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un qualche suo concetto e a trasfigurarsi per grazia d’un’ingenuità ch’era vera e prodigiosa essendo sacri i tempi e ricchi naturalmente di primitivo prestigio 465 Le parole innocenti della poesia sono dunque «semplici e favolose» e la lingua è dotata di grazia e ingenuità e Dante, chiosa Ungaretti, in quanto poeta delle origini, può fare con la lingua quanto facevano i primi poeti dell’umanità, come aveva teorizzato Vico. Risulta qui abbastanza evidente la rilettura delle origini della letteratura italiana, dell’operato del suo massimo artefice, attraverso il reimpiego di strumenti schiettamente vichiani: vengono attribuite a Dante (primo poeta, in senso cronologico, della letteratura italiana), le stese possibilità assegnate ai primi uomini-poeti della Scienza Nuova, la stessa vicinanza alla natura e la stessa facilità di creare le parole di cui potevano avvalersi i primi popoli qui gode Dante, in tempi che, qui come là, erano «sacri». Inoltre, quanto al carattere popolare d’una lingua letteraria, il Leopardi pensava giustamente che tale essa non poteva essere se non nel periodo delle origini. Ma una lingua poteva, nonostante vivesse da secoli, conservarsi in qualche modo sempre popolare, se come per l’italiano le sue forme si fossero dimostrate insofferenti di irrigidimenti convenzionali. E c’è sempre quella risorsa del primitivo, ma intesa con eleganza di spirito o disperazione d’animo, e non come tecnica delle balie ovverosia poetica del fanciullino 466. La lingua delle origini è lingua popolare, in senso etimologico s’intende, e, secondo Ungaretti, è caratterizzata da «eleganza di spirito». La lezione estetica di Leopardi, si sa, è fondamentale ma dietro alle parole con cui il poeta di Alessandria d’Egitto interpreta il marchigiano non si può ignorare la 465 GIUSEPPE UNGARETTI, [Temi leopardiani: la solitudine umana], in IDEM, Vita d’un uomo. Viaggi e lezioni, cit., p. 814. 466 GIUSEPPE UNGARETTI, [I due articoli di Ludovico di Breme] (1942-1943), in IDEM, Vita d’un uomo. Viaggi e lezioni, cit., pp. 840-841. 186
comune matrice vichiana. « Non può essere” aveva dettato [Leopardi] “che la natura incorrotta, che il primitivo, che la candida semplicità, che la lezione de’ poeti antichi non v’abbia inebbriato mille volte di squisitissimo diletto” 467 ove la «candida semplicità» altro non è che l’innocenza, come poi verrà ribattezzata da Ungaretti. Circa il rinnovamento della lingua all’insegna dell’innocenza è il professore sottolinea che la canzone petrarchesca e l’ode dorica non scompariranno mai del tutto dai Canti leopardiani, ma gradatamente vi rimarranno come un’eco di giovanezza tanto più incantevole quanto più, eliminando ogni traccia di servile, insensato e inespressivo calco, essa verrà resa evidente dall’elegante evocazione da parte di una lingua consapevole che invecchiando ogni giorno di più, senza tregua si diversifica 468. La «giovanezza», altro vocabolo che denuncia il retroterra vichiano, ma anche leopardiano, di Ungaretti, è un’altra connotazione dell’innocenza, così come tutte le volte che si sono avute, nella storia della letteratura italiana, delle riforme fondate su un ritorno metrico a Pindaro, a Orazio o a non so chi, a conti fatti, non ne abbiamo ricavato se non il solito endecasillabo o altri nostri versi tradizionali, ma ai quali era stato tolto, come nelle Odi barbare, non so quale naturalezza e fatalità storica 469. Cosa intenda qui Ungaretti con «fatalità storica» è difficile dire: probabilmente l’essere l’opera riuscita in un determinato tempo, il suo essere 467 GIUSEPPE UNGARETTI, Rapporto con il Petrarca e introduzione al commento dell’«Angelo Mai», in IDEM, Vita d’un uomo. Viaggi e lezioni, cit., p. 856 468 Ivi, p. 862. 469 GIUSEPPE UNGARETTI, Sulla metrica del Leopardi, in IDEM, Vita d’un uomo. Viaggi e lezioni, cit., pp. 889-890. 187
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Le parole innocenti <strong>del</strong>la poesia sono dunque «semplici e favolose» e la lingua<br />
è dotata di grazia e ingenuità e Dante, chiosa Ungaretti, in quanto poeta <strong>del</strong>le<br />
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come aveva teorizzato Vico. Risulta qui abbastanza evidente la rilettura <strong>del</strong>le<br />
origini <strong>del</strong>la letteratura italiana, <strong>del</strong>l’operato <strong>del</strong> suo massimo artefice,<br />
attraverso il reimpiego di strumenti schiettamente vichiani: vengono<br />
attribuite a Dante (primo poeta, in senso cronologico, <strong>del</strong>la letteratura<br />
italiana), le stese possibilità assegnate ai primi uomini-poeti <strong>del</strong>la Scienza<br />
Nuova, la stessa vicinanza alla natura e la stessa facilità di creare le parole di<br />
cui potevano avvalersi i primi popoli qui gode Dante, in tempi che, qui come<br />
là, erano «sacri». Inoltre,<br />
quanto al carattere popolare d’una lingua letteraria, il Leopardi pensava giustamente<br />
che tale essa non poteva essere se non nel periodo <strong>del</strong>le origini. Ma una lingua<br />
poteva, nonostante vivesse da secoli, conservarsi in qualche modo sempre popolare,<br />
se come per l’italiano le sue forme si fossero dimostrate insofferenti di irrigidimenti<br />
convenzionali. E c’è sempre quella risorsa <strong>del</strong> primitivo, ma intesa con eleganza di<br />
spirito o disperazione d’animo, e non come tecnica <strong>del</strong>le balie ovverosia poetica <strong>del</strong><br />
fanciullino 466.<br />
La lingua <strong>del</strong>le origini è lingua popolare, in senso etimologico s’intende, e,<br />
secondo Ungaretti, è caratterizzata da «eleganza di spirito». La lezione<br />
estetica di Leopardi, si sa, è fondamentale ma dietro alle parole con cui il<br />
poeta di Alessandria d’Egitto interpreta il marchigiano non si può ignorare la<br />
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lezioni, cit., p. 814.<br />
466 GIUSEPPE UNGARETTI, [I due articoli di Ludovico di Breme] (1942-1943), in IDEM, Vita d’un<br />
uomo. Viaggi e lezioni, cit., pp. 840-841.<br />
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