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Da Tripoli a Hon orizzontarsi nel deserto<br />
Anche questo è un mio ricordo, si tratta di un altro viaggio di lavoro, quando ero<br />
ancora al P.V.D., ma questa volta si trattava di arrivare ad Hon, distante dalla capitale<br />
650 chilometri, di cui 450 in pieno deserto, per recuperare dei motori che ad Hon non<br />
servivano. Avremmo dovuto partire in tre macchine, capeggiate, la prima da due<br />
responsabili inglesi con l’autista arabo, nella seconda dovevo esserci io con il<br />
secondo autista arabo e nella terza il collega di lavoro Del Cuoco con il terzo autista<br />
arabo. Il mio aiutante Bashir,nativo di Socna, località a pochissimi chilometri da<br />
Hon , non era stato messo in lista per poter venire, ne è rimasto molto male e mi ha<br />
pregato di farlo venire con noi. Io ne ho parlato con il solito caro Malinconico,<br />
sempre pronto ad ascoltarci, dicendo che Bashir, essendo del luogo, poteva esserci<br />
utile. Per mezzo suo Bashir è entrato nella lista. Saggia decisione, perché poi ci è<br />
tornato utile. Dietro suo consiglio, abbiamo portato della roba , che lì non avremmo<br />
potuto trovare, come pasta e pane in abbondanza, il primus, per la cottura dei cibi, e<br />
delle pentole. Dovevamo stare circa 15 giorni. Le macchine sono state caricate , oltre<br />
agli attrezzi di lavoro e la nostra roba, anche due fusti di 200 litri di acqua per bere e<br />
per i radiatori delle macchine e bidoni di benzina di scorta; legate ai laterali le lamiere<br />
bucate da usare in caso di insabbiamento, insieme alle pale per spalare la sabbia. Hon<br />
è una località della Tripolitania , che confina con il Fezzan ; la sua oasi, ricca<br />
d’acqua e di 40000 palme da dattero, contava 3500 abitanti. Siamo partiti, capi<br />
colonna gli inglesi, in seconda posizione io e in terza Del Cuoco. Questo era l’ordine<br />
di marcia , non erano permessi prove di velocità o sorpassi , e questo è rimasto fino<br />
ad un certo punto. Consci del percorso e delle difficoltà che ci attendevano, perché<br />
avevamo studiato tutto a tavolino, abbiamo percorso la litoranea che va verso la<br />
Cirenaica e, sorpassato Homs, Leptis Magna, Zliten e Misurata, lasciamo la litoranea<br />
e prendiamo la strada che va verso sud all’interno, superando el Gheddahia; in<br />
serata e prima che facesse buio, siamo arrivati a Bu Ngem , dove abbiamo<br />
pernottato, passando la nostra prima notte in pieno deserto . Gli inglesi avevano<br />
fissato l’orario di partenza per la tarda mattina, ma i libici, che di deserto ne<br />
capivano sicuramente più di noi, hanno consigliato di partire appena faceva giorno;<br />
infine gli inglesi si sono arresi, perché bisognava viaggiare nelle ore più fresche e<br />
anche perché tra Bu Ngem e Hon non c’ era nessun’altra località, ma solo sabbia e<br />
bisognava arrivare prima di sera , per non restare di notte isolati. I tendoni di<br />
copertura delle macchine sono stati arrotolati in alto, in modo da lasciare circolare<br />
l’aria in tutta la macchina , mentre il sole faceva il suo lavoro in quella zona<br />
desertica , portando la temperatura in alto. Abbiamo dovuto ricorrere più volte ai<br />
fusti di acqua, sia per noi che per i radiatori che bollivano e mettere stracci inzuppati
di acqua sulle pompette ACI della benzina, che con il calore si bloccavano, facendo<br />
fermare il motore. Noi approfittavamo di queste continue fermate per mettere<br />
qualcosa sotto i denti e rinfrescarci il viso. Ma sono arrivate anche le dune di sabbia,<br />
che con i loro spostamenti avevano invaso quel poco di pista carrabile che si poteva<br />
vedere. Alt! La macchina di testa si è fermata e subito dopo anche noi . L’inglese, con<br />
la bussola in mano ci indicava quale, secondo lui, era la direzione da seguire, ma<br />
questa era sbarrata dalla sabbia, che vi si era stabilita. Uno degli autisti e<br />
precisamente il mio, non era d’accordo di seguire quella direzione, ne indicava<br />
un’altra, ma avremmo dovuto superare qualche montagnola di sabbia , e lui era<br />
sicuro che subito dopo, avremmo trovato nuovamente la pista che avevamo perso.<br />
Lui continuava a spiegare che era pratico del deserto, prendeva manate di sabbia e le<br />
buttava in aria e ci faceva vedere il vento dove le portava, per far capire che, se<br />
avessimo continuato per la direzione della bussola, ci saremmo insabbiati, e indicava<br />
l’altra direzione. L’inglese cominciò ad innervosirsi e a dire parolacce nella sua<br />
lingua, una di queste era “fuck you”. L’arabo, che aveva ricevuto di quelle parole<br />
anche a Tripoli e ci era abituato, lì in pieno deserto , dove si sentiva a casa, non le<br />
tollerò affatto, e prendendo l’inglese per il bavero, gli ricambiò la parolaccia. Noi,<br />
preoccupati per la piega che aveva preso l’accesa discussione, cercavamo di dividerli.<br />
I due inglesi, si sono guardati e, forse perché si sono visti in minoranza, hanno<br />
aderito, anche se a malincuore, a quello che diceva l’autista e tutti insieme abbiamo<br />
seguito le sue indicazioni. Si è molto lavorato, spostando una avanti all’altra le<br />
lamiere che ci permettevano di far avanzare le macchine poco alla volta; tutti<br />
abbiamo lavorato, anche gli inglesi, non erano superiori, si guardava solo alla<br />
sopravvivenza. Abbiamo superato la parte più morbida della sabbia che si era<br />
spostata col vento e abbiamo trovato quella più dura , più solida, che ci ha permesso<br />
di arrivare alla pista, senza più l’aiuto delle lamiere, che abbiamo sistemato dentro le<br />
macchine. Qui, fermi ormai sul duro, vedevamo che l’autista arabo era soddisfatto,<br />
mentre l’inglese mortificato. Ma quest’ultimo ha fatto un gesto veramente nobile,che<br />
non ci aspettavamo, è andato verso l’arabo e gli ha stretto la mano, ammettendo la<br />
sua superiorità in campo desertico; noi tutti abbiamo applaudito. Non contento di<br />
questo, l’inglese ha detto :OK, ora il capo colonna sei tu, vai avanti. Così abbiamo<br />
proseguito il viaggio, con la mia macchina in testa, senza più intoppi e senza<br />
difficoltà, sotto il sole cocente. All’imbrunire siamo arrivati ad Hon , esausti , ma<br />
trovando degli alloggi abbastanza decenti . Ci siamo divisi in settori di nazionalità, in<br />
uno gli inglesi, in un altro gli italiani e nell’altro gli arabi. Bashir, il mio aiutante non<br />
ha fatto parte del gruppo degli arabi, perché la stessa sera è andato a Socna, distante<br />
qualche chilometro, dove abitava la sua famiglia, andava la sera e tornava la mattina<br />
per il lavoro. A causa del forte caldo, il primo giorno di lavoro è andato male, per i<br />
giorni successivi ci siamo organizzati, cominciando prestissimo e sospendendo nelle
ore più calde. Io ero abituato al caldo di Tripoli, ma quello di Hon era terribile. Anche<br />
gli stessi arabi del luogo, sparivano ad un certo orario e poi ricomparivano. Le serate<br />
le passavamo scambiandoci delle visite, è capitato che una volta gli inglesi sono<br />
arrivati mentre stavamo cucinando, forse spinti dal profumino che si sentiva e sono<br />
rimasti a mangiare da noi. Abbiamo fatto una spaghettata, l’abbiamo condita con un<br />
sughetto che era la fine del mondo, roba da leccarsi i baffi. Gli inglesi l’hanno ben<br />
gradita e ci hanno invitato per la sera seguente. Anche da loro si è mangiato bene, non<br />
ho gradito solo l’abitudine di bere latte a tavola. Bashir non ha voluto essere da meno<br />
e ci ha invitati a mangiare il cuscus, a casa sua , a Socna, dove siamo stati accolti<br />
molto bene. Io non so cosa Bashir aveva raccontato di me alla sua famiglia, un fatto è<br />
certo, suo padre si è messo al mio fianco, e non finiva più di domandarmi di suo<br />
figlio, chiedendomi come si comportava, cosa faceva, orgoglioso di quel figlio,che<br />
indossava il camice da meccanico. Arrivato il momento del pranzo, siamo stati<br />
invitati, dopo aver tolto le scarpe, ad entrare in una stanza, dove c’era una grande<br />
stuoia, sulla quale ci siamo seduti, incrociando le gambe. Al mio fianco c’era sempre<br />
il padre di Bashir,che mi invitava a mangiare, quasi volesse imboccarmi. Eravamo tre<br />
razze, seduti allo stesso desco e questa fratellanza era molto bella. Ad un tratto alle<br />
nostre narici è arrivato un odore meraviglioso, che si sprigionava dalle pietanze. Noi<br />
europei siamo stati serviti nei piatti, gli arabi hanno mangiato tutti insieme,<br />
prendendo il cibo con le mani da una grande conca in legno, da dove ognuno seguiva<br />
la sua direzione, andando verso il centro, senza sconfinare nel posto dell’altro. La<br />
mamma di Bashir è comparsa per servirci il pranzo, ma non si è seduta con noi. Il<br />
cibo era piccantissimo e ogni tanto dovevo fermarmi per respirare e bere sorsi<br />
d’acqua. Poi è arrivato il rito del te , preparato , usando foglie essiccate e con una<br />
operazione molto lunga, inframmezzata da chiacchiere e racconti . Si usano diverse<br />
caffettiere, dalla prima esce il primo te, che ha un gusto aspro e fortissimo. Nella<br />
seconda caffettiera si mette a bollire le foglie già sfruttate, e si ottiene un te meno<br />
forte e più leggero. Poi si passa alla terza caffettiera, dalla quale fuoriesce un te<br />
leggerissimo al quale si aggiungono un po’ di noccioline. Questo era il te che io<br />
preferivo, anche a Tripoli, quando in officina, interrompevamo il lavoro per fare il<br />
te,anche se pagavo la mia parte per intero, prendevo sempre il terzo bicchierino con<br />
le noccioline. Nel pomeriggio Bashir ci ha fatto visitare Socna, un centro più<br />
importante di Hon, che contava 1500 abitanti, appartenenti all’oasi di Giofra e che<br />
era stata il capoluogo prima di Hon. Era situata in una piccola altura, in una conca,<br />
ricca d’acqua e di palmeti, con numerosi pozzi, molto caratteristici, costruiti con uno<br />
scivolo del terreno in pendenza, che facilitava e rendeva meno faticoso il lavoro<br />
dell’animale addetto al sollevamento . Nei giorni successivi abbiamo lavorato<br />
alacremente, anche perché i nostri viveri si assottigliavano sempre più ed eravamo<br />
arrivati a cibarci di pane duro ammollato con l’acqua , e uova, che si trovavano in
abbondanza, anche se nell’aprirli, dovevamo stare attenti alla loro freschezza,molto in<br />
forse, dato il caldo. Quando il lavoro fu terminato, abbiamo caricato la nostra roba ,<br />
per partire la mattina dopo, all’alba, pregustando la gioia del ritorno . Questa volta,<br />
durante il viaggio, non ci sono state difficoltà , la pista era quasi sgombra e siamo<br />
arrivati la sera, per il pernottamento a Bu Ngem, dove avevamo fatto la prima tappa<br />
all’andata e dove c ‘era una piccola oasi e i resti di un vecchio fortino dei Romani.<br />
La mattina siamo ripartiti, e dopo un centinaio di chilometri , superando el<br />
Gheddahia , abbiamo puntato su Misurata, distante altri 130 chilometri. Ormai si<br />
sentiva già l’odore del mare , finalmente ecco Misurata , città di circa 5000 abitanti,<br />
con una fiorente industria di tappeti e un popolato quartiere di italiani. Ormai per noi<br />
arrivare a Tripoli era una passeggiata, la litoranea era tutta asfaltata e si poteva<br />
viaggiare senza sbalzi. Passati Zliten e Homs, nel pomeriggio siamo arrivati<br />
,facendoci annunziare da colpi di clacson nei cortili del P.V.D., dove siamo stati<br />
accolti con grande entusiasmo. Finalmente ero sulla strada di casa, avviandomi,<br />
pensavo che mia moglie e mia figlia avrebbero stentato a riconoscermi, tanto ero<br />
diventato nero. Invece, dopo un attimo di smarrimento, all’apertura della porta,sono<br />
stato accolto da entrambe come un eroe,il reduce che ritorna a casa dopo la guerra.<br />
Ritrovando gli affetti familiari, la nostra cucina e una comoda vasca da bagno, colma<br />
d’acqua calda, le mie stanchezze sono passate e di quei giorni è rimasto solo un bel<br />
ricordo, che permane ancora indelebile nella mia mente. Emilio Parlato