Paolo Cucchiarelli - Misteri d'Italia

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21.06.2013 Views

tensione, tra cui lo scioglimento del Parlamento. Questo era un segreto che tutti in Italia sapevano, ma di cui nessuno poteva scrivere”. Nel 1975 Lino Jannuzzi pubblica su L’Espresso un articolo nel quale afferma che se si vuole sapere perché la Cassazione bloccò l’inchiesta del giudice D’Ambrosio, quando questi stava per interrogare l’ex capo dei servizi segreti Eugenio Henke, bisogna chiederlo a Saragat e Moro. Jannuzzi cita a lungo il capo dei servizi segreti Vito Miceli, uomo di Moro, che nell’articolo si difende così: “Io ho continuato a fare ciò che faceva il mio predecessore, l’ammiraglio Henke. E chi ha messo e mantenuto al Sid l’ammiraglio Henke se non Saragat e Moro? Chi ha indirizzato e coperto la gestione Henke, prima della mia gestione?”. Miceli accusa per difendersi, ma lega sistematicamente Saragat e Moro. Sta evocando un patto segreto? “Chiedete a Saragat, chiedete a Moro, domandategli di sciogliermi dal segreto militare, e io vi racconto che cosa ho ereditato da Henke, che cosa Henke ha fatto, come me, prima di me, più di me, sotto l’ombrello di Saragat al Quirinale e di Moro a Palazzo Chigi”. E Jannuzzi dà un altro affondo rivelando che Leslie Finer, l’autore dell’articolo sul The Observer, “non era soltanto un giornalista; era collegato ai servizi inglesi, all’Intelligence Service. Le accuse che in quello stesso periodo furono pubblicate a Londra dallo stesso giornale, e che indicavano nel Presidente Saragat lo stratega principale della tensione, non erano solo il frutto d’inchieste giornalistiche. Erano basate su informazioni riservate raccolte in Italia dai servizi greci e dai suoi agenti collegati con il Sid dell’ammiraglio Henke e con gli ‘amici’ che Henke vantava al palazzo del Quirinale”. Saragat rispose, via agenzia, nel giro di poche ore, dicendo, e non è un caso, che l’articolo comparso su The Observer “fu scritto nella libreria Feltrinelli di via del Babbuino, a Roma. E questo spiega tutto”. Spiega tutto, perché, come ha dimostrato l’inchiesta del Pm Salvini, l’obiettivo di una delle due cordate all’opera era certamente l’editore “rosso”, l’unico che potesse portare al Pci, attraverso anarchici e gruppi limitrofi, come Lotta Continua, dato che da tempo lavorava a una struttura militar-resistenziale – i Gap – che già all’epoca era quasi operativa. Ed ecco Valpreda, il ballerino anarchico, il “mostro”, che già il 27 del 1969 novembre temeva di essere ormai in mano alla Questura di Roma, prigioniero di un gioco molto più grande di lui, “l’Oswald italiano” secondo Epoca, un settimanale particolarmente informato in quelle settimane ma anche in altri periodi cruciali, come abbiamo visto. Scriveva il ballerino ai suoi avvocati milanesi Mariani e Boneschi, a proposito dei dubbi sulla presenza di una spia nel circolo 22 Marzo: “La situazione è brutta, abbiamo avuto notizia che ieri, anzi questa notte, si è tenuta a Roma una riunione segreta fra alcuni militari di carriera, forze di polizia e due cardinali, alcuni industriali e magistrati, per cercare di far applicare alla lettera il Codice Rocco”. Valpreda disse ai magistrati, dopo l’arresto, che la voce veniva da due paracadutisti che parlavano di un colpo di Stato: la sinistra extraparlamentare sa anche la data, il 12 dicembre. Il 9 dicembre (il 10 a Padova si comprano alcune delle valigie usate per la serie di attentati, e a Roma si decide che un gruppo composito di Avanguardia Nazionale e di Ordine Nuovo andrà a Milano “per buttare tutto all’aria”), Mauro Ferri, tra i massimi esponenti dei socialdemocratici, lancia l’idea di un ritorno al centrismo con Dc, Psu e Pli “nel caso si presenti la drammatica necessità di garantire la libertà come con la crisi del luglio 1960”, cioè come accadde con lo sciopero generale contro il governo Tambroni appoggiato dalle destre. E quindi il cerchio si chiude: tutto il vortice messo in moto da Aldo Moro nel novembre 1968 sprigiona tutta la sua forza. Il “Segreto della Repubblica” è il golpe caldeggiato, solleticato, stuzzicato da forze istituzionali che avevano perso la forza e la capacità di risolvere la crisi per via interne al sistema politico: una bomba che puntava a “innescare” il golpe militare, scelta alla fine venuta meno per il “tirarsi indietro” di alcuni settori della Dc. E sarebbe interessante sapere che ruolo abbiano avuto in questa scelta Paolo VI e la Chiesa . Lo smilzo pamphlet del 1978, nato dalle interpretazioni e dalle notizie in mano dei servizi inglesi, ha rivelato con il tempo tutta la sua forza di analisi. Tanto da indurre un giudice a chiedere all’autore quali fossero le fonti di una così chiara ricostruzione, che vedeva nello scontro tra Saragat 44 44

e Moro, risolto alla fine con la sostituzione del saragattiano Mario Tanassi al posto del moroteo Luigi Gui (lo stesso che il 22 dicembre, prima che Moro incontri il Presidente della Repubblica al Quirinale, gli fa avere il rapporto del colonnello Pio Alferano dove si indica con chiarezza la regia fascista della strage) nel fondamentale dicastero della Difesa (cioè alla guida politica dei servizi segreti) e la contemporanea “sterilizzazione” dell’indagine sulla pista neofascista, della crisi politico-istituzionale (e probabilmente militare) del dicembre 1969. Il tutto si risolve il 23 dicembre del 1969. Ora tocca a Moro affrontare Saragat. In quell’occasione viene stipulato un vero e proprio accordo politico che prevede, da parte del Psdi, l’abbandono della pregiudiziale anti-Psi e il proposito di sciogliere anticipatamente le Camere con connesse eventuali “folli avventure”, mentre Moro s’impegna a non trasmettere o utilizzare il rapporto Alferano; il che significa accantonare, al di là della volontà della magistratura, la “pista nera”. Ma qual era l’obiettivo politico di Saragat? A cosa puntava il Presidente della Repubblica? A svelarlo, quando Saragat è ancora vivo, è l’ex direttore de La Nazione e notista politico de Il Tempo Enrico Mattei, un giornalista di destra noto per la sua correttezza e la grande professionalità che all’epoca aveva più che altro un ruolo importante e riconosciuto di ‘alto consigliere’ dei politici. “La teoria della ‘strategia della tensione’ non risparmiava il Quirinale – scrive – anzi lo considerava il centro promotore, con l’accusa che veniva riecheggiata persino da autorevoli giornali inglesi di seria tradizione. […] Chi fu vicino a Saragat in quei momenti non poté non ammirare la fermezza con cui fece fronte alla più grave tempesta politica e istituzionale che abbia investito la Repubblica italiana. Fu in questa congiuntura politica procellosa che una mattina venni chiamato al telefono a Firenze: il Presidente della Repubblica avrebbe gradito fare colazione con me. L’indomani ero a tavola con lui nella palazzina Einaudi a Castel Porziano. Eravamo in tre, c’era anche il figlio di Saragat, Giovanni, giovane diplomatico temporaneamente occupato alla Presidenza della Repubblica. Dopo il caffè Giovanni tuttavia si alzò, salutò e si ritirò. Mi disse allora il Presidente che egli considerava con accresciuta angoscia la crisi della Repubblica democratica, a suo parere avviata alla paralisi funzionale. ‘La generazione della Costituente, la generazione di De Gasperi non ha eredi – mi disse –. C’è un’ondata di anarchia spesso violenta che assale da ogni lato. Manca una classe politica che la sappia fronteggiare. Ogni giorno lo Stato è costretto alla capitolazione. In queste condizioni mi sono più volte chiesto se non sarebbe toccato a me il compito di prendere qualche iniziativa per la salvezza della Repubblica. Ora vorrei sentire il suo parere. Non dovrei dimettermi da questa carica subito dopo aver sciolto il Parlamento, e assumere io la guida di una campagna elettorale di riscossa democratica, del tipo di quella che procurò la grande, decisiva vittoria del 18 aprile 1948?’ La mia risposta fu molto semplice. Osservai che le deformazioni che la Repubblica italiana aveva subito non erano piovute dal cielo, erano il frutto della gramigna partitocratica insinuatasi in tutte le strutture costituzionali. Un appello al popolo non ci avrebbe dato che un Parlamento simile se non peggiore di quelli degli ultimi anni. Se De Gaulle era riuscito a ‘rifare’ la Repubblica in Francia, consunta dai nostri stessi mali, era stato perché aveva potuto fare approvare al Paese un progetto di riforma che estirpava le radici della partitocrazia. Ma per realizzare questo disegno c’era voluto il colpo di Stato di Ajaccio e di Parigi. C’era voluto il colonnello Massu, c’erano voluti i paracadutisti di Algeri e della Francia metropolitana. ‘Ma lei, signor Presidente, se la sente di mettersi su questa strada? E dove li trova i colonnelli Massu? E che cosa succederebbe in Italia se lei annunciasse con un suo proclama la sospensione quadrimestrale della Costituzione, affidando alle cinque più alte cariche dello Stato una riforma costituzionale risanatrice, da mettere in votazione con un referendum? Se anche prendesse l’impegno di costituirsi all’Alta Corte di Giustizia, nel caso che il referendum le fosse contrario, l’operazione sarebbe possibile?’ Saragat apparve contrariato dal mio discorso, facendomi capire che non avrei dovuto permettermi di avanzare una simile ipotesi alla sua presenza. ‘Comunque – mi disse – quello che si è fatto in Francia non sarebbe possibile in Italia. Sono stato ambasciatore a Parigi (oltreché esule) e conosco bene quel Paese. Ma io avevo desiderato conoscere il suo parere su ben altro disegno, 45 45

e Moro, risolto alla fine con la sostituzione del saragattiano Mario Tanassi al posto del moroteo<br />

Luigi Gui (lo stesso che il 22 dicembre, prima che Moro incontri il Presidente della Repubblica al<br />

Quirinale, gli fa avere il rapporto del colonnello Pio Alferano dove si indica con chiarezza la regia<br />

fascista della strage) nel fondamentale dicastero della Difesa (cioè alla guida politica dei servizi<br />

segreti) e la contemporanea “sterilizzazione” dell’indagine sulla pista neofascista, della crisi<br />

politico-istituzionale (e probabilmente militare) del dicembre 1969.<br />

Il tutto si risolve il 23 dicembre del 1969.<br />

Ora tocca a Moro affrontare Saragat. In quell’occasione viene stipulato un vero e proprio accordo<br />

politico che prevede, da parte del Psdi, l’abbandono della pregiudiziale anti-Psi e il proposito di<br />

sciogliere anticipatamente le Camere con connesse eventuali “folli avventure”, mentre Moro<br />

s’impegna a non trasmettere o utilizzare il rapporto Alferano; il che significa accantonare, al di là<br />

della volontà della magistratura, la “pista nera”.<br />

Ma qual era l’obiettivo politico di Saragat? A cosa puntava il Presidente della Repubblica? A<br />

svelarlo, quando Saragat è ancora vivo, è l’ex direttore de La Nazione e notista politico de Il Tempo<br />

Enrico Mattei, un giornalista di destra noto per la sua correttezza e la grande professionalità che<br />

all’epoca aveva più che altro un ruolo importante e riconosciuto di ‘alto consigliere’ dei politici.<br />

“La teoria della ‘strategia della tensione’ non risparmiava il Quirinale – scrive – anzi lo considerava<br />

il centro promotore, con l’accusa che veniva riecheggiata persino da autorevoli giornali inglesi di<br />

seria tradizione. […] Chi fu vicino a Saragat in quei momenti non poté non ammirare la fermezza<br />

con cui fece fronte alla più grave tempesta politica e istituzionale che abbia investito la Repubblica<br />

italiana. Fu in questa congiuntura politica procellosa che una mattina venni chiamato al telefono a<br />

Firenze: il Presidente della Repubblica avrebbe gradito fare colazione con me. L’indomani ero a<br />

tavola con lui nella palazzina Einaudi a Castel Porziano. Eravamo in tre, c’era anche il figlio di<br />

Saragat, Giovanni, giovane diplomatico temporaneamente occupato alla Presidenza della<br />

Repubblica. Dopo il caffè Giovanni tuttavia si alzò, salutò e si ritirò. Mi disse allora il Presidente<br />

che egli considerava con accresciuta angoscia la crisi della Repubblica democratica, a suo parere<br />

avviata alla paralisi funzionale. ‘La generazione della Costituente, la generazione di De Gasperi non<br />

ha eredi – mi disse –. C’è un’ondata di anarchia spesso violenta che assale da ogni lato. Manca una<br />

classe politica che la sappia fronteggiare. Ogni giorno lo Stato è costretto alla capitolazione. In<br />

queste condizioni mi sono più volte chiesto se non sarebbe toccato a me il compito di prendere<br />

qualche iniziativa per la salvezza della Repubblica. Ora vorrei sentire il suo parere. Non dovrei<br />

dimettermi da questa carica subito dopo aver sciolto il Parlamento, e assumere io la guida di una<br />

campagna elettorale di riscossa democratica, del tipo di quella che procurò la grande, decisiva<br />

vittoria del 18 aprile 1948?’ La mia risposta fu molto semplice. Osservai che le deformazioni che la<br />

Repubblica italiana aveva subito non erano piovute dal cielo, erano il frutto della gramigna<br />

partitocratica insinuatasi in tutte le strutture costituzionali. Un appello al popolo non ci avrebbe dato<br />

che un Parlamento simile se non peggiore di quelli degli ultimi anni. Se De Gaulle era riuscito a<br />

‘rifare’ la Repubblica in Francia, consunta dai nostri stessi mali, era stato perché aveva potuto fare<br />

approvare al Paese un progetto di riforma che estirpava le radici della partitocrazia. Ma per<br />

realizzare questo disegno c’era voluto il colpo di Stato di Ajaccio e di Parigi. C’era voluto il<br />

colonnello Massu, c’erano voluti i paracadutisti di Algeri e della Francia metropolitana. ‘Ma lei,<br />

signor Presidente, se la sente di mettersi su questa strada? E dove li trova i colonnelli Massu? E che<br />

cosa succederebbe in Italia se lei annunciasse con un suo proclama la sospensione quadrimestrale<br />

della Costituzione, affidando alle cinque più alte cariche dello Stato una riforma costituzionale<br />

risanatrice, da mettere in votazione con un referendum? Se anche prendesse l’impegno di costituirsi<br />

all’Alta Corte di Giustizia, nel caso che il referendum le fosse contrario, l’operazione sarebbe<br />

possibile?’ Saragat apparve contrariato dal mio discorso, facendomi capire che non avrei dovuto<br />

permettermi di avanzare una simile ipotesi alla sua presenza. ‘Comunque – mi disse – quello che si<br />

è fatto in Francia non sarebbe possibile in Italia. Sono stato ambasciatore a Parigi (oltreché esule) e<br />

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