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gennaio-giugno


Sommario<br />

Jam Session<br />

Semestrale di pedagogia<br />

e didattica afroamericana<br />

N. 8-9<br />

gennaio-giugno 2013<br />

Direttore reseponsab<strong>il</strong>e<br />

Francesco Chiari<br />

Direttore<br />

Luigi Radassao<br />

Progetto grafica<br />

Gabriele H. Marcelli<br />

Daniela Capelloni<br />

Eleonora Caprioli<br />

www.sidma.it<br />

jamsession@sidma.it<br />

Il Processo Improvvisativo In «Fables Of Faubus» e<br />

3 «Original Fables Of Faubus»<br />

di Donatello D’Attoma<br />

19<br />

41<br />

43<br />

R<strong>il</strong>eggere Ellington: Tre Ipotesi di John Lewis<br />

di Massimo de Stephanis<br />

Hal McKusick ed i ricordi di una vita<br />

di Marc Myers; traduzione di Andrea Gaggero<br />

Biografie


Jam Session<br />

2


©Andy Freeberg<br />

Il Processo Improvvisativo In «Fables Of Faubus» e «Original Fables<br />

Of Faubus»<br />

Fables of Faubus<br />

The Jazz Workshop, <strong>il</strong> cui nome<br />

indica tutta la produzione di Mingus dal 1954<br />

fino al 1978, anno della sua morte, fu <strong>per</strong> <strong>il</strong><br />

Name me someone who’s ridiculous, Dannie<br />

Governor Faubus<br />

Why is he so sick and ridiculous<br />

He won’t <strong>per</strong>mit integrated schools.<br />

Then he’s a fool. 2<br />

di Donatello D’Attoma 1<br />

contrabbassista <strong>il</strong> principale veicolo di lotta contro<br />

le dominanti concezioni di libertà. Negli Stati<br />

Uniti durante gli anni del movimento <strong>per</strong> i diritti<br />

civ<strong>il</strong>i, diversi musicisti, tra cui Mingus, sfidarono<br />

i presunti scopi di questa libertà: la loro musica<br />

suggeriva che un empowerment collettivo fosse<br />

indispensab<strong>il</strong>e <strong>per</strong> un’emancipazione dei diritti<br />

fondamentali dell’uomo e che la libertà occorresse<br />

affermarla anche attraverso la lotta e <strong>il</strong> disordine<br />

pubblico. 3<br />

Più di qualsiasi altro musicista in quegli anni,<br />

1. L’articolo è tratto dalla tesi di laurea specialistica dell’autore, discussa nell’a.a. 2010-2011 presso l’Università degli Studi di Pavia, Facoltà<br />

di Musicologia, con <strong>il</strong> prof. Gianmario Borio (relatore) e la prof.ssa Fulvia Caruso (correlatore).<br />

2. Sono alcuni versi del testo derisorio che Mingus e Richmond cantavano sul tema di «Fables of Faubus», che <strong>per</strong> l’incisione dell’album Ah<br />

Um (1959), di cui <strong>il</strong> brano fa parte, la Columbia decise di censurare.<br />

3. Saul 2001. Scott Saul, «Outrageus Freedom: Charles Mingus and the Invention of the Jazz Workshop», American Quarterly, n.53, Hopkins<br />

University Press, Baltimora, 2001, p.392.<br />

3 Jam Session


Mingus fece del jazz una musica psicologicamente<br />

turbolenta, una musica che esplorava l’anima nel<br />

profondo, spazzava via <strong>il</strong> convenzionale <strong>per</strong> dare<br />

voce alle emozioni.<br />

Dalla biografia sul contrabbassista apprendiamo<br />

che <strong>il</strong> titolo del brano «Fables of Faubus», inciso<br />

<strong>per</strong> la Columbia nel maggio del 1959, è collegato<br />

al nome del trentaseiesimo Governatore dello<br />

Stato dell’Arkansas, Orval Faubus, che nel 1957 si<br />

rese protagonista di un’azione politica restrittiva<br />

nei confronti di <strong>qui</strong>ndici studenti neri impedendo<br />

loro di accedere alla Little Rock Central High<br />

School. Tutto ciò in contraddizione con quanto da<br />

Faubus stesso dichiarato appena tre anni prima nel<br />

suo piano economico-finanziario a sostegno del<br />

paese ma soprattutto in a<strong>per</strong>ta violazione di una<br />

sentenza della Corte Suprema del 1954 su casi di<br />

integrazione razziale nelle scuola, di cui si ribadiva<br />

la competenza federale.<br />

In quelle settimane Mingus e <strong>il</strong> suo gruppo erano<br />

impegnati in un lungo viaggio al Cafè Bohemia<br />

e seguivano ogni giorno le notizie provenienti<br />

Little Rock, capitale dello stato dell’Arkansas. Nel<br />

re<strong>per</strong>torio avevano da tempo un pezzo senza titolo<br />

e una sera, suonandolo, a Dannie Richmond venne<br />

l’idea di cantarvi delle parole beffarde contro<br />

Faubus. Nacque così Fables of Faubus, pezzo<br />

inciso nel 1959 <strong>per</strong> l’album Ah Um, ma la Columbia<br />

cassò <strong>il</strong> testo derisorio che Mingus e Richmond<br />

Jam Session<br />

©Roberto Pol<strong>il</strong>lo<br />

cantavano sul tema.<br />

Ah Um può essere considerato <strong>il</strong> punto di<br />

partenza della terza fase mingusiana, che coincide<br />

con la sco<strong>per</strong>ta del free e della forma a<strong>per</strong>ta, oltre<br />

che con la capacità di realizzare una struttura in<br />

grado di e<strong>qui</strong>librare pienamente tutte le voci, sia<br />

le parti scritte, sia le più <strong>per</strong>sonalistiche esibizioni<br />

improvvisate. L’idea originale del brano, ovvero<br />

comprensivo del testo, fu registrata nel 1960 e<br />

inserita nell’album Charles Mingus presents Charles<br />

Mingus, prodotto <strong>per</strong> l’etichetta indipendente<br />

Candid. L’album uscì pochi mesi dopo un altro<br />

straordinario disco considerato <strong>il</strong> primo manifesto di<br />

quel jazz impegnato nella rivendicazione dei diritti<br />

del popolo afro-americano: si tratta di We insist.<br />

Freedom now suite di Max Roach, la prima uscita<br />

di una breve ma feconda attività discografica della<br />

Candid records. Solo trentacinque i dischi prodotti<br />

dall’etichetta statunitense, nell’arco di otto mesi<br />

(dal 23 agosto del 1960 al 4 apr<strong>il</strong>e del 1961), da<br />

ascoltare come fosse un’unica storia, monumento<br />

di orgoglio e coscienza di razza.<br />

La voce umana è un elemento imprescindib<strong>il</strong>e<br />

<strong>per</strong> Mingus: <strong>il</strong> grido, l’hollering, <strong>il</strong> canto, <strong>il</strong> rap (la<br />

parlata ritmata), la comedy, <strong>il</strong> call and response<br />

della Chiesa Nera come <strong>il</strong> Signifyin(g) dell’oralità<br />

da strada, gli insulti rituali del ghetto. Ciò che si<br />

vuole sottolineare in Mingus è che nel suo canto si<br />

ha come una momentanea eclisse della parola. Ma<br />

4


in «Original Fables of Faubus» del 1960, più che<br />

nel canto, è la musica che si fa latore di una forza<br />

espressiva corrosiva con gli interventi beffardi di<br />

Eric Dolphy e Ted Curson sull’orlo dell’onomatopea<br />

irriverente 4 . La struttura formale del pezzo rimane<br />

invariata nelle due versioni:<br />

||: I :|| A | A’ | B | A’ |<br />

||: 4 :|| 19 | 18 | 16 | 18 |<br />

||: a :|| a a b c | a a b c’ | d d e f | a a b c’ |<br />

||: 4 :|| 4+4+4+7 | 4+4+4+6 | 4+4+4+4 | 4+4+4+4 |<br />

.<br />

(da New Grove Jazz Dictionary, Vol.1, Formes 5)<br />

.<br />

.<br />

La tanto blasonata struttura AABA si presenta<br />

<strong>qui</strong> in un modo abbastanza anomalo: la prima<br />

A è leggermente diversa dalle altre due,<br />

contrariamente alla B che ha qualche analogia<br />

con la A. In queste 71 battute succedono svariate<br />

cose: la marcetta che caratterizza le prime otto<br />

battute della sezione A si scioglie in un’invenzione<br />

melodica torva e minacciosa, che poi volge quasi<br />

in un lamento prima di ritornare nuovamente<br />

alla marcetta iniziale. Eppure si tratta di un tema<br />

profondamente unitario frutto di un’unica scint<strong>il</strong>la<br />

di lirica ispirazione. Dal punto di vista espressivo è<br />

da segnalare la diversa caratterizzazione st<strong>il</strong>istica<br />

dei soli che resta nell’ordine di un chorus <strong>per</strong><br />

ciascun solista dando precedenza alla tromba di<br />

Curson seguito da Eric Dolphy <strong>il</strong> quale sceglie<br />

<strong>per</strong> <strong>il</strong> suo <strong>per</strong>corso solistico una direzione diversa<br />

rispetto a quella di Curson, se vogliamo, più votata<br />

all’ironia sentenziosa.<br />

Mingus in «Original Fables of Faubus» sceglie<br />

di elaborare <strong>il</strong> suo chorus solistico sulle due A<br />

iniziali diversamente da quanto fatto nella versione<br />

Columbia del ’59 oggetto della nostra analisi:<br />

in quel caso <strong>il</strong> suo <strong>per</strong>corso iniziava su B <strong>per</strong><br />

concludere su A’ lasciando che l’ultima ripresa del<br />

tema, avesse inizio ugualmente sulla sezione B.<br />

Percorso di Mingus (Columbia ’59)<br />

| B | A’ |<br />

| 16 | 18 |<br />

.<br />

Percorso di Mingus (Candid’60)<br />

. | A | A’ |<br />

| 19 | 18 |<br />

Probab<strong>il</strong>mente Mingus stava già pensando a<br />

quella riorganizzazione del pezzo che nella lunga<br />

tournè europea del 1964 sarà così radicale da<br />

trasformare «Fable of Faubus» in qualcosa senza<br />

precedenti nel jazz e nella musica contemporanea.<br />

Mingus trasforma <strong>il</strong> chorus AABA in un <strong>per</strong>corso<br />

ricco di episodi di lunghezza indefinita. Ma ciò che<br />

distingue «Fable of Faubus» da es<strong>per</strong>ienze sim<strong>il</strong>i è<br />

che nel processo di espansione progressiva a cui<br />

è sottoposto <strong>il</strong> pezzo <strong>per</strong> tutta la tournè del ’64,<br />

Mingus concepisce un <strong>per</strong>corso diverso <strong>per</strong> ogni<br />

solista, e ovviamente anche <strong>per</strong> sé stesso.<br />

Cornell 1964, è la prima esecuzione dal vivo<br />

di «Fable of Faubus» nella nuova veste eseguita<br />

in sestetto con Eric Dolphy. Cronologicamente <strong>il</strong><br />

concerto di Mingus alla Cornell University nel marzo<br />

del 1964, lontano dai riflettori dei grandi palchi,<br />

si pone come prova generale della leggendaria<br />

tournèe europea che ha inizio nell’apr<strong>il</strong>e dello<br />

stesso anno a conclusione del <strong>per</strong>iodo più creativo e<br />

più s<strong>per</strong>imentale della carriera del contrabbassista.<br />

L’indagine del processo improvvisativo in Mingus<br />

nella sua «Fable of Faubus» avrà come campo<br />

pratico di indagine lo studio analitico dei suoi chorus<br />

solistici i quali, dal regime di estemporaneità in cui<br />

si trovano, attraverso un processo di trascrizione,<br />

verranno opportunamente codificati in notazione<br />

occidentale convenzionale. Una pratica, quella della<br />

trascrizione, fonte di complesse problematiche<br />

quando esercitata su re<strong>per</strong>tori musicali non<br />

occidentali ma anche <strong>per</strong> quei generi musicali<br />

originatisi nell’ambito della cultura di massa del<br />

Novecento, come <strong>il</strong> jazz ed <strong>il</strong> rock, <strong>per</strong> cui vale<br />

l’attribuzione di musiche “audiotatt<strong>il</strong>i” in base a<br />

criteri fenomenologici intrinseci.<br />

La trascrizione dei due chorus solistici di Mingus<br />

in Fables of Faubus ai quali verrà sottoposta<br />

la relativa analisi, sono stati selezionati non<br />

casualmente. La prima è tratta dall’album Ah Um,<br />

registrato <strong>per</strong> la Columbia nel 1959; la seconda<br />

è la reincisione un anno dopo <strong>per</strong> l’etichetta<br />

Candid. Un’analisi accurata su due testimoni<br />

appartenenti ad una fase precisa del processo<br />

elaborativo di Mingus, metterà in evidenza lezioni<br />

comuni e varianti subentrate, oltre che nella fase<br />

compositva, anche in quella improvvisativa. In<br />

effetti, <strong>il</strong> particolare condizionamento del medium<br />

tecnologico dato dalla registrazione/riproduzione<br />

sonora proprio in funzione della quale le o<strong>per</strong>e<br />

audiotatt<strong>il</strong>i si costituiscono, spingono a sostegno<br />

dell’esistenza di uno specifico ambito dotato di<br />

precise caratteristiche strettamente connesse<br />

alla dimensione esecutiva solidali alla forma<br />

sonora. Inoltre <strong>per</strong> quanto riguarda la particolare<br />

condizione dell’improvvisazione, <strong>il</strong> medium<br />

tecnologico della registrazione sonora è di fatto<br />

l’unico canale, tutt’altro che neutro, ad elevata<br />

potenzialità informativa in grado di fissare gli<br />

4. Zenni 2002. Stefano Zenni, Charles Mingus, polifonie dell’universo musicale afroamericano, Stampa alternativa, Roma, 2002, p.128.<br />

5 Jam Session


elementi sonori in un assetto inamovib<strong>il</strong>e.<br />

Analisi<br />

L’indagine analitica avrà inizio con<br />

l’oggettivazione semiografica mediante trascrizione<br />

dell’assolo eseguito da Charles Mingus in «Fable<br />

of Faubus», nelle due versioni Columbia 1959<br />

e Candid 1960. Nel modello di trascrizione si<br />

è tenuto conto dell’apposita dicitura swing <strong>per</strong><br />

indicare <strong>il</strong> tipico portamento ritmico in voga nella<br />

tradizione della musica jazz con la duina di crome<br />

corrispondente al modulo Long/Short (L/S),<br />

generando un’ineguaglianza nella suddivisione<br />

del tactus con proporzioni non esattamente<br />

quantificab<strong>il</strong>i. Ponendo in esergo la formula L/S ci si<br />

distanzia dalla comune ed erronea quantificazione<br />

della suddivisione ternaria che vuole <strong>il</strong> primo suono<br />

uguale ai 2/3 della pulsazione e <strong>il</strong> secondo a 1/3 5 .<br />

La trascrizione, ovvero la codifica grafica<br />

di un evento acustico preesistente, comporta<br />

<strong>il</strong> “ricomporre” in partitura quel fenomeno<br />

omologamente al modo in cui <strong>il</strong> compositore dà<br />

forma notazionale alle proprie idee musicali. Il testo<br />

è <strong>il</strong> depositario della volontà d’autore o di quanto sia<br />

ad essa assim<strong>il</strong>ab<strong>il</strong>e, e richiede <strong>per</strong>tanto di essere<br />

capito, se necessario restaurato e in molti casi,<br />

come in quello dei re<strong>per</strong>tori musicali audiotatt<strong>il</strong>i,<br />

creato. Qui, <strong>per</strong>ò, rispetto al materiale sonoro,<br />

la trascrizione agisce a posteriori; l’esecuzione<br />

anticipa la scrittura, che deve interpretare un dato<br />

sonoriale in sé già compiuto.<br />

Va altresì detto che la trascrizione di un evento<br />

acustico/musicale preesistente ha un’ut<strong>il</strong>ità rivolta<br />

principalmente all’indagine analitica e non alla<br />

conservazione e alla trasmissione della volontà<br />

dell’autore, in quanto questa risiede nel dato<br />

acustico, conservata e trasmessa dal medium della<br />

registrazione fonografica.<br />

L’azione di stab<strong>il</strong>izzazione formale ed estetica<br />

svolta dal medium di registrazione/riproduzione<br />

fonografica, indicata con la locuzione di codifica<br />

neoauratica (CNA), fa in modo che la transitorietà<br />

delle oggettivazioni formali del PAT (elementi<br />

materico-timbrici e micro ritmici d’inflessione<br />

del suono), sia afferrata e fissata in un assetto<br />

inamovib<strong>il</strong>e.<br />

PAT + CNA Musica audiotatt<strong>il</strong>e 6<br />

Jam Session<br />

Modelli di analisi<br />

La teoria sui modelli analitici applicab<strong>il</strong>i<br />

nell’improvvisazione jazz ha da sempre seguito<br />

due linee di pensiero: la prima, a cui appartengono<br />

Tirro, Porter, Schuller, Stewart, considera la<br />

trascrizione come composizione, come oggetto a<br />

cui applicare gli stessi metodi analitici adottati <strong>per</strong> la<br />

musica (notata) occidentale; la seconda riconosce<br />

la natura processuale 7 dell’atto improvvisativo nei<br />

termini espressi da Charles Ke<strong>il</strong> <strong>per</strong> descrivere quei<br />

modelli di comportamenti musicali intesi come un<br />

dinamico evolversi piuttosto che come prodotti<br />

statici.<br />

All’inizio, l’approccio più comune degli studiosi è<br />

stato quello di trattare l’analisi dell’improvvisazione<br />

in relazione ai modelli teorici di analisi usati <strong>per</strong> la<br />

musica “composta” contraddistinta dalla presenza<br />

del medium della notazione, ponendo la trascrizione<br />

sullo stesso piano formale di una partitura. Tutto<br />

ciò poggia sui più antichi e monumentali studi<br />

compiuti da Franklin Taylor, all’inizio del secolo<br />

XX, <strong>il</strong> quale poneva <strong>il</strong> concetto di improvvisazione,<br />

come realizzazione musicale che prescinde dalla<br />

notazione, nel paradigma dicotomico composizione/<br />

improvvisazione. Seguirono altri contributi<br />

importanti di studiosi quali Colles e soprattutto E.<br />

T. Ferand con lo studio Die Improvisation in der<br />

Musik, ma sempre nell’ottica della contrapposizione<br />

tra i due termini. Solo negli anni settanta, con<br />

l’apporto scientifico di Bruno Nettl, si affronterà la<br />

questione sull’improvvisazione evidenziandone le<br />

implicazioni costitutive in un’ottica funzionalistica:<br />

abbandonata la visione dicotomica che correla<br />

<strong>il</strong> concetto di composizione all’improvvisazione,<br />

Nettl parla esplicitamente di un continuum tra le<br />

due modalità caratterizzate agli estremi da una<br />

modalità di composizione lenta, cioè quella scritta,<br />

ed una di composizione rapida che si attuerebbe<br />

«in the course of <strong>per</strong>formance» 8 .<br />

Tuttavia è evidente che anche in questo<br />

caso <strong>il</strong> concetto base cui rapportare <strong>il</strong> fenomeno<br />

dell’improvvisazione è costituito dalla nozione<br />

di composizione dove la prima, inevitab<strong>il</strong>mente,<br />

assume una posizione subordinata alla seconda.<br />

Una visione teorica a cui appartiene Nettl e,<br />

andando indietro, Taylor, Colles e Ferand, che si<br />

fa del tutto ingiustificata quando tenta di spiegare<br />

le realizzazioni musicali improvvisate delle culture<br />

orali, che non conoscono la scrittura e che <strong>qui</strong>ndi<br />

non possiedono la nozione di composizione, col<br />

brainframe dell’improvvisazione. Modello, quello<br />

5. Caporaletti 2007. Vincenzo Caporaletti, Es<strong>per</strong>ienze di analisi del jazz, Lim, Lucca, 2007, p.24.<br />

6. Caporaletti 2005. Vincenzo Caporaletti, I processi improvvisativi nella musica: un approccio globale, Lim, Lucca, 2005, pp.124-125.<br />

7. Ke<strong>il</strong> 1966. Charles .M.H. Ke<strong>il</strong>, «Motion and Feeling through Music», The Journal of Aesthetics and Art Criticism, n.24, W<strong>il</strong>ey, Hoboken,<br />

1966, pp. 337-349.<br />

8. Nettl 1974. Bruno Nettl, «Thoughts on Improvisation, a Comparative Approach», The Musical Quarterly, n.60, Oxford University Press,<br />

Oxford, pp.1-19.<br />

6


di Nettl, inapplicab<strong>il</strong>e nel fenomeno della musica<br />

jazz 9 .<br />

Con lo sv<strong>il</strong>uppo di modelli analitici basati<br />

sulla comprensione dell’improvvisazione come<br />

processo, nacquero, sul terreno tracciato da Albert<br />

Lord (1960) maestosi studi sull’improvvisazione<br />

formulaica. Mettendo da parte <strong>il</strong> merito scientifico<br />

che ai pionieri dell’analisi formulaica alle o<strong>per</strong>e di<br />

Thomas Owens, Kernfeld e di Smith va riconosciuto,<br />

soprattutto <strong>per</strong> la gran mole di esempi musicali<br />

trattati, a questi va confutato l’asserto teorico sulla<br />

base del quale l’improvvisazione sarebbe legata in un<br />

certo qual modo alla cultura orale delle popolazioni<br />

studiate da Lord: la prospettiva secondo cui oralità<br />

significava quasi automaticamente creazione<br />

improvvisata. Oggi sappiamo che quest’asserto è<br />

privo di ogni fondamento anche <strong>per</strong>ché la cultura<br />

orale propone svariati livelli di codifica del testo,<br />

cui corrispondono margini di libertà creativa<br />

accuratamente strutturati da regole procedurali 10 .<br />

Infine, sull’impiego del modello Schenkeriano<br />

applicato all’analisi del processo improvvisativo<br />

nella musica jazz, si è sempre riscontrato un certo<br />

scetticismo tra gli studiosi che si interrogano sul<br />

fatto che sia adeguato, o meno, applicare un<br />

metodo scientifico, studiato e sv<strong>il</strong>uppato <strong>per</strong> l’analisi<br />

della musica composta, a quella improvvisata.<br />

Davvero i musicisti nell’atto di improvvisare creano<br />

quelle strutture complesse mostrate poi nei<br />

grafici schenkeriani? Lo studioso americano Steve<br />

Larson non solo risponde positivamente a tutti gli<br />

interrogativi, ma fa <strong>il</strong> punto sulla questione partendo<br />

dalle errate implicazioni teoriche sui contenuti e le<br />

origini della teoria di Schenker. Schenker parlava<br />

del concetto di improvvisazione e lo dimostra <strong>il</strong> fatto<br />

che, in Free Composition, ne trattava in termini di<br />

«ab<strong>il</strong>ity in which all creativity begins» sicuro che<br />

«it would be of greatest importance today to study<br />

thoroughly the fantasies, preludes, cadenzas, and<br />

sim<strong>il</strong>ar embellishment which the great composer<br />

have left to us» 11 .<br />

9. Le ragioni dell’inapplicab<strong>il</strong>ità del modello analitico di Nettl sono esposte in Caporaletti 2005.<br />

10. Caporaletti 2005, p.97.<br />

11. Larson 1998. Steve Larson, Schenkerian Analysis of Modern Jazz: Questions About Method. Music Theory Spectrum, vol.20, n.2,<br />

Pendragon Press, H<strong>il</strong>lsdale, pp. 210-211.<br />

©Don Hunstein<br />

7 Jam Session


Jam Session<br />

8


Figura 1 Trascrizione di Donato D’Attoma del solo di contrabbasso di Fables of Faubus, (Ah Um, 1959)<br />

La realizzazione scritta dell’accompagnamento di pianoforte al solo di contrabbasso così come Horace<br />

Parlan lo esegue, ci consente di effettuare un primo confronto con i risultati di una pratica di trascrizione<br />

molto diffusa ma del tutto inattendib<strong>il</strong>e, <strong>per</strong> cui a un chorus solistico, se non diversamente indicato<br />

dall’autore, sarebbe consuetudine riportare i medesimi accordi delle sezioni tematiche.<br />

| Bbmin(maj7) | / | Gbmin(maj7) | / |<br />

| Bbmin(maj7) | / | Gbmin(maj7) | / |<br />

| D | / | C 6/9 | F7(#9) |<br />

| Bb7(#11) | / | / | / |<br />

(di D.D’Attoma)<br />

| Bbmin(maj7) | / | Gbmin(maj7) | B |<br />

| Bbmin(maj7) | / | Gbmin(maj7) | 16 |<br />

| D7b5 | Gmaj7 | Cmin7 | F7(#9) |<br />

| Bb7(b5) | / | / | / |<br />

(da More Than A Play-Along, ed. Jazz Workshop)<br />

Immaginando di sovrapporre i due diagrammi, <strong>il</strong> risultato sarà una <strong>per</strong>fetta aderenza delle strutture<br />

armoniche da misura 1 a misura 8 ed una sostanziale divergenza a partire da misura 9 fino alla<br />

conclusione della sezione B: nell’esempio 2, la sequenza di accordi D7b5 – Gmaj7 – Cmin7 – F7(#9) –<br />

Bb7(b5) è ripresa fedelmente dalla sezione B del tema di «Fables of Faubus» nella comune trascrizione<br />

che la letteratura ci ha consegnato.<br />

Il Bb7(b5)di misura 13 riportato nell’esempio 2 e <strong>il</strong> Bb7(#11) indicano una prassi abbastanza diffusa<br />

di considerare (correttamente) i due accordi sim<strong>il</strong>i enarmonicamente. C’è da dire <strong>per</strong>ò che, trattandosi di<br />

un IV grado della scala minore melodica ascendente di F, ha la caratteristica di avere la nota E naturale,<br />

ovvero <strong>il</strong> 4 grado della scala innalzato, che è corretto siglare con #11 o +11.<br />

L’accordo Bb7(#11) è chiamato lidio-dominante <strong>per</strong>ché è costituito da un intervallo di quarta<br />

aumentata associato a un accordo di settima di dominante diversamente dal modo lidio della scala<br />

maggiore che è in relazione con un accordo di settima maggiore.<br />

La differenza tra le due triadi di D maggiore di battuta 9 sta nel trattamento dell’intervallo di <strong>qui</strong>nta<br />

(d-a): giusta nella mia trascrizione approntata (D), diminuita in More Than a Play-Along (D7b5).<br />

Diversamente nel nostro caso non poteva essere, osservando <strong>il</strong> prof<strong>il</strong>o melodico discendente che<br />

disegna Mingus nel suo solo: a battuta 10, su cui si prolunga l’accordo di D, <strong>il</strong> contrabbassista sfrutta,<br />

in progressione monotonale, un modello cromatico discendente di due note <strong>per</strong> raggiungere la nota la<br />

naturale, momentaneo approdo di stab<strong>il</strong>ità.<br />

9 Jam Session


Figura 2 Modello cromatico in progressione monotonale discendente<br />

Il principale elemento di coesione dell’elaborato improvvisativo di Mingus è costituito da un pattern<br />

motivico di quattro note che presenta caratteristiche di ripetizione e variazione nel corso del chorus.<br />

Il motivo, elemento cardine del processo compositivo, è inseparab<strong>il</strong>e dai suoi modelli di ripetizione: la<br />

ripetizione a cui <strong>il</strong> motivo è soggetto potrebbe essere rigorosa o variata. Schonberg nel suo Fundamentals<br />

of musical composition affronta <strong>il</strong> problema sistematicamente, classificando e analizzando gli aspetti<br />

intrinseci alla forma-motivo sulla base del ritmo, degli intervalli, dell’armonia e della melodia. Si ricavano<br />

al suo interno modelli ritmici e intervallari che combinati tra loro producono un andamento ben distinto<br />

che di solito coincide con la relativa armonia.<br />

Figura 3 Pattern motivico<br />

Dal pattern motivico formato dalle note fa sib-do-reb, costruito sull’accordo spezzato di Sib-, sono<br />

stati ricavati altri due modelli di cui Mingus si serve <strong>per</strong> l’elaborazione del suo solo. L’ut<strong>il</strong>izzo di tali<br />

modelli si intravede sia nella ripetizione fedele o variata dell’intero pattern, sia nel concatenamento con<br />

o<strong>per</strong>azioni di trasposizione o inversione di direzione dei modelli risultanti.<br />

Jam Session<br />

Pattern A fa-sib-do-reb<br />

Mod. (x) fa-sib<br />

Mod. (y) sib-reb<br />

La figura 3 mostra i risultati ottenuti dal processo di ripetizione e variazione del pattern motivico (a)<br />

e dalla concatenazione dei suoi modelli risultanti organizzati melodicamente e ritmicamente a produrre<br />

una forma e un andamento fraseologico ben distinto.<br />

Figura 4 Pattern motivico: ripetizione, variazione e concatenamento<br />

10


La prima ripetizione del pattern (P) avviene a misura 5: Mingus lo esegue variandolo nella sua<br />

forma retrograda (P’). Di conseguenza anche i modelli (x,y) seguiranno <strong>il</strong> medesimo andamento con y<br />

concatenato al suo retrogrado y’. Quando a metà sezione A’ <strong>il</strong> chorus è ormai avviato alla conclusione,<br />

viene affermata la tonalità d’impianto di Fa minore e <strong>il</strong> pattern motivico viene ripetuto ma questa volta<br />

trasportato nella nuova armonia.<br />

Figura 5 Pattern motivico trasportato<br />

Le nota do del pattern indicata in parentesi (Fig.3) si presta a due diverse interpretazioni: da un<br />

lato è, a tutti gli effetti, un’entità stab<strong>il</strong>e della scala di Sib minore, dall’altro un elemento instab<strong>il</strong>e di un<br />

passaggio cromatico attratto magneticamente dal reb che conclude <strong>il</strong> pattern.<br />

I patterns melodici, afferma Larson, iniziano e terminano con un elemento stab<strong>il</strong>e, in quanto questi<br />

tendono ad affermare la triade che elaborano: Larson, analizzando patterns di tre note (x,y,z) individua<br />

<strong>per</strong> ognuno di essi due punti magnetici tant’è che <strong>il</strong> terzo elemento instab<strong>il</strong>e è attratto in due direzioni.<br />

Il magnetismo, «the tendency of an unstable note to move to the closest stable pitch», è solo una<br />

delle forze dinamiche descritte da Larson che o<strong>per</strong>erebbero nella formazione di un pattern 12 . Studi<br />

recenti compiuti sui processi cognitivi nell’ascolto di musica tonale hanno dimostrato come, accanto al<br />

magnetismo musicale, agiscono altre forze in maniera analoga alle loro controparti fisiche: la gravità<br />

e l’inerzia. La gravità musicale è l’inclinazione (attribuita da un ascoltatore) di una nota «above a<br />

stable platform» a discendere «to that platform 13 ». L’inerzia invece è quella specifica tendenza di un<br />

pattern a proseguire con lo stesso movimento dove <strong>per</strong> “lo stesso” si intende la misura <strong>il</strong> cui <strong>il</strong> pattern è<br />

rappresentato nella memoria musicale dell’ascoltatore. L’inerzia poi ha un impatto sull’ascoltatore molto<br />

più forte e <strong>per</strong>vasivo rispetto alla gravità e al magnetismo.<br />

Figura 6 Inerzia <strong>per</strong>cepita <strong>per</strong> effetto della ripetizione del pattern cromatico<br />

La ripetizione a distanza di <strong>qui</strong>nta del pattern cromatico discendente (a) eseguito da Mingus a battuta<br />

5 è rappresentato nella memoria musicale dell’ascoltatore come <strong>il</strong> manifestarsi dell’inerzia che in questo<br />

caso specifico non è l’unica forza che agisce. La discesa cromatica di a e di a’ comporta in entrambi i<br />

casi <strong>il</strong> raggiungimento di due zone di stab<strong>il</strong>ità (I – V) afferenti all’armonia della triade di Solb minore.<br />

12. Larson 2005. Steve Larson, «Measuring musical forces». Music <strong>per</strong>ception: An Interdisciplinary Journal, n.23, University of California<br />

Press, Berkeley, p.120.<br />

13. Ibidem, p.123.<br />

11 Jam Session


Modulazioni temporali: <strong>il</strong> double time<br />

La maggior parte della musica di Charles Mingus è caratterizzata da un susseguirsi di contrazioni/<br />

espansioni del substrato metrico <strong>per</strong> effetto del raddoppio o dimezzamento della frequenza della<br />

pulsazione, in presenza della continuous pulse audiotatt<strong>il</strong>e.<br />

L’unico caso di modulazione temporale individuato durante <strong>il</strong> <strong>per</strong>corso solistico di Mingus è del tipo<br />

double time (tempo doppio) che va visto in opposizione alla nozione di raddoppio reale di tempo.<br />

Nel caso di tempo doppio o raddoppio della frequenza della pulsazione, tramite cui, ad esempio, le<br />

semiminime diventano crome, la durata assoluta della struttura metrico-armonico rimane costante 14 .<br />

Nel raddoppio reale di tempo <strong>il</strong> cui uso sistematico risale a «Br<strong>il</strong>liant Corners» (1956) di Thelonious<br />

Monk, l’unità di scansione armonica riduce <strong>il</strong> suo valore di durata di metà, e la pulsazione raddoppia<br />

realmente la propria frequenza, dimezzando conseguentemente la durata assoluta della battuta, con<br />

rapporto notevole di modulazione temporale.<br />

Figura 7 Tempo doppio.<br />

Nelle prime quattro battute della sezione A del solo si assiste al tipico fenomeno di raddoppio pulsivo<br />

generato da un double time in corrispondenza della terza battuta. La frase, che si ripete identica nella<br />

struttura ritmico-armonico nelle successive 4 misure, appare praticamente divisa in due semifrasi (Figura<br />

6). Non trattandosi di un raddoppio reale della frequenza bensì solo di una sensazione di raddoppio pulsivo<br />

generato da uno strato metrico la cui l’unità di movimento (croma) è pari alla metà della pulsazione<br />

originale (semiminima), la durata assoluta delle quattro battute del solo resta costante.<br />

Nel passaggio dalla seconda alla terza battuta si <strong>per</strong>cepisce una leggera spinta pulsiva in avanti<br />

portata da Richmond mentre <strong>il</strong> ritmo armonico resta <strong>il</strong> medesimo e Mingus prolunga fino alla terza<br />

battuta la frase del solo conservando la pulsazione originale.<br />

14. Caporaletti 2007, p.129.<br />

Jam Session<br />

12


Original<br />

Fables of Faubus<br />

13 Jam Session


Mingus firmò <strong>per</strong> la Candid records nel 1960. Il primo disco, Charles Mingus presents Charles Mingus,<br />

si presentava immediatamente con molte novità. Una di queste era sicuramente la presenza di brevi<br />

commenti, in cui Mingus presenta <strong>il</strong> brano e raccomanda al pubblico massimo s<strong>il</strong>enzio durante <strong>il</strong> set, che<br />

introducono ogni traccia del disco quasi fosse un’incisione live. In realtà si tratta di un disco registrato in<br />

studio. La novità di r<strong>il</strong>ievo nell’organico strumentale, composto da Dolphy, Curson e Richmond e Mingus, è<br />

l’assenza del pianoforte. La scelta di una formazione pianoless dà maggior risalto allo s<strong>per</strong>icolato e ardito<br />

fraseggio dei due fiati in cui Dolphy è chiamato a districarsi in un susseguirsi di accelerazioni e rallentandi<br />

<strong>per</strong> effetto del raddoppio/dimezzamento reale della frequenza pulsiva. L’assenza dell’accompagnamento<br />

Jam Session<br />

14


©John D.Kisch<br />

pianistico nel solo di contrabbasso in «Original Fables of Faubus», provoca un ampio gap armonico<br />

accentuato anche da un fraseggio di Mingus piuttosto disarticolato in diversi punti 15 . Ma è la presenza<br />

della componente testuale a rivestire di uno spessore culturale le note di Original Fables of Faubus: è<br />

la grezza ironia del canto che ad un livello socio-culturale diventa predominante. L’ironia poi, sostiene<br />

l’etnomusicologa Ingrid Monson, sta anche alla base dei interventi solistici di Curson e Dolphy, momenti<br />

in cui l’improvvisazione diventa uno strumento di azione sociale che i musicisti impiegano nel loro<br />

processo comunicativo 16 .<br />

Prima di passare ad analizzare <strong>il</strong> flusso improvvisativo di Mingus in Original «Original Fables of<br />

Faubus», è doverosa una considerazione di natura f<strong>il</strong>ologica. Nell’accostare storicamente le due versioni,<br />

la critica si è espressa in termini non sempre corretti nel considerare l’una o l’altra versione come<br />

depositaria della volontà originaria del compositore. Il dato cronologico non può essere considerato in<br />

modo assoluto <strong>il</strong> discriminante tra le due registrazioni: parlare dell’incisione di «Fables of Faubus» del ’59<br />

in termini di versione originaria 17 genera non poche ambiguità. Una tale considerazione, in primo luogo,<br />

conferisce a «Original Fables of Faubus» del ’60 un livello redazionale su ccessivo che se è vero sul piano<br />

cronologico ed evenemenziale non lo è su quello elaborativo. Nel caso specifico di queste due versioni,<br />

poi, la letteratura si è espressa in maniera esaustiva sulle vicende storico-politiche che interessarono gli<br />

Stati Uniti nella metà del XX secolo legate alla genesi del pezzo. Tutti gli elementi confluiti in «Original<br />

Fables of Faubus» erano già presenti nella mente del compositore all’atto di incidere <strong>per</strong> la Columbia e,<br />

probab<strong>il</strong>mente potevano essere fissati definitivamente in quella stessa occasione, se la stessa etichetta<br />

non si fosse espressa a favore di una versione più edulcorata.<br />

Quello che è stato individuato come elemento fraseologico di coesione dell’intera struttura del solo<br />

di «Fables of Faubus», denominato pattern motivico, nel flusso improvvisativo di 37 misure generato<br />

da Mingus in «Original Fables of Faubus» si presenta piuttosto come un pattern che identifica <strong>il</strong> prof<strong>il</strong>o<br />

melodico delle prime misure della sezione A.<br />

15. Jenkins 2006. Todd S. Jenkins, I know What I Know: the Music of Charles Mingus. Greenwood Publishing Group, Westport, 2006, p.77.<br />

16. Monson 1994. Ingrid Monson, «Doubleness and Jazz Improvisation: Irony, Parody and Ethnomusicology», Critical In<strong>qui</strong>ry, vol.20, n.2,<br />

University of Chicago Press, Chicago, p.292.<br />

17. Zerbo 2006. Maurizio Zerbo, «Duke Ellington’s Sound of Love», Allaboutjazz, 2006.<br />

<br />

15 Jam Session


Figura 9 Pattern “Motivico” [Original Fables of Faubus]<br />

Riconosciamo <strong>il</strong> pattern motivico eseguito <strong>per</strong> esteso a misura 1 (Fig.9, P) seguito dalla ripetizione<br />

variata dei suoi modelli (x, y). Inoltre, <strong>qui</strong> si nota come la seconda proposizione (Fig.9, mis.5-8) si<br />

comporti come la ripetizione variata della prima (Fig.9, mis.1-4): l’andamento della melodia disegna in<br />

entrambe le proposizioni, una curva che raggiunge <strong>il</strong> suo punto di massima crescita nel mi naturale, delle<br />

misure 2 e 6, (che <strong>per</strong>altro presentano lo stesso prof<strong>il</strong>o melo-ritmico) e prosegue inversamente verso <strong>il</strong><br />

basso arrestandosi sul do di (Fig.9, mis.4) e sul sib (Fig.9, mis.8).<br />

L’ipotesi è che nell’improvvisazione su forma-chorus di «Original Fables of Faubus», Mingus abbia<br />

particolare cura nel far intravedere la sua fedeltà al modello compositivo di riferimento. Il trattamento che<br />

Mingus, in course of <strong>per</strong>formance, riserva alle prime misure del solo sembra aderire all’organizzazione<br />

formale cui sono assoggettate le prime otto battute del tema di «Fables of Faubus», ordinate in una<br />

proposizione di quattro misure ripetuta.<br />

L’ancoraggio all’idea tematico - compositiva di «Fables of Faubus» si palesa maggiormente in alcune<br />

regioni della struttura ritmica del solo. La ritmica che Mingus predispone <strong>per</strong> l’esecuzione del tema in<br />

«Original Fables of Faubus» corrisponde esattamente a quella soggiacente alle strutture dei chorus<br />

solistici del brano. Ciò che ne scaturisce è un’osmosi <strong>per</strong>fetta tra progetto compositivo e improvvisazione.<br />

Le misure conclusive delle due sezioni (A - A’) del tema di «Fables of Faubus» sono caratterizzate<br />

dalla presenza di due obbligati ritmici che ricorrono nel solo e che interrompono temporaneamente la<br />

corrente propulsiva dello swing nella scansione L/S .<br />

Figura 10 Obbligato ritmico<br />

L’obbligato ritmico in terzine di semiminime lo si incontra nelle ultime tre misure della sezione A della<br />

struttura tematica. Ma è nel solo di contrabbasso che ha una r<strong>il</strong>evanza maggiore: Mingus, infatti, anticipa<br />

Richmond fraseggiando su quella formula ritmica (Fig.8, mis.12-13) e insistendo poi <strong>per</strong> qualche misura<br />

sulla suddivisione ternaria.<br />

Jam Session<br />

16


Figura 11 Fraseggio di Mingus sul primo obbligato ritmico<br />

La ritmica ben articolata di Richmond impiegata ciclicamente <strong>per</strong> l’intera esecuzione del brano è<br />

l’unico elemento di stab<strong>il</strong>ità all’interno di un quadro così mob<strong>il</strong>e com’è quello che si crea nei momenti<br />

di massima libertà espressiva in occasione dei soli di Curson e Dolphy in «Original Fables of Faubus».<br />

Figura 12 Obbligato ritmico ( fine sezione A’)<br />

L’obbligato ritmico di figura 10 chiude <strong>il</strong> solo di contrabbasso in «Original Fables of Faubus» e conclude<br />

la sezione tematica A’. Mingus avvia la conclusione del suo solo affermando la tonalità d’impianto di fa<br />

minore: a misura 34 (Fig.12) lo vediamo eseguire un arpeggio ascendente sull’accordo di fa minore<br />

con la presenza della caratterizzante settima maggiore. Segue una discesa cromatica che converge in<br />

un breve episodio omoritmico tra l’ultimo movimento della misura 35 e <strong>il</strong> primo movimento di quella<br />

successiva.<br />

17 Jam Session


Discografia<br />

Mingus Ah Um (Columbia CK 65512)<br />

Charles Mingus presents Charles Mingus (Candid CD 9005)<br />

The Complete Debut Recordings (Debut 12-DCD-4402-2. Cofanetto di 12 Cd comprendente<br />

tutte le registrazioni di Mingus <strong>per</strong> la Debut, tra cui Jazz at Massey Hall)<br />

Jam Session<br />

18


©John Lewis Piano - CD cover<br />

R<strong>il</strong>eggere Ellington: tre ipotesi di John Lewis<br />

Interpretare Ellington<br />

Nel disco For Ellington, del 1978<br />

(<strong>qui</strong>ndi di una fase decisamente matura del Modern<br />

Jazz Quartet, una delle tante riunioni del gruppo<br />

dalla carriera già allora venticinquennale) troviamo<br />

due brani originali, che sin dai titoli rivelano<br />

della loro natura (For Ellington di John Lewis e<br />

Maestro E.K.E. di M<strong>il</strong>t Jackson) e sette r<strong>il</strong>etture di<br />

composizioni ellingtoniane: le celeberrime Prelude<br />

to a Kiss e It Don’t Mean a Thing, l’arcaica Rockin’<br />

in Rhythm, lo spiritual Come Sunday tratto da<br />

Talking about music<br />

is like dancing about architecture<br />

(attribuita a Frank Zappa)<br />

di Massimo de Stephanis<br />

Black, Brown and Beige, e tre brani risalenti invece<br />

al 1940, alla mai abbastanza glorificata Blanton-<br />

Webster Band.<br />

L’organico dell’orchestra, a fine 1939, è solido<br />

e compatto. Un trio di tromboni, innanzitutto,<br />

formidab<strong>il</strong>e <strong>per</strong> ricchezza e varietà: Lawrence<br />

Brown è <strong>il</strong> solista dalla voce di velluto, capace di<br />

cantare anche nel registro più acuto con soave<br />

leggerezza; Juan Tizol è invece l’anima masch<strong>il</strong>e,<br />

che alla fac<strong>il</strong>ità del trombone a pistoni aggiunge<br />

un carattere vir<strong>il</strong>e e deciso; infine Joe Nanton, dai<br />

m<strong>il</strong>le effetti timbrici che gli fanno guadagnare <strong>il</strong><br />

nomignolo di “Tricky Sam”. La sezione trombe è<br />

altrettanto ricca, con Cootie W<strong>il</strong>liams dal suono ricco<br />

e pieno e l’elo<strong>qui</strong>o solistico elegante e cantab<strong>il</strong>e,<br />

contrapposto alla tradizione incarnata dall’energia<br />

di Rex Stewart, <strong>per</strong> concludere col meno celebrato<br />

ma altrettanto valido Wallace Jones.<br />

19 Jam Session


©David Redferns<br />

Le ance, infine: Johnny Hodges è la prima<br />

voce <strong>per</strong> eccellenza, dall’inconfondib<strong>il</strong>e incedere<br />

r<strong>il</strong>assato; Harry Carney, all’estremo opposto, è <strong>il</strong><br />

centro di gravità della sezione (se non dell’orchestra<br />

tutta), alternativamente fondamento armonico e<br />

sicuro solista; Otto Hardwick, come Carney con<br />

Ellington da sempre, completa la sezione dei<br />

sassofoni e fa da voce mediana del trio di clarinetti<br />

(con Carney in basso) sotto la guida di Barney<br />

Bigard, che fa da legame con la tradizione di New<br />

Orleans e al tempo stesso è elemento di fusione<br />

fra le sezioni, trovandosi spesso a capeggiare gli<br />

ottoni.<br />

La prima grande novità è l’arrivo di un<br />

secondo sassofono tenore: inteso dapprima a<br />

rafforzare la sezione e lasciare libero così Bigard<br />

di dedicarsi al solo clarinetto, diventa un elemento<br />

fondamentale del suono dell’orchestra, trattandosi<br />

di Ben Webster. Un nuovo solista, una nuova voce<br />

<strong>per</strong>sonale e inconfondib<strong>il</strong>e, tuttavia mirab<strong>il</strong>mente<br />

fusa nell’insieme orchestrale.<br />

La seconda novità riguarda invece la sezione<br />

ritmica: mai nessun musicista prima d’allora<br />

aveva saputo liberare <strong>il</strong> contrabbasso dal ruolo<br />

di mero accompagnamento ed elevarlo al rango<br />

di strumento solista a tutti gli effetti. La novità<br />

porta <strong>il</strong> nome di Jimmy Blanton, giovanissimo<br />

Jam Session<br />

eppure incredib<strong>il</strong>mente maturo strumentista<br />

di eccezionale musicalità, capace di integrarsi<br />

<strong>per</strong>fettamente come accompagnatore nel<br />

tessuto dell’orchestra e insieme di diventarne<br />

una voce fondamentale ed insostituib<strong>il</strong>e. Solista<br />

di tecnica scioltissima, inaudita <strong>per</strong> l’epoca, dalla<br />

cavata possente come ab<strong>il</strong>e a improvvisare con<br />

l’arco, si merita subito i suoi spazi in moltissimi<br />

brani, nonché arriva ad incidere i primi duetti<br />

pianoforte-contrabbasso che la storia del jazz<br />

ricordi.<br />

Ma due musicisti di tale statura, che pure<br />

arrivarono a far definire l’orchestra del <strong>per</strong>iodo<br />

come “The Blanton-Webster Band”, vanno<br />

affiancati nella loro comparsa ad un altro evento<br />

fondamentale nella storia del mondo di Ellington:<br />

un giovane pianista e compositore di Pittsburgh,<br />

che aveva mostrato al Duca <strong>il</strong> proprio lavoro un<br />

paio di anni prima, e da cui era stato finalmente<br />

chiamato ad assumere <strong>il</strong> ruolo di secondo<br />

arrangiatore. B<strong>il</strong>ly Strayhorn fu da allora, e <strong>per</strong><br />

tutto <strong>il</strong> corso della sua vita, l’inseparab<strong>il</strong>e braccio<br />

destro di Ellington in un rapporto che, da f<strong>il</strong>iale<br />

com’era agli inizi, divenne presto di reciproca<br />

collaborazione, di lavoro contemporaneo sugli<br />

stessi brani (spesso separatamente su sezioni<br />

diverse che venivano poi unite insieme), e inoltre<br />

di autore di numeri memorab<strong>il</strong>i come The Star-<br />

Crossed Lovers o Take the “A” Train.<br />

Dal re<strong>per</strong>torio di questa formidab<strong>il</strong>e orchestra<br />

nel suo <strong>per</strong>iodo giustamente definito aureo, John<br />

Lewis sceglie di adattare <strong>per</strong> <strong>il</strong> Modern Jazz Quartet<br />

tre brani: Sepia Panorama, Jack the Bear e Ko-Ko,<br />

adottando <strong>per</strong> ciascun brano una strategia diversa.<br />

Sepia Panorama<br />

Sepia Panorama è un brano che offre molteplici<br />

spunti di interesse: innanzitutto la bellezza degli<br />

assoli di Ben Webster e Jimmy Blanton; poi la<br />

peculiarità del secondo tema, la cui paternità è<br />

lecito accreditare a Juan Tizol salvo essere poi<br />

incorniciata nella struttura ellingtoniana, così come<br />

è noto che <strong>il</strong> tutti di C provenga dal background di<br />

un arrangiamento scritto anni prima (ben prima di<br />

far parte della prestigiosa compagine ducale) da<br />

B<strong>il</strong>ly Strayhorn <strong>per</strong> Tuxedo Junction; ancora, l’aver<br />

funto da “sigla” dell’orchestra, dopo East St.Louis<br />

Toodle-Oo e prima di Take the A Train; infine - ed è<br />

<strong>il</strong> punto più significativo ai fini del presente lavoro -<br />

la sua particolare forma “a specchio”. Lo schema,<br />

nella versione registrata a New York <strong>il</strong> 24 luglio<br />

1940, è infatti <strong>il</strong> seguente:<br />

1. «My right arm, my left arm, all the eyes in the back of my head, my brainwaves in his head and his in mine», lo definisce Ellington<br />

nell’autobiografia Music Is My Mistress (cit. in Tucker 1986).<br />

20


Il primo tema, A, è un giro di blues in Fa<br />

lanciato da una guizzante figura di semicrome dei<br />

sassofoni, arricchito da due f<strong>il</strong>l del contrabbasso<br />

di Jimmy Blanton in un gioco antifonale di grande<br />

effetto.<br />

La sezione B invece è fortemente a contrasto,<br />

basata su una languida melodia affidata a Juan<br />

Tizol su un tappeto a note lunghe dei sassofoni cui<br />

risponde la tromba con plunger di Cootie W<strong>il</strong>liams;<br />

lo stesso schema, con una melodia di trombone<br />

leggermente variata, e basata su una scala<br />

esatonale, si ripete subito dopo. La fanfara ritorna<br />

nella sezione C, dove protagonista indiscusso<br />

è <strong>il</strong> baritono di Harry Carney che commenta in<br />

st<strong>il</strong>e decisamente bluesy. Un ulteriore contrasto<br />

dinamico è creato dalla D, dove su un giro di<br />

blues (in Si bemolle, una quarta sopra la tonalità<br />

d’impianto) troviamo un duetto fra pianoforte e<br />

basso. Ancora un giro di blues è improvvisato da<br />

Ben Webster al tenore, e la tensione gradualmente<br />

ricresce col finale quasi <strong>per</strong>fettamente speculare:<br />

C, con fanfara e Carney; B (senza la ripresa<br />

variata, ma con un colore apparentemente nuovo:<br />

iniziando dal IV grado di Fa maggiore, crea una<br />

particolare continuità col Si bemolle d’impianto<br />

della sezione precedente) con <strong>il</strong> duetto trombone<br />

- tromba; e infine, a chiudere la struttara, <strong>il</strong> blues<br />

d’a<strong>per</strong>tura, con Blanton ancora in evidenza nei<br />

f<strong>il</strong>l ed una breve ma ricca Coda (analoga nell’uso<br />

dei cromatismi a quella della precedente Jack the<br />

Bear). In sostanza, ci troviamo dinanzi ad una<br />

forma multitematica, con due diversi blues al<br />

suo interno, <strong>il</strong> tutto con una <strong>per</strong>fetta coesistenza<br />

di parti scritte e improvvisate, e una ricchissima<br />

varietà timbrica e dinamica.<br />

La r<strong>il</strong>ettura di Lewis è scrupolosa:<br />

Nella sezione A pianoforte e vibrafono eseguono<br />

<strong>il</strong> tema orchestrale lasciando al contrabbasso<br />

la riesecuzione letterale dei f<strong>il</strong>l di Blanton. La<br />

sezione B è affidata al vibrafono che esegue<br />

sia <strong>il</strong> tema di Tizol sia le risposte a note lunghe<br />

delle ance, mentre le risposte di W<strong>il</strong>liams (queste<br />

ultime leggermente parafrasate) sono affidate al<br />

pianoforte. Anche la sezione C segue <strong>il</strong> modello<br />

orchestrale, lasciando al contrabbasso di Percy<br />

Heath le risposte che furono di Harry Carney.<br />

Segue un solo di contrabbasso, in cui <strong>il</strong> pianoforte<br />

commenta leggerissimamente, ma è da notare<br />

l’accompagnamento del vibrafono, a bicordi,<br />

in semiminime, in staccato, quasi chitarristico.<br />

Inizia a questo punto l’assolo di pianoforte, della<br />

durata di tre chorus: nel primo dei quali Lewis<br />

cita 2 esplicitamente <strong>il</strong> chorus di Ben Webster della<br />

versione originale, ut<strong>il</strong>izzandone poi la cellula<br />

finale come inizio <strong>per</strong> <strong>il</strong> successivo chorus di solo.<br />

Due chorus di vibrafono conducono alla sezione<br />

C, dove sotto l’improvvisazione pianoforte e basso<br />

ripetono l’obbligato originale. Come avveniva<br />

precedentemente, l’esposizione (accorciata) di B<br />

vede ancora protagonista <strong>il</strong> vibrafono, mentre <strong>il</strong><br />

pianoforte riprende <strong>il</strong> corale delle ance, fino alla<br />

riproposizione di A con l’unisono generale alternato<br />

alle risposte del contrabbasso di Blanton/Heath<br />

che esegue anche la coda originale.<br />

Un dato che colpisce immediatamente<br />

l’ascoltatore è la forma e<strong>qui</strong>librala e<br />

apparentemente semplice del brano: un tema di<br />

blues, <strong>per</strong> quanto articolato, seguito da un breve<br />

solo di contrabbasso e due, più lunghi, di pianoforte<br />

e di vibrafono, ed infine una riesposizione del tema<br />

di blues. Come si è visto, in realtà Lewis riesce a<br />

ricreare la struttura originale del brano, limitandosi<br />

semplicemente ad espandere la struttura destinata<br />

all‘improvvisazione, e tuttavia rispettando, in<br />

quanto parti integrali della composizione (e <strong>qui</strong>ndi<br />

rieseguendole come parti scritte) le parti solistiche<br />

originali.<br />

Jack the Bear<br />

Un brano dall’interessante sv<strong>il</strong>uppo formale,<br />

frutto della seduta del 26 marzo 1940 a Chicago.<br />

Il titolo si scopre essere un omaggio, o meglio<br />

un portrait, uno dei tanti di Ellington (come ad<br />

esempio, <strong>per</strong> restare allo stesso <strong>per</strong>iodo, Bojangles<br />

e A portrait of Bert W<strong>il</strong>liams), in questo caso al<br />

pianista stride John W<strong>il</strong>son, ma soprattutto è<br />

un’eccellente vetrina <strong>per</strong> Jimmy Blanton, che apre<br />

e chiude <strong>il</strong> brano esponendosi nell’introduzione<br />

e nel tema finale, nonché in una coda che oggi<br />

suona ancora modernissima.<br />

Dal punto di vista formale si tratta di un brano<br />

bipartito, basato su un blues e una forma-canzone,<br />

secondo <strong>il</strong> seguente schema:<br />

2. Conoscendo la proverbiale accuratezza di Lewis, viene da pensare che piuttosto che di una trascrizione nota <strong>per</strong> nota si tratti di una<br />

citazione a memoria: dato, questo, che aggiunge ulteriore valore al tutto, risultando come un omaggio più che una trasposizione.<br />

21 Jam Session


©John Reeves<br />

L’introduzione è basata su un tema minimo (un<br />

pickup di due note) degli ottoni, cui rispondono<br />

le ance nel registro medio-grave, ma soprattutto<br />

si nota <strong>il</strong> liberissimo controcanto improvvisato di<br />

Blanton.<br />

Il tema A presenta delle indubbie caratteristiche<br />

bluesy, eseguito dal pianoforte in contrasto<br />

con l’orchestra, anche se si tratta di un blues<br />

particolare, che non tocca mai <strong>il</strong> IV grado, secondo<br />

<strong>il</strong> giro armonico:<br />

Dopo una transizione di quattro misure,<br />

eseguita da Blanton e Carney all’unisono, troviamo<br />

<strong>il</strong> tema B. Si tratta di una forma-canzone (aaba)<br />

di 32 battute, ma le sezioni a sembrano constare<br />

Jam Session<br />

di 4+4 battute, anche secondo uno schema<br />

armonico molto sim<strong>il</strong>e a quello del tema A:<br />

Questa sensazione di frammentazione è<br />

data anche dall’andamento del background<br />

orchestrale, che esegue dei crescendo di quattro<br />

battute fino a sfociare sul cambio d’accordo della<br />

quarta e dell’ottava misura.<br />

Nella prima sezione a spicca Barney Bigard<br />

(su un background degli ottoni), mentre sulla<br />

seconda tocca a Cootie W<strong>il</strong>liams ergersi come<br />

solista (e <strong>il</strong> sottofondo, sempre in crescendo,<br />

è ai sassofoni coi tromboni). La parola passa<br />

di nuovo a Bigard <strong>per</strong> <strong>il</strong> resto del tema, ma<br />

la b è fortemente contrastante, con un tema<br />

dei sassofoni (sotto l’assolo di clarinetto) alla<br />

dominante.<br />

Nuovamente esposta la Transizione, iniziano<br />

gli assoli veri e propri su un giro di blues<br />

(stavolta normale, col passaggio al IV grado) in<br />

La bemolle. Il primo è di Harry Carney, dapprima<br />

con la sola sezione ritmica, poi (dalla undicesima<br />

battuta) rafforzato da un background a tre<br />

sassofoni che prosegue (legandoli mirab<strong>il</strong>mente,<br />

con incredib<strong>il</strong>e finezza di definizione dei piani<br />

strutturali) nel chorus successivo, improvvisato da<br />

Nanton. Lo special che segue è antifonale, con gli<br />

ottoni che parafrasano la frase precedentemente<br />

esposta dai tre sassofoni, e le ance tutte che<br />

rispondono. Ancora una logica prosecuzione dello<br />

special nel chorus successivo, ma <strong>il</strong> giro di blues<br />

si interrompe dopo otto battute, inglobando la<br />

Transizione all’unisono di contrabbasso e baritono<br />

che ci riporta al primo tema, stavolta definito A’<br />

<strong>per</strong> la differente strumentazione: è infatti tutto<br />

centrato intorno a Jimmy Blanton che torna da<br />

protagonista fino alla Coda, una spettacolare<br />

cadenza che esplora tutto <strong>il</strong> registro medio-acuto<br />

dello strumento 3 .<br />

Nell’adattare <strong>il</strong> brano alla strumentazione del<br />

Modern Jazz Quartet, Lewis opta stavolta <strong>per</strong><br />

una fedeltà quasi assoluta, a cominciare da Percy<br />

Heath che riesegue le parti solistiche di Blanton.<br />

Lo schema è analogo a quello di Ellington:<br />

Dopo l’Introduzione, <strong>il</strong> pianoforte esegue <strong>il</strong><br />

3. Un’altra analisi di questo brano, in forma leggermente diversa e con qualche discrasia nella trascrizione del solo di Blanton, figura in<br />

Schuller 1999, p.131.<br />

22


primo tema A, con le risposte al vibrafono. La<br />

Transizione, all’unisono a tre, porta al tema B, e<br />

<strong>qui</strong> Lewis escogita un interessante stratagemma:<br />

non potendo riprodurre <strong>il</strong> crescendo della<br />

massa orchestra orchestrale, nelle sezioni a<br />

fa raddoppiare <strong>il</strong> tempo a Connie Kay mentre<br />

basso e piano eseguono un semplice ostinato,<br />

sempre secondo lo schema 4+4 dell’originale,<br />

aumentando così la tensione sotto l’assolo di M<strong>il</strong>t<br />

Jackson. Nella b <strong>il</strong> tempo ritorna alla scansione<br />

originale, mentre <strong>il</strong> pianoforte esegue un<br />

background semi-improvvisato che rammenta <strong>il</strong><br />

tema b ellingtoniano. Lo stesso schema si ripete<br />

in un nuovo chorus, ma nella b stavolta pianoforte<br />

e vibrafono eseguono letteralmente <strong>il</strong> tema<br />

originale. Di nuovo la Transizione ci porta ai soli<br />

sul giro di blues: <strong>il</strong> primo è del contrabbasso, e<br />

sulle due ultime battute <strong>il</strong> vibrafono, secondo <strong>il</strong><br />

modello ellingtoniano, esegue <strong>il</strong> background che<br />

fu dei sassofoni legandolo al chorus successivo di<br />

pianoforte. Dopo un altro chorus in trio arrivano due<br />

chorus di variazione scritta: solo ispirato <strong>il</strong> primo,<br />

<strong>il</strong> secondo invece ripropone esplicitamente (ma<br />

stavolta su dodici misure anziché otto) lo special<br />

antifonale dell’originale. Ancora la Transizione, e da<br />

questo punto in poi <strong>il</strong> brano si conclude ricalcando<br />

fedelmente la scrittura ellingtoniana, con A’ e Coda<br />

di Blanton inclusa.<br />

Ko-Ko<br />

La seduta del 6 marzo 1940 a Chicago fu<br />

particolarmente fruttuosa. Da essa vede la luce Ko-<br />

Ko, un quadro traboccante di colori cupi e densi. Vi<br />

si ravvisano echi di quel già lontano jungle style,<br />

e secondo alcune fonti 4 avrebbe dovuto far parte<br />

di Boola, una grande o<strong>per</strong>a (progettata e mai<br />

realizzata) sulla storia della cultura afroamericana.<br />

Al primo ascolto si presenta come un semplice<br />

blues in Mi bemolle minore, con introduzione e<br />

coda, secondo lo schema seguente 5 :<br />

Ad un’analisi più approfondita si può notare<br />

come ogni chorus, con impeccab<strong>il</strong>e logica,<br />

nasca dal precedente e generi <strong>il</strong> successivo,<br />

senza soluzione di continuità, dando l’immagine<br />

di un tutto <strong>per</strong>fettamente conchiuso in sé stesso<br />

a dispetto della incredib<strong>il</strong>e varietà di sfumature<br />

cromatiche.<br />

L’Introduzione consiste di un pedale di mi<br />

bemolle di sax baritono (rafforzato dal timpano) su<br />

cui i tre tromboni si muovono <strong>per</strong> triadi discendenti<br />

alternando consonanze, sovrapposizioni e<br />

dissonanze, fino a ottenere un sorprendente effetto<br />

politonale nonché poliritmico (ne risulta una figura<br />

in 6/8 + 6/8 + 2/4). A questo punto, <strong>il</strong> trombone<br />

di Juan Tizol 6 lancia <strong>il</strong> levare del primo tema (A),<br />

cui rispondono i quattro sassofoni. Questi ultimi<br />

ado<strong>per</strong>ano la stessa cellula ritmica <strong>per</strong> <strong>il</strong> levare<br />

del secondo chorus che è appannaggio di “Tricky<br />

Sam” Nanton, dall’inconfondib<strong>il</strong>e uso della sordina,<br />

che esegue <strong>il</strong> secondo tema (B) col supporto delle<br />

trombe con plunger, in sincope. Una riesposizione<br />

leggermente parafrasata (B’) porta alla sezione<br />

successiva (C), che vede un assolo di pianoforte<br />

completamente svincolato dalla tonalità del brano,<br />

muovendosi fra cluster e scale di Do maggiore e<br />

di Do esatonale 7 , mentre le trombe con plunger<br />

semplificano <strong>il</strong> disegno ritmico (e tuttavia la<br />

continuità formale è mantenuta grazie ai sassofoni<br />

che eseguono la stessa figurazione dei due chorus<br />

precedenti). In D la tensione cresce ulteriormente,<br />

con la ripresa da parte delle trombe all’unisono<br />

del disegno dei sassofoni, mentre questi ultimi<br />

entrano sul levare del primo movimento <strong>per</strong> poi<br />

agganciarsi ai tromboni, in un <strong>per</strong>fetto esempio<br />

di tutti che fa suonare l’orchestra intera come un<br />

unico strumento, indiscutib<strong>il</strong>e talento di Ellington<br />

(e che fa immediatamente pensare a passi<br />

analoghi come <strong>il</strong> primo tema del poco posteriore<br />

Main Stem - un altro schema di variazioni su blues,<br />

<strong>per</strong> l’appunto). Il culmine viene poi raggiunto nel<br />

chorus successivo (E), con la frase a campana<br />

degli ottoni (in vetta ai quali spicca <strong>il</strong> clarinetto<br />

di Bigard), salvo ottenere un brusco anticlimax<br />

con i f<strong>il</strong>l del solo Jimmy Blanton che ottiene così<br />

<strong>il</strong> proprio spazio solistico in antifona col tutti.<br />

L’ultimo chorus, F, è riservato allo special dei<br />

sassofoni, consistente in una serie di articolate<br />

frasi di semicrome discendenti contrapposte alle<br />

note lunghe degli ottoni (sempre col clarinetto<br />

come lead). La Coda, infine, replica l’introduzione<br />

a triadi dei tromboni, salvo aggiungervi un finale<br />

in crescendo con un’altra frase a campana che<br />

parte anche stavolta dal contrabbasso e arriva ai<br />

sassofoni <strong>per</strong> concludersi su un tutti a note lunghe,<br />

in fortissimo.<br />

4. Cfr. Tucker 1986 e Berini, Volonté 1994.<br />

5. Sebbene tutti basati sul medesimo giro armonico, si è preferito indicare con diverse lettere ciascun chorus allo scopo di meglio identificare<br />

i singoli elementi nel confronto con la versione del Modern Jazz Quartet.<br />

6. Un fondamentale contributo sul ruolo e le possib<strong>il</strong>ità tecniche del trombone a pistoni si legge nella descrizione analitica di questo brano<br />

presente in Schuller 1999, p.133 e nota p.134.<br />

7. Cfr. Schuller 1999, p.135.<br />

23 Jam Session


Nella sua r<strong>il</strong>ettura col Modern Jazz Quartet,<br />

Lewis si trova dinanzi ad un confronto decisamente<br />

arduo: come riproporre, in quartetto, la fluidità<br />

formale e la ricchezza timbrica dell’originale? Lo<br />

schema seguito è <strong>qui</strong> riprodotto:<br />

L’introduzione ricalca quasi fedelmente la<br />

versione ellingtoniana: su un tremolo del vibrafono,<br />

<strong>il</strong> pianoforte esegue le triadi dei tromboni salvo<br />

alterarne leggermente la figurazione ritmica (e<br />

<strong>per</strong>dendo così parte di quel fascino poliritmico).<br />

Ancora <strong>il</strong> pianoforte, in ottava col contrabbasso,<br />

esegue <strong>il</strong> tema di Tizol (A), col vibrafono a<br />

ripetere <strong>il</strong> background dei sassofoni, e poi molto<br />

fedelmente, <strong>il</strong> tema B (Nanton). A questo punto<br />

l’arrangiamento prende a discostarsi dall’originale,<br />

ma con la dovuta gradualità: <strong>il</strong> primo dei chorus<br />

dell’assolo di Lewis ricorda ancora la frase di<br />

Nanton a B’ dell’originale, col vibrafono che<br />

riprende <strong>il</strong> background dei sassofoni, salvo poi<br />

agire molto più liberamente. In qualche punto<br />

sembra voler richiamare <strong>il</strong> solo di Ellington, ma<br />

senza purtroppo riprodurne la potenza espressiva,<br />

fino al quarto e ultimo chorus dove <strong>il</strong> vibrafono<br />

rientra col background precedente. A questo punto<br />

la maestria lewisiana di organizzatore esplode in<br />

una serie di variazioni sotto <strong>il</strong> solo di M<strong>il</strong>t Jackson:<br />

<strong>il</strong> primo chorus è caratterizzato dal tacet della<br />

batteria, mentre basso e pianoforte eseguono<br />

un ostinato; nel secondo <strong>il</strong> basso accompagna<br />

in quattro, mentre <strong>il</strong> pianoforte esegue sporadici<br />

accordi, quasi timidi; nel terzo chorus la batteria<br />

rientra, e nei due successivi l’accompagnamento<br />

pianistico si infittisce con continui salti di registro;<br />

nel sesto, infine, su un ostinato del basso la batteria<br />

raddoppia <strong>il</strong> tempo, preparando una forte tensione,<br />

cui segue <strong>il</strong> brusco anticlimax dell’assolo di<br />

contrabbasso. Il primo chorus è eseguito dapprima<br />

in solitudine, poi accompagnato da Connie Kay che,<br />

con la sua proverbiale sapienza timbrica, si limita<br />

a <strong>per</strong>cuotere solo i cerchi e le aste. Il secondo<br />

chorus non è sv<strong>il</strong>uppato sul normale giro di blues,<br />

ma su un pedale di otto battute, che se da una<br />

parte richiama l’introduzone, dall’altra fa cambiare<br />

radicalmente atmosfera al brano: sui cluster nel<br />

registro basso del pianoforte, Percy Heath suona<br />

delle ottave glissate, e <strong>il</strong> tutto più che a Blanton<br />

rimanda inevitab<strong>il</strong>mente a Charles Mingus, quasi<br />

a voler stab<strong>il</strong>ire un legame fra due generazioni<br />

di contrabbassisti. Non un anticlimax, stavolta:<br />

<strong>il</strong> pedale sfocia in un normale giro di blues dove<br />

Heath termina <strong>il</strong> suo assolo in walking, mentre<br />

Jam Session<br />

la batteria nuovamente raddoppia e pianoforte e<br />

vibrafono eseguono un tremolo che mantiene alta<br />

la tensione. Gli scambi tutti/Blanton dell’originale<br />

sono fedelmente rispettati, così come, nel chorus<br />

successivo, lo special dei sassofoni, r<strong>il</strong>etto stavolta<br />

da pianoforte e vibrafono all’unisono. La coda<br />

differisce appena dall’originale, ma <strong>il</strong> rispetto verso<br />

la creazione ellingtoniana non risulta minimamente<br />

scalfito.<br />

I tre criteri<br />

(tre ipotesi di lavoro)<br />

Al termine di questa breve disamina, possiamo<br />

notare l’ut<strong>il</strong>izzo, da parte di John Lewis, di tre<br />

differenti criteri di adattamento.<br />

1. La trasposizione fedele: In Sepia Panorama,<br />

rispetto alla partitura ellingtoniana, pochissimo<br />

viene alterato: la sequenza degli episodi è identica,<br />

la trasposizione dei timbri strumentali è accurata e<br />

<strong>per</strong>sonale (ad esempio nella sezione B <strong>il</strong> trombone<br />

rimpiazzato dal vibrafono nel registro centrale<br />

con le risposte del pianoforte in registro acuto), e<br />

<strong>per</strong>sino gli assoli originali, a buon titolo considerati<br />

parte integrante della composizione quanto le<br />

sezioni scritte, vengono riprodotti (Heath che<br />

riesegue Blanton e Carney) o evocati (Lewis che<br />

cita Webster).<br />

2. La trasposizione adattata: in Jack the Bear,<br />

invece, <strong>il</strong> discorso si fa più complesso. Oltre<br />

ad eseguire l’introduzione e la coda originali di<br />

Blanton - è lecito considerare <strong>il</strong> brano come un<br />

pezzo concertante <strong>per</strong> contrabbasso e orchestra<br />

- , Lewis sceglie di concentrare l’attenzione non<br />

tanto sulle variazioni della dinamica vera e<br />

propria (disponendo di un’organico dalla gamma<br />

decisamente più ridotta) quanto su varianti tensive<br />

(raddoppi di tempo, ostinato del basso, presenza<br />

o assenza della sezione b del secondo tema)<br />

che creano un continuo alternarsi di tensione e<br />

distensione all’interno del brano.<br />

3. Lo stravolgimento: la trasposizione <strong>per</strong><br />

quartetto di Ko-Ko ha di certo presentato<br />

l’insormontab<strong>il</strong>e problema delle infinite,<br />

irriproducib<strong>il</strong>i nuances timbriche, che tanto peso<br />

hanno nell’originale. A questo punto, la scelta<br />

di Lewis è di conservare gli elementi tematici<br />

(l’introduzione, i temi A e B, lo special dei sassofoni),<br />

mentre tutto <strong>il</strong> resto viene r<strong>il</strong>etto attraverso un<br />

processo di distruzione e successiva ricostruzione<br />

24


secondo nuovi canoni. Laddove l’originale era<br />

un modello di fluidità e continuità pur attraverso<br />

continue varianti timbriche, nella versione adattata<br />

da Lewis queste fluidità e continuità diventano<br />

frammentazione e discontinuità. La ricchezza di<br />

orchestrazione, che dava uno straordinario effetto di<br />

ampliamento, viene rimpiazzata, simmetricamente,<br />

da un complesso eppure scorrevole meccanismo di<br />

climax e anticlimax basato su minime varianti di<br />

scrittura (in gran parte affidate ad un batterista<br />

lieve e sensib<strong>il</strong>e come Connie Kay).<br />

I tre brani in questione risultano fondamentali<br />

<strong>per</strong> molti aspetti: l’evoluzione della scrittura <strong>per</strong><br />

big band degli anni ’40; l’interazione fra ensemble<br />

e solista, e fra questi in particolare <strong>il</strong> contrabbasso;<br />

l’uso di forme particolari (“a specchio”, bitematiche<br />

complesse, variazioni sul blues).<br />

Eppure le analisi possono ben poco di<br />

fronte alla musica. Posto di fronte alla scelta se<br />

ascoltarla o reinterpretarla, Lewis si è comportato<br />

da musicista, e soprattutto da musicista colto.<br />

Ha individuato dei tratti salienti, dei limiti entro<br />

cui restare (ritagliandovi tuttavia i dovuti spazi<br />

<strong>per</strong> le improvvisazioni), e alla luce della propria<br />

sapienza organizzativa, della propria conoscenza<br />

della tradizione, e soprattutto del grande rispetto<br />

<strong>per</strong> l’altissimo modello, ha plasmato tre r<strong>il</strong>etture<br />

originali tra di loro diverse, fedeli nello spirito,<br />

libere nella materia. E l’ha fatto, soprattutto,<br />

lasciando un modello <strong>per</strong> quanti vogliono seguirlo<br />

nella diffic<strong>il</strong>e arte della r<strong>il</strong>ettura.<br />

8. Gunther Schuller parla di «andamento “a crescendo” o “a bolero”: ogni chorus si innalza inesorab<strong>il</strong>e sul precedente», ponendo così<br />

specifica attenzione sull’aspetto dinamico, (Schuller 1999, p.134).<br />

25 Jam Session


Biblio/Discografia<br />

BERINI, VOLONTÉ 1994. Antonio Berini, Giovanni M. Volontè, Duke Ellington, Un genio, un<br />

mito, Ponte alle Grazie, Firenze, 1994.<br />

ELLINGTON 1973. Duke Ellington, Music Is My Mistress, Doubleday, New York, 1973.<br />

FRANCO 2001. Il jazz fra passato e futuro, a cura di Maurizio Franco, Quaderni di M/R, Lim,<br />

Lucca, 2001.<br />

HOBSBAWM 1982. Eric Hobsbawm, Storia sociale del jazz, Editori Riuniti, Roma, 1982.<br />

KNAUER 1990. Wolfram Knauer, Zwischen Bebop und Free Jazz, Schott, Mainz, 1990.<br />

PIRAS 1979. Marcello Piras, L’estetica jazzistica, in I grandi del jazz, Fabbri, M<strong>il</strong>ano, 1979.<br />

Piras 2001. Marcello Piras, Le forme nel jazz: un tesoro inesplorato, in Franco 2001.<br />

POLILLO 1975. Arrigo Pol<strong>il</strong>lo, Jazz, Mondatori, M<strong>il</strong>ano, 1975.<br />

SCHULLER 1996. Gunther Schuller, Il Jazz. Il <strong>per</strong>iodo Classico – Le origini, Edt, Torino, 1006.<br />

SCHULLER 1997. Gunther Schuller, Il Jazz. Il <strong>per</strong>iodo Classico – Gli anni Venti, Edt, Torino,<br />

1997.<br />

SCHULLER 1999. Gunther Schuller, Il Jazz. L’era dello swing – I grandi maestri”, Edt, Torino,<br />

1999.<br />

TUCKER 1986. Mark Tucker, Duke Ellington, 1940-42, note di co<strong>per</strong>tina al cofanetto The<br />

Blanton-Webster Band, Rca, Bluebird, 1986.<br />

ZENNI 2001. Stefano Zenni, La reinvenzione della musica: tra improvvisazione e composizione<br />

jazz, in Franco 2001.<br />

Duke Ellington, The Blanton-Webster Band, Rca, Bluebird, 1986.<br />

Duke Ellington, The Jimmy Blanton Era, Joker Giants of Jazz, 1989.<br />

The Modern Jazz Quartet, For Ellington, East-West, Atlantic, 1988.<br />

Jam Session<br />

26


Hal McKusick ed i ricordi di una vita<br />

Nel Nel mese di ottobre del 2007<br />

Marc Myers fa visita ad Hal McKusick nella sua<br />

casa di Sag Harbor nell’East Hampton. Ad 83 anni <strong>il</strong><br />

grande sassofonista si è ritirato dal music business<br />

<strong>per</strong> dedicarsi ai suoi hobby preferiti: fotografare<br />

ed intagliare mob<strong>il</strong>i in legno. Da quella domenica<br />

trascorsa insieme, a chiacchierare di tutto un po’,<br />

nasce l’idea di un’intervista telefonica. Svoltasi<br />

in tre lunghi “atti” l’intervista diventa presto <strong>il</strong><br />

memoriale di una vita; l’occasione <strong>per</strong> raccontare<br />

a briglie sciolte più di settant’anni di musica,<br />

vissuta da protagonista. Ne esce un formidab<strong>il</strong>e<br />

di Marc Myers; traduzione di Andrea Gaggero 1<br />

ritratto dell’America sonora, dalla Swing Craze ai<br />

giorni nostri, che resta anche l’ultima confessione<br />

di questo affabulatore nato, capace di comunicare<br />

tanto con la musica quanto con la parola.<br />

Hal McKusick è scomparso l’11 apr<strong>il</strong>e del 2012:<br />

aveva 87 anni.<br />

Pochi altosassofonisti viventi hanno<br />

vissuto e suonato tanto quanto Hal<br />

McKusick. Il suo primo impiego retribuito<br />

risale al 1939 all’età di 15 anni. Poi, a partire<br />

dal 1943, ha fatto parte di molte orchestre:<br />

Les Brown, Woody Herman, Boyd Reaburn,<br />

Claude Thorn<strong>il</strong>l e Elliot Lawrence. Ha suonato<br />

praticamente con tutti i grandi, tra i quali<br />

1. L’intervista originale è disponib<strong>il</strong>e sul blog di Marc Myers all’indirizzo: www.jazzwax.com/2007/10/hal-mckusick--1.html.<br />

27 Jam Session


Art Farmer, Al Cohn, B<strong>il</strong>l Evans, Eddie Costa,<br />

Paul Chambers, Connie Kay, Barry Galbraith<br />

e John Coltrane.<br />

I due aspetti principali della musica di<br />

Hal McKusick sono la purezza del suono e la<br />

capacità di eseguire con precisione e swing<br />

gli arrangiamenti più complessi: nel 1945<br />

<strong>per</strong>sino Charlie Parker è impressionato dal<br />

suono cristallino di Hal. Lee Konitz e Paul<br />

Desmond sicuramente devono esserne stati<br />

attratti, poiché apparentemente entrambi<br />

hanno adottato lo stesso delicato fraseggio.<br />

È un peccato che la musica di Hal McKusick<br />

rimanga oggi pressoché sconosciuta, anche<br />

tra gli appassionati di jazz: probab<strong>il</strong>mente<br />

<strong>il</strong> fatto che tra <strong>il</strong> 1958 e <strong>il</strong> 1972 abbia<br />

suonato stab<strong>il</strong>mente con l’orchestra della<br />

Cbs, che incideva <strong>per</strong> i programmi televisivi<br />

dell’epoca, ha contribuito in maniera non<br />

secondaria al suo scarso riconoscimento.<br />

Sino alla sua morte, sopraggiunta l’11 apr<strong>il</strong>e<br />

2012 (era nato a Medford nel 1924), Hal ha<br />

scelto quando e dove suonare, ha insegnato<br />

in una scuola locale privata e scritto<br />

partiture ed arrangiamenti <strong>per</strong> l’orchestra<br />

studentesca.<br />

Per comprendere l’importanza di McKusick<br />

bisogna risalire alla sua rapida affermazione<br />

e alla sua stretta collaborazione con i<br />

musicisti dalle ricerche più avanzate.<br />

«Quando ero ragazzo la mia famiglia si trasferì<br />

da Medford a Newton, dove mio padre gestiva <strong>il</strong><br />

lattificio di Noble. Mentre lui mandava avanti la<br />

fattoria, noi davamo da mangiare ai cavalli. Quando<br />

compii 8 anni mia madre mi chiese cosa volessi in<br />

regalo <strong>per</strong> Natale. Un clarinetto – risposi – e lei fu<br />

subito d’accordo, ma a patto di prometterle che<br />

lo avrei studiato sette giorni la settimana e che<br />

avrei preso lezioni. Accettai subito e quando mi<br />

diede lo strumento non volli più abbandonarlo. Mi<br />

esercitavo <strong>per</strong> ore ed ore e avevo un fantastico<br />

insegnante: Frank Tanner. Mi impiegò <strong>per</strong> suonare<br />

<strong>il</strong> clarinetto e <strong>il</strong> contralto nella banda della scuola.<br />

Avevo 9 anni e non so <strong>per</strong> quale ragione imparai a<br />

leggere la musica molto rapidamente.<br />

A 15 anni suonavo a Boston all’Old Howard<br />

Theater in Scollay Square: negli anni Trenta era<br />

stato un teatro di burlesque. Quello stesso anno<br />

formai la mia prima band: suonavamo in un locale<br />

a Dorchester e accompagnavamo un <strong>numero</strong>,<br />

con pistole, di un tipo che spegneva le sigarette<br />

in bocca alla moglie. Lei aveva una rientranza<br />

in mezzo agli occhi provocata da una pallottola.<br />

Lui le lanciava anche i coltelli. Una sera la moglie<br />

del tipo si ammala e lui mi offre 5 dollari di<br />

extra <strong>per</strong> sostituirla. Erano più soldi di quelli che<br />

guadagnavo suonando in una serata intera, così<br />

accettai. Mi disse che non avrebbe usato la pistola,<br />

Jam Session<br />

ma solo i coltelli e che mi avrebbe bendato <strong>per</strong> non<br />

spaventarmi. Così mi copre gli occhi e mi posiziona<br />

davanti alla tavola. Era un pazzo, ma sicuro di<br />

sé, così mi fidai. Cosa potevo sa<strong>per</strong>ne a 15 anni?<br />

Comincia a lanciare i coltelli verso di me e in quel<br />

preciso istante arriva mia madre: non mi <strong>per</strong>mise<br />

mai più di tornare in quel locale. Era fuori di sé.<br />

Il mio primo impiego in una big-band è stato<br />

nel 1942 con Don Bestor, che aveva collezionato<br />

diversi successi negli anni Trenta e accompagnava<br />

Jack Benny alla radio. Feci un tour con Bestor<br />

quell’estate. Don Bestor si ritirò nel 1943, ma<br />

siccome gli era piaciuto molto <strong>il</strong> mio modo di<br />

suonare mi prese un appuntamento con Joe<br />

Glaser, a New York. Glaser era uno straordinario<br />

agente musicale e <strong>il</strong> manager di Louis Armstrong.<br />

Così salii sul treno Boston-New York e aspettai<br />

Joe Glaser nella sala d’attesa del suo ufficio dalle<br />

10 del mattino alle 5 del pomeriggio. Finalmente<br />

Glaser uscì e mi chiese che strumento suonassi e<br />

se lo avessi con me. Poi tornò nel suo ufficio e ne<br />

uscì con Don Kramer, <strong>il</strong> manager di Les Brown, che<br />

mi chiese se avessi tempo di andare a Newark, nel<br />

New Jersey, <strong>per</strong> sostenere un’audizione al Teatro<br />

Adams.<br />

Quando arrivai, l’orchestra di Les Brown scese<br />

dal palco ed io andai nello scantinato <strong>per</strong> sostenere<br />

l’audizione insieme alla sezione dei sax. Il ragazzo<br />

che se ne stava andando era <strong>il</strong> secondo sax alto,<br />

Hank D’Amico, e stava <strong>per</strong> entrare nel servizio<br />

m<strong>il</strong>itare o nell’orchestra di Benny Goodman, non<br />

ricordo esattamente. Su<strong>per</strong>ai l’audizione <strong>per</strong> Les:<br />

avevo 18 anni e rimasi con Les Brown <strong>per</strong> circa<br />

sei mesi, nel 1943; fu allora che fui richiamato<br />

alle armi: lasciai l’orchestra a Chicago e presi<br />

<strong>il</strong> treno <strong>per</strong> Boston. Quando arrivai all’ufficio<br />

reclutamento mi <strong>per</strong>misero di scegliere se entrare<br />

immediatamente nell’esercito o aspettare di essere<br />

richiamato più tardi in fanteria. Decisi di rischiare<br />

rimandando l’entrata al giro successivo. Mentre<br />

riuscivo ad evitare <strong>il</strong> servizio di leva Les Brown era<br />

in California e ricevetti un’interessante offerta: mi<br />

chiesero di diventare <strong>il</strong> primo alto nell’orchestra<br />

di Dean Hudson e di scriverne gli arrangiamenti.<br />

Rimasi con Hudson <strong>per</strong> alcuni mesi, finché Woody<br />

Herman ebbe bisogno di un contralto.<br />

Mi unii all’orchestra di Woody intorno al Natale<br />

del 1943 e vi rimasi fino ai primi mesi del 1944,<br />

quando <strong>il</strong> sax alto Johnny Bothwell mi chiamò<br />

<strong>per</strong> unirmi all’orchestra di Boyd Raeburn. Anche<br />

Bothwell era stato nell’orchestra di Woody Herman<br />

e gli era piaciuto <strong>il</strong> mio suono; così lasciai l’orchestra<br />

di Woody mentre Allen Eager stava <strong>per</strong> essere<br />

sostituito da Ben Webster. Raggiunsi l’orchestra<br />

di Boyd Raeburn al Lincoln Hotel di New York: a<br />

metà degli anni Quaranta la sua era probab<strong>il</strong>mente<br />

era una delle migliori orchestre in circolazione.<br />

Ragazzi, che orchestra! Ci suonava Dizzy G<strong>il</strong>lespie,<br />

28


ma anche Benny Harris, Al Cohn, Serge Chaloff,<br />

Trummy Young, Tadd Dameron e Don Lamond.<br />

Gli arrangiatori erano Johnny Mandel, John<br />

Handy e Johnny Richards. Siamo stati i primi<br />

ad incidere «A Night in Tunisia». Anche Oscar<br />

Pettiford era dei nostri e nei tour eravamo<br />

compagni di camera. Una grande <strong>per</strong>sona, ma<br />

diventava intrattab<strong>il</strong>e quando beveva, e beveva<br />

spesso. Benny Harris ed io spesso dovevamo<br />

calmarlo. Oscar era un musicista vero ed<br />

abbiamo condiviso tanta musica; era anche un<br />

buon amico: ero entusiasta di suonare con lui.<br />

Parlavamo di musica. È stato così triste quando è<br />

morto. Amava andare in bicicletta, ma un giorno<br />

nel 1960 a Copenaghen mentre stava correndo<br />

sbandò e finì sul bordo di un marciapiede. Fece<br />

un volo a terra e non si rialzò più.<br />

La musica di Raeburn era molto avanzata<br />

<strong>per</strong> <strong>il</strong> suo tempo. Sebbene non fosse un grande<br />

sassofonista tenore, né baritono o basso -<br />

quest’ultimo lo usava spesso <strong>per</strong> fare spettacolo -<br />

aveva <strong>per</strong>ò una passione genuina <strong>per</strong> la musica e<br />

riuscì a metter insieme uno straordinario gruppo<br />

di musicisti. Boyd era un amico, ma si rendeva<br />

conto delle sue mancanze come musicista;<br />

non era un grande strumentista. Perdeva<br />

regolarmente soldi e lavoro. E poi nell’agosto del<br />

1944 ci fu quell’incendio al Parco dei divertimenti<br />

Palisades a Jersey, durante <strong>il</strong> quale andarono a<br />

fuoco molte partiture. Fu una sfortuna. Dopo<br />

l’incendio le cose cominciarono a migliorare.<br />

Nel 1994, prima di natale, stavamo suonando al<br />

Raymore-Playmore Ballroom a Boston ed Al Cohn<br />

era nell’orchestra: amavo Al, ma lasciava tutti gli<br />

assoli a Johnny Bothwell. Così, insieme al pianista<br />

John Handy, uscii dall’orchestra subito dopo lo<br />

spettacolo. Andammo insieme in California e fu <strong>per</strong><br />

me l’inizio di una vita nuova. Raeburn mi richiamò<br />

nel 1945: mi disse che Johnny Bothwell non era<br />

più nell’orchestra e voleva che io diventassi <strong>il</strong><br />

primo solista. Così nel maggio del 1945 rientrai<br />

nell’orchestra <strong>per</strong> cinque mesi. Durante questo<br />

<strong>per</strong>iodo Raeburn suonava con la cantante Ginnie<br />

Powell, con cui aveva una relazione tempestosa.<br />

Non molto tempo dopo eravamo a Hollywood<br />

<strong>per</strong> registrare i V-discs, quei dischi voluti dal<br />

governo <strong>per</strong> i soldati in guerra oltreoceano. Anche<br />

Dizzy, Bird, M<strong>il</strong>t Jackson e Stan Levey erano là <strong>per</strong><br />

registrare. Stavo suonando con gli occhi chiusi<br />

una ballad che John Handy ed io avevamo scritto:<br />

finisce <strong>il</strong> brano, apro gli occhi e Charlie Parker stava<br />

dritto in piedi di fronte a me. Era appena arrivato<br />

in California: «ragazzi, ragazzi, che suono, Gesù,<br />

che suono!», esclamò. Mi sentii svenire. Avevo<br />

ascoltato tutto quello che aveva registrato sino ad<br />

allora, che non era poi molto. Le sue parole di quel<br />

giorno furono <strong>per</strong> me una vera fonte d’ispirazione.<br />

In seguito andavo ogni notte al B<strong>il</strong>ly’s Berg in<br />

Vine Street <strong>per</strong> ascoltare lui e Dizzy. Era davvero<br />

incredib<strong>il</strong>e».<br />

La goccia che fece traboccare <strong>il</strong> vaso <strong>per</strong> Hal<br />

McKusick e John Handy arrivò alla fine del 1944,<br />

quando Boyd Raeburn tolse un altro assolo ad<br />

Al Cohn <strong>per</strong> darlo alla stella nascente e sax alto<br />

Johnny Bothwell. Fu così che McKusick ed Handy<br />

presero armi e bagagli e lasciarono l’orchestra a<br />

Boston.<br />

«Il giorno in cui John Handy ed io lasciammo<br />

Boyd a Boston, atterrammo all’aeroporto La<br />

Guardia di New York. Nel taxi che ci conduceva a<br />

casa sua a Brooklyn, John continuava a ripetere<br />

quanto fosse fantastica la West Cost: era stato alla<br />

Paramount Pictures, ma era tornato a New York<br />

<strong>per</strong> scrivere gli arrangiamenti delle orchestre di<br />

Herbie Fields e di Boyd Raeburn. Mentre ci stavamo<br />

dirigendo verso l’Eastern Parkway, John disse che<br />

dovevamo assolutamente andare in California. Ad<br />

un tratto si inclina in avanti e dice al taxista di<br />

fare inversione. Tornammo indietro a La Guardia e<br />

volammo a Los Angeles quello stesso pomeriggio.<br />

Perché Al Cohn non lasciò l’orchestra di Boyd<br />

nello stesso nostro momento? Al si muoveva<br />

lentamente. Amava suonare in quell’orchestra e<br />

ingoiava <strong>il</strong> fatto che Boyd gli toglieva la possib<strong>il</strong>ità<br />

di suonare i suoi assoli. Ma se ne andò comunque<br />

29 Jam Session<br />

©Dawn Watson


©Hal McKusick - CD cover<br />

non molto tempo dopo. Quando arrivammo a<br />

Los Angeles, John iniziò quasi subito a scrivere<br />

arrangiamenti <strong>per</strong> Artie Shaw. Andammo in un<br />

albergo, prima di trovare un appartamento nostro,<br />

e ci rimanemmo <strong>per</strong> quasi un mese. Nei mesi<br />

successivi suonai in diversi locali e formai pure un<br />

gruppo con Stan Getz. Poi <strong>per</strong> un breve <strong>per</strong>iodo<br />

rientrai nell’orchestra di Boyd Reaburn, ma alla<br />

fine dell’anno la abbandonai <strong>per</strong> suonare nel<br />

gruppo di Alvino Rey, un suonatore di steel guitar<br />

a capo di una big band double-brass. Rey era un<br />

genio dell’elettronica: modificò un’apparecchiatura<br />

adattandola alla gola della sua cantante. Sicché lei<br />

andava a cantare dietro <strong>il</strong> palco e le parole che<br />

sarebbero dovute uscire dalla sua bocca uscivano<br />

invece dalla steel guitar.<br />

Sono stato con Rey <strong>per</strong> sei mesi, ma poi ho<br />

lasciato l’orchestra: volevo ritornare ad Hollywood.<br />

Dal 1946 a 1948 suonai in quelli che si chiamavano<br />

casuals. Erano ingaggi raccattati. Musicisti di jazz<br />

frequentavano Vine Street e si mettevano insieme<br />

<strong>per</strong> suonare nei locali vicini. Ho suonato al Key<br />

Club praticamente con chiunque a quell’epoca.<br />

Anche Chet Baker stava là: aveva forse 16 anni e<br />

già allora suonava benissimo. Negli anni Settanta,<br />

quando suonavo a New York, lo videvo spesso<br />

seduto nel retro: gli chiedevo di salire sul palco,<br />

ma rispondeva sottovoce «no, no, sono ok, sono<br />

ok.” Era una <strong>per</strong>sona estremamente gent<strong>il</strong>e.<br />

Ad Hollywood suonavo regolarmente con<br />

Johnny Otis, un batterista bianco che aveva lunghi<br />

capelli e sembrava Tarzan. Suonava tantissimo e<br />

sarebbe diventato uno dei più importanti musicisti<br />

di rhythm&blues. Noi due eravamo gli unici bianchi<br />

Jam Session<br />

del gruppo e suonavamo in Central Avenue al Club<br />

Alabam. Ad uno spettacolo di moda la grande Lena<br />

Horne si unì a noi ed ero io che dovevo tenere<br />

insieme i sindacati dei bianchi e dei neri.<br />

Nel 1948 mi stancai di Hollywood: volevo<br />

tornare a New York. Mi unii all’orchestra di Buddy<br />

Rich che suonava al Palladium di Hollywood<br />

e stava iniziando un tour diretto a New York.<br />

Allora l’orchestra bebop di Dizzy G<strong>il</strong>lespie era la<br />

più elettrizzante di tutte ed anche Buddy si era<br />

messo a cercare un arrangiatore bop. Sapevo che<br />

Jimmy Giuffre avrebbe potuto scrivere quel tipo di<br />

arrangiamenti senza alcun problema, ma quando<br />

gli chiesi di venire in orchestra si rifiutò. Tutto ciò<br />

avveniva prima che diventasse famoso con Woody<br />

Herman. Mi rispose che stava lavorando a J.C.<br />

Penney e s<strong>per</strong>ava di guadagnare $5,000 <strong>per</strong> cinque<br />

anni. Oggi può sembrare un aneddoto divertente,<br />

ma a quel tempo Jimmy e la sua famiglia riuscivano<br />

a malapena a sbarcare <strong>il</strong> lunario.<br />

Quando l’orchestra di Buddy Rich raggiunse<br />

la California settentrionale eravamo dis<strong>per</strong>ati.<br />

Richiamai Jimmy dicendogli che, se solo lo avesse<br />

voluto, avrebbe potuto scrivere <strong>il</strong> libro intero<br />

degli arrangiamenti di Buddy Rich. Gli dissi anche<br />

che sarei stato sveglio tutta la notte con lui <strong>per</strong><br />

trascrivere i suoi arrangiamenti <strong>per</strong> l’orchestra e<br />

così finalmente accettò, ma mi chiese d’inviargli un<br />

po’ di denaro. Ci raggiunse nel Nordovest. Anche<br />

Warne Marsh era in quell’orchestra: suonava sul<br />

tenore le parti del contralto. Attraversammo <strong>il</strong><br />

Canada con tappe di una notte, tornammo negli<br />

Stati Uniti attraverso le cascate del Niagara e poi<br />

giù fino a New York, dove suonammo al Click<br />

Club tra la Cinquantaduesima e Broadway: un<br />

anno più tardi <strong>il</strong> Click Club cambiò nome in<br />

Birdland.<br />

All’inizio del 1948 Lee Konitz lasciò l’orchestra<br />

di Claude Thornh<strong>il</strong>l <strong>per</strong> andare a suonare nella<br />

Tuba Band di M<strong>il</strong>es Davis quella di Birth Of<br />

The Cool. Dopo che lui se n’era andato feci<br />

un’audizione con Claude: andai ai Nola Studios,<br />

di fronte alla Carnegie Hall, e portai con me <strong>il</strong><br />

mio strumento. Lui si sedette al pianoforte e,<br />

semplicemente, cominciò a suonare. Ed io<br />

lo seguii. Alla fine mi chiese se potevo inziare<br />

venerdì: fu così che tutto cominciò, con Claude<br />

Thorn<strong>il</strong>l.<br />

Le partiture di Thornh<strong>il</strong>l potevano essere<br />

insieme complicate e delicate. Ricordo una<br />

notte quando stavamo suonando Easy Living<br />

Medley: era un brano lento e concatenava vari<br />

brani arrangiati insieme. B<strong>il</strong>l Exner, <strong>il</strong> batterista,<br />

era solito suonare ad occhi chiusi ed in questo<br />

brano usava le spazzole; quella sera, quando<br />

finimmo di suonare B<strong>il</strong>l stava ancora suonando<br />

le spazzole: si era mezzo addormentato. Allora<br />

30


Claude portandosi l’indice alle labbra fece segno<br />

di non svegliarlo e ci fece iniziare un nuovo<br />

motivo, sempre allo stesso tempo: B<strong>il</strong>l era sempre<br />

<strong>per</strong>fettamente alle spazzole. Poi, all’improvviso,<br />

ci fece aumentare tempo e volume: allora B<strong>il</strong>l si<br />

svegliò con una scossa e cominciò a swingare, ma<br />

senza <strong>per</strong>dere una sola battuta. Era incredib<strong>il</strong>e.<br />

Thorn<strong>il</strong>l era <strong>per</strong>sona estremamente intelligente<br />

e tran<strong>qui</strong>lla. Teneva le sue emozioni <strong>per</strong> sé stesso,<br />

non sapevi mai se stava bene o male. Una volta,<br />

durante un tour oltre <strong>il</strong> confine in Messico, dopo<br />

lo spettacolo ero appena salito in camera e mi<br />

stavo inf<strong>il</strong>ando a letto quando sentii un rumore alla<br />

finestra. Mi affacciai e vidi Claude giù nel cort<strong>il</strong>e,<br />

vicino alla fontana. Mi stava facendo segno di<br />

scendere e di portare con me <strong>il</strong> sassofono. Quando<br />

arrivai a piano terra, mi portò al bar dove aveva<br />

scovato un vecchio pianoforte. Si sedette alla<br />

tastiera e suonammo fino alle quattro di mattina.<br />

Claude era fatto così: amava suonare, non importa<br />

dove o quando.<br />

Nell’orchestra di Thorn<strong>il</strong>l c’era <strong>il</strong> sax tenore<br />

Johnny Andrews, un musicista straordinario. Al<br />

tenore poteva suonare come Bird. Claude era<br />

molto disciplinato e non sopportava che i ragazzi si<br />

drogassero. Io sono stato sempre pulito, <strong>per</strong> tutta<br />

la vita. Fumavo sigarette e quello mi bastava. Ma<br />

molti compagni si facevano, anche se restavano<br />

sempre in grado di suonare (non ho mai capito<br />

come ciò fosse possib<strong>il</strong>e). Ad ogni modo Andrews,<br />

anche se non faceva uso di droghe, aveva una<br />

cattiva reputazione. Così mentre a notte fonda,<br />

in pieno Iowa, sto guidando una delle nuove<br />

macchine che Claude aveva comprato <strong>per</strong><br />

l’orchestra, con Andrews addormentato sul sed<strong>il</strong>e<br />

posteriore, all’improvviso dei fari ci puntano da<br />

dietro e cominciano a lampeggiare: era la Chrysler<br />

di Claude. Claude esce dalla sua macchina, fa<br />

un giro dal lato del passeggero e bussa ai vetri<br />

indicando le mie chiavi. Spengo <strong>il</strong> motore e gliele<br />

do. Claude apre <strong>il</strong> bagagliaio, butta fuori le cose di<br />

Andrews, poi bussa al finestrino lato passeggero e<br />

fa uscire Andrews dalla macchina, lasciandolo nel<br />

mezzo del nulla. Fu l’ultima volta che lo vidi. Credo<br />

che alla fine abbia abbandonato la musica e sia<br />

diventato meccanico da qualche parte: Claude era<br />

fatto anche così.<br />

Quando tornammo a New York, nel 1950,<br />

Johnny Mandel ed Al Cohn, che erano stati con<br />

me nell’orchestra di Boyd Reaburn, mi chiesero di<br />

unirmi all’orchestra di Elliot Lawrence e così lasciai<br />

Thorn<strong>il</strong>l con cui rimasi <strong>per</strong> cinque anni.<br />

Elliot aveva una delle orchestre più sottovalutate<br />

dei primi anni Cinquanta. I ragazzi che vi hanno<br />

suonato formano un elenco sorprendente: Bernie<br />

Glow, Eddie Bert, Charlie O’Kane, Ernie Royal,<br />

Urbie Green, Fred Zito, B<strong>il</strong>ly Byers, Zoot Sims, Don<br />

Lamond. Gli arrangiamenti erano scritti da Johnny<br />

Mandel, Al Cohn e Tiny Kahn. Roba sensazionale.<br />

Al Cohn sapeva essere una <strong>per</strong>sona tran<strong>qui</strong>lla,<br />

ma anche divertente. Era un fan devoto di Lester<br />

Young: fu lui <strong>il</strong> primo a riscoprire Prez, prima<br />

di chiunque altro, anche di Stan Getz e di Zoot<br />

Sims. Aveva sempre la battuta pronta; quando<br />

eravamo sul palco, se non stava raccontando<br />

una storia divertente, raccontava barzellette.<br />

Al era anche un incredib<strong>il</strong>e arrangiatore: poteva<br />

scrivere qualsiasi cosa e comunque avrebbe avuto<br />

swing. Era instancab<strong>il</strong>e, avrebbe suonato tutto <strong>il</strong><br />

giorno e scritto arrangiamenti tutta la notte. Io<br />

copiavo abitualmente le sue partiture e con lui ho<br />

imparato tantissimo. Passavamo le notti nel suo<br />

appartamento di Brooklyn. Mi ricordo ancora i<br />

brividi che dava <strong>il</strong> poter scrivere un arrangiamento,<br />

trascriverne le parti <strong>per</strong> l’orchestra, portarle alle<br />

prove <strong>il</strong> giorno dopo e ascoltare quei grandi<br />

musicisti suonarle <strong>per</strong>fettamente, già a prima<br />

vista. Quando Al fu o<strong>per</strong>ato all’occhio, andai a fargli<br />

visita in ospedale. Ricordo di averlo incontrato<br />

appena passato l’effetto dell’anestesia: gli avevo<br />

portato un libro di Groucho Marx <strong>per</strong>ché sapevo<br />

che amava Groucho. Quando entrai nella stanza,<br />

Al era seduto sul letto a redigere un elenco: mi<br />

disse che con un occhio fuori uso, avrebbe dovuto<br />

cambiare <strong>il</strong> titolo a molte canzoni: «I have only<br />

eye for you», «Them There Eye» e circa un’ altra<br />

dozzina di canzoni con la parola occhio al posto di<br />

occhi: questo era Al Cohn.<br />

La fine delle grandi orchestre è spesso<br />

attribuita all’economia in declino nel<br />

<strong>per</strong>iodo post-bellico ed al cambiamento dei<br />

gusti musicali, ma c’è stato un terzo fattore:<br />

la diretta televisiva. A partire dai primi anni<br />

Cinquanta, la rapida espansione del nuovo<br />

mezzo richiedeva un sempre crescente<br />

<strong>numero</strong> di ottimi musicisti e di arrangiatori,<br />

i quali abbandonavano le grandi orchestre<br />

<strong>per</strong> poter rispettare gli ingaggi televisivi.<br />

Contestualmente si verificò anche la crescita<br />

della produzione e vendita degli Lp a 33 giri:<br />

dischi più grandi voleva dire più musicisti<br />

e più musica <strong>per</strong> un <strong>numero</strong> crescente<br />

di etichette discografiche e molte erano<br />

a<strong>per</strong>te ad assumersi maggiori rischi con <strong>il</strong><br />

tipo di jazz che registravano. Hal McKusick<br />

nel 1955 era diventato uno dei migliori<br />

musicisti nell’ambito del jazz in grado di<br />

leggere, suonare e scrivere musica ed era<br />

tempestato di richieste <strong>per</strong> programmi di<br />

diretta televisiva.<br />

«A partire dal 1955, Elliot Lawrence avrebbe<br />

scritto ogni giorno di più <strong>per</strong> gli show di Broadway<br />

e la televisione, mentre la sua orchestra avrebbe<br />

viaggiato ogni giorno di meno. Nel frattempo, i miei<br />

impegni aumentavano, e la mia tabella di marcia<br />

31 Jam Session


giornaliera diventava sempre più stressante.<br />

Ricordo quella volta in cui la sera suonai con<br />

l’orchestra di Lawrence in Pennsylvania; <strong>il</strong> mattino<br />

dopo mi sono alzato prestissimo, ho preso un<br />

piccolo aereo <strong>per</strong> New York ed ho suonato <strong>per</strong><br />

un’incisione in studio. Poi sono saltato su un taxi<br />

<strong>per</strong> un impegno in televisione, finito alle tre di<br />

notte. Subito dopo sono corso all’aereoporto La<br />

Guardia e sono rientrato in Pennsylvania, in tempo<br />

<strong>per</strong> suonare la sera di nuovo con Lawrence. Stava<br />

diventando tutto insostenib<strong>il</strong>e.<br />

All’inizio del 1955 incontrai Creed Taylor alla<br />

Betlehem records. Creed voleva che registrassi<br />

un album e mi chiese se avevo delle idee, così<br />

gli parlai del mio quartetto senza pianoforte, dove<br />

suonavo contralto e clarinetto, con Barry Galbraith<br />

alla chitarra, M<strong>il</strong>t Hinton al contrabbasso ed Osie<br />

Johnson alla batteria. Gli arrangiamenti erano di<br />

Manny Albam. A Creed piacque subito l’idea e così<br />

registrammo East Coast Jazz/Volume 8. Non molto<br />

tempo dopo, in un negozio del Greenwich V<strong>il</strong>lage<br />

a lavorare dietro <strong>il</strong> bancone trovai George Russell.<br />

Nel 1947 aveva scritto «Cubano Be Cubano Bop»<br />

<strong>per</strong> l’orchestra di G<strong>il</strong>lespie, una delle prime fusioni<br />

di ritmi afrocubani e jazz, e nel 1951 «Ezz-Thetic»:<br />

entrambi arrangiamenti strepitosi. Ma George<br />

aveva una moglie da mantenere e la musica non<br />

gli dava lavoro sufficiente. Mi disse che stava<br />

Jam Session<br />

lavorando a qualcosa che chiamava Teoria Lydia,<br />

e mi chiese se volevo ascoltarlo. Il giorno dopo lo<br />

andai a trovare ed a casa sua George, seduto al<br />

pianoforte, mi mostrò come in chiave di do si possa<br />

suonare fa minore invece di fa maggiore ed altre<br />

cose così. Suonammo tutte le sue scale alterate,<br />

ed io adoravo quello che stava facendo, sicché io<br />

e Barry Galbraith andammo a lezione da lui. Per<br />

<strong>il</strong> mio quartetto Gorge scrisse «Lydian Lullaby»<br />

e «The Day John Brown Was Hanged». Parlai<br />

di Russell a Jack Lewis, che era l’A&R dell’Rca,<br />

dicendogli che <strong>il</strong> materiale di George era nuovo<br />

e che aveva un buon progetto in piedi. Quando<br />

Jack l’ascoltò rimase sbalordito; poco dopo, nel<br />

marzo del 1956, registrammo The Jazz Workshop<br />

<strong>per</strong> l’Rca, che mise Russell sottocontratto. E’ stato<br />

fantastico: <strong>il</strong> nostro incontro casuale nel negozio<br />

del V<strong>il</strong>lage riportò George nel mondo della musica.<br />

Nel novembre del 1956, <strong>il</strong> mio quartetto registrò<br />

dal vivo alla Brooklyn Academy un album intitolato<br />

Jazz At The Academy. Eravamo contrapposti<br />

al quartetto di Dave Brubeck. G<strong>il</strong> Evans stava<br />

scrivendo un arrangiamento <strong>per</strong> noi, e mentre noi<br />

stavamo sul palcoscenico a provare, lui sedeva<br />

in galleria e tentava di finire l’arrangiamento.<br />

Ricordo che era un ingannevole 6/4. Ma terminata<br />

la prova, G<strong>il</strong> stava ancora scrivendo, così Sonny<br />

Lester, <strong>il</strong> produttore dell’album, dovette dirgli di<br />

©Marc Weber<br />

32


lasciar <strong>per</strong>dere. Quanto mi piacerebbe poter avere<br />

oggi quell’arrangiamento!<br />

All’inizio del 1957, registrai <strong>il</strong> brano<br />

«Cornucopia» <strong>per</strong> la Coral records, la prima delle<br />

sedute d’incisione con <strong>il</strong> <strong>qui</strong>ntetto di Art Farmer,<br />

Eddie Costa, M<strong>il</strong>t Hinton e Gus Johnson. Nello<br />

stesso anno partecipai anche alla registrazione<br />

dell’album Brandeis Jazz Festival con l’orchestra<br />

di Gunther Schuller e George Russell. In studio<br />

c’erano anche Art Farmer, Jimmy Knep<strong>per</strong>, John<br />

LaPorta e B<strong>il</strong>l Evans. A riascoltarlo oggi non penso<br />

che molta della musica contenuta abbia retto<br />

<strong>il</strong> trascorrere del tempo: suona un po’ troppo<br />

pesante ed autoreferenziale. Nel dicembre del<br />

1957 riunii un gruppo diverso e registrai uno dei<br />

miei album preferiti, Triple Exposure, con B<strong>il</strong>ly<br />

Byers al trombone, Eddie Costa al pianoforte Paul<br />

Chambers al basso e Charlie Persip alla batteria.<br />

Uno dei brani più riusciti è «I’m Glad There’s You».<br />

Io suonavo <strong>il</strong> clarinetto e Paul suonò così bene che<br />

posso ancora cantare <strong>per</strong>fettamente la sua linea di<br />

basso, nota <strong>per</strong> nota.<br />

Nel 1958 registrai Cross Section: Saxes. Frank<br />

Socolow ed io suonavamo <strong>il</strong> contralto, Dick Hafer<br />

<strong>il</strong> tenore, Jay Cameron <strong>il</strong> baritono, B<strong>il</strong>l Evans, Paul<br />

Chambers e Connie Kay erano la sezione ritmica.<br />

Avevo lasciato la Coral <strong>per</strong> la Decca e in quel<br />

momento stavo suonando in tour con un gruppo<br />

con quattro sassofoni: i suoni erano veramente<br />

fantastici; George Handy, Gorge Russell e Jimmy<br />

Giuffre scrivevano gli arrangiamenti. Circa un<br />

mese dopo Cross Section: Saxes B<strong>il</strong>l e Paul si<br />

unirono a M<strong>il</strong>es Davis. È in quell’anno che mi unii<br />

alla Cbs Studio Orchestra, ma registrai ancora<br />

come sideman: in novembre <strong>per</strong> l’album New York<br />

New York di George Russell. E’ incredib<strong>il</strong>e pensare<br />

ai musicisti coinvolti in quelle incisioni: Art Farmer,<br />

Ernie Royal e Joe W<strong>il</strong>der alle trombe; Frank Rehak<br />

e Bob Brookmeyer ai tromboni, io, Ph<strong>il</strong> Woods, Al<br />

Cohn, John Coltrane e Gene Allen ai sassofoni più<br />

B<strong>il</strong>l Evans, Barry Galbraith, George Duvivier e Max<br />

Roach. Infine Jon Hendricks come narratore. Era<br />

un album s<strong>per</strong>imentale, ma retrospettivamente<br />

non sono sicuro che ancora funzioni.<br />

Nel maggio del 1959 registrai con Lee Konitz<br />

e Jimmy Giuffre <strong>per</strong> <strong>il</strong> disco Lee Konitz meets<br />

Jimmy Giuffre, che allineava oltre a me anche<br />

Warne Marsh, Jimmy Giuffre, B<strong>il</strong>l Evans. L’anno<br />

successivo, invece, registrai di nuovo con George<br />

Russell <strong>per</strong> l’album Jazz in the Space Age, che<br />

ancora oggi suona davvero troppo eccentrico. Da<br />

allora in poi ho lavorato duramente e fermamente<br />

<strong>per</strong> la Cbs fino al 1972. Quando ho iniziato alla Cbs<br />

c’erano ottanta musicisti a busta paga; nel 1972,<br />

quando l’orchestra è stata sciolta, ne erano rimasti<br />

soltanto dodici. C’erano Hank Jones, Chuck Wayne<br />

e molti altri grandi jazzisti. Da allora in poi ho<br />

suonato solo in ambito locale, ma con un sonetto<br />

straordinario. Suoniamo in occasioni quasi sempre<br />

private, ma trovo una grandissima soddisfazione<br />

nell’insegnamento della musica e nello scrivere<br />

gli arrangiamenti <strong>per</strong> gli studenti di una scuola:<br />

è affascinante vedere questi bambini crescere<br />

musicalmente.<br />

Quando ripenso agli anni Cinquanta credo che<br />

uno dei momenti più divertenti sia stato quando<br />

camminavo <strong>per</strong> Broadway con Dizzy; avevo<br />

suonato nell’orchestra di Dizzy al Birdland ed<br />

avevamo suonato insieme nell’Orchestra di Boyd<br />

Raeburn, nel 1944. Dizzy era appena tornato da<br />

un tour in Grecia e mi stava raccontando di come<br />

erano andate le cose laggiù. Mentre camminiamo,<br />

le <strong>per</strong>sone <strong>per</strong> strada continuavano a dargli <strong>il</strong><br />

cinque. Pensavo fosse <strong>per</strong> <strong>il</strong> fatto che lui era Dizzy,<br />

ed era un eroe <strong>per</strong> chiunque; poi mi resi conto che<br />

guardavano come era vestito: portava delle scarpe<br />

che finivano con punte girate all’insù, con delle<br />

campanelle sopra, <strong>il</strong> tutto combinato con la sua<br />

barbetta a punta, <strong>il</strong> basco da bop<strong>per</strong>, gli occhiali da<br />

sole e una fantastica pipa in schiuma. Era proprio<br />

un bel vedere. Questo era <strong>il</strong> jazz allora! La musica<br />

era dap<strong>per</strong>tutto; se eri un musicista al top nel tuo<br />

strumento, come era Dizzy, allora ti saresti potuto<br />

vestire e atteggiare in qualunque modo e tutti lo<br />

avrebbero apprezzato».<br />

33 Jam Session


Jam Session<br />

34


Massimo de Stephanis<br />

Contrabbassista e compositore<br />

attivo sulla scena jazzistica<br />

em<strong>il</strong>iana e toscana, si occupa<br />

anche di tango, Mpb e di<br />

musiche afroamericane in<br />

genere.<br />

Diplomato in Contrabbasso<br />

e Musica Jazz, laureato al<br />

Dams di Bologna, dal 1992<br />

al 1995 ha fatto parte come<br />

arrangiatore dell’Orchestra<br />

Giovan<strong>il</strong>e Italiana di Jazz.<br />

Ha tenuto corsi e seminari<br />

nell’Università di Bologna<br />

e nel Conservatorio di Vibo<br />

Valentia. Compone ed esegue<br />

musiche <strong>per</strong> <strong>il</strong> teatro.<br />

Donatello D’Attoma<br />

Laureato in organo al<br />

Conservatorio di Monopoli<br />

e in Musicologia alla Facoltà<br />

di Musicologia di Cremona.<br />

Finalista al concorso Bettinardi<br />

di Piacenza Jazz (2011), ha<br />

registrato Logos <strong>per</strong> la Pus(H)<br />

In Records e pubblicato due<br />

volumi sulla storia musicale<br />

della città di Conversano, dove<br />

è direttore artistico dell’Art’N<br />

Jazz Festival. Collabora con<br />

Il Giornale della Musica.<br />

Vincitore del Conad Jazz<br />

Contest 2012, è stato invitato<br />

a esibirsi sul prestigioso palco<br />

di Umbria Jazz. Ha suonato<br />

nei jazz club più importanti<br />

d’Italia, tra cui Blue Note di<br />

M<strong>il</strong>ano e Alexander Platz di<br />

Roma.<br />

Biografie<br />

Andrea Gaggero<br />

Dagli anni Novanta organizza<br />

rassegne jazz nell’alessandrino.<br />

Collabora alla redazione<br />

della discografia on line di<br />

Henry Threadg<strong>il</strong>l [http://<br />

discography.backstrom.<br />

se/threadg<strong>il</strong>l], con <strong>il</strong> blog<br />

Incontant Sol [inconstantsol.<br />

blogspot.com], specializzato<br />

in jazz d’avanguardia e con<br />

l’e-zine Jazzitalia. Tiene corsi<br />

d’introduzione all’ascolto della<br />

musica jazz.<br />

35 Jam Session


Jam Session<br />

Birdland è l’unica libreria in Italia dedicata alla Musica<br />

Jazz.<br />

Potete richiedere <strong>il</strong> catalogo cartaceo o consultarlo<br />

direttamente su internet al seguente indirizzo: www.<br />

birdlandjazz.it<br />

Agli iscritti ai Conservatori & Scuole di Musica verrà<br />

accordato uno sconto del 10%.<br />

36


37 Jam Session

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