Pascoli e Petrarca
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GIUSEPPE NAVA<br />
<strong>Pascoli</strong> e <strong>Petrarca</strong><br />
<strong>Pascoli</strong> e <strong>Petrarca</strong> fino a qualche tempo fa, e precisamente fino al commento<br />
di Nadia Ebani ai Poemetti 1 e allo scritto di Guido Capovilla, Elementi petrarcheschi<br />
in <strong>Pascoli</strong>. Prime considerazioni 2 , apparivano tra loro lontani, e non<br />
solo per ragioni cronologiche, ma soprattutto per scelte linguistiche e stilistiche,<br />
che ne facevano i rappresentanti di modelli poetici diversi, se non opposti, e<br />
inducevano critici e lettori ad escludere possibili interferenze dell’uno sull’altro.<br />
<strong>Petrarca</strong> voleva dire nella letteratura italiana il campione per eccellenza del<br />
monolinguismo, inteso come linguaggio seletto ed eufonico e rappresentazione<br />
fortemente stilizzata del soggetto e dell’oggetto poetico; <strong>Pascoli</strong> al contrario si<br />
collocava sotto il segno del plurilinguismo, nell’accezione d’una lingua concreta<br />
e mescidata, contrassegnata da sperimentalismi fonici, dialettismi e linguaggi<br />
speciali.<br />
Come è noto, l’opposizione risale a due saggi fondamentali di Gianfranco<br />
Contini, Preliminari sulla lingua del <strong>Petrarca</strong>, del 1951 3 , che fissava l’antitesi,<br />
divenuta poi canonica, tra i due archetipi poetici della nostra letteratura, Dante e<br />
<strong>Petrarca</strong>, su basi linguistiche e stilistiche, prima e più che storico-culturali,<br />
come aveva fatto invece il De Sanctis con la distinzione tra poeta ed artista; e Il<br />
linguaggio di <strong>Pascoli</strong>, del 1955 4 , che analizzava lucidamente il carattere sperimentale<br />
del linguaggio pascoliano nelle tre dimensioni del pre-grammaticale,<br />
del para-grammaticale e del post-grammaticale. Nel complesso l’antitesi tra i<br />
1 Cfr. G. PASCOLI, Primi poemetti, a cura di N. EBANI, Parma, Fondazione Bembo-<br />
Guanda, 1997.<br />
2 Cfr. G. CAPOVILLA, Elementi petrarcheschi in <strong>Pascoli</strong>. Prime considerazioni, in Studi<br />
vari di Lingua e Letteratura in onore di Giuseppe Velli, «Quaderni di Acme» 41, Milano,<br />
Cisalpino, 2000, pp. 779-791.<br />
3 Cfr. G. CONTINI, Preliminari sulla lingua del <strong>Petrarca</strong>, in ID., Varianti e altra linguistica,<br />
Torino, Einaudi, 1970, pp. 169-192.<br />
4 Cfr. G. CONTINI, Il linguaggio di <strong>Pascoli</strong>, ivi, pp. 219-245.<br />
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Giuseppe Nava<br />
due modelli rimane ancor oggi sostanzialmente valida, anche se è stata messa in<br />
discussione la coppia antitetica minore, pluritonalismo vs. monotonalismo (vedi<br />
in proposito le letture performative petrarchesche di Patrizia Valduga), o l’altra,<br />
plurivocità vs. monovocità. Nella poesia del <strong>Petrarca</strong> infatti si possono distinguere<br />
tonalità diverse, e si ritrovano esempi di articolazione del dettato in due o<br />
più voci, come mimesi d’un conflitto interiore dell’io poetante (ad esempio, i<br />
sonetti CL, CCXLII, CCCLXI), verbalizzazione dei detti d’Amore (la canzone<br />
CCLXVIII, il sonetto CCCLIV), di entità allegoriche (le canzoni CXIX e<br />
CCCLX), di altre donne (i sonetti CCXXII e CCLXII), riprese di versi d’altri<br />
poeti (la canzone LXX) o immaginata voce di Laura, in particolar modo nelle<br />
rime in morte di lei (i sonetti CCLXXIX, CCCXXX, CCCXLII e la canzone<br />
CCCLIX). Si tratta però pur sempre d’una plurivocità interna al mondo stilistico<br />
del soggetto poetante, e quindi non risulta applicabile al <strong>Petrarca</strong> la categoria<br />
bachtiniana di “dialogicità”, che presuppone l’inserimento nel testo di voci realmente<br />
“altre” dalla voce poetante o narrante: categoria parzialmente fruibile<br />
invece per il <strong>Pascoli</strong> dei Poemetti, di Italy in particolare.<br />
A questo proposito vale la pena di ricordare che l’operazione critica di<br />
Contini avviene in parallelo col tentativo dei poeti di «Officina», di Pasolini<br />
soprattutto, di superare la “purezza” lirica dell’ermetismo attraverso il ritorno<br />
alla dimensione del narrativo in poesia e la contaminazione di lingua e dialetto,<br />
di lingua letteraria e lingua parlata, di lirismo e mimesi. Il <strong>Pascoli</strong> “impuro” di<br />
Italy, e più in generale quello narrativo dei Poemetti, viene così riscoperto in<br />
opposizione all’ideale stilistico novecentesco di ascendenza petrarchesco-ungarettiana;<br />
e riletto quasi contemporaneamente all’uscita delle Ceneri di Gramsci<br />
e di Ragazzi di vita. Ne consegue la sua collocazione su di una linea antipetrarchesca<br />
e insieme antiermetica, con la relativa contraddizione d’un poeta lirico, o<br />
di narratività circolare, cioè mitica, come <strong>Pascoli</strong>, che si trova accomunato a un<br />
poeta epico-narrativo, e sia pure di un’epica dell’anima, come Dante.<br />
La questione si complica, ma non si modifica veramente, con gli studi di<br />
Maurizio Perugi nei primi anni Ottanta 5 , che mettono in luce l’uso cifrato di<br />
moduli danteschi a fine di allegoresi personale da parte di <strong>Pascoli</strong>. Anzi il rapporto<br />
Dante-<strong>Pascoli</strong> viene ulteriormente ribadito, perché Perugi, con la sua proposta<br />
d’un <strong>Pascoli</strong> allegorico e antidecadente, estende il nesso tra i due poeti dal<br />
piano linguistico a quello culturale. Il sospetto con cui la tradizione del<br />
Novecento guardava all’“impurità” di <strong>Pascoli</strong> viene ribaltato in un’affermazione<br />
di superiorità del poeta romagnolo su buona parte della poesia contemporanea,<br />
accusata più o meno velatamente di soggettivismo o di formalismo. Eppure<br />
Perugi stesso è costretto a riconoscere che i procedimenti di cifratura allegorica<br />
in <strong>Pascoli</strong> riguardano più spesso figure di mancanza o di scissione, come il<br />
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5 G. PASCOLI, Opere, a cura di M. PERUGI, Milano-Napoli, Ricciardi, 1980-81 (due volumi).
<strong>Pascoli</strong> e <strong>Petrarca</strong><br />
«parvolo d’animo» o le «false immagini di bene», che non figure di pienezza o<br />
di totalità. Anche il tema della superiorità della vita contemplativa sulla vita attiva,<br />
che <strong>Pascoli</strong> mutuerebbe da Dante per farne un ideale di vita e di arte, nel poeta<br />
della Commedia è mezzo di ascesa a Dio e non fine di saggezza personale.<br />
Di conseguenza ci troviamo di fronte a una situazione poetica più vicina a<br />
<strong>Petrarca</strong> che a Dante, al <strong>Petrarca</strong> del «conflitto di cure» o dell’accidia del<br />
Secretum, o ancora della temporalità corrosiva dei Trionfi: è il paradosso che<br />
Alfonso Berardinelli, per altri autori, ha definito di conati danteschi in situazioni<br />
petrarchesche. Si aggiunga che il lavoro di commento dei testi pascoliani fa<br />
emergere copiosamente quei procedimenti di autonomia del significante, quelle<br />
figure di pensiero e di parola (disseminazioni di suoni, giochi timbrici, allitterazioni,<br />
paranomasie, anafore, riprese e così via), di cui <strong>Petrarca</strong> è stato e rimane<br />
l’auctor in ambito retorico e stilistico. Osserviamo qui per inciso che l’interpretazione<br />
giocata tra Jakobson e Lacan, che StefanoAgosti dà di <strong>Petrarca</strong>, per<br />
quanto sottile e suggestiva, non arriva a convincere pienamente: nell’autore del<br />
Canzoniere «le manque» è pur sempre un’immagine di donna, non un vuoto<br />
d’essere o di lingua. Infine la linea critica che privilegia la collocazione di<br />
<strong>Pascoli</strong> nel quadro del simbolismo europeo, seppure con una sua netta originalità,<br />
linea che va da Giacomo Debenedetti a Giorgio Bàrberi Squarotti 6 , induce a<br />
interrogarsi sulla singolarità di un’assenza totale di petrarchismo in <strong>Pascoli</strong>,<br />
quando <strong>Petrarca</strong>, come ha sostenuto Agosti, è indubbiamente un incunabulo, sia<br />
pure remoto, di quel movimento poetico. Si avrebbe il caso bizzarro d’una poesia<br />
che sul piano tematico sembra più vicina a <strong>Petrarca</strong> che a Dante, ma in cui<br />
<strong>Petrarca</strong> figurerebbe assente a livello di lingua e di stile.<br />
Nell’ultimo decennio però è cominciato un lavoro di revisione in proposito,<br />
di cui sono testimonianza il commento della Ebani ai Poemetti, in particolare la<br />
sua lettura del Vischio, che mette in risalto il tema petrarchesco dell’“invescamento”,<br />
intrecciato con reminiscenze virgiliane e dantesche; e l’articolo del<br />
Capovilla, che indaga sotto questo aspetto il <strong>Pascoli</strong> delle poesie giovanili, raccolte<br />
nelle Varie e in Myricae. D’altra parte già Pier Vincenzo Mengaldo,<br />
nell’Introduzione a Myricae del 1981 7 , aveva fatto notare il «vibrante legato<br />
“petrarchesco”» del v. 2 di Dall’argine: «Non ala orma ombra nell’azzurro e<br />
verde». Dopo aver fornito al lettore una serie di concordanze sintagmatiche e<br />
paradigmatiche tra il poemetto e il Canzoniere, la Ebani conclude: «Come per il<br />
6 Cfr. G. BARBERI SQUAROTTI, Simboli e strutture della poesia del <strong>Pascoli</strong>, Messina-Firenze,<br />
D’Anna, 1966; G. DEBENEDETTI, <strong>Pascoli</strong>: la rivoluzione inconsapevole. Quaderni inediti<br />
[1979], prefazione di Luigi Baldacci, Milano, Garzanti, 1994.<br />
7 G. PASCOLI, Myricae, introduzione di P. V. MENGALDO, note di F. MELOTTI, Milano,<br />
B.U.R., 1981; poi in P. V. MENGALDO, La tradizione del Novecento, nuova serie, Firenze, Vallecchi,<br />
1987, pp. 79-137, in particolare p. 114.<br />
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Giuseppe Nava<br />
Bordone, dietro c’è ancora <strong>Petrarca</strong>, e con <strong>Petrarca</strong> Agostino» 8 . A sua volta Capovilla<br />
contrappone alla scarsa presenza del <strong>Petrarca</strong> nelle antologie scolastiche<br />
pascoliane e agli «esigui riscontri verbali» da lui accertati in Myricae il «consistente<br />
e ripetitivo petrarchismo metrico» della prima raccolta, in particolar<br />
modo l’uso del genere strofico madrigalistico, «impiegato in tre delle quattro<br />
varietà morfologiche presenti nel Canzoniere»; e confermando e integrando i<br />
referti della Ebani sui Poemetti, aggiunge: «Ben altro confronto col <strong>Petrarca</strong><br />
deve essersi verificato dopo il ’95 (cioè in seguito al matrimonio di Ida e al dissolversi<br />
del “nido”), quando il <strong>Pascoli</strong> accentua la riflessione esistenziale e,<br />
ponendosi in latente dialettica col messaggio leopardiano, proietta la conclusione<br />
su dettagli e aspetti ciclici della realtà georgica e del mondo vegetale» 9 .<br />
Pur ribadendo con Paul Zumthor 10 che il procedimento dell’allegoria presuppone<br />
un codice interpersonale, e che al contrario, quando il codice di riferimento<br />
è soggettivo, siamo in presenza d’un uso simbolistico dell’allegoria, e pur<br />
continuando a ritenere che la cosiddetta “medievalità”, di cui si è fin troppo parlato<br />
nell’ultimo ventennio a proposito di <strong>Pascoli</strong>, riguardi più materiali costruttivi<br />
e situazioni topiche che non vere e proprie convergenze poetiche, se non<br />
forse nell’accezione in cui guarda indietro ai “primitivi” la pittura modernamente<br />
troublée dei Preraffaelliti, crediamo utile arricchire il quadro della presenza di<br />
<strong>Petrarca</strong> in <strong>Pascoli</strong> con una serie di referti linguistici e stilistici, limitati per<br />
ragioni di tempo a Myricae, ma indicativi della ampiezza e della fecondità dei<br />
rapporti pascoliani con la tradizione classica e volgare.<br />
Una prima fascia è costituita da voci lessicali e sintagmatiche, spesso connotate<br />
dalla disponibilità all’uso in sequenze allitteranti: memoria poetica e fonosimbolismo<br />
presiedono al loro reimpiego nel passaggio da testi petrarcheschi a<br />
testi pascoliani. Una poesia come La civetta, che risale ai primi anni Novanta ed<br />
è costruita su una fitta trama di rimandi interni, allitterazioni e assonanze, rivela<br />
a un’attenta lettura una ricca intertestualità con il Canzoniere, da cui peraltro la<br />
dividono, almeno in parte, la marcata tristezza esistenziale e la simbologia<br />
accentuatamente funebre: La civetta, 1-2: «Stavano neri al lume della luna / gli<br />
erti cipressi» (CCXXXVII, 37-38: «Sovra dure onde, al lume de la luna / canzon<br />
nata di notte in mezzo i boschi»; CLXIII, 8 «’l sentier m’è troppo erto»); La<br />
civetta, 3-7: «quando tra l’ombre svolò rapida una / ombra dall’alto: // orma<br />
sognata d’un volar di piume, / orma d’un soffio molle di velluto, / che passò<br />
l’ombre e scivolò nel lume» (XXIII, 107-109: «ch’a quei preghi il mio lume era<br />
8 G. PASCOLI, Primi poemetti, ed. cit., p. 89.<br />
9 G. CAPOVILLA, Elementi petrarcheschi in <strong>Pascoli</strong>, cit., p. 785.<br />
10 Cfr. P. ZUMTHOR, Semiologia e poetica medievale [1972], con un’intervista all’autore<br />
di Cesare Segre, traduzione di Mariantonia Liborio, Milano, Feltrinelli, 1973, in particolare le<br />
pp. 129-138.<br />
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<strong>Pascoli</strong> e <strong>Petrarca</strong><br />
sparito, / ed io non ritrovando intorno intorno / ombra di lei, né pur de’ suoi<br />
piedi orma»; CLXIII, 9-11: «Ben veggio io di lontano il dolce lume / ove per<br />
aspre vie mi sproni et giri, / ma non ò come tu da volar piume»; CXXV, 7-10:<br />
«men solitarie l’orme / foran de’ miei pie’ lassi / per campagne et per colli, /<br />
men gli occhi ad ogn’or molli» – e si ricordi che «orma» e «lume» sono voci di<br />
alta frequenza nel lessico petrarchesco, come del resto gli aggettivi contigui<br />
«rapido», «pallido» e «molle»; nella Civetta poi è ripresa, ma invertita, la rima<br />
lume:piume del sonetto CLXIII, 9-11); La civetta, 9 «ed i cipressi sul deserto<br />
lido» (CXXIX, 47: «et quanto in più selvaggio / loco mi trovo e ’n più deserto<br />
lido» – e vedi pure la corrispondenza tra la rima lido:nido nella Civetta, 9-11, e<br />
l’altra di CCLX, 3-6, nidi:lidi; anche qui si ha una variatio rispetto all’uso<br />
petrarchesco); La civetta, 11-12: «ognuno con tra i rami un nido / addormentato»<br />
(CCXXXVII, 31-32: «Deh or foss’io col vago de la luna / adormentato in<br />
qua’che verdi boschi»); La civetta, 15-16:«sonare, ecco, una stridula risata / di<br />
fattucchiera» (XCVII, 10-11: «et solo del suo nome / vo empiendo l’aere, che sì<br />
dolce sona»; CCLXX, 5-6 «l’angeliche parole / sonano in parte ove è chi<br />
meglio intende»; CCLXVIII: «’l suo chiaro nome, / che sona nel mio cor sì dolcemente»;<br />
CCCLII, 3-4: «le parole, / vive ch’anchor mi sonan ne la mente»: e<br />
in questi esempi il rapporto pascoliano è antifrastico, come spesso in lui nei<br />
confronti degli auctores: di <strong>Petrarca</strong> non meno che di Leopardi); La civetta, 19:<br />
«dal palpitar di tutta quella vita» (CCXII, 9-10: «Cieco et stanco ad ogni altro<br />
ch’al mio danno / il qual dì et notte palpitando cerco»); La civetta, 21: «Morte,<br />
che passi per il ciel profondo» (XL, 1-2: «S’Amore o Morte non dà qualche<br />
stroppio / a la tela novella ch’ora ordisco»; CCXII, 11: «sol Amor et madonna,<br />
et Morte, chiamo» – e frequente è la personificazione della morte in <strong>Petrarca</strong>;<br />
inoltre l’analogia sonno = morte, ricorrente nell’opera pascoliana e in Myricae<br />
presente in Mistero di Finestra illuminata, rimanda, oltre che alla nota massima<br />
omerica, a CCXXVI, 10-11: «Il sonno è veramente qual uom dice, / parente de<br />
la morte»); La civetta, 22-23: «passi con ali molli come fiato, / con gli occhi<br />
aperti» (CCCLV, 6-7: «ché natura a volar v’aperse l’ali, / a me diede occhi»).<br />
Come si vede, la campionatura delle concordanze è ricca e depone a favore<br />
non solo del fondo comune petrarchesco della nostra lingua poetica ma anche<br />
d’una giovanile lettura pascoliana del <strong>Petrarca</strong>, forse in parte mediata dall’istituzione<br />
scolastica ma non interamente riconducibile ad essa.<br />
Accanto all’impiego modulare di voci e sintagmi petrarcheschi, abbiamo poi<br />
dei veri e propri calchi, come in Sera d’ottobre, il cui incipit (1-2: «Lungo la<br />
strada vedi su la siepe / ridere a mazzi le vermiglie bacche») ricorda, in versione<br />
impressionistica, CCXXXIX, 31 («Ridon or per le piagge herbette et fiori»), e<br />
CCCX, 5 («Ridono i prati, e ’l ciel si rasserena» – e si pensi anche ai «fior vermigli»<br />
del sonetto XLVI); o come Ultimo canto, dove l’andamento sinuoso dell’apertura<br />
e il costrutto perifrastico che lo realizza (1-2: «Solo quel campo, dove<br />
io volga lento / l’occhio») sembrano rinviare al sonetto CXLIV, 9-11 («I’ vidi<br />
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Giuseppe Nava<br />
Amor che ’ begli occhi volgea / soave sì, ch’ogni altra vista oscura / da indi in<br />
qua m’incominciò apparere»), o al sonetto CCCLII, 1-2 («Spirto felice che sì<br />
dolcemente / volgei quelli occhi»), tanto più in presenza di un’altra concordanza<br />
sintomatica, anch’essa mascherata dall’uso coloristico a cui la piega <strong>Pascoli</strong>,<br />
deviandola dall’originaria connotazione psicologica (Ultimo canto 6 «nel cielo è<br />
un gran pallore di viola», cfr. CCXXIV, 8: «s’un pallor di viola et d’amor<br />
tinto»). È singolare che proprio queste due liriche della sezione In campagna,<br />
dove maggiormente si manifesta, secondo la critica, lo “stil nuovo” pascoliano,<br />
la sua decostruzione della sintassi poetica tradizionale, contengano più d’una<br />
tessera petrarchesca. Oltre alle già citate, si ricordi il distico paratattico di Sera<br />
d’ottobre («nei campi arati tornano al presepe / tarde le vacche»), in cui par di<br />
risentire l’eco animalizzata d’un noto incipit petrarchesco (XXXV, 1-2: «Solo et<br />
pensoso i più deserti campi / vo mesurando a passi tardi et lenti»: eco rinforzata<br />
dal «lento passo» del «povero» nei vv. 5-6 di Sera d’ottobre).<br />
Così funziona, per associazioni imprevedibili, la memoria poetica, così si<br />
realizza quel «veder nuovo e vedere d’antico», che il <strong>Pascoli</strong> teorizzerà nel<br />
Fanciullino come prerogativa del poeta. Anche l’aggettivo «ultimo», che figura<br />
con valenza mortuaria e quasi nichilistica nel titolo di una sezione, L’ultima<br />
passeggiata, e di due componimenti di Myricae, Ultimo canto e Ultimo sogno,<br />
ricorre spesso nel Canzoniere di <strong>Petrarca</strong>, poeta assai sensibile alla temporalità<br />
(XII, 3: «ultimi anni»; XXX, 18: «l’ultimo dì»; XXXVI, 10: «l’ultimo stral»;<br />
LVI, 13: «l’ultima partita»; CCVII, 86: «l’ultimo colpo»; CCXXXVII, 7: «l’ultima<br />
sera»; CCXXXIX, 25: «l’ultimo bisogno»; CCXCIV, 3: «l’ultimo suo<br />
passo»; CCCXXI, 13: «l’ultimo volo»; CCCXXIX, 1: «o ultimo momento»;<br />
CCCLXVI, 71: «l’ultime strida»; CCCLXVI, 88: «l’ultimo anno»; CCCLXVI,<br />
115: «l’ultimo pianto»; CCCLXVI, 137: «’l mio spirito ultimo»).<br />
È soprattutto a livello di rime che avviene l’incontro dei due autori: si veda,<br />
in Sera d’ottobre, 5-7, e in Ultimo canto,1-4, la rima lento: vento, che si trova<br />
già nella canzone XXVIII, 58:60; o, in Novembre, sempre della sezione In campagna,<br />
le rime chiaro:amaro (1:3), già attestata a rovescio nel sonetto CCXCVI,<br />
3:6, fiore:cuore (2:4), presente in versione speculare nel sonetto CCXV, 2:3, e<br />
sereno: terreno (6:8), ricorrente in CXXV, 67:70, CLXXIII, 1:4, e, in forma<br />
rovesciata, in CVIII, 1:4 e CCCXLX, 9:13.<br />
Altre volte infine <strong>Pascoli</strong> incrocia <strong>Petrarca</strong> con poeti classici o moderni su<br />
temi a loro comuni, come la già ricordata analogia omerica sonno = morte in<br />
Mistero, o l’effetto ottico dell’ingrandirsi delle ombre al tramonto nel Bove, la<br />
cui chiusa («crescono già, nere, / l’ombre più grandi d’un più grande mondo»)<br />
riprende il virgiliano «maioresque cadunt altis de montibus umbrae», ma anche<br />
il petrarchesco «Come ’l sol volge le ’nfiammate rote / per dar luogo a la notte,<br />
onde discende / dagli altissimi monti maggior l’ombra» (L, 15-17); o ancora<br />
l’«elce nera» del Maniero, 14, che associa il Carducci dell’ode Alle fonti del<br />
Clitumno, 33-34 («Qui pugni a’ verni e arcane istorie frema / co’l palpitante<br />
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maggio ilice nera») con il suo modello petrarchesco, «quel’ elce antiqua et<br />
negra», del sonetto CXCII, 10 (e al <strong>Petrarca</strong> rinviano altri luoghi del sonetto<br />
giovanile, dalla predilezione per i boschi, che si ritrova nella canzone CCXXX-<br />
VII, 11-12, «sannolsi i boschi, / che sol vo ricercando giorno et notte», e 38,<br />
«canzon nata di notte in mezzo i boschi», a voci e sintagmi come «l’ombre nel<br />
mio cuor cadenti» – CLXXXVIII, 9 –, «pensosa», «giogo», «Apennino»).<br />
Fitte sono anche le reminiscenze petrarchesche nella quasi ballata In cammino,<br />
collocata in chiusura di Myricae: in primo luogo le metafore del viaggio e<br />
del pellegrino, riferite al corso della vita e alla condizione dell’uomo, di ascendenza<br />
dantesca ma presenti anche nel Canzoniere: cfr. XV, LXIX, 9-11 («et per<br />
camino / agitandom’ i venti e ’l ciel et l’onde, / m’andava sconosciuto et pellegrino»),<br />
LXXXI, XCI, CCIV,CCXLIV, 14 («perché ’l camin è lungo, e ’l tempo<br />
è corto»), CCCXXXI, 20-24 («onde ’l camino / sì breve non fornir spero et<br />
pavento. / Nebbia o polvere al vento, / fuggo per più non esser pellegrino: / et<br />
così vada, s’è pur mio destino»; e si noti come le metafore creaturali del modello<br />
si trasformino in elementi simbolico-descrittivi nel <strong>Pascoli</strong>: In cammino, 3-4:<br />
«e tra la nebbia sente il pellegrino / le foglie secche stridere pian piano»),<br />
CCCLX, 49 e 129. Il sistema di rime petrarchesco camino:pellegrino:destino si<br />
ripropone significativamente nella prima e nell’ultima strofa di In cammino 1:3<br />
e 32:34:35, a riprova che i significanti metrici sono spesso i vettori della memoria<br />
e del senso della poesia. Altri echi petrarcheschi sono, nel componimento, 4<br />
(«pian piano», cfr. CXXIX, 62; «in via», cfr. LXXXVIII, 9); 9-10 («impresse<br />
nel pensiero / l’orma», cfr. CCCLX, 127-128 «Ch’alto vestigio / l’impresse al<br />
core»); 13 («Ed ecco»); 22 («Carro»); 32 («intento»; cfr. XVII, 8: «mentr’io son<br />
a mirarvi intento et fiso»; XXXV, 3: «et gli occhi porto per fuggire intenti»;<br />
CLVI, 12: «ed era il cielo a l’armonia sì intento»); 34 («il suo destino»: parolachiave<br />
in <strong>Petrarca</strong>, con alta frequenza di ricorsi).<br />
Alla luce del rapporto tematico, linguistico e metrico, che il <strong>Pascoli</strong> di Myricae<br />
intrattiene con l’auctor della nostra tradizione poetica (il rapporto con Dante si verrà<br />
intensificando e definendo, in direzione d’un uso simbolistico dell’allegoria, solo<br />
nell’ultimo decennio dell’Ottocento), si spiega l’omaggio esplicito reso a <strong>Petrarca</strong><br />
nella raccolta, sia pure attraverso una mediazione carducciana, con i tre madrigali<br />
del Lauro, ispirato antifrasticamente ai ricordi del soggiorno a Massa e pubblicato<br />
nella terza edizione del 1894. Il testo mostra in filigrana la presenza attiva del sonetto<br />
CCCXXVII della seconda parte del Canzoniere, quella in morte di Laura, la zona<br />
petrarchesca da <strong>Pascoli</strong> più originalmente frequentata, grazie a una reinterpretazione<br />
in chiave personale del manque della donna amata:<br />
Quel, che d’odore et di color vincea<br />
l’odorifero et lucido oriente,<br />
frutti fiori herbe et frondi (onde il ponente<br />
d’ogni rara excellentia il pregio avea),<br />
<strong>Pascoli</strong> e <strong>Petrarca</strong><br />
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Giuseppe Nava<br />
dolce mio lauro, ove habitar solea<br />
ogni bellezza, ogni vertute ardente,<br />
vedeva a la sua ombra honestamente<br />
il mio signor sedersi et la mia dea.<br />
Anchor io il nido di penseri electi<br />
posi in quell’alma pianta; e ’n foco e ’n gielo<br />
tremando, ardendo, assai felice fui.<br />
Pieno era il mondo de’ suoi honor’ perfecti,<br />
allor che Dio per adornarne il cielo<br />
la si ritolse: et cosa era da lui.<br />
L’incunabulo del Lauro è costituito da un sonetto di Poesie varie, Massa, ma<br />
laddove in quello era raffigurato un eden di intatta felicità, qui il sogno a sfondo<br />
amoroso, attivatore di poesia, si è dileguato e l’albero è stato tagliato, come ha<br />
osservato Cesare Garboli 11 : una cesura luttuosa è venuta a cadere tra la cellula<br />
originaria e la myrica, e ha improntato di sé il riuso del tema petrarchesco. Oltre<br />
al sonetto già ricordato, altri testi del <strong>Petrarca</strong> sono convocati a comporre la<br />
trama d’immagini e di allusioni del Lauro, dal sonetto CCLXIX, 1-2 («Rotta è<br />
l’alta colonna e ’l verde lauro / che facean ombra al mio stanco pensero», di cui<br />
s’avverte il controcanto ironico nella battuta del ragazzo contadino: «Faceva<br />
ombra, sa!»), alle liriche sulle chiome d’oro di Laura, vero e proprio leitmotiv<br />
del Canzoniere, che il <strong>Pascoli</strong> compendia nel sintagma impressionistico «l’oro<br />
di capelli sparsi» (vedi almeno, in proposito, CXCVI, 7-9: «et le chiome or<br />
avolte in perle e ’n gemme, / allora sciolte, et sovra òr terso bionde; // le quali<br />
ella spargea sì dolcemente, / et raccogliea con sì leggiadri modi, / che ripensando<br />
anchor trema la mente»; CCXXVII, 1-3: «Aura che quelle chiome bionde et<br />
crespe / cercondi et movi, et se’ mossa da loro, / soavemente, et sporgi quel<br />
dolce oro»), fino a lessemi come «odorato» (CLXXXV, 12-13: «ne l’odorato e<br />
ricco grembo / d’arabi monti»), «lucido» (CCXIX, 4: «giù per lucidi, freschi<br />
rivi et snelli»), «aurora» (CCXCI, 1-3: «Quand’io veggio dal ciel scender<br />
l’Aurora / co la fronte di rose et co’ crin d’oro, / Amor m’assale»), «snello»<br />
(variante pascoliana dello «svelto alloro» della canzone CCCXXIII, 53), «imperatore»<br />
(CCLXIII, 1-2: «Arbor victoriosa triumphale, / honor d’imperadori et di<br />
poeti»), «viole» (CV, 64; CXXVII, 29; CLXII, 6; CCVII, 46; CCCLII, 5-6: «già<br />
ti vid’io, d’onesto foco ardente, / mover i pie’ fra l’erbe et le viole»); «puro»<br />
(del fiume Frigido: CLXII, 9: «o puro fiume»). Da ultimo, ancora una volta il<br />
sistema di rime conferma il nesso intertestuale e tematico tra i due poeti: 8:10<br />
oro:alloro (XXIII, 161:167; CXC, 2:3; CCXCI, 2:7; CCCXXIII, 51:53;<br />
CCCXXV, 16:22), e 14:16 sole:viole (CLXII, 6:7: viole:sole; CCCLII, 2:6).<br />
11 G. PASCOLI, Poesie e prose scelte da Cesare Garboli, Milano, Mondadori, 2002, vol. I,<br />
pp. 991-998.<br />
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<strong>Pascoli</strong> e <strong>Petrarca</strong><br />
Fin qui la pur sorprendente fenomenologia dei rapporti tra il Canzoniere e<br />
Myricae si colloca soprattutto nell’ambito dell’intertestualità linguistica, della<br />
metrica e del rimario, della citazione allusiva, dell’omaggio, con qualche condivisione<br />
di suggestioni tematiche a livello creaturale e della temporalità. Con i<br />
sonetti di Colloquio però si ha una vera e propria fruizione creativa della lirica<br />
petrarchesca: nella visione, il figlio si rivolge alla madre morta con inflessioni e<br />
cadenze, che ricordano quelle di <strong>Petrarca</strong> nelle rime in morte di Laura, la sezione<br />
del Canzoniere prediletta dal <strong>Pascoli</strong>, come attesta anche la scelta dell’antologia<br />
Sul limitare, dove sono riportati solo i componimenti CCLXXIX, «Se<br />
lamentar augelli, o verdi fronde», col titolo Visione, e CCCII, «Levommi il mio<br />
pensier in parte ov’era», col titolo In morte, entro una cornice intitolata<br />
Consolazione dalla morte. Si pensi, per esempio, nel primo sonetto, all’apparizione<br />
della madre sulla soglia della casa natia del poeta, al suo «girar gli occhi»<br />
in cerca della «famigliuola», al suo «sospirare»: stilemi inconfondibilmente<br />
petrarcheschi, che connotano le epifanie di Laura, in vita e in morte (CLIX, 9-<br />
14: «Per divina bellezza indarno mira / chi gli occhi de costei già mai non vide /<br />
come soavemente ella gli gira; // non sa come Amor sana, et come ancide, / chi<br />
non sa come dolce ella sospira, / et come dolce parla, et dolce ride»; XVI, 3: «la<br />
famigliuola sbigottita»).<br />
Ma ancora più rivelatore è il modellarsi della confessione di disamore per la<br />
vita, nella chiusa di questo sonetto (13-14: «la vita / che tu mi desti – o madre,<br />
tu! – non l’amo»), sulle parole dell’io lirico nella canzone CCCXXXI, 25-27<br />
(«Mai questa mortal vita a me non piacque / […] / se non per lei che fu ’l suo<br />
lume, e ’l mio», poi ribadite nella canzone CCCLX, 15: «e ’n odio ebbi la<br />
vita»). È pur vero che in <strong>Petrarca</strong> la disaffezione al vivere è correlata strettamente<br />
alla morte della donna amata, mentre in <strong>Pascoli</strong> si pone come un dato originario,<br />
ma l’analogia è sorprendente, e si prolunga nell’asserzione dolente del<br />
secondo sonetto sull’impossibilità di vivere senza la madre, che trova i suoi<br />
equivalenti in altre poesie del Canzoniere in morte di Laura: Colloquio II, 1-4<br />
(«Non piangere. È uno sforzo così mesto / viverla senza te questa tua vita! / ad<br />
ogni gioia è tanto dolor questo / subito ricordar te, seppellita!», cfr. CCLXVIII,<br />
29-31: «Ma io, lasso, che senza / lei né vita mortal né me stesso amo, / piangendo<br />
la richiamo», e 9-11: «Poscia ch’ogni mia gioia / per lo suo dipartire in pianto<br />
è volta, / ogni dolcezza de mia vita è tolta»; nonché CCCLIX, 34-35: «Ma io<br />
che debbo altro che pianger sempre, misero et sol, che senza te son nulla?»).<br />
A questo punto però si produce nel rapporto col modello un vero e proprio<br />
rovesciamento: mentre infatti in <strong>Petrarca</strong> è Laura a consolare il poeta, esortandolo<br />
a non piangere (CCCXLII, 13: «Non pianger più: non m’ài tu pianto<br />
assai?»), in <strong>Pascoli</strong> è il figlio a cercare di consolare la madre, con un’esortazione<br />
che si rinnova da un sonetto all’altro del ciclo, «Non piangere», convergente<br />
con l’analogo «Non pianger più» di Consolazione del coevo Poema paradisiaco.<br />
È un rovesciamento coerente col carattere fantasmatico della evocazione<br />
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Giuseppe Nava<br />
della madre, umbra dolente che diventa l’occasione per un’affabulazione consolatoria<br />
del soggetto deprivato. Resta la singolarità del riuso dei lamenti d’amore<br />
petrarcheschi per il colloquio con la madre. Come non pensare all’interpretazione<br />
psicanalitica che di Laura ha dato Umberto Saba in un pezzo di Scorciatoie e<br />
raccontini?<br />
Laura è certamente esistita. È esistita; ed era, alla luce di tutti i giorni, una<br />
bionda signora; nelle profondità inaccesse (infantili) dell’anima del poeta, era<br />
sua madre; era la donna che non si può avere 12 .<br />
12 U. SABA, Tutte le prose, a cura di A. STARA, saggio introduttivo di M. LAVAGETTO,<br />
Milano, Mondadori, 2001, p. 12.<br />
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