Lo status familiae

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19.06.2013 Views

“familiari” che da essa derivano). Resta cioè quel che per i Romani è sempre stato. Ne cambiano molto però gli elementi di dettaglio sui singoli aspetti che lo riguardano. In qualche caso, ciò si osserva da un punto di vista puramente sociale e fattuale, in qualche altro invece anche sul piano dei suoi stessi effetti giuridici “familiari”, che – grazie all’intervento del pretore – non sono più “inclusivi” ed “esclusivi” negli stessi termini di una volta. La progressiva “laicizzazione” del matrimonio e l’allargamento anche delle causae che potevano giustificarne la interruzione ebbe conseguenze giuridiche importanti, sotto il profilo della analisi del fatto (e degli aspetti volontaristici collegati). Intanto, la volontà dei coniugi (e dei loro genitori, ancora richiesta) non solo non ha bisogno di “forme” di esplicitazione particolari (il che accadeva già per altro – benché il modello fosse invece quello delle nuptiae confarreatae, con il carico di formalità che esse richiedevano – anche in antico: si pensi alla donna che anno nupta perseverabat di Gai. 1.111), ma nemmeno vi ricorre più. Le stesse nuptiae – come elemento sociale di rivelazione di un’intenzione – sono un fatto percepito come, in sé, nemmeno socialmente necessario: si giungerà a considerare possibile una deductio in domum di una donna ancora impubere, che acquisterà effetti matrimoniali solo alla maturazione del presupposto fisico richiesto e anche quella che avvenisse in domo viri in assenza di lui; e si ammetterà – sin dalla fine della repubblica – persino, forse, la possibilità di un consenso nuziale di donna absens. Necessario è sempre insomma che essa “consti”. Ma ad osservarlo non aiutano più ormai, come una volta, le forme (che, ancorché non imposte, comunque di norma ricorrevano). Il che apre a problemi interpretativi del fatto (qualificazione o meno come matrimoniale della convivenza) molto interessanti (dal punto dell’analisi giuridica) e prima sconosciuti. Un noto episodio riferito da Cicerone appare particolarmente significativo: Cic., de orat. 1.183: …Quid? Quod usu memoria patrum venit, ut paterfamilias, qui ex Hispania Romam venisset, cum uxorem praegnantem in provincia reliquisset, Romae alteram duxisset neque nuntium priori remisisset, mortuusque esset intestato et ex utraque filius natus esset, mediocrisne res in contentionem adducta est, cum quaereretur de duobus civium capitibus et de puero, qui ex posteriore natus erat, et de eius matre, quae, si iudicaretur certis quibusdam verbis, non novis nuptiis fieri cum superiore divortium, in concubinae locum duceretur? Cic., de orat. 1. 238: Nam, quod maximas centumviralis causas in iure positas protulisti, quae tandem earum causa fuit, quae ab homine eloquenti iuris imperito non ornatissime potuerit dici?

Quibus quidem in causis omnibus, sicut in ipsa M'. Curi, quae abs te nuper est dicta, et in C. Hostili Mancini controversia atque in eo puero, qui ex altera natus erat uxore, non remisso nuntio superiori, fuit inter peritissimos homines summa de iure dissensio. Siamo nell’ultimo secolo della repubblica. E di fronte ad una questione non solo propostasi nei fatti, ma soprattutto oggetto di una summa dissensio de iure inter peritissimos homines. Nella quale dunque entrambe le posizioni potevano teoricamente trovare accoglimento. Cicerone – accostandola alla causa curiana – mostra con evidenza che ciò che fu oggetto di controversia fu se quanto doveva in quel caso accertarsi lo si potesse solo con criteri formali (la notificazione del ripudio), ovvero anche con criteri sostanziali indipendenti. La intervenuta morte senza invio del ripudio, ma in costanza di convivenza con la seconda donna, poteva bene valere a dimostrare – avranno argomentato i sostenitori della natura matrimoniale della seconda unione – che l’uomo, non avendo mutato avviso fino alla morte, aveva perseverato nel considerare la seconda unione come unione matrimoniale e dunque la prima come interrotta. L’invio del repudium non era, del resto, un atto recettizio. Valeva a dimostrare l’intenzione interruttiva, ma non richiedeva, per essere efficace, che il destinatario ne prendesse conoscenza (tanto da valere anche se destinatario ne fosse un infermo di mente). La sua rilevanza dipendeva solo dalla serietà della volontà manifestata. Importante era la notorietà “sociale” (non dell’interessato diretto) della stessa. Circa un secolo o poco più in avanti (siamo ora nel 48 d.C.) fu considerato valido matrimonio (per la pubblicità che le nozze avevano avuto) quello tra Messalina e Silio, avvenuto mentre Claudio era assente per un viaggio e ignorava quanto stava accadendo. Lo spostamento dell’attenzione sul “fatto in sé”, indipendentemente dalle forme che ne avevano eventualmente assecondato la costituzione, induce a nuove e più approfondite riflessioni sugli indicatori che “qualificano” come matrimoniale una convivenza stabile. È necessario così di certo che essa abbia honor matrimonii e denunci una perseverante coerente volontà (affectio maritalis). Ma pur sempre in senso relativo: altro l’honor richiesto, ad esempio, se l’uomo ha rango senatoriale, altro quello proprio di una persona di condizione comune (e ciò indipendentemente dal rango in sé della donna, purché naturalmente non priva di connubium rispetto all’uomo). E così via per tutto ciò che può avere rilievo nella valutazione del carattere matrimoniale di una convivenza in atto: dalla comune residenza, alla volontà di procreare, alla costituzione di dote, fino agli estremi sviluppi che porteranno alla presunzione di matrimonio ogni qual volta la convivenza sia con donna libera e di costumi onesti. In tutto questo dovette giocare un importante ruolo anche la legislazione augustea, con il suo determinato proposito di rinvigorire l’istituto matrimoniale favorendone al massimo la diffusione, ma insieme difendendone la dignità, spingendo dunque da un lato verso una considerazione attenta di ogni fatto che potesse dare rilevanza

“familiari” che da essa derivano). Resta cioè quel che per i Romani è<br />

sempre stato.<br />

Ne cambiano molto però gli elementi di dettaglio sui singoli<br />

aspetti che lo riguardano.<br />

In qualche caso, ciò si osserva da un punto di vista puramente<br />

sociale e fattuale, in qualche altro invece anche sul piano dei suoi<br />

stessi effetti giuridici “familiari”, che – grazie all’intervento del<br />

pretore – non sono più “inclusivi” ed “esclusivi” negli stessi termini di<br />

una volta.<br />

La progressiva “laicizzazione” del matrimonio e<br />

l’allargamento anche delle causae che potevano giustificarne la<br />

interruzione ebbe conseguenze giuridiche importanti, sotto il profilo<br />

della analisi del fatto (e degli aspetti volontaristici collegati).<br />

Intanto, la volontà dei coniugi (e dei loro genitori, ancora<br />

richiesta) non solo non ha bisogno di “forme” di esplicitazione<br />

particolari (il che accadeva già per altro – benché il modello fosse<br />

invece quello delle nuptiae confarreatae, con il carico di formalità che<br />

esse richiedevano – anche in antico: si pensi alla donna che anno<br />

nupta perseverabat di Gai. 1.111), ma nemmeno vi ricorre più. Le<br />

stesse nuptiae – come elemento sociale di rivelazione di un’intenzione<br />

– sono un fatto percepito come, in sé, nemmeno socialmente<br />

necessario: si giungerà a considerare possibile una deductio in domum<br />

di una donna ancora impubere, che acquisterà effetti matrimoniali solo<br />

alla maturazione del presupposto fisico richiesto e anche quella che<br />

avvenisse in domo viri in assenza di lui; e si ammetterà – sin dalla fine<br />

della repubblica – persino, forse, la possibilità di un consenso nuziale<br />

di donna absens. Necessario è sempre insomma che essa “consti”. Ma<br />

ad osservarlo non aiutano più ormai, come una volta, le forme (che,<br />

ancorché non imposte, comunque di norma ricorrevano).<br />

Il che apre a problemi interpretativi del fatto (qualificazione o<br />

meno come matrimoniale della convivenza) molto interessanti (dal<br />

punto dell’analisi giuridica) e prima sconosciuti.<br />

Un noto episodio riferito da Cicerone appare particolarmente<br />

significativo:<br />

Cic., de orat. 1.183: …Quid? Quod usu memoria patrum venit,<br />

ut paterfamilias, qui ex Hispania Romam venisset, cum uxorem<br />

praegnantem in provincia reliquisset, Romae alteram duxisset neque<br />

nuntium priori remisisset, mortuusque esset intestato et ex utraque<br />

filius natus esset, mediocrisne res in contentionem adducta est, cum<br />

quaereretur de duobus civium capitibus et de puero, qui ex posteriore<br />

natus erat, et de eius matre, quae, si iudicaretur certis quibusdam<br />

verbis, non novis nuptiis fieri cum superiore divortium, in concubinae<br />

locum duceretur?<br />

Cic., de orat. 1. 238: Nam, quod maximas centumviralis<br />

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