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I Merli di Fano, a cura di Enzo Uguccioni - Fondazione Cassa di ...

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I<br />

ARTE SACRA


CINQUE CROCI SULL’ARCO D’AUGUSTO<br />

Chi si mette <strong>di</strong> fronte all’Arco o Porta d’Augusto può notare ben cinque<br />

croci. Tre sono in una parete del fornice sinistro (non si sa perché e da<br />

chi vennero scolpite); una, molto più piccola tanto che è <strong>di</strong>fficile trovarla,<br />

è sulla facciata a sinistra della Porta; la quinta, che è la più importante,<br />

fu scolpita, secondo una vecchia <strong>di</strong>ceria tramandataci da Carlo<br />

Andrea Negusanti, quando il vescovo Orso (dunque nel 600 d.C.) fece<br />

scomparire e scalpellare la protome elefantina, cioè la figura animalesca,<br />

la quale secondo lui era ricettacolo demoniaco che infasti<strong>di</strong>va la Città.<br />

Come mai la protome riproduceva un elefante? Nella effigie della Porta<br />

scolpita nella cinquecentesca facciata della attigua chiesa <strong>di</strong> S. Michele<br />

c’è invece raffigurato un toro; è noto che alcuni vi hanno visto un leone<br />

che, però, era un simbolo usato da Pompeo. Tale pluralità <strong>di</strong> interpretazione<br />

è dovuta anche allo stato non troppo buono dell’originale.<br />

L’ipotesi dell’elefante è con<strong>di</strong>visa dal Rossini che nell’800 stu<strong>di</strong>ò la<br />

Porta e incise l’elefante nella sua notissima tavola. C’è dell’altro. Il<br />

“denaro” con cui Giulio Cesare commemorò la sua vittoria su Ariovisto<br />

(58 a.C.) presenta <strong>di</strong> profilo un elefante che calpesta un drago simbolo<br />

dei Germani. Lo storico Ferrabino scrive che l’elefante “è simbolo del<br />

nome Caesar”. Tale sua certezza è forse riconducibile al bizantino<br />

Giovanni Lido il quale ci informa che un avo <strong>di</strong> Cesare “avrebbe ucciso<br />

proprio un elefante in una battaglia combattuta nei pressi <strong>di</strong> Palermo”.<br />

In lingua punica l’elefante veniva chiamato “kaiser”. Dopo la moneta <strong>di</strong><br />

Giulio Cesare la protome fanese può ben essere una ulteriore prova del<br />

legame fra il nome “elefante” e Cesare <strong>di</strong> cui Augusto si proclama figlio.<br />

Dato che abbiamo parlato <strong>di</strong> sant’Orso, uno dei protettori della Città, è<br />

bene accennare <strong>di</strong> nuovo a san Paterniano, primo protettore <strong>di</strong> <strong>Fano</strong>. Non<br />

conosciamo l’esatta collocazione cronologica del vescovo Paterniano:<br />

certo non fu il primo vescovo <strong>di</strong> <strong>Fano</strong> né il quarto, come abbiamo letto<br />

recentemente. L’Amiani pone come primo vescovo un certo Tolomeo<br />

che invece è stato vescovo <strong>di</strong> un’altra <strong>di</strong>ocesi. Sulle origini cristiane della<br />

Città c’è molto mistero, quin<strong>di</strong> c’è molto da stu<strong>di</strong>are.<br />

2007<br />

11


FU CATTEDRALE DI FANO?<br />

DUBBI SU SAN PIER VESCOVILE<br />

In Via Rinalducci c’è la piccola chiesa <strong>di</strong> San Pier Vescovile o<br />

Episcopale, in <strong>di</strong>aletto San Piruschin. Una lapide, al suo esterno, informa<br />

che la chiesetta è romanica e che per circa sei secoli fu cattedrale<br />

<strong>di</strong> <strong>Fano</strong>. Un’altra lapide, posta all’interno dopo il restauro voluto dal<br />

vescovo Micci, aggiunge prudentemente che il titolo <strong>di</strong> cattedrale è<br />

dovuto alla tra<strong>di</strong>zione. Difatti non ci sono documenti che lo comprovano.<br />

Anche lo stile romanico è ben poco leggibile nelle scarse parti<br />

antiche giunte fino a noi. C’è scritto, inoltre, leggenda sopra leggenda,<br />

che vi sarebbe stato sepolto un capitano fanese, Bertolagi, morto nella<br />

<strong>di</strong>fesa <strong>di</strong> Aquileia nel 452.<br />

Ma San Piruschin fu veramente cattedrale <strong>di</strong> <strong>Fano</strong>? C’è motivo <strong>di</strong> dubitarne<br />

fortemente, tanto più che la “tra<strong>di</strong>zione” risulta attestata a partire<br />

dal sec. XVII e appare fondata solo sulla qualifica “vescovile” (o “in<br />

episcopio”) aggiunta al titolo <strong>di</strong> San Pietro. Troppo poco, quasi nulla.<br />

L’aggettivo “vescovile” potrebbe semplicemente significare che la<br />

chiesa era <strong>di</strong>retto possesso del vescovo magari ottenuta nel sec. VI<br />

quando, dopo la sconfitta dei Goti, i beni della chiesa ariana (che certamente<br />

aveva seguaci anche a <strong>Fano</strong>) furono trasferiti, come sappiamo,<br />

ai vescovi delle città della Pentapoli, fra cui <strong>Fano</strong>, e alla chiesa<br />

all’Arcivescovo <strong>di</strong> Ravenna.<br />

Si può anche pensare che l’appellativo “vescovile” stia solo a precisare<br />

che la chiesetta <strong>di</strong> San Pietro si trovava nella contrada dell’episcopio;<br />

e l’appellativo “vescovile” serviva a <strong>di</strong>stinguerla dalle altre chiese<br />

ugualmente intitolate al principe degli apostoli: S.Pietro in Valle,<br />

S.Pietro foris portam (fuori dell’Arco <strong>di</strong> Augusto), S.Pietro in Tectis<br />

(non localizzata).<br />

Il <strong>di</strong>minutivo “Piruschin” può alludere alla piccolezza della chiesa:<br />

San Pieruscolino e San Piruschin, infine “San Piruschin”. Il nome<br />

popolare potrebbe anche collegarsi al fatto che vicino alla chiesa c’era<br />

la piccola porta della Mandria, da cui deriverebbe San Pierosculino,<br />

San Pietro della porta piccola. Tutt’altra cosa che “vescovile”!. Posto<br />

che la prima chiesa cattedrale sorgesse, come in altre se<strong>di</strong>, fuori dalla<br />

12


città romana precisamente dove fu sepolto San Paterniano (ora via<br />

dell’Abbazia) e considerando che nel sec. VIII già esisteva dove è l’attuale<br />

Duomo un e<strong>di</strong>ficio sacro de<strong>di</strong>cato alla Vergine (vi fu sepolto San<br />

Fortunato), è più logico pensare che dalla periferia la sede della<br />

Cattedrale sia stata <strong>di</strong>rettamente trasportata dov’è attualmente.<br />

1991<br />

13


IL TRITTICO DEI PROTETTORI<br />

Per generosa ed intelligente iniziativa del Lions Club locale sono in<br />

corso i restauri del trittico dei Santi Protettori <strong>di</strong> <strong>Fano</strong>. Sembra che si<br />

sia giunti appena in tempo per evitare che le tre antiche nicchie collocate<br />

nella facciata del Palazzo del Podestà (ribattezzato “Palazzo della<br />

Ragione” alla fine dell’Ottocento) si schiantassero in tutto o in parte<br />

sul selciato <strong>di</strong> Piazza XX Settembre.<br />

Al centro della nicchia c’è, con la statua più antica, quella <strong>di</strong> S.<br />

Paterniano, trecentesca, in pietra. Ai lati le nicchie con le statue in<br />

cotto che rappresentano S. Eusebio (a destra <strong>di</strong> Paterniano) e S.<br />

Fortunato (a sinistra). Queste due statue furono collocate, come sembra,<br />

alla fine del Quattrocento. Insomma si tratta <strong>di</strong> un complesso artistico<br />

e devozionale <strong>di</strong> grande rilevanza. Ma il suo aspetto originario, e<br />

soprattutto quello delle statue, era ben <strong>di</strong>verso da come apparirà dopo<br />

il pur <strong>di</strong>ligente lavoro <strong>di</strong> consolidamento e restauro.<br />

Il complesso donava infatti un meraviglioso tocco <strong>di</strong> luminosità alla<br />

vasta “muraglia” del palazzo del Podestà perché le tre statue erano dorate,<br />

ed emergevano dal fondale delle nicchie che era <strong>di</strong>pinto in azzurro<br />

scuro. Sull’azzurro delle tre nicchie erano <strong>di</strong>stribuite una trentina <strong>di</strong> piccole<br />

stelle <strong>di</strong> rame dorato; nel culmine del timpano <strong>di</strong> ogni nicchia c’era<br />

una sfera pure <strong>di</strong> rame dorato sormontata da una piccola croce.<br />

I tre Santi Protettori reggevano nella mano destra il pastorale, anch’esso<br />

dorato.<br />

L’effetto doveva essere magnifico!<br />

In più la doratura <strong>di</strong>fendeva le statue dalle ingiurie del clima. Tutta la<br />

facciata era più bella se non altro perché non era stata ancora sconciata<br />

nello spigolo destro dalle torri angolari che via via ci furono appiccicate:<br />

probabilmente la più brutta è quella attuale alla quale durante la<br />

costruzione si tentò persino <strong>di</strong> dare nome <strong>di</strong> “torre del popolo”, con un<br />

pizzico <strong>di</strong> demagogia.<br />

Tornando al nostro trittico vorrei fare una domanda da “ignorante”:<br />

“Terminati gli attuali lavori <strong>di</strong> restauro non si potrebbero nuovamente<br />

indorare le tre statue e, sulla traccia <strong>di</strong> quello che c’è rimasto, non si<br />

14


potrebbero ristabilire colori e stelle nelle nicchie?”.<br />

Ripeto: è una domanda da ignorante; ma visto che a suo tempo i “competentissimi”<br />

hanno costruito quel <strong>di</strong>sastro <strong>di</strong> torre attuale con mattoni<br />

<strong>di</strong> tre colori <strong>di</strong>versi… perché non ascoltare, per una volta, un povero<br />

ignorante?<br />

1992<br />

San Paterniano (al centro) nel trittico dei Santi Protettori <strong>di</strong> <strong>Fano</strong><br />

nella facciata del Palazzo del Podestà (ora Palazzo della Ragione)<br />

15


LA CHIESETTA DI SAN PATERNIANINO<br />

DEVE ESSERE SALVATA<br />

Nei mesi scorsi eravamo intervenuti da queste colonne per prospettare<br />

la necessità <strong>di</strong> ridare <strong>di</strong>gnità e decoro alla Cappella che il popolo fanese<br />

chiama col nome San Paternianino, ma che nacque col nome <strong>di</strong> San<br />

Martino.<br />

Infatti quella cappella fu collocata da circa quattro secoli per ricordare<br />

che un tempo su quel terreno sorgeva l’abbazia benedettina <strong>di</strong> San<br />

Martino abbandonata e poi demolita a metà del secolo XVI. In quella<br />

abbazia avevano trovato ospitalità uomini illustri, laici ed ecclesiastici,<br />

papi e imperatori.<br />

Una lapide apposta una trentina d’anni fa in una colonna d’ingresso da<br />

Mons. Vittorio Bartoccetti, illustre storico fanese, ricordava ai posteri<br />

tutto questo.<br />

Ma la lapide è ora scomparsa e demolita nel momento in cui si è deciso<br />

<strong>di</strong> dare esecuzione ai lavori <strong>di</strong> ampliamento della curva che dalla<br />

Flaminia immette in via dell’Abbazia.<br />

Non è stato un gran colpo <strong>di</strong> genio <strong>di</strong>struggere la lapide, anzi <strong>di</strong>rei senz’altro<br />

che è stato un atto <strong>di</strong> gratuita violenza.<br />

Di fronte al vuoto stradale che sostituisce una zona che doveva essere<br />

<strong>di</strong>fesa e ripristinata nella sua originalità non resta che “pretendere” che<br />

venga rispettata e fatta rispettare la cappella <strong>di</strong> San Paternianino così<br />

da non vederla scomparire dalla mattina alla sera come successe negli<br />

anni ‘50 con la chiesetta della Croce posta a sinistra della Flaminia<br />

vicino all’incrocio con via Squarcia.<br />

Pensiamo che la Curia debba pensare al ripristino interno della cappella<br />

e il Comune debba provvedere a <strong>di</strong>fendere la piccola costruzione<br />

dai danni che potrebbero derivarle dal traffico: oltre a piantare intorno<br />

altri cipressi.<br />

Bene ha fatto il Consiglio Pastorale <strong>di</strong> San Cristoforo a prendere posizione<br />

in tal senso.<br />

Infine una domanda: “È mai possibile che a <strong>Fano</strong>, che vanta <strong>di</strong> essere<br />

città d’arte e <strong>di</strong> cultura, si debba intervenire “in soccorso” <strong>di</strong> testimo-<br />

16


nianze tanto significative del nostro patrimonio che rischiano <strong>di</strong> essere<br />

cancellate da una qualsiasi volgarissima ruspa?”<br />

1992<br />

17


LA GROTTA DI SAN PATERNIANO<br />

Nel quadro delle annuali celebrazioni per la festa <strong>di</strong> San Paterniano i<br />

padri Cappuccini hanno opportunamente previsto, per il pomeriggio <strong>di</strong><br />

domenica 13 luglio, un “pellegrinaggio” alla cosiddetta “Grotta <strong>di</strong> San<br />

Paterniano”, in località Sant’Angelo nella parrocchia <strong>di</strong> Caminate.<br />

Su questa grotta, nel 1920, ha scritto un libretto don Aurelio Branchini,<br />

lasciando purtroppo mano libera alla immaginazione e alla retorica, e<br />

spesso tras<strong>cura</strong>ndo la prudenza come quando, senz’ombra <strong>di</strong> documentazione,<br />

afferma che a <strong>Fano</strong> la persecuzione contro i cristiani<br />

cominciò “subito dopo la morte del Redentore”! La grotta viene da lui<br />

presentata come una “catacomba”, ad<strong>di</strong>rittura come “la prima catacomba<br />

delle Marche aperta dai primi cristiani della Chiesa fanese a<br />

Caminate ove San Paterniano e compagni vissero nascosti durante la<br />

persecuzione <strong>di</strong> Diocleziano”.<br />

Credo che l’idea della catacomba sia da scartare del tutto: in realtà<br />

siamo <strong>di</strong> fronte ad un manufatto a forma <strong>di</strong> croce commissa (cioè a<br />

“T”) largo poco più <strong>di</strong> due metri, alto tre, col braccio principale lungo<br />

18 metri, l’altro 15; la struttura muraria è in pietra e ciottoli coperti da<br />

intonaco, appartenente ad una villa rustica romana <strong>di</strong> cui si sono trovati,<br />

sul posto, numerosi frammenti fittili e tessere <strong>di</strong> pavimento a<br />

mosaico. La grotta che aveva un’apertura anche nella volta superiore<br />

(evidentemente per scaricare prodotti agricoli) era forse destinata a<br />

custo<strong>di</strong>re granaglie.<br />

La leggenda ha voluto che lì San Paterniano e i suoi compagni, Avito,<br />

Maurenzio, Martino, Vincenzo, Pellegrino, Urbano (che interessano<br />

anche la Chiesa <strong>di</strong> Fossombrone), si rifugiassero per sfuggire alla persecuzione<br />

<strong>di</strong> Diocleziano e poi, dopo la pace <strong>di</strong> Costantino, per fare<br />

vita in comune.<br />

La persecuzione, la fuga dalla città, la presenza <strong>di</strong> una piccola comunità<br />

cristiana collimano con la storia generale <strong>di</strong> quei tempi; ma nulla<br />

ci <strong>di</strong>ce che il centro <strong>di</strong> quella nascosta vita cristiana sia stato il granaio<br />

<strong>di</strong> Sant’Angelo. Pur tuttavia esso è <strong>di</strong>ventato nel tempo, sulle ali della<br />

pietà popolare, “icona”, immagine e ricordo delle tribolazioni della<br />

18


nascente Chiesa fanese, ed è cosa giusta e buona che venga come tale<br />

ancora onorato e ricordato.<br />

Quando nel sec. XVIII (più o meno duecentocinquant’anni fa) venne<br />

casualmente riscoperto (dall’apertura superiore vi era caduto un cane<br />

da caccia che richiamò l’attenzione dei suoi padroni) dentro furono<br />

trovate due lapi<strong>di</strong> frammentarie (ora <strong>di</strong>sperse), però lì copiate alla<br />

menopeggio, un crocifisso <strong>di</strong> legno e un quadro con la Madonna e il<br />

Bambino (finiti a San Costanzo).<br />

Le lapi<strong>di</strong> erano in onore <strong>di</strong> San Paterniano. Evidentemente dopo che a<br />

<strong>Fano</strong>, nel sec. XVI, fu conosciuta la vita (leggendaria) <strong>di</strong> San<br />

Paterniano che in<strong>di</strong>cava i luoghi selvatici al <strong>di</strong> là del Metauro come<br />

rifugio del Santo, si pensò che quella grotta poteva essere stata, anzi<br />

“era stata”, il rifugio <strong>di</strong> Paterniano e dei suoi compagni, e come tale fu<br />

onorata e arredata. Non sappiamo perché poi sia stata <strong>di</strong>menticata fino<br />

alla fortunosa “riscoperta”.<br />

Seguirono dal Settecento perio<strong>di</strong> <strong>di</strong> notorietà, <strong>di</strong> frequentazione e <strong>di</strong><br />

oblio. Ma nella mente del popolo quella è sempre rimasta “la grotta <strong>di</strong><br />

San Paterniano” e penso che, al <strong>di</strong> là delle verità “archeologiche” sia<br />

bene che i luoghi della pietà popolare vengano riscoperti e onorati: essi<br />

fanno parte del nostro patrimonio spirituale, della nostra memoria collettiva.<br />

1997<br />

19


VA IN ROVINA LA CHIESA DI SANTA MARIA A MARE<br />

Sono due foto molto significative. Si tratta del rudere <strong>di</strong> S.Maria<br />

dell’Arzilla come era <strong>di</strong>eci anni fa e come è ora. Quella chiesa ebbe<br />

parecchi nomi, ma il più antico e, forse, il più esatto sembra che sia<br />

“Santa Maria a Mare” o “Madonna a Mare”. Nessuno <strong>di</strong> noi l’ha vista<br />

nella sua integrità.<br />

Fu costruita al tempo del Vescovo Ariperto e fu benedetta (e forse consacrata)<br />

dal Papa Gregorio IV (827 – 844 ) <strong>di</strong> ritorno dalla Francia<br />

dove invano aveva cercato <strong>di</strong> conciliare fra loro e con il padre i figli <strong>di</strong><br />

Lodovico il Pio.<br />

La strada che aveva il nome della chiesa da cui partiva fu costruita nel<br />

1334. Bisogna ricordare che l’attuale via Fabio Filzi, che fu impiccato<br />

come tra<strong>di</strong>tore dagli Austriaci a Trento nel 1916, fino al 1919 era via<br />

Madonna a Mare.<br />

Si tratta, dunque, <strong>di</strong> una costruzione molto antica e bene ha fatto chi ha<br />

richiamato l’attenzione del Comune, proprietario, per salvare e possibilmente<br />

valorizzare ciò che resta della chiesa me<strong>di</strong>oevale in questione.<br />

2007<br />

20


TORRE DI SANT’ELENA O DI SANTA CROCE ?<br />

Fra i monumenti sottoposti a restauro figura, in via Nolfi, la “Torre <strong>di</strong><br />

Sant’Elena” <strong>di</strong> fianco al palazzo Martinozzi, da cui la separa una piccola<br />

e breve strada.<br />

In via Nolfi, un tempo “strada maestra”, erano molte le torri gentilizie;<br />

la nostra nel me<strong>di</strong>oevo forse apparteneva a qualche famiglia che poi si<br />

estinse.<br />

Perché chiamarla “Torre <strong>di</strong> Sant’Elena”? Noi invece <strong>di</strong> certo sappiamo<br />

che era conosciuta e usata come torre campanaria della annessa chiesa<br />

<strong>di</strong> Santa Croce. Intorno a quella chiesa era il vecchio ospedale degli<br />

infermi che da essa prese il nome passato, poi, all’ospedale attuale.<br />

Tra le antiche chiese <strong>di</strong> <strong>Fano</strong> Sant’Elena non figura; figura invece<br />

Santa Croce <strong>di</strong> cui, però, non conosciamo l’anno esatto in cui assunse<br />

questo titolo. Prima, l’ospedale (che comprendeva anche la torre) era<br />

tenuto, siamo all’inizio del ‘300, da una confraternita che per il fatto<br />

<strong>di</strong> vestire una tunica <strong>di</strong> colore “scoroccio” o, forse, perché gli aderenti<br />

non portavano la correggia o cintura che <strong>di</strong>r si voglia, aveva lo strano<br />

nome <strong>di</strong> “scoriggiati”.<br />

Tra le vecchie chiese <strong>di</strong> <strong>Fano</strong> e in tutte le piante topografiche del centro<br />

storico figura sempre Santa Croce che venne ricostruita ex-novo fra<br />

il 1630-1633 e fu consacrata dal Vescovo <strong>di</strong> <strong>Fano</strong>, car<strong>di</strong>nale Sacchetti;<br />

la lapide che ricordava l’evento (<strong>di</strong>strutta con la chiesa da un bombardamento<br />

alleato nell’aprile 1944, <strong>di</strong>retto contro la vicina ferrovia)<br />

<strong>di</strong>ceva chiaramente “...templum hoc in honorem Sanctae Crucis/<br />

solemni ritu consecravit/ ecc”.<br />

E’ preferibile, e più esatto, che la torre venga chiamata <strong>di</strong> “Santa<br />

Croce” anche perché non si perda la memoria storica della chiesa e<br />

dell’ospedale che lì ebbero sede plurisecolare.<br />

L’attuale torre, che in realtà è solo un troncone <strong>di</strong> quella originale, fu -<br />

scrive mons. Paolucci - “per metà demolita non si sa con quale criterio<br />

dopo il terremoto del 1930”. Forse non fu demolita proprio per metà, ma<br />

certo fu abbassata nella parte superiore, rimaneggiata almeno due volte<br />

e quasi “modernizzata”: ora, dunque, si fa il restauro <strong>di</strong> un restauro...!<br />

21


Ma quel titolo <strong>di</strong> Sant’Elena come è venuto fuori? Molto probabilmente<br />

detto titolo pare ricollegarsi alla figura <strong>di</strong> Sant’Elena, madre<br />

dell’imperatore Costantino, che ritrovò (leggenda o verità) la croce su<br />

cui era morto Cristo. La santa, che regge la croce è <strong>di</strong>pinta, in modo da<br />

ben colpire l’immaginazione popolare, anche nella pala d’altare dovuta<br />

al pennello <strong>di</strong> Giovanni Santi, padre <strong>di</strong> Raffaello.<br />

A Sant’Elena <strong>di</strong> certo venne intitolata la farmacia dell’ospedale, e quel<br />

nome tuttora vive in un’altra farmacia, ma non venne mai titolata la<br />

torre: non c’è alcun documento che lo attesti. Stefano Amiani che<br />

scrisse una guida <strong>di</strong> <strong>Fano</strong> nel 1853 non fa alcun cenno alla torre e al<br />

suo nome. Però nella “Breve guida statistica, storica, artistica della<br />

città <strong>di</strong> <strong>Fano</strong>” (1863) M. Fabi ed E. Francolini affermano, senza spiegazioni,che<br />

Santa Croce era detta Sant’Elena e Cesare Selvelli, noto<br />

per i suoi stu<strong>di</strong> su <strong>Fano</strong>, purtroppo non sempre esatti, chiama<br />

Sant’Elena, senz’altro, la stessa chiesa <strong>di</strong> Santa Croce e, implicitamente,<br />

anche la torre campanaria. Dietro <strong>di</strong> lui altri hanno parlato e<br />

parlano della Torre <strong>di</strong> Sant’Elena; ma l’uno ha attinto o copiato dall’altro<br />

purtroppo senza portare prove. Credo che sarebbe bene chiamare<br />

la torre, o quello che <strong>di</strong> essa rimane, Torre <strong>di</strong> Sant’Elena.<br />

2001<br />

22


SUFFRAGIO E TOMBE MALATESTIANE<br />

Ultimamente abbiamo dato notizia del ben nutrito furto <strong>di</strong> quadri e<br />

stampe consumato, a danno della Confraternita del Suffragio, dai soliti<br />

ignoti (molto “soliti” e, pare, troppo “ignoti”).<br />

Da quando la raffinata passione per l’antiquariato si è <strong>di</strong>ffusa, ladri e<br />

ricettatori <strong>di</strong> opere d’arte sacre e profane fanno affari d’oro e, naturalmente,<br />

chiese e conventi sono i luoghi maggiormente visitati per la<br />

gioia degli amatori d’arte.<br />

Alla Confraternita del Suffragio è andata bene: infatti sono stati ritrovati<br />

e riconsegnati stampe e quadri, meno uno, il S.Liborio attribuito al<br />

Gennari (sec.XVII) che, manco a <strong>di</strong>rlo, era il pezzo migliore. Si vede<br />

che ai ladri, definiti non professionisti (!), si è affiancato imme<strong>di</strong>atamente<br />

un esperto furbo e svelto.<br />

A <strong>Fano</strong> c’è da registrare un altro avvenimento nel campo artistico-storico:<br />

anzi per la precisione, un “mezzo avvenimento”. Parlo dello scoprimento<br />

delle tombe malatestiane. Erano coperte da un tendone <strong>di</strong> plastica!<br />

Si è trattato <strong>di</strong> un provve<strong>di</strong>mento maldestro perché il restauro<br />

delle tombe malatestiane e la sistemazione <strong>di</strong> tutto il portico <strong>di</strong> S.<br />

Francesco non sono ancora terminati. Il Cristo sulla tomba <strong>di</strong> Paola è<br />

senza una gamba, le mensole che reggono le statuette <strong>di</strong> Santi sono<br />

vuote (le statue sono al museo), la lastra con lo stemma sepolcrale dei<br />

Malatesta è sistemata solo in parte, la tomba <strong>di</strong> Pandolfo presenta fessure<br />

e screpolature, il portone non è stato riverniciato e il pavimento<br />

non è stato sostituito. Sarebbe stato normale presentare il tutto ad opera<br />

completamente finita e collaudata. Le inadempienze che<br />

l’Amministrazione ha contestato alla <strong>di</strong>tta appaltatrice del restauro, la<br />

sua estromissione con relativo pendente ricorso, hanno finito per togliere<br />

ai fanesi la possibilità e la sod<strong>di</strong>sfazione <strong>di</strong> ammirare il complesso<br />

malatestiano nel suo meraviglioso splendore. Così, come sono riapparse,<br />

quelle tombe ispirano ora un senso <strong>di</strong> incompletezza, <strong>di</strong> <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>ne,<br />

<strong>di</strong> abbandono. Esattamente il contrario <strong>di</strong> quello che si doveva ottenere.<br />

1994<br />

23


RESTAURO DELLA QUATTROCENTESCA AULA CAPITOLARE<br />

DI S. AGOSTINO<br />

La collaborazione tra la Curia e la <strong>Fondazione</strong> “<strong>Cassa</strong> <strong>di</strong> Risparmio <strong>di</strong><br />

<strong>Fano</strong>” si sta rivelando preziosa per la valorizzazione dei beni artistici<br />

recuperabili nell’antico convento degli Agostiniani.<br />

È noto che il <strong>di</strong>retto intervento della <strong>Fondazione</strong>, la quale ha fatto proprio<br />

il “Progetto Vitruvio” stu<strong>di</strong>ato dall’Archeoclub <strong>di</strong> <strong>Fano</strong>, ha già<br />

permesso <strong>di</strong> restituire ad un nuovo vali<strong>di</strong>ssimo uso culturale e turistico<br />

i poderosi resti dell’e<strong>di</strong>ficio romano ubicato nel sottosuolo dell’ex<br />

convento e ha poi consentito <strong>di</strong> fermare il grave processo <strong>di</strong> degrado,<br />

ma in parte anche <strong>di</strong> recupero, del ciclo <strong>di</strong> affreschi <strong>di</strong>pinti nelle lunette<br />

del chiostro dell’ex-convento dal pesarese G. Cesare Begni nel<br />

sec. XVII.<br />

A tutto ciò si deve aggiungere l’autentica “riscoperta” dell’Aula<br />

Capitolare del medesimo convento. Gli Agostiniani iniziarono a<br />

costruirlo dopo che entrarono in città nel 1266, avendo ricevuto in<br />

donazione, l’anno prima, la chiesa <strong>di</strong> S. Lucia fino a quel momento<br />

officiata da un “rettore” appartenente al clero secolare fanese.<br />

Precedentemente una comunità agostiniana aveva avuto sede, nella<br />

seconda metà del XIII secolo, nella canonica o convento <strong>di</strong> S. Stefano<br />

in Padule (oggi “La Paleotta”) dove, nella prima metà del Duecento, si<br />

erano poi sistemati gli eremiti agostiniani <strong>di</strong> Brettino.<br />

Nel secolo scorso il convento <strong>di</strong> S. Agostino <strong>di</strong>venne sede del<br />

Seminario Vescovile: ora è stato in gran parte ristrutturato come sede<br />

della USL.<br />

Del vecchio convento rimane l’aula capitolare che si apre nel chiostro<br />

e vi guarda anche con due magnifiche bifore databili alla metà del<br />

Trecento. Si stava già pensando al restauro del soffitto quattrocentesco<br />

quando, attraverso assaggi sulle pareti voluti dalla Sovrintendenza ai<br />

Beni Artistici, si sono scoperti tratti <strong>di</strong> una fascia decorativa, a tempera,<br />

giu<strong>di</strong>cati come risalenti alla prima metà del Quattrocento. La scoperta<br />

è interessante e preziosa perché consente, forse, <strong>di</strong> recuperare<br />

una superstite notevole opera del tardo me<strong>di</strong>oevo fanese. I tratti già<br />

scoperti presentano motivi simili a quelli che si ritrovano nei ricami <strong>di</strong><br />

24


stoffe del tardo Trecento (un intreccio <strong>di</strong> vegetali intervallato da uccelli<br />

posati, forse falchi) e consentono <strong>di</strong> avere un’idea della forte valenza<br />

decorativa dell’intera fascia.<br />

Il valore culturale della scoperta (e speriamo che dalle pareti ne emergano<br />

altre) è <strong>di</strong> tutta evidenza; dobbiamo aggiungere che il restauro del<br />

già ricordato soffitto cuspidato quattrocentesco servirà a ridare vita ad<br />

un ambiente singolare e bello che la Curia e la <strong>Fondazione</strong> permetteranno<br />

<strong>di</strong> usare solo a fini culturali. È già stato assi<strong>cura</strong>to l’utilizzo <strong>di</strong><br />

una saletta accanto a quella capitolare; ma è auspicabile la <strong>di</strong>sponibilità<br />

<strong>di</strong> altri locali da a<strong>di</strong>birsi ad uso espositivo in relazione agli aspetti<br />

archeologici, architettonici e artistici <strong>di</strong> tutto il complesso della chiesa<br />

e del convento <strong>di</strong> S. Agostino.<br />

Non <strong>di</strong>mentichiamoci, poi, che nello stesso chiostro si apre l’ingresso<br />

che immette nella settecentesca Cappella dell’Angelo Custode, voluta<br />

da Vincenzo Nolfi, e un tempo abbellita dal famoso Angelo Custode<br />

del Guercino: una cappella che, nella <strong>di</strong>struzione bellica della chiesa<br />

(aprile 1944), è rimasta miracolosamente integra.<br />

Da questi pochi cenni si comprende che siamo <strong>di</strong> fronte alla possibile<br />

rivitalizzazione <strong>di</strong> un “ambiente storico-monumentale” legato alla vita<br />

religiosa e culturale della città: le vere ra<strong>di</strong>ci <strong>di</strong> <strong>Fano</strong> vanno cercate<br />

proprio in questa <strong>di</strong>rezione.<br />

1996<br />

25


SCOPERTI AFFRESCHI DEL ‘400 NELLA NUOVA SALA<br />

A S. AGOSTINO<br />

Circa un anno fa abbiamo avuto modo <strong>di</strong> accennare all’inizio dei<br />

restauri della Sala Capitolare nell’ex convento <strong>di</strong> Sant’Agostino. Si<br />

pensava <strong>di</strong> intervenire solo sul quattrocentesco soffitto <strong>di</strong> larice: ma gli<br />

assaggi fatti sulle pareti hanno messo in luce tre <strong>di</strong>verse fasce decorative,<br />

databili al ‘400, poste alla sommità delle pareti e alcune figure<br />

non del tutto leggibili nelle pareti stesse. Il restauro si è svolto sotto la<br />

<strong>di</strong>rezione della dott.ssa Valazzi della Sovrintendenza <strong>di</strong> Urbino ed è<br />

stato eseguito con la solita maestria da Nino Pieri. La sala, come ha<br />

spiegato l’ing. Ciaramicoli, è stata dotata <strong>di</strong> una moderna impiantistica<br />

ed è stata oggetto <strong>di</strong> un esteso lavoro <strong>di</strong> consolidamento.<br />

Il dott. Valentino Valentini, presidente della <strong>Fondazione</strong> che ha finanziato<br />

i lavori, ha messo in evidenza come la scoperta degli affreschi<br />

contribuisca a far conoscere il valore artistico <strong>di</strong> tutto il vecchio immobile,<br />

ed ha espresso viva sod<strong>di</strong>sfazione per aver messo a <strong>di</strong>sposizione<br />

<strong>di</strong> circoli culturali e associazioni un locale che, seppur non grande, può<br />

ospitare conferenze e incontri. Lo stesso concetto è stato espresso dal<br />

Sindaco Carnaroli che ha ringraziato la Curia per la <strong>di</strong>sponibilità<br />

<strong>di</strong>mostrata e la <strong>Fondazione</strong> per la concretezza dell’intervento.<br />

La serata si è chiusa con una approfon<strong>di</strong>ta illustrazione da parte del<br />

dott. Clau<strong>di</strong>o Giar<strong>di</strong>ni delle lunette restaurate nel chiostro <strong>di</strong> S.<br />

Agostino (lavoro secentesco del pittore Begni) e con una minuta visita<br />

guidata dal dott. Luca Fabbri ai recuperi archeologici nel sottosuolo<br />

<strong>di</strong> S. Agostino, area ove un tempo quasi certamente sorgeva il famoso<br />

Santuario della Fortuna.<br />

1998<br />

26


LA BASILICA DI SAN PATERNIANO<br />

ASPETTA I SUOI QUADRI<br />

Dopo i restauri, sponsor la <strong>Cassa</strong> <strong>di</strong> Risparmio <strong>di</strong> <strong>Fano</strong>, agli affreschi<br />

del Ragazzini, nella cupola e nel catino dell’abside i Cappuccini <strong>di</strong> San<br />

Paterniano hanno provveduto a dotare la basilica <strong>di</strong> un moderno<br />

impianto antifurto e hanno proceduto a ritinteggiare tutto l’interno<br />

della chiesa.<br />

A completare l’arredamento mancano però alcuni quadri che ‘provvisoriamente’<br />

collocati nel Civico Museo ancora non hanno trovato la<br />

strada per... tornare a casa!<br />

Si tratta, prima <strong>di</strong> tutto, della tavola con la “Vergine e le Sante<br />

Caterina, Agnese, Lucia e Agata” <strong>di</strong>pinta nel secolo XVI, opera <strong>di</strong><br />

Bartolomeo Morganti, precedentemente attribuita al Persiutti o al<br />

Beccafumi. Originariamente il quadro era nella prima cappella a sinistra<br />

<strong>di</strong> chi entra, poi fu collocato nella cappella della Madonna unitamente<br />

al “Transito <strong>di</strong> San Giuseppe” del Cavalier d’Arpino.<br />

Consegnato alla Sovrintendenza alle Belle Arti per il restauro, magistralmente<br />

eseguito da Isidoro Bacchiocca, è stato poi collocato nella<br />

Pinacoteca Civica per essere esposto in una mostra <strong>di</strong> <strong>di</strong>pinti restaurati.<br />

La mostra è finita, la tavola è stata più volte richiesta dai padri cappuccini,<br />

il sistema <strong>di</strong> allarme è stato impiantato, ma la bella tavola con<br />

le quattro sante non è stata ancora riconsegnata.<br />

Oltre a questa tavola si attende la riconsegna <strong>di</strong> quattro gran<strong>di</strong> tele<br />

secentesche (forse del Manzi) che mancano dal 1955. Consegnate alle<br />

Sovrintendenza per essere custo<strong>di</strong>te allorché venne rifatto il pavimento<br />

della basilica, furono anch’esse consegnate non ai frati, ma alla<br />

pinacoteca. Da allora sono rimaste nella soffitta; anzi, in un primo<br />

tempo sembrava ad<strong>di</strong>rittura che fossero andate <strong>di</strong>sperse.<br />

Rappresentano episo<strong>di</strong> connessi al culto <strong>di</strong> San Paterniano e sono quin<strong>di</strong><br />

intimamente connesse alla sua basilica. Rappresentano: 1) La consacrazione<br />

dell’antica chiesa fatta da Innocenzo IV; 2) Il dono <strong>di</strong> una<br />

statua d’oro alla tomba del Santo, fatto dall’imperatore Giustino; 3)<br />

L’offerta <strong>di</strong> doni a San Paterniano da parte dell’imperatrice Galla<br />

Placi<strong>di</strong>a; 4) La traslazione del corpo del Santo dell’Abbazia fuori le<br />

27


mura alla chiesa attuale. La risistemazione <strong>di</strong> queste opere là ‘dove<br />

erano’ potrà completare la bellezza del complesso monumentale del<br />

Chiostro e della basilica, sempre visitati dai turisti e sempre ammirati<br />

per il modo esemplare con cui i Cappuccini li mantengono e li <strong>cura</strong>no.<br />

1993<br />

28


A UN ANNO DAL FURTO A S. PATERNIANO<br />

RECUPERATI DUE DIPINTI<br />

I giornali locali e TV Marche hanno ampiamente parlato del recupero<br />

<strong>di</strong> due quadri del Seicento (uno anche con la bella cornice) operato dal<br />

Nucleo speciale dei Carabinieri <strong>di</strong> Reggio Emilia ai quali va la riconoscenza<br />

e il plauso <strong>di</strong> tutti i fanesi.<br />

Così la Sant’Orsola <strong>di</strong> scuola guercinesca e il San Francesco Saverio<br />

del bolognese Benedetto Gennari a giorni torneranno nella Basilica <strong>di</strong><br />

S. Paterniano dove erano stati rubati nella notte fra il 4 e 5 marzo del<br />

1991, insieme con altri quattro quadri e due inginocchiatoi.<br />

A questa notizia, una volta tanto positiva, debbo aggiungere un <strong>di</strong>scorso<br />

ripetuto più volte, ma non sempre ascoltato, purtroppo!<br />

Quando siamo andati a “riconoscere” i quadri rubati per ottenerne dalla<br />

Magistratura il <strong>di</strong>ssequestro siamo stati facilitati nel modo più assoluto<br />

dalla documentazione fotografica a colori, che abbiamo sottoposto ai<br />

Carabinieri. In giro nelle stanze zeppe dei più vari oggetti d’arte recuperati<br />

c’erano con noi altre persone che non avevano la documentazione<br />

fotografica e che basavano il riconoscimento sulla loro testimonianza<br />

e sul verbale della denuncia presentata dopo aver subito il furto. Per<br />

riottenere i propri beni dovranno seguire la strada delle prove testimoniali,<br />

allungando i tempi <strong>di</strong> riconsegna e complicando l’iter burocratico.<br />

Ma l’importanza della documentazione fotografica (prima ancora<br />

che come prova <strong>di</strong> proprietà) va messa in evidenza come strumento <strong>di</strong><br />

ricerca dei beni saccheggiati, perché i Carabinieri del nucleo speciale,<br />

con le foto, possono meglio orientarsi nella ricerca e nella in<strong>di</strong>viduazione<br />

dei pezzi rubati negli ambienti dove si fa commercio, autorizzato<br />

o clandestino, <strong>di</strong> oggetti d’arte.<br />

Altro è una descrizione, altro è una foto: non c’è bisogno <strong>di</strong> insistere.<br />

In conclusione: per completare e avvalorare l’inventario dei beni artistici<br />

e culturali <strong>di</strong> parrocchie, conventi, enti religiosi è necessario e<br />

urgente fotografare tutto (quadri, statue, mobili, suppellettili), ogni<br />

cosa che può essere asportata (all’interno della Villa del Prelato anni<br />

fa hanno rubato le bellissime porte settecentesche in noce!). Sia ben<br />

chiaro che non è necessario eseguire “foto d’arte”, si può usare una<br />

29


normale macchina fotografica o anche una cinepresa.<br />

Repetita iuvant? Speriamo <strong>di</strong> sì. E non sto a ripetere il valore dei beni<br />

artistici e culturali ecclesiastici che certamente non sono stati prodotti<br />

per alimentare l’ingor<strong>di</strong>gia <strong>di</strong> ladri e ricettatori.<br />

1992<br />

30


UN “DOMENICHINO” RESTAURATO<br />

Nel Duomo <strong>di</strong> <strong>Fano</strong> la cappella <strong>di</strong> tutti i Santi, nota ai più come<br />

Cappella Nolfi, si presenta finalmente restaurata dopo un decennio <strong>di</strong><br />

stu<strong>di</strong> e interventi forzatamente intermittenti, operati dai Cantieri <strong>di</strong>dattici<br />

dell’Istituto Centrale del Restauro sotto la guida del prof. Filippo<br />

Trevisani.<br />

A partire dal 1604, anno <strong>di</strong> concessione del relativo “giuspatronato”,<br />

Cesare (sacerdote) e Guido Nolfi, funzionario pontificio, ottennero <strong>di</strong><br />

trasformare “in modo nobile” la cappella “grande” del Duomo, già non<br />

del tutto esente dalla tabe dell’umi<strong>di</strong>tà.<br />

La storia della cappella è cosa ormai nota: intervenne Andrea Lilli per<br />

la pala d’altare (“Il Para<strong>di</strong>so e l’Assunta”), intervennero Francesco<br />

Caporale scultore, Girolamo Rainal<strong>di</strong> architetto, Pietro Solari plastificatore<br />

e soprattutto intervenne Domenico Zampieri detto il<br />

“Domenichino”, per affrescare pareti e volta (1617-18) con quin<strong>di</strong>ci<br />

quadri sulla Vita della Vergine, più il lanternino, con “Dio Padre” e<br />

quattro ton<strong>di</strong> con altrettante simbologie mariane.<br />

Sono purtroppo note anche le vicende poco felici che deturparono la<br />

cappella e i suoi capolavori dopo il <strong>di</strong>sastroso incen<strong>di</strong>o del 1749 che<br />

<strong>di</strong>strusse il nuovo coro del Duomo e saturò <strong>di</strong> acre fumo tutto l’e<strong>di</strong>ficio.<br />

I restauratori della cappella presero in “<strong>cura</strong>” (e si capisce il perché)<br />

soprattutto gli affreschi del Domenichino che tra l’incen<strong>di</strong>o, l’umi<strong>di</strong>tà,<br />

e spesso l’imperizia <strong>di</strong> chi li toccò avevano perduto qualcosa<br />

del primitivo smalto, pardon, “della primitiva tempera”.<br />

Finalmente dopo 250 anni ci viene restituito un Domenichino più vero<br />

in una cappella decisamente monumentale; l’unica che si possa ammirare<br />

qui a <strong>Fano</strong>, e certamente tra le più insigni, del primo Seicento italiano.<br />

Cedendo alla tentazione della curiosità <strong>di</strong>rò che né Cesare morto<br />

anzitempo, né Guido Nolfi (che non si mosse da Roma) poterono<br />

ammirare il gioiello regalato alla loro Cattedrale, alla loro città.<br />

Dicevamo del restauro: purtroppo le parti ortogonali <strong>di</strong> stucco o <strong>di</strong> pietra,<br />

che malauguratamente via via si staccarono, furono sostituite da<br />

pezzi “fac-simile” <strong>di</strong>sancorando il loro aspetto dal resto del contesto.<br />

31


Con quest’ultimo restauro grande stu<strong>di</strong>o è stato applicato nel recupero<br />

della materia originale degli affreschi per tornare all’opera del<br />

Domenichino (una parte, però, è andata irrime<strong>di</strong>abilmente perduta); e<br />

ciò è stato fatto “per via <strong>di</strong> togliere piuttosto che per via <strong>di</strong> aggiungere”.<br />

Le aggiunte, infatti, le ricuciture, le verniciature avevano prodotto nel<br />

tempo, <strong>di</strong>ce il prof. Trevisani, un Domenichino caricaturalmente idealizzato.<br />

Ora la Cappella Nolfi splende nella forma più vicina a quella che volle<br />

il Domenichino, nella forma che i committenti sognarono per esprimere<br />

la propria Fede.<br />

1999<br />

32


“L’ASSUNTA” DELLA CAPPELLA NOLFI<br />

A tutti è noto che la Cattedrale <strong>di</strong> <strong>Fano</strong> ha il titolo dell’Assunta, come<br />

quella <strong>di</strong> Pesaro e <strong>di</strong> Urbino. Aggiungiamo che Guido Nolfi, semplice<br />

chierico molto lontano dal Sacerdozio, elemento <strong>di</strong> primo piano nella<br />

Curia romana dove aveva comperato (era usanza del tempo, quasi un<br />

investimento) un alto remunerativo ufficio, fece <strong>di</strong>pingere nel 1618 da<br />

Domenico Zampieri (il Domenichino) la cappella già avuta in concessione<br />

(“giuspatronato”), insieme col fratello don Cesare, dal Capitolo<br />

della Cattedrale e dal Vescovo.<br />

Tra le altre pitture eseguite dal celebre Domenichino c’è, ormai ha 487<br />

anni, nella volta un quadro mistilineo che rappresenta “Maria Assunta<br />

in Cielo”, un quadro che Domenico Cunego (1727-84) molti anni dopo<br />

incise magistralmente cosicché, mentre i colori originari dopo tante<br />

traversie e restauri appaiono sbia<strong>di</strong>ti, ci è consentito vedere tutto l’impianto<br />

del quadro posto all’inizio della volta.<br />

Non dobbiamo <strong>di</strong>menticare che detta Cappella Nolfi è de<strong>di</strong>cata oltre<br />

che alla Trinità e a tutti i Santi anche alla Vergine Madre <strong>di</strong> Dio le cui<br />

salienti storie sono illustrate da ben 15 quadri <strong>di</strong> <strong>di</strong>versa misura e<br />

<strong>di</strong>verso formato.<br />

2005<br />

33


PERCHÉ NON È ANDATO A BOLOGNA<br />

L’ANGELO CUSTODE DEL GUERCINO<br />

L’Angelo Custode del Guercino, noto ad un vasto pubblico per la riproduzione<br />

a colori <strong>di</strong>ffusa negli anni “trenta” dalla <strong>di</strong>tta Alinari, noto agli<br />

amanti dell’arte anche per una poesia che gli de<strong>di</strong>cò nel 1848 il poeta<br />

inglese Robert Browing dopo averlo ammirato nella sua sede originale,<br />

la cappella Nolfi-Galassi a S. Agostino (ora la tela è depositata al<br />

Museo Civico), ha fatto parlare polemicamente <strong>di</strong> sé in occasione della<br />

grande mostra <strong>di</strong> opere guercinesche a Bologna e a Cento.<br />

A quella mostra, s’è detto, non doveva mancare l’Angelo Custode che<br />

avrebbe fatto “correre” il nome <strong>di</strong> <strong>Fano</strong> favorendo la promozione turistica<br />

della città.<br />

Un punto, questo, che non va sottovalutato, ma sul quale ho la sensazione<br />

(posso sbagliare) che molti si muovono spinti da una specie <strong>di</strong> una<br />

mania superficiale e paesana.<br />

Tornando alla mostra del Guercino <strong>di</strong>rò che anche senza l’Angelo<br />

Custode il nome <strong>di</strong> <strong>Fano</strong> è “corso due volte” nelle sale bolognesi e nello<br />

splen<strong>di</strong>do catalogo: infatti, del Guercino, la <strong>Cassa</strong> <strong>di</strong> Risparmio <strong>di</strong> <strong>Fano</strong><br />

ha mandato Lo sposalizio della Vergine, splen<strong>di</strong>do dopo il restauro, e da<br />

Montpellier è stata mandata la tela col S. Giovanni alla Fonte rubata nel<br />

1797 dal generale Napoleone Bonaparte nella chiesa <strong>di</strong> S. Pietro in<br />

Valle e poi rimasta in Francia perché Antonio Canova, incaricato del<br />

recupero delle opere d’arte dello Stato ecclesiastico la regalò al re Luigi<br />

XVIII in riconoscimento dei meriti acquistati nel facilitargli il proprio<br />

delicato lavoro.<br />

I tempi eccezionali spiegano anche le cose assurde: prima il furto, poi<br />

il regalo! Purtroppo ciò che regalò il plenipotenziario pontificio intorno<br />

al 1815 non può essere reclamato nel 1991.<br />

L’Angelo Custode sarebbe stato concesso per la mostra se gli organizzatori<br />

avessero accolto la con<strong>di</strong>zione posta dalla Curia che ne è proprietaria;<br />

dato che il <strong>di</strong>pinto perde scaglie <strong>di</strong> colore rischiando la sua<br />

integrità, era stato chiesto <strong>di</strong> provvedere ad un restauro prima della<br />

esposizione: un lavoro delicato che prima o poi dovrà essere fatto e che<br />

richiede tempo e denaro. Sul momento non c’erano né l’uno né l’altro.<br />

34


Comunque bisognerà pensare al restauro ancor prima <strong>di</strong> costituire il<br />

museo <strong>di</strong>ocesano <strong>di</strong> cui l’Angelo sarà, senz’altro, custode e protettore<br />

emblematico.<br />

1991<br />

35


1797: TRAFUGATA DAI FRANCESI LA PALA D’ALTARE<br />

DI S. PIETRO<br />

La vecchia chiesa <strong>di</strong> S. Pietro in Valle risulta già esistente nel 789:<br />

quin<strong>di</strong> prima che Carlo Magno venisse proclamato Imperatore del<br />

Sacro Romano Impero! La vecchia chiesa, che era parrocchia, si ergeva<br />

dentro la cerchia delle mura romane ed era detta “in valle” perché<br />

poco lontana dal torrione romano d’angolo (in fondo all’attuale via<br />

Garibal<strong>di</strong>) che s’innalzava sulla sottostante pianura <strong>di</strong> fronte al mare.<br />

Quel complemento <strong>di</strong> luogo (in valle) probabilmente serviva anche a<br />

<strong>di</strong>stinguere questa chiesa da altra de<strong>di</strong>cata allo stesso santo in altre<br />

parti della città.<br />

All’inizio del sec. XVII un gruppetto <strong>di</strong> sacerdoti fanesi decise <strong>di</strong> seguire<br />

l’esempio del romano Filippo Neri e fece sì che gli venisse affidata<br />

dal Vescovo la chiesa <strong>di</strong> S. Pietro, che cessò <strong>di</strong> essere parrocchia, per<br />

crearvi un oratorio <strong>di</strong> stile filippino. Abbattuta la vecchia inadatta costruzione,<br />

il padre Girolamo Gabrielli <strong>di</strong>ede mano alla nuova chiesa che fu<br />

consacrata, ancora coi muri grezzi e senza cupola, nel 1617, e che fu<br />

de<strong>di</strong>cata ai Santi Pietro e Paolo: raggiunse la bellezza che ancora ammiriamo<br />

dopo un secolo <strong>di</strong> lavori sostenuti dalla liberalità <strong>di</strong> molti patrizi<br />

locali.<br />

Sull’altar maggiore fu posta nel settembre 1626 la tela (cm 342 x 210)<br />

<strong>di</strong>pinta dal grande Guido Reni rappresentante “Cristo che dà le chiavi a<br />

S. Pietro”. Quella tela fu commissionata dal Gabrielli, ma fu pagata trecento<br />

scu<strong>di</strong> da Francesco Maria Marcolini.<br />

Il 6 febbraio 1797 giunsero a <strong>Fano</strong> i francesi del generale Bonaparte.<br />

Quale fu la fine del quadro del Reni? E’ facile immaginarla. Insieme<br />

con la tela del Guercino, “S. Giovanni alla fonte”, che si trovava nella<br />

stessa chiesa fu scelta per essere trasportata in Francia e partì da <strong>Fano</strong><br />

il 21 febbraio 1797; quin<strong>di</strong> dopo la “Pace <strong>di</strong> Tolentino” (19 febbraio).<br />

In quella stessa occasione furono portate via da <strong>Fano</strong> come prede <strong>di</strong><br />

guerra 1051 libre <strong>di</strong> argenti razziati nelle chiese che già avevano perduto<br />

<strong>di</strong>eci campane per ottomila libre in città, e altre 22 campane in<br />

Diocesi che mai si seppe che fine avessero fatto. L’altro quadro <strong>di</strong><br />

Guido Reni che era in un altare <strong>di</strong> S. Pietro, “L’Annunciazione”,<br />

37


(momentaneamente nella nostra pinacoteca) non fu portato via perché<br />

sembra che i Gabrielli <strong>di</strong>mostrassero che era <strong>di</strong> loro proprietà.<br />

I due quadri asportati, che ho veduto in due mostre a Bologna, erano veramente<br />

dei capolavori. La “consegna delle chiavi” fu rifatta su tela da<br />

Carlo Magini: il Massarini <strong>di</strong>ce che ad 84 anni il Magini riprodusse una<br />

piccola copia del quadro già da lui fatta per il Capitolo della Cattedrale;<br />

ma è probabile che abbia fatto il lavoro servendosi <strong>di</strong> un’altra copia esistente<br />

nell’appartamento nobile <strong>di</strong> palazzo Marcolini (ora Istituto<br />

d’Arte). Invano il Vescovo, mons. Severoli, scrisse a Napoleone una lettera,<br />

<strong>di</strong> cui esiste copia in Archivio Vescovile e che inizia con le parole<br />

“Invitto Conquistatore”, per pregarlo <strong>di</strong> restituire il <strong>di</strong>pinto del Reni e<br />

insieme per chiedergli qualche migliaio <strong>di</strong> rubbie <strong>di</strong> grano per sostenere<br />

a Fossombrone “fino al nuovo raccolto una turba <strong>di</strong> infelici”. Non sappiamo<br />

cosa rispose Napoleone che già era lontano da <strong>Fano</strong>. Ma oralmente<br />

i vecchi stu<strong>di</strong>osi dell’Archivio Vescovile <strong>di</strong>cevano che Napoleone<br />

aveva risposto; la lettera non l’ha vista nessuno.<br />

Il Vescovo, poi Car<strong>di</strong>nale e Nunzio Apostolico a Vienna, era rimasto<br />

affezionato a quel quadro e in una lettera da Vienna (1814) al canonico<br />

Parri scrive: “Il Luzi pittore mi ha mandato copia del S. Pietro <strong>di</strong><br />

Guido. Ella gli <strong>di</strong>ca che quando ne lavori un’altra forse l’acquisterò”.<br />

Il Car<strong>di</strong>nale Severoli stava per essere eletto Papa nel conclave del 1823<br />

(e già qualche suo sostenitore faceva girare la strofetta: “Chi vuol che<br />

il Papa ci racconsoli/ il voto porga a Severoli”), ma fu scelto il marchigiano<br />

Annibale Della Genga, Leone XII. Il Car<strong>di</strong>nale Severoli,<br />

vescovo <strong>di</strong> Viterbo, <strong>di</strong>sse qualche tempo dopo: “Non gli uomini, ma<br />

Dio mi ha tolto una croce che non era per le mie spalle”.<br />

2004<br />

38


SAN PIETRO IN VALLE: CHE RESTI CHIESA<br />

Con quelle due recenti mostre <strong>di</strong> pittura ospitate nella chiesa <strong>di</strong> S.<br />

Pietro in Valle si è riaffacciato in molti il problema della destinazione<br />

<strong>di</strong> quella chiesa. C’è chi in sede <strong>di</strong> conversazione privata ha auspicato<br />

che <strong>di</strong>venti un museo, c’è chi (sulla linea <strong>di</strong> una situazione più che<br />

secolare, cioè dal 1861) ritiene che la bella chiesa barocca (strutturata<br />

così com’è nel corso <strong>di</strong> un secolo, all’incirca dal 1617 al 1717) torni<br />

ad essere riaperta al culto.<br />

La chiesa è tuttora consacrata; è stata chiusa anni fa per urgenti lavori<br />

<strong>di</strong> restauro e per procedere alla deumi<strong>di</strong>ficazione che ha causato danni<br />

soprattutto alle dorature degli stucchi, al tinteggio e ad altro ancora.<br />

Togliere a S. Pietro in Valle la sua destinazione naturale sarebbe un atto<br />

<strong>di</strong> regressione culturale e storica che non appare giustificato; se ne può<br />

stu<strong>di</strong>are un uso che sia confacente alla sua importanza, alla sua bellezza,<br />

alla sua storia senza stravolgere e annullare ciò che essa rappresenta<br />

e che generazioni <strong>di</strong> fanesi hanno voluto che rappresentasse: S.<br />

Pietro in Valle è un monumento e un prezioso contenitore <strong>di</strong> opere<br />

d’arte, ma alla base della sua fondazione e del suo crescere in bellezza<br />

c’è un atto <strong>di</strong> fede, una testimonianza <strong>di</strong> religiosità: non bisogna<br />

<strong>di</strong>menticarlo.<br />

1997


SAN PIETRO IN BRONZO E IN LEGNO… TARLATO<br />

Un tempo era un onore e un dovere dei citta<strong>di</strong>ni rendere belle le chiese<br />

o per i villici rendere belle le e<strong>di</strong>cole, le “figurine” sparse nei viottoli<br />

della campagna. Un modo, <strong>di</strong>rete, tutto esteriore; un modo che<br />

però faceva sentire la Fede anche come Cultura: uno dei tanti mo<strong>di</strong>!<br />

Tempi lontani; c’è speranza che non siano morti.<br />

Qualcuno certamente conoscerà la storia del busto <strong>di</strong> S. Pietro posto in<br />

posizione eminente in una ben lavorata nicchia della chiesa <strong>di</strong> S. Pietro<br />

in Valle a <strong>Fano</strong>. La più bella chiesa barocca delle Marche!<br />

Il busto <strong>di</strong> S. Pietro merita due parole nonché un monito all’attuale<br />

proprietario (il Comune).<br />

Correva l’anno 1600 e a Roma, nel Tevere, venne pescata una testa<br />

bronzea <strong>di</strong> buona fattura e in ottime con<strong>di</strong>zioni; vi ravvisarono una<br />

testa <strong>di</strong> S. Pietro. Nessuno seppe <strong>di</strong>re quando e come quella testa fosse<br />

capitata nel fiume. La testa del Santo venne nelle mani <strong>di</strong> Guido Nolfi,<br />

alto funzionario <strong>di</strong> Curia, che certamente l’acquistò da un antiquario.<br />

Dopo averla fatta inserire in un busto ligneo, che la completava e<br />

abbelliva, la regalò ai padri oratoriani <strong>di</strong> S. Pietro in Valle perché la<br />

collocassero nella loro nuova chiesa fanese. Gli oratoriani trovarono<br />

degno posto al busto nel 1619. Il complesso è eccezionalmente bello.<br />

Ma, ecco il solito ma, i tarli non hanno avuto nessun rispetto del busto<br />

ligneo che ha urgente bisogno <strong>di</strong> una <strong>di</strong>sinfestazione per essere restituito<br />

allo splendore e al vigore originali.<br />

La chiesa è del Comune. Qualcuno dovrà pur pensarci: le cose belle,<br />

quelle che fanno “cultura” costano; ma sono sol<strong>di</strong> spesi bene.<br />

1999<br />

40


ANCORA SU S.MARIA DEL RIPOSO<br />

Mi sia consentita un’aggiunta a Cristina Almerighi, Immagini dai<br />

Piattelletti, pubblicato il 22 <strong>di</strong>cembre sul “Nuovo Amico”. L’articolo<br />

segnalava l’omonimo recente libro sul pavimento della chiesa dei<br />

Piattelletti <strong>cura</strong>to da Clau<strong>di</strong>o Giar<strong>di</strong>ni, <strong>di</strong>rettore del Museo della<br />

Ceramica <strong>di</strong> Pesaro. La serietà e l’importanza del lavoro <strong>di</strong> Giar<strong>di</strong>ni e<br />

dei suoi vali<strong>di</strong> collaboratori è già stata messa in evidenza; aggiungo<br />

che quel libro è un’autentica “chicca” sia per gli appassionati d’arte<br />

ceramica sia per chi si interessa ai beni culturali fanesi: soprattutto<br />

quando accade che questi ultimi entrano nella sciagurata e non rara<br />

categoria <strong>di</strong> quelli irrime<strong>di</strong>abilmente perduti per colpa della superficialità<br />

e incuria <strong>di</strong> chi dovrebbe <strong>di</strong>fenderli e custo<strong>di</strong>rli.<br />

Ritorno sull’argomento perché a parecchi lettori è suonato del tutto<br />

nuovo che la chiesetta della Madonna dei Piattelletti in realtà si chiamasse<br />

Santa Maria del Risposo: che cosa significa quel nome e perché<br />

andò perduto? Dopo che nel 1480 i Gabrielli fecero restaurare la piccola<br />

chiesa (restaurare, e non costruire come si legge nelle guide <strong>di</strong><br />

<strong>Fano</strong>) dotandola del già ricordato splen<strong>di</strong>do pavimento a piastrelle<br />

policrome l’una <strong>di</strong>versa dall’altra, la gente, e specialmente la più semplice,<br />

rimase colpita dalla novità del pavimento formato da quegli<br />

apparenti “piattelletti”: anzi, la novità fu tale che i “piatllét” <strong>di</strong>edero il<br />

nome non solo alla chiesa e all’immagine della Madonna che vi era<br />

custo<strong>di</strong>ta (io vi entrai poche volte da bambino <strong>di</strong>etro a mia nonna che<br />

aveva una particolare devozione per quell’immagine), ma <strong>di</strong>ventarono<br />

il toponimo del quartiere nel quale la chiesa si trovava: uno dei quartieri<br />

che ebbero definizione in epoca malatestiana fuori dalla cinta<br />

romana.<br />

È chiaro che “la Madonna dei Piattelletti” nome semplicissimo e<br />

soprattutto legato ad un imme<strong>di</strong>ato riferimento (il pavimento che tutti<br />

potevano ammirare) era destinato a soppiantare quello dotto e non<br />

troppo comprensibile <strong>di</strong> Santa Maria del Riposo. Tale titolo, insieme a<br />

quelli “della Dormizione” e “del Transito”, si dava alle chiese de<strong>di</strong>cate<br />

alla morte e assunzione della Vergine. A tale proposito è il caso <strong>di</strong><br />

41


icordare l’intitolazione dei tre testi più antichi che narrano la fine terrena<br />

<strong>di</strong> Maria: l’etiopico Libro del Riposo, la Dormizione della<br />

Vergine scritto in greco, infine il latino Transitus Mariae.<br />

Nel secondo <strong>di</strong> questi testi c’è la descrizione della tomba dalla quale<br />

Maria sarebbe stata assunta in cielo e che ancora oggi è venerata nella<br />

sotterranea Basilica della Dormizione posta nei pressi del Getsemani.<br />

Quin<strong>di</strong> a <strong>Fano</strong> le chiese che ricordano la morte e l’assunzione della<br />

Madonna erano quattro: la Cattedrale, che ha il titolo dell’Assunta, S.<br />

Maria del Riposo, S. Maria del ponte Metauro e S. Maria Nova. Dopo<br />

la seconda guerra mon<strong>di</strong>ale è stata de<strong>di</strong>cata alla Madonna la chiesa che<br />

ha come titolo “La Gran Madre <strong>di</strong> Dio”.<br />

1997<br />

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SANTA MARIA DEL SUFFRAGIO RESTAURATA<br />

Ciò che la Chiesa e i cattolici hanno costruito a <strong>Fano</strong> continua ad essere<br />

per la città fonte <strong>di</strong> scoperte e <strong>di</strong> recuperi <strong>di</strong> alto valore che coprono<br />

il vuoto quasi assoluto <strong>di</strong> costruzioni artistiche del presente tramontante<br />

secolo; ma nel medesimo tempo ci fanno malinconicamente ricordare<br />

anche le <strong>di</strong>struzioni “in toto” causate dalla guerra (S. Agostino, Santa<br />

Croce, S. Cristoforo in città, S. Francesco <strong>di</strong> Paola) e dalla mala amministrazione<br />

comunale (S. Ignazio, S. Francesco), le ruberie <strong>di</strong> tesori<br />

d’arte operate dai francesi (Repubblica e Regno Italico), le trasformazioni<br />

e le alienazioni inconsulte operate sugli enti ecclesiastici.<br />

E’ dunque motivo <strong>di</strong> grande sod<strong>di</strong>sfazione la notizia del prossimo<br />

restauro della chiesa del “Suffragio” o, per l’esattezza, <strong>di</strong> “S. Maria del<br />

Suffragio”, aperta al culto fino a una quarantina d’anni fa. Partecipano<br />

al finanziamento del restauro la locale “<strong>Fondazione</strong>” della <strong>Cassa</strong> <strong>di</strong><br />

Risparmio che, messi da parte gli interventi a pioggia, concentra statutariamente<br />

le sue energie in ben consistenti “progetti”, la Regione<br />

Marche, la Sovrintendenza per i beni ambientali e architettonici e quella<br />

per i beni artistici e storici delle Marche; contribuisce all’impresa<br />

anche un giornalista <strong>di</strong> Rastatt, il sig. Basinger, memore che nella chiesa<br />

del Suffragio è sepolto l’architetto fanese Domenico Egi<strong>di</strong>o Rossi<br />

(1659-1715) progettista <strong>di</strong> pregevoli monumentali e<strong>di</strong>fici nella città <strong>di</strong><br />

Rastatt e membro della Confraternita del Suffragio.<br />

A questo sodalizio attivissimo che è proprietario della chiesa, si deve,<br />

tra l’altro, l’idea del recupero della chiesa stessa, che venne ristrutturata<br />

nel Sei-Settecentesco (precedentemente si chiamava - pare dal<br />

Duecento - chiesa del Crocefisso) e arricchita <strong>di</strong> opere d’arte e <strong>di</strong> stucchi<br />

che ancora la rendono esemplare e suggestiva. Resta da <strong>di</strong>re che<br />

dopo il restauro il Suffragio sarà usato come sala polivalente per convegni,<br />

concerti, mostre <strong>di</strong> interesse citta<strong>di</strong>no. Fra poco, dunque, non ci<br />

sarà più la scusa che a <strong>Fano</strong> la cultura soffre per mancanza <strong>di</strong> strutture.<br />

1996<br />

43


MADONNA BRACCI<br />

Nella vecchia, e ormai chiusa al culto, chiesa <strong>di</strong> San Cristoforo che<br />

sorgeva in città, in uno “stra<strong>di</strong>no”, esattamente in via de’ Petrucci nell’angolo<br />

con via Federici, e che fu quasi completamente <strong>di</strong>strutta da un<br />

bombardamento del 1944 (quando già era stata costruita la nuova chiesa<br />

parrocchiale <strong>di</strong> San Cristoforo sulla Flaminia) era venerata una<br />

immagine della Madonna sotto il titolo <strong>di</strong> Mater Purissima.<br />

Credo che l’immagine che qui viene proposta, tratta da un’incisione <strong>di</strong><br />

metà Ottocento dovuta a F.Bracci, sia l’unico esemplare che ancora si<br />

conserva nell’Archivio Storico Diocesano <strong>di</strong> <strong>Fano</strong> e che si possa parlare<br />

<strong>di</strong> un vero e proprio recupero, anche se casuale.<br />

Il quadro originale a tutt’oggi risulta <strong>di</strong>sperso.<br />

1999<br />

44


IL SANTUARIO DI SANTA MARIA AL PONTE METAURO<br />

Le cattedrali <strong>di</strong> <strong>Fano</strong>, Pesaro, Urbino sono de<strong>di</strong>cate a Santa Maria<br />

Assunta a <strong>di</strong>mostrazione che il culto della Vergine era <strong>di</strong>ffuso e popolare<br />

fin dai tempi antichissimi; con l’andar dei secoli molti santuari<br />

mariani sorsero nel territorio della nostra attuale provincia.<br />

Nel comune <strong>di</strong> <strong>Fano</strong> il santuario mariano più famoso certamente è<br />

stato, ed è rimasto, quello <strong>di</strong> Santa Maria al Ponte Metauro, oggi generalmente<br />

in<strong>di</strong>cato come “Santuario della Madonna del Ponte”. È posto<br />

nelle vicinanze della sponda sinistra del Metauro, sulla via Adriatica,<br />

verso <strong>Fano</strong>.<br />

Mala sorte ebbe, invece, il santuario della Beata Vergine della<br />

Colonna, inaugurato nel 1796 (un anno prima dell’arrivo dell’armata<br />

napoleonica) fu abbattuto nel 1940 per far posto all’aeroporto; nel<br />

1959 fu ricostruito in forma moderna in località Tre Ponti; ma la venerazione<br />

d’un tempo s’era ormai perduta.<br />

Dicevamo che il santuario più antico è quello della “Madonna del<br />

Ponte” che, tra<strong>di</strong>zionalmente e solennemente, celebra ogni anno la propria<br />

festa il martedì <strong>di</strong> Pasqua, la “terza festa” come <strong>di</strong>cono i fanesi.<br />

Bisogna relegare tra le leggende la sua fondazione dovuta nel quinto<br />

secolo ad<strong>di</strong>rittura all’Augusta Pulcheria, o nel 1219 ad una sosta e ad<br />

un miracolo <strong>di</strong> San Francesco. Sono più vicini alla realtà coloro che<br />

fissano l'origine <strong>di</strong> quel luogo sacro fra il 1319 e il 1323 quando, ormai<br />

fuori uso il ponte <strong>di</strong> pietra costruito nel 1230, fu fatto un nuovo ponte<br />

<strong>di</strong> legno che scavalcava il fiume Metauro.<br />

Si <strong>di</strong>ce che vicino al nuovo ponte, dalla parte <strong>di</strong> <strong>Fano</strong>, il Beato Cecco<br />

da Pesaro, terziario francescano e romito, fece porre una nicchia o celletta<br />

in cui era un affresco rappresentante la “Vergine che allatta il<br />

Bambino”, popolarmente “La Madonna del latte”. La piccola nicchia<br />

con l’affresco (che i fanesi chiamavano generalmente “la figura” o “la<br />

figurina”) col tempo e con la venerazione dei pellegrini <strong>di</strong>retti o <strong>di</strong><br />

ritorno da Loreto, <strong>di</strong>venne chiesa e ricevette dai citta<strong>di</strong>ni molte offerte<br />

e beni tanto che poté funzionare vicino al santuario un ospizio e tanto<br />

che coll’andar dei secoli fu possibile costituire un’Azienda del Ponte<br />

45


Metauro così ben dotata che il Comune per molti secoli vi attinse il<br />

necessario per finanziare opere <strong>di</strong> bene.<br />

Il santuario della Madonna del Ponte fu caro ai Malatesta ed è rimasto<br />

famoso il pellegrinaggio che vi guidò da Rimini nel 1399 Carlo<br />

Malatesta che poi, nel 1416, fece dono alla Vergine <strong>di</strong> una corona<br />

d’argento dorato. Nel 1427 Pandolfo III, ammalato e pellegrino a<br />

Loreto, vi sostò in preghiera. Saltando i secoli fra i personaggi illustri<br />

che si fermarono a Santa Maria del Ponte ricor<strong>di</strong>amo San Carlo<br />

Borromeo (1564) e Papa Pio IX nel 1857.<br />

La venerata immagine della “Madonna del latte” dal 1597 al 1936<br />

rimase nel grande altare-e<strong>di</strong>cola innalzato dallo scalpellino veneziano<br />

Stefano Bambagiani, da lì fu sapientemente strappata per essere posta<br />

su tela in una cappella ottenuta ove un tempo era l’ingresso alla chiesa.<br />

La nostra Madonna ha vissuto il suo momento più glorioso quando Sua<br />

Santità Giovanni Paolo II, nella sua venuta a <strong>Fano</strong>, il 12 agosto 1984,<br />

l’ha incoronata e proclamata Patrona dei pescatori.<br />

2003<br />

46


LA CATTEDRA DEL VESCOVO<br />

Finalmente per ottemperare alla Nota pastorale della Commissione<br />

episcopale per la liturgia (presentata alla stampa due settimane fa da<br />

Mons. Luca Brandolini) la Cattedrale <strong>di</strong> <strong>Fano</strong>, che è l’unica in Italia a<br />

non avere una specifica Cattedra del Vescovo, riavrà tale Cattedra che<br />

non è un arredo qualsiasi (o, peggio ancora, un simbolo del “potere”!)<br />

ma è piuttosto un segno pastorale-liturgico che non può essere cancellato.<br />

Ora (dopo i lavori che una ventina <strong>di</strong> anni fa servirono a trasformare il<br />

presbiterio) <strong>di</strong>etro l’altare, con le spalle rivolte al coro, c’è una sede<br />

che, però, non è riservata al Vescovo ma è usata da tutti i celebranti (o<br />

come meglio si deve <strong>di</strong>re nello spirito della riforma liturgica) è usata<br />

da tutti i presidenti dell’assemblea.<br />

Ebbene, la “nota” <strong>di</strong> cui leggo i punti fondamentali in Avvenire <strong>di</strong>ce<br />

che “nelle chiese cattedrali la Sede del presidente dell’assemblea deve<br />

essere <strong>di</strong>stinta dalla Cattedra del Vescovo, ma né l’una né l’altra devono<br />

avere la forma <strong>di</strong> trono”. Prescrizione più che giusta.<br />

Mi auguro che il nostro Vescovo insieme con la Commissione <strong>di</strong> Arte<br />

sacra procuri <strong>di</strong> dare attuazione alla Nota pastorale della Commissione<br />

Episcopale per la Liturgia che intende chiarire “come procedere perché<br />

le Chiese Cattedrali, parrocchiali, monastiche, ecc.ecc. siano messe in<br />

grado <strong>di</strong> corrispondere al complesso <strong>di</strong> esigenze che il Concilio, con la<br />

riforma liturgica, ha espresso”.<br />

1996<br />

47


LA “FIGURA REGIA”: UNA SCULTURA MEDIEVALE?<br />

Nel <strong>di</strong>cembre 1980 nelle “Lettere sulla cultura “ (ed. <strong>Cassa</strong> <strong>di</strong><br />

Risparmio <strong>di</strong> <strong>Fano</strong>, 1981) il Vescovo Costanzo Micci auspicava che la<br />

chiesa <strong>di</strong> S. Domenico <strong>di</strong>ventasse Museo Diocesano. Egli idealmente<br />

si rivolgeva a Jacopo del Cassero <strong>di</strong> cui <strong>di</strong>ceva che monsignor<br />

Giovanni Fallani, poi presidente della Commissione d’Arte Sacra del<br />

Vaticano, aveva ritrovato le ossa “<strong>di</strong>etro l’altar maggiore <strong>di</strong> S.<br />

Domenico nell’agosto 1964”.<br />

Una notizia interessante ma da verificare dato che un vecchio testimone,<br />

Adriano Negusanti, <strong>di</strong>ce nella sua Sylva che lui stesso il 26 novembre<br />

1602 aveva visto <strong>di</strong>sfare il sepolcro <strong>di</strong> Jacopo <strong>di</strong> cui ormai nessuno<br />

si <strong>cura</strong>va. Né si seppe che fine avevano fatto le povere ossa del<br />

famoso personaggio dantesco (Purg. V, v. 64-84).<br />

Dopo venticinque anni l’idea <strong>di</strong> un Museo Diocesano non è stata<br />

abbandonata, ma s’è pensato a un’altra sede: quella della ex chiesa <strong>di</strong><br />

S. Agostino dove dovrebbe essere restaurata “ab imis” la cappella<br />

Nolfi-Galassi che si è salvata dalla rovina generale e dove potrebbe<br />

ritrovare il suo posto originale e naturale il celebre Angelo Custode<br />

<strong>di</strong>pinto dal Guercino.<br />

Però bisogna stare coi pie<strong>di</strong> per terra dato che ci vogliono ingenti risorse<br />

sia per impiantare il museo sia per custo<strong>di</strong>rlo e farlo funzionare.<br />

Il Museo Diocesano sarebbe un grande acquisto sia dal punto <strong>di</strong> vista<br />

pastorale sia da quello storico-culturale. Gli esempi <strong>di</strong> molte <strong>di</strong>ocesi<br />

italiane ci fanno gola, ma noi dobbiamo camminare con le nostre<br />

gambe.<br />

Ci sembra, dato che siamo in <strong>di</strong>scorso, che nel futuro museo dovrebbe<br />

trovare posto la “figura regia” (sbrigativamente chiamata da qualcuno<br />

nell’Ottocento “la figuraccia”) che per molti secoli è stata murata nel<br />

cortile del palazzo vescovile, esposta al vento e alla pioggia.<br />

Recuperata nel 1974 è stata sistemata fino a pochi anni fa nel leggio<br />

del seggio vescovile o del presidente dell’Assemblea che allora era tutt’uno.<br />

Detta “figura regia” non si sa chi realmente rappresenti e nemmeno<br />

è certo <strong>di</strong> che epoca sia.<br />

48


Il fatto che sia giunta a noi malconcia ha tenuto lontano gli stu<strong>di</strong>osi che<br />

potevano <strong>di</strong>rci qualcosa. Non sappiamo se era nella cattedrale andata a<br />

fuoco nel 1124, né se faceva parte della chiesa o era in qualche<br />

ambiente della curia tra le antichità <strong>di</strong> <strong>Fano</strong>.<br />

Quelle trecce che incorniciano la testa fanno pensare ad una scultura<br />

antica, forse potrebbe rappresentare l’imperatore Valentiniano vittorioso<br />

su Attila o, saltando i secoli, un sovrano del periodo ottoniano (dal<br />

970 al 1020): prima <strong>di</strong> fare il museo bisogna stu<strong>di</strong>are.<br />

2004<br />

49


COMPIE CENT’ANNI LA CHIESA DEI CAPPUCCINI<br />

La temporanea e già conclusa chiusura della chiesa <strong>di</strong> S. Pio X (per<br />

aprirvi due porte e per altri lavori) e il trasferimento delle sacre funzioni<br />

nella cappella dell’ex Seminario Regionale (de<strong>di</strong>cata all’Immacolata) ha<br />

dato modo a molti, anzi a moltissimi, <strong>di</strong> vedere per la prima volta questa<br />

chiesa e chiedersi da dove fosse venuta fuori: eppure, benché in parte<br />

nascosta da un gran muro <strong>di</strong> cinta e benché prospettante su una stra<strong>di</strong>cciola<br />

non battuta dal traffico, è lì da cento anni, giusti giusti.<br />

Era conosciuta un tempo come “Chiesa dei Cappuccini” perché fu da loro<br />

costruita dopo che il vecchio convento citta<strong>di</strong>no <strong>di</strong> Santa Cristina, che sorgeva<br />

dove adesso c’è la Scuola Me<strong>di</strong>a Gan<strong>di</strong>glio, venne confiscato con le<br />

leggi liberali (!?) del 1866. Per alcuni anni i Cappuccini vissero sparpagliati<br />

a gruppetti <strong>di</strong> due o tre, poi nel 1872 si riunirono tutti in due casette<br />

che regalò loro, in via Nolfi, l’arciprete delle Caminate. Finalmente otto<br />

anni dopo furono aiutati ad acquistare un terreno lungo la Flaminia su cui<br />

costruirono in due anni (1880-82) un nuovo convento, ma la chiesa venne<br />

terminata parecchi anni dopo: la consacrò nel 1896 il Vescovo Camillo<br />

Ruggeri. Non era recintata come adesso, e la facciata porticata si apriva su<br />

uno slargo a cui si accedeva da via Fanella e dalla Flaminia.<br />

I Cappuccini rimasero lì fino al 1923; <strong>di</strong>fatti fin dal <strong>di</strong>cembre 1914<br />

avevano venduto convento, chiesa e terreno alla Santa Sede che guardava<br />

a quel sito come a luogo ideale per costruirvi quello che fu poi il<br />

Seminario regionale Pio XI. Nel ‘23 i Cappuccini si trasferirono a S.<br />

Paterniano che allora, e fino a pochi anni fa, era anche parrocchia.<br />

Quando nell’ottobre 1924 furono inaugurati i nuovi locali del seminario,<br />

la chiesa venne restaurata ed ebbe un nuovo altare, anch’esso de<strong>di</strong>cato<br />

all’Immacolata; in più all’interno, veramente cappuccinesco per<br />

la semplicità, ebbe alcune decorazioni ad opera del pittore Francesco<br />

D’Urso. Il presbiterio, la cui severa bellezza è stata scoperta dal pubblico<br />

solo nell’occasione <strong>di</strong> cui <strong>di</strong>cevo all’inizio, fu decorato nel 1932<br />

dal pittore Emilio Lazzaro, che i fanesi più vecchi ricordano come ottimo<br />

insegnante nella Scuola d’Arte.<br />

1996<br />

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