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Guida per l'insegnante - Palumbo Editore

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neamente rispondere agli usi dell’italiano corrente. Un obiettivo da <strong>per</strong>seguire<br />

ma, come diceva Leopardi, contraddittorio ed impossibile da raggiungere.<br />

Del tutto incuranti di una problematica così complessa, le tradizionali versioni<br />

di latino <strong>per</strong>petuano senza residui un italiano arcaico, immobile e povero. Fra le<br />

abitudini scolastiche più dannose si annoverano in tal senso le famigerate «retroversioni»,<br />

che Gentile abolì ma che furono successivamente reintrodotte. Nella<br />

pratica didattica la traduzione ottiene così effetti del tutto opposti a quelli <strong>per</strong><br />

i quali essa sarebbe invece di straordinaria utilità, in ordine al miglioramento e<br />

all’arricchimento dell’italiano. Sembra infatti azzardato definire «italiano» la lingua<br />

di queste traduzioni, senza aggiungere almeno l’aggettivo «obsoleto» (il figliuol<br />

prodigo, il dado è tratto, la cosa pubblica). Ma in molti casi nemmeno tale<br />

aggiunta è sufficiente, <strong>per</strong>ché in nessuno stadio storico della lingua italiana sono<br />

mai stati veramente confezionati <strong>per</strong>iodi con tante subordinate, tanti «affinché»,<br />

tanti gerundi composti, tante parole così <strong>per</strong>egrine.<br />

Ciò impedisce di es<strong>per</strong>ire le infinite e ricche potenzialità espressive della lingua<br />

italiana, sia lessicali, sia idiomatiche, sia sintattiche, appiattendola ed impoverendola<br />

sulla rigida fissità di un convenzionale e comodo sistema di presunte<br />

corrispondenze con il latino. Per rimanere su un esempio quasi folcloristico,<br />

forse non dei più gravi ma certo dei più diffusi, dalle traduzioni di latino<br />

un alunno non imparerebbe mai ad usare in italiano le parole «ragazza», «signorina»,<br />

«giovane donna»: nelle traduzioni scolastiche, puella è sempre «fanciulla».<br />

Per non dire, naturalmente, di vocaboli come felix, pietas, fenus, la cui<br />

problematica traducibilità rappresenta invece una preziosa occasione <strong>per</strong> tentare<br />

di capire veramente il latino e <strong>per</strong> esplorare il lessico italiano.<br />

Se è vero infatti, come purtroppo è vero, che delle 150.000 parole di cui è costituito<br />

il vocabolario della lingua italiana, la televisione ne usa circa 350, spetta<br />

alla scuola ed ai suoi strumenti di educazione linguistica (oltre che, naturalmente,<br />

ad una televisione diversa) educare cittadini che conoscano e siano capaci<br />

di usare realmente e ad un livello dignitoso la loro lingua e le sue potenzialità<br />

espressive. E tra gli strumenti di educazione linguistica, il latino, dove<br />

ci sia, deve fare correttamente la sua parte.<br />

b) La traduzione «unica, giusta e letterale»<br />

Per secoli, è stato coltivato il mito dell’assurda distinzione fra «traduzione letterale»<br />

e «traduzione libera», caricando in realtà sulla prima il compito di una<br />

distorta e standardizzata comprensione, nonché della occhiuta verifica dell’apprendimento<br />

grammaticale. La «traduzione letterale» è stata considerata<br />

quella più vicina al testo e «più fedele» (con il di più di banalità culturale veicolato<br />

dalla formula scioccamente maschilista che contrappone le traduzioni<br />

«brutte e fedeli» a quelle «belle e infedeli»).<br />

Niente di più falso, come hanno già ben detto Cicerone e Girolamo. Una traduzione<br />

«fedele» deve anche preoccuparsi che l’effetto comunicativo sul suo destinatario<br />

non sia troppo lontano da quello presumibile dell’originale sul proprio.<br />

E nessuno vorrà sostenere che l’effetto di eleganza e di raffinatezza di una poesia<br />

di Orazio o di un <strong>per</strong>iodo di Cesare si conservi minimamente nelle orribili<br />

Elementi di didattica del Latino<br />

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