 1988.<br />
- Frege Gottlob, “Senso e significato”, in Frege G., Senso, funzione e concetto,<br />
a cura <strong>di</strong> Carlo Penco ed Eva Picar<strong>di</strong>, Laterza, Bari 2001, e in Filosofia del<br />
Linguaggio, a cura <strong>di</strong> Andrea Icona e Elisa Paganini, Raffaello Cortina,<br />
Milano 2003.<br />
- Marconi Diego, La filosofia del linguaggio, UTET, Torino 1999<br />
- Picar<strong>di</strong> Eva, Le teorie del significato, Laterza, Bari, 1999.<br />
- Penco Carlo, Introduzione alla filosofia del linguaggio, Laterza, Bari 2004<br />
- Quine Willard V.O., Word and Object, MIT Press, 1960, trad. it. <strong>di</strong> Fabrizio<br />
Mondadori, Parola e oggetto, Il Saggiatore, Milano 1970<br />
<strong>Linee</strong> <strong>di</strong> <strong>Ricerca</strong> – SWIF – ISSN 1126-4780 – www.swif.it/biblioteca/lr<br />
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