Ruzante, Moscheta, Un inganno malriuscito - Aula Digitale

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Genere,
datazione
e soGGetto
L’Umanesimo e il Rinascimento Venezia capitale dell’editoria Ruzante
Ruzante
Moscheta
La Moscheta è una commedia regolare (che segue cioè le regole dell’unità di luogo, tempo
e azione) in cinque atti. Fu ultimata forse nel 1532. Rappresenta un ulteriore approfondimento
del personaggio di Ruzante e della sua psicologia. La scena è ambientata a Padova
e descrive la vita fatta di espedienti dei contadini inurbati. Centro della commedia è la
beffa, un topos ormai tradizionale: Menato, suo compare e amico, induce Ruzante a travestirsi
e a parlar «moscheto», cioè in modo artefatto e fiorentineggiante (da qui il titolo
della commedia), per mettere alla prova la fedeltà della moglie Betìa, che però fugge con
il soldato Tonin. Menato approfitta dell’ingenuità di Ruzante e diviene l’amante di Betìa.
Il protagonista, all’inizio, si accorge della responsabilità dell’amico in tutto ciò che gli accade,
ma, alla fine, è sopraffatto dal desiderio di ritornare nel proprio mondo immaginario,
in cui può fingere di essere un “bravaccio”, e che Menato sia un amico sincero, e Betìa
una moglie fedele. La forza comica e tragica della commedia sta nel continuo confronto
tra il mondo raccontato da Ruzante e i fatti reali nella loro crudeltà.
Un inganno malriuscito
Moscheta ■ Atto terzo, scene I-III
Il tranello
malriuscito
La scena si svolge in una delle strade di Padova. Ruzante si è lasciato convincere dal suo compare
Menato a travestirsi, fingendosi un ricco forestiero, per mettere alla prova la fedeltà della propria
moglie Betìa. In realtà Menato è innamorato della donna e vuole provocare una rottura tra
i due coniugi, per poterne approfittare. Betìa cade nella trappola e comincia a mostrare di voler
compiacere il nuovo venuto (Ruzante travestito), che le offre del denaro. Una volta scoperta, si difende
dalla furia del marito con un’altra bugia, dicendogli di averlo in realtà riconosciuto subito,
ma di essere voluta stare al gioco. Questa volta è Ruzante a cadere nella trappola, e scoprirà ben
presto che il suo gesto ha avuto conseguenze irreparabili.
Scena I
Ruzante, Betìa
Ruzante [esce precipitosamente di casa, come sospinto da Betìa, che si ode singhiozzare
all’interno] Mo’ che no me ’l dívitu inanzo, che te me cognescivi 1 ?
traduzione
Ruzante [esce precipitosamente di casa, come sospinto da Betìa, che si ode singhiozzare
all’interno] Ma perché non me l’hai detto prima che mi avevi riconosciuto?
Ruzante, Teatro, testo, traduzione e note a cura di L. Zorzi,
Einaudi, Torino 1967.
1. Mo’… cognescivi: Ruzante crede alla donna, che gli ha detto
di averlo riconosciuto.
© 2011 RCS Libri S.p.A./La Nuova Italia – R. Antonelli, M.S. Sapegno, Il senso e le forme

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Realtà
e fantasia
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2. ara’… ferdo: letteralmente ‘avrei
avuto freddo’, espressione idiomatica
che equivale ad ‘avrei avuto ritegno’.
3. compare: si tratta di Menato, che lo
ha indotto a fare lo scherzo del trave-
Mo sí, che s’a’ t’aesse vogiú dare, ara’ abú ferdo 2 , faze. Chi m’ha pigiò, an?
Matezuola, no vi’-tu ch’a’ he fato per provarte? Fuossi mo’…
Betìa [dall’interno, tra i singhiozzi] A’ me faré ficare int’un monestiero!
Ruzante Mo’ tasi, matezuola, mo’… No sgnicar, ch’a’ trepo con ti. [Tra sé] Cancaro
me magne mi, an – squaso che no dissi – me compare 3 ! A’ son andò a dar
fastibio a sta poereta, ch’a’ no la poea squaso arpassare. A’ me smaravegiava
ben che la diesse quel che la diea; mo’ la m’aéa cognessú. Te par che an ela
sipia cativa? Cancar’è! La l’ha abú per male. Poh, mo’ no la poea armiliare.
Al sangue del cancaro! A’ vuò far portare le pene a me compare, che l’è stò
cason elo. A’ ghe vò far na noela a elo dela gonela 4 . Agno muò’, a’ no faré pecò,
perché a’ faré per me ben. E po el me ha arciapò an mi. A’ vuò anar a vêre
s’a’ ’l vezo.
[Chiude la porta] Betìa, a’ vaghe via, ve’? [Incamminandosi] A’ me vuò mostrar
da scalmanò, che ’l para ch’a’ sipia coresto. S’a’ me daesse na fería in su
na gamba, a’ stare miegio. [Leva il coltello e si fa uno strappo nelle fasce di un
polpaccio] A’ diré ch’i m’ha dò igi 5 . Al sangue del cancaro! A’ vuò fare n’altra
bela noela; a’ vuò anar a vêre s’a’ ’l vezo e far vista… O cancaro! La serà bela,
e sí guagneré la gonela 6 .
[Si allontana]
[Betìa abbandona la casa del marito per andare in quella del soldato Tonìn, che, innamorato
di lei, la accoglie a braccia aperte.]
Ma sì, che se ti avessi voluto dare, avrei avuto ritegno, figurati. Chi mi ha tenuto,
eh, matta? Non vedi che l’ho fatto per provarti? Forse che...
Betìa [dall’interno, tra i singhiozzi] Mi farò ficcare in un monastero.
Ruzante Ma taci, matta, taci; non piangere, che scherzo con te.
[Tra sé] Che il canchero mangi me e anche – quasi lo dico – mio compare. Sono andato
a dar noia a questa poveretta, che quasi non riuscivo più a calmarla. Mi meravigliavo
che dicesse quel che diceva, ma mi aveva riconosciuto. Ti pare che anche lei sia
poco cattiva? Canchero, se l’è avuta a male. Quasi non la riuscivo più a calmare.
Sangue del canchero! voglio farla pagare a mio compare, che è stata colpa sua. Voglio
fargli un tiro con il vestito. In ogni modo non farò peccato, perché lo farò per mio bene;
e poi anche lui l’ha fatta a me. Voglio andare a vedere se lo trovo.
[Chiude la porta] Betìa, vado via, sai? [Incamminandosi] Mi voglio mostrare scalmanato,
che paia che sia stato rincorso. Se mi facessi una ferita in una gamba, sarebbe
meglio. [Leva il coltello e si fa uno strappo nelle fasce di un polpaccio] Dirò che me
l’han data loro. Sangue del canchero! gli voglio fare un altro bel tiro: voglio andare a
vedere se lo trovo e far finta... O canchero! sarà bella, e ci guadagnerò il vestito.
[Si allontana].
stimento.
4. gonela: si tratta dell’abbigliamento
da studente che Menato gli aveva procurato
per l’inganno.
5. igi: riferito a ignoti e immaginari assa-
litori.
6. O … gonela: la presenza della rima
(«bela»:«gonela») e il fatto che le due
frasi corrispondano a due novenari rende
l’esclamazione una sorta di ritornello.
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La scomparsa
di Betìa
Parlare per
«gramego» o
«moscheto»
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7. per gramego: vale a dire, come
l’equivalente «moscheto», parlare in
una lingua dai tratti fiorentini. In realtà,
le battute di Ruzante nel suo presunto
fiorentino assomigliano di più a
una sorta di spagnolo; da qui si evin-
Scena III
[Ruzante fa credere all’amico Menato di essere stato assalito da numerosi nemici e derubato
del vestito che l’amico gli aveva procurato per ingannare Betìa. Liberatosi così
del compare, torna a casa, ma la trova vuota.]
Ruzante, Menato, una donna
Ruzante […] Al sangue del cancaro! A’ ghe l’he pur ficà in lo carniero. [Si rialza
e si avvia verso la porta di casa] A’ vuò mo’ anar an mi ca’ a ficarme in leto
a pè dela Betìa, e farme ben covrire a ela. [Chiama attraverso l’uscio rimasto
socchiuso] Betìa! o Betìa! Aldi-tu, pota de chi te fé? o Betìa! A’ cherzo che te
druomi. A’ vuò penzer in l’usso. [Entra e chiama ancora] Oh, si’-tu s’a’ l’he
averto? On’ si’-tu an, Betìa?
[Pausa. Dopo qualche istante esce di nuovo sulla via, totalmente mutato] Oh,
cancaro me magne, furfante, poltron, can, apicò ch’a’ son! A’ son ben deruinò,
a’ son ben svergognò, a’ son ben in cao, mo’. O poltron, desgraziò ch’a’
sarè sempre mè! Oh, cancaro ne magne tuti du, compare, vu e mi, e ’l me
muar de gonela! [Si tira dei pugni in testa] Tuò, poltron; tuò desgraziò, tuò,
cogómbaro! Tuò su mo’ quel che t’hê guagnò: zòzolo!
Múate mo’ de gonela, faela mo’ da soldò, o per gramego 7 , fàne mo’ dele smerdarele!
O maleto sea el me parlar per gramego e chi m’ha insegnò!
O Betìa, t’hê pur fata la to pinion; te t’è pur andà a far ficare int’un monistiero.
E mi a’ son pur stò cason, desgraziò che saré sempre mè. Ti è fata moneghela,
povereta, descalzarela! A’ poré ben cantare: «Doh, monicela…» 8
Ruzante […] Al sangue del canchero! Gliel’ho pur ficcata nel carniere. [Si rialza e si
avvia verso la porta di casa] Ora voglio andare a casa a cacciarmi in letto vicino alla
Betìa, e farmi ben coprire da lei. [Chiama attraverso l’uscio rimasto socchiuso] Betìa,
o Betìa! Mi senti, potta di chi ti fece? o Betìa! credo che tu dorma. Voglio spingere
l’uscio. [Spinge la porta e questa si apre] Oh, vedi se l’ho aperto? [Entra e chiama ancora]
Dove sei, ah, Betìa?
[Pausa. Dopo qualche istante esce di nuovo sulla via, totalmente mutato] Oh, canchero
mi mangi, furfante, poltrone, cane, impiccato che sono! Sono proprio rovinato,
svergognato, proprio in fondo, ora. Oh, poltrone, disgraziato che sarò sempre! Che il
canchero ci mangi tutti e due, compare, voi e me, e il mio cambiar di vestito. [Si tira
dei pugni in testa] Prendi, poltrone; prendi disgraziato; prendi, coglione! Prendi su
quel che ci hai guadagnato: niente.
Cambiati pure di vestito, parla pure da soldato, parla spagnolo, fa’ ancora delle bravate.
Maledetto il mio parlare in lingua, e chi me l’ha insegnato!
O Betìa, hai pur fatto quel che avevi deciso, sei andata a farti ficcare in un monastero.
E io ne sono la colpa, disgraziato che sarò sempre. Ti sei fatta monachella, poveretta,
discalzarella! Potrò ben cantare: «Deh, monicella…»
ce come «parlar per gramego» equivale
insieme a “usare un linguaggio forbito”
e “parlare una lingua straniera”.
8. A’ … monicela: Ruzante interpreta
la situazione attraverso un luogo comune,
quello della monacazione fem-
minile legata a eventi particolari o al
rifiuto del matrimonio, sul quale era
stata anche composta una canzone
che probabilmente il pubblico conosceva.
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Oltre
le regole
morali
e sociali
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A’ no t’hê mè cognessú per femena de pinion, lomé adesso; che no gh’ha valesto
che da putati in su a’ se abiàm sempre vogiú ben tanto tempo, ch’a’ seon stè imbriaghè
int’el ben ch’a’ s’aon volesto. Per ben ch’a’ t’abi vogiú, a’ no t’hê possú
armiliare tanto, che te m’aíssi dito almanco: «Stà con Dio, ch’a’ vago in qua».
S’a’ saesse almanco on’ vegnirte a catare… On’ se’-tu andà, Betìa? Dímelo,
serore; che almanco, con a’ moriré, a’ se fazàn meter tuti du int’una fossa, dasché
a’ no ghe posson star vivi; e che se fazàn far un spatafio lungo lungo, che
diga la nostra fin. Ghe foesse almanco qualcun che me l’insegnasse, o che me
diesse a che via l’è andà… [Si guarda intorno smarrito].
Donna [da una finestra] Çerchè-vu la vostra femena, an, om da ben?
Ruzante Sí, serore, sí. [Guarda di dove venga la voce che gli ha parlato].
Donna Mo’ guardè in qua, guardè in qua.
Ruzante A’ no ve vezo.
Donna In qua, in qua…
Ruzante A’ no sè on’ sipiè, mi. A’ son stravaliò. On’ si’-vu, an?
Donna Qua, qua, cristian de Dio, a man dreta.
Ruzante [che finalmente l’ha scorta] Ah, an!... O’ è-la andà?
Donna In quela casa del soldà! [Gliela indica].
Ruzante La è andà là da quel soldò? L’ ’ì-vu ben cognessúa chí, che la sea ela?
Donna Sì, cristian de Dio, che ghe l’he vista anare mi, poco è.
Ruzante [senza più curarsi della donna] Oh, laldò sea la Mare, che a’ in spiero
pure ancora de gàlderla. [Si appressa alla porta del soldato] A’ no vuò gnan
sbatere. Mo’ a’ ’l besogna che no ghe vaghe con sbraossarí. Mo’ a’ ’l besogna
Non ti ho mai conosciuta per donna di carattere, se non adesso: non ha valso nulla
che da bambini in su ci siamo voluti bene per tanto tempo: eravamo ubriachi del bene
che ci siamo voluti. Con tutto il bene che ti ho voluto, non sono riuscito a piegarti
tanto, che almeno mi avessi detto: «Sta’ con Dio, che vado di qua».
Se almeno sapessi dove venirti a cercare. Dove sei andata, Betìa? Dimmelo, sorella, che
almeno, quando morirò, ci facciamo mettere tutti e due in una fossa, giacché non ci possiamo
star da vivi; e che ci facciamo fare un epitaffio lungo lungo, che dica la nostra fine.
Ci fosse almeno qualcuno che m’insegnasse e mi dicesse da che parte è andata… [Si
guarda intorno smarrito].
Donna [da una finestra] Cercate la vostra femmina, vero, buon uomo?
Ruzante Sì, sorella, sì. [Guarda di dove venga la voce che gli ha parlato].
Donna Allora guardate di qua, di qua.
Ruzante Non vi vedo.
Donna Di qua, di qua...
Ruzante Non so dove siete, io. Sono stordito. Dove siete dunque?
Donna Qua, qua, cristiano di Dio, a man dritta.
Ruzante [che finalmente l’ha scorta] Ah, ecco!... Dove è andata?
Donna In quella casa del soldato. [Gliela indica].
Ruzante È andata là da quel soldato? L’avete ben riconosciuta, che sia proprio lei?
Donna Sì, cristiano di Dio, ce l’ho vista andare io, poco fa.
Ruzante [senza più curarsi della donna] Sia lodata la Madonna, che spero ancora di
goderla. [Si appressa alla porta del soldato] Non voglio neanche bussare. Bisogna
che non ci vada con delle bravate, ma con maniere più untuose della sugna. E se
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ANALISI DEL TESTO
ch’a’ vaghe pí molesín che fé mè sonza. E se ’l me diesse poltron, a’ diré ch’a’
’l dise la veritè. Che me fa a mi, per far el fato me?
[Chiama in tono rispettoso e perfino amichevole] Oh, dela cà! O messier soldò!
O messier frelo! Aldí-u, an?
mi dicesse poltrone, gli dirò che dice la verità. Che me ne importa a me, pur di farmi
i fatti miei?
[Chiama in tono rispettoso e perfino amichevole] Oh, di casa! Signor soldato! Signor
fratello! Mi sentite, eh?
Il tranello malriuscito
Il terzo atto della Moscheta si apre con la furia e le
lacrime della moglie, che spingono Ruzante fuori
dalla casa dove era entrato alla fine del secondo
atto con l’intenzione di punirla. Infatti, su consiglio
del compare Menato, Ruzante si era travestito da
straniero per tentare la moglie Betìa con il fascino
del denaro e dell’esotico. Dapprima la donna era
caduta nel tranello, ma poi aveva subito volto la situazione
a proprio favore. Già dalla prima battuta,
il pubblico (che nell’atto precedente era restato in
attesa della sua vendetta) capisce che ancora una
volta il contadino è rimasto vittima della propria
ingenuità.
Realtà e fantasia
Quando scopre dalla moglie stessa che in realtà
lei l’aveva riconosciuto, e che dunque la prova
della sua disonestà non ha valore, Ruzante si sente
sollevato: «Te par che an ela sipia cativa?» (‘Ti
pare che anche lei sia cattiva?’ rr. 9-10). Si aggrappa
con tutte le forze alla speranza datagli dalla
bugia di Betìa. La sua stabilità psicologica vive in
precario equilibrio tra le sue fantasie e la realtà:
le sue vanterie non sono solo uno dei più riusciti
tratti comici del personaggio («Che sì, gh’arciaperè
Rolando da i stari, mi, Ruzante», ‘Ma sì, fregherei
Orlando delle storie, io, Ruzante’, dirà a un
certo punto): sono anche l’unico luogo dove fuggire
da una realtà insopportabile. Anche la facilità
con cui crede a ciò che gli viene detto, in fondo,
nasce dal desiderio di essere ingannato e di non
affrontare la realtà.
La scomparsa di Betìa
Per Ruzante Betìa vale molto più di qualsiasi altra
cosa. In una vita in cui i bisogni primari (il cibo,
il sonno, il sesso) hanno un posto privilegiato,
Betìa rappresenta il centro della vita materiale e
affettiva di Ruzante. La cosa è evidente quando,
nel secondo atto, egli racconta della fedeltà del-
la moglie al compare Menato, il quale sa – come
sanno anche gli spettatori – quanto Betìa sia
stata infedele. Poco prima di accorgersi della sua
sparizione, Ruzante viene assalito dal desiderio di
andare a casa «a ficarme in leto a pè de la Betìa,
e farme ben covrire a ela», ‘a cacciarmi in letto
vicino alla Betìa e farmi ben coprire da lei’ (rr. 22-
23). Ma il desiderio viene subito disilluso: la casa
è vuota. Ora Ruzante non può più sfuggire alla
realtà, si maledice, piange, si dispera. Ma dietro
la tragedia si cela il sorriso dell’autore e del pubblico:
la donna non è andata in convento, come
crede Ruzante, che già fantastica di ottenere una
tomba comune, per essere unito a lei almeno sottoterra;
Betìa è scappata con un altro uomo.
Oltre le regole morali e sociali
Quando una vecchia pettegola gli indica la casa
del soldato dove si nasconde Betìa, Ruzante reagisce
in maniera imprevista. Ringrazia gioioso la
donna, e subito precisa: «che a’ in spiero pure ancora
de gàlderla», ‘che spero ancora di goderla’
(rr. 58-59). Il fatto che lei, il suo corpo, sia ancora
lì, presente, che non si sia sottratta a lui in un
luogo chiuso e lontano, sopravanza ogni altra riflessione.
Betìa rappresenta un bisogno che viene
prima di qualsiasi regola morale e sociale.
Parlare «per gramego», o «moscheto»
Un ultimo tema è il camuffamento linguistico: per
ingannare Betìa, Ruzante imita la lingua delle persone
colte («per gramego», o «moscheto»), per
darsi un tono, per ammaliare la donna con il fascino
dell’esotico. In questo modo, però, egli perde
la propria natura: uscire da un determinato ambito
linguistico è come fuoriuscire da sé, da ciò che
più intimamente costituisce la propria identità. Di
fronte alla casa vuota, Ruzante maledirà la lingua
che ha voluto usare («el me parlar per gramego e
chi m’ha insegnò!», ‘il mio parlare in lingua e chi
me l’ha insegnato’, r. 34).
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