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Università degli Studi di Bari - Laboratorio di Epistemologia Informatica e Dipartimento di Scienze Filosofiche
Etica, politica, diritto a confronto con
Derrida
Francesco
Giacomantonio Presentazione
Marco Enrico
Introduzione
Giacomelli
Derrida, Jacques, Genèses
généalogies genres et le
Monica Fiorini
génie. Les secrets de
l’archive, Galilée, 2003
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Derrida, Jacques, Il
monolinguismo dell’altro o
la protesi d’origine ,
Raffaello Cortina, 2004
Derrida, Jacques,
Perdonare. L'imperdonabile
e l‘imprescrittibile,
Raffaello Cortina, 2004
Derrida, Jacques, Sulla
parola. Istantanee
filosofiche, Edizioni
Nottetempo, 2004
Derrida, Jacques, Forza di
legge. Il «Fondamento
mistico dell'autorità»,
Bollati Boringhieri, 2003
Derrida, Jacques, Il sogno
di Benjamin, Bompiani, 2003
Derrida, Jacques, Il diritto
alla filosofia dal punto di
vista cosmopolitico,
Melangolo, 2003
Derrida, Jacques -
Roudinesco, Élisabeth,
Quale domani?, Bollati
Borignhieri, 2004
Hélène Cixous - Derrida,
Jacques, Veli, Alinea, 2004
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Resta, Caterina, L’evento
dell’Altro. Etica e politica in
Jacques Derrida, Bollati
Boringhieri, 2003
Tarter, Sandro, Evento e
ospitalità. Lévinas, Derrida
e la questione straniera,
Cittadella Editrice, 2004
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Università degli Studi di Bari - Laboratorio di Epistemologia Informatica e Dipartimento di Scienze Filosofiche
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Presentazione, Francesco Giacomantonio
Università degli Studi di Bari - Laboratorio di Epistemologia Informatica e Dipartimento di Scienze Filosofiche
Presentazione: Etica e politica a confronto con Derrida
Francesco Giacomantonio
Etica,
politica,
diritto a
confronto
con Derrida
Presentazione,
Francesco
Giacomantonio
Introduzione,
Marco Enrico
Giacomelli
Derrida, Jacques,
Genèses
généalogies
genres et le
génie. Les
secrets de
l’archive
Derrida, Jacques,
Il monolinguismo
dell’altro o la
protesi d’origine
Derrida, Jacques,
Perdonare.
L'imperdonabile e
l‘imprescrittibile
Derrida, Jacques,
Sulla parola.
Istantanee
filosofiche
Derrida,
Jacques, .Forza di
legge. Il
«Fondamento
mistico
dell'autorità»
Pochi mesi fa è scomparso Jacques Derrida, uno dei filosofi francesi che più
profondamente e originalmente ha segnato il pensiero contemporaneo, attraverso uno
stile di ricerca che si saldava a una personalità intellettuale vivida e refrattaria a ogni
semplificazione dogmatica. Negli anni più recenti, i suoi interessi si erano molto
orientati a temi di tipo etico e filosofico politico e Derrida era così diventato uno dei
referenti più presenti nell'attuale dibattito intellettuale sulla società e la politica.
Questo numero dello SWIRT è pensato per mostrare, attraverso una raccolta di alcuni
degli ultimi testi etico-politici più interessanti di e su Derrida, come la sua attività di
ricerca, fondata sul decostruzionismo, proprio negli ambiti dell'etica e della politica,
può accendere spunti di riflessione e analisi, cui possono guardare con attenzione non
solo filosofi e storici della filosofia, ma anche studiosi di scienze sociali e politiche.
Il decostruzionismo di Derrida sorgeva originariamente per smontare ogni tipo di
discorso in quanto costruzione: ciò che viene decostruito è la maniera in cui idee,
credenze e valori sono sistemati all'interno di uno schema. La decostruzione
innanzitutto identifica la costruzione concettuale di un determinato campo teorico. In
secondo luogo, evidenzia l'ordine gerarchico delle opposizioni e cerca di introdurre
termini che complicano la struttura portante. In tal modo i testi e i contesti divengono
fonti di senso e i concetti, attraverso la pluralità di significati ad essi sottesi e
progressivamente svelati, mostrano l'ambivalenza dei fenomeni.
Applicato alla politica, allora, il decostruzionismo, porta alla luce tutti i riflessi simbolici
nascosti dietro le idee di democrazia, stato, città, ospitalità, gli scarti esistenti tra
diritto e giustizia, l'impostazione linguistica del rapporto tra culture, il senso critico di
un universalismo.
Applicato all'etica la pratica decostruzionista induce a vedere questa dimensione non
tanto come la definizione immediata di canoni di comportamento che permettano una
buona interazione tra le persone, gruppi o popoli, quanto come la pratica di scegliere
tra i propri pensieri morali, valutando con attenzione, sforzandosi di compenetrarsi
nell'altro, nella sua condizione, storia, tradizione.
Smontando i concetti e le parole dell'etica e della politica, cercando sempre quei
surplus semantici e filosofici, che tanti non riescono a vedere, il pensiero di Derrida
svolge una funzione di chiarificazione epistemologica rispetto alla nostra conoscenza di
queste dimensioni, una funzione che ha davvero valore in una fase storica come quella
contemporanea, in cui le parole sembrano sfuggire dai fenomeni e dalla nostra
capacità di dominarle.
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Presentazione, Francesco Giacomantonio
Derrida, Jacques,
Il sogno di
Benjamin
Derrida, Jacques,
Il diritto alla
filosofia dal
punto di vista
cosmopolitico
Derrida, Jacques
- Roudinesco,
Élisabeth, Quale
domani?
Hélène, Cixous -
Derrida, Jacques,
Veli
Resta, Caterina,
L’evento
dell’Altro. Etica e
politica in
Jacques Derrida
Tarter, Sandro,
Evento e
ospitalità.
Lévinas, Derrida
e la questione
straniera
Derrida, per tutto questo, è stato uomo della parola e uomo nel senso più pieno della
parola. Per entrambi i motivi si può accogliere un invito ad indugiare sui suoi ultimi
libri, indipendentemente dal fatto che il suo metodo, il suo stile, le sue suggestioni, le
sue posizioni siano condivisibili o meno. Dare senso alle parole, del resto, è uno dei
modi più belli per riempire l'esistenza umana, filosofica e non.
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Introduzione, Marco Enrico Giacomelli
Introduzione
Marco Enrico Giacomelli
Etica,
politica,
diritto a
confronto
con Derrida
Presentazione,
Francesco
Giacomantonio
Introduzione,
Marco Enrico
Giacomelli
Derrida, Jacques,
Genèses
généalogies
genres et le
génie. Les
secrets de
l’archive.
Derrida, Jacques,
Il monolinguismo
dell’altro o la
protesi d’origine
Derrida, Jacques,
Perdonare.
L'imperdonabile e
l‘imprescrittibile
Derrida, Jacques,
Sulla parola.
Istantanee
filosofiche
Derrida, Jacques,
Forza di legge. Il
«Fondamento
mistico
dell'autorità»
Università degli Studi di Bari - Laboratorio di Epistemologia Informatica e Dipartimento di Scienze Filosofiche
Affrontare l'immensa mole del lavoro di Jacques Derrida non è un compito facile. È
stato inevitabile scegliere di circoscrivere, per quanto possibile, il compito di questo
numero di Swirt. Optando per testi pubblicati recentemente in Italia e all'estero,
concernenti per semplicità la tematica etico-politica, anche se com'è noto i temi
affrontati da Derrida sono sempre intrecciati fra loro e difficilmente "isolabili".
Il risultato, e speriamo si tratti di qualcosa di più d'un augurio, è una panoramica
necessariamente parziale ma stimolante. Che spazia nella fattispecie da questioni
capitali come il rapporto fra libertà e necessità ne Il diritto alla filosofia da un punto di
vista cosmopolitico alla relazione intessuta fra decostruzione, diritto e giustizia in
Forza di legge. Il "fondamento mistico dell'autorità". In quest'ultimo testo è la figura di
Benjamin a campeggiare con una certa insistenza, come avviene in Fichus (nella
versione italiana il titolo è Il sogno di Benjamin), in forma di firma, lettera e spettro.
Un altro tema di fondamentale importanza è quello del male radicale, affrontato
attraverso la problematica del perdono, decostruendo un testo di Jankélévitch in
Perdonare. L'imperdonabile e l'imprescrittibile. Torna dunque il problema della legge,
così come ne Il monolinguismo dell'altro o la protesi d'origine, qui complicato da una
scena psicoanalitica. E da qui discende in un certo modo il complesso legame fra
prova e testimonianza, sviscerato in un testo dedicato a Hélène Cixous - che torna nel
vorticoso Veli -, Genèses généalogies genres et le génie. Les secrets de l'archive.
Si tratta di problematiche che, nelle interviste e conversazioni di Quale domani? e
Sulla parola, vengono enucleate con maggior chiarezza, ma assolutamente non
cedendo a una divulgazione semplicistica. Nel compito "interpretativo" viene in
soccorso anche un testo chiaro e profondo come quello firmato da Caterina Resta,
L'evento dell'Altro. Etica e politica in Jacques Derrida, e più specificamente quello di
Sandro Tarter, Evento e ospitalità. Lévinas, Derrida e la questione straniera.
Come ha scritto Derrida nel 1977, "la déconstruction porte toujours, à un moment ou
à un autre, sur la confiance faite à l'instance critique, critico-théorique c'est-à-dire
décidante, à la possibilité ultime du décidable: la déconstruction est déconstruction de
la dogmatique critique" (Ja, ou le faux-bond. II, in Points de suspension. Entretiens,
Galilée, Paris 1992, p. 60). La decostruzione è dunque un atto eminentemente etico, e
Derrida lo ha sottolineato in varie occasioni, soprattutto quando veniva accusato
proprio di rivolgersi all'inazione etico-politica. Un'accusa francamente incomprensibile,
se si pensa alla ricchissima costellazione che costituisce la fenomenologia
dell'(impossibile) etica derridiana: amicizia, eredità, ospitalità, giustizia, perdono,
responsabilità, testimonianza. Il dono, in particolare, è in un certo senso il sole nero di
questa costellazione (mi permetto di rimandare alla voce "Don", in Stéfan Leclercq
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Introduzione, Marco Enrico Giacomelli
Derrida, Jacques,
Il sogno di
Benjamin
Derrida, Jacques,
Il diritto alla
filosofia dal
punto di vista
cosmopolitico
Derrida, Jacques
- Roudinesco,
Élisabeth, Quale
domani?
Hélène, Cixous -
Derrida, Jacques,
Veli
Resta, Caterina,
L’evento
dell’Altro. Etica e
politica in
Jacques Derrida
Tarter, Sandro,
Evento e
ospitalità.
Lévinas, Derrida
e la questione
straniera
(éd. par), Abécédaire de Jacques Derrida, Pons, Sils Maria & Paris, Vrin, in corso di
pubblicazione). E se le tematiche etico-politiche sono state sviluppate in particolare a
partire dagli anni '90 del Novencento, con la pietra miliare costituita da Donner le
temps (Galilée, Paris 1991), è altresì vero che la "logica" del dono è già accennata in
En ce moment même dans cet ouvrage me voici (1980, in Psyché. Inventions de
l'autre, Galilée, Paris 1998², t. I, pp. 159-202), mentre lo stesso Donare il tempo è
tratto da un seminario che risale all'anno accademico 1977-78.
A titolo di piccolo contributo, vorrei ricordare anche un breve testo recentemente
pubblicato, Apprendre à vivre enfin (Galilée/Le Monde, Paris 2005), versione integrale
di una conversazione con Jean Birnbaum, apparsa inizialmente sul quotidiano francese
il 19 agosto del 2004. Un testo che lapidariamente lo stesso Derrida definì
"necrologico" (p. 19). D'altra parte, lo studioso di El Biar ha salutato molti compagni di
strada scomparsi (interventi ora raccolti in Ogni volta unica, la fine del mondo, Jaca
Book, Milano 2005) e aveva imbastito il suo testo cinquantennale in un continuo
confronto con l'evento della morte, sin dall'esergo a La voce e il fenomeno (1967) che
citava il Valdemar di Poe (cfr. Marco Enrico Giacomelli, Glas, per Jacques Derrida, in
"Exibart.onpaper", 18/2004, p. 21). Come Derrida ha scritto nel 1993, "vivre, par
définition, cela ne s'apprend pas. Pas de soi-même, de la vie par la vie. Seulement de
l'autre et par la mort" (Spectres de Marx, Galilée, Paris 1993, p. 14). Una tensione,
dunque, che è strutturale nella sua aporeticità, ed è stata vissuta sul (proprio?) corpo
dal pensatore "francese": "Je suis en guerre contre moi-même, c'est vrai, vous ne
pouvez pas savoir à quel point, au-delà de ce que vous devinez, et je dis des choses
contradictoires, qui sont, disons, en tension réelle, et qui me construisent, me font
vivre, et me feront mourir" (Apprendre à vivre enfin, p. 49).
Marco Enrico Giacomelli
I nostri ringraziamenti vanno agli estensori delle note e delle recensioni, alcuni dei
quali sono stati invitati a partecipare a questo numero dello Swirt, permettendoci di
curare un omaggio a Jacques Derrida che ci auguriamo funga da stimolo per l'ulteriore
studio della sua opera.
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Università degli Studi di Bari - Laboratorio di Epistemologia Informatica e Dipartimento di Scienze Filosofiche
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Derrida, Jacques, Genèses généalogies genres et le génie. Les secrets de l'archive
Università degli Studi di Bari - Laboratorio di Epistemologia Informatica e Dipartimento di Scienze Filosofiche
Derrida, Jacques, Genèses généalogies genres et le génie. Les secrets de
l'archive.
Paris, Galilée, 2003, pp. 100, Euro 20,00, ISBN 2718606282.
Nota di Monica Fiorini
Etica,
politica,
diritto a
confronto
con Derrida
Presentazione,
Francesco
Giacomantonio
Introduzione,
Marco Enrico
Giacomelli
Derrida,
Jacques,
Genèses
généalogies
genres et le
génie. Les
secrets de
l’archive.
Derrida,
Jacques, Il
monolinguismo
dell’altro o la
protesi d’origine
Derrida,
Jacques,
Perdonare.
L'imperdonabile
e
l‘imprescrittibile
Bibliografia
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Nel maggio del 2003 si
è tenuto, presso la
Biblioteca Nazionale di
Francia, un convegno
dal titolo Hélène
Cixous: genèses
généalogies genres,
aperto con l'intervento
di Jacques Derrida
pubblicato poi in
volume a sé stante. Il
libro in realtà è solo
uno e il più recente dei
testi dedicati da
Derrida alla scrittrice
francese, nata come lui
in Algeria, da famiglia
ebrea, con la quale ha
condiviso una lunga
amicizia che risale ai
primi anni Sessanta e
un percorso in cui non
è mai mancata la
reciproca lettura,
benché a lungo non
abbia assunto una
forma pubblica. Una
lettura iniziata, come
Derrida stesso ricorda
altrove, anche in una
recente intervista
apparsa su "Magazine
littéraire", con il primo
libro di Hélène Cixous,

Derrida, Jacques, Genèses généalogies genres et le génie. Les secrets de l'archive
Derrida,
Jacques, Sulla
parola.
Istantanee
filosofiche
Derrida,
Jacques, Forza
di legge. Il
«Fondamento
mistico
dell'autorità»
Derrida,
Jacques, Il
sogno di
Benjamin
Derrida,
Jacques, Il
diritto alla
filosofia dal
punto di vista
cosmopolitico
Derrida,
Jacques -
Roudinesco,
Élisabeth,
Quale domani?
Hélène, Cixous
- Derrida,
Jacques, Veli
Resta, Caterina,
L’evento
dell’Altro. Etica
e politica in
Jacques Derrida
Tarter, Sandro,
Evento e
ospitalità.
Lévinas,
Derrida e la
questione
straniera
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un volume di racconti
che il filosofo definirà
in seguito
un'"autobiografia
delirante e sublime"
frutto di una scrittura
che, come in effetti è
avvenuto, rischiava per
le sue caratteristiche,
perché letteralmente
"esce dal
solco" (delira), di non
essere letta o
comunque di non
trovare, in Francia, un
ascolto quale quello
che l'opera merita.
Il nome di Hélène
Cixous in effetti non è
certo ignoto, neppure
in Italia, per quanto sia
stata poco tradotta, e
a fatica, ma resta
spesso legato soltanto
a determinati aspetti
della sua riflessione
che si incarna, come
scrive Jacques Derrida
in Genèses,
généalogies, genres et
le génie, in una
molteplicità di generi e
di forme letterarie
diverse, la finzione
romanzesca (anche se
non fa uso del termine
"romanzo"), il
dramma, il saggio, il
breve testo poetico in
prosa, l'articolo
militante e il seminario
pubblico - che la
scrittrice porta avanti
da anni con il suo
insegnamento a Paris8
e al Collège
International de
Philosophie. La sua
opera viene ricondotta,
soprattutto nei paesi
anglofoni, alla "teoria
della differenza
sessuale", ma Hélène
Cixous direbbe
semmai, con

Derrida, Jacques, Genèses généalogies genres et le génie. Les secrets de l'archive
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un'espressione che
funge da titolo
generale di tutti i suoi
corsi, "poetica della
differenza sessuale". Il
termine "poetica"
potrebbe essere letto
in vari sensi o
direzioni, tutte legate
al suo significato di
fare, creare (nel punto
di articolazione fra una
tecnica e qualcosa che
a essa non si riduce).
Da una parte dice
l'elaborazione concreta
di una poetica
personale e di un opus
in divenire in cui non
viene mai meno il
riferimento,
l'indicazione della
differenza sessuale
(ma questa
affermazione
meriterebbe una lunga
digressione, perché
cosa indichi Cixous con
queste parole,
"differenza sessuale", e
a volte con le sole
iniziali, d.s., che si
pronunciano come
déesse, la dea del
desiderio, dell'incontro,
dell'andare l'uno/a
verso l'altro/a
dell'essere vivente
umano - e non solo
umano -, cosa "indichi"
dicevo, è complesso e
non può essere ridotto
a una teoria
trasmissibile mediante
concetti al di fuori della
lettura dei testi e della
loro operazione di
scrittura in cui
prendono forma gli
interrogativi suscitati
dalla sua fedeltà alla
propria incarnazione e
alla necessaria
reinvenzione dei
rapporti, delle relazioni
tra differenti a partire

Derrida, Jacques, Genèses généalogies genres et le génie. Les secrets de l'archive
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dall'idea stessa di
rapporto che
presuppone due
estremi già costituiti).
La poetica di Cixous,
d'altra parte, è anche
una poetica della
lettura di testi, letterari
e non, in cui
fondamentale è un
incontro con altre
scritture che a loro
volta coltivano una
certa relazione con il
mondo, la vita, gli
esseri viventi e vanno
verso il mondo o sono
aperte a esso non per
descriverlo, nella
pretesa di descriverlocos“-com'è,
ma per
trasformalo. La poetica
della differenza
sessuale va alla ricerca
di tutte quelle tracce
che non (la) riducono
semplicemente,
secondo l'ordine del
discorso dominante, a
una opposizione, che
giocano della d.s. e del
differire, dislocando le
leggi e i generi -
sessuali e letterari -,
che non la danno
dunque per scontata e
si pongono domande
sul suo senso senza
avere la pretesa di
trovare una risposta,
dato che essa, la d.s.,
ha a che fare con il
segreto di ogni
individuo vivente. E di
conseguenza, Derrida
lo ripete in molti modi
in ogni suo intervento
a partire da testi di
Hélène Cixous, con la
necessità di
testimoniarne
singolarmente,
concretamente, e di
non di definire l'altro,
ma di fare dell'incontro

Derrida, Jacques, Genèses généalogies genres et le génie. Les secrets de l'archive
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una domanda - un
reciproco domandarsi
nell'esperienza di
lontananza e di
inaccessibilità che (ci)
rende inseparabili. Di
questa non comune
misura e non
simmetria si occupa
del resto tutto il primo
saggio derridiano, che
si presenta come un
dialogo pubblico con
Cixous, un breve testo
intitolato Fourmis e
letto al convegno
Lectures de la
différence sexuelle del
1990 e in cui di
quest'ultima si legge:
"Né provata né
possibile da provare,
deriverebbe piuttosto,
nel senso più
enigmatico di questa
parola, dalla
testimonianza. La
testimonianza eccede
ogni esperienza
Ôconstatativa',
impegna, e impegna,
attraverso questo
eccesso, nei confronti
di ciò che, nella
differenza senza bordo,
nell'incommensurabilità
assoluta o nel senzarapporto
che marca
ogni rapporto con
l'altro, non ridurrà mai
la fede, ovvero un
credere senza
credulità, la fiducia o
confidenza che Ôsa'
rinunciare
infinitamente, o, se
preferite, che intende -
e che si intende a -
rinunciare
infinitamente a svelare
il segreto. Il proprio - e
quello dell'altro".
L'occasione dell'ultimo
testo derridiano è
offerta, come già

Derrida, Jacques, Genèses généalogies genres et le génie. Les secrets de l'archive
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detto, da un altro
convegno, e più
precisamente dalla sua
collocazione e dalle sue
motivazioni, dato che
ha coinciso più o meno
con la scelta di Hélène
Cixous di donare i suoi
manoscritti alla
Biblioteca Nazionale di
Francia. Da questo
fatto deriva
innanzitutto il
sottotitolo, Les secrets
de l'archive che
richiama tutta la
riflessione di Derrida
sull'archivio e il mal
d'archive, e sulla
necessità di pensare i
rapporti tra prova e
testimonianza, centrale
in tutti i testi più
recenti per la sua
valenza etica e politica.
Anche l'elaborazione
delle parole che
formano il titolo,
genesi, genealogie,
generi, è tuttavia
legata allo stesso
ambito esplorato in
molti modi diversi e
spesso attraverso il
riferimento al legame
tra ciò che chiamiamo
letteratura o finzione e
la testimonianza nel
suo riferimento al
piano della verità o
della veridicità.
A queste tre parole ne
aggiunge una quarta,
riconducibile alla
stessa "famiglia" di
sostantivi in "g" perché
legata anch'essa
etimologicamente alla
generazione, e che
tuttavia ne disturba
l'ordine e si sottrae,
mostrandola, alla sua
presunta omogeneità:
genio. L'irruzione del
genio è l'irruzione

Derrida, Jacques, Genèses généalogies genres et le génie. Les secrets de l'archive
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dell'opera come evento
che interrompe la
genealogia, la
tradizione della lingua
e della letteratura cui
pure "appartiene", ed
eccede la legge dei
generi nel suo essere
qualcosa di
"mostruoso" come
tutto ciò che è inoltre
dell'ordine del miracolo
e quindi della
straordinarietà anche
sul piano della genesi.
Con una serie di
conversioni successive
e di domande che
passano dal "che cosa"
al "chi" è un genio, il
genio (indispensabile,
essendo forse per
eccellenza indicazione
di una singolarità),
afferma inoltre la
necessità di porsi la
domanda della sua
declinazione al
femminile con lo stesso
gesto con cui riconosce
la provocatorietà non
solo di quest'ultima
versione o traduzione,
che la lingua corrente
ancora non contempla,
ma dello stesso ricorso
al termine genio,
genialità, con tutto ciò
che porta con sé e con
il disagio che, da
tempo, suscita:
innatismo creazionista,
oscurantismo,
complicità verso un
qualche naturalismo e
con una teologia
dell'ispirazione, una
scrittura dettata
associata a
un'adorazione davanti
all'ineffabile che
associa spesso il dono
alla nascita e il segreto
al sacrificio.
Da qui,

Derrida, Jacques, Genèses généalogies genres et le génie. Les secrets de l'archive
http://lgxserve.ciseca.uniba.it/lei/recensioni/swirt/derrida/Gen%8Fses%20g%8En%8Ealogies.htm (8 of 18)15/11/2005 3.37.13
dall'affermazione che
tuttavia non ci si deve
affrettare a denunciare
il segreto e dalla
necessità di far ricorso
alla parola "mistico"
prende le mosse un
percorso che esplora
nei testi di Hélène
Cixous molto di ciò che
è in gioco nella
famiglia di parole in
"g": una
drammaturgia,
appunto, della
famiglia, dell'origine,
della nascita e della
filiazione, una
drammaturgia del
nome che tutti i testi
della scrittrice
trasformano in un
potente intrigo, capace
di dire qualcosa non
solo della "sua"
famiglia (la quale,
bisogna ricordarlo, con
le parole della madre
Eve, è "son invention"
e non è affatto il frutto
di un'anamnesi
intuitiva che si vuole
neutra), ma della
famiglia, della
filiazione, della nascita,
da un punto di vista, o
meglio un côté segnato
dalla d.s.. E non solo
del nome del padre -
Georges [Cixous] - ma
del "nom-du-père" e
del nome, del nome
proprio, della sua
unicità e insostituibilità
cos“ come della sua
necessaria e
impossibile traduzione,
nonché del nome della
madre, Eve, appunto,
Eva come la prima
donna, Eve come
"eve", la vigilia, e
come parte di una
parola, evento,
événement a sua volta
insostituibile e offerta

Derrida, Jacques, Genèses généalogies genres et le génie. Les secrets de l'archive
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(offerto) alla
sostituzione.
Il punto di partenza
della lettura è offerto
in Genèses,
généalogies, genres et
le génie da uno degli
ultimi libri di Hélène
Cixous, l'ultimo al
momento del
convegno, Manhattan
in cui Derrida ritrova il
"prénom" del padre,
Georges, "bon génie"
che veglia su tutto e
ispira tutto, e una sua
traduzione/versione,
Gregor. Ma dietro i
riferimenti specifici a
quelle pagine si
ritrovano molti altri
testi di Cixous tra cui
OR les lettres de mon
père che qualche anno
prima era stato
ripetutamente al
centro delle lunghe e
pazienti letture
derridiane in un altro
scritto intitolato H.C.
pour la vie, c'est à
dire... (dove
esplicitamente, in
apertura, un
frammento ricordava il
legame tra
"traduzione" e
"parricidio") e dove
dietro l'apparente
centralità di "Georges"
passava tutta una
decostruzione della
paternità, dell'autorità
paterna e si apriva, per
restare forse in parte
in sospeso, un
riferimento alla
"maternità" che trova a
più livelli nell'opera di
Hélène Cixous una
potente elaborazione
poetica e simbolica.
Sia in H.C. pour la vie
che in Genèses

Derrida, Jacques, Genèses généalogies genres et le génie. Les secrets de l'archive
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généalogies genres et
le génie Derrida
procede seguendo una
miriade di fili diversi in
modo da mettere
concretamente in
opera una fitta
tessitura, una trama
che non si lascia
sciogliere senza perdite
e che gli permette di
passare da un
elemento all'altro, di
suscitare accostamenti
imprevisti, o di
proporre un frammento
alla lettura senza
ricondurlo a
un'interpretazione che
pretenderebbe di
spiegarne totalmente il
senso. Non si può
percorrere questa
trama senza in qualche
modo accettare di
"perdervisi" e di
seguirne le tracce,
anche e soprattutto
quelle che conducono a
tanti altri testi, saggi,
interventi derridiani
non direttamente legati
all'opera di Cixous, ma
che sono il luogo in cui
prendono forma le
principali
preoccupazioni del
filosofo negli ultimi
anni, senza accettare
di proseguire in
qualche modo questa
operazione che mima
la tessitura e lo
dichiara
esplicitamente, per
esempio, proprio in un
altro scritto, Un baco
da seta, pubblicato in
un volume dal titolo
Veli insieme a un testo
di Cixous, non
accostato in maniera
esteriore, ma
incorporato in quelle
pagine
straordinariamente

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legate alla sua
esperienza incarnata e
singolare. Sarebbe
dunque impossibile
sviluppare, seguendo
anche solo alcuni degli
spunti offerti fin qui,
un percorso che mostri
in tutta la sua
complessità in che
modo riemergono e
vengono rilanciati
tramite le letture
proposte tutti quei nodi
che formano la lista
aperta in cui si legano
traduzione,
impossibile, dono,
perdono, ospitalità e
naturalmente evento in
tutte le sue valenze
etiche. Si possono però
sottolineare alcuni
aspetti che
caratterizzano
specificamente la
lettura dell'opera di
Hélène Cixous.
Jacques Derrida
sottolinea che l'opera
geniale che porta il
nome di Hélène
Cixous, la sua firma, è
frutto di una
straordinaria alleanza
tra il più rigoroso
calcolo della scrittura e
l'apertura, l'abbandono
(se rendre:
abbandonarsi,
arrendersi, andare
incontro, come
nell'espressione
francese rendez-vous)
al sogno. é il sogno il
luogo, se si tratta di un
"luogo", lo spazio
intorno al quale, nel
suo rapporto con il
sapere (Sapere è il
titolo del testo di
Hélène Cixous in Veli),
potrebbe raccogliersi
una lettura più
approfondita

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dell'incontro fra Cixous
e Derrida. L'apertura al
sogno o del sogno,
l'interruzione "onirica"
che non coincide con la
realtà data, è apertura
a ciò che arriva o
accade sullo sfondo di
un non-sapere, di un
non ancora visto, un
evento e un inizio che
assume il carattere di
una conversione o di
una rivoluzione, quella
rivoluzione, tra l'altro,
che fa dell'opera
molteplice qualcosa di
più grande di ogni
biblioteca che volesse
contenerla; portatrice
di un eccesso, di una
"dismisura della
memoria" che disturba
gli spazi di
archiviazione, le
indicizzazioni e tutte le
classificazioni. Il
disagio, però,
l'inquietudine
provocata dall'opera di
Hélène Cixous è anche
dovuta al fatto che la
sua scrittura, scrittura
poetica, non filosofica
(ma è chiaro che
questo confine non
resta intatto, sano e
salvo), come afferma
fin dal titolo uno dei
testi in questione, è
una scrittura "pour la
vie", orientata verso
una "vita" che non si
scrive (e si vive) in
contrapposizione con la
morte. In pagine molto
belle, complesse e
inquiete, in cui Derrida
si pone tra l'altro
numerose domande
sulla sua posizione di
lettore - non so, dice
spesso, "où placer ma
voix" - sulla
impossibilità di credere
e di sapere ciò che

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credere può voler dire
dall'altro lato, da quello
dell'altra, a cui si
rivolge nel suo dialogo,
la locuzione "pour la
vie" lega
indissolubilmente
qualcuno e qualcosa, la
firmataria e l'opera e
dà da pensare ciò che
"vuol dire vivere [É] al
di là di qualsiasi volerdire"
anche per il
filosofo che parte qui -
cito dalle pagine iniziali
della lunga conferenza
- da una oscurità e da
una "incomprensione".
La scrittura di Hélène
Cixous mette in opera
"de son côté" una
meditazione etica e
poetica insieme
sull'evento, il credere,
e il segreto come
ingredienti della vita
del soggetto umano
incarnato attraverso
un'operazione che,
come sempre in
un'opera letteraria,
scuote la differenza tra
luogo pubblico e
privato, tra finzione e
realtà (o autobiografia)
perché si radica nella
vita, passa "par" e
"pour la vie" offrendosi
non come un sapere,
ma come un luogo di
metamorfosi:
metamorfosi per chi
scrive e metamorfosi
per chi legge. (é cos“
che leggo la puissance
della letteratura e della
scrittura di Cixous su
cui si sofferma Jacques
Derrida riprendendo
una definizione della
scrittrice che parla di
"lettres de toute
puissance" per
metterla in rapporto
con la sua iniziale

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domanda sul credere:
"Puisse-je la croire",
potessi credere,
crederle, credere che
la vita sia il solo "lato",
che la morte sia un
"non-lato", e con il
senso di questo
congiuntivo, puisse che
appare essere un altro
nome della différance,
come tempo
dell'ipotesi e di un
accadere non- o preperformativo
in cui
scompare a velocità
vertiginosa la
differenza tra passività
e attività.)
La temporalità di
Hélène Cixous indica
che siamo esseri
viventi fatti di tempo e
dunque in continua e
irreversibile
trasformazione.
Irreversibile, scrive
Derrida, è la vita, il
lato della vita per
Cixous, che dunque
sembra essere il solo
lato anche se la morte
non viene negata o
denegata: "Se la vita
non ha altro lato, se ha
un solo lato, quello
della vita vivente,
allora questa resta
indecidibile, certo,
perché non c'è niente
da decidere, non si può
più decidere tra due
bordi o due lati
opposti, ma questo
indecidibile è il luogo
della decisione che, per
quanto grave sia, non
può essere che per la
vita. Poiché è
indecidibile si può
decidere solo per la
vita. Ma la vita è
indecidibile anche
perché nella sua stessa
finitudine è infinita. Ciò

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che ha un solo lato -
un solo bordo senza
bordo opposto, è
infinito. Finito perché
bordato da un lato, ma
infinito perché senza
bordo contrapponibile".
Questo "côté unique"
in cui sono centrali la
vita (con la sua
potenza affermativa
non contenuta nel
concetto filosofico di
possibilità) , la
singolarità (messa
anche in evidenza dal
riferimento al genio), e
i "commencements"
come segno di
rinascita, di nascita
mai conclusa (indagata
in tutta la sua
complessità da Hélène
Cixous) è "côté unique"
di ognuno e ognuna e
per questo
dissimmetricamente
rivolto verso l'altro,
"exposé ou tenu par
l'autre".
Attraverso l'esercizio di
un'arte della
sostituzione ("art du
remplacement" -
questo è il pensiero, la
necessità del
linguaggio, della
simbolizzazione, della
"cultura") che lascia
"en place" il vivente
singolare, l'altra ci
offre una riflessione
sulla "vita" che, come
afferma Jacques
Derrida è insieme finita
e infinita. Riflessione
che non coincide con il
suo sentirsi sempre
"rivolto verso il lato
della morte" ma che
sconvolge innanzitutto,
facendolo vibrare e
tremare, ogni margine
e confine e lato a
partire dal significato

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stesso di "côté", di
costa, di riva, di bordo.
Si tratta di un'arte in
cui la temporalità non
scorre verso la morte
(o meglio: sì, ma non è
orientata a/da essa) ed
è disseminata di inizi
(commencements, o,
come lo scrive Cixous
"comme en semant"),
di nascite che non sono
"origini" ma suites ("je
suis la suite" dice Eve,
la madre, in un libro
intitolato Osnabrück) di
nuove partenze che H.
C. pour la vie in
qualche modo mima
nel suo presentarsi
come una serie di inizi,
ma che anche sposta
in quanto è una
palinodia fatta di ritorni
e di ritrattazioni.
Anche questa necessità
di una palinodia
richiede però
un'indagine che forse
potrebbe partire, per
interrogarsi
ulteriormente sul
différand che si trova
nel cuore di questi
testi, dal diverso tono
della scrittura di
Jacques Derrida di
fronte al segreto di una
singolarità esposta alla
morte (la necessità di
rinunciare a "lever le
secret", a sollevare il
velo e prima ancora la
difficoltà nel fare il
lutto del velo come
dice in Un baco da
seta), rispetto
all'amore per i segreti -
amore per l'altro, il
mondo, penser-aimer
come diceva il titolo di
uno dei suoi seminari a
metà degli anni
novanta - che Hélène
Cixous esprime anche

Derrida, Jacques, Genèses généalogies genres et le génie. Les secrets de l'archive
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citando un'altra
scrittrice, Clarice
Lispector, maestra
nell'esercizio della
pazienza e
dell'attenzione
necessarie per
guardare e ammirare il
mondo in ciò che ha di
più piccolo, di
apparentemente
insignificante, l'uovo
per esempio: "Lei
amava i segreti
ferocemente come se
appartenessero alla
sua stessa specie".
Bibliografia
Intervista a Hélène
Cixous e Jacques
Derrida, Du mot à la
vie. Un dialogue entre
Jacques Derrida et
Hélène Cixous,
«Magazine littéraire»,
430, avril 2004
Hélène Cixous, Portrait
de Jacques Derrida en
jeune saint juif,
Galilée, Paris 2001
Jacques Derrida,
Fourmis, in Lectures de
la différence sexuelle,
Des femmes, Paris
1994
Jacques Derrida, H.C.
pour la vie c'est à
dire..., Galilée, Paris
2002
Jacques Derrida, trad.
it., Un baco da seta, in
Veli, Alinea, Firenze
2004 (Galilée, Paris
1998)

Derrida, Jacques, Genèses généalogies genres et le génie. Les secrets de l'archive
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Università degli Studi di Bari - Laboratorio di Epistemologia Informatica e Dipartimento di Scienze Filosofiche
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Derrida, Jacques, Il monolinguismo dell'altro o la protesi d'origine
Università degli Studi di Bari - Laboratorio di Epistemologia Informatica e Dipartimento di Scienze Filosofiche
Derrida, Jacques, Il monolinguismo dell'altro o la protesi d'origine
a cura di Graziella Berto, "Opere scelte di Jacques Derrida", Milano, Raffaello Cortina
Editore, 2004, pp. XXI+97.
Recensione di Raoul Kirchmayr - 31/03/2005
Etica,
politica,
diritto a
confronto
con Derrida
Presentazione,
Francesco
Giacomantonio
Introduzione,
Marco Enrico
Giacomelli
Derrida, Jacques,
Genèses
généalogies
genres et le
génie. Les
secrets de
l’archive.
Derrida, Jacques,
Il monolinguismo
dell’altro o la
protesi d’origine.
Derrida, Jacques,
Perdonare.
L'imperdonabile e
l‘imprescrittibile
Derrida, Jacques,
Sulla parola.
Istantanee
filosofiche
Derrida, Jacques,
Forza di legge. Il
«Fondamento
mistico
dell'autorità»
"Non ho che una lingua, e non è la mia", dice Jacques Derrida. E lo dice subito, fin
dall'inizio del suo discorso, come a stabilire le condizioni che esso deve assumere e
che allo stesso tempo definisce nel momento in cui avviene. Il monolinguismo
dell'altro o la protesi d'origine - testo nato da un colloquio che si tenne nel 1992 a
Baton Rouge, presso l'Università Statale della Louisiana, con il titolo bilingue di Echoes
from Elsewhere / Renvois d'ailleurs, poi pubblicato in francese nel 1996 - è un saggio
dedicato al rapporto del tutto singolare con la lingua nella quale egli ha pensato e
scritto: il francese. Rapporto complesso, travagliato, che porta il segno di una ferita e
che è una dichiarazione d'amore. Amore per una lingua che non è stata la sua "lingua
madre" e che ne ha preso il posto, da matrigna che ha imposto la sua legge. Di fatto,
Derrida, parlando della lingua, non smette di parlare della legge e del rapporto che chi
dice "io" in una certa lingua intrattiene con essa, assoggettandosi alla legge di quella
lingua. L'identità del parlante si fa in ciò che non gli appartiene, dice Derrida: la mia
lingua non è mai mia, ma proviene e afferma l'altro, essa stabilisce la sua legge, e,
tuttavia, mediante essa è possibile dire "io".
Fin dall'inizio, dicendo "non ho che una lingua, e non è la mia", Derrida avanza per
negazione determinata, perché ciò che il suo discorso dice, non lo può dire
affermando. O, quanto meno, se lo afferma, lo fa solo per tracciare dei limiti, dei
confini immanenti al discorso stesso. E così facendo ne dà il tono o, forse, lascia che il
discorso trovi da sé il suo tono. Con quella frase ne va di un certo amore per il rilancio
e per l'iperbole, ma non solo. Perché il gesto inusuale con cui Derrida prende la parola
per parlare della sua lingua, dicendo che non è affatto sua, sembra proprio una follia.
Com'è possibile prendere la parola per affermare che si parla una sola lingua, e per
dire al tempo stesso che questa lingua non è la propria? é impossibile, saremmo
portati a dire sulla scorta del senso comune o di una ragione che dà la misura alla
lingua. é impossibile, dice d'altronde Derrida, ma è proprio questa impossibilità della
lingua a rappresentare la posta in gioco, ciò verso cui egli lancia il discorso della
decostruzione, puntando al rilancio della sua pratica filosofica. E se la decostruzione è
una pratica filosofica - come Derrida ci ha mostrato senza sosta nell'arco di decenni
mediante un'arte della scrittura e della parola - allora anche il punto di teoria si
concentra interamente sulla questione di un'appartenenza e di una proprietà
impossibili. é questo gusto della scommessa sull'impossibile a dare così il tono al
saggio. Con tutto il rischio che questo gesto comporta. Per esempio il rischio
dell'incomprensione del lettore o dell'immaginario interlocutore, che prende la parola
nel polilogo d'apertura. "Dici l'impossibile. Il tuo discorso non sta in piedi. Resterà
http://lgxserve.ciseca.uniba.it/lei/recensioni/swirt/derrida/Il%20monolinguismo%20dell%27altro.htm (1 of 5)15/11/2005 3.37.15

Derrida, Jacques, Il monolinguismo dell'altro o la protesi d'origine
Derrida, Jacques,
Il sogno di
Benjamin
Derrida, Jacques,
Il diritto alla
filosofia dal
punto di vista
cosmopolitico
Derrida, Jacques
- Roudinesco,
Élisabeth, Quale
domani?
Hélène, Cixous -
Derrida, Jacques,
Veli
Resta, Caterina,
L’evento
dell’Altro. Etica e
politica in
Jacques Derrida
Tarter, Sandro,
Evento e
ospitalità.
Lévinas, Derrida
e la questione
straniera
sempre incoerente, "inconsistent", come si direbbe in inglese" (p. 7). Dire
l'impossibile, come riconosce l'interlocutore (dunque un altro, che fa riferimento a
un'altra lingua, l'inglese; ma il tono è anche quello di un lieve humour, come se
Derrida sorridesse, nascondendosi dietro la maschera di questo anonimo anglofilo) è
la scommessa e la follia di un discorso che si scredita da sé, che rivela la sua stessa
menzogna nel momento in cui viene pronunciato. Ma che, in questo modo, fa balenare
come in un lampo la sua verità. La frase con cui Derrida apre il suo libro e che ripete a
ogni passo, "non ho che una lingua, e non è la mia", nella sua incredibile
"contraddizione pragmatica o performativa" (ibid.), si destituisce da sé. Il principio
della sua rovina è tutto interno alla lingua: una lingua si rende estranea a sé, e così
denuncia la mancanza di cui è affetta fin dall'origine.
Il monolinguismo dell'altro gira attorno al paradosso prodotto dalla doppia negazione
contenuta nella frase d'apertura. Il titolo stesso sembra custodire la sua formulazione
paradossale. "Non ho che una lingua" è il sintagma che afferma il monolinguismo, "e
non è la mia" è quello che dice la priorità dell'altro. Ma che cosa significano
"monolinguismo" e "altro", in questo testo affascinante e ricco, così denso e
trascinante da riuscire a condensare in poco meno di cento pagine alcuni dei fili
conduttori pi• intriganti (e intricati) del pensiero di Jacques Derrida sulla lingua?
Avviciniamo queste due parole per mezzo di alcune impressioni che, credo, possano
rappresentare altrettanti snodi del testo.
1. Prima impressione, la scena della ferita che compare nel testo sotto diverse
angolature, quando si racconta delle memorie risalenti all'infanzia e alla giovinezza
trascorse ad El-Biar, il sobborgo natio alle porte di Algeri, e della condizione peculiare
degli "ebrei indigeni", come venivano chiamati gli ebrei algerini, cittadini francesi la cui
identità culturale e le cui memorie la storia ha costantemente tenuto sotto minaccia.
Eredità e memorie che sono sottoposte a un interdetto implicito che diventa manifesto
con l'introduzione, anche nei territori non metropolitani, delle leggi antiebraiche del
1940. Si trattava di una condizione di mancanza, lamenta Derrida. "Per quanto
riguarda la lingua, in senso stretto, non potevamo nemmeno ricorrere a qualche
sostituto familiare, a qualche idioma interno alla comunità ebraica, a una sorta di
lingua-rifugio che avrebbe garantito, come lo yiddish, un elemento di intimità, la
protezione di un "presso di sé" contro la lingua della cultura ufficiale, un ausiliario
integrativo in situazioni socio-semiotiche diverse" (p. 65). Francesi esclusi dall'esserlo
in virt• della stigmatizzazione dell'ebreo, gli ebrei-francesi d'Algeria si sono vista
negata l'appartenenza alla nazione mediante un atto di lingua, l'interdizione.
L'interdizione è appunto la ferita inferta ad una comunità, mediante una triplice
separazione: dalla cultura araba o berbera, dalla lingua e dalla cultura francese, dalla
memoria ebraica.
Quella della ferita è una scena primitiva, per dirla con le parole della psicanalisi. Scena
dell'origine, dunque, dove ne va di un taglio originario con cui la lingua (come legge)
dell'altro incidono e separano: circoncisione, a dire l'eredità ebraica che forma quel
primum senza origine né inizio di cui Derrida non ha smesso mai di testimoniare,
segreto senza segreto che egli ha portato con sé come marca della sua singolarità di
pensatore. Tale è, infatti, anche la scena dell'identità: "La nostra questione è sempre
l'identità" (p. 19). Come dire che non ci può essere identità senza una separazione
originaria che lascia la sua traccia e che il discorso di colui che si presenta dicendo "io"
anela a ricucire: circonfessione, come ha detto Derrida in un altro testo, poco letto e
frequentato ma per molti aspetti illuminante, testo marcatamente autobiografico che
si pone decisamente all'incrocio delle problematiche poi toccate nel Monolinguismo. In
Circonfession l'eredità cristiana della confessione viene riscritta, ovvero inscritta in
un'interrogazione sull'identità ebraica, a partire dalla lingua dell'altro, il francese.
Come nella scena circonfessionale, Derrida si fa testimone delle eredità del Libro.
Come iscrizione nella lingua dell'altro, il rapporto con la lingua passa in primo luogo
http://lgxserve.ciseca.uniba.it/lei/recensioni/swirt/derrida/Il%20monolinguismo%20dell%27altro.htm (2 of 5)15/11/2005 3.37.15

Derrida, Jacques, Il monolinguismo dell'altro o la protesi d'origine
attraverso la scrittura e con l'eredità delle religioni del Libro. La scrittura del
monolinguismo si apre allora alla scena del martirio e della passione secolarizzati. Di
una sofferenza che si esprime incarnandosi nella lingua: "è il martirio del francomagrebino
che fin dalla nascita, dopo la nascita ma anche della nascita, sull'altra
sponda, la sua, non ha scelto e non ha compreso niente, in fondo, e soffre ancora e
testimonia" (p. 25).
Nella prospettiva della lingua interdetta, e della legge dell'interdizione della lingua, le
cose si mescolano, dando così luogo a una fondamentale ambiguità. La mancanza
della lingua assume un duplice profilo: da un lato la lingua presunta originaria. quella
avant-première langue (p. 83) che precede la supposta lingua madre (cioè il
francese), lingua che non c'è mai stata storicamente, semplicemente in quanto non
appartenente alla cultura degli "ebrei indigeni" francesizzati d'Algeria. La lingua che
interdice è una lingua che sottopone se stessa all'interdetto, come se si vietasse da
sé. In questo essa si trasforma e si presenta come lingua dell'altro: essa esclude per
inclusione, include per escludere. In questo senso l'interdizione, il divieto che colpisce
la lingua "non induce semplicemente alla perdita" (p. 39). Anzi, è l'interdetto a fornire
la possibilità di inserzione nella monolingua dell'altro. Dall'altro lato la lingua dell'altro
è soggetta alla mancanza istitutiva di ogni lingua: essa non è una totalità in cui
l'individuo si reperisce come identità del particolare, piuttosto è l'Uno-mancante che
dà spazio alla insostituibilità del singolo: il singolare che si reperisce e si identifica
(mai come identità dell'Uno) nell'universale della lingua. Allora il problema che Derrida
apre è quello dell'accesso al segreto della lingua interdetta: "come orientare
l'iscrizione presso questa lingua proibita, e non semplicemente in essa" (p. 41)?
Nuovamente il paradosso: il lamentare la perdita della lingua presunta originaria, di
una lingua materna che non è mai stata detta e le cui parole non sono mai state
pronunciate, in che lingua può essere espresso se non in quel francese che è "la lingua
luttuosa del lutto", quella lingua che Derrida, pur riconoscendo che non c'è stata altra
lingua, afferma di non aver mai potuto chiamare "lingua materna" (ibidem)?
La monolingua di cui parla Derrida è intaccata dalla mancanza: non c'è alcuna unità
né alcuna identità chiusa in sé, nella lingua. La sua unità non è definibile in senso
aritmetico, cosa che la rende incalcolabile. Da sé a sé, la lingua non si chiude nella sua
purezza, ma fa costantemente appello all'esigenza della traduzione. Appello che viene
rivolto all'altro, che chiama - in questo strano messianismo senza messia - alla venuta
dell'altro. Così, la lingua dell'interdetto e della minaccia, lingua della separazione e
dell'esclusione (per non dire della morte) si trasforma dall'interno in lingua della
promessa e di quel "vieni, vieni" con cui Derrida ha ripetutamente parlato di
un'affermazione alla vita.
2. Seconda impressione, l'immigrazione-emigrazione, come una specie di doppio
movimento alternato, di un drammatico fort-da. Infatti questo testo, occorre
sottolinearlo, è anche un testo d'emigrazione. Derrida mette in scena un discorso
d'emigrazione nella lingua che ha dettato la sua legge come legge del francese in
quanto lingua d'esclusione. E basterebbe pensare alla tonalità autobiografica di alcuni
testi di Derrida e alla sua condizione dettata da un certo "non" che concentra
un'identità plurale, di ebreo-franco-magrebino sui generis, soggetto a una condizione
che tradirebbe una "turba dell'identità" (p. 20). Il monolinguismo rappresenta così uno
degli innumerevoli tasselli con cui Derrida ha composto il tema della sua
"nostalgeria" (p. 62), della sua nostalgia per l'Algeria, passione bruciante come una
ferita su cui molto ha detto, nei suoi ultimi anni, nel dialogo con la scrittrice Hélène
Cixous, con la quale Derrida ha condiviso questa comune (dis)appartenenza. Lingua e
memorie come noblessures, come quelle ferite che Derrida e Cixous hanno rivendicato
come loro (notres blessures) e il cui marchio nobilita chi lo porta (noblesse-blessure).
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Derrida, Jacques, Il monolinguismo dell'altro o la protesi d'origine
Marchio, marcatura, ferita con cui l'assoggettamento si incide sul corpo
dell'assoggettato e che il corpo della scrittura evoca fantasmaticamente e fa comparire
nel testo. L'assoggettamento, tuttavia, è pure la condizione della liberazione. Derrida
ne parla chiaramente, quando delinea quella che chiama l'"ex-appropriazione della
lingua" (p. 30): l'imposizione linguistica da parte del padrone colonizzatore è soggetta
a sua volta a quella singolare legge di alienazione per cui è lo stesso padrone a essere
alienato nella sua lingua. Come dire che non si dà mai pieno possesso della lingua,
fonte di legittimità della presunta superiorità del padrone. Ma, al tempo stesso, oltre a
questo "primo giro" della lingua, è possibile un altro movimento, con cui viene
sottratta questa proprietà artificiale, questo bene custodito gelosamente dal padrone
(e la gelosia per la lingua è appunto il motivo che apre il libro, introdotto da una
citazione da Amour bilingue di Abdelkebir Khatibi). Il "secondo giro" della lingua sarà
quello della liberazione, dell'emancipazione e della rivoluzione, detto così, con un
lessico che non teme di tradire la propria derivazione dal discorso del marxismo.
Questo secondo giro "affrancherà dal primo mentre confermerà un'eredità
interiorizzandola, riappropriandosene - ma solo fino a un certo punto. La mia ipotesi è,
infatti - scrive Derrida -, che non c'è mai appropriazione o riappropriazione assoluta.
Poiché non c'è proprietà naturale della lingua, questa dà luogo soltanto a una rabbia
appropriatrice, a una gelosia senza appropriazione" (p. 30). Infatti, nella dialettica tra
il servo-apprendista della lingua e il padrone-maestro - felice ambiguità del francese
ma”tre - che si ritrova in alcune pagine molto belle, il francese prende il posto di una
lingua che non c'è mai stata, che tuttavia c'è, è lì ma in quanto esclusa, come quei
piccoli scolari arabi e cabili che - presenti nelle scuole elementari come silhouette che
inquietano l'istituzione dei padroni - scompaiono alla soglia del liceo poiché esclusi
dalla lingua. Senza nessuna lingua originaria, nessuna lingua che possa dire l'origine,
il francese - come ogni lingua, ci fa capire Derrida - non è che una protesi che
supplisce una mancanza d'origine. Ma questa protesi di lingua rappresenta anche
l'apertura - e la vicinanza - della metropoli. Ecco allora come il motivo tipico della
decostruzione, la critica dell'origine, diventa centrale nel discorso di Derrida sulla
lingua. Altro modo per dire che il livello di attenzione di Derrida per una politica della
lingua svincolata da una filosofia dell'origine è sempre stato elevatissimo. Dunque, il
rapporto con il francese disegna pure delle linee di tensione storica e geografica, tra
Parigi, capitale e sede del tesoro della lingua (come anche si dice), e l'Algeria, luogo
perduto del chez soi, dell'essere-presso-di-sé. La capitale assume la figura della
spettralità nelle apparenze della cosiddetta Madre-Patria, che qui si identifica in toto
con la figura del padrone (e forse bisognerebbe indirizzare l'analisi delle tesi del
Monolinguismo proprio in direzione dell'identità scambievole tra le figure materne e
quella paterne): "La metropoli, la Città-Capitale-Madre-Patria, la città della lingua
materna [É]. In quanto modello del parlare bene e dello scrivere bene, rappresentava
la lingua del padrone (credo di non avere mai, del resto, riconosciuto altro sovrano
nella mia vita)" (p. 50). Il fantasma di Parigi come metropoli è regolato dal
movimento di sostituzione, da quella protesi che prende il posto di ciò che non c'è mai
stato. Il francese è, dunque, l'Ersatz di una lingua mai posseduta. "La lingua della
Metropoli era la lingua materna, in verità il sostituto di una lingua materna (c'è mai
qualcos'altro?) come lingua dell'altro" (p. 51).
Vicenda memorabile, dunque, quella occorsa tra Derrida e il francese. In tutti i sensi
dell'espressione. Perché dove ne è andato di una memoria dell'insostituibile e del
singolare, dove ne è andato di un eredità - quella ebraica e magrebina - che ha fornito
la traccia per altre eredità - quella francese, in primis - là non si è trattato soltanto di
una stratificazione culturale e di memorie personali, ma di una vera e propria
immensa opera di traduzione filosofica e letteraria all'interno della lingua francese,
all'interno di quella monolingua dell'altro in cui Derrida si è installato con la sua
scrittura. Al centro di questa lingua, come per ogni lingua, s'inscrive fin dall'origine la
sua mancanza costitutiva, quell'enigmatica "x" che lascia aperto questo pensiero
dell'impossibile al venire dell'evento.
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Derrida, Jacques, Il monolinguismo dell'altro o la protesi d'origine
Ulteriori riferimenti:
J. Derrida, Circonfession, in J. Derrida, G. Bennington, Jacques Derrida, Paris, Seuil,
1990.
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Università degli Studi di Bari - Laboratorio di Epistemologia Informatica e Dipartimento di Scienze Filosofiche
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Derrida, Jacques, Perdonare. L'imperdonabile e l'imprescrittibile
Università degli Studi di Bari - Laboratorio di Epistemologia Informatica e Dipartimento di Scienze Filosofiche
Derrida, Jacques, Perdonare. L'imperdonabile e l'imprescrittibile.
Milano, Raffaello Cortina, a cura di Laura Odello, 2004, pp. 106, Euro 8,80, ISBN 88-
7078-940-3.
Nota di Vincenzo Cuomo
Etica,
politica,
diritto a
confronto
con Derrida
Presentazione,
Francesco
Giacomantonio
Introduzione,
Marco Enrico
Giacomelli
Derrida,
Jacques,
Genèses
généalogies
genres et le
génie. Les
secrets de
l’archive
Derrida,
Jacques, Il
monolinguismo
dell’altro o la
protesi d’origine
Derrida,
Jacques,
Perdonare.
L'imperdonabile
e
l‘imprescrittibile
Indice
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Il saggio Pardonner: l'impardonnable et l'imprescriptible, pubblicato in
Francia lo scorso anno, testo di una conferenza tenuta da Derrida in
varie parti del mondo tra il 1997 e il 1998 - a sua volta riscrittura delle
prime due sedute di un seminario su "spergiuro e perdono" tenuto
all'Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales - nonostante il tono
pacato e meditativo, del resto caratteristico dell'ultima produzione
derridiana, è dedicato al tema duro e inaggirabile del male radicale.
Tema affrontato attraverso la problematica generale del perdono, che il
pensatore francese discute decostruendo non solo il "comune senso" del
perdono ma anche gran parte della tradizione etica e religiosa
dell'Occidente (e non solo).
"Il perdono, se ce n'è - scrive Derrida - deve e può perdonare solo
l'imperdonabile" (p. 47). Questa paradossale tesi generale, più volte
ripresa nel saggio, è discussa attraverso un commento
all'Imprescriptible di Jankélévitch, testo con cui, nel 1971, quest'ultimo
interveniva in una polemica scoppiata in Francia a proposito della
prescrittibilità o meno dei crimini nazisti. Il commento, ponendo in
questione due assiomi dogmaticamente assunti da Jankélévitch nella sua
netta e dura opposizione non solo all' ipotesi di prescrittibilità di quei
crimini, ma anche a quella della perdonabilità degli stessi, attraversa le
aporie di quel che potremmo chiamare l'economia del perdono e della
riconciliazione.
Due assiomi "poco evidenti" sono alla base dello scritto di Jankélévitch
così come della comune concezione del perdono. Secondo il primo è
possibile accordare il perdono solo a chi lo ha chiesto, lo ha domandato,
e che si è posto, in tal modo, in un atteggiamento espiatorio. In base al
secondo assioma, inoltre, non è possibile perdonare qualcuno per crimini
"mostruosi" che, come quelli nazisti, sembrano eccedere i limiti stessi
dell'umano. Si tratta, commenta subito Derrida, di assiomi poco evidenti.
Infatti, nei confronti del primo è possibile affermare che, al contrario, nel
senso stesso del perdono c'è un appello che esige "che il perdono sia

Derrida, Jacques, Perdonare. L'imperdonabile e l'imprescrittibile
Derrida,
Jacques, Sulla
parola.
Istantanee
filosofiche
Derrida,
Jacques, Forza
di legge. Il
«Fondamento
mistico
dell'autorità»
Derrida,
Jacques, Il
sogno di
Benjamin
Derrida,
Jacques, Il
diritto alla
filosofia dal
punto di vista
cosmopolitico
Derrida,
Jacques -
Roudinesco,
Élisabeth,
Quale domani?
Hélène, Cixous
- Derrida,
Jacques, Veli
Resta, Caterina,
L’evento
dell’Altro. Etica
e politica in
Jacques Derrida
Tarter, Sandro,
Evento e
ospitalità.
Lévinas,
Derrida e la
questione
straniera
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accordato, se può esserlo, perfino a qualcuno che non me lo
domanda" (p. 42) e quindi "al di là [...] di ogni economia
identificatoria" (ivi) e calcolante che soppeserebbe il perdono rispetto al
grado di espiazione della colpa - economia corrente che, sottolinea
Derrida, "domina la semantica religiosa, giuridica, addirittura politica e
psicologica del perdono" (p. 44). Il perdono, infatti, trova la sua
possibilità solo quando è chiamato a fare l'impossibile e a perdonare
l'imperdonabile. Anche di fronte al male assoluto della Shoah? O forse la
singolarità di questo crimine assoluto, come pensa Jankélévitch, ha
posto fine alla storia del perdono, facendo irrompere nella storia
l'imperdonabile, l'irriconciliabile? Questo crimine che appare oltrepassare
i limiti dell'umano (e quindi dell'umanamente perdonabile) sarebbe forse
perdonabile solo da Dio? Si tratta, come si vede, del secondo assioma
del discorso di Jankélévitch, secondo il quale il perdono, se c'è, deve
restare nei limiti dell'umano. Derrida ribalta anche su questo punto la
prospettiva. Se è concepibile solo a partire dall'imperdonabile, il perdono
mette in questione i limiti stessi dell'umano e la dogmatica separazione
ontologica con l'animalità da un lato e il divino dall'altro. Se c'è, quindi, il
perdono è concepibile solo a partire dall'imperdonabile. Solo a partire
dalla sua impossibilità.
Per argomentare e chiarificare questa tesi, Derrida cerca di rispondere
ad alcune questioni essenziali che potremmo per comodità così elencare:
a) quale rapporto intercorre tra l'irreparabilità della colpa e il perdono;
b) è concepibile un perdono al posto della vittima?
c) qual è la relazione che intercorre tra perdono e spergiuro?
d) qual è quella che intercorre tra dono e perdono?
Rispondendo alla prima questione, Derrida pone innanzitutto molta cura
a separare la questione etica del perdono da quella giuridica della
riabilitazione sociale del reo attraverso l'espiazione della colpa. Il
perdono "è estraneo a tutto lo spazio giuridico, perfino a quello -
sottolinea Derrida - in cui apparve, dopo la guerra, il concetto di crimine
contro l'umanità" (p. 33). Se per quest'ultima tipologia di crimini è stata
giustamente sancita l'imprescrittibilità, "l'imprescrittibile non è l'imperdonabile"
(ivi). Tuttavia, il perdono non può eliminare la colpa, non
può fare sì che la colpa non sia-stata. Anzi, sembra dirci Derrida, è
proprio l'irriducibilità e l'irreparabilità della colpa che fonda la possibilità
del perdono. "Non si potrà mai trattare del perdono se non si tiene conto
di questo essere-passato, di un essere-passato che non si lascia mai
ridurre, modificare" (p. 51). Il perdono non ha niente a che fare con il
cattivo oblìo prodotto da un lavoro del lutto che crede di poter
dimenticare definitivamente il male e le vittime. Non ha a che fare con
l'oblìo né della colpa né delle vittime. Ha a che fare, piuttosto, con un
irreparabile. E con la singolarità di un misfatto, di un misfatto fatto da
qualcuno a qualcun altro, da un responsabile a una vittima.
Il perdono, quindi, non rientra in alcuna economia di riconciliazione che
chiuda i tempi, che elimini il passato in una perfetta autotrasparenza del
presente, "nuovo inizio" o "fine" che esso sia.

Derrida, Jacques, Perdonare. L'imperdonabile e l'imprescrittibile
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Chi può perdonare chi? È questa un'altra delicata questione. é forse il
perdono possibile solo in un "faccia a faccia" tra il responsabile e la sua
vittima? Forse solo quest'ultima può perdonare? Ma se il misfatto ha
avuto come conseguenza la morte della vittima - ed è a questo livello di
radicalità che il discorso si sta facendo, con un costante riferimento alla
Shoah - se la vittima non è più vivente, è possibile perdonare in suo
nome? Dietro questa domanda c'è la questione, molto discussa, della
liceità etica di un perdono richiesto collettivamente "in nome di una
comunità, di una Chiesa, di un'istituzione, di una corporazione, a un
insieme di vittime anonime, talvolta morte, o ai loro rappresentanti,
discendenti o sopravvissuti" (p. 32). Il perdono sembrerebbe possibile
solo in un "faccia a faccia" tra responsabile e vittima. Tuttavia, Derrida
pone in evidenza l'aporia in cui questa concezione si dibatte. Nel
chiedere perdono o nel concederlo - e abbiamo visto come l'una cosa
non abbia alcuna relazione di dipendenza con l'altra - il faccia a faccia è
paradossalmente permesso da un "terzo" che l'interrompe o, per dirla in
modo simmetrico, è interrotto da un "terzo" che lo rende possibile.
Questo terzo è il desiderio e la promessa di giustizia, è il "giuramento" di
essere giusti con l'altro. In questa promessa di corresponsione di
giustizia, in questa promessa di riconciliazione con l'altro secondo ius,
secondo un diritto che, per quanto infinitamente perfezionabile, non
potrà mai rendere giustizia alla singolarità dell'altro, vi è già iscritto, a
ben guardare, uno spergiuro.
Ciò ci fa giungere alla terza delle domande che attraversano il testo
derridiano: "Vi è spergiuro non appena nel faccia a faccia c'è il più di
due, non appena sorge la questione della giustizia e del diritto. Vale a
dire [...] non appena vi è diritto e tre. Vi sono almeno tre fin dall'alba del
faccia a faccia, fin dal primo sguardo che si vede guardare. Il faccia a
faccia è interrotto e insieme reso possibile dal terzo. Allora, è la giustizia
stessa che mi fa spergiurare e mi precipita nella scena del perdono" (p.
104). È questa un'ulteriore aporia del perdono. Se la mia richiesta o la
mia accettazione del perdono trova la sua origine nel desiderio e nella
promessa di giustizia (che è anche sempre desiderio di riconciliazione
con la singolarità dellÔaltro), nel momento in cui sono giusto con l'altro
compio uno spergiuro, non mantengo la promessa che ho dato e devo,
perciò, domandare perdono per il fatto di essere stato giusto: "Tradisco
sempre qualcuno per essere giusto; tradisco sempre l'uno per l'altro,
spergiuro come respiro. Ed è senza fine, poiché non soltanto domando
sempre perdono per uno spergiuro, ma rischio sempre di spergiurare
perdonando, di tradire qualcun altro perdonando, poiché si è votati a
perdonare sempre (impropriamente, dunque) nel nome dell'altro" (p.
105). Se interpretiamo bene, secondo Derrida, nel desiderio di giustizia e
nella sua promessa di riconciliazione, è già da sempre iscritto il
tradimento dell'altro perché è sempre ingiusto essere giusti con l'altro
"nel nome di un altro", vale a dire nel nome di un terzo, di uno ius che
può rendere giustizia solo mancandola. Dobbiamo, quindi, sempre
chiedere perdono per il fatto di aver "spergiurato" perdonando? È forse,
allora, il perdono impossibile? Non c'è perdono? Non è possibile il
perdono? O, forse, è possibile solo quando appare impossibile, cioè
quando non è più in gioco alcuna idea di riconciliazione intesa come oblìo
del male compiuto, come compiuta elaborazione del lutto? Il perdono, se
c'è, ripete Derrida deve e può perdonare solo l'imperdonabile. Solo
quando è impossibile c'è perdono. Ma che cosa significa fare
l'impossibile? Derrida avverte qui la difficoltà di pensare questo "fare
l'impossibile", sottolineando che bisognerebbe ripensare la nozione di

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"potere" nell'intera tradizione occidentale e, con essa, la nozione dell'ioposso
come fondamento dell'ipseità. Infine, come far sì che l'atto di un
perdono dell'imperdonabile non divenga un atto di sovranità di un io che,
affermando la propria superiorità morale sull'altro, finisca per
signoreggiarlo, finisca per fargli contrarre un inestinguibile debito di
riconoscenza? La paradossale problematica del perdono incontra qui
l'aporetica del dono, già studiata da Derrida in altri scritti e, in
particolare in Donner le temps (1991).
Come il dono che impone un debito, che potrebbe essere estinto solo
attraverso un contro-dono equivalente, è un falso dono che si confonde
con il calcolo dell'interesse e lo scambio tra equivalenti - a meno che non
si risponda al dono con un contro-dono di valore superiore, in una gara
al dispendio di ricchezze che è sempre di nuovo una gara per
assoggettare l'altro, una gara di sovranità, per così dire - così il perdono
potrebbe corrompersi col calcolo, quando è concesso solo a patto che
l'altro confessi e cominci a riscattarsi, oppure col desiderio di sovranità,
quando è concesso come un dono che l'altro non potrà mai ricambiare.
Come si vede, tra dono e perdono c'è stretta correlazione. Bisognerà
sempre farsi perdonare per il dono fatto, ma anche per lo stesso perdono
concesso come dono eccessivo. "Dunque - scrive Derrida - non c'è dono
senza perdono, e non c'è perdono senza dono, ma, soprattutto, l'uno e
l'altro non sono la stessa cosa" (p. 25). C'è un'asimmetria fra le due
nozioni che Derrida solo alla fine del suo testo cerca di chiarire, ma
ancora sotto forma di questione aperta: "Ci si deve domandare,
rompendo la simmetria o l'analogia tra dono e perdono, se l'urgenza del
perdono im-possibile non sia proprio ciò che l'esperienza di
sopportazione, e non cosciente, dell'im-possibile dà da farsi perdonare,
come se il perdono, lungi dall'essere una modificazione o una
complicazione secondaria o sopraggiunta del dono, ne fosse in verità la
verità prima e ultima. Il perdono come l'impossibile verità
dell'impossibile dono. Prima del dono il perdono" (p. 100). Che cosa vuol
dire Derrida? Per tentare di chiarirlo vale la pena citare il passo che,
come una notazione marginale di una ricerca da farsi, segue quello
appena citato. Derrida scrive: "Avrete compreso come questo discorso
sarebbe anche una riflessione sul possibile e sull'im - che viene incontro
a lui, a un impossibile che non è né negativo, né non negativo, né
dialettico" (p. 101). L'im-possibile non è il non-possibile, né un altro
possibile, né, infine, l'antitesi dialettico-negativa del possibile. é forse la
stessa possibilità del perdono che è impossibile? Forse l'im-possibilità del
perdono non si de-cide, non può de-cidersi dalla sua stessa possibilità? E
che la sua possibilità appare solo nella sua im-possibilità? Quindi, solo
quando non è possibile perdonare c'è perdono. Non è la riconciliazione -
sempre illusoria e ingiusta - che attesta che il perdono è avvenuto ma,
paradossalmente, solo la condivisione dell'impossibilità del perdono. In
questa condivisione di un'impossibilità - come opportunamente scrive
Laura Odello nella sua bella introduzione all'edizione italiana - "il
perdono dice (ma senza dire, senza poter dire) un segreto di cui siamo
responsabili. Il segreto senza segreto è questa interruzione con l'altro,
questa 'cripta senza profondità' che non vuol dire niente" (p. 12). Forse
perdonare ha a che fare con l'ospitalità data al nemico, ha a che fare con
una promessa che è sempre anche spergiuro, con una possibilità che è
anche un'impossibilità, con la condivisione di un segreto che mai ci si
svelerà.
Il discorso di Derrida è, tuttavia, percorso, l'abbiamo notato sin

Derrida, Jacques, Perdonare. L'imperdonabile e l'imprescrittibile
dall'inizio, da una domanda che più volte affiora nel testo e che,
probabilmente, lo assillava: la domanda sul male assoluto.
E la risposta, che assume nel testo di Derrida la forma della risposta
"obliqua", è che, se il perdono è concepibile solo là dove c'è
l'imperdonabile, allora esso dovrebbe essere possibile solo rispetto al
male assoluto. Certo, non nella forma dell'oblìo o della riconciliazione. Il
male assoluto non è redimibile, non è espiabile. Deve restare tale,
avvenuto. Non c'è alcun segreto nella sua evidenza di male. Il segreto
potremmo, forse, dire è nel cuore degli uomini non nel male che essi
fanno, pur sapendo che in tale cuore, in tale cripta, come ricordavamo
prima, non c'è nulla. Il segreto, allora, è in questa incolmabile frattura
dell'essere che passa non solo tra noi e l'altro ma anche dentro di noi e
dentro l'altro. In tale prospettiva il male deriverà sempre dal terrore di
fronte a tale frattura e dal tentativo di colmarla, di suturarla. E il bene, o
forse dovremmo dire il perdono, consisterà sempre nella condivisione
dell'impossibilità di fare comunità con l'altro, nella confessione di questo
segreto inconfessabile, nel suo dono incondizionato.
Indice
Premessa di Laura Odello
Perdonare
L'imperdonabile e l'imprescrittibile
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Derrida, Jacques, Sulla parola. Istantanee filosofiche
Università degli Studi di Bari - Laboratorio di Epistemologia Informatica e Dipartimento di Scienze Filosofiche
Derrida, Jacques, Sulla parola. Istantanee filosofiche.
Roma, Edizioni Nottetempo, 2004, pp. 166, Euro 13,00, ISBN 88-7452-030-1.
[Ed. or. : Sur parole. Instantanés philosophiques, Èditions de l'Aube, 2002]
Recensione di Salvatore Stefanelli
Etica,
politica,
diritto a
confronto
con Derrida
Presentazione:
Etica e politica a
confronto con
Derrida, Francesco
Giacomantonio
Introduzione,
Marco Enrico
Giacomelli
Derrida, Jacques,
Genèses
généalogies
genres et le
génie. Les
secrets de
l’archive
Derrida, Jacques,
Il monolinguismo
dell’altro o la
protesi d’origine
Derrida, Jacques,
Perdonare.
L'imperdonabile e
l‘imprescrittibile
Indice - Link
Per chi avesse una conoscenza del filosofo sol perché è (o siamo) à la page, perché ha
"decostruito" (con nostro sottile piacere) in modo radicale il sistema di pensiero
occidentale, perché è riconoscibile (guarda, è uno dei nostri) per una certa tendenza
politica o per altre precarie categorie, sarebbe il caso di ascoltarne la parola, se non
tramite le interviste radiofoniche reperibili su France culture, almeno in queste
trascrizioni di quelle interviste raccolte fra gli anni 1997 e 1999. Perché, vi chiederete,
iniziare una vera conoscenza da qui invece che affrontare un'opera basilare del
filosofo? La risposta è semplice e dobbiamo esserne grati a Derrida che, pur dubbioso
che valesse la pena di "improvvisare simili discorsi in pubblico", invece di farli cadere
nell'oblio o nel silenzio ha preferito, mettendo ancora in atto con significato diacronico
la differance, farci pervenire con parole rivelatrici della sua personalità, la
testimonianza del fatto compiuto, dell'attimo in cui "l'istantanea è stata scattata, ti ha
colto, come in fotografia, e ti espone all'altro - se non nella verità, almeno in un corpo
di sintomi."(p. 9)
Il testo si avvia con una serie iniziale di domande e risposte concernenti la biografia di
Derrida a partire dalla natia Algeria con tutte le peripezie provocate dalla sua
discendenza da una famiglia ebraica sefardita nel contesto della petainizzazione dei
territori d'oltremare dove le istituzioni francesi applicavano con maggior severità
l'ideologia nazista al punto di apparire "incomprensibile a molti ebrei algerini, tanto più
che non vi erano tedeschi."(p. 20). Derrida confessa di non essere riuscito mai a
"ritrovare cosa sia potuto accadere in me da quel momento" allorché il giorno del
rientro al liceo gli fu ingiunto: "Torna a casa, i tuoi genitori ti spiegheranno".
Comunque a casa del giovane nessuno aveva una spiegazione da fornire. Inizia così
nel periodo della fine della guerra un buttarsi alla riconquista di amicizie fra i
compagni non ebrei e nel contempo "di rompere con l'impulso gregario che si era
costituito per rispondere all'aggressione e al trauma."(p. 22) In queste esperienze si
possono ravvisare delle chiavi di lettura del pensiero derridiano: da un lato, il
desiderio di ritiro nei confronti di ogni comunità, anzi di ogni 'nazionalità', una
diffidenza nata da un fatto contingente ma che con il passare degli anni è diventata
giustificazione di un etica più generale; dall'altro lato, quell'appartarsi, quel giovanile
desiderio di solitudine si è trasformato nelle ultime opere in una insistente
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Derrida, Jacques, Sulla parola. Istantanee filosofiche
Derrida, Jacques,
Sulla parola.
Istantanee
filosofiche
Derrida, Jacques,
Forza di legge. Il
«Fondamento
mistico
dell'autorità»
Derrida, Jacques,
Il sogno di
Benjamin
Derrida, Jacques,
Il diritto alla
filosofia dal
punto di vista
cosmopolitico
Derrida, Jacques
- Roudinesco,
Élisabeth, Quale
domani?
Hélène, Cixous -
Derrida, Jacques,
Veli
Resta, Caterina,
L’evento
dell’Altro. Etica e
politica in
Jacques Derrida
Tarter, Sandro,
Evento e
ospitalità.
Lévinas, Derrida
e la questione
straniera
affermazione dell'importanza del marginale, dell'altro, del tout autre che viene
esaltato nel suo significato più pieno in Donare la morte. Tuttavia nell'immediato la
risposta del ragazzo Derrida alle difficoltà di comunicazione con familiari e coetanei si
concretizzò nel tenere un diario che raccoglieva "confidenze autobiografiche, ma
anche fin da allora abbozzi di brevi dissertazioni su Rousseau e Nietzsche."(p. 25)
Recita l'adagio che il miglior tirocinio di uno scrittore sia un'infanzia infelice. Proprio a
partire dalla presa di coscienza di non essere ascoltato dalla sua famiglia, Derrida
mette in atto "una forma di resistenza, di ritiro" e inizia così la sua parabola di
écrivain-philosophe ricorrendo alla pratica diaristica, a quel particolare esercizio di
scrittura che potrebbe apparire abbastanza scontato e senza finalità speculative,
eppure, esso deve aver fornito una forza significativa, seppure sotterranea, alle future
ricerche del filosofo sulla problematica della scrittura, sulla ricerca di un
"compromesso tra la voglia di scrivere letteratura, di pensare filosoficamente ciò che
sono la letteratura e la scrittura letteraria, e di fare le due cose insieme."(p. 27) Il
rimpianto, confessato all'intervistatrice Catherine Paoletti, di non aver potuto scrivere
un "diario totale" ci fa capire come questo strumento potesse registrare l'eterno
movimento sé/altro tenendo presente che ancor di più che una opera letteraria il
diario si basa sull'idea che il destinatario, se stesso/l'altro, comunque è vicino e che
quella scrittura aiuta a costruire una relazione, senz'altro differita, ma tuttavia reale
con l'altro. Un esempio dell'utilizzo di questo strumento di scrittura lo ritroviamo nel
diario-saggio Un baco da seta. Punti di vista trapunti sull'altro velo, in cui il viaggio
verso l'America del Sud con Hélène Cixous è l'occasione per Derrida di svolgere una
vertiginosa ricognizione che parte dal gioco linguistico, tra le voile (il velo) e la voile
(la vela), per spaziare attraverso alcuni dei luoghi mentali e culturali più profondi
dell'identità occidentale. Questo testo pubblicato originalmente nella rivista
Contretemps unitamente ad un racconto poetico della Cixous, dal titolo Sapere, è
l'occasione per creare un ordito tra le scritture dei due amici che tramite la loro
relazione personale e intellettuale si spingono alla ricerca di una verità, o meglio di un
'verdetto'. Con estrema eleganza di linguaggio e di immagini, la scrittura di Derrida
diventa una mimesis del lavoro femminile della tessitura e crea un ricco ordito
simbolico in cui spicca, da un lato, la dialettica tra cultura: l'intreccio di fili e natura:
la capacità del baco da seta di produrre il filo e il bozzolo che ospiterà la 'véraison', la
maturazione che trasformerà il baco in farfalla; dall'altro lato, si re-incontra il tema
della differenza sessuale che, come precisa Derrida, ha attraversato tutti i suoi testi e
in nome della quale "a essere in questione nella decostruzione è una certa autorità
maschile" (p. 37), a cominciare dall'attacco non tanto velato a Heidegger, chiedendosi
perché "parla il meno possibile del sesso [...]"(Derrida, La mano di Heidegger, Bari,
1991, p. 3), e alla sua ontologia, insistendo sulla necessità che "La differenza sessuale
rimane da pensare [...] Heidegger non ha mai elaborato questa ontologia della
vita."(Ibidem, p. 23 e 25)
Prima di passare ai temi filosofici cui si fa riferimento in queste interviste, vorrei
soffermarmi su di un altro aspetto dell'adolescenza di Derrida che potrebbe sembrare
secondario, ma non lo è affatto, rispetto alla sua futura fama di pensatore. Una delle
attività sportive preferite dal giovane era il calcio e questa passione "risale a quegli
anni in cui - confessa Derrida - andare a scuola significava partire con le scarpe da
calcio nella cartella."(p. 22), a riprova di ciò fa fede una intervista, concessa quando
ormai sessantenne era universalmente conosciuto e apprezzato dai colti e non, nella
quale candidamente riconosce che il suo sogno è rimasto sempre quello della sua
adolescenza: "diventare calciatore professionista". Perché trovo importante questo
accostamento? La risposta è semplice: mentre risulta difficile immaginarsi l'amabile
Derrida in maglietta colorata portante il numero '7' e il nome 'Derrida' sul dorso
quando mette in difficoltà una difesa avversaria, al contrario si prova un sottile piacere
a vederlo da filosofo sviluppare come un'ala pungente un'azione di disturbo fra la
retroguardia avversaria mentre gioca a suo modo la più bella partita. Se è vero come
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è vero che in campo i migliori giocatori sono quelli mossi da passione e intelletto,
altrettanto vale per i filosofi: essere parte integrante del gioco. Per capire come
Derrida abbia inteso giocare la sua partita basta rifarsi al "Cambridge Affair" del 1992
scaturito dal conferimento al filosofo di una laurea honoris causa da parte della
Cambridge University. Contro chi lo accusava (e c'erano nomi del calibro di un Quine
in quella famigerata lettera di protesta) di atteggiarsi a filosofo -Derrida describes
himself as a philosopher...but the influence [of his writings] has been to a striking
degree almost entirely outside philosophy. . . - (cfr. Barry Smith et al., Letter, The
Times (London), 9 May 1992), Derrida rispose in un'intervista a The Cambridge
Review: "dato che per oltre trent'anni il mio lavoro si ... costantemente riferito ad
autori come Platone, Aristotele, Cartesio, Kant, Hegel, Nietzsche, Husserl, Heidegger
(più o meno secondo i canoni), devono essere ricercati altrove i motivi per i quali
alcuni negano che il mio lavoro sia "filosofia". Capita spesso a tali inquisitori di
confondere per filosofia ciò che a loro è stato insegnato, cioè semplicemente di
riprodurre secondo la tradizione e lo stile di una particolare istituzione, sentendosi più
o meno protetti - anzi sempre meno protetti - in un certo ambiente sociale e
professionale" (traduzione modificata di una citazione riportata in D. Golumbra, Quine,
Derrida, and the Question of Philosophy, in The Philosophical Forum, 3, 1999, p. 166).
Questa sferzante risposta contro i rappresentanti di quelle che Schopenhauer definiva
le "filosofie dell'università" ci mostra di che stoffa fosse il "giocatore" Derrida che non
solo ha battuto tutti con il suo gioco ma è stato capace anche di immaginare e imporre
un nuovo gioco sfruttando uno stile filosofico che si presenta come "sporgenza che si
lancia avanti e spezza l'attacco sino ad aprire in due la superficie avversaria" (Derrida
La mano di Heidegger, cit., p. 42). E inoltre: "con maggior violenza, attraverso un
brio eccitato, slogare l'unità verbale, l'integrità della voce, frangere o effrangere la
superficie 'calma' delle parole, sottoponendo il loro corpo a una cerimonia ginnastica
[...]... (Derrida, Posizioni, Verona, 1975, p. 141).
Passando ai contenuti filosofici riguardanti varie questioni tra le quali l'ospitalità, la
giustizia e il perdono sono state oggetto degli ultimi seminari, c'è da notare la
preoccupazione palesata da Derrida sui paradossi, sulle aporie possibile/impossibile
che caratterizzano questi temi. Egli afferma che la condizione della loro possibilità è, al
contempo, la condizione della loro impossibilità.
Riguardo all'ospitalità, per poterne capire l'atteggiamento del filosofo vorrei ancora
una volta indicare un collegamento, questa volta anche visivo, alle origini dell'uomo
Derrida. In un documentario, dal titolo D'ailleurs Derrida, girato nel 1999 si vede il
filosofo ripreso nel suo luogo natale, El Biar, in Algeria. L'inquadratura isola Derrida
sullo sfondo di un paesaggio desertico mentre ci parla della condizione d'ailleurs (= da
altra parte, da altrove) come alterità biografica e come alterità intrinseca della
filosofia. Ecco, di nuovo, che la discendenza familiare connota ancora una volta il
pensiero derridiano: il pensiero dell'alterità inappropriabile che può far pensare ad una
politica (democrazia a venire) e ad una qualsiasi forma di relazione etica. Chi meglio
di Derrida poteva sentire la non appartenenza ad alcun luogo, egli è stato un fl‰ner
che ha percorso i confini della conoscenza. L'essenza della estraneità è stata
individuata dal filosofo nella questione della lingua, perché "la lingua è un corpo, [allo
straniero] non gli si può chiedere di rinunciarvi.."(p. 88) Chi è uno straniero? che
significa dire che Derrida è stato considerato dagli accademici alla stregua di uno
straniero? La risposta è reperibile nell'Apologia di Socrate così come ci viene indicato
dallo stesso Derrida in Sull'ospitalità. Socrate, altro 'straniero' in patria per il suo
essere "l'uomo sconcertante della domanda", nel momento supremo davanti ai giudici
e ai concittadini dichiara di sentirsi come uno 'straniero' dinanzi al linguaggio della
corte, al linguaggio della legge e alla sua retorica. Lo straniero è, dunque,
innanzitutto straniero dinanzi al linguaggio in cui sono formulate le norme del diritto di
asilo, del dovere di accoglienza. Egli deve chiedere ospitalità in una lingua che per
definizione non è la sua perché gli è stata imposta dal padrone di casa, dalle autorità
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statali e questo per lo straniero, proprio nel momento di sua maggior apertura verso
il padrone di casa, rappresenta il primo atto di violenza.
L'ospitalità "che è tutto tranne che facile e serena"(p. 81), per Derrida si differenzia da
un pensiero di 'buoni sentimenti', di 'buone maniere' perché una genuina, assoluta
ospitalità verso un qualsiasi numero di altri sconosciuti non è uno scenario dalle grandi
possibilità. Pur tuttavia l'idea di ospitalità, tenendo presente il pensiero di Lévinas,
comporta una condicio sine qua non che è innanzitutto l'apertura all'alterità dell'altro,
accogliere l'altro che viene, farsi abitare dall'altro custodendolo e rispondendone,
creando un rapporto ospite-ostaggio in modo da ri-fondare e ri-formulare l'etica tutta
e far sì che "si accordi a questa situazione e resista a tutte le violenze"(p. 82).
L'ospitalità è possibile perché le nostre ben intenzionate concezioni di ospitalità si
fondano sulla raffigurazione dell'alterità degli altri come profughi, stranieri, rifugiati.
Basti pensare ai problemi di controllo dei confini statali o, in piccolo, alla protezione
del confine di casa con grate e sistemi di allarme per capire come l'ospitalità voglia dei
confini per essere praticata. Tuttavia, l'ospitalità non consiste in un semplice
comportamento doveroso ma in qualcosa di molto più importante, di
incommensurabile, in altre parole l'ospitalità "non si riduce all'accoglienza dello
straniero presso di sé, nella propria casa, nella propria nazione"(p. 80), occorre
l'ospitalità impossibile, assoluta, illimitata che offre dimora all'altro assoluto senza
bisogno di reciprocità, "secondo la legge dell'ospitalità assoluta [che] impone di
rompere con l'ospitalità di diritto" (Derrida e Dufourmantelle, Sull'ospitalità, Milano,
2000, p. 52).
Parlare di ospitalità, specie nel contesto della globalizzazione e del cosmopolitismo
vuol dire affrontare il tema anche dal punto di vista politico. Come conciliare la legge
incondizionata dell'ospitalità da una parte, e la legge condizionata, quella giuridicopolitica
dall'altra parte? Bisogna individuare uno spazio di manovra che, secondo
Derrida, è da ravvisare quale "luogo della responsabilità". Affinché la ospitalità
incondizionata si realizzi occorre che la comune nozione di responsabilità, secondo cui
una persona dovrebbe comportarsi in base ad un principio generale che secondo
ragione sia convalidato e giustificato nel pubblico dominio, occorre - consiglia Derrida
in Donare la morte - che questa concezione venga sostituita da qualcosa che ci ponga
sullo stesso piano di Abramo, nel momento della richiesta più estrema fattagli da Dio,
in modo che le richieste dell'altro siano nettamente distinte dalle istanze etiche della
società in cui viviamo. Per questo non si deve confondere il problema dell'ospitalità
con questioni di ordine normativo: l'ospitalità e il controllo dei flussi migratori "non è
la stessa dimensione, sebbene le due cose siano inseparabili" (p. 86). Qui siamo di
fronte allo stesso problema di eterogeneità ed indissociabilità fra la giustizia
irriducibile al diritto e il diritto necessario alla giustizia perché diventi concreta ed
effettiva. La giusta decisione va individuata in un'etica che si collochi tra la legge
incondizionata, quando si tratta di dare regole al rispetto e al dono assoluti, e quella
giuridico-politica quando si deve regolamentare lo scambio, la proporzione e
quant'altro.
Altro tema di estrema difficoltà è quello del perdono e precisamente nel caso di
problemi di impunità e dell'atteggiamento della società nei confronti del crimine in
generale e di quello contro l'umanità in particolare. Derrida sottolinea che il perdono è
possibile solo in presenza dell'imperdonabile: "la difficoltà del perdono, ciò che fa sì
che il perdono appaia impossibile, è il fatto che si deve rivolgere a ciò che resta
imperdonabile" (p. 159). L'incondizionato perdono non esige la necessità di
confessione o pentimento da parte del colpevole, pur se questo tipo di perdono deve
sempre esistere in tensione col perdono concesso solo dopo una sua esplicita
richiesta, ma in tal caso si tratterà di assoluzione, di amnistia. Il paradosso del
perdono dipende dal fatto che il perdono assoluto è una "esperienza del faccia a
faccia, dell'io e del tu" mentre il perdono condizionato richiede la rottura della diade sé/
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Derrida, Jacques, Sulla parola. Istantanee filosofiche
altro o per intervento di un terzo o perché vi è un riconoscimento dei modi in cui noi
siamo sempre gia interconnessi con l'altro. Infatti, sol perché percepiamo nel pur
minimo modo le motivazioni dell'altro, il perdono assoluto non può più aver luogo. Di
fronte a questo "precario" tendere dei fili di un perdono eventualmente possibile e di
un perdono impossibile, non possiamo che convenire con le parole di Derrida: "se vi è
perdono, esso deve essere segreto, riservato, improbabile e dunque fragile" (p. 166).
Infatti il perdono non può mai dirsi finito o concluso, esso non appartiene a pieno
diritto né al campo pubblico, né a quello giuridico e tanto meno all'etica. Il perdono è
qualcosa che deve rimanere sempre aperto, come una lesione permanente o una
ferita che non vuole guarire e che richiede personale cura e attenzione, "d'où l'enjeu
et la gravité de son secret."
Vorrei concludere, notando che, al di là delle incomprensioni e dei travisamenti - per
non dire tradimenti - di cui è stata oggetto la "decostruzione" applicata come un
metodo e il "decostruzionismo" inteso come una teoria, l'insegnamento di Derrida
oltre che innescare - rectius: innanzitutto individuare tramite "spie testuali" -
meccanismi entropici già presenti nei testi della tradizione filosofica e letteraria, ha
saputo presentarci temi quali il perdono, la giustizia, l'ospitalità, la menzogna non
secondo le stereotipate definizioni del logocentrismo, bensì rinnovandoli e
aggiungendovi un qualcosa che, pur di fronte alla inestricabile connessione di
possibilità e impossibilità, ci spinge a cercare l'autentica ospitalità, l'autentico perdono
anche - e sopratutto - là dove questi concetti sembrano più inafferrabili e difficili da
realizzare.
Indice
Avvertenza
Nota dei curatori
A voce nuda
Sull'ospitalità
Sulla fenomenologia
Sulla menzogna in politica
Sul marxismo. Dialogo con Daniel Bensaïd
Giustizia e perdono
Link
www.radiofrance.fr/chaines/france-culture2/dossiers/2004/derrida/index.php
www.lib.uci.edu/libraries/collections/special/crittheoryarchive.html
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Derrida, Jacques, Sulla parola. Istantanee filosofiche
Università degli Studi di Bari - Laboratorio di Epistemologia Informatica e Dipartimento di Scienze Filosofiche
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Derrida Jacques, Forza di legge. Il "fondamento mistico dell'autorità"
Università degli Studi di Bari - Laboratorio di Epistemologia Informatica e Dipartimento di Scienze Filosofiche
Derrida Jacques, Forza di legge. Il "fondamento mistico dell'autorità"
A cura di Francesco Garritano, trad. it. di Angela Di Natale
Torino, Bollati Boringhieri (coll. Temi, 127), 2003, pp. 143, Euro 14,00, ISBN 88-339-
1443-7
[Ed. or.: Force de loi. Le «Fondement mystique de l'autorité», éditions Galilée, Paris 1994]
Recensione di Maurizio di Gennaro - 17/04/2005
Etica,
politica,
diritto a
confronto
con Derrida
Presentazione,
Francesco
Giacomantonio
Introduzione,
Marco Enrico
Giacomelli
Derrida,
Jacques,
Genèses
généalogies
genres et le
génie. Les
secrets de
l’archive
Derrida,
Jacques, Il
monolinguismo
dell’altro o la
protesi d’origine
Derrida,
Jacques,
Perdonare.
L'imperdonabile
e
l‘imprescrittibile
Indice
Decostruire (la relazione fra) diritto e giustizia?
C'è un collegamento fra la decostruzione e la possibilità della giustizia? La
decostruzione rende possibile un qualche discorso sensato sulla giustizia o, quanto
meno, sulle condizioni di possibilità della giustizia? E riguardo al diritto, alla legge, dove
può condurci la pratica decostruttiva?
Jacques Derrida ha avviato il modellamento di alcuni percorsi argomentativi
concernenti la relazione fra decostruzione, diritto e giustizia, in occasione dell'apertura
di un convegno organizzato presso la 'Cardozo Yeshiva Law School' di New York
nell'ottobre del 1989. In tale occasione l'Autore, oltre a leggere la dissertazione su
Decostruction and the Possibility of Justice, distribuì ai partecipanti anche un testo
(Nome di Benjamin), che non fu letto nel corso del convegno appena menzionato, ma
che fu poi oggetto di una relazione pubblica Ð con l'aggiunta di Prolegomeni e di un
Post-Scriptum Ð l'anno seguente (il 26 aprile 1990) in occasione dell'apertura di un
altro convegno (sul tema Nazism and the 'Final Solution': Probing the Limits of
Representation), questa volta tenutosi a Los Angeles presso l'Università di California. Il
testo di Derrida su Benjamin concerne un'analisi e un'interpretazione di quanto da
questi sostenuto sul tema della relazione fra violenza e diritto in un testo del 1921, il
cui titolo è Zur Kritik der Gewalt, pubblicato per la prima volta in 'Archiv fur
Sozialwissenschaft und Sozialpolitik' per poi essere ripreso in Gesammelte Schriften, II,
I, vol. 4, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1977 (trad. it. Per la critica della violenza, in W.
Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino
1981 3 ).
Francesco Garritano ha curato l'edizione italiana dei due scritti di Derrida, facendoli
precedere da una sua corposa e articolata Introduzione.
Secondo Derrida l'analisi decostruttiva della giustizia e del diritto (ma, soprattutto,
della loro relazione) potrebbe apparire come una traiettoria obliqua, perché "non si può
parlare direttamente della giustizia, tematizzare od oggettivare la giustizia, dire 'questo
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Derrida Jacques, Forza di legge. Il "fondamento mistico dell'autorità"
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Jacques Derrida
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Evento e
ospitalità.
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e la questione
straniera
è giusto' e ancora meno 'io sono giusto', senza tradire immediatamente la giustizia, se
non il diritto" (p. 58). Ma davvero può dirsi obliquo un discorso decostruttivo sulla
giustizia e sul diritto che immerge le sue articolazioni nel terreno dell'etimologia,
dell'analisi e della comparazione delle espressioni linguistiche, delle pratiche e degli
(ab?)usi sociali della traduzione e degli idiomi?
Derrida articola, inoltre, un dialogo con quanto sostenuto da Montaigne, da Pascal, da
Kant, da Benjamin e da Lévinas. Egli prende spunto da una traccia presente in alcune
riflessioni scritte da Montaigne (e commentate da Pascal) circa il fondamento mistico
dell'autorità e ravvisa in esse "le premesse di una filosofia critica moderna, o una critica
dell'ideologia giuridica, una desedimentazione delle sovrastrutture del diritto che
nascondono e riflettono a un tempo gli interessi economici e politici delle forze
dominanti della società" (corsivo dell'Autore, p. 62). Questa traccia ci suggerisce,
infatti, che la relazione fra diritto e forza non sia intesa solo nel senso che il diritto è al
servizio della forza, ma che sia illuminato anche quel momento fondatore e
giustificatore del diritto nel quale si coglie una violenza performativa che in sé non è né
giusta né ingiusta, in quanto nessuna giustizia, nessuna fondazione preesistente
potrebbe garantire o contraddire. In altre parole, il fondamento della legge, l'origine
dell'autorità, si basano solo su se stesse, sono una violenza senza fondamento, ma non
sono ingiuste (o, per converso, giuste), perché non vi è alcun discorso giustificativo che
possa svolgere il ruolo di metalinguaggio rispetto all'atto performativo.
Da quanto appena accennato, si può ulteriormente evincere la decostruibilità del diritto
e l'indecostruibilità della giustizia: anzi, "la decostruzione ha luogo nell'intervallo che
separa l'indecostruibilità della giustizia e la decostruibilità del diritto. Essa è possibile
come una esperienza dell'impossibile, là dove, anche se essa non esiste, anche se non
è presente, non ancora o mai, c'è la giustizia." (corsivo dell'Autore, pp. 64-65).
Nell'ulteriore svolgimento della sua linea argomentativa, Derrida ci conduce nei labirinti
spiazzanti dell'aporia, dell'esperienza dell'aporia. L'Autore ci invita ad abbandonare
l'universo (rassicurante?) dell' 'o É o É' per poi accompagnarci nel mondo polisemico
dell' 'e É e É', al fine di delineare la cartografia della relazione (im?)possibile fra
giustizia e diritto. Incontriamo così tre esempi di aporia: l'epoke della regola,
l'ossessione dell'indecidibile, l'urgenza (della giustizia) che chiude l'orizzonte del
sapere. Sono esempi che vanno 'gustati' attingendo direttamente dalla descrizione
svolta dall'Autore, senza mediazioni o sterili riassuntini.
A noi sia consentito chiedere: in questo mondo aporetico avranno mai risposte
condivise quesiti quali, per esempio, come distinguere la forza della legge, che può
essere giusta o ingiusta ma, comunque, legittima (in quanto auto-legittimatasi), dalla
violenza? Ma non solo. E se ci chiediamo cos'è una forza giusta e/o una forza non
violenta? Si può almeno concepire una forza non-violenta? Vi è uno spazio possibile per
una forza non-violenta? Forse, al decostruttore è fatto divieto chiedere di costruire: è
come infliggergli l'ennesima violenza. E, quindi, per favore, non aggiungiamo altra
violenza a quella che già trasuda in abbondanza in giro di questi tempi. A noi resta un
piccolo quesito: ma scegliere implica necessariamente produrre un atto violento? E con
esso speriamo di non sollecitare la percezione di un'ulteriore violenza.
Indice
Introduzione. "In nome della legge", di Francesco Garritano p. 7
Nota al testo p. 45
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Derrida Jacques, Forza di legge. Il "fondamento mistico dell'autorità"
FORZA DI LEGGE.
1. Dal diritto alla giustizia p. 49
2. Nome di Benjamin p. 86
Prolegomeni p. 86, Nome di Benjamin p. 93, Post-Scriptum p. 136.
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Università degli Studi di Bari - Laboratorio di Epistemologia Informatica e Dipartimento di Scienze Filosofiche
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Derrida, Jacques, Il sogno di Benjamin
Università degli Studi di Bari - Laboratorio di Epistemologia Informatica e Dipartimento di Scienze Filosofiche
Derrida, Jacques, Il sogno di Benjamin
Milano, Bompiani, trad. it. di Graziella Berto, 2003, pp. 55, Euro 5,00, ISBN 8845254402.
[Ed. or.: Fichus, Galilée, Paris 2002]
Recensione di Simone Regazzoni
Etica,
politica,
diritto a
confronto
con Derrida
Presentazione,
Francesco
Giacomantonio
Introduzione,
Marco Enrico
Giacomelli
Derrida, Jacques,
Genèses
généalogies
genres et le
génie. Les
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Derrida, Jacques,
Il monolinguismo
dell’altro o la
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Derrida, Jacques,
Perdonare.
L'imperdonabile e
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Sulla parola.
Istantanee
filosofiche
«Mi rivolgo dunque a voi nella notte come se all'inizio fosse il sogno» (p. 15), scrive
Derrida nel testo che lesse il 22 settembre 2001 a Francoforte, in occasione del
conferimento del premio Adorno, e il cui titolo originale, Fichus, riprende - ma
declinandola al plurale - la parola di un sogno confidato da Benjamin, in francese, a
Gretel Adorno in una lettera del 12 ottobre 1939 spedita dal «campo di lavoratori
volontari» della Nièvre in cui era internato, che così comincia: «Questa notte ho fatto
sulla paglia un sogno...».
Come se all'inizio fosse il sogno: così Derrida si rivolse, allora, nella notte, a chi
ascoltava, e si rivolge a chi legge, ora; quasi che il logos, in principio, l'arconte e
sovrano logos, quel logos che determina, per Aristotele, il più di politicità del vivente
umano, venisse a dissimulare e precludere, a rinchiudere e internare nel sonno della
sua ragione gli spettri di un sogno cui occorre prestare, sull'instabile frontiera che il
sonno dalla veglia separa, nuovamente ascolto, aprendo così il pensiero a una
vigilanza più vigile della veglia stessa, in quanto capace di vegliare sul sogno ed
esposta senza potere a ciò che il sogno dà da pensare - l'impossibile, per la filosofia.
Nel caso del sogno di Benjamin, cui Derrida dichiara di affidare la funzione di esergo
per il suo testo, e dunque la parola ancor prima di prendere, a suo nome, la parola, si
tratta di uno di quei sogni «ricamati attorno al motivo del 'leggere'», parola
quest'ultima che Benjamin, fa notare Derrida, mette tra virgolette nella sua lettera,
proprio come la parola «scrittura»; Benjamin sogna, infatti, una stoffa ricoperta di
immagine e lettere, tra cui riesce a distinguere e «leggere» la sola lettera d, sogna un
fichu («sciarpa», «foulard»; ma anche, come aggettivo, «spacciato», «andato»,
«condannato», «fottuto») da trasformare in poesia, un lenzuolo disegnato con
immagini simili a quelle che gli era capitato di «scrivere» anni prima.
Derrida, in primo luogo, evoca il sogno di Benjamin, soffermandosi in particolare su
una frase che, nel sogno, Benjamin avrebbe «pronunciato» in francese: Il s'agissait de
changer en fichu une poésie»; e il testo derridiano - che dal sogno di Benjamin prende
le mosse, ma non certo le distanze, nemmeno quella distanza minima che
imporrebbe, imperativo razionale della veglia e dell'io sovrano, di essere ben svegli
per poter parlare responsabilmente del sogno - è insieme lettura del sogno e sua
riscrittura, ricamo della controfirma apposta sulla stoffa onirica di un fichu di cui
l'unica lettera leggibile, nel sogno, era appunto una d: la d di Detlef, pseudonimo di
Benjamin, analizza Derrida che poi traduce: «come se Detlef lasciasse sottintendere:
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Derrida, Jacques, Il sogno di Benjamin
Derrida, Jacques,
Forza di legge. Il
«Fondamento
mistico
dell'autorità»
Derrida, Jacques,
Il sogno di
Benjamin
Derrida, Jacques,
Il diritto alla
filosofia dal
punto di vista
cosmopolitico
Derrida, Jacques
- Roudinesco,
Élisabeth, Quale
domani?
Hélène, Cixous -
Derrida, Jacques,
Veli
Resta, Caterina,
L’evento
dell’Altro. Etica e
politica in
Jacques Derrida
Tarter, Sandro,
Evento e
ospitalità.
Lévinas, Derrida
e la questione
straniera
Je suis le fichu», o meglio, dal campo di lavoratori volontari, meno di un anno prima
del suicidio, e come ogni mortale che dice io, nella sua lingua di sogno: Moi, d, je suis
fichu» (p. 37).
Chi firma il fichu? A chi attribuire la paternità di questo textus-fichu? O anche: chi si
chiama, chi si firma fichu? Una firma, ci si potrebbe domandare, non è forse da
sempre segretamente condannata a firmare fichu, destinata, com'è, e come ogni
lettera e ogni data (ad esempio 11 settembre, data di nascita di Adorno, o 15 luglio,
data di nascita di Benjamin e Derrida), a dover potersi ripetere? Di chi sono, dunque,
questo fichu e questo sogno? Saranno mai appartenuti a un io o, prima ancora,
all'ipseità - necessariamente maschile, virile - di un soggetto sovrano?
Derrida, firmatario del testo Fichus, scrive sul fichu sognando di «parlare non solo da
brigante ma poeticamente, da poeta» (p. 19), e sognando così di trasformare in
poesia il fichu», benché questo sogno sia già condannato a non realizzarsi, a non
diventare realtà effettiva: «Non sarò certamente capace di realizzare il poema che
sogno» (ivi). Accade come se Derrida accogliesse, per ripeterle, in sé, le parole del
sogno dell'altro o, meglio, si lasciasse dettare dall'altro - decidendo proprio così di
prendere, dall'altro, la parola -, dallo spettro dell'altro morto introiettato/incorporato
in sé fuori di sé: Je suis le fichu. Je suis le fichu: anche nel senso di Moi, d, je suis
fichu, "sono spacciato", "sono condannato", "sono perduto", "fottuto", poiché
l'aggettivo fichu, ricorda Derrida, ricordandosi, con le parole di Benjamin, di suo
padre, denota anche "ciò che è perduto", "condannato": «Un giorno di settembre del
1970, vedendo arrivare la morte, mio padre malato mi confidò: Je suis fichu» (p. 32).
Il poemetto onirico di Derrida è anche un poemetto funebre, un discorso in lutto,
accogliente, ospitale verso la ritornanza spettrale di quelli che non ci sono più e che
ritornano tuttavia ad assillare, alla maniera di una spettrale grammofonia, la voce di
chi parla a suo nome: il padre, Benjamin, Adorno: «Se vi rivolgo oggi un discorso così
onirofilico, lo si deve al fatto che il sogno è l'elemento che meglio accoglie il lutto,
l'ossessione, la spettralità di tutti gli spiriti e il ritorno dei fantasmi (per esempio, quei
padri d'adozione che sono stati per noi, tra gli altri e perfino nei loro dissensi, Adorno
o Benjamin, e forse Adorno e Benjamin)» (pp. 32-33). Una filiazione spettrale va in
scena in Fichu, il testo derridiano che - come ogni gesto di scrittura, ma ancor prima
come ogni gesto di parola - è già abitato dallo spettro di morte come possibilità
inscritta nella marca di ripetersi e sopravvivere, così, alla supposta presenza vivente
del firmatario. Perché ogni testo, si sa, è un testamento.
Bachelard scriveva ne La poétique de la r•verie» che essendo un duro lavoro scrivere
un libro «si ha sempre la tentazione di limitarsi a sognarlo». Nel caso di Derrida, e dei
suoi scritti irriducibili alla forma chiusa del libro, la tentazione del sogno della scrittura,
piuttosto che un limite, sembra essere la risorsa di una scrittura di sogno. Il fatto di
limitarsi a sognare di scrivere non esclude che ciò che si sogna si scriva già altrimenti,
tra le righe, e tra le righe si dia a leggere. Così Derrida confessando un sogno: «Se un
giorno scrivessi il libro che sogno per interpretare la storia, la possibilità e la grazia di
questo premio, esso richiederebbe almeno sette capitoli» (pp. 41-42); e tuttavia: «I
sette capitoli di questa storia da me sognata si scrivono già, ne sono sicuro» (p. 54).
Si ha quasi l'impressione, talvolta, a leggere Derrida, di essere avvolti nelle volute di
una scrittura intessuta della stoffa stessa dei sogni; sì, forse, a leggerlo, talvolta, si ha
l'impressione che Derrida scriva in margine a un sogno, e sul bordo di un letto in
effetti: e non soltanto quando, nel testo, come talvolta accade, Derrida racconta i suoi
sogni, trascrivendo le poche parole scarabocchiate su un taccuino posto vicino al letto,
archivio cui affida, tra il sonno e la veglia, le impressioni ancora vive di un sogno
appena interrotto. «Si sogna sempre nel proprio letto? e di notte?» (p. 8) - e la
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Derrida, Jacques, Il sogno di Benjamin
risposta, che apre inevitabilmente la questione della responsabilità dei «propri» sogni
a occhi aperti, non può che essere, nel caso della decostruzione, no; perché sì, forse,
talvolta Derrida sogna e invita a sognare, suggerisce di supporre, almeno, che mentre
si rivolge a chi ascolta, a chi legge, egli stia sognando: «Supponete che io sogni. [...]
In questo stesso momento, mentre mi rivolgo a voi, in piedi, a occhi aperti, mentre mi
accingo a ringraziarvi dal fondo del cuore, con i gesti unheimlich o spettrali di un
sonnambulo, oppure di un brigante venuto a mettere le mani su un premio che non gli
era destinato, tutto succederebbe dunque come se stessi sognando» (pp. 8-9). Perché
una certa scrittura di sogno, e nel corpo delle sue lettere, già, un pensiero, in effetti,
al lavoro nei margini del logos, sono essenziali alla pratica della decostruzione, proprio
come, d'altra parte, essenziale appariva già a Platone, il sogno, nel Timeo.
«Guardando ad esso noi sogniamo» (52 b) scrive Platone al momento di pensare
l'impensabile per il logos: il terzo genere di chora; quella chora» cripticamente
associata da Derrida, in Voyous, all'impossibile a-venire nominato democrazia a
venire. é quest'impossibile che il sogno dà la possibilità di pensare, dando così da
pensare, al di là del logos e dei limiti del discorso filosofico, la possibilità
dell'impossibile.
C'è allora un pensiero di sogno, un pensare come se si stesse sognando, tra il sonno e
la veglia, in quello stato di dormiveglia cui corrisponde, nella classificazione che
Macrobio dà dei sogni nel suo Commentarii in Somnium Scipionis, il visum»,
phántasma (I, 3, 1-7), che apre a un altro pensiero del politico e a un a-venire del
politico, a una politica a-venire, forse, che non è né una politica dell'immaginario, né
una politica dell'utopia.
«Potrebbe esserci un'etica o una politica del sogno che non ceda né all'immaginario né
all'utopia, che non sia dunque rinunciataria, irresponsabile ed evasiva?» (p. 15). Se
c'è, essa si trova o si cerca, necessariamente, in un pensiero politico che porti in sé
l'ingiunzione a pensare la possibilità dell'impossibile al di là dei limiti del politico, che
altro non sono, e fin dalla sua origine greca, che i limiti dell'Uno sovrano, in direzione
di un'incondizionalità senza sovranità, verso lo spazio atopico e anacoretico di una
democrazia a venire: «La possibilità dell'impossibile può essere soltanto sognata [...].
Bisognerebbe, pur risvegliandosi, continuare a vegliare sul sogno. Da questa
possibilità dell'impossibile, e da quel che occorrerebbe fare per tentare di pensarla
altrimenti, di pensare altrimenti il pensiero, in un'incondizionalità senza sovranità
indivisibile, al di fuori della modalità che ha dominato la nostra tradizione metafisica,
tento a modo mio di trarre alcune conseguenze etiche, giuridiche e politiche, si tratti
del tempo, del dono, dell'ospitalità, del perdono, della decisione - o della democrazia a
venire» (pp. 17-18).
Per finire: prendiamo un solo termine, incondizionalità. Che cos'è l'incondizionalità
senza sovranità? L'impossibile, certo; l'assolutamente impossibile, in verità; perché la
sovranità presuppone, per essenza, l'incondizionalità: ed è condizionabile solo a
partire da una libera e incondizionata scelta dei limiti che la possono condizionare. Il
pensiero che respinge, per amore dell'incondizionalità, la sovranità rischia sempre di
ricadere in balia del suo circolo. E tuttavia: occorre fare l'impossibile; non
contrapporre, semplicemente, incondizionalità e sovranità, piuttosto disgiungere la
sovranità da sé stessa, dall'ipseità del sé stesso, aprirla, al limite del suo concetto in
cui sogna di riappropriarsi di sé in sé, cioè di trovarsi come arché - sogno e incubo
schmittiano -, a un'eccezione più vecchia di sé come eccezione dell'altro che fa
eccezione del sé ed espone, così, l'ipseità sovrana alla venuta del tutt'altro non più e
non ancora qui: e già qui, in effetti, a destabilizzare l'ora del giorno politico. In questa
incondizionalità senza sovranità, nel suo spazio atopico e nel suo anacronico tempo,
nel senza potere e nella vulnerabilità che «precede» la costituzione di ogni "io posso",
è in gioco un'apertura radicale come esposizione senza difese all'altro: in altri termini,
uno spazio messianico senza messianismo come struttura universale dell'esperienza
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Derrida, Jacques, Il sogno di Benjamin
che lascia venire l'altro.
Ille somnium, Derrida è folle. Ma «il sogno è anche un luogo ospitale per l'esigenza di
giustizia come per le più invincibili esperienze messianiche» (p. 33).
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Università degli Studi di Bari - Laboratorio di Epistemologia Informatica e Dipartimento di Scienze Filosofiche
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Derrida, Jacques, Il diritto alla filosofia da un punto di vista cosmopolitico
Università degli Studi di Bari - Laboratorio di Epistemologia Informatica e Dipartimento di Scienze Filosofiche
Derrida, Jacques, Il diritto alla filosofia da un punto di vista cosmopolitico
Il Melangolo, 2003, pp. 54, euro 10,00, ISBN 88-7018-489-7
Recensione di Carmen Dal Monte
Etica,
politica,
diritto a
confronto
con Derrida
Presentazione,
Francesco
Giacomantonio
Introduzione,
Marco Enrico
Giacomelli
Derrida,
Jacques,
Genèses
généalogies
genres et le
génie. Les
secrets de
l’archive
Derrida,
Jacques, Il
monolinguismo
dell’altro o la
protesi d’origine
Derrida,
Jacques,
Perdonare.
L'imperdonabile
e
l‘imprescrittibile
Derrida,
Jacques, Sulla
parola.
Istantanee
filosofiche
Indice
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Iscrivibile
nell'ambito della
produzione
"pamphlettistica"
di Derrida, questo
testo preceduto da
un'articolata
prefazione di
Simone
Regazzoni,
raccoglie una
conferenza che
Derrida tiene per
l'Unesco nel
maggio del 1991.
Nelle intenzioni del
filosofo è esplicito
il richiamo al testo
kantiano del 1784,
Idea per una
storia universale
dal punto di vista
cosmopolitico, per
sottolineare come
alcune istituzioni
internazionali, che
sono nate dopo la
Seconda Guerra
Mondiale, hanno
alle spalle una
lunga storia nel
pensiero filosofico;
come scrive
Derrida "sono atti
e archivi filosofici,
produzioni e
prodotti filosofici,

Derrida, Jacques, Il diritto alla filosofia da un punto di vista cosmopolitico
Derrida,
Jacques, Forza
di legge. Il
«Fondamento
mistico
dell'autorità»
Derrida,
Jacques, Il
sogno di
Benjamin
Derrida,
Jacques, Il
diritto alla
filosofia dal
punto di vista
cosmopolitico
Derrida,
Jacques -
Roudinesco,
Élisabeth,
Quale domani?
Hélène, Cixous
- Derrida,
Jacques, Veli
Resta, Caterina,
L’evento
dell’Altro. Etica
e politica in
Jacques Derrida
Tarter, Sandro,
Evento e
ospitalità.
Lévinas,
Derrida e la
questione
straniera
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non solo perché i
concetti che le
legittimano hanno
una storia
filosofica
assegnabile [...]
ma perché [...]
tali istituzioni
implicano la
condivisione di
una cultura e di un
linguaggio
filosofici, che
impegnano quindi
a rendere
possibile, in primo
luogo attraverso
l'educazione,
l'accesso a questo
linguaggio e a
questa
cultura" (pag. 27).
Il testo, breve e
intenso, è un
mirabile esempio
della capacità
decostruttiva del
pensiero di
Derrida, che
rilancia la sfida
della filosofia in
un'articolazione
raffinata tra
libertà e necessità
della filosofia, che
emerge, come
viene sottolineato
nell'introduzione,
dall'imprescindibile
legame tra la
riflessione
filosofica e il luogo
in essa viene
inscritta. Da un
lato, vi è, per la
filosofia, la
necessità del
legame con i
luoghi istituzionali
e, dall'altro, per
quegli stessi
luoghi l'esigenza
di mettere in gioco
il problema del
diritto alla

Derrida, Jacques, Il diritto alla filosofia da un punto di vista cosmopolitico
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filosofia.
Quel luogo
istituzionale è per
Derrida l'Unesco,
considerato come
"il luogo
privilegiato" per
esporre la
questione, poiché
è qui che gli stati
si sono impegnati
"filosoficamente" a
favore di "una
certa filosofia del
diritto, dei diritti
dell'uomo, della
storia
universale" (pag.
28). Il passo
successivo che
Derrida compie è
la risposta alla
domanda intorno
al cosmopolitismo
della filosofia e
della ricerca
filosofica; si tratta
di comprendere la
necessità del
dispiegamento
internazionale del
diritto alla
filosofia, della
dimensione
sovranazionale
della
responsabilità che
deve essere
assunta. Compito
del filosofo è
reinventare la
filosofia, e
l'esistenza di
un'istituzione
come l'Unesco,
che ha al suo
interno un
dipartimento di
filosofia, fa sì che
il sistema di valori
non solo consenta
l'esistenza dei
filosofi, ma ne
prescriva anche il
compito, ossia

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l'interrogazione
intorno alla
situazione che si è
creata. A questo
punto dell'analisi,
il richiamo a Kant
(anche contro
l'idealismo
schellinghiano
sulla presenza in
ogni luogo della
filosofia) si fa più
presente e
puntuale per
introdurre la
possibilità di
superare proprio
Kant. E il
superamento del
filosofo tedesco
può avvenire solo
liberandosi del filo
conduttore grecoeuropeo
che egli
assume, ma allo
stesso tempo,
evitando di
opporre
Ðrimanendovi
invischiati- il secco
dualismo
dell'ultimo secolo
tra eurocentrismo
e
antieurocentrismo
perchè esso si
configura, dice
Derrida, come
coloniale e
missionario. La
filosofia, secondo
il filosofo francese,
deve essere
sempre pensata
come "altra via", è
"altra via". Sotto il
nome greco, sotto
la memoria
europea, ribadisce
Derrida, la filosofia
è sempre stata
"bastarda" e
"innestata". Qui i
contorni della
questione intorno
al cosmopolitismo

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della filosofia
cominciano ad
essere, allo stesso
tempo, più netti e
più sfumati: la
filosofia si
configura come
ibrida e poliglotta
e ha come
momento di
origine della sua
identità
l'"esposizione
all'altro"; come
scrive Regazzoni
nell'introduzione:
"l'"a venire" della
filosofia, e il suo
diritto; l'avvenire
del diritto e della
filosofia, legati a
un certo diritto
alla decostruzione
dell'idea di
filosofia e delle
istituzioni che a
partire da essa si
strutturano, sono
affidate alle
inedite forme della
sua (re)invenzione
dell'altro, in tutte
le possibili
accezioni di questo
sintagma, in cui
l'altro non è né il
non filosofico, né
l'antifilosofico, ma
un altro in cui la
filosofia non
saprebbe forse più
riconoscersi, un
altro che il nome
di filosofia non
saprebbe e non
potrebbe forse più
nominare" (pag.
17).
E qui, e non
altrove, si pone il
problema del
futuro della
filosofia intrecciato
con il tema della
democrazia a

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venire, e che
Derrida riassume
nelle pagine finali,
delineando alcune
possibili linee di
ricerca.
In primo luogo
viene sottolineata
la necessità di
appropriarsi dei
modelli che la
filosofia ha
assunto nell'ultimo
secolo con
l'opposizione tra
filosofia
continentale e
filosofia analitica;
viene poi
l'esigenza di
superare i limiti
che vengono posti
alla ricerca
filosofica,
sacrificata alle
esigenze
dell'economia e
dalla diversa
valutazione che
viene data ad altri
ambiti di ricerca
(la scienza
applicata, la
tecnologia).
La conclusione del
discorso di Derrida
torna a Kant, per
sottolineare come
il suo scritto sia
anche un trattato
intorno
all'educazione, e ci
offre un brano del
filosofo tedesco,
riflettendo sul
quale si apre la via
all'esito del diritto
alla filosofia.
Indice
Prefazione

Derrida, Jacques, Il diritto alla filosofia da un punto di vista cosmopolitico
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Il diritto alla
filosofia dal punto
di vista
cosmopolitico
Bibliografia delle
opere di Derrida

Derrida, Jacques - Roudinesco, Élisabeth, Quale domani?
Università degli Studi di Bari - Laboratorio di Epistemologia Informatica e Dipartimento di Scienze Filosofiche
Derrida, Jacques - Roudinesco, Élisabeth, Quale domani?
Trad. it. di Guido Brivio, Torino, Bollati Borignhieri, 2004, pp. 267, Euro 30,00, ISBN 88-339-
1510-7.
[Ed. or.: De quoi demain... Dialogue, Fayard-Galilée, Paris 2001]
Nota di Manlio Iofrida
Etica,
politica,
diritto a
confronto
con Derrida
Presentazione,
Francesco
Giacomantonio
Introduzione,
Marco Enrico
Giacomelli
Derrida,
Jacques,
Genèses
généalogies
genres et le
génie. Les
secrets de
l’archive
Derrida,
Jacques, Il
monolinguismo
dell’altro o la
protesi d’origine
Derrida,
Jacques,
Perdonare.
L'imperdonabile
e
l‘imprescrittibile
Bibliografia - Indice
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La conversazione
che Jacques
Derrida ha tenuto
con Elisabeth
Roudinesco, anche
nell'ambito dei testi
dello stesso genere
che l'autore ha
pubblicato - che
sono numerosi: a
solo titolo di
esempio, si
ricordino due altri
testi contenenti
lunghe interviste,
«Il gusto del
segreto» e Sur
parole. Instantanés
philosophiques -,
ha un'importanza
particolare, sia per
la sua estensione:
è un volume ampio
e in cui vengono
affrontati a tutto
campo i nodi
filosofici e politici
dell'attualità; sia
per il momento in
cui è stata
pubblicata: il
settembre 2001,

Derrida, Jacques - Roudinesco, Élisabeth, Quale domani?
Derrida,
Jacques, Sulla
parola.
Istantanee
filosofiche
Derrida,
Jacques, Forza
di legge. Il
«Fondamento
mistico
dell'autorità»
Derrida,
Jacques, Il
sogno di
Benjamin
Derrida,
Jacques, Il
diritto alla
filosofia dal
punto di vista
cosmopolitico
Derrida,
Jacques -
Roudinesco,
Élisabeth,
Quale domani?
Hélène, Cixous
- Derrida,
Jacques, Veli
Resta, Caterina,
L’evento
dell’Altro. Etica
e politica in
Jacques Derrida
Tarter, Sandro,
Evento e
ospitalità.
Lévinas,
Derrida e la
questione
straniera
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data simbolica che
ha chiuso l'epoca
del post-89, per
aprire la fase assai
diversa e dai
contorni ancora più
incerti in cui stiamo
vivendo; sia per il
posto che occupa
nell'arco della
produzione di
Derrida e della sua
storia di
intellettuale.
Partiamo da
quest'ultimo punto:
nel 2001 Derrida
ha da poco
superato la soglia
dei 70 anni, è un
intellettuale ormai
riconosciuto in
tutto il mondo, è
l'ultimo esponente
di spicco della
filosofia
poststrutturalistica
(Foucault è morto
nel 1984, Deleuze
nel 1995, e anche
Lévinas, che, pur
non essendo
poststrutturalista,
era venuto a
occupare una parte
dello stesso spazio
culturale, è
scomparso nello
stesso anno). A ciò
si aggiunga che in
Francia Derrida,
pur rivestendo il
ruolo di maître à
penser grazie
all'industria
culturale, è stato
assai meno
riconosciuto nel
campo accademico:
nel 1980 Nanterre
gli ha negato una
cattedra, ed egli ha
dovuto ripiegare su
una cattedra di
secondo rango
all'EHESS; anni

Derrida, Jacques - Roudinesco, Élisabeth, Quale domani?
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dopo, la sua
candidatura al
Collège de France
non ha avuto
successo. Questa
parziale situazione
di "straniero in
patria" - una
situazione che in
parte ha coinvolto
anche gli altri poststrutturalisti,
e in
proposito è molto
istruttivo il lavoro
di François Cusset -
comprensibilmente
doveva addolorare
Derrida, che da
sempre ha
accoppiato la sua
difesa del
meticciato a una
grande fedeltà alla
nazione e alla
lingua francese
(cfr. p. 28). Se si
tiene conto di
questo dato di
fatto, esso aiuta a
mettere a fuoco la
natura di questo
volume: la sua
estensione, la
selezione dei temi
(i principali, come
dicevo, sul terreno
filosofico-politico
dell'attualità) e,
naturalmente,
l'impostazione delle
risposte sono
calibrati su un
obiettivo ben
preciso, quello di
fare dell'autore
l'erede del pensiero
del '68 e di porlo
così sullo scranno
del maître à
penser egemone in
Francia - lo scranno
che era stato di
Sartre e che poi,
pur nella maggior
pluralità di voci del
periodo

Derrida, Jacques - Roudinesco, Élisabeth, Quale domani?
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poststrutturalista,
era stato
prevalentemente
occupato da Michel
Foucault.
(Certamente quest'
ultimo aveva
contestato la figura
dell'intellettuale
engagé degli anni
'50, ma più per
trasformarla e
adattarla ai nuovi
tempi che per
negarla, e la sua
amicizia e il
sodalizio col
vecchio Sartre ne
sono la prova
tangibile.) Del resto
questa ambizione
viene apertamente
dichiarata da
entrambi i
dialoganti fin
dall'inizio; in
particolare, la
Roudinesco
afferma: "Oggi, lei
è in qualche modo
l'ultimo erede di
quel pensiero [del
'68] così fecondo.
Ne è, se mi
permette il
termine, il
superstite, dal
momento che, a
eccezione di Lévi-
Strauss, tutti gli
altri protagnosti di
quella scena ora
sono morti. E
accade come se,
attraverso la
decostruzione, lei
giungesse a far
rivivere questi
personaggi, dando
loro di nuovo la
voce, ma non come
a idoli, bensì come
a portatori di una
parola ancora viva.
D'altro canto - e ciò
senza dubbio

Derrida, Jacques - Roudinesco, Élisabeth, Quale domani?
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perché è un erede
fedele e infedele al
tempo stesso - lei
tende ad assumere
oggi nel mondo un
ruolo di
intellettuale totale,
come è stato nel
passato Zola e, più
recentemente,
Sartre" (pp. 13-
14). E Derrida, che
pure (e del resto
non lo nasconde
nemmeno in questo
testo) con molti di
questi personaggi
aveva avuto
polemiche anche
assai dure, in
sostanza assente.
(In questa chiave,
si comprendono
anche in tutto il
loro significato i
riferimenti
successivi a
personaggi come
Victor Hugo e
Albert Camus: cfr.
pp. 197 e 203).
Bisogna dire che,
per tentare questa
operazione, Derrida
poteva vantare
molti titoli a suo
favore; inoltre essa
costituisce il
coronamento di
una evoluzione di
lunga data del suo
lavoro: fin dal 1980
si era infatti chiusa
la sua fase più
"contestataria",
anarchicheggiante
e sessantottina,
con non pochi tratti
di provocazione che
ricordano la
tradizione delle
avanguardie
artistiche del '900
(chi potrà
dimenticare, ad

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esempio, Glas, con
i due testi di Hegel
e Genet posti a
fronte e moltissimi
testi di altri autori
intercalati, per non
parlare dello
splendido Tympan,
costruito
tipograficamente su
molti piani e con
risultati stilistici
non meno che
concettuali
altissimi) e Derrida
era passato a una
fase in cui
l'interesse eticopolitico
diventava
dominante e
l'attenzione si
concentrava sulle
questioni della
democrazia, del
difficile rapporto fra
differenza e
uguaglianza, del
razzismo, fino alla
crisi del comunismo
e del marxismo.
Questa serie di
problemi politici
attuali o di teoria
della politica, con al
centro la questione
cruciale del dono,
vengono a
sostituire la
problematica
ontologica o
metafisica che dir si
voglia degli anni
'60-'70 - non la
aboliscono, certo,
né la smentiscono,
ma fanno sì che
essa retroceda in
secondo piano.
Il volume di cui ci
stiamo occupando
rappresenta
dunque, in un certo
senso, lo sbocco
finale di questa
evoluzione, ma

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anche, data
l'ambizione di far di
Derrida il maître à
penser del
momento, il
tentativo di una
prima sintesi, di un
"far il punto" su
una serie di
questioni cruciali,
e di
"sistematizzare" il
suo pensiero
politico,
obbligandolo a
intervenire su
alcune questioni
importanti su cui
non si era ancora
pronunciato, o a
chiarire in modo
univoco il suo
pensiero su dei
punti in cui la sua
posizione non
appariva
abbastanza chiara.
Diamo conto a
questo punto della
materia del
volume, in modo da
chiarire questo
assunto: dopo un
primo capitolo
(Choisir son
héritage) in cui,
come abbiamo già
accennato, si
descrive la
posizione di Derrida
nel panorama
intellettuale
odierno e in
rapporto alla
tradizione di cui è
erede, il secondo è
dedicato alla
questione
democrazia
(uguaglianza)/
differenza; il terzo
alle nuove identità
sessuali e al nuovo
tipo di famiglia che
si è creato
nell'Occidente

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avanzato; il quarto
al tema classico
della libertà; il
quinto al problema
della violenza
contro gli animali;
il sesto al problema
della Rivoluzione
(con la R
maiuscola: vi si
parla, fra l'altro,
della Rivoluzione
Francese!); il
settimo
all'antisemitismo;
l'ottavo alla
questione della
pena di morte;
l'ultimo alla
psicoanalisi, con il
significativo titolo
Elogio della
psicoanalisi.
Non abbiamo lo
spazio per dar
conto
dettagliatamente di
tutti i capitoli; ci
limiteremo perciò a
sceglierne alcuni, in
cui emergono delle
novità di rilievo su
punti specifici e che
gettano talvolta
una luce un po'
diversa anche su
tutto il lavoro
dell'autore.
Partiremo dalla
questione della
violenza contro gli
animali. Quello
dell'animale è,
come è noto, uno
dei temi a cui più si
è dedicato l'ultimo
Derrida (cfr. in
particolare L'animal
autobiographique:
autour de Jacques
Derrida, che
contiene il saggio di
Derrida L'animal
que je suis). Ma è

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interessante che
qui egli dichiari che
il suo interesse a
queste questioni
può essere fatto
risalire ai suoi primi
lavori importanti,
specialmente a
Della
grammatologia
(cfr. p. 93). Il
riferimento è a
quelle zone di quel
testo in cui il tema
della traccia e della
scrittura era
inscritto all'interno
di una concezione
del gramma e della
vita: appoggiandosi
alle ricerche sul
DNA, che negli anni
'60 e '70 erano
state al centro del
dibattito filosofico
assai più di adesso,
Derrida delineava
una concezione che
vedeva nella
scrittura un
elemento unificante
gli organismi
viventi, dai più
elementari ai più
complessi (cfr.
Della
grammatologia,
trad. it., pp. 12-13
e 52-53). In questo
modo,
l'antiumanesimo
niccianoheideggeriano
di
Della
grammatologia si
legava alle ricerche
della genetica per
un lato, alle
scoperte della
paleontologia
dall'altra (Derrida
utilizzava in
proposito Leroi-
Gourhan), ponendo
già le premesse per
una revisione del

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paradigma
occidentale sul
rapporto uomoanimale.
Rispetto
agli anni '60, in cui
comunque la
questione era
molto meno al
centro del dibattito
filosofico e politico,
la posizione di
Derrida è nel 2001
diventata assai più
esplicita e
articolata. Alla
Roudinesco che
dice di continuare
ad essere
favorevole a una
distinzione netta,
essenziale fra uomo
e animale, Derrida
si contrappone con
un rilancio: bisogna
andare ben al di là
della negazione
pura e semplice di
quella distinzione e
di quella, ad essa
strettamente
connessa, fra
natura e cultura
(cfr. p. 97), per
affermare, secondo
la logica della
differenza già
rivendicata
dall'autore a
proposito della
differenza sessuale,
che non esiste la
differenza uomo/
animale, ma
esistono molteplici,
e assai netti stacchi
fra le varie specie
di esseri viventi:
alla logica duale del
concetto, va
contrapposta quella
disseminante della
différance, che,
ponendo un'infinità
di differenti, non li
gerarchizza (come
è nella logica

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duale), ma li pone
ipso facto sullo
stesso piano (cfr.
pp. 97 e sgg.). Dal
punto di vista della
teoria filosofica,
dunque, Derrida
non esita a
prendere sulla
questione una
posizione assai
radicale,
polemizzando con
quasi l'intera
tradizione
filosofica, che, da
Aristotele a
Heidegger e
Lévinas ha
concordemente
fatto violenza
all'animale e
articolato il proprio
discorso a partire
dalla sua
sottomissione
all'uomo (cfr. pp.
96-97. Significativa
è l'eccezione di
Adorno, di cui viene
richiamata la
diversa posizione a
p. 101); altrettanto
deciso è il richiamo
(implicito) alla
compassione
schopenhaueriana
e l'affermazione
decisa della
necessità di far
cessare la violenza
sull'animale (cfr. p.
98 e passim).
Quando, però, dalle
affermazioni di
principio si passa al
"che fare", Derrida
è assai più cauto e
pragmatico:
esplicita è la presa
di distanza dal
vegetarianismo
estremista (cfr. p.
100), ribadita la
considerazione
(risalente all'antica

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polemica con
Lévinas in Violenza
e metafisica) che
un certo grado di
violenza sarà
sempre inevitabile:
come sempre nelle
sue prese di
posizioni politiche,
Derrida rifiuta
soluzioni definitive
e di principio,
rinviando alla
necessità di un
compromesso i cui
termini andranno
definiti volta per
volta, coup par
coup (ibidem e
passim). Talvolta,
in rapporto alle
domande molto
precise e concrete
della Roudinesco, le
risposte di Derrida
appaiono un po'
elusive: ma esse
sono certo conformi
alla "logica
decostruttiva", a
quella impossibilità
di fuoriuscita
definiva dalla logica
del sistema, a
quella necessità di
praticare la
contraddizione per
poter almeno
allargare le maglie
di quest'ultimo -
conformi insomma
a tutte le movenze
secondo le quali da
sempre si è
snodato il discorso
di Derrida. Di certo,
queste pagine
vedono un Derrida
ormai
completamente
schierato sul
versante di un
certo discorso
animalista e anche
ecologista e
"verde" in senso

Derrida, Jacques - Roudinesco, Élisabeth, Quale domani?
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più lato, cosa che
sarebbe stato
difficile sospettare
nelle opere fino agli
anni '70 e su cui,
anche negli anni
'90, Derrida aveva
mantenuto una
certa riserva, o per
lo meno un
prudente silenzio.
Passiamo ora al
capitolo sullo spirito
della rivoluzione, di
gran lunga il più
interessante e
sorprendente:
certo, molte delle
cose che Derrida
dichiara potevano
essere sospettate
sulla base dei suoi
scritti precedenti,
ma la nettezza di
alcune affermazioni
e il richiamo ad
alcuni esponenti e
autori divenuti
ormai, nel discorso
politico
contemporaneo,
oggetto di un vero
e proprio anatema,
non può non
sorprendere. La
trattazione prende
naturalmente le
mosse da Spettri di
Marx e subito porta
all'evocazione del
legame strettissimo
che ha legato
Derrida a un
esponente di rilievo
del marxismo
occidentale come
Louis Althusser. é
certo notevole che
anche l'ultimo
Derrida non
rinneghi tale
rapporto, ma anzi
ne sottolinei
l'importanza; come
già aveva fatto in

Derrida, Jacques - Roudinesco, Élisabeth, Quale domani?
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diverse occasioni, e
in particolare nel
1997, in
un'intervista a
Ferraris («Il gusto
del segreto», p.
40), Derrida non
manca di segnalare
come il suo stesso
lavoro si
inquadrasse, con
una sua originalità,
nel marxismo, e di
nuovo viene
evocato qui il nome
del marxista
fenomenologo
cambogiano Tran-
Duc-Thao (p. 146).
Ma ben presto il
discorso scivola sul
comunismo e la sua
caduta e qui, assai
più decisamente
che in Spettri,
Derrida dichiara il
suo lutto e la sua
nostalgia. Quel che
più conta, lutto e
nostalgia si
precisano in una
rivendicazione della
validità del
comunismo come
ideale di contro alle
sue realizzazioni
storiche - una
rivendicazione che
probabilmente
oggi, dopo la svolta
di Robert Hué,
metterebbe in
imbarazzo anche il
PCF: "In ambito
'comunista', il
demone del
totalitarismo ha
assunto la
maschera,
indubbiamente
terrificante, della
corruzione del
progetto o
dell''ideale'. Ma la
corruzione di un
progetto non è il

Derrida, Jacques - Roudinesco, Élisabeth, Quale domani?
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progetto, anche
ipotizzando che il
progetto si fosse
lasciato pervertire
alla sua stessa
origine. Il
totalitarismo
nazista, invece, è
stato il progetto
stesso in quanto
perversione, la
perversione portata
a compimento. A
prescindere dalle
domande che
ritengo di dover
continuare a pormi
a tale proposito, il
mio rispetto per
l''idea' comunista
resta intatto" (pp.
118-119).
Certo, sono
affermazioni
generiche, ma
anche molto
coraggiose, in un
clima politico e
intellettuale come
quello francese in
cui, su questi temi,
i nuovi filosofi
hanno vinto fin dal
1977 una vittoria
storica (anche se
per altri versi la
situazione è certo
peggiore in Italia,
dopo la vittoria
schiacciante della
destra nel 2001).
Derrida non esita a
trarre le
conseguenze di
questa presa di
posizione anche da
altri punti di vista:
inaccettabile è la
equiparazione del
nazismo e del
fascismo al
comunismo,
erronea
l'applicazione
indifferenziata della

Derrida, Jacques - Roudinesco, Élisabeth, Quale domani?
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categoria del
totalitarismo ai
primi come al
secondo (cfr. pp.
117-118). Ancora
più interessante è
quello che viene
detto sul Terrore e
sulla Rivoluzione
francese, temi su
cui, ovviamente, il
discorso non
poteva non
scivolare in un
dibattito sul
comunismo. Sul
giacobinismo, sul
Terrore, sulla
condanna a morte
di Luigi XVI,
Derrida rifiuta di
prendere la
posizione di
condanna assoluta
che è diventata
d'obbligo nella
cultura della
sinistra
democratica: così,
di Robespierre (e di
Saint-Just) viene
ricordata l' opzione
a favore della
abolizione della
pena di morte; del
Terrore, viene
detto: "Quel che è
comunque certo
[...] è che, per
quanto
ingiustificabile
possa sembrare il
regicidio all'interno
di questa logica e
per quanto
inammissibile si
riveli il Terrore,
questi atti furono di
fatto - e sottolineo
tutta l'ambiguità di
questo di fatto - il
prezzo da pagare
per numerose
acquisizioni di
grande importanza,
per dei 'progressi'

Derrida, Jacques - Roudinesco, Élisabeth, Quale domani?
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innegabili, come ad
esempio le
Dichiarazioni dei
diritti dell'uomo nel
loro processo
storico, con tutto
ciò che ne
consegue - idea di
diritto alla vita, di
crimine contro il
genere umano, di
genocidio, il
progetto o
l'abbozzo di un
tribunale penale
internazionale ecc.
- oppure l'insieme
dei princìpi
rivoluzionari che
fanno ormai parte
integrante di certi
discorsi giuridicopolitici
universali
della
modernità" (p.
128).
Poche pagine
prima, Derrida non
aveva esitato a
richiamarsi al
famoso saggio di
Blanchot su La
litérature et le droit
à la mort, saggio in
cui giacobinismo e
Terrore erano stati
associati a
Heidegger, a Sade
e alla tematica del
nulla e della morte
(cfr. M. Blanchot,
La part du feu, pp.
291 e sgg.). Come
dobbiamo valutare
queste prese di
posizione di
Derrida? Da un
punto di vista
storico, essi sono la
prova irrefutabile
della sua
appartenenza a una
costellazione
storica e culturale -
quella della cultura

Derrida, Jacques - Roudinesco, Élisabeth, Quale domani?
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di sinistra, che, in
senso più o meno
stretto marxista, è
stata dominante
nel venticinquennio
successivo alla
Seconda guerra
mondiale, in un
senso più lato,
queste prese di
posizioni legano
Derrida alla cultura
nazionale francese
di stampo
repubblicano - cosa
di più
autenticamente
francese, di tipico
della Francia laica e
repubblicana
rifondatasi dopo la
sconfitta del 1870,
della difesa del
valore universale
della Rivoluzione
francese? Ne
consegue, fra
l'altro, che è
difficile associare
Derrida, come
invece
normalmente viene
fatto, alle posizioni
postmoderne
propriamente
dette, in particolare
a quelle di Lyotard
(al quale pure per
alcuni aspetti egli si
richiama anche in
questo testo), che
tanto ha insistito
sulla fine delle
categorie della
modernità, sulla
fine dell'idea di
rivoluzione ecc.:
proprio queste
categorie Derrida
qui difende con
grande coraggio e
nettezza. Passando
a valutare queste
affermazioni sul
piano teorico, si
può dire che esse

Derrida, Jacques - Roudinesco, Élisabeth, Quale domani?
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siano convincenti?
Qui saremmo molto
più cauti e
perplessi: una
nuova e meno
polemica
valutazione di una
serie di fenomeni
storici un po'
troppo
frettolosamente
buttati nel cestino -
giacobinismo,
Terrore, marxismo,
comunismo - è
certo necessaria e
opportuna, ma
necessiterebbe di
un discorso molto
meno frettoloso,
molto più
approfondito, molto
più documentato di
quello che fa qui
Derrida, che rischia
talvolta di essere
troppo assolutorio
di alcuni aspetti
violenti di una
tradizione politica
che, come tali,
sono stati sempre
sostanzialmente
estranei al suo
specifico pensiero.
Tuttavia, un valore
sul piano teorico e
culturale queste
affermazioni lo
conservano: non
tanto nella loro
letteralità, nel loro
contenuto specifico,
ma perché danno
espressione a
un'esigenza
profonda e diffusa,
a un sentire
comune che oggi è
pressoché ridotto al
silenzio e che
vorrebbe non
un'assoluzione, ma
una più equa e
oggettiva
valutazione di quei

Derrida, Jacques - Roudinesco, Élisabeth, Quale domani?
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fenomeni, un
confronto sereno e
meno ideologico
con essi.
È in questo senso,
credo, che va
valutato il
contributo che
questo libro
apporta non solo su
questo punto, ma
anche su altre
questioni: non offre
soluzioni, non
approfondisce la
ricerca teorica, ma
dà voce a esigenze
ampiamente
diffuse,
rivendicandole con
coraggio e
imponendo così con
forza che esse
siano più
rigorosamente e
più profondamente
ripensate e
ridiscusse. Ciò vale
per il problema
degli animali come
per quello del
comunismo e per
gli altri che vi
vengono discussi:
molto spesso
Derrida, che in
gioventù, specie
nella
Grammatologia,
aveva inclinato
verso dei toni
apocalittici, un po'
nello stile nicciano
e/o heideggeriano
e un po' in quello
terzomondista degli
anni '60 - intona un
discorso che, per lo
stile come per il
contenuto, ha un
sapore nettamente
illuministico - affine
in particolare alla
Aufklþrung tedesca,
quella kantiana o

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lessinghiana in
particolare, in cui i
valori della carità
cristiana si
incontravano con le
rivendicazioni della
ragione più
illuminata; nella
consapevolezza un
po' mesta della fine
di un'epoca, lo
sguardo sul futuro,
come nella poesia
di Hugo da cui è
tratto il titolo al
libro, è insieme
carico di
inquietudine e di
speranza. Non si
enunciano certezze
né si dimostrano
tesi articolate, ma
si dà voce a un
certo senso
comune, ai suoi
ideali e alle sue
incerte speranze:
che culminano nella
convinzione,
sommessamente
enunciata, che su
una serie di
questioni,
attraverso un
processo complesso
e secolare, non
potrà non esserci
progresso, non
potrà non essere
limitato il flagello
della violenza, non
potrà non regredire
il pregiudizio (cfr.
ad es. pp. 104 e
107)... È uno stile
cautamente, ma
serenamente e
fermamente
profetico, certo
assai lontano dal
"filosofare con il
martello" cui
guardavano Della
grammatologia e
Margini della
filosofia, riempito

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com'è dal calore di
valori umanitari, da
un'etica del rispetto
e dell'ospitalità che
configura una vera
e propria religione
civile: nella quale,
come già nel tardo
Adorno, una certa
nostalgia della
trascendenza non
manca di affiancare
e sostenere
l'ideale tutto
immanente di una
vita più felice e più
giusta.
Bibliografia
Aa.Vv., L'animal
autobiographique:
autour de Jacques
Derrida, Paris 1999
M. Blanchot, La
part du feu, Paris
1949
J. Derrida, Della
grammatologia,
trad. it., Milano
1989
J. Derrida, Sulla
parola. Istantanee
filosofiche, trad. it.,
Roma 2004
J. Derrida -
Maurizio Ferraris,
«Il gusto del
segreto», Bari-
Roma 1997
F. Cusset, French
Theory. Foucault,
Derrida, Deleuze &
Cie et les mutations
de la vie
intellectuelle aux
ƒtats-Unis, Paris
2003

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Università degli Studi di Bari - Laboratorio di Epistemologia Informatica e Dipartimento di Scienze Filosofiche
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A. Leroi-Gourhan,
Le geste et la
parole, Paris 1965
Indice
Premessa di
Élisabeth
Roudinesco
I. Scegliere la
propria eredità
II. Politiche della
differenza
III. Famiglie
disordinate
IV. Imprevedibile
libertà
V. Violenze contro
gli animali
VI. Lo spirito della
rivoluzione
VII.
L'antisemitismo
venturo
VIII. Pene di morte
IX. Elogio della
psicoanalisi

Hélène Cixous - Jacques Derrida, Veli
Università degli Studi di Bari - Laboratorio di Epistemologia Informatica e Dipartimento di Scienze Filosofiche
Hélène Cixous - Jacques Derrida, Veli
Firenze, Alinea, trad. it. di Monica Fiorini, con sei disegni di Ernest Pignon, 2004, pp. 73,
Euro 14,00.
[Ed. or.: Voiles, Galilée, Paris 1998]
Recensione di Moreno Montanari
Etica,
politica,
diritto a
confronto
con Derrida
Presentazione,
Francesco
Giacomantonio
Introduzione,
Marco Enrico
Giacomelli
Derrida, Jacques,
Genèses
généalogies
genres et le
génie. Les
secrets de
l’archive
Derrida, Jacques,
Il monolinguismo
dell’altro o la
protesi d’origine
Derrida, Jacques,
Perdonare.
L'imperdonabile e
l‘imprescrittibile
Indice
Veli è un testo che rilega due lavori distinti ma per molti aspetti intrecciati, con i quali
la poetessa Hélène Cixous ed il filosofo Jacques Derrida aprirono nel 1997 il numero
2/3 della rivista francese Contretemps. I testi, che vanno rispettivamente sotto il
nome di Sapere e Un baco da seta. Punti di vista trapunti sull'altro velo hanno infatti
in comune almeno il carattere autobiografico, confessionale e segreto, intessuto da
memorie che riaffiorano dal passato e che si proiettano sull'incertezza di un futuro
imminente e inaccessibile alla previsione: un nuovo inizio il cui verdetto appare come
la possibilità stessa dell'impossibile. La vista per la scrittrice, che potrà togliere le sue
"lenti di non contatto" e far cadere quel velo di apparenza-protezione della miopia, suo
segreto quotidiano, in virtù di un'operazione laser che fenderà le sue cornee come la
verità sembra fendere i veli dell'apparenza per svelarsi (o ri-velarsi?) ma che la
priverà anche di ogni protezione di fronte a un mondo che non ha letteralmente mai
visto e rispetto al quale sarà ora, per la prima volta, messa a nudo. L'incontro con la
morte - inizio della fine?- per il filosofo che s'interroga sulla possibilità aporetica di un
sapere (savoir) che non pu" aversi (s'avoir). Da qui una serie di interminabili,
vertiginose ellissi di pensiero che riprendono e intrecciano ancora una volta i temi più
cari a Derrida: "La relazione o l'alleanza con l'impronunciabile" (p. 54) di un dire che
vuole resuscitare il non detto giocando tra le pieghe dei mille veli di ci" che si
manifesta; il ritardo (la differenza) di sé stessi rispetto alla propria presenza e al
proprio "verdetto" su ci" che siamo e su quanto "ci attende" (p. 56); "l'attesa dell'altro
che viene, che viene a sconcertare l'ordine del sapere" (p. 31); l'etica del tener fede al
segreto; l'imperativo categorico di firmare con il proprio nome quanto si pensa, dice,
fa; l'ininterrotto tentativo di svelare, ancora una volta, come la visione non sia altro
che il lutto del non veduto e lo sforzo di strappare la verità "alla storia dell'occhio" (p.
39) per spostarla sul piano della fonetica con giochi di parole di una scrittura che "più
sensibile ai ciechi, resta per sempre, come la trama di questo testo, è necessario
saperlo, intraducibile" (p. 48).
Ma ciò significa anche tentare di cambiare registro e passare dalla topica del velo a
quella dell'intreccio. Derrida lo fa, come nelle sue ultime opere, attraverso
l'investigazione di simboli religiosi: il sudario di Cristo, il suo tallith ebraico, lo scialle
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Hélène Cixous - Jacques Derrida, Veli
Derrida, Jacques,
Sulla parola.
Istantanee
filosofiche
Derrida, Jacques,
Forza di legge. Il
«Fondamento
mistico
dell'autorità»
Derrida, Jacques,
Il sogno di
Benjamin
Derrida, Jacques,
Il diritto alla
filosofia dal
punto di vista
cosmopolitico
Derrida, Jacques
- Roudinesco,
Élisabeth, Quale
domani?
Hélène, Cixous -
Derrida, Jacques,
Veli
Resta, Caterina,
L’evento
dell’Altro. Etica e
politica in
Jacques Derrida
Tarter, Sandro,
Evento e
ospitalità.
Lévinas, Derrida
e la questione
straniera
che ogni buon ebreo deve indossare, che riceve in dono, a volte eredita da chi muore,
e che appartiene a lui e a lui soltanto. Il sudario di Cristo "lungi dall'essere velo tra gli
altri, un esempio o un campione [...] riassume l'essenza del velo" (p. 31), un'essenza
che Derrida ripercorre citando passi del Vecchio e del Nuovo Testamento connettendo
San Paolo a Sant'agostino ed entrambi a Freud, indugiando a lungo sulla tematica
delle differenza sessuale e sul tentativo di dissimularla velandola, dando
contemporaneamente vita all'interminabile gioco di seduzione della verità come
messa a nudo e velamento-disvelamento. Ma questo è esattamente tutto ci" con cui
Derrida, confessa, vuole farla finita: "Bisogna capirmi, vede, e sapere che cosa
significa essere stufi di una figura e della sua verità, di un tropo e delle pieghe della
detta verità quando si prende gioco di tanti veli. [...] Non voglio più scrivere sul velo,
capisce, sul velo stesso o a proposito del velo, intorno ad esso o nelle sue pieghe,
sotto la sua autorità o la sua legge, in una parola né sopra né sotto di lui" (p. 37).
L'affermazione è posta in termini di dialogo perché è una confessione e perché, allo
stesso tempo, è un discorso intessuto sincronicamente con il testo e l'autrice di
Sapere: Derrida, che credeva di conoscere da tempo infatti Hélène Cixous ma della
quale non conosceva il segreto (la miopia), ne legge il testo in questione proprio
mentre medita e scrive il suo, dando cos“ spazio anche a molte citazioni. Se la
poetessa resta sul registro del velo, dicevamo, Derrida decide di passare a quello
dell'intreccio "perché invece di dover scegliere tra due lati, l'uno in lotta con l'altro,
dovremmo sapercela sbrogliare dal lato di questo stesso bordo [...]. Bisognerebbe
districare, sgrovigliare, sbrogliare prima di opporre assenza e presenza, del Pene, del
Fallo, della Cosa o della Causa dietro al Velo" (p. 52). E il talith, che di tale intreccio è
esempio (e non simbolo), "non vela né nasconde nulla, non mostra né annuncia
alcuna Cosa, non promette l'intuizione di niente. Prima del vedere e del sapere, prima
del prevedere e del pre-sapere, si porta in memoria della legge" (p. 39). Esso è ci"
che si presenta come evento unico e che si sottrae a ogni riferimento all'Uno, di cui i
molti altri non sarebbero che copie (p. 63). Ma allora ci" che conta, sembra dirci
Derrida, è il processo stesso, la mutazione che si compie durante la propria hegeliana
odissea dello spirito, quella maturazione che porta il baco da seta a diventare farfalla
e a essere sé stesso solo per il tempo di un passaggio.
Indice
Si prega d'inserire, prefazione di Monica Fiorini
H. Cixous, Sapere
J. Derrida, Un baco da seta. Punti di vista trapunti sull'altro velo
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Università degli Studi di Bari - Laboratorio di Epistemologia Informatica e Dipartimento di Scienze Filosofiche
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Resta, Caterina, L'evento dell'Altro. Etica e politica in Jacques Derrida
Università degli Studi di Bari - Laboratorio di Epistemologia Informatica e Dipartimento di Scienze Filosofiche
Resta, Caterina, L'evento dell'Altro. Etica e politica in Jacques Derrida
Torino, Bollati Boringhieri, 2003, pp. 138, Euro1 4,00, ISBN 88-3339-1497-6
Recensione di Domenico Turco
Etica,
politica,
diritto a
confronto
con Derrida
Presentazione,
Francesco
Giacomantonio
Introduzione,
Marco Enrico
Giacomelli
Derrida, Jacques,
Genèses
généalogies
genres et le
génie. Les
secrets de
l’archive
Derrida, Jacques,
Il monolinguismo
dell’altro o la
protesi d’origine
Derrida, Jacques,
Perdonare.
L'imperdonabile e
l‘imprescrittibile
Derrida, Jacques,
Sulla parola.
Istantanee
filosofiche
Derrida, Jacques,
Forza di legge. Il
«Fondamento
mistico
dell'autorità»
Il tema dell'invenzione dell'Altro, così centrale nell'esperienza filosofica di Jacques
Derrida, diventa l'occasione per una lettura unitaria del percorso dell'intellettuale
francese, che è piuttosto inedita. Caterina Resta, nel saggio L'Evento dell'Altro, coglie i
nessi solo apparentemente deboli che intercorrono tra il Derrida più noto, quello del
decostruzionismo ermeneutico-letterario, e l'ultimo, affascinato da questioni di
carattere etico e poltico, che derivano dall'elaborazione della figura dell'Altro.
é proprio l'eventuarsi dell'alterità nei differenti luoghi del sapere e dell'agire eticopolitico
a costituire un elemento che sconfessa la comune idea di un Derrida
radicalmente relativista, e come tale vicino a certo anarchismo, pregiudizio che si deve
all'estensione indebita della decostruzione all'ambito della morale.
Ma, come dimostra Caterina Resta, grazie alla sua interpretazione delle ultime opere
del pensatore francese, l'etica derridiana non rinvia a un relativismo etico assoluto,
bensì risulta fondata su una tavola di valori ben precisa e per alcuni versi orientata
alla polarità della tradizione. Si possono addirittura constatare significative influenze
della spiritualità ebraico-cristiana, in cui il rapporto con l'Altro è tema rilevantissimo,
soprattutto nel senso di una relazione io-tu che è metafora della relazione tra il
singolo e Dio - l'infinitamente Altro.
Derrida chiama in causa persino la figura religiosa del Messia, considerato come l'Altro
per antonomasia, sempre inatteso e capace di sconvolgere il corso normale del tempo,
schiudendo possibilità insospettate e mettendo in crisi lo statuto della soggettività.
Naturalmente Derrida intende il messianismo in chiave laica e nella prospettiva di un
impegno civile che assume una valenza universale e utopica nell'accezione più
generale del termine. In questo caso viene fatto valere quell'ethos della responsabilità
a cui il concetto piuttosto spregiudicato di decostruzione non viene mai accostato, ma
di cui Resta tenta una nuova interpretazione.
L'atto del decostruire è così riletto nelle guise di una riflessione radicale basata su
responsabilità e giustizia, fisiologicamente vocata a rispondere in ogni momento
dell'Altro e per l'Altro.
L'aspetto di evento dell'Altro, il suo venirci incontro prevede un rapporto dialogico, di
domanda e risposta, di chiara ascendenza heideggeriana. Ma Derrida esplicita quella
dimensione di apertura all'Altro che nel discorso di Heidegger restava avvolto in
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Resta, Caterina, L'evento dell'Altro. Etica e politica in Jacques Derrida
Derrida, Jacques,
Il sogno di
Benjamin
Derrida, Jacques,
Il diritto alla
filosofia dal
punto di vista
cosmopolitico
Derrida, Jacques
- Roudinesco,
Élisabeth, Quale
domani?
Hélène, Cixous -
Derrida, Jacques,
Veli
Resta, Caterina,
L’evento
dell’Altro. Etica e
politica in
Jacques Derrida
Tarter, Sandro,
Evento e
ospitalità.
Lévinas, Derrida
e la questione
straniera
un'aura di astrattezza. In particolare, Derrida affronta la questione dell'Altro
concentrandosi sulle figure concomitanti e tuttavia non coincidenti dell'Ospite e dello
Straniero, con un'analisi comprendente che rende possibile una nuova considerazione
della dialettica tra Proprio ed Estraneo, come del rapporto che intercorre tra
Soggettività e Identità. Dal punto di vista etico-politico l'accento posto sulla tematica
della relazione con l'Altro consente anche il superamento del concetto di
intersoggettività attraverso il ripensamento dell'idea di Comunità.
Ma chi è l'Altro? é tutto e niente. é tutto se noi vi scorgiamo non un semplice essere
umano, ma l'umanità, e niente se lo vediamo con gli occhi di una Legge burocratizzata
e bigotta, che pratica costantemente il rifiuto dello Straniero, nella fattispecie
dell'immigrato clandestino, ospite indesiderato e nemico, che dev'essere allontanato.
C'è tuttavia un imperativo morale, indicato dal concetto di ospitalità, che nel conflitto
tra legge ed etica sceglie la seconda.
Sempre in maniera diversa da Heidegger, Derrida si occupa di problemi di stringente
attualità, come l'emigrazione, e lo fa mettendo a fuoco una visione d'insieme nella
quale intervengono i temi-guida del suo pensiero. L'emigrante è un personaggio
paradigmatico, in quanto è Straniero ma aspira allo status di Ospite. Da Straniero -
come il Cristo risorto sulla via di Emmaus - l'emigrante è colui che spunta
all'improvviso, o che giunge inaspettato e spesso indesiderato. Lo Straniero
rappresenta l'Altro da me, evento di verità che abbiamo il dovere di accogliere perché
"ci viene incontro".
Lo Straniero può e deve diventare nostro Ospite, il che, in chiave politica, si traduce in
un ideale di ospitalità assoluta, che ci si aspetterebbe dallo Stato, ma che lo Stato non
è in grado di garantire. Alla base vi è la tirannide dell'oikonomia, termine che non
indica il sistema economico, ma la legge dello Stesso come legge di quella
claustrofobica dimora che assume mille volti - Soggettività, Appartenenza, Proprietà -
e che in quanto tale si contrappone all'Ospitalità e all'accoglienza che l'evento
dell'Altro "ci" reclama.
Per una sorta di "paradosso" kierkegaardiano, in cui però vengono meno i presupposti
religiosi, Derrida invoca l'ospitalità assoluta non come diritto da concedere ma come
dovere da rispettare, dovere che va al di là della politica e dell'etica corrente e che
trova le sue ragioni in una saggia follia, peculiare di un pensiero libero dai consueti
schemi, il quale si inscrive a pieno titolo nella temperie post-moderna.
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Università degli Studi di Bari - Laboratorio di Epistemologia Informatica e Dipartimento di Scienze Filosofiche
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Tarter, Sandro, Evento e ospitalità. Lévinas, Derrida e la questione straniera
Università degli Studi di Bari - Laboratorio di Epistemologia Informatica e Dipartimento di Scienze Filosofiche
Tarter, Sandro, Evento e ospitalità. Lévinas, Derrida e la questione straniera
Assisi, Cittadella Editrice, 2004, pp. 279, Euro 17,90, ISBN 88-308-0785-0.
Recensione di Riccardo Venturi
Etica,
politica,
diritto a
confronto
con Derrida
Presentazione,
Francesco
Giacomantonio
Introduzione,
Marco Enrico
Giacomelli
Derrida,
Jacques,
Genèses
généalogies
genres et le
génie. Les
secrets de
l’archive
Derrida,
Jacques, Il
monolinguismo
dell’altro o la
protesi d’origine
Derrida,
Jacques,
Perdonare.
L'imperdonabile
e
l‘imprescrittibile
Bibliografia - Indice - Autore
http://lgxserve.ciseca.uniba.it/lei/recensioni/swirt/derrida/tarter.htm (1 of 6)15/11/2005 3.37.30
Attraverso una riflessione personale sulla "questione straniera", il saggio
di Sandro Tarter offre una puntigliosa analisi del pensiero di Lévinas e
Derrida, e soprattutto dei loro luoghi di intersezione. Pensiamo in
particolare al saggio "Violenza e metafisica" del secondo, in cui vengono
esplicitate le difficoltà del dire l'Altro nel linguaggio del Medesimo.
Lévinas ne farà il volano per compiere il salto da Totalità e Infinito ad
Altrimenti che essere, abbandonando il suolo greco dell'ontologia.
Consapevole della "fatica a misurarsi con la differenza", l'intento
dell'autore è quello di far spazio non tanto a "una filosofia dell'ospitalità"
ma, come si esprime commentando Lévinas, a una "filosofia come
ospitalità" (p. 86), a un evento inteso come "enigma della prossimità".
Quest'ultimo apre inoltre alla trascendenza di sé, alla sporgenza di una
soggettività intesa come ospitalità, io-per-l'altro, in cui la passività la
costringe a declinarsi all'accusativo, a essere ostaggio: "Nella possibilità
di negarsi e di sottrarsi all'invito, l'altro annuncia la sua precedenza su di
me, la sua eccedenza rispetto alla mia stessa attesa" (p. 65). Un altro
che può avere persino le sembianze di un nemico.
Si tratta di temi arrischiati, in cui si cade facilmente preda di una retorica
che attutisce l'alterità dello straniero; Tarter richiama del resto la
prudenza con cui Lévinas si serviva di termini come amore o ospitalità.
Tuttavia, nonostante qualche bordata eccessivamente apocalittica sul
mondo dominato dalla tecnica e dalla "cornucopia consumista", la
prospettiva adottata dall'autore ci sembra muoversi nella giusta
direzione, affrontando di petto l'intrinseca e irresolubile problematicità
della posta in gioco. Non esistono infatti scorciatoie per avvicinarsi allo
straniero: la ricerca della prossimità, impaziente di integrarlo nella
comunità, non fa altro che consumare la distanza che ci separa da lui.
Assimilato al noi, l'io non incontra altri che sé stesso, un alter ego che
dello straniero ha solo le sembianze, o al limite un semplice alter
dall'ego, le cui implicazioni nel pensiero fenomenologico sono ben
indagate dall'autore. Al contrario, l'Io è "l'impossibilità di restare in me o,
se vogliamo, di cominciare a partire da me" (p. 112).
Determinante, per queste riflessioni, il contributo di Edmond Jabès,

Tarter, Sandro, Evento e ospitalità. Lévinas, Derrida e la questione straniera
Derrida,
Jacques, Sulla
parola.
Istantanee
filosofiche
Derrida,
Jacques, Forza
di legge. Il
«Fondamento
mistico
dell'autorità»
Derrida,
Jacques, Il
sogno di
Benjamin
Derrida,
Jacques, Il
diritto alla
filosofia dal
punto di vista
cosmopolitico
Derrida,
Jacques -
Roudinesco,
Élisabeth,
Quale domani?
Hélène, Cixous
- Derrida,
Jacques, Veli
Resta, Caterina,
L’evento
dell’Altro. Etica
e politica in
Jacques Derrida
Tarter, Sandro,
Evento e
ospitalità.
Lévinas,
Derrida e la
questione
straniera
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ponte ideale tra la prospettiva di Derrida e di Lévinas, legati anche da un
rapporto di stima reciproca e amicizia. Nonostante il saggio di Tarter
accenni più volte ai suoi scritti, selezionando in modo pertinente alcune
citazioni, questi non vengono mai veramente tematizzati né viene, ad
esempio, ricordato l'ultimo testo di Jabès, l'unico che sin dal titolo
richiama la questione che qui ci è a cuore: Uno straniero con, sotto il
braccio, un libro di piccolo formato. Il miglior commento allo studio di
Tarter ci sembra così quello di lasciarci contagiare dalle sue
interrogazioni, ricordando, con Lévinas, che la ricerca si dà nella forma
della domanda, in un'apertura che fa già appello all'altro. In altri termini,
porremo ascolto, nel dialogo tra Levinas e Derrida, a una terza voce,
quella di Jabès, egiziano di nascita, francese d'adozione, scrittore e
ebreo - e non, come teneva a specificare, scrittore ebreo -, autore di
un'opera non ascrivibile alla sola letteratura.
Lo straniero è al centro della sua riflessione, capace di convogliare tutte
le figure di alterità: l'ospitalità e la condivisione, l'erranza e l'esilio,
l'ascolto e l'interrogazione. Questi si sottrae alla declamazione e allo
sguardo, invitandoci a divenire noi stessi stranieri, o meglio ad accogliere
l'altro alla sorgente dell'io, l'altro in noi stessi. Nella sua distanza,
costituisce la tessitura dell'identico, l'unico che ci fa dono della nostra
identità minacciandola (hospes e hostis); rappresenta la distanza da noi
stessi e la scoperta che lo straniero non è fuori di noi. Più radicalmente,
originaria è la relazione e non l'identità, poiché la relazione è diretta alla
produzione dell'identità: "Dire Io è dire già la differenza". E se il vero
dialogo non può nascere che fra due stranieri, centrale diventa il compito
dell'interrogazione. Solo l'io-straniero, come il dopo-dialogo - altro tema
jabèsiano che differisce il vero incontro al momento silenzioso in cui ci si
separa - è in grado di salvaguardare l'alterità.
Tuttavia Jabès, come i suoi amici filosofi, non dimentica i problemi aperti
da questa prospettiva: se lo straniero è altro da me (come io da me
stesso), e di riflesso è anche altro da sé stesso, non c'è il rischio che
l'ospite resti lì, dimenticato nella sua lontananza irriducibile? In quale
spazio viene differito questo incontro? "La distanza che ci separa da uno
straniero è la distanza che ci separa da noi stessi": questo movimento,
nel mettere in crisi la risolta reciprocità, nel destituire il soggetto - che si
fa soggezione, soggetto a e non più soggetto di - non finisce per togliere
ogni luogo? Chi renderà conto della dirittura del volto dello straniero,
della sua inderogabile intimazione a rispondere, chi presterà ascolto alla
sua voce, chi accoglierà la sua ingiunzione, se siamo tutti stranieri? Per
pensare veramente l'alterità è necessario allontanarla fino quasi a
cancellarla in uno spazio vuoto lontano dall'uomo? é sufficiente
considerare la responsabilità come responsabilità di un divenire di cui
l'altro non è che il cominciamento?
é qui che si fa più sentire la radice ebraica del suo pensiero, emersa in
periodi diversi anche in Lévinas e Derrida. Lo straniero non possiede,
non trattiene presso di sé ciò che ha ricevuto ma si denuda, ridonando
ogni proprietà. Un esercizio e un gesto di ospitalità possibile solo nel
deserto, (non)luogo di migrazione e abbandono, arrischio nell'Aperto e
nel vuoto che sospende ogni avvenire e ogni potere creativo,
attraversamento del silenzio e dilatazione dell'ascolto della voce, ma
soprattutto esperienza di spersonalizzazione: nel deserto si diventa altri.
Il deserto diventa immagine del proprio Sé, luogo in cui lo straniero è
straniero ai suoi stessi occhi (étranger - étrange-je), in cui è costretto a

Tarter, Sandro, Evento e ospitalità. Lévinas, Derrida e la questione straniera
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migrare persino da sé stesso. Per questo, secondo Jabès, l'Altro non si
dà nella vertigine del volto ma si presenta di spalle, con un piccolo libro
tra le mani: perde il volto, si ritrae, si ritira. La sua immagine sarà quella
di una voce cui prestare ascolto.
Tuttavia mai il deserto si cristallizzerà in un'immagine, o meglio mai si
potrà fare dell'outopia del deserto una dimora. Jabès ha sempre diffidato
della patria, anzi la sua vita, segnata dal disagio di abitare, sembra la
perfetta metafora dell'itinerario storico ebraico: "Ho l'impressione di
avere un'esistenza solo fuori d'ogni appartenenza. Questa nonappartenenza
è la mia stessa sostanza", come potremmo dire delle radici
lituane di Lévinas o di quelle algerine di Derrida. La fondazione, il Nomos
rappresentano la conclusione dell'erranza, il ritorno del soggetto a sé
mentre l'esilio, scioglimento dal legame coi luoghi, manifesta
l'esposizione e l'indigenza dello straniero. Sulla scia di Filone (Ôebreo'
significa migratore) e di Blanchot (l'ebreo fa dell'esilio un regno), quello
di Jabès è un ebraismo che non si acquieta, un'etica che ha il suo ethos
non nella terra bensì nell'erranza e nel suo eccedere, un esilio senza
redenzione che brucia ogni dimora nel percorso, fino - il suo pensiero si
spinge a tanto - ad esiliarsi dall'esilio stesso. Ecco il destino ultimo
dell'ebreo, irriducibile a ogni quieto stare. Spetterà alla scrittura
dell'interrogazione indagarlo, o meglio all'interrogazione della tradizione
che, a differenza della testimonianza dello storico, distrugge il passato
dandogli forma, facendone così emergere tutta l'abissalità: il tràditum è
sradicato, dislocato e la sua verità sottoposta a un'incessante
Entstellung.
Lo straniero non ha dunque né nome né volto, il suo appello ci induce
all'interrogazione (che noi siamo), ci apre all'esperienza dell'esilio e
dell'erranza. Il cosiddetto Ôebraismo dopo Dio', la Ôteologia apofatica',
l'Ôateismo assediato da Dio' lontano da ogni onto-teologia, le riflessioni
sul nomadismo - la frantumazione dell'Uno che colpisce tanto l'uomo
quanto Dio -, sull'assenza di fondamento e la deflagrazione del senso,
sulla cancellazione infinita del volto e del nome di Dio, sulla sua
trascendenza come presenza-assenza, sulla natura tragica del
messianismo e d'ogni oltrepassamento: non siamo al centro del dialogo
tra Lévinas e Derrida sulla "questione straniera"?
Lo straniero del resto non si limita semplicemente ad accadere ma
irrompe, è l'ospite inatteso che ci sorprende e non l'invitato di cui si è in
attesa: solo nel mantenimento di questa distanza, nell'esercizio della sua
custodia, è salvaguardata l'ospitalità. Nel ripensare radicalmente questo
movimento, Tarter richiama i passi in cui Derrida introduce l'arrivant,
colui che non è preceduto da alcun annuncio. La sua venuta non
travalica una soglia stabilita, poiché siamo noi a porre il limite che divide
e identifica due luoghi, a de-cidere uno dall'altro - qui il proprio, là lo
straniero. é la cittadinanza a fondare l'opposizione noi/altri e l'arrivant è
colui che la mette in scacco: non oltrepassa semplicemente un limite
dato (sarebbe allora solo questione di rifigurare il tracciato della
frontiera), ma investe la stessa possibilità di esperire la soglia,
destituisce della sua identità il luogo in cui arriva e colui che vi risiede.
A questo punto l'interrogazione si estremizza: difficile pensare un
arrivante che non ci troveremo mai di fronte, se la frontalità, figura di un
cattivo possibile, ne cancella la venuta. Come individuare il confine che

Tarter, Sandro, Evento e ospitalità. Lévinas, Derrida e la questione straniera
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la presenza laterale e asimmetrica dell'arrivante cancella? Si dà uno
spazio per l'evento che sopravviene, uno spazio che sia in grado di
salvaguardarlo in quanto tale, come la tenda di Abramo aperta sui
quattro lati? Possiamo attendere davvero l'ospite senza aspettarcelo in
qualche modo? Quale intersoggettività rifletterebbe un'attesa senza
telos, cioè senza attesa? O veramente ospitale è, fino in fondo, solo
l'attesa? Possiamo fare affidamento alla scena dell'ospitalità che ne
deriva, contaminata, sfuggente quanto, alla lettera, delirante? Siamo in
grado di sopportare i rischi di questa esperienza-limite, consapevoli che
ci appartiene, che porta alla luce il conflitto della soggettività, ad
esempio di fronte alla morte - l'arrivante assoluto?
Un ultimo aspetto della "questione straniera" è infine quello politicosociale,
legato all'appartenenza. Al proposito Jabès, vicino al Blanchot
ripensato da Derrida quanto da Nancy, introduce il tema del partage,
della condivisione. Lontano da ogni forma di appropriazione, è proprio la
non-appartenenza che si fa comunità e accoglimento, prossimità all'altro.
Ci apparteniamo solo in quanto apparteniamo all'Altro, ovvero a ciò che
non possiamo mai appropriarci, a ciò che non è nostro, che resta fuori
dalla condivisione, l'impartageable. La relazione all'altro comincia proprio
da ciò che non abbiamo potuto condividere: il bene veramente comune
non è del resto ciò che resta fuori della condivisione?
Tuttavia, se esistono solo singolarità fra loro irriducibili, se a unirci
sembra essere solo la morte, se il partage è legato più alle voci che agli
spazi, se evoca più la musica che la geografia, come e dove pensare
l'individualità e la fisicità dell'ospite, disciolta nella figura dello straniero
in terra straniera? Come pensare questa inclinazione dell'ospitalità in cui
il dialogo - lontano dall'orizzontalità del principio dialogico di Buber
dell'Io-Tu, ai cui rimandi simmetrici Lévinas opponeva l'esposizione del
volto - si fa presagio della prossimità nella distanza, apertura e arrischio
del senso? Quale comunità privilegerà la domanda, intesa come tentativo
di condividere con l'altro qualcosa che ci strappi alla solitudine? Quale dio
per il noi della comunità se, in quanto non condivisibile - come il Nulla -
non può essere propriamente pensato?
Insomma, la natura propria dello straniero è quella dell'interrogazione e
la verità non è se non nella provocazione dell'interrogazione inesauribile,
nella "voce nel deserto": solo la ricerca della verità è vera. Mai la verità
(come Dio e lo straniero) si darà in forma di risposta, perché per trovarla
è necessario conservarne il desiderio. Straniero è chi - senza
appartenenza né origine - non si insedia e non ha che la lingua, "patria
dell'esiliato": per questo interroga, facendo dell'interiorità un perpetuo
fuori. La domanda ci costringe ad adottare un'eccentrica distanza da noi
stessi, è in altri termini una forma di esilio: per questo la scrittura di
Jabès - che a Roger Caillois ricordava una "quarzo nero" - ha la
vocazione del frammento, fa spazio attorno alle parole, si lascia
inquietare dall'indicibile, dal bianco, dall'oblìo. Una parola che
paradossalmente è riempita di silenzio, che si sforza di trattenerlo in sé.
Di riflesso il lettore ideale è colui che sa assumere su di sé la propria
vertigine, le proprie contraddizioni. Interrogare è dunque mantenere
sempre aperta la questione della differenza, dell'estraneità e della
sovranità dell'altro - guarire dalla risposta.
Ma, infine, è possibile una parola-ascolto, un dire che sappia farsi al

Tarter, Sandro, Evento e ospitalità. Lévinas, Derrida e la questione straniera
contempo ascolto? E noi, come nel deserto, siamo in grado di farci niente
altro che ascolto? L'interrogazione non comporta anch'essa una violenza,
dovuta proprio al rifiuto coatto della risposta? é possibile una parola che
sappia mantenersi nel dedalo dell'interrogazione, che sappia rinascere
all'infinito dal tormento della risposta?
Bibliografia
Edmond Jabès, Uno straniero con, sotto il braccio, un libro di piccolo
formato, trad. it., SE, Milano 1990
Indice
INTRODUZIONE
http://lgxserve.ciseca.uniba.it/lei/recensioni/swirt/derrida/tarter.htm (5 of 6)15/11/2005 3.37.30
CAPITOLO PRIMO. L'AN-ARCHIA DELL'UMANO. COMPITO CONTRO
DESTINO
Stanchezza del tempo
La rottura dei sigilli
L'irrecuperabile
Al cospetto del silenzio
Il nome della distanza
Il dono dell'avvenire
L'evento e la morte
L'attesa nella desolazione
L'idea dell'infinito
CAPITOLO SECONDO. OSPITALITË E GIUSTIZIA
L'ineguaglianza etica
L'esteriorità e la respirazione
La giustizia a venire
La guerra e la pace
Ambiguità dell'ospitare
La Torah nel deserto
Trascendenza del Bene
CAPITOLO TERZO. APORIE: LA DIFFERENZA E IL TEMPO
Passi nel vuoto
"Tertium datur". La differenza come differenza
L'essere in questione
La sfasatura della soggettività
L'aporetica della temporalità
Immediatezza e ritardo
"...ci mancano i nomi". Husserl e la "soggettività assoluta"
L'antecedenza dell'altro
CAPITOLO QUARTO. L'EPIFANIA DEL VOLTO
L'enfasi e la prossimità
Ritorno a Gerusalemme
L'arrivante assoluto
Paura e vulnerabilità

Tarter, Sandro, Evento e ospitalità. Lévinas, Derrida e la questione straniera
L'ostaggio
Perché qui, perché ora?
... che ne sarà di lui?
CAPITOLO QUINTO. AMARE IL NEMICO?
L'enigma dei contrari
Maschere dell'amicizia
Il fantasma del nemico
La fratellanza inquietante
Odio e amore
L'eccesso del Bene
UN COMMENTO di Arturo Paoli
Testi consultati
Autore
L'autore
Sandro Tarter è laureato in filosofia, insegna religione al liceo classico
"Carducci" di Bolzano ed è docente di filosofia all'Istituto di scienze
religiose di Bolzano. Collabora con l'associazione "Ore undici". Ha
pubblicato "L'età del pane: Pasolini critico del potere e della società dei
consumi", in Aa. Vv., Critica come politica e diaspora del marxismo,
Franco Angeli, Milano 1980; Crisi della metafisica e pensiero dell'esilio.
Per una rilettura del Libro di Giobbe, ETS, Pisa 1989; "Il pensiero
dell'esilio", in Aa. Vv., La pace e la guerra. A proposito del "golfo",
Centro di Cultura dell'Alto Adige, Bolzano 1991; La riva di un altro mare.
Alterità, soggettività, giustizia: a partire da Lévinas, ETS, Pisa 1995.
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Università degli Studi di Bari - Laboratorio di Epistemologia Informatica e Dipartimento di Scienze Filosofiche
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