Note sulla funzione del cibo in Basile, Cortese e Sgruttendio

MARIA PANETTA
Note sulla funzione del cibo
in Basile, Cortese e Sgruttendio
La lettura che mi accingo a proporre dei testi in dialetto napoletano di
Basile, Cortese e Sgruttendio si basa su un assunto ben preciso: l’idea di studiare
e analizzare tutte le opere dialettali di questi tre autori come se costituissero
un unico corpus. Questo perché essi appartengono allo stesso periodo storico 1 ;
hanno lo stesso retroterra culturale 2 ; scrivono nello stesso dialetto 3 , adoperando
forme e stilemi simili, o addirittura identici, e infine perché nella tramatura delle
varie opere dei tre scrittori si può evidenziare, ad una lettura anche non particolarmente
approfondita, il ricorrere di numerose citazioni e rimandi interni, ai
propri ed agli altrui testi.
1 Basile e Cortese, compagni di scuola, vissero rispettivamente dal 1575 al 1632, e dal
1575 al 1627; Sgruttendio, comunque, nel 1678 era già sicuramente morto da tempo: su di
lui, cfr. almeno E. DU REVE, Un poeta dialettale del Seicento, Napoli, Dekten e Rocholl,
1912.
2 I primi due nati a Napoli; il terzo, nonostante le incertezze e i dubbi sulla sua reale
identificazione, comunque di matrice culturale napoletana. Muscettola ha rivelato l’identità di
Sgruttendio (tale D. Giuseppe Storace D’Afflitto): cfr. M. RAK, Napoli gentile. La letteratura
in «lingua napoletana» nella cultura barocca (1596-1632), Bologna, Il Mulino, 1994.
3 Sull’uso del dialetto cfr. A. QUONDAM, Dal manierismo al barocco (Per una fenomenologia
della scrittura poetica a Napoli tra ’500 e ’600), in Storia di Napoli, vol. V, Napoli, Ed.
Storia di Napoli, 1972, pp. 337-640; La «locuzione artificiosa»: teoria ed esperienza della
lirica a Napoli nell’età del manierismo, a cura di G. Ferroni e A. Quondam, Roma, Bulzoni,
1973, pp. 126-42. In Cortese e Basile il dialetto è adoperato come organismo linguistico
subalterno, non risultato di simpatie democratiche o populistiche ma che punta ad elevare a
dignità letteraria autonoma quella dimensione linguistica in alternativa (almeno strumentale)
alla «locuzione» aristocratica predicata dai vari Pellegrino e Corsuto. Cfr. anche P. FASANO,
Gli incunaboli della letteratura dialettale napoletana («chelle lettere che fecero cammarata
co la Vaiasseida»), in Letteratura e critica. Studi in onore di Natalino Sapegno, a cura di W.
Binni, vol. II, Roma, Bulzoni, 1975, pp. 443-88.
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Dal punto di vista del cibo, in particolare, emerge, alla fine, una sostanziale
omogeneità, soprattutto nella scelta dei cibi da nominare e nella ideale graduatoria
di appetibilità degli stessi.
Preciso che il corpus dei testi esaminati si restringe a: Lo cunto de li cunti
(tra il 1634 e 1636) e le Muse napolitane (Napoli, Domenico Maccarano, 1635)
per Basile; la Vaiasseide (forse 1604; ed. Napoli, Longo, 1612), il Micco Passaro
’nnammorato (Napoli, T. Longo, 1619), il Viaggio di Parnaso (Venezia,
Misserini, 1621), Lo Cerriglio ’ncantato e qualche poesia sparsa per Cortese 4 ;
infine, il canzoniere neobernesco 5 di Sgruttendio, La tiorba a taccone 6 (1646).
Partendo da Basile, un discorso a parte è da fare per Lo cunto de li cunti,
unica opera in prosa dell’ideale corpus da me prescelto: come in ogni raccolta
di fiabe, qui il cibo riveste un ruolo molto importante, sia come componente
descrittiva, sia per lo svolgimento dell’azione stessa.
Già nell’Introduzione, l’espediente cui ricorre il disperato re di Vallepelosa
per riuscire a strappare un sorriso alla tristissima figlia Zoza è quello di far aprire,
davanti all’ingresso della reggia, «’na gran fontana d’ueglio» 7 («una grande
fontana d’olio») 8 , per evitare gli schizzi della quale i passanti, con buona probabilità,
sarebbero scivolati o si sarebbero urtati tra loro: anche se qui uno degli
ingredienti-base della dieta mediterranea non è utilizzato propriamente in qualità
di cibo ma come strumento per ottenere un effetto (cioè per le sue proprietà
di lubrificante), comunque sembra indicativo che proprio l’olio, con i suoi vari
4 Farò sempre riferimento all’edizione delle Opere poetiche curata da E. Malato, Roma,
Edizioni dell’Ateneo, 1967, in due volumi.
5 Ovviamente in riferimento al Francesco Berni (Lamporecchio [Pistoia] 1497/8-Firenze
1535) autore di un noto rifacimento dell’Orlando innamorato “fiorentinizzato” e di una raccolta
di Rime, edite postume a partire dal 1537, che raccoglie la tradizione della poesia burlesca
toscana, facente capo a Burchiello e Pulci.
6 Sulla quale cfr. G. FULCO, La Tiorba a taccone e la «Questione Sgruttendio», in Storia
della letteratura italiana, diretta da E. Malato, vol. V, La fine del Cinquecento e il Seicento,
Roma, Salerno, 1997, pp. 836-41; P. FASANO, La questione Sgruttendio, in «Giornale storico
della letteratura italiana», LXXXVIII, 1971, fasc. 461, pp. 49-81 (contrario all’attribuzione
del canzoniere a Cortese); Barocco napoletano, a cura di G. Cantone, Roma, Ist. Poligrafico
dello Stato, 1992, pp. 383-409, soprattutto alle pp. 385-9; E. MALATO, La scoperta di un
poeta: Giulio Cesare Cortese, in «Filologia e critica», II, fasc. 1, gennaio-aprile 1977, pp. 35-
117. 7 Cfr. Lo cunto de li cunti overo lo Trattenemiento de peccerille de Gian Alesio
Abbattutis, a cura di M. Petrini, vol. I, Roma-Bari, Laterza, 1976, p. 8 (d’ora in poi questa
edizione verrà citata come Lo cunto).
8 Tra parentesi quadre verrà spiegato il significato di singole parole dialettali poco chiare;
tra due tonde o in nota riporterò la traduzione di Croce in italiano: cfr. Il Pentamerone ossia
La Fiaba delle fiabe, a cura di B. Croce, con prefazione di Italo Calvino (1974), Bari, Laterza,
1982, p. 4 (citata in seguito come Il Pentamerone, o ed. Croce).
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significati simbolici 9 , venga adottato a rimedio contro la «malenconia» apatica
della principessa.
Sempre nella ’ntroduzzione al Cunto, tre fate cui Zoza si rivolge in cerca di
aiuto le donano ognuna un frutto secco – «’na bella noce», «’na castagna» e
«’na nocella» («una nocciuola») 10 – da utilizzare, come avviene sempre nelle
fiabe, solo in caso di effettiva ed impellente necessità (sono quelli che Propp 11
definirebbe «mezzi magici»): i tre frutti, schiudendosi, daranno vita a un nanetto,
a una chioccia dai pulcini d’oro e a una bambola, tramite i quali Zoza attirerà
l’attenzione dell’amato principe, ingannato dalla schiava nera 12 . Egualmente,
nel cunto Le tre cetra (I tre cedri, V. 9) – che ispirerà a Carlo Gozzi la più nota
fiaba L’amore delle tre melarance (1761) – da tre cedri, appunto, usciranno tre
fanciulle bianche come la ricotta e rosse come le fragole (e il sangue), l’ultima
delle quali sposerà il recalcitrante e incontentabile principe Cenzullo. Ancora,
ad es., in Li sette palommielle (I sette colombi, IV. 8), per non aver condiviso
una «nocciuola» con un gatto dispettoso, Cianna viene scoperta dall’orco e
cominciano tutta una serie di traversie che precipitano e si risolvono nel lieto
fine. Dunque, il cibo come elemento di scioglimento della trama.
Alla fine dell’Introduzione, poi, si rileva una dichiarazione di principio, che
giustifica la stesura stessa dell’opera in termini curiosamente collegati alla sfera
del gusto. Il principe Taddeo, infatti, apprestandosi ad ascoltare i racconti delle
dieci donne «chiù provecete e parlettere» 13 («più svelte e chiacchierine») 14 della
città, dice: «Non è chiù cosa goliosa a lo munno, magne femmene meie, quanto
lo sentire li fatti d’autro, né senza ragione veduta chillo gran Felosofo mese l’utema
felicità de l’ommo in sentire cunte piacevole, pocca ausolianno cose de
gusto se spapurano l’affanne, se dà sfratto a li penziere fastidiuse, e s’allonga
la vita» 15 . E, non a caso, a questa dichiarazione di principio segue un dato di
9 È possibile che dietro l’immagine dell’olio si celi anche un’allusione sessuale: cfr. V.
BOGGIONE-G. CASALEGNO, Dizionario storico del lessico erotico italiano, Milano, Longanesi,
1996, 2.13.
10 Non a caso, data l’elevata pregnanza simbolica del seme che racchiude la vita in una
scorza dura, da frantumare.
11 Cfr. V. J. PROPP, Morfologia della fiaba (1928), Torino, Einaudi, 1966.
12 Anche nella Gatta cennerentola da un dattero donato viene fuori una fata.
13 Cfr. Lo cunto, cit., p. 13.
14 Cfr. Il Pentamerone, cit., p. 11 dell’Introduzione. I nomi delle quali rimandano, senza
dubbio, almeno al catalogo delle “orribili donne” citate nella Tiorba: «Zeza sciancata, Cecca
storta, Meneca gozzosa, Tolla nasuta, Popa gobba, Antonella bavosa, Ciulla musuta, Paola
scerpellata, Ciommetella tignosa e Iacova squarquoia» (cfr. p. 11).
15 Cfr. Lo cunto, cit., p. 13. Cfr. Il Pentamerone, cit., pp. 11-2 dell’Introduzione: «non è
cosa più appetitosa al mondo, femmine mie rispettabili, che il sentire i fatti altrui, né senza
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fatto: ogni giorno, infatti, la combriccola si ritroverà «sotto ’no paveglione
[padiglione] commogliato [coperto] da ’na pergola d’uva» 16 e, solo dopo aver
banchettato, «se darrà prenzipio a chiacchiarare» 17 .
Così, anche nell’Introduzione alla giornata quinta, un’altra indicazione di
poetica viene “messa in bocca” a Cola Iacovo, lo scalco: «Fu sempre ’nsipeto
[insipido], signure mieie, chillo gusto che non ha quarche rammo [ramo] de
iovamiento [giovamento]» 18 . Infine, la conclusione («scompetura») del Cunto:
«e buon prode ce faccia, e sanetate, ch’io me ne venne a pede a pede co ’na
cocchiarella de mele» 19 ; insomma, una sorta di miscere utile dulci.
Nella giustificazione scherzosa del poemetto della Vaiasseide, Cortese, parlando
di tutti gli antichi che vollero sperimentare lo sfarzo del vivere come una
«vaiassa» 20 , con abitudini femminili, si esime dal farne l’elenco «ca cchiú priesto
se poteriano contare a uno a uno tutte li vruoccole che se magnano la
Quaraisema a Napole, tutte le cetrangola [aranci amari] che se spremmeno,
tutte le zeppole che sguigliano 21 »; poi chiede ai «letture sapute» di perdonare
gli errori che troveranno nel suo componimento, considerando che «non me
scappa pe le brache l’arte refettoria 22 de Tullio né la grammateca pelosa 23 »:
dunque dichiarazioni di poetica in termini allusivi alla sfera del mangiare.
Tra i sonetti introduttivi all’opera, interessante uno di un immaginario
Smorfia, Accademeco Pacchiano:
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«Canta, Poeta, canta»,
decean le vaiasselle
A remmore de cóncole [conche] 24 e scotelle.
Ed isso le respose:
«Che me darrite, po’, sninfie moccose [ninfe moccolose]?»
ragione veduta quel gran filosofo [allude ad Aristotele, ma è citazione burlesca] mise l’ultima
felicità dell’uomo nell’ascoltare racconti piacevoli; perché, porgendo l’orecchio a cose di
gusto, svaporano gli affanni, si dà lo sfratto ai pensieri fastidiosi e si prolunga la vita».
16 Cfr. Lo cunto, cit., p. 13; Il Pentamerone, cit., p. 11, per la traduzione.
17 Cfr. Lo cunto, cit., p. 14. Cfr. Il Pentamerone, cit., p. 11: «si darà principio alle chiacchiere».
18 Cfr. Lo cunto, cit., vol. II, p. 378; Il Pentamerone, cit., vol. II, p. 466.
19 Cfr. Lo cunto, cit., p. 439; Il Pentamerone, cit., p. 535: «e buon pro e sanità vi faccia,
ché io me ne venni via, passo passo, con un cucchiaietto di miele».
20 Cfr. R. ANDREOLI, Vocabolario napoletano-italiano, Salerno, La Puteoli Libri, 2000:
serva, fantesca, fante.
21 Si producono in grande abbondanza (p. 18).
22 L’arte retorica di M. Tullio Cicerone.
23 Grammatica barbosa; cfr. Lo Cerriglio ’ncantato del Cortese, VI, 4.6.
24 Tra parentesi quadre verrà sempre data la traduzione dei termini dialettali di non immediata
comprensione.

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Tanno disse Paciona
Co no trépete ’n capo pe corona:
«Averrai, commo Re de la cocina,
No spito [spiedo] ’mmano e ’ncuollo na mappina 25 ».
Nel primo canto del poemetto compare una delle numerose descrizioni femminili
in termini di cibo, parodie in stile bernesco della bellezza muliebre celebrata
dai petrarchisti del Cinquecento:
Songo le vaiasselle iusto iusto
Cenère [morbide] e ianche commo na rapesta [rapa],
Coloritelle [di pelle scura] propio commo arrusto
E saporite cchiú ca n’è l’agresta [uva acerba] (I. 11. 1-4)
[...]
Rosecarelle [croccanti] comme so’ l’antrite [noci]. (I. 16. 8)
Come nel celebre sonetto del Berni In lode della sua donna 26 , Cortese finge
di esaltare la bellezza, la grazia e le virtù delle «vaiasse», mediante termini di
confronto non certo lusinghieri 27 ! Forse, l’unica nota davvero positiva, nella
descrizione di queste servette, è la constatazione della loro abilità culinaria:
Ora le vertolose qualetate
Chi sarrà chillo che le pozza dire?
25 Uno strofinaccio addosso.
26 F. BERNI, Sonetto alla sua donna, in ID., Rime burlesche, a cura di G. Bàrberi
Squarotti, Milano, Rizzoli, 1991, XXIII, p. 103: «Chiome d’argento fino, irte e attorte/
Senz’arte intorno ad un bel viso d’oro;/ Fronte crespa, u’ mirando io mi scoloro,/ Dove spunta
i suoi strali Amor e Morte;/ Occhi di perle vaghi, luci torte/ Da ogni obietto diseguale a loro;/
Ciglie di neve, e quelle, ond’io m’accoro,/ Dita e man dolcemente grosse e corte;/ Labra di
latte, bocca ampia celeste;/ Denti d’ebeno rari e pellegrini;/ Inaudita ineffabile armonia;/
Costumi altèri e gravi: a voi, divini/ Servi d’Amor, palese fo che queste/ Son le bellezze della
donna mia».
27 Cfr. FASANO, Gli incunaboli della letteratura dialettale napoletana, cit., pp. 443-88. A
differenza di Berni, in Cortese vi è opposizione tra una cornice esterna che annuncia un elenco
di bellezze e la presentazione, all’interno della stessa, di una serie di reali bruttezze.
«All’interno di questa cornice sono rappresentate non più come nel sonetto berniano delle
apparenti bellezze che sono in realtà bruttezze (’viso d’oro…’), ma delle bruttezze tout court,
sconciamente sottolineate anzi dal linguaggio triviale» (p. 477). «Anche dove resta qualcosa
del meccanismo berniano (connotazioni apparentemente positive), l’equivoco è subito dissipato
dalla bassezza e scurrilità del linguaggio […] Allora fra res e parola non c’è più la divaricazione
straniante dell’esempio berniano: al contrario, il dialetto realizza una perfetta convenienza
del livello linguistico alla cosa rappresentata (bruttezza immonda e abietta), recuperando
(e qui Cortese si ricongiunge, nel fine, a Berni) appunto l’equilibrio classicistico fra
parola e cosa alterato dal petrarchismo ‘artificioso’» (p. 479).
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Lloro sapeno fare le frittate,
Maccarune e migliaccie 28 da stupire,
Le nobele pignate mmaretate 29 ,
Zéppole ed autre cose da stordire,
Agliata 30 e sàuze, e mille aute sapure,
Cose de cannarute [ghiottoni] e de Segnure. (I. 15)
In termini poco edificanti, viene anche stabilita una relazione tra la sfera
mangereccia e quella sessuale: numerosissime le metafore oscene, basate su
giochi di parole che coinvolgono la sfera culinaria. Ad es., Cortese raccomanda
le «vaiasse» come donne che possono insegnare facilmente il sesso, perché
assai esperte e facili da conquistare:
Falle quattro carizze, àmale sulo,
Ca de manciare non te pò mancare:
Schitto [solo che] tu le dinghe no cetrulo,
De pettorina 31 te fa satorare,
De cótene [cotiche] te carreca no mulo,
E te dà quanto maie pòte aboscare 32
E te ietta da súso a la fenestra
Pe fi’ a lo vruodo e pe fi’ a la menestra. (I. 19)
Questi ultimi tre versi danno la misura dell’importanza del cibo e forse
soprattutto della fame 33 che allora si pativa, per cui viene sottolineata come pre-
28 Migliacci = torte di farina di granturco, con ciccioli di maiale, provola e pezzetti di
provolone.
29 Il “pignato grasso” o “pignato maritato” è una sorta di minestra fatta di cavoli, prosciutto,
lardo etc., considerata allora il capolavoro della cucina napoletana ed esaltata in contrapposizione
alla “olla potrida” vantata dagli spagnoli (cfr. la nota di Croce, p. 29 dell’edizione
Laterza 1982 cit.). Cfr. anche G. B. DEL TUFO, Ritratto o modello delle grandezze, delitie
e meraviglie della nobilissima Città di Napoli, a cura di C. Tagliareni, Napoli, Agar, 1959,
pp. 46 e sgg.; B. ZITO detto IL TARDACINO, Annotaziune e Schiarefecaziune [alla Vaiasseide],
in G. C. CORTESE, La Vaiasseida, Napoli, Ottavio Beltrano, 1628, pp. 93-4.
Ecco una ricetta del Tardacino, nella sua Difesa della «Vaiasseide», Napoli 1628, cit., p. 93:
«Pocca pegnato mmaretato se dice a Napole chillo che se mmarita co sta dote: se piglia no
pegnato granne, e dintro se nce mette no buono piezzo de carne de ienco [manzo], grassa, appresso
no capone mpastato, po’ na gallina casareccia, no sauseccione de la Costa, na fella de verrinia,
quatto cape de sauciccie, cervellate, no piezo de caso mostrato, ossa mastra, spiezie quanto
abbasta; e po’ cotte che songo tutte ste cose, se nce mette na bella torzata de foglia, le cimme
cimme, e se lassano vollere soave soave; po’lassale arreposare no poco, e bí che magne!».
30 Minestra d’agli, ignota in città e usata dai campagnoli come cibo per i mietitori.
31 Pancetta di maiale, ma qui, in senso traslato, organo genitale femminile.
32 Quanto riesce a procurarsi.
33 Sulla fame cfr. P. CAMPORESI, Il paese della fame, II ed. accresciuta, Bologna, Il
Mulino, 1985 (I ed. Bologna, Il Mulino, 1978); ID., La terra e la luna: alimentazione folclore
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ziosa qualità di una donna la sua generosità nel rifocillare il proprio uomo; inoltre,
si viene ad innescare un’implicita associazione con la ben diversa consuetudine
della Cecca sgruttendiana, che più di una volta rovescia dall’alto, addosso
all’impaziente spasimante, il contenuto del suo orinale.
Se si confrontano i versi citati con quelli di qualche marinista 34 , salta maggiormente
all’occhio la differenza d’intonazione e l’intenzione parodica dei dialettali.
Ad esempio, il sonetto Ninfa che si ciba di fragole, di Giuseppe
Salomoni, recita così:
Mentre la bella bocca onde talora
Cibi la mia, famelica amorosa,
colà sedendo in su la piaggia erbosa
cibavi oggi di fraghe 35 , o bella Flora;
io, che poco lontan facea dimora
nel grembo assiso a la verdura ombrosa,
con mente insieme stupida e bramosa
mandai dal cor queste parole alora:
– O bocca, alta cagion de le mie faci,
quanto somigli il cibo delicato
di cui pascer te stessa or ti compiaci!
De le fraghe hai l’odor nel dolce fiato,
de le fraghe il sapor ne’ cari baci,
de le fraghe il color nel labbro amato 36 .
Come termine di confronto, si scelga qualcuno dei numerosissimi sonetti
indiavolati dello Sgruttendio in lode della sua Cecca 37 , musa ispiratrice del
Canzoniere della Tiorba a taccone: riguardo alla bocca, in particolare, ecco tre
versi del sonetto A la facce ed a la vocca de Cecca (p. 528):
società, Milano, Il Saggiatore, 1989; G. COCCHIARA, Il paese di Cuccagna e altri studi di
folklore, II ed., Torino, Boringhieri, 1980 (I ed. Torino, Einaudi, 1956); ID., Il mondo alla
rovescia, II ed., Torino, Boringhieri, 1981 (I ed. Torino, Boringhieri, 1963).
34 Sui lirici marinisti, cfr. B. CROCE, Sensualismo e ingegnosità nella lirica del Seicento,
in ID., Saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Bari, Laterza, 1962, pp. 363-422; G. DI
PINO, Tematica dei lirici secentisti, in ID., Studi di lingua poetica, Firenze, Le Monnier, 1961,
pp. 89-112.
35 La stessa immagine è ripresa dal marinista Tiberio Sbarra, nel componimento Il panierino
di fragole e rose, in Lirici marinisti, a cura di B. Croce, Bari, Laterza, 1910, p. 188.
36 Cfr. Opere scelte di G. B. Marino e dei Marinisti, a cura di G. Getto, vol. II, Torino,
UTET, 1954, p. 468.
37 Di una Cecca si parla anche nelle lettere che precedono la Vaiasseide, attribuite variamente
a Basile (Imbriani, Rocco, Croce, Nicolini, Petrini), Cortese (Galiani, Martorana), o
divise tra entrambi (Russo, Nigro, Malato, Fasano). Per il topos della bruttezza femminile,
cfr. R. MACCHIONI JODI, Poesia bernesca e marinismo, in ID., Poesia cultura e tradizione,
Urbino, Argalia, 1967, pp. 61-7.
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O vocca assai cchiú doce de le zeppole [frittelle]
Quanno so’ chiene de cannella e zuccaro,
Pastose, molle, e senza le rechieppole 38 : (I. XVII. 9-11)
E questa è una descrizione piuttosto cortese e lusinghiera! Ma il tono generale
del canzoniere è decisamente diverso:
Cecca se chiamma la Segnora mia,
La facce ha tonna comme a no pallone;
Ha lo colore iusto de premmone [polmone]
Stato no mese e cchiú a la vocciaria [macelleria]. (I. III. 1-4)
[...]
è cchiú vavosa che non è l’anguilla,
cchiú saporita che non so’ le spere 39 :
Bellottola cchiú assai d’Annuccia e Milla 40 . (I. III. 9-11)
Laddove è da notare l’ispirazione schietta, sì, ma solo apparentemente popolare,
perché l’allusione ad Annuccia e Milla fa pensare a un riferimento, tra le
righe, all’Eneide (Anna è la sorella di Didone; Milla è la vergine Camilla) 41 e
denuncia, quindi, la matrice colta 42 di questa poesia dialettale, in cui l’uso dell’elemento
popolare vuole essere solo studiata alternativa al codificato linguaggio
petrarchistico.
Ancora, notevole il sonetto Laude de Cecca (I. XIII. 1-8, p. 524):
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Pozza cade’ dinto a na cacamagna 43 ,
E ’scíreme le bòzzole [pustole] e la rogna,
Si non sì doce comme na lasagna
E cchiú pastosa che non è la nzogna.
Sse zizze che me teneno ’n coccagna 44
So’ retonnelle comm’a doi cotogna,
Sso pietto liscio cchiú de na castagna
Pare no giesommino catalogna 45 ;
38 Senza pieghe, ben imbottite.
39 Tipo di mollusco.
40 Dechiara lo nomme e la bellezzetudene cosa de la Sdamma soia, p. 514.
41 Ringrazio, per questa delucidazione, il Prof. Mario Scotti.
42 Cfr. M. PIERI, Rec. a G. C. CORTESE, Opere poetiche (ed. critica con note e glossario a
cura di E. Malato, Roma, Ed. dell’Ateneo, 1967), in «Lettere italiane», a. XXIII, n. 3, lugliosettembre
1971, pp. 435-7.
43 Carcere per la feccia del popolo.
44 Mi deliziano.
45 Gelsomino catalano.

Note sulla funzione del cibo in Basile, Cortese e Sgruttendio
Se accogliamo il suggerimento di Michele Rak 46 , potremmo accostare questo
sonetto anche a certi celebri testi guidoneschi 47 come l’Arte della forfantaria 48 ,
in cui Gian Pitocco enumera le bellezze della lavandaia concupita:
Gian Pitocco fornaio innamorato
De la bella Grisuola lavandaia,
Avea venduto il forno a buon mercato,
E comprato una cetra molto rara, (vv. 1-4)
[…]
Grisuola bella, Grisuola gentile,
Più dolce che non è la poverata,
Più tonda che capretta a mezzo aprile,
Più saporita che non è l’agliata,
Più d’una colombina signorile,
E mollesina più de l’insalata,
Più delicata che non è il fagiuolo,
E più sonora assai d’un russignuolo. (vv. 17-24, p. 336)
Una netta relazione si viene a stabilire, poi, tra la gravidanza e il cibo: nel
cunto La cerva fatata (I. 9), la regina rimane gravida solo annusando l’odore del
cuore di un drago marino, cucinato da una vergine, e figliano anche i mobili
della stanza 49 ; in Petrosinella (II. 1) una donna incinta, presa da un’improvvisa
voglia, coglie il prezzemolo dall’orto di un’orca ed è poi costretta a prometterle
la figlia che partorirà.
Nel canto secondo della Vaiasseide, sono rilevabili una serie d’interessanti
notazioni di costume sugli usi popolari del tempo riguardo al momento del
parto, concernenti spesso anche alcune pietanze: ad es., l’abitudine di porre
zucchero e cannella sotto la lingua del neonato, o un pizzico di sale pestato
nella vagina della bimba, dicendo «Te’, ca cchiú saporitella/ sarrà quanno hai
po’ lo marito a lato» (II, p. 43), e dandole poi da bere un succo ottenuto
pestando maggiorana, fagiolaria, ruta, menta, canfora e cicerbita, affinché non
soffra mai di male al ventre; e ancora la consuetudine di somministrare alla
neo-mamma vino greco non annacquato, torta e carne di piccione, ungendola
con olio di lauro, acqua, cimino e zucchero fino, per alleviarle le fatiche del
parto.
46 Cfr. RAK, Napoli gentile, cit., soprattutto alle pp. 367-98.
47 Guidone = vagabondo, furfante.
48 Cfr. G. C. CROCE, L’arte della furfanteria. Cantata da Gian Pitocco alla sua signora.
Opera guidonesca dell’accademico Calcante. Drizzata alla baronia di Campo di Fiore, in
Ferrara e in Bologna, per gli eredi di Bartolomeo Cochi, 1622.
49 Cfr. Il Pentamerone, cit., pp. 91-2.
157

Maria Panetta
Abbondano, poi, i banchetti: nell’Introduzione al Cunto; in Peruonto; La
gatta cennerentola (a base di: «pastiere» 50 , «casatielle» 51 , «porpette», «maccarune»,
«graviuole» o ravioli) 52 ; Lo mercante; La vecchia scortecata; Cagliuso;
La palomma (La colomba); Cannetella; Lo scarafone, lo sorece e lo grillo; in
tutti i poemetti cortesiani, nelle egloghe di Basile etc.
Altro snodo fondamentale e ricorrente nella narrazione sono le osterie o
taverne: nel Cunto de l’uerco (La fiaba dell’orco, I. 1), il «maialone, marrone,
maccarone, vervecone [pecorone], nsemprecone [semplicione]» 53 Antuono si fa
gabbare due volte da uno scaltro oste, che gli sottrae i suoi oggetti meravigliosi
54 , “ubriacandolo” con pane, vino, minestra e carne. Un evidente richiamo a
questa fiaba è nel canto VII del cortesiano Viaggio di Parnaso, laddove Apollo,
congedando il poeta dal monte Parnaso appunto, gli regala un tovagliolo magico
che, steso in terra, fa apparire ogni sorta di prelibatezze e che, ingenuamente,
egli baratterà in seguito col fiasco di legno lavorato di uno scaltro giovane.
Si sosta in taverne nel cunto intitolato Lo mercante 55 (in cui viene nominata
un’«ostaria de l’aurinale» 56 o «osteria dell’Orinale 57 », p. 76 ed. Croce); un
accenno è poi nella I egloga di Basile, La coppella, nel primo canto della Vaiasseide
etc.
La più famosa delle taverne nominate è quella del Cerriglio, nota osteria
napoletana del Seicento, ricordata da Salvatore Di Giacomo nel suo Taverne
famose napoletane 58 e celebrata da tutti e tre gli scrittori dialettali in esame:
Basile la cita spesso nel Cunto e le dedica un’intera egloga delle Muse
Napolitane; Cortese le intitola il suo ultimo poemetto, Lo Cerriglio ’ncantato, e
ivi fa concludere la Vaiasseide, con un lauto banchetto. Sgruttendio, invece, ne
parla diffusamente nella seconda canzone della corda IX della Tiorba 59 , in cui il
cibo è presente nella ricorrente modalità dell’elencazione, una delle figure predilette
dai tre dialettali, e in particolare dal Basile, soprattutto sotto forma di
elenchi sinonimici, strumento retorico tipico della scrittura manieristico-
50 Dolci pasquali fatti con chicchi di grano, ricotta, zucchero etc.
51 Casatielli = ciambelle contornate di uova sode non sgusciate, anche d’uso pasquale.
52 Cfr. Lo cunto, cit., vol. I, p. 56.
53 Ivi, p. 18; cfr. anche Il Pentamerone, cit., p. 18.
54 Il secondo dei quali, non a caso, è un tovagliolo che si apre e fa apparire ogni preziosità.
55 Nella traduzione crociana, I due figli del mercante.
56 Cfr. Lo cunto, cit., vol. I, p. 65.
57 Nella Topografia dell’agro napoletano del Rizzi-Zannoni (1793) è segnata, sulla via
tra Mugnano e Piscinola, una “Taverna del Pisciatoro”: cfr. le crociane Note e illustrazioni
all’ed. Croce (p. 548).
58 S. DI GIACOMO, Taverne famose napoletane, Trani, Vecchi, 1899.
59 A Scatozza. Le grolie de Carnevale.
158

Note sulla funzione del cibo in Basile, Cortese e Sgruttendio
barocca 60 (non dimentichiamo che Il Pentamerone si apre con Lo cunto dell’uerco,
ossia “fiaba dell’orco” ma anche “racconto, elenco interminabile”) 61 . Quegli
stessi elenchi di cui il più agguerrito dei detrattori del Basile – Ferdinando
Russo – sottolineava la monotonia, rilevando, a proposito dello stile delle fiabe
– e curiosamente proprio in termini afferenti alla sfera del cibo –, che Basile «le
condì di salse e di brodaglie e d’intrugli disgustosi e volgarissimi […] Era la
smania del nuovo, del meraviglioso e dell’iperbolico inoculata dal Marino» 62 .
Salvatore Di Giacomo ci fornisce qualche dato interessante sulla suddetta
Taverna Del Cerriglio 63 , effettivamente attestata in un documento del 1669 64 che
elenca tutte le 212 taverne esistenti allora in Napoli: si parla di una Taverna Del
Cerriglio piccolo, e di una Del Cerriglio grande, entrambe nel quartiere di Rua
Catalana. Segue la descrizione della precisa ubicazione del locale e della disposizione
delle sue stanze, e trova ivi conferma il fatto che le mura della locanda
riportassero effettivamente scritti numerosi proverbi, come suggerisce Basile
nelle Muse napolitane. Molto pregevoli gli acquerelli di Gonzalvo Carelli – pittore
della famosa scuola napoletana di Posillipo – riportati nell’opuscoletto
digiacomiano: tra di essi, uno raffigura proprio la famosa taverna (p. 42).
Nel Micco Passaro ’nnammorato, parodia dei roboanti poemi epici cinquecenteschi
(il cui protagonista è un tipico “guappo” napoletano del Seicento, rissoso
e arrogante), ad un tratto i personaggi principali, «commo s’usa nfra gente
aggarbate» 65 , si recano tutti al Cerriglio «a magna’ fecatielle [fegatelli] e cervellate
[salsicce]» 66 : lì vengono subito apparecchiati tavoli con bianche tovaglie,
60 «È vero – secondo Fasano – che accanto alla sinonimia (congeries verborum) compare
pure l’accumulazione coordinante, cioè una enumerazione di termini in rapporto ‘diversivoco’,
una congeries rerum: è il caso dei citati elenchi di ornamenti, di vivande, di canzoni, e
poi di altri che seguono di giochi popolari, di filastrocche infantili. Ma anche questo tipo
tende a ridursi ad accumulazione caotica puramente verbale (e non realistica o comunque
descrittiva), essendo impossibile, proprio in ragione della natura gergale del linguaggio,
apprezzare le variazioni semantiche dei singoli membri […] rispetto al concetto collettivo
[…]: l’enumerazione ha il solo fine di accumulare la ‘gustosa’ (ma astratta) potenzialità
metaforica dei titoli dei giochi» (Cfr. FASANO, Gli incunaboli, cit., p. 486).
61 Cfr. CORTESE, Vaiasseide: L’Autore alle Leggeture; cfr. anche S. NIGRO, Lo cunto de li
cunti di Giovan Battista Basile, in Letteratura italiana Einaudi, dir. da A. Asor Rosa, Le
Opere, vol. II, Dal Cinquecento al Settecento, Torino, Einaudi, 1993, pp. 867-91.
62 Cfr. F. RUSSO, Il Gran Cortese. Note critiche su la poesia napoletana del ’600, Roma,
Ed. Modernità, 1913, p. 190. Russo definisce qui Basile «il peggior tipo, in verità di stupido
saccente che ci abbia tramandato, grazie alle cantonate dei critici, la Napoli dialettale del
Seicento» (p. 271).
63 Sulla quale cfr. V. D’AURIA, in «Napoli nobilissima», Napoli, vol. I, 1892, pp. 171 e
sgg.; D. PICCINNI, Lo Cerriglio rinnovato, Napoli 1811.
64 Riportato dal poeta alle pp. 4-6 del suo opuscoletto.
65 I. 32. 2, p. 111.
66 I. 32. 4, p. 112.
159

Maria Panetta
sale, un tagliere, caraffe e bicchieri, e si dà inizio al pasto, descritto in termini
che ironicamente richiamano la sfera guerresca e militare:
160
Ora chiste se iezero a sedere,
E dapo’ n’antepasto de zoffritto
Fo cierto bella cosa da vedere
Quale battaglia fecero e confritto,
Ca non tanto [ancora] vedettero apparere
No feletto de puorco e no crapitto,
Che senza avere manco no cortiello
Ne fecero ne n’attemo maciello.
E po’ portaro appriesso na porcella
Che priesto Micco l’uocchie nce ’mpizzaie,
E disse: «Non sarria chesta Ciannella
Che chella spennazzola 67 me ’nmescaie?»
E stesa co destrezza la manella
Co no valore granne la squartaie,
E squartata che l’appe a no momiento
Squagliaie [scomparì], sparafonnaie commo a lo viento.
Chi porria dire maie la gran roina
Che fece ognuno, e le tremenne botte?
Dicalo lo Cerriglio a la cocina,
Lo dicano carraffe, arciole e gotte 68 ;
Chisto tagliava ccà la ielatina,
Chillo da llà spaccava le recotte,
Chi veve e chi, vevuto, l’autro stommeca 69
O parla o dorme o ride o chiagne o vommeca.
’N crosïone facette da chi era
Ognuno, a l’uocchie de li Palladine 70 ,
E commattèro sempre fi’ a la sera
Co la facce de rose tomaschine 71 ;
E già teneva ognuno a la panzera
Cchiú robba ca non cape a doi cantine:
Perzò a Mostaccio 72 dezero l’agresta [denaro]
E fo corrivo chi fece la festa 73 . (I. 33-36)
67 Una malattia, probabilmente agli occhi.
68 La gotta, infatti, è favorita o aggravata dalle abbondanti libagioni, soprattutto se ricche
di carni, grassi, alcolici etc.
69 Col proprio vomito o con altre manifestazioni di soddisfazione e sazietà!
70 Al paragone dei Paladini, comportandosi come i Paladini.
71 Con il viso rosso, per il vino bevuto, come rose damaschine.
72 Il taverniere del Cerriglio.
73 Fu amareggiato chi pagò il conto.

Note sulla funzione del cibo in Basile, Cortese e Sgruttendio
Il poemetto cortesiano (probabilmente incompiuto) dedicato all’osteria
muove dalla finzione che la più famosa delle taverne napoletane fosse in origine
un regno, al cui assalto muove un gruppo di “smargiassi” napoletani, capitanati
da un tal Sarchiapone. Cerriglio, il re, per difendersi invia al nemico dei cibi sui
quali un esperto negromante ha esercitato le sue arti magiche e alcuni soldati
delle file di Sarchiapone li divorano, per fame, trasformandosi in gatto, orso e
pecora, il che è ricordato anche da Basile nella III egloga delle sue Muse napolitane
(vv. 287 e sgg.), appunto alla taverna dedicata. L’unico rimedio per far tornare
umani i tre compagni di Sarchiapone consisterà nel somministrare loro un
sorso di malvasia, vino celebrato alla fine del canto IV in ottave entusiastiche.
Naturalmente, il poemetto si conclude con la vittoria di Sarchiapone e con un
altro solenne banchetto celebrativo: «E ’n crosïone ognuno magna e sberna 74 ,/
Che de no Regno è fatta na taverna» (VII. 30. 7-8).
Interessante, ai nostri fini, è poi la descrizione di Napoli in termini mangerecci
presente nella fiaba Lo mercante. Nell’allontanarsi dalla sua amata città,
Cienzo, accorato, esclama: «Tienete, ca te lasso, bello Napole mio! Chi sa se
v’aggio da vedere chiù, mautune de zuccaro, e mura de pasta reale, dove le
prete so’ de manna ’n cuorpo, li trave de cannamele 75 , le porte e finestre de
pizze sfogliate! [...] Dove ’n’autra Loggia, dove alloggia lo grasso, e s’affila lo
gusto? [...] Addio, pastenache [carote] e fogliamolle [bietole], addio, zeppole e
migliaccie, addio, vruoccole e tarantiello, addio caionze [frattaglie] e cientofigliole,
addio, piccatiglie e ’ngrattinate [...]. Me parto pe stare sempre vidolo de
le pignate maretate, io sfratto da ’sto bello casale; torze meie, ve lasso
dereto» 76 .
Addirittura in Pinto smauto (Pinto smalto), trattenimento III della V giornata,
Betta, che non riesce a trovare un uomo che la soddisfi tanto da volerlo sposare,
si fa procurare dal padre mercante «’no miezo cantaro de zuccaro de Palermo,
e miezo d’ammennole ambrosine, co quatto o sei fiasche d’acqua d’ado-
74 Fa peti.
75 Cfr. ANDREOLI, Vocabolario napoletano-italiano, cit., p. 70: «Cannamelo = aggiunto di
alcune specie di mele, ciliege, ed altri frutti. Zuccherino. Canna mele o Cannamele, presso i
botanici, è sinonimo di canna dello zucchero».
76 Cfr. Lo cunto, cit., vol. I, p. 61. Cfr. Il Pentamerone, cit., pp. 70-1: «Eccomi che ti
lascio, bella Napoli mia! Chi sa se mi sarà dato vedervi più, mattoni di zucchero e mura di
pastareale, dove le pietre sono di manna, le travi di cannamele, le porte e le finestre di pasta
sfogliata? [...] Dove un’altra Loggia, dove alloggia il grasso e s’affina il gusto? [...] Addio,
pastinache e foglie molli; addio, zéppole [frittelle con miele] e migliacci [cfr. ANDREOLI, cit.:
castagnacci]; addio, cavoli e tarantello [salume fatto con ventre di tonno]; addio, caionze e
contofigliuole [sacco intestinale e interiora di animali da macello]; addio, piccatigli [manicaretti
di carne minuzzata] e ingratinati! [...] Me ne parto e rimarrò vedovo delle tue pignatte
maritate; sfratto da questo bel casale; broccoli miei, vi lascio addietro!».
161

Maria Panetta
re, e ’no poco de musco, e d’ambra, portannome perzì ’na quarantina de perne,
dui zaffire, ’no poco de granatelle e rubini, co ’no poco d’oro filato» 77 , e se lo
plasma da sé!
Divertenti anche certi componimenti in lode di alcuni cibi, in particolare dei
maccheroni 78 e dei cavoli; ad es., il sonetto Maccarune donate da Cecca
(Tiorba, I. LI, p. 560):
Me deze no pïatto Ceccarella
De cierte saporite maccarune
Semmenate de zuccaro e cannella,
Cosa da fa’ sperire 79 le persune.
Penzatelo vui tutte cannarune [ghiottoni]
Quanto fu bona chella menestrella:
Io me ne fice priesto dui voccune,
E le mannaie deritto a le bodella.
Sautaie pe l’allegrezza comm’a grillo,
Ca furono cchiú duce de na manna,
E ghianche comme a latte de cardillo [cardellino].
Sa ca me sanno buone, e me ne manna.
Mo pozzo dire, comme dice chillo:
– Ammore m’ha pigliato pe la canna! –
Oppure, nella corda IX della Tiorba, le strofe A Cola Facce-cuotto. Le laude
de li maccarune, 174 versi che, rivolgendosi direttamente ai maccheroni, ne
decantano la prelibatezza, il candore e il profumo.
Molto divertenti anche delle quartine dedicate, nella corda VIII, A Giovanne
Cetrulo. Li spanfie de la foglia, ossia le meraviglie del cavolo 80 , un elogio (di
ben 172 versi) di uno dei cibi allora prediletti dai napoletani, con annesso una
sorta di ricettario, ossia un elenco di vari modi di gustare questa pietanza; ne dò
alcuni stralci:
162
E tu che sì d’ogn’erva la Reggina
Perdona s’io de te non troppo canto,
77 Cfr. Lo cunto, cit., p. 392. Cfr. Il Pentamerone, cit., vol. II, p. 482: «mezzo quintale di
zucchero di Palermo e mezzo di mandorle ambrosine, con quattro o sei fiaschi di acqua odorosa
e un po’ di muschio e di ambra, e anche una quarantina di perle, due zaffiri, un mucchiettino
di granatini e rubini, con un po’ d’oro filato».
78 Cfr. A. CONSIGLIO, La storia dei maccheroni con cento ricette e con Pulcinella mangiamaccheroni,
III ed., Roma, Canesi, 1963.
79 Morire di desiderio.
80 Cfr. anche Micco Passaro ’nnammorato, VI. 23. 7-8; tessendo l’elogio del fiume
Sebeto, grazie al quale sono irrigati gli orti, conclude: «Perché, Napole mio, dica chi voglia,/
Non sì Napole cchiú se non haie foglia».

Note sulla funzione del cibo in Basile, Cortese e Sgruttendio
O foglia, perché tanto è sso gran spanto
Che passe e bince a la rosamarina. (vv. 17-20)
[...]
Cossì de te chi a tavola s’assetta
Quanto ne mancia cchiú, cchiú assaie ne vòle.
Tu sazie, sì, ma no’ sfastidie maie,
E sì bona co l’uoglio e co la carne:
E chi porrà li muode maie contarne
E comme chisto o chillo te manciaie?
Sì bona strascinata a lo tiano 81
E scaudata co l’uoglio e l’aglio fritto, (vv. 27-34)
[...]
Tu sì co carne de crastato [castrato] bona,
Cossì co la vitella e co l’annecchia 82 : (vv. 37-8)
[...]
E si na fella [fetta] nc’è de voccolaro 83 ,
E ’nnoglia [salame] e pettorina e n’uosso masto 84 ,
Ogne menestra a ffronte a tene è ’nchiasto [impiastro],
E lo mele perzì nce pare amaro. (vv. 41-4)
[...]
Lasso sta’ ca venire fai na lopa [fame],
Tanto appetito daie, se sì bolluta,
De cetrangole fatta na spremmuta,
Co sale e pepe ed uoglio po’ pe sopa. (vv. 49-52)
[...]
L’ammennola [mandorla] la pisa [pesta] chi vò fare
L’uoglio, ch’è tanto buono e tanto doce;
E co na fronna toia po’ se concoce
A la cennera iutala a atterrare 85 .
A na fronnella de sse toie chïatta [polputa]
Li Resinare 86 bello allegramente
Pe cchiú nce ’ncannarire 87 assai la gente
La manteca [burro] nce spanneno e la nnatta 88 . (vv. 61-8)
[...]
Ma chi dirrà le grolie de lo turzo
Che a chi l’ha ’n canna dà tanta preiezza [gioia]?
81 Soffritta nel tegame.
82 Vitella di un anno.
83 Muscolo del collo del maiale.
84 Osso della coscia.
85 E con una foglia tua poi si concuoce, dopo essere stata interrata nella cenere.
86 Gli abitanti di Resina.
87 Far venire l’appetito.
88 Crema del latte.
163

Maria Panetta
Ed io perché durasse sta docezza
No cuollo vorria ave’ cchiú de lo sturzo.
Cuotto è da spanto, fatto a ogne manera
(Bene mio, ca le deta me n’allicco!):
Buono è co l’uoglio e lo fenucchio sicco,
Ma co la carne, po’, porta bannera.
Se crudo po’ lo vuoie manciare tu,
Monnalo, e si non passa accossì ghianco,
Che me pozza afferra’ doglia de scianco,
Le provole de Sessa a buoine cchiú.
Chi l’appetito ha già mannato a Chiunzo
Pe lo recoperare isso se fa
N’agliata co no turzo, e dapo’ sta
Che quase affé se manciarria no strunzo. (vv. 73-88)
Non c’è da scandalizzarsi, perché nella Tiorba c’è un continuo riferimento al
cibo e a tutte le fasi digestive, con annessi e connessi, e lo stesso pseudonimo di
Sgruttendio ha, molto probabilmente, una radice riconducibile al “grutto”, che
in napoletano sta per “rutto”.
Nell’ultima parte del componimento, da notare alcuni riferimenti mitologici:
Tu avanze le rrapeste e le rradice,
Le lattuche, l’aiete [bietole] e le scarole,
E tutte l’erve che lo munno vòle,
O de l’uorte de Napole fenice 89 . (vv. 133-6)
[...]
Si ’n Cielo de manciare se nce ha boglia,
O si se mancia llà, a li Campe Aulise,
Io ’nguaggio [scommetto] co chi vò ciento tornise
Ca non se ce mancia auto si non foglia.
E se la foglia fosse stata antica
Cierto ca Giove se ne ’ncoronava,
E le fronne de cercola [quercia] lassava
Pe faresella cchiú cara ed ammica.
E de Parnaso Apollo a chillo monte
De lauro no, de foglia starria cinto,
Ed Ercole dapo’ c’avette vinto
Puro de foglia se cegnea la fronte. (vv. 153-64)
Anche quest’ultima strofa potrebbe essere stata dettata da un’intenzione
parodica di tutta la serie di Viaggi in Parnaso di cui trabocca la letteratura del
164
89 Cfr. Viaggio di Parnaso, VII. 2. 5.

Note sulla funzione del cibo in Basile, Cortese e Sgruttendio
Seicento, mentre la prima quartina è ricollegabile, ad es., alla III composizione
della corda VII 90 , nella quale è presente una lunga descrizione dell’età dell’Oro
tutta in termini di abbondanza di vini raffinati e cibi prelibati, che potrebbe
richiamare alla mente anche quella del paese di Bengodi fatta da Maso a
Calandrino nel Decameron (Calandrino e l’elitropia, VIII. 3. 9).
Lo stesso Viaggio di Parnaso di Cortese è una parodia dei “viaggi” allora in
voga nella letteratura, e una giustificazione e celebrazione dell’ingresso della
poesia dialettale napoletana in Parnaso, perché – scrive Cortese – «Le parole de
Napole ’mpastate/ Non songo, frate mio, d’oro pommiento 91 ,/ Ma de zuccaro e
mèle: e Famma vola/ Se fanno a tutte lengue cannavòla 92 » (I. 22. 5-8). Il breve
discorso proemiale al poemetto (Lo poeta a li leieture) si conclude così: «Leíte
addonca sto chilleto che m’è scappato da le brache, addoratelo e gostatelo, fi’
che la Musa mia torne da Smirna 93 e da Mantova 94 , dov’è ghiuta ad arrecogliere
conciette, pe farene n’autra composta co l’acito de grieco de Napole, e m’arrecommanno»
95 .
Entrando nel palazzo ove Apollo e le Muse «co sollazzo/ Ad ogne tiempo
stanno ’n riso e ’n canto» (I. 7. 3-4, p. 258), il poeta si trova innanzi come
primo ambiente – indicativamente – una cucina, e commenta:
Perché, tra l’autre cose degne e belle
Che Febo ha ’n uso, primmo [prima] che poeta
Le parle, vò che s’énchia le bodelle,
Ca non s’accorda Museca e Dïeta.
O stile de ’nnauzàrese a le stelle! 96
O che piatosa deïtà descreta!
All’autre parte canta puro e berna 97 ,
Ca allanche [boccheggi] se no’ spienne [spendi] a na taverna. (I.
9, p. 259)
Si riconosce, qui, una delle numerose allusioni – ricorrenti anche, e con toni
ancor più amari, in Basile – alla scarsa prodigalità dei protettori e dei mecenati,
che molto spesso non rispettavano le promesse fatte, condannando i letterati a
vivere in condizioni di miseria.
90 Intitolata A Pascariello Truono. Ca nc’è defferenzia assaie da chesta aietate nostra a
chella dell’Oro ’n tiempo de li vavune [= antenati] nuoste.
91 Orpimento, oro falso.
92 E la fama vola, se fanno gola a tutte le lingue.
93 Smirne, antica città greca della Turchia asiatica, presunta patria di Omero.
94 Città natale di Virgilio.
95 Cfr. Viaggio di Parnaso, cit., p. 253.
96 O consuetudine di ospitalità degna di essere innalzata alle stelle!
97 “Bernare” indica il canto degli uccelli a primavera.
165

Maria Panetta
Anche il giardino sul monte Parnaso è descritto in termini culinari, sempre
con una serie di metafore oscene:
Llà tu vide na rosa moscarella 98
Che ’mmiezo nc’è nasciuto no cetrulo,
Llà bide c’a na fico troianella 99
Nce sponta a corneciello lo fasulo 100 :
Vide da na lattuca mortarella 101
’Scire la falanghina de Pezzulo [Pozzuoli],
E da no milo sciuoccolo 102 o amarena
Pezze de caso cchiú ca n’è l’arena 103 .
Spallère 104 ha de cocozze e molegnane,
Prègole [pergole] de cetrola e de cepolle,
Quatre 105 de mercolella 106 e maiorane [maggiorana]
Conzierte de vorracce 107 e fogliamolle [bietole],
Pe mmiezo no gran frúscio de fontane
Che d’ogne banna l’acqua scorre e bolle; (I. 16; I. 17. 1-6)
Un altro meraviglioso giardino di vivande compare nel canto VII, all’interno
di un episodio fiabesco di cui il poeta si trova ad essere protagonista, durante la
sua discesa dal Parnaso.
Molto indicativo, ai nostri fini, sempre in questo poemetto, un accenno a
Teofilo Folengo, ricordato in veste di cuoco perché autore delle Maccheronee,
durante la descrizione di un banchetto di Apollo (I. 41. 5-8): «Po’ se sedette a
98 Varietà di rose.
99 Varietà di fichi, ma è chiara l’anfibologia.
100 Il fagiolo a cornicello è una varietà di fagioli, ma è chiara anche qui l’allusione oscena.
101 Qualità di lattuga.
102 Melo fioccolo, varietà di frutta forse un tempo molto comune a Napoli, se appare
spesso citata come prelibatissima da poeti e scrittori, e se un vicolo presso il Sedile di Porto e
un altro presso via Materdei prendevano nome da essa. Già ai tempi di Cortese, però, dovevano
esserci incertezze su di essa: Fasano, alla fine del secolo, identificava le “mele fioccole”,
nelle note del suo Tasso napoletano, con i frutti di loto; Galiani, un secolo dopo, indicava
come ultimo esemplare di “milo sciuoccolo” esistente a Napoli un grosso olmo, a Materdei;
altri, in seguito, lo individuarono come Pyrus malus, Celtis australis, Ziziptus lotus, Rhamus
frangula etc.
103 Forme di formaggio più numerose dei granelli di sabbia.
104 Spalliere, sponde.
105 Cfr. la descrizione del giardino sognato da Ciullo in G. C. CORTESE, Li travagliuse
ammure de Ciullo e Perna, III ed., Napoli, De Bonis, 1666, p. 23.
106 Erba selvatica di odore sgradevole e di sapore amaro.
107 Concerti di borragine.
166

Note sulla funzione del cibo in Basile, Cortese e Sgruttendio
tavola e magnaie/ Gran cose, ma fra l’autre certe allesse 108 / Dinto li maccarune
’mmottonate 109 / Che lo Coccaio aveva cocenate».
Sullo stesso tono il pranzo imbandito, nel canto V (vv. 12-20, pp. 337-41),
con pietanze poetiche, per festeggiare l’annuncio dato dall’ambasciatore di
Mantova della concessione a Basile di un’alta onorificenza poetica:
Sotta no bardacchino de velluto
Co gran lumme na tavola se mette,
E sedere l’Agente ch’è benuto
Febo a mano deritta se facette;
Le Muse appriesso. E commo fu seduto
Ognuno, lo magnare ecco venette
Co ciento pagge: chi lo credarria?
Tutto apparicchio fu de Poesia.
La primma cosa venne na ’nsalata
De poesie moderne, a primma facce
Assaie bella composta, e rïalata 110
De sciure de cocozze e de vorracce;
Ma po’ a lo gusto fu desgrazïata
Quanto cchiú se provaie: ora va’ sacce,
Povero scarco 111 , dove stea lo ’mbruoglio,
Ch’era troppo l’acito [e] {o} poco l’uoglio.
Venne po’ na fellata [affettata] de presutto
Che ghiuraie pe mia fe’ lo ’Mmasciatore
Che se non era troppo sicco e asciutto
Magnare ne potea lo ’Mparatore;
Lo salaie Stazio 112 , e l’appe Apollo tutto
Pe se ne fare a certe tiempe ’nore,
Ma non rescenno crudo a sto committo
Vò che s’arrosta co pepe ed acito.
Vennero l’antepaste, buone assaie,
E d’egroche e de farze e pastorale,
De li quale a bezzeffa se magnaie
Perch’erano bazzoffia 113 prencepale:
108 Castagne sbucciate e lesse.
109 Imbottiti. Sui maccheroni, cfr. la nota di Croce in BASILE, Il Pentamerone, cit., I, p.
80, n. 3; cfr. anche CORTESE, Viaggio di Parnaso, cit., V. 17. 1-2.
110 Resa regale, degna di re.
111 Scalco, persona che aveva l’incarico di trinciare le vivande a tavola e di dirigere il
convito.
112 Publio Papinio Stazio.
113 Minestrone grossolano e pesante, dallo spagnolo bazofia, cioè avanzi del pasto, cibo
cattivo.
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De Mertillo 114 le deta se leccaro,
De Fille 115 e Filarminno, che cchiú bale,
E d’Aminta, ch’è cosa da Segnure;
L’autre lassaro pe li serveture.
Ecco n’oglia potrita a la spagnola 116
Fatta de stile antico castegliano,
Che fece a cchiú de quatto cannavola,
Ma non piacette a chillo Mantoano 117 ;
Ma de rape magnaie na fella sola
De l’uorto d’Usiasmarche catalano 118 ,
Lassanno l’elegie, le seghediglie 119 ,
Strofe, romanze, endècce 120 e retonniglie 121 .
No pïatto nce fu de maccarune
Che ’n Cecilia fu fatto a stanza a stanza 122 ,
Ma se ne magnaie schitto duie voccune,
Ca si cchiú passe abbottano la panza;
Venne l’arrusto, e fu da cannarune,
De boscíe [bugie] ’nmottonata na romanza:
Era chesta a la fe’ cosa rïale
Se nce mettea lo cuoco manco [meno] sale. (V. 12-17) 123
114 Protagonista del Pastor fido (1590) di Guarini; seguono nomi comuni nella letteratura
arcadica.
115 Riferimento alla Filli di Sciro (1607) dell’urbinate Guidobaldo Bonarelli e all’Aminta
di Tasso (1573).
116 Specie di minestrone, olla podrida.
117 L’ambasciatore.
118 Il poeta catalano Auzias March (1397-1459), cavaliere a Napoli alla corte di Alfonso
il Magnanimo.
119 Genere di poesia popolare e di danza popolare spagnola (seguidillas).
120 Genere di poesia e canto funebre (spagnolo endechas).
121 Quartine, strofe (spagnolo redondillas).
122 A strofa a strofa. Agli inizi del ’600 i maccheroni non erano ancora considerati cibo
tipico dei napoletani, detti allora “mangiafoglie”, quanto piuttosto dei siciliani o dei sardi,
particolarmente di Cagliari: cfr. T. TASSO, La Gierusalemme libberata, votata a lengua napoletana
da G. Fasano, Napoli, per Mechele Loise Muzio, 1706, III. 20; SGRUTTENDIO, Tiorba,
cit., IX. 2. 56-7. Cfr. pure I. CAVALCANTI, Cucina teorico-pratica, Napoli, Tip. De’ gemelli,
1847; E. LAMBERTINI, La cucina nella storia di Napoli: venticinque secoli di gastronomia
nella storia e nel costume di una città, Napoli, ESC, 1996.
123 E poi: «Appriesso no pasticcio rïalato/ De commedie deverze, e no pastone [farinata,
o miscuglio di varie sostanze commestibili per l’alimentazione di polli e maiali]/ De soniette
e canzune fu portato/ Che deze a tutte quante ’sfazïone;/ Venne po’ no sciadone [sorta di crostata
fatta con zucchero e ricotta] dellecato/ Che fu cierto na cosa da Barone,/ Fatto a Napole
mio, de le cchiú belle/ Frottole, matinate e billanelle [frottole, mattinate e villanelle: componimenti
poetici popolareschi, generalmente di argomento rusticano, cantati con accompa-

Note sulla funzione del cibo in Basile, Cortese e Sgruttendio
Alla fine, nel canto VII, il poeta chiede il permesso di tornarsene a Napoli
perché, stanco delle raffinatezze di Parnaso, sente nostalgia dell’amata “foglia”!
Una curiosità: si trovano già attestazioni della “pizza”, non ancora intesa nell’accezione
odierna, ma come una sorta di focaccia. Ad es., nella fiaba Le doie
pizzelle (IV. 7, pp. 406 e sgg. dell’ed. Croce), grazie ad una «pizzella» donata
generosamente a una vecchia, la protagonista Marziella riceve la fatagione (dai
suoi capelli, ogni volta che li pettina, cade una pioggia di perle e granatini) 124 .
Vengono spesso adoperati attributi relativi alla sfera del cibo per oggetti che
non hanno nulla a che vedere con l’ambito culinario: nella lettera di Basile
(1614) Allo Re delli Viente, premessa alla Vaiasseide di Cortese, ad es., la cetra
(«cétola») viene definita «tanto gostosa» (p. 14).
Volendo, dunque, proporre una classificazione – seppur arbitraria – delle
modalità in cui il cibo compare nelle opere dei tre dialettali, individuerei i
seguenti raggruppamenti 125 :
• il cibo come rimedio: «vui sulo potite comme ova fresche farele ’na stoppata»
126 («voi soli potete come uova fresche comporgli una stoppata 127 !»:
detto di due begli occhi nel cunto La mortella, I. 2, p. 28 dell’ed.
Croce 128 );
• come cosmetico: «la carrafella d’acqua de cocozze» 129 («boccetta d’acqua
di cucuzza», olio cosmetico e medicinale, che si traeva da alcune specie
di zucche: La gatta cenerentola, I. 6, p. 65);
• il cibo nei giochi: «avenno oramaie la luna dato ’n miezo con l’azzetullo
de li ragge a la zeppola de lo cielo» 130 («poiché la Luna ormai tagliava
per lo mezzo con l’accettullo dei suoi raggi la zeppola del cielo»: I due
gnamento musicale]. De frutte nce ne foro ciento spase [ceste col bordo basso, per esporre il contenuto]/
De matrecale e sdrusciole e ballate,/ Capitole assaie cchiú che le cerase...» (V. 18-19. 3).
«Ma manco chesto venne tutto ’mparo,/ Ca certe aveano vierme e se iettaro.// Chi dice
mo le scatole e arvarelle [barattoli]/ De sceroppate a l’útemo comparze,/ De cose aroiche,
che ne iea a le stelle/ L’addore granne che llà ’ntuorno sparze?/ Per vita mia, ca foro tanto
belle/ Ch’a laudarele so’ le buce [= parole] scarze!/ Nce ne foro perzí de l’Innïane [alcune
indiane],/ Ma secche, accossí bennero lontane» [da lontano] (V. 19. 7-20).
124 Cfr. pure A Cecca che cantava a la marchetta (Tiorba, I. XXII).
125 Dal punto di vista tematico, linguistico e retorico, e infine in relazione a una sorta di
sottogenere, quello del ricettario, ben rappresentato (sotto forma di «micro-ricette» in versi)
soprattutto nei poemetti di Cortese e nella Tiorba.
126 Cfr. Lo cunto, cit., vol. I, p. 26.
127 La “stoppata” era «stoppa intrisa di uova, olio rosato e trementina, che si poneva sulle
ferite» (cfr. nota di Croce, p. 28 del Pentamerone cit.).
128 I numeri di pagina tra parentesi tonde faranno sempre riferimento all’edizione Croce
(Bari, Laterza, 1982).
129 Cfr. Lo cunto, cit., vol. I, p. 56.
130 Ivi, p. 62.
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figli del mercante, I. 7, p. 73), che allude al gioco di cercar di dividere la
zeppola in parti uguali, in modo che, dei due giocatori, l’uno tagliava e
l’altro aveva il diritto di scegliere tra le parti divise;
• allusioni erotiche: «strignennolo drinto le braccia ne cacciaie zuco de
contentezza» 131 («premendolo tra le braccia, ne distillò succo di piacere»:
Peruonto, I. 3, p. 43); «T’aggio ’ntiso: la dieta de lo lietto mio è pe fare
banchetto a la casa d’autro!» 132 («T’ho inteso: la dieta del letto mio vuol
dire banchetto in casa d’altri»: una moglie al marito “distratto”; I due figli
del mercante, I. 7, p. 80); «la vevarrisse a ’no becchiero d’acqua,/ ’no
muorzo de signore» («te la berresti tutta in un bicchiere;/ un boccon da
signori»: La coppella, egloga I, p. 131);
• musica e cibo: «Dove saria mo la cétola [cetra], ch’è tanto gostosa, se tu
non facive cotolare [ondeggiare] le stentine [intestini] de la cestunia [tartaruga]
da la quale Mercurio accacciaie la cétola?» 133 (Allo re delli
Viente, p. 14);
• bisticci, giochi di parole: «dapo’ mille carizze, vierre, gnuoccole e vruoccole
che le fece voze sapere» 134 («dopo averle fatto mille carezze, vezzi e
tenerezze, volle sapere»: La mortella, I. 2, p. 33), ove gli ultimi due termini
stanno per gnocchi e broccoli 135 .
• proverbi e motti: «La femmena è secunno la castagna:/ da fore è bella, e
drinto ha la magagna» 136 («La femmina è conforme alla castagna:/ bella
di fuori e dentro ha la magagna» 137 : La coppella, egloga I, p. 134); «quatto
fico fresche ped uno, che co la spoglia de pezzente, co lo cuollo de
’mpiso e co le lagreme de pottana facevano cannavola a le gente» 138
(«fichi freschi, che con la veste di pezzente, il collo d’impiccato e le lacrime
di meretrice facevano gola a chi li guardava», che allude ai tre requisiti
del fico maturo e saporito: Introduzione alla Seconda giornata, p. 145);
• modi di dire in cui si utilizza il cibo per parlare di altri argomenti: «Li
conzigliere, c’avevano strutto chiù uoglio che vino, dissero» 139 («I consi-
131 Ivi, p. 37.
132 Ivi, p. 68.
133 Secondo il mito, Ermes ebbe l’idea della cetra osservando un guscio vuoto di tartaruga
al quale erano rimasti attaccati gli intestini secchi dell’animale.
134 Cfr. Lo cunto, cit., pp. 29-30.
135 Al riguardo Croce osserva che a Napoli i venditori di broccoli, «gaiamente bisticciando,
danno la voce: ‘Broccoli, che son buoni a letto!’» (cfr. nota p. 33 dell’ed. Croce).
136 Cfr. Lo cunto, cit., vol. I, p. 112.
137 Modo di dire attestato fin dalle origini (ad es. nella poesia di Bellincioni), così come il
seguente risulta diffuso in numerose regioni d’Italia (devo queste rilevazioni a G. Crimi).
138 Cfr. Lo cunto, cit., p. 123.
139 Ivi, p. 33.

Note sulla funzione del cibo in Basile, Cortese e Sgruttendio
glieri, tutte persone che avevano consumato più olio che vino 140 , risposero»:
Peruonto, I. 3, p. 38); «Meo, c’aveva magnato pane de chiù forne,
accordatala co bone parole» 141 («Meo, che aveva mangiato il pane di
molti forni, la quetò con buone parole»: I due figli del mercante, I. 7, p.
80 142 ); «recoglie molegnane» 143 («raccoglie melenzane», cioè lividi: La
coppella, egloga I, p. 128);
• modi di dire per “mangiare”: «Oramaie è ora de strafocarece co ’no
muorzo» 144 («Ormai è ora di affogarci con un boccone», sarcastico:
Peruonto, I. 3, p. 36); «e viene, si te piace,/ a la poteca mia,/ ca menarrimmo
’nsiemme li morfiente:/ ’Non manca tozze a casa de pezziente’» 145
(«e vieni, se ti piace,/ alla bottega mia,/ ad aiutarmi all’opera dei denti:/
non manca un tozzo a casa di pezzenti!»: La coppella, egloga I, p. 142);
«quanno ciancoleiano 146 la sera» (Allo re delli Viente, p. 12);
• modi di dire per “digiunare”: «Da mo se pò pigliare lo palicco» 147 («Dille
che fin da ora può divertirsi con lo stuzzicadenti!»: Il principe Verdeprato,
II. 2, pp. 158-9);
• descrizioni: «lo presutto de le lavra se fece nzogna fraceta» 148 («il roseo
prosciutto delle labbra si fece rancida sugna», detto del principe: La mortella,
I. 2, p. 32); «ha li capille iunne,/ che pareno a bedere/ catenelle de
casocavalluccio» 149 («biondissimi i capelli,/ che sembrano a vedere/ catenelle
di caciocavalluccio», dalle forme a treccetta: La coppella, egloga I,
p. 132);
• definizioni: la gelosia è «’na folinia che casta dinto lo pignato grasso de
li guste de li ’nnamurate» 150 («una fuliggine che casca dentro alla pignatta
grassa dei gusti degl’innamorati»: La mortella, I. 2, p. 29) 151 ;
140 Citando quest’esempio, presuppongo ovviamente che anche vino e olio possano essere
inclusi nella “categoria” di “cibo” in senso lato.
141 Cfr. Lo cunto, cit., p. 68.
142 Cfr. G. B. BASILE, La volpara, egloga della IV giornata, p. 449 dell’ed. Croce, vv. 38-9.
143 Cfr. Lo cunto, cit., vol. I, p. 108, v. 494.
144 Ivi, p. 32.
145 Ivi, p. 119.
146 S’ingozzano.
147 Cfr. Lo cunto, cit., p. 134.
148 Ivi, p. 29.
149 Ivi, p. 111.
150 Ivi, p. 27.
151 Cfr. la nota di Croce, p. 29 dell’ed. Laterza 1982; G. B. DEL TUFO, Ritratto o modello
delle grandezze, delitie e meraviglie della nobilissima Città di Napoli, cit., pp. 46 e sgg.; B.
ZITO, Annotaziune e Schiarefecaziune [alla Vaiasseide], in CORTESE, La Vaiasseida, cit.,
pp. 93-4.
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Maria Panetta
• micro-ricette: cfr. i versi, sopra riportati, tratti dai poemetti cortesiani e
dalla Tiorba; oppure la descrizione di come si spiuma e si cucina una
chioccia in Vardiello (I. 4, p. 47 dell’ed. Croce).
Volendo istituire un confronto tra il lessico di Sgruttendio e quello di
Cortese, emerge che i cibi citati dal primo 152 sono, per lo più, gli stessi di
Cortese, ma nominati con frequenza diversa: il che potrebbe rappresentare un
ulteriore argomento a favore della tesi della non coincidenza tra le due personalità
poetiche. Sgruttendio nomina soprattutto verdure e ortaggi; Cortese parla
della carne in misura maggiore rispetto agli altri due poeti. Inoltre, in osteria si
usa consumare soprattutto lasagne, maccheroni e carni varie, accompagnate da
vini, mentre la dieta di tutti i giorni, quella delle case del popolo, si basa prevalentemente
su verdura e frutta. Il polpo, infine, è nominato solo da Basile, ma
esclusivamente in relazione al colore livido degli ematomi.
152 Eccone l’elenco completo: torza, anguilla, spere [mollusco], vruoccole, treglia, confiette,
foglia, scarola, recotta, pastenaca [carota], lasagna, nzogna, cotogna, castagna, gregna
[grano], tòrtano [ciambella], franfrellicche, milo sciuoccolo, gàmmaro [gambero], pesce,
vino, bruoccolo, zeppole, cannella, zuccaro, cecere calïato [cece tostato], trippata, pepe,
sopressata, taratufolo, radice [ravanello], cocozze [zucche], maiorane, pizza, pane, lopino,
sciosciello [frittata], sosamiello, presutto, frutte, foglia, milo dece [mela vermigliona], ’mbrodetto,
castagne spistate, cetrangola, trippa, guarnaccia [vernaccia], casillo, caso, maccarune,
menestrella, aruta [ruta], fasule, cetrule, pruno [prugna], fecato zoffritto, catarozzola
[zucca], carne, vroda, cepolla, commine [treccine] d’aglie, peparuole, ardiche [ortiche], totamaglie
[titimaglio], premmone [polmone], acce [sedani], acito, catarozza [cavolo cappuccio],
vruoccole spicate, llatto, menesta, berdumme [verdure, ortaggi] spampanate, rapesta [ravanello],
trippa, coratella, cognòla (?), manna [zucchero del frassino], fenucchie, ragosta,
agresta [uva], porchetta, uovo, sango de puorco, crovara [vino], berdisco [verdicchio], mesesca
[carne secca], fico moscia, uva ’nzolia [uva insolia, coltivata in Sicilia], mmele puro,
recottella, fave frante, bino cuotto, vaiano [vino di colore nero], purpo, mellune, nnoglia
[salame], fecatielle, lauro, freselle [fette di pane biscottato], noce, nespole, fecate, uosso de
presutto, aglio, senàpo, mostarda, alicella, sarda, fiecate fritte, porchiaccone, grieco de
Somma, lagrema, guarnaccia [vino, vernaccia], pagnotte, recotta schianta [ricotta forte],
caso cellese [cacio piccante?], provole de Sessa, uoglio, vàllane e allesse [castagne lessate
con o senza buccia], sceroppo, cocozza [zucca], sauza, ova apole [senza guscio], grisommola
[albicocche], vrenna [crusca], fave, uorgio [orzo], panella, còtena [cotica], pettorina [pancetta],
truocchio [minestra], arrusto, alice, salimora [salamoia], anguille, rosamarina, carne de
crastato, vitella, annecchia [vitella di un anno], vacca, voccolaro [muscolo del collo del
maiale], sale, pepe, ammennola [mandorla], manteca [burro], nnatta [crema di latte], fenucchio
sicco, zuco [sugo], rise de Salierno, lattuche, aiete [bietole], scarole, lagrema, asprinio
[vino], gnuoccole, rezze [retine] e laoro, peduzzole [piccoli piedi d’insalata], menta, garuofane,
ghielatine, saucicce, rosole [tocchi di carne], stigliole [coratelle], colarine [frattaglie],
sanguinacce, pan unto, migliacce [torte con maiale e provole], farina, pasticce [pasticci cotti
al forno, con rosolatura esterna], còtena de lardo, antrite [nocciole abbrustolite], provole
’mmorrate [imburrate], aolive, sorva [sorbe].
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Note sulla funzione del cibo in Basile, Cortese e Sgruttendio
In conclusione, dalla Breve relazione della città e Regno di Napoli (1642) di
Giovanni Orlandi 153 risulta che «nelle taverne di Napoli si vendevano, in que’
tempi, centomila botti di vino all’anno per servizio del pubblico e più di altrettanto
vino era consumato nelle case. Napoli mangiava allora più di 120 mila
animali, spendeva 300 mila ducati in frutta, 35 mila ducati al mese per erbe ed
ortaggi e si serviva di olio per 220 mila staia all’anno».
Se diamo, poi, un’occhiata alla coeva produzione pittorica della scuola napoletana,
troviamo numerosi esempi di nature morte 154 , e in particolare di frutta e
pesci, opera per lo più degli allievi di Paolo Porpora (1617-73), Giovan Battista
Ruòppolo (1620-85) e Giuseppe Recco (1634-1695), attenti sia alla ricerca
luministica sia alla sensualità della materia.
Anche grazie a questi dati esterni all’ambito specificamente letterario, penso
si possa concludere che nella produzione dialettale napoletana del Seicento si
può riscontrare una effettiva corrispondenza tra la descrizione letteraria del cibo
e le abitudini alimentari in voga, e che, dunque, per le opere in dialetto di
Basile, Cortese e Sgruttendio si può parlare, senza dubbio, di rappresentazione
realistica del cibo.
153 Riportata da DI GIACOMO, Taverne famose napoletane, cit., p. 40.
154 Cfr. R. CAUSA, La pittura del Seicento a Napoli dal naturalismo al barocco. La natura
morta a Napoli nel Sei e nel Settecento, Napoli, Società editrice Storia di Napoli, 1972.
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