Lo status familiae
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Collegio di Diritto Romano<br />
Homo, caput, persona<br />
La costruzione giuridica dell’identità nell’esperienza romana<br />
(dall'epoca di Plauto a Ulpiano)<br />
Gennaio 2008<br />
Prof. Alessandro Corbino<br />
<strong>Lo</strong> <strong>status</strong> <strong>familiae</strong><br />
1. La nostra informazione su ciò che chiamiamo “regime<br />
familiare romano” dipende – come in ogni campo al quale lo studio<br />
del diritto antico può essere indirizzato – da vari fattori condizionanti,<br />
due dei quali giocano tuttavia, nel nostro caso (per la speciale<br />
relazione che la materia ha con fattori di ordine culturale e perciò<br />
ideologico), un ruolo particolarmente rilevante.<br />
a) Il primo è costituito dal fatto che il nostro accesso alla<br />
informazione sul suo assetto più risalente del regime familiare romano<br />
è, di norma, affidato a sedimentazioni storiche di esso (nei suoi<br />
aspetti di sistema e in quelli di dettaglio), maturate in tempi nei quali<br />
esso aveva già (per sicure informazioni pervenuteci al riguardo) subito<br />
rilevanti mutamenti, rispetto alla situazione più antica.<br />
b) Il secondo è rappresentato dalla speciale interdipendenza<br />
che, nella materia, hanno i vari aspetti che la concernono e dal fatto<br />
tuttavia (inevitabile) che il complesso delle fonti disponibili è molto<br />
disomogeneo (per natura di esse, risalenza specifica e contestualità<br />
rispetto ai fatti di cui trattano) e, soprattutto, per l’ampiezza di<br />
copertura che tali fonti assicurano ai diversi aspetti del regime che<br />
vogliamo osservare.<br />
Ricostruire la storia generale del sistema familiare romano –<br />
come oggi dobbiamo pure tentare – è assai più complesso e difficile di<br />
quel che potrebbe essere la ricostruzione di alcuni singoli aspetti di<br />
esso.<br />
Solo se avessimo, ovviamente, un’informazione in grado di<br />
farci ricostruire – con uno stesso adeguato livello di attendibilità<br />
(quale è possibile invece per il suo assetto più recente) – anche ogni<br />
aspetto più antico del medesimo, sarebbe possibile aspirare a risultati<br />
in grado di ricostruire un quadro di sistema, se non pienamente<br />
affidabile almeno complessivamente sufficientemente fermo per<br />
rendere la nostra “fotografia” – ancorché distante dall’immagine che<br />
raffigura – abbastanza nitida almeno nei suo elementi fondanti.<br />
Ciò purtroppo – come tutti sappiamo – non è.<br />
Almeno con riferimento al tempo che precede gli inizi del II<br />
secolo a.C. – che costituisce il momento storicamente più alto nel<br />
quale l’informazione comincia a fluire con sufficiente continuità e<br />
ricchezza – non vi è aspetto (a cominciare da quello relativo alla
interpretazione generale del sistema familiare romano) sul quale non<br />
si sia formata perciò una letteratura orientata in modo anche<br />
considerevolmente divergente.<br />
Ne è derivata – com’è a tutti noto – una profonda divisione sia<br />
sulla interpretazione complessiva del regime familiare (delle sue<br />
giustificazioni storiche cioè e della sua più precisa originaria natura),<br />
sia sulla ricostruzione di molti dei suoi elementi portanti.<br />
Su poche cose vi è concordanza generale.<br />
Quello romano – si dice da tutti – fu un regime delle relazioni<br />
parentali assolutamente originale, rispetto ai paralleli regimi che<br />
governavano la materia presso gli altri popoli antichi (sia perché per<br />
molti aspetti ciò emerge, in effetti, con evidenza, sia perché la<br />
circostanza veniva comunque sottolineata dagli stessi Romani ).<br />
Altrettanto sicuramente, esso subì nel tempo l’influenza delle<br />
trasformazioni profonde intervenute nella cultura materiale per effetto<br />
dei mutamenti incisivi che segnarono le ideologie collettive in materia<br />
di relazioni interpersonali, a seguito dell’impatto esercitato sulla<br />
cultura romana precedente (e perciò inducendo importanti<br />
comportamenti imitativi e conseguenti riassetti normativi), prima, da<br />
modelli socio-culturali divenuti (come quelli greci), tra III e II secolo<br />
a.C., molto più seduttivi (per le mutate condizioni generali) che in<br />
passato (i contatti tra Roma e la cultura greca non sono, certo, una<br />
novità di quel tempo), poi, da modelli di dirompente eversiva capacità<br />
di rivoluzionare – come fu del Cristianesimo – le convinzioni ataviche<br />
circa le relazioni tra l’uomo e le ragioni e finalità della sua esistenza.<br />
Fuori da queste genericissime considerazioni, tutto è – e tanto<br />
più quanto più in antico si guarda – incerto, discusso e discutibile.<br />
2. Una esposizione ragionata della storiografia sulla<br />
organizzazione familiare romana non solo non sarebbe nelle mie<br />
forze, ma non sarebbe nemmeno sicuramente compatibile con i tempi<br />
– e direi anche le finalità – del nostro seminario.<br />
Mi limiterò perciò a richiamare l’attenzione – sulla base di<br />
quello che almeno a me sembra sufficientemente evidenziato dalle<br />
nostre fonti – sui principali aspetti fondativi (e perciò di sistema), che<br />
hanno connotato il regime “familiare” romano e che possono<br />
considerarsene gli elementi di continuità storica che lo hanno segnato<br />
(sia pure con diversa intensità), al di là delle importantissime<br />
modificazioni indotte sulla loro stessa disciplina dal mutare nel tempo<br />
delle condizioni di contesto (anche meno radicalmente influenti di<br />
quelle prima ricordate).<br />
3. Comincerò da alcune osservazioni di ordine terminologico.<br />
L’espressione “<strong>status</strong> <strong>familiae</strong>” è solo una nostra espressione<br />
di comodo, mai utilizzata nelle fonti romane, che parlano piuttosto di<br />
<strong>status</strong> hominis, anche con riferimento alla condizione che qui<br />
osserviamo. Essa serve bene, tuttavia, a sintetizzare l’idea che la
condizione giuridica delle persone può essere descritta anche dal<br />
particolare angolo visuale costituito dalle relazioni che le riguardano a<br />
causa della esistenza di una “familia” che le coinvolge. E in questo<br />
senso possiamo dunque continuare a farvi riferimento anche noi.<br />
4. Vediamo di guardare un momento allora al significato che i<br />
Romani attribuirono alla espressione “familia”.<br />
Essa ha certamente descritto – ad un certo stadio<br />
dell’evoluzione del linguaggio giuridico – un “insieme definito di<br />
persone”:<br />
D. 50.16.195.2 (Ulp. 46 ad ed.): …iure proprio familiam<br />
dicimus plures personas, quae sunt sub unius potestate aut natura aut<br />
iure subiectae, ut puta patrem familias, matrem familias, filium<br />
familias, filiam familias quique deinceps vicem eorum sequuntur, ut<br />
puta nepotes et neptes et deinceps…communi iure familiam dicimus<br />
omnium adgnatorum:…<br />
È altrettanto certo, tuttavia, che in un suo significato antico<br />
essa ha fatto riferimento anche ad un “insieme definito di cose”.<br />
In tale significato, ricorreva sicuramente ancora – anche se non<br />
esclusivamente – nelle XII tavole :<br />
D. 50.16.195.1 (Ulp. 46 ad ed.): <strong>familiae</strong> appellatio qualiter<br />
accipiatur, videamus. et quidem varie accepta est: nam et in res et in<br />
personas deducitur. in res, ut puta in lege duodecim tabularum his<br />
verbis adgnatus proximus familiam habeto. ad personas autem<br />
refertur <strong>familiae</strong> significatio ita, cum de patrono et liberto loquitur<br />
lex: ex ea familia, inquit, in eam familiam: et hic de singularibus<br />
personis legem loqui constat.<br />
È giustificato convincimento comune – sostenuto del resto da<br />
un cospicuo numero di testi che lo confortano – che nella disposizione<br />
ricordata da Ulpiano circa l’oggetto della successione dell’adgnatus<br />
proximus nella legislazione decemvirale, familia significasse<br />
“patrimonio” (ricchezza appartenente al pater ereditando) .<br />
Il contesto normativo che la comprendeva non dà, del resto,<br />
luogo a possibili dubbi.<br />
XII TAB. 5 .3-5: UTI LEGASSIT SUPER PECUNIA TUTELAVE SUAE<br />
REI, ITA IUS ESTO. SI INTESTATO MORITUR, CUI SUUS HERES NEC ESCIT,<br />
ADGNATUS PROXIMUS FAMILIAM HABETO. SI ADGNATUS NEC ESCIT,<br />
GENTILES FAMILIAM [HABENTO].<br />
La familia (in senso reale) spettava dunque, in morte del pater<br />
che non avesse fatto testamento, in primo luogo al suus (espressione
che certamente comprende ogni discendente diretto in potestate) e, in<br />
mancanza di lui, all’adgnatus proximus. Solo in mancanza anche di<br />
costui sarebbero stati chiamati in causa i gentiles.<br />
Tralasciando tutta una serie – non indifferente – di problemi di<br />
dettaglio (che vanno dai vincoli operanti per il pater in presenza di<br />
sui, al più preciso contenuto di familia, in relazione soprattutto al<br />
rapporto di essa con la pecunia, al meccanismo di acquisizione<br />
operante per i gentiles ), di certo accadeva però che i sui e gli adgnati<br />
non succedevano allo stesso modo.<br />
I sui succedevano infatti come heredes necessarii , gli adgnati<br />
come voluntarii. Per i sui operava il principio della successio in<br />
locum, per gli adgnati no . Tra i sui si instaurava il consortium, tra gli<br />
adgnati no. Per i sui valevano probabilmente regole particolari anche<br />
in materia di successione nei sacra, nel ius sepulchri , nel patronato .<br />
Dunque i due gruppi considerati (sui ed adgnati) avevano sulla familia<br />
un diritto diverso, definito in relazione alla loro diversa relazione<br />
personale con l’ereditando.<br />
Se ora torniamo allora al significato personale di familia,<br />
dovremo constatare che esso si presenta, come abbiamo già visto,<br />
articolato:<br />
D. 50.16.195.2 (Ulp. 46 ad ed.): Familiae appellatio refertur<br />
et ad corporis cuiusdam significationem, quod aut iure proprio<br />
ipsorum aut communi universae cognationis continetur. iure proprio<br />
familiam dicimus plures personas, quae sunt sub unius potestate aut<br />
natura aut iure subiectae, ut puta patrem familias, matrem familias,<br />
filium familias, filiam familias quique deinceps vicem eorum<br />
sequuntur, ut puta nepotes et neptes et deinceps. pater autem familias<br />
appellatur, qui in domo dominium habet, recteque hoc nomine<br />
appellatur, quamvis filium non habeat: non enim solam personam<br />
eius, sed et ius demonstramus: denique et pupillum patrem familias<br />
appellamus. et cum pater familias moritur, quotquot capita ei subiecta<br />
fuerint, singulas familias incipiunt habere: singuli enim patrum<br />
familiarum nomen subeunt. idemque eveniet et in eo qui emancipatus<br />
est: nam et hic sui iuris effectus propriam familiam habet. communi<br />
iure familiam dicimus omnium adgnatorum: nam etsi patre familias<br />
mortuo singuli singulas familias habent, tamen omnes, qui sub unius<br />
potestate fuerunt, recte eiusdem <strong>familiae</strong> appellabuntur, qui ex eadem<br />
domo et gente proditi sunt.<br />
Familia indica due diversi “insiemi di persone”. Il primo<br />
(familia proprio iure) si estende solo ai discendenti in potestate<br />
(dunque – guardando dal punto di vista ereditario – ai sui). Il secondo<br />
(familia communi iure) si estende invece a comprendere tutti coloro<br />
che furono, in vita di un determinato pater (o anche che – generati da<br />
loro – lo sarebbero stati, ove nati in vita di lui ), sottoposti di fatto alla<br />
sua potestas, ed è costituito perciò anche dagli adgnati, ai quali<br />
tuttavia esso si ferma. L’eventuale ulteriore legame tra persone<br />
definito dalla gentilitas (che – almeno giuridicamente – riguarda però,
com’è noto, una parte soltanto della popolazione romana: quella<br />
patrizia) opera su un piano distinto . Il legame personale non dà luogo<br />
in questo caso ad un terzo tipo di relazione “familiare” (benché la<br />
familia in senso reale possa divenire, eventualmente, oggetto anche di<br />
loro pretese).<br />
Così come – insomma – esiste un diritto distinto sulla familia<br />
dei sui e degli adgnati, così le persone che quel diritto hanno<br />
costituiscono due insieme diversi, ciascuno dei quali definito dal tipo<br />
di attesa che ciascuno di coloro che ad esso appartengono può vantare<br />
sulla familia (in senso reale) medesima.<br />
Il significato personale di familia sembra insomma legato<br />
(anzi: sembra in verità da esso derivato) al tipo di relazione<br />
privilegiata che uno specifico insieme di personae ha con i beni che<br />
costituiscono la ricchezza di un pater. Immediata – tanto da<br />
giustificare successione necessaria e consorzio – la relazione dei<br />
discendenti. Solo prossima (e perciò rilevante in via escludente gli<br />
altri, ma non identica a quella dei sui) quella degli adgnati.<br />
Possiamo allora trarre qualche rapida conclusione.<br />
Tra le personae un particolare legame nasce dalla discendenza,<br />
qualificando la relazione giuridica che ne consegue. La parentela<br />
innanzitutto di sangue genera rapporti specifici, che distinguono le<br />
personae che ne sono coinvolte (facendone uno specifico insieme<br />
legato da una specifica solidarietà).<br />
E tuttavia: questo legame non nasce dal puro fatto naturale<br />
della discendenza.<br />
Esso – come sappiamo – coinvolge unicamente coloro che<br />
discendono da personae a loro volta legate da una particolare<br />
relazione “esclusiva” (non può riguardare che due sole persone),<br />
complessa nelle motivazioni e nelle finalità, connotata da specifici<br />
requisiti distintivi (e perciò considerata iustum matrimonium).<br />
Tale relazione – per assumere la conseguente qualificazione –<br />
deve essere stabile nelle intenzioni di coloro che vi danno vita e deve<br />
essere anche socialmente e religiosamente approvata. Deve riguardare<br />
perciò persone tra le quali è permessa dal diritto e deve essere<br />
obbiettivamente riconoscibile come dotata delle caratteristiche<br />
richieste.<br />
Solo quando la discendenza deriva da una tale unione, essa<br />
assume rilievo giuridico “familiare”. È disciplinata dal principio<br />
patrilineare, genera diritti e doveri che non nascono quando l’unione<br />
non ha quella specifica qualificazione.<br />
Questa dipendenza della filiazione – che determina legami non<br />
solo personali, ma anche patrimoniali con il padre – dal matrimonio<br />
(quale unione appunto stabile e giuridicamente qualificata di un uomo<br />
e di una donna) costituisce il quid proprium che la distingue da ogni<br />
altra discendenza naturale e le attribuisce un regime giuridico<br />
specifico. Ne fa ciò che dà vita a relazioni “familiari”.
Ecco dunque un primo dato di sistema rintracciabile.<br />
Al centro del regime “familiare” romano sta da sempre il<br />
“matrimonium” come fatto che lo genera e lo giustifica. Senza<br />
matrimonio non si formano “insiemi di persone”, che abbiano una<br />
rilevanza giuridica come tali (familia “proprio” e “communi” iure) e<br />
che siano caratterizzati (al punto da ricevere nome dalla circostanza)<br />
dalla possibilità di vantare – in assenza di testamento – diritti<br />
successori sulla familia (in senso reale).<br />
5. All’altra domanda che – sul piano terminologico – si pone<br />
(perché si parli cioè, per la familia, o comunque anche per la familia,<br />
di “persone”) è meno facile rispondere.<br />
L’espressione “persona” non è esclusivamente relativa<br />
all’essere umano e tuttavia vi si collega strettamente.<br />
Di origine probabilmente etrusca, essa indica – anche nel<br />
linguaggio dei giuristi – innanzitutto l’essere umano in quanto tale,<br />
benché ciò non ne comporti la necessità di una considerazione<br />
giuridica uniforme.<br />
È persona così chi è libero come chi è schiavo (Gai. 1.121;<br />
2.187; 3.189).<br />
Chi è cittadino e chi è straniero (Gai. 1.12; 1.17; 1.30).<br />
Chi è giuridicamente indipendente (sui iuris) e chi invece non<br />
lo è (alieni iuris): Gai. 1.48;1.51.<br />
Chi è uomo e chi è donna (Gai. 1.59-60)<br />
Ma è persona anche l’entità puramente giuridica (dunque una<br />
realtà non naturale, ma concettuale), assimilabile – per certi aspetti –<br />
ad un essere umano e come tale perciò talora trattata.<br />
Cicerone parla di “persona civitatis” (de off. 1.30.107;<br />
1.32.115; 1.34.124); Ulpiano (D. 4.2.9.1) contrappone la persona<br />
singularis (che egli identifica con l’individuo) a quella che è costituita<br />
da un insieme di individui (populus, curia, collegium, corpus) che<br />
riceve considerazione unitaria: è appunto anch’essa corpus.<br />
Ed è persona – nel linguaggio corrente, com’è noto – anche la<br />
“maschera teatrale”, la struttura materiale destinata a dare una<br />
determinata “sembianza” (quella necessaria in relazione alle<br />
circostanze) all’essere umano, permettendone così la considerazione<br />
che, ai fini scenici, se ne desidera.<br />
Non è mai persona invece ciò che – per natura – è (come gli<br />
animali) altro dall’uomo, anzi se ne distingue per fatti essenziali.<br />
L’uso della espressione sembra insomma legarsi ad un<br />
problema di “qualificazione”, piuttosto che di mera<br />
“rappresentazione” della realtà che descrive. È persona l’uomo, che
da un diverso speciale riguardo, è considerato invece “res” (come lo<br />
schiavo) ed è persona ciò che uomo non è, ma può ricevere, sotto uno<br />
speciale riguardo, considerazione (sociale: la maschera; o giuridica:<br />
l’ente collettivo) assimilabile all’uomo.<br />
È persona dunque una realtà identificata per la sua forma,<br />
naturale (uomo) o artificiale, e questa, a sua volta, materiale o ideale<br />
(maschera, ente collettivo). E tuttavia avvicinabile alla realtà che le fa<br />
da paradigma (l’uomo) solo quando essa presenti determinate<br />
caratteristiche, “oggettive” e perciò “riconoscibili”.<br />
Ma non è uomo (e dunque non può essere persona) il nascituro<br />
(che è in rerum natura, ma non appunto ancora in rebus humanis).<br />
Per le conoscenze del tempo, la sua forma individua sarà<br />
osservabile infatti solo alla nascita (con le caratteristiche naturali, che<br />
ne permetteranno per altro la sussunzione tra gli uomini – e da qui tra<br />
le personae – solo in presenza di determinate fattezze, e tra queste<br />
anche una individuazione più specifica, a cominciare da quella<br />
sessuale: uomo, donna).<br />
Mentre può esserlo invece il nato deforme, se la deformità non<br />
è tale da doverne constatare il suo essere “contra formam humani<br />
generis” e dunque la sua non riferibilità al paradigma.<br />
Forse, si può allora azzardare, distinguendo la persona (realtà<br />
concettuale) dall’uomo (realtà naturale), i Romani hanno voluto<br />
sottolineare che – nel linguaggio giuridico – la persona non è<br />
identificata direttamente dalla sua condizione umana, ma dalla forma<br />
giuridica che essa assume in relazione alle circostanze. Un uomo (a<br />
sua volta in quanto “persona umana”, di fattezze cioè ordinarie che lo<br />
rendono giuridicamente considerabile tale) può essere perciò una<br />
persona libera o serva, una persona civis o meno, una persona sui<br />
iuris o anche alieno iuri subiecta.<br />
Venendo allora al nostro problema, si può forse dunque<br />
osservare che la familia è stata, per i Romani, non un insieme di<br />
“essere umani”, ma di “personae” perché ciò che contava per<br />
l’appartenenza alla medesima non era il fatto naturale (o almeno non<br />
era soltanto esso), ma una specifica condizione formale (l’essere sub<br />
unius potestate, in quanto uomini nati da una unione di specifiche<br />
caratteristiche).<br />
Persona è insomma un’espressione che – accompagnata da un<br />
opportuno elemento di qualificazione: libera, serva, etc. – identifica e<br />
assimila, e insieme distingue.<br />
6. La considerazione della terminologia permette dunque di<br />
raggiungere una prima non irrilevante conclusione.<br />
Il regime “familiare” romano non ha avuto – da quando ne<br />
possiamo almeno considerare le evidenze conservatesi – fondamenti<br />
“naturali”, ma “giuridici”. Ha riguardato la disciplina delle relazioni
intercorrenti tra determinate personae in ragione di un vincolo<br />
“giuridico” (la nascita da un certo tipo di unione), che generava attese<br />
(che nessun altra relazione naturale permetteva di vantare e che,<br />
tuttavia, non erano assolute) su un insieme particolare – identificato<br />
anch’esso con criteri “giuridici” – di cose.<br />
Il che concorre a far considerare con diffidenza l’idea che la<br />
familia romana (in senso personale), come noi almeno la conosciamo,<br />
possa avere avuto origini pre-cittadine e che l’assetto interno delle<br />
relazioni che essa determinava possa avere avuto perciò<br />
giustificazione “politica”. La sua esistenza dipende da qualificazioni<br />
“giuridiche”, e dunque “derivate” dall’ordinamento che le giustifica.<br />
7. Al centro del regime “familiare” romano (fondamento e<br />
giustificazione di esso) fu il “matrimonium”.<br />
Del suo regime più antico non conosciamo, per la verità,<br />
molto. E tuttavia anche di esso alcuni elementi di caratterizzazione<br />
possono sicuramente cogliersi.<br />
Il primo è costituito dalla sua non uniforme disciplina (in<br />
relazione alle circostanze che gli davano esistenza).<br />
Requisito sicuramente essenziale, generale ed insuperabile era<br />
la “liceità” dell’unione. Tra personae tra le quali mancasse il<br />
connubium – per ragioni di carattere politico, di stato o anche naturale<br />
– non sorgeva matrimonium. Le loro unioni – quando non fossero<br />
anche nefariae, e dunque sotto ogni profilo irrilevanti, anzi perseguite<br />
– ricevevano una considerazione giuridica distinta. Non nascevano<br />
relazioni giuridiche dei figli con il padre ed esse non davano perciò<br />
origine ad alcun gruppo “familiare”. La filiazione che ne derivava<br />
creava soltanto una parentela naturale, che assumeva rilievo<br />
unicamente con riferimento alla discendenza materna.<br />
Fermo tutto questo, il matrimonium (come relazione<br />
“qualificata” tra persone tra le quali vi fosse anche conubium) poteva<br />
tuttavia configurarsi in modo vario (sia nei suoi presupposti<br />
costitutivi, sia negli effetti che ne scaturivano).<br />
Esso nasceva innanzitutto (come sottolinea per altro la<br />
tradizione), da nuptiae (cerimonie complesse – in cui confluivano<br />
elementi religiosi e sociali – che ne esplicitavano la volontà di<br />
costituirlo) nel corso delle quali fosse stata attuata una confarreatio.<br />
Di certo, questa – presupponendo la possibilità di una<br />
comunione di sacra tra i coniugi – comportava una preventiva<br />
approvazione dell’unione da parte del collegio pontificale,<br />
determinava la integrazione della donna, quale loco filiae del vir, nel<br />
gruppo agnatizio di lui, la interruzione della soggezione potestativa<br />
dei coniugi ai loro patres, l’acquisto, da parte dei loro filii della<br />
condizione giuridica di patrimi et matrimi (rilevante per il
ivestimento di cariche sacerdotali). Meno certo invece il fatto che<br />
essa fosse possibile solo per gli appartenenti al patriziato.<br />
Ma il matrimonium poteva – già in antico – nascere anche da<br />
una convivenza attuata a seguito di nuptiae nelle quali – per volontà o<br />
necessità (assenza, ad esempio, del consenso pontificale) – non fosse<br />
intervenuta una confarreatio. <strong>Lo</strong> sottolinea la tradizione quando<br />
ricorda la possibilità (largamente predecemvirale) di una conventio in<br />
manum (dunque di un effetto civile) delle donne nuptae realizzata<br />
“usu”, per effetto dunque della semplice attuazione di una convivenza<br />
matrimoniale protratta per un tempo sufficiente a giustificare anche la<br />
attribuzione alla donna di quella speciale condizione giuridica,<br />
socialmente considerata quella più appropriata alla sua posizione di<br />
uxor romana.<br />
Dunque: sin da epoca molto risalente, le unioni “matrimoniali”<br />
potevano ricevere una disciplina non uniforme in relazione ai fatti che<br />
le costituivano. Nuptiae confarreatae e nuptiae “altre” producevano<br />
entrambe matrimonium. Ma quello che nasceva dalle prime aveva<br />
conseguenze giuridiche diverse da quello che nasceva dalle seconde.<br />
Entrambi – in quanto fondati su nuptiae lecite (perciò iustae)<br />
– davano origine ad una filiazione che definiva uno speciale rapporto<br />
tra il padre e i figli (questi erano sui, come tali in potestate) e dalla<br />
quale derivavano anche legami di solidarietà che avrebbero mantenuto<br />
– nei limiti definiti da quella che si dirà familia communi iure – il loro<br />
rilievo giuridico anche oltre la vita del padre.<br />
E tuttavia: in un caso (matrimonium da nuptiae confarreatae)<br />
effetti ulteriori sulla filiazione (patrimi et matrimi), effetti sulla donna<br />
(conventio in manum, comunione dei sacra, con i conseguenti doveri<br />
che ne venivano), effetti nei confronti dei gruppi di origine<br />
(liberazione dei coniugi dalla soggezione potestativa), vincoli anche<br />
certamente in ordine alla possibilità di scioglimento dell’unione,<br />
esclusa in linea di principio. Nell’altro (matrimonium da nuptiae non<br />
confarreatae), solo eventuale possibilità di conventio in manum della<br />
donna (forse anche con effetti non identici sul piano della interruzione<br />
della sua soggezione alla potestas paterna) e sicura più facile<br />
possibilità di scioglimento dell’unione (non avrebbe altrimenti senso<br />
la necessità per la conventio in manum della sua durata almeno<br />
annuale).<br />
Essenziale insomma da sempre il matrimonio (come unione<br />
qualificata da speciali presupposti) per la fondazione di un gruppo<br />
“familiare”, e tuttavia regime diverso di esso (in qualche misura<br />
influente sul conseguente regime familiare), in relazione ai fatti che ne<br />
fondano la sua costituzione.<br />
8. Vediamo di spostare allora ora l’attenzione sul regime<br />
familiare in sé.
La coppia unita in matrimonio aveva – già all’altezza almeno<br />
delle XII tavole – talora (dipendeva ovviamente dalle sue condizioni<br />
economiche e sociali) una indipendenza fisica (essa si collocava<br />
perciò in una propria domus, urbana o rustica che essa fosse, distinta<br />
dalla domus dei genitori), spesso anche un’agiatezza sostenuta dalla<br />
intervenuta costituzione di una dos (la tradizione ne parla come di un<br />
istituto particolarmente antico, al punto da prevedere specifici<br />
obblighi dei clientes anche al riguardo), talora (nuptiae confarreatae)<br />
anche una indipendenza economica e giuridica piena dai propri gruppi<br />
familiare di origine (con i quali il marito conservava solo le relazioni<br />
della familia communi iure ed entrambi quelle derivanti dalla<br />
cognazione).<br />
Se essa viveva in una propria domus (come doveva essere la<br />
regola) e se il marito era anche sui iuris (il che era regola se le nozze<br />
erano state confarreatae, dunque compiute seguendo il modello<br />
sociale che – come ho già ricordato – Dionigi ci dice essere stato<br />
quello generalmente osservato), la domus accoglie, con la coppia, i<br />
figli (probabilmente in quanto esplicitamente accettati dal pater) che<br />
ne discendono (o che ne abbiano eventualmente una condizione<br />
assimilata come gli adottivi), le altre personae che la collaborano (i<br />
servi) e quelle, ancora, che, a vario altro titolo di dipendenza giuridica,<br />
vi si possono eventualmente ritrovare (nexi, personae in causa<br />
mancipii, iudicati, addicti).<br />
Su tutte queste personae a lui (tutte) giuridicamente legate, il<br />
pater esercita un ruolo dominante, secondo schemi giuridici distinti<br />
(in relazione alla specifica condizione di ciascuna di queste persone:<br />
uxor, figli, schiavi, altri dipendenti), che danno vita ad un quadro<br />
complesso.<br />
Tralasciando qui ogni considerazione sulle relazioni di<br />
carattere dominicale o determinate da soggezione personale altrimenti<br />
giustificata, fermiamoci sulle relazioni “familiari”. Al riguardo delle<br />
quali dobbiamo anche ricordare la possibilità che esse non si<br />
estendessero alla uxor (ove questa – come possibile, e abbastanza<br />
diffuso già dalle XII tavole – non fosse “in manu mariti”).<br />
Per quanto riguarda la uxor, il marito (come tale) ha<br />
certamente un potere direttivo che fa di lei una persona che – come<br />
dice Dionigi (che riferisce questi costumi come indotti dalle sagge<br />
leggi dei primi re) – vive secondo il modo del marito, gli obbedisce in<br />
tutto ed è per questo “virtuosa”; meritevole dunque di una completa<br />
fiducia, che la fa considerare in casa domina quanto lui.<br />
Questa sua dipendenza dal marito opera, certo, su un piano<br />
innanzitutto sociale, prima ancora che giuridico, ma anche il diritto ha<br />
in questo il suo ruolo.<br />
Ciò che induce la donna ad un comportamento remissivo non è<br />
solo il suo spontaneo adeguarsi ad un “modello” che la vuole tale. Il<br />
suo conformarsi o discostarsi da esso non è privo infatti di<br />
conseguenze giuridiche. Se se ne conforma, preclude al marito la
possibilità di allontanarla da lui . Se se ne discosta, si espone a<br />
sanzioni, che vanno ben oltre il suo eventuale allontanamento (che è<br />
già comunque – per le limitate e “colpevoli” cause che lo giustificano<br />
– una sanzione). Chi avesse commesso adulterio o si fosse macchiata<br />
di altre colpe gravi (come l’ubriachezza e l’aborto) avrebbe rischiato<br />
la morte, che il marito avrebbe potuto irrogarle, anche se forse a<br />
seguito di un iudicium domesticum (al quale sarebbero stati chiamati a<br />
partecipare i parenti di lei).<br />
Per quanto riguarda i figli e gli altri discendenti (e le loro<br />
mogli), la dominanza paterna si esprime in primo luogo nella<br />
disciplina che egli detta per i loro comportamenti. Spetta a lui la<br />
educazione dei figli (dunque: l’istruirli, e il come, o il non istruirli),<br />
l’avviarli o meno ad una attività lavorativa (che egli sceglie per loro,<br />
talora anche collocandoli in causa mancipii di un altro pater), spetta a<br />
lui decidere del loro matrimonio (contraendo sponsali che li<br />
riguardano ed esprimendo il suo consenso alle nozze). Spetta al pater<br />
correggerne i comportamenti devianti, esercitando il diritto di punirli<br />
con sanzioni anche corporali, che possono giungere – nei casi più<br />
gravi – a comminarne la morte (ancora una volta, tuttavia, non senza<br />
un qualche controllo sociale: anche al riguardo la tradizione fa<br />
riferimento – oltre che al controllo pubblico “censorio” – al ruolo del<br />
consilium domesticum, dei prossimi vicini e comunque alla necessaria<br />
sussistenza di iustae causae). Dalle XII tavole, gli spetta anche la<br />
facoltà di trasferirli in causa mancipii – come noxae dediti – alla<br />
vittima di un loro comportamento delittuoso, di cui non voglia<br />
sopportare le conseguenze patrimoniali.<br />
Bisogna non dimenticare tuttavia che questa condizione di<br />
dipendenza non è assoluta. Per alcuni atti di speciale rilievo (come le<br />
nozze proprie e dei propri figli, l’eventuale adozione in nepotem ex<br />
certo filio che il pater intendesse fare, forse anche la dazione in<br />
adozione di figli e nipoti), i discendenti (ancorché in potestate e perciò<br />
tenuti ad obbedire) sono chiamati ad esprimere il loro essenziale<br />
consenso. E va ricordato inoltre che anche un alieni iuris può<br />
assumere la tutela o la cura di estranei.<br />
La dominanza paterna su figli e discendenti si esprime anche<br />
nel principio che li vuole esclusi dalla possibilità di considerare<br />
“proprio (suum in senso giuridico)” ogni loro acquisto. La familia<br />
(come insieme di ciò che costituisce la ricchezza del gruppo cui essa è<br />
destinata a dare sostegno economico) spetta – vivo patre –<br />
unicamente a lui, al quale solo è perciò anche possibile disporne. Il<br />
diritto su di essa dei figli (e della uxor, se in manu e perciò a loro,<br />
sotto questo profilo, certamente pienamente assimilata) nascerà solo<br />
dalla eventuale morte intestata del pater, che ne determinerà il<br />
consortium sulla medesima.<br />
La soggezione patrimoniale dei discendenti al pater non<br />
esclude tuttavia una loro possibilità di obbligarsi (anche se con un<br />
regime che non coinvolge – negli effetti – il pater).<br />
In conclusione: tra pater e membri della familia si instaurano<br />
rapporti nei quali la dominanza personale e patrimoniale del pater è
certamente rilevante, ma non può dirsi tuttavia che essa – anche in<br />
un’ottica antica e puramente civile – possa considerarsi alla stregua di<br />
una totale sudditanza (nemmeno in linea di puro principio) dei secondi<br />
al primo.<br />
Per quanto riguarda infine la condizione di coloro che formano<br />
la cerchia di persone costituenti la familia communi iure, essa è<br />
regolata, per ciascuna delle <strong>familiae</strong> proprio iure in cui essa si<br />
articola, ovviamente dagli stessi principi che abbiamo ora considerato,<br />
mentre – per i riflessi giuridici che la riguardano direttamente – essa<br />
genera diritti successori inter se degli adgnati (nei limiti tuttavia già<br />
ricordati della prossimità) e vincoli di solidarietà ulteriori tra i<br />
medesimi per il caso che si renda necessario l’esercizio di tutelae o<br />
curatelae, per le quali non sia stato eventualmente altrimenti disposto.<br />
9. La descritta condizione “familiare” ha rilevanza soltanto nel<br />
diritto privato.<br />
Dal punto di vista infatti dell’ordinamento pubblico cittadino, i<br />
gruppi familiari non hanno rilevanza “giuridica”.<br />
I diritti politici legati alla cittadinanza sono “individuali” e<br />
indipendenti perciò dalla esistenza o meno di legami familiari. Ne<br />
sono del tutto escluse le donne (che hanno invece una condizione di<br />
diritto privato, più limitata, rispetto a quella degli uomini, ma<br />
comunque rilevante).<br />
Patres e filii hanno identici diritti e doveri (possono rivestire<br />
cariche, votano individualmente nelle assemblee). La appartenenza ai<br />
distretti che organizzano la vita pubblica, anche quando hanno<br />
collegamento con l’origine delle personae (come le tre antiquae<br />
tribus) lo hanno in un senso dipendente da fattori diversi dalla loro<br />
appartenenza familiare, anche se naturalmente è da ritenere che questa<br />
esercitasse di fatto la sua influenza ai fini della collocazione. Da un<br />
lato è verosimile infatti che i gruppi familiari seguissero in antico una<br />
logica di formazione – e di conseguente collocazione nelle singole<br />
curiae – legata non solo alla comune origine nazionale, ma anche alle<br />
relazioni gentilizie e familiari. Dall’altro che anche la loro<br />
collocazione nel territorio (intervenute le regiones e le tribù<br />
territoriali) avvenisse di fatto in termini ordinari di contiguità rispetto<br />
ai gruppi parentali più vicini. Ma tutto questo senza alcun vincolo di<br />
necessità.<br />
La familia – come cerchia di persone tra le quali si definiscono<br />
speciali rapporti di solidarietà – non genera, al di fuori dei diritti e<br />
doveri disciplinati dal diritto privato, relazioni giuridicamente rilevanti<br />
oltre quelle previste. Anche i vincoli di clientela e di patronato<br />
(derivante da manomissione), sono – da un punto di vista giuridico –<br />
vincoli che riguardano direttamente ed esclusivamente le personae che<br />
li contraggono. La deditio in fidem e l’applicatio dei clientes<br />
avvengono nei confronti di un singolo e non della sua familia e la<br />
inosservanza dei doveri che ne derivano genera perciò conseguenze<br />
solo sui singoli (il patronus e il cliens). La manomissione ha effetti<br />
per il liberto e il manumissor, ma non coinvolge i loro familiari.
Da questo punto di vista, va sottolineato anche un ulteriore<br />
fatto.<br />
Nessuna altra relazione umana genera – nel mondo romano –<br />
vincoli di solidarietà giuridicamente rilevanti.<br />
Non contano ragioni affettive. Parenti di sangue, nutrici,<br />
precettori, amici non hanno alcun “diritto”. Persino la uxor di un<br />
iustum matrimonium che non sia “in manu” – e dunque integrata nel<br />
gruppo “familiare” del marito – non avrà a lungo diritti successori (il<br />
relativo editto pretorio non sembra potersi fare risalire oltre il II secolo<br />
a.C., mentre l’esistenza di uxores non in manu è sicura già almeno<br />
dalle XII tavole). Verso costoro sono possibili solo benefici volontari<br />
(donazioni, lasciti ereditari). E lo stesso vale per le solidarietà che<br />
nascano da fatti politici, religiosi o culturali. Senza dire che anche<br />
coloro ai quali sono riconosciute “attese” lo sono sempre<br />
subordinatamente alla inesistenza di una diversa volontà<br />
testamentaria.<br />
Il solo vincolo non “familiare” che genera reciproche attese<br />
anche economiche è quello che deriva dal “patronato” (che lega il<br />
liberto al suo manumissor).<br />
La familia è stata dunque concepita dai Romani come uno<br />
strumento di inclusione/esclusione rivolto ad assicurare ad una cerchia<br />
definita di persone una condizione di speciale considerazione sotto il<br />
profilo dei vincoli di solidarietà personale ed economica che<br />
reciprocamente le coinvolgono.<br />
Il padre ha doveri solo verso i figli in potestate e deve<br />
assicurare il suo sostegno (come tutore o curatore) solo a coloro verso<br />
i quali lo lega l’appartenenza alla familia communi iure.<br />
I figli in potestate (ed essi soltanto) hanno doveri forti. Ma<br />
hanno anche (al contrario dei figli puramente naturali) protezione e<br />
sicurezza personali, diritto ad essere alimentati ed educati, e<br />
soprattutto una speciale considerazione ereditaria (non possono essere<br />
ignorati senza ragione; succedono ipso iure, in regime tra loro di<br />
consortium, e non sono esposti perciò al rischio di una eredità<br />
giacente).<br />
10. Il regime familiare che abbiamo descritto avrà uno<br />
sviluppo storico complesso, che ne toccherà nel tempo ogni aspetto,<br />
stemperandone molti rigori.<br />
E tuttavia su un punto la linea di continuità resterà fermissima.<br />
Dalle origini lontane fino a Giustiniano (che segnerà la rottura decisa<br />
con la tradizione), esso si caratterizzerà sempre per il fatto di avere<br />
esclusivo fondamento in un “matrimonium” (inteso come unione<br />
“qualificata”, che si distingue, giuridicamente, da altre analoghe).<br />
Anche di questo (intendo dire del matrimonium) cambieranno<br />
nel tempo molti aspetti specifici: fatti costitutivi ed estintivi, specifica<br />
disciplina delle relazioni che ne dipendono (tra coniugi, tra questi e i<br />
loro figli, tra tutti costoro e coloro con i quali vi è o vi è stata una
elazione di parentela ‘familiare’), intensità dei relativi vincoli,<br />
estensione della loro rilevanza, etc.<br />
Non ne verrà meno mai però il suo ruolo discriminante e<br />
qualificante, in ordine allo statuto giuridico (personale ed economico)<br />
dei figli. I nati da “matrimonio” (e quelli giuridicamente assimilati a<br />
questi) hanno ricevuto – per tutto il corso della esperienza romana –<br />
un trattamento distinto e migliore di quello riservato agli altri<br />
discendenti. E questo in nome di una costante attenzione rivolta dalla<br />
cultura romana alla preoccupazione di preservare, “esaltandone”<br />
l’utilità sociale, la specifica solidarietà indotta non tanto da una<br />
comunanza di vita, ma da una comunanza sviluppata in nome di valori<br />
religiosi, umani ed economici, considerati di tempo in tempo<br />
essenziali, come sottolineeranno, nelle loro definizioni, ancora i<br />
giuristi imperiali:<br />
D. 23.2.1 (Mod. 1 reg.): nuptiae sunt coniunctio maris et<br />
feminae et consortium omnis vitae, divini et humani iuris<br />
communicatio.<br />
Se guardiamo, d’altra parte, alle conseguenze legate – sul<br />
piano storico – alla organizzazione dei rapporti familiari concepita e<br />
attuata dai Romani, non sarà difficile osservare alcune cose, a<br />
cominciare dalle finalità molteplici e concorrenti presenti nella<br />
concezione romana del matrimonium.<br />
In quanto rigorosamente monogamico, esso giova innanzitutto<br />
ad assicurare alla donna un rango sociale che la eleva e la distingue.<br />
Anche quando essa non sia ammessa ai sacra del marito, né acquisti<br />
una condizione che generi verso di lui le stesse attese patrimoniali dei<br />
figli (non sia cioè anche convenuta in manum di lui), è lei la sola<br />
donna comunque i cui figli ricevono una considerazione “giuridica”<br />
che li lega anche al padre. Ed è a lei sola che “spettano” in casa gli<br />
onori che ne sottolineano il rango, che la distinguono da qualunque<br />
altra donna con la quale l’uomo abbia eventualmente rapporti: il loro<br />
venir meno indica una interruzione dell’unione (non tanto nel fatto<br />
della convivenza), quanto in quello della “qualità” di essa; se senza<br />
causa, essa è “illecita” e perciò “sanzionata”. Il diritto della donna<br />
non è per sempre (essendo il matrimonium – sia pure eccezionalmente<br />
– da sempre dissolubile). Ma finché il matrimonium esiste esso<br />
l’accompagna.<br />
E analoghe considerazioni valgono per i figli, ai quali la<br />
nascita da matrimonio assicura, come abbiamo già ricordato, una<br />
condizione privilegiata. In vita del padre: assistenza e protezione nella<br />
crescita. In morte di lui: successione nei beni.<br />
Ma la concezione praticata dai Romani delle relazioni<br />
“familiari” ha comportato anche la formazione e consolidazione nel<br />
tempo (e – con la romanizzazione dei territori conquistati – la<br />
diffusione anche nello spazio), di modelli culturali che hanno<br />
profondamente inciso sui costumi e le pratiche sociali.
Il fatto che i figli abbiano una molto limitata autonomia<br />
comportamentale, in quanto esposti ad una perenne soggezione al<br />
padre ne mortifica di certo la loro libertà privata. Ma li induce anche<br />
ad introiettare modelli comportamentali “compositivi e solidali”<br />
piuttosto che “individuali e selettivi”.<br />
Quando acquisiranno da adulti, una libertas pubblica piena<br />
(sono cittadini in grado di tenere comportamenti indipendenti e del<br />
tutto autonomi da quelli paterni e degli altri ‘familiari’), il doverla<br />
comporre con la soggezione privata che vi si contrappone li indurrà ad<br />
un equilibrio che li porterà a comprendere che la loro maturazione<br />
(con la conseguente possibilità di aspirare a ruoli pubblici<br />
“riconosciuti”) è un fatto, prima ancora che fisico (di età), sociale,<br />
perciò da meritare (del tutto sconosciuta, nel mondo romano, la<br />
assunzione ‘a sorte’ di ruoli pubblici). Cresciuti nella soggezione, i<br />
figli si educano alla autodisciplina e ai doveri. Hanno nella<br />
parsimonia e nella frugalità (che deriva loro dalla dipendenza<br />
patrimoniale e dunque dal rigoroso controllo altrui sui loro<br />
comportamenti) un modello praticato e da trasmettere:<br />
Horat. Sat. 1.6.65 ss.:<br />
atqui si vitiis mediocribus ac mea paucis 65<br />
mendosa est natura, alioqui recta, velut si<br />
egregio inspersos reprendas corpore naevos,<br />
si neque avaritiam neque sordes nec mala lustra<br />
obiciet vere quisquam mihi, purus et insons,<br />
ut me collaudem, si et vivo carus amicis, 70<br />
causa fuit pater his;…<br />
… quid multa? pudicum,<br />
qui primus virtutis honos, servavit ab omni<br />
non solum facto, verum opprobrio quoque turpi<br />
nec timuit, sibi ne vitio quis verteret, olim 85<br />
si praeco parvas aut, ut fuit ipse, coactor<br />
mercedes sequerer; neque ego essem questus. at hoc nunc<br />
laus illi debetur et a me gratia maior.<br />
…hoc ego commodius quam tu, praeclare senator, 110<br />
milibus atque aliis vivo. quacumque libido est,<br />
incedo solus, percontor quanti holus ac far,<br />
fallacem circum vespertinumque pererro<br />
saepe forum, adsisto divinis, inde domum me<br />
ad porri et ciceris refero laganique catinum; 115<br />
cena ministratur pueris tribus et lapis albus<br />
pocula cum cyatho duo sustinet, adstat echinus<br />
vilis, cum patera guttus, Campana supellex.<br />
deinde eo dormitum, non sollicitus, mihi quod cras<br />
surgendum sit mane, obeundus Marsya, qui se 120<br />
voltum ferre negat Noviorum posse minoris.<br />
Allo stesso modo, il costituirsi di un patrimonio familiare che<br />
si conserva in primo luogo per i figli (anche perché costruito con il
loro operoso concorso) induce anche il padre ad una gestione<br />
scrupolosa dei suoi beni, che ne favorisce l’accumulo e ne evita la<br />
facile dissipazione.<br />
I “vincoli” giuridici connessi al matrimonium e ai suoi effetti<br />
“familiari” creano insomma vincoli “morali” (di adesione cioè a<br />
modelli diffusi, non autoreferenziali) e questi determinano un’etica<br />
degli individui che ha la sua bussola nella considerazione del bene<br />
collettivo perlomeno assieme a quello individuale.<br />
Dire, naturalmente, che tutto questo si traducesse in<br />
comportamenti sempre fattualmente corrispondenti sarebbe,<br />
ovviamente, insensato. Una cosa è il modello. Altra la sua concreta<br />
storica possibilità di essere attuato.<br />
Ma basta leggere Plauto (e le conseguenze indotte sui costumi<br />
del tempo dall’impatto con altre culture, come quella greca in<br />
particolare) per dovere riconoscere che quando la tradizione sottolinea<br />
la peculiarità della cultura romana rispetto alle altre anche per il<br />
modello familiare da essa costruito, essa coglie dati originari<br />
fondamentali della stessa, che la hanno profondamente segnata.<br />
L’affermazione ciceroniana di de off. 1.17.54, secondo cui la<br />
familia – nei suoi modelli atavici – è seminarium rei publicae non è<br />
dichiarazione retorica. Descrive una realtà osservata secondo quanto<br />
la storia della città permette di dire.<br />
11. Dal III secolo a.C. in avanti e fino all’età cristiana (da cui<br />
deriveranno – mediate anche da ulteriori fattori culturali – nuove<br />
grandi spinte al cambiamento), l’esperienza romana dei rapporti<br />
“familiari” è caratterizzata da una costante tensione (ora più – come<br />
nel tempo della repressione dei Baccanali o delle leggi matrimoniali<br />
augustee – ora meno acuta) tra fattori di discontinuità (legati<br />
all’allentamento delle antiche concezioni valoriali e all’insorgenza di<br />
diffuse aspirazioni individuali ed egualitarie) e fattori di continuità<br />
(legati invece alla tenace concorrente preoccupazione di riformare, ma<br />
non anche di lasciare travolgere gli aspetti fondamentali dell’antica<br />
disciplina).<br />
La svolta era stata preparata dalla crescita della dimensione<br />
territoriale di Roma e dal conseguente intreccio sempre più complesso<br />
di culture diverse che ne era venuto.<br />
Tra V e III secolo, Roma aveva intessuto una rete di relazioni<br />
territoriali che l’avevano portata ad estendere la condivisione dei suoi<br />
modelli anche familiari con le popolazioni che essa era venuta<br />
sottoponendo alla sua diretta influenza politica.<br />
E in questo uno strumento molto importante di assimilazione<br />
era stato certamente il riconoscimento sempre più esteso del<br />
connubium, come elemento attraverso il quale sia i Romani emigranti<br />
avevano conservato la possibilità di mantenere le prerogative della<br />
cittadinanza (non esercitabili senza la corrispondente legittimazione di<br />
un’eventuale controparte) e di praticare perciò anche i propri modelli<br />
familiari, sia i non Romani immigrati avevano avuto la possibilità di
un’integrazione sociale rapida (che, già dalla seconda generazione,<br />
avrebbe comportato una condizione pienamente cittadina dei loro<br />
discendenti).<br />
Il principio tenacemente difeso era stato quello tradizionale:<br />
solo iustae nuptiae permettevano la nascita di un matrimonium e delle<br />
conseguenti relazioni familiari che ne derivavano. La “identità”<br />
familiare era rimasta insomma affidata all’idea del matrimonio come<br />
fatto che discriminava le convivenze sotto il profilo dei loro effetti<br />
sulla condizione giuridica dei coniugi e quindi di coloro che ne erano<br />
generati.<br />
E tuttavia molte cose erano venute nel tempo cambiando.<br />
Sotto la spinta di fattori molteplici – legati da un lato al<br />
considerevole (ovviamente, in senso sempre relativo: la cittadinanza si<br />
estende, ma sempre in termini molto “controllati”) allargamento della<br />
base sociale interessata, e delle sue non sempre omogenee condizioni<br />
culturali e religiose, dall’altro ad una progressiva decadenza della<br />
conventio in manum (che già nelle XII tavole appariva un risultato non<br />
sempre voluto, tanto da essersene apprestata la possibilità di<br />
impedirne l’automatica instaurazione) – si era perduto il rilievo<br />
preponderante che avevano avuto un tempo le nuptiae confarreatae<br />
come modello sociale “dominante”. L’osservazione della realtà<br />
sociale, come descritta dai comici (in particolare da Plauto), e<br />
conservatasi nella tradizione, mostra che ormai il matrimonium è –<br />
nella realtà sociale – una relazione, il cui fondamento viene visto nel<br />
fatto della sua esistenza, quale denunciato da elementi di<br />
riconoscibilità di tipo “oggettivo”: l’intervenuta deductio in domum<br />
viri della donna e la sua perdurante considerazione di uxor, non venuta<br />
meno cioè per una volontà interruttiva dichiarata, che appare ormai<br />
non più legata, a sua volta, alle sole iustae causae di un tempo. Ora<br />
anche l’infertilità – un fatto dunque “incolpevole” – può “giustificare”<br />
(nel senso di non dare luogo alle gravi antiche sanzioni) la<br />
interruzione di una relazione matrimoniale:<br />
Gell. 17.21.44: Anno deinde post Romam conditam<br />
quingentesimo undevicesimo Sp. Carvilius Ruga primus Romae de<br />
amicorum sententia divortium cum uxore fecit, quod sterila esset<br />
iurassetque apud censores uxorem se liberum quaerundorum causa<br />
habere.<br />
Alla fine della repubblica, il quadro appare decisamente<br />
diverso da quello più antico, anche se in una logica “essenziale” che<br />
resta di continuità.<br />
Matrimonio resta infatti un’unione “qualificata” (per i<br />
presupposti giuridicamente richiesti per la sua esistenza, per i suoi<br />
peculiari modi di costituirsi e distinguersi da altre convivenze<br />
stabilizzate, per i fatti che ne giustificano l’interruzione, per gli effetti
“familiari” che da essa derivano). Resta cioè quel che per i Romani è<br />
sempre stato.<br />
Ne cambiano molto però gli elementi di dettaglio sui singoli<br />
aspetti che lo riguardano.<br />
In qualche caso, ciò si osserva da un punto di vista puramente<br />
sociale e fattuale, in qualche altro invece anche sul piano dei suoi<br />
stessi effetti giuridici “familiari”, che – grazie all’intervento del<br />
pretore – non sono più “inclusivi” ed “esclusivi” negli stessi termini di<br />
una volta.<br />
La progressiva “laicizzazione” del matrimonio e<br />
l’allargamento anche delle causae che potevano giustificarne la<br />
interruzione ebbe conseguenze giuridiche importanti, sotto il profilo<br />
della analisi del fatto (e degli aspetti volontaristici collegati).<br />
Intanto, la volontà dei coniugi (e dei loro genitori, ancora<br />
richiesta) non solo non ha bisogno di “forme” di esplicitazione<br />
particolari (il che accadeva già per altro – benché il modello fosse<br />
invece quello delle nuptiae confarreatae, con il carico di formalità che<br />
esse richiedevano – anche in antico: si pensi alla donna che anno<br />
nupta perseverabat di Gai. 1.111), ma nemmeno vi ricorre più. Le<br />
stesse nuptiae – come elemento sociale di rivelazione di un’intenzione<br />
– sono un fatto percepito come, in sé, nemmeno socialmente<br />
necessario: si giungerà a considerare possibile una deductio in domum<br />
di una donna ancora impubere, che acquisterà effetti matrimoniali solo<br />
alla maturazione del presupposto fisico richiesto e anche quella che<br />
avvenisse in domo viri in assenza di lui; e si ammetterà – sin dalla fine<br />
della repubblica – persino, forse, la possibilità di un consenso nuziale<br />
di donna absens. Necessario è sempre insomma che essa “consti”. Ma<br />
ad osservarlo non aiutano più ormai, come una volta, le forme (che,<br />
ancorché non imposte, comunque di norma ricorrevano).<br />
Il che apre a problemi interpretativi del fatto (qualificazione o<br />
meno come matrimoniale della convivenza) molto interessanti (dal<br />
punto dell’analisi giuridica) e prima sconosciuti.<br />
Un noto episodio riferito da Cicerone appare particolarmente<br />
significativo:<br />
Cic., de orat. 1.183: …Quid? Quod usu memoria patrum venit,<br />
ut paterfamilias, qui ex Hispania Romam venisset, cum uxorem<br />
praegnantem in provincia reliquisset, Romae alteram duxisset neque<br />
nuntium priori remisisset, mortuusque esset intestato et ex utraque<br />
filius natus esset, mediocrisne res in contentionem adducta est, cum<br />
quaereretur de duobus civium capitibus et de puero, qui ex posteriore<br />
natus erat, et de eius matre, quae, si iudicaretur certis quibusdam<br />
verbis, non novis nuptiis fieri cum superiore divortium, in concubinae<br />
locum duceretur?<br />
Cic., de orat. 1. 238: Nam, quod maximas centumviralis<br />
causas in iure positas protulisti, quae tandem earum causa fuit, quae<br />
ab homine eloquenti iuris imperito non ornatissime potuerit dici?
Quibus quidem in causis omnibus, sicut in ipsa M'. Curi, quae abs te<br />
nuper est dicta, et in C. Hostili Mancini controversia atque in eo<br />
puero, qui ex altera natus erat uxore, non remisso nuntio superiori,<br />
fuit inter peritissimos homines summa de iure dissensio.<br />
Siamo nell’ultimo secolo della repubblica. E di fronte ad una<br />
questione non solo propostasi nei fatti, ma soprattutto oggetto di una<br />
summa dissensio de iure inter peritissimos homines. Nella quale<br />
dunque entrambe le posizioni potevano teoricamente trovare<br />
accoglimento. Cicerone – accostandola alla causa curiana – mostra<br />
con evidenza che ciò che fu oggetto di controversia fu se quanto<br />
doveva in quel caso accertarsi lo si potesse solo con criteri formali (la<br />
notificazione del ripudio), ovvero anche con criteri sostanziali<br />
indipendenti.<br />
La intervenuta morte senza invio del ripudio, ma in costanza di<br />
convivenza con la seconda donna, poteva bene valere a dimostrare –<br />
avranno argomentato i sostenitori della natura matrimoniale della<br />
seconda unione – che l’uomo, non avendo mutato avviso fino alla<br />
morte, aveva perseverato nel considerare la seconda unione come<br />
unione matrimoniale e dunque la prima come interrotta. L’invio del<br />
repudium non era, del resto, un atto recettizio. Valeva a dimostrare<br />
l’intenzione interruttiva, ma non richiedeva, per essere efficace, che il<br />
destinatario ne prendesse conoscenza (tanto da valere anche se<br />
destinatario ne fosse un infermo di mente). La sua rilevanza dipendeva<br />
solo dalla serietà della volontà manifestata. Importante era la notorietà<br />
“sociale” (non dell’interessato diretto) della stessa. Circa un secolo o<br />
poco più in avanti (siamo ora nel 48 d.C.) fu considerato valido<br />
matrimonio (per la pubblicità che le nozze avevano avuto) quello tra<br />
Messalina e Silio, avvenuto mentre Claudio era assente per un viaggio<br />
e ignorava quanto stava accadendo.<br />
<strong>Lo</strong> spostamento dell’attenzione sul “fatto in sé”,<br />
indipendentemente dalle forme che ne avevano eventualmente<br />
assecondato la costituzione, induce a nuove e più approfondite<br />
riflessioni sugli indicatori che “qualificano” come matrimoniale una<br />
convivenza stabile. È necessario così di certo che essa abbia honor<br />
matrimonii e denunci una perseverante coerente volontà (affectio<br />
maritalis). Ma pur sempre in senso relativo: altro l’honor richiesto, ad<br />
esempio, se l’uomo ha rango senatoriale, altro quello proprio di una<br />
persona di condizione comune (e ciò indipendentemente dal rango in<br />
sé della donna, purché naturalmente non priva di connubium rispetto<br />
all’uomo). E così via per tutto ciò che può avere rilievo nella<br />
valutazione del carattere matrimoniale di una convivenza in atto: dalla<br />
comune residenza, alla volontà di procreare, alla costituzione di dote,<br />
fino agli estremi sviluppi che porteranno alla presunzione di<br />
matrimonio ogni qual volta la convivenza sia con donna libera e di<br />
costumi onesti.<br />
In tutto questo dovette giocare un importante ruolo anche la<br />
legislazione augustea, con il suo determinato proposito di rinvigorire<br />
l’istituto matrimoniale favorendone al massimo la diffusione, ma<br />
insieme difendendone la dignità, spingendo dunque da un lato verso<br />
una considerazione attenta di ogni fatto che potesse dare rilevanza
matrimoniale alle unioni, dall’altro spingendo tuttavia, nello stesso<br />
tempo, verso un orientamento di queste alla procreazione (e alla<br />
conseguente costituzione di relazioni “familiari”), in un quadro di<br />
riaffermata distinzione (e perciò dignità sociale) delle stesse.<br />
Come già ho accennato, un importante mutamento di quadro si<br />
ebbe da quando il pretore prese a considerare – ai fini successori – la<br />
condizione “familiare” in una prospettiva più aperta di quella<br />
originaria.<br />
Sui tempi di maturazione di questa vicenda non siamo in grado<br />
di dire molto. La nostra principale informazione ci viene in proposito<br />
da Cicerone e sappiamo da Valerio Massimo (7.7.5) che già nel 70<br />
a.C. il pretore concedeva una bonorum possessio anche correttiva di<br />
un testamento civile (dunque contra tabulas). Di certo, la materia<br />
evolve e si sviluppa ancora durante tutta la prima età imperiale.<br />
Orbene: com’è noto, il pretore finì per accordare la bonorum<br />
possessio sine tabulis (in senso non più adiutorio, ma correttivo del ius<br />
civile) secondo precedenze diverse da quelle dell’antica legislazione<br />
decemvirale. E tuttavia tenendo fermo un fatto: anche per lui la<br />
condizione di filius nato ex matrimonio restava la sola rilevante (oltre<br />
che precedente ogni altra). Nell’assetto finale – quale ricostruibile<br />
sulla base dell’editto perpetuo – tra i liberi succedevano anche<br />
emancipati e dati in adozione (se sui iuris mortis tempore), i<br />
discendenti non pervenuti in potestate, i discendenti in locum<br />
dell’ascendente defunto o anche rinunciante, i figli e nipoti postumi. E<br />
tra i cognati anche coloro che lo fossero per ‘discendenza’ naturale<br />
(dunque: per via materna). Ma la sola discendenza considerata (dal<br />
punto di vista del suo rapporto con il padre) restava la discendenza che<br />
era o era stata o anche sarebbe stata ‘legitima’ (fondata cioè su un<br />
“matrimonio”). Il figlio “naturale” (nato cioè fuori dal matrimonio)<br />
non aveva titolo alla bonorum possessio del patrimonio paterno,<br />
accedeva solo alla bonorum possessio nei confronti della madre e dei<br />
parenti acquisiti attraverso di lei. E anche vir e uxor erano chiamati<br />
reciprocamente alla bonorum possessio solo in quanto tali in forza di<br />
un iustum matrimonium in atto:<br />
D. 38.11.1pr.-1 (Ulp. 47 ad ed.): Ut bonorum possessio peti<br />
possit unde vir et uxor, iustum esse matrimonium oportet. ceterum si<br />
iniustum fuerit matrimonium, nequaquam bonorum possessio peti<br />
poterit, quemadmodum nec ex testamento adiri hereditas vel<br />
secundum tabulas peti bonorum possessio potest: nihil enim capi<br />
propter iniustum matrimonium potest. 1.Ut autem haec bonorum<br />
possessio locum habeat, uxorem esse oportet mortis tempore. sed si<br />
divortium quidem secutum sit, verumtamen iure durat matrimonium,<br />
haec successio locum non habet. hoc autem in huiusmodi speciebus<br />
procedit. liberta ab invito patrono divortit: lex iulia de maritandis<br />
ordinibus retinet istam in matrimonio, dum eam prohiberet alii nubere<br />
invito patrono. item iulia de adulteriis, nisi certo modo divortium<br />
factum sit, pro infecto habet.
L’apertura successoria operata insomma dal pretore a favore<br />
di coloro che non erano (o non erano mai stati) appartenenti alla<br />
cerchia familiare (in senso civile) modificò – e profondamente – il<br />
quadro dei diritti successori che le XII tavole avevano delineato in<br />
favore dei familiari (sia proprio che communi iure). Ma lo fece,<br />
muovendo da un dato fermo e per ora insuperato: restava rilevante<br />
solo la parentela ‘paterna’ (dalla quale quei diritti discendevano). In<br />
quanto essa fosse cioè fondata su un “matrimonium”, unico fatto,<br />
dunque, che continua a dettare il criterio di “inclusione/esclusione”<br />
delle personae dal regime ‘familiare’. E ciò, ancorché quest’ultimo<br />
venga ora determinato su nuovi presupposti di appartenenza, sia per<br />
una diversa valutazione dei fatti che un tempo sarebbero stati<br />
inesorabilmente interruttivi di esso (come l’emancipazione o la<br />
dazione in adozione), ma anche per le dimensioni della cerchia da<br />
considerare (si pensi al nipote emancipato, nato da un padre a sua<br />
volta emancipato, ai postumi e agli ammessi in locum per rinuncia).<br />
12. Larghi mutamenti dunque nel concreto regime dei fatti che<br />
determinano la disciplina dei rapporti “familiari”, ma costante e<br />
insuperata rilevanza del criterio essenziale: solo se c’è matrimonio<br />
nasce e si sviluppa anche un regime ‘familiare’ (il che significa un<br />
insieme di relazioni tra personae legate a quel fatto fondativo).<br />
Una cosa va tuttavia ancora sottolineata.<br />
Il fatto discriminante è “il” matrimonium. Non “il primo” (o un<br />
particolare) matrimonium. Più matrimoni successivi di uno stesso<br />
pater danno luogo tutti, allo stesso modo, a relazioni di parentela<br />
‘legitima’ e dunque ‘familiare’.<br />
La sola rilevanza che un’eventuale successione nel tempo di<br />
diversi matrimoni di uno stesso pater assume è data dal rilievo che la<br />
consaguinitas può avere – ma già nel diritto civile e da sempre – nel<br />
determinare l’ordine successorio, quando concorrano eredi maschi e<br />
femmine. Queste seconde hanno titolo, infatti, solo se anche<br />
‘consaguinee’ (se nate cioè non solo dallo stesso pater, ma anche dalla<br />
stessa madre). Segno aggiuntivo della rilevanza della parentela<br />
“paterna” nella costituzione delle relazioni ‘familiari’.<br />
Va ricordato tuttavia come ora comincino ad essere equiparati<br />
– a certi effetti (in particolare: sotto il profilo della repressione<br />
dell’adulterio) – al matrimonio anche altre unioni stabili (concubinato,<br />
unione di cittadino e peregrina “sine connubio”).<br />
13. Se vogliamo ora ragionare sulle relazioni tra mutamenti di<br />
costume e mutamenti giuridici di regime (nel loro reciproco<br />
influenzarsi) alla luce delle trasformazioni osservate, dovremo<br />
constatare che, nei secoli che vanno dal III secolo a.C. alla matura età<br />
imperiale, si sono verificate conseguenze molto significative sia nei<br />
rapporti tra vir ed uxor, sia in quelli tra pater e discendenti.
La soggezione personale ed economica della donna al marito<br />
diviene progressivamente, nei fatti, un lontano ricordo.<br />
La stessa conventio in manum sopravvive solo per le indirette<br />
utilizzazioni fiduciarie alle quali essa si presta. La donna conserva ora<br />
di norma – anche da sposata – la sua autonomia patrimoniale (alla<br />
quale di certo doveva concorrere significativamente – al di là della<br />
vexata quaestio della ‘titolarità’ giuridica di essa – la presenza di una<br />
dote, su cui sono ora, per altro, più garantite che in passato le sue<br />
attese di restituzione, in caso di scioglimento dell’unione: con<br />
Augusto, si limitano espressamente anche i poteri dispositivi del<br />
marito sui beni dotali). In coerenza, del resto, con un generale favore<br />
verso una progressiva più sostanziale indipendenza personale della<br />
stessa (che si manifesta attraverso i mutamenti che intervengono in<br />
materia di tutela e che di fatto la sottraggono ai vincoli di un tempo).<br />
La sola cosa che resiste è il dovere della donna di essere fedele<br />
al marito e di non commettere perciò adulterio. E tuttavia ne cambia in<br />
qualche modo la valutazione sociale. Ora si introducono restrizioni<br />
nell’esercizio del ius occidendi da parte del marito ed ampliamenti<br />
invece nelle facoltà di reazione concesse al pater. Comincia ad<br />
emergere una prospettiva che valuta la reazione piuttosto sotto il<br />
profilo di un iustus calor, considerato come esimente o attenuante,<br />
piuttosto che come esercizio di un diritto punitivo, ma si guarda ora<br />
con disfavore ad una eventuale composizione pecuniaria dell’offesa da<br />
parte dell’adultero, una volta invece ordinario strumento liberatorio).<br />
Anche lo sfaldamento della patria potestas è – nei secoli che<br />
osserviamo – progressivo ed inesorabile.<br />
Benché rimasta ancorata al suo principio fondante (dura per la<br />
vita del genitore, distinguendo in questo profondamente – come<br />
avrebbe osservato ancora Gaio – il regime romano da ogni altro), essa<br />
risulta lentamente, ma inesorabilmente svuotata.<br />
L’autorità domestica del pater non va – nei fatti – oltre<br />
l’adolescenza dei figli.<br />
I poteri disciplinari riconosciuti al padre tendono a perdere<br />
l’incisività che una volta avevano probabilmente avuto. L’idea che<br />
l’esercizio della potestà debba avvenire con moderazione è più volte<br />
affermata. Traiano costringe un padre – che maltrattava il figlio – ad<br />
emanciparlo.<br />
Sul piano personale, la sua influenza sulle scelte decisive per la<br />
vita dei figli tende a scomparire. Non può (se mai lo abbia potuto<br />
prima) imporre il matrimonio. Il consenso alle nozze e al<br />
mantenimento in essere dell’unione può essere ora imposto o<br />
comunque mancare senza conseguenze.<br />
Anche la soggezione economica dei figli si allenta molto.<br />
Concorrono al riguardo fattori diversi e di diversa risalenza.<br />
Abbastanza per tempo i padri sono indotti a concedere ai figli un<br />
peculium (e dunque una sostanziale autonomia patrimoniale, ben<br />
presto con effetti pretori nei confronti dei terzi).<br />
E ragioni economiche legate agli sviluppi politici e territoriali<br />
innescati dalle conquiste mediterranee inducono i padri (il fenomeno<br />
si osserva già nel II sec. a.C. almeno) a giovarsi della collaborazione
dei figli (come per altro anche di schiavi) nell’esercizio di attività ai<br />
quali egli li prepone (presto con conseguente sua esposizione anche<br />
qui, sul piano del diritto pretorio, verso i terzi).<br />
Si giunge – con Augusto – ad imporre al padre (con<br />
riferimento ad acquisti del figlio in castris) un regime peculiare, che<br />
attribuisce al figlio diretti poteri dispositivi mortis causa sui beni che<br />
ne sono oggetto.<br />
14. Il processo, di cui abbiamo ora considerato gli sviluppi<br />
osservabili già nel corso dell’impero, subisce un’ulteriore<br />
accelerazione nei secoli del tardo antico.<br />
Il quadro che la materia presenta nel suo assetto giustinianeo –<br />
che costituisce un punto di arrivo non privo anche di elementi di<br />
reazione contro fenomeni di allentamento delle antiche pratiche<br />
derivanti da costumi completamente estranei alla tradizione romana –<br />
è significativamente diverso.<br />
Vi confluiscono le conseguenze sia delle grandi correnti di<br />
pensiero (che, già nei primi secoli dell’impero, avevano spinto nella<br />
direzione di profondi cambiamenti di atteggiamento, soprattutto<br />
quanto ai rapporti tra padri e figli, sia in termini di rilevanza della<br />
generazione naturale, sia in termini di soggezione dei secondi ai<br />
primi), sia della religione cristiana (che diventa ora la bussola di<br />
orientamento dei costumi e della legislazione).<br />
Per quanto riguarda il nostro limitato punto di osservazione,<br />
deve osservarsi come, ancora una volta, gli sviluppi siano<br />
conseguenza delle profonde trasformazioni che toccano la disciplina<br />
dei due aspetti fondamentali del sistema: il matrimonium, come unica<br />
unione idonea a fondarlo, e il regime ‘familiare’ che ne discende.<br />
Ora è matrimonium (o si favorisce che lo diventi) qualunque<br />
unione lecita stabile e le relazioni familiari, pur restando un fatto che<br />
determina una condizione di privilegio per coloro che ne sono<br />
coinvolti, rispetto ad ogni altra possibile persona con la quale<br />
sussistano vincoli derivanti dalla generazione, non hanno più lo stesso<br />
privilegiato trattamento successorio di un tempo.<br />
Per quanto riguarda il matrimonium, esso continua ad essere il<br />
rapporto lecito (perciò legittimato dal reciproco connubium) che lega<br />
due personae di sesso diverso in conseguenza di una convivenza<br />
attuata pubblicamente.<br />
Non si richiedono, in via generale, forme per la manifestazione<br />
del consenso nuziale, ma senatori ed illustres non si considerano in<br />
matrimonio se non vi è stata redazione dei nuptialia documenta<br />
(relativi a doti e donazioni nuziali) o – in sostituzione – una<br />
dichiarazione in chiesa dinanzi al defensor.<br />
Più rigoroso diviene il regime del divorzio.<br />
Non solo esso è consentito in presenza di causae giustificative,<br />
ma non è nemmeno più, forse (Nov. 134.11 pr.), inesorabilmente<br />
interruttivo del matrimonio, che sopravvive alla volontà di scioglierlo<br />
ingiustificatamente.
Novità intervengono in materia di seconde nozze e di<br />
disposizioni tendenti a favorire la trasformazione in matrimonio del<br />
concubinato.<br />
Dal primo punto di vista, va ricordato che le antiche<br />
disposizioni augustee (che le imponevano, con il disfavore che<br />
riservavano ai caelibes) cedono ora ad una legislazione – da<br />
Costantino a Giustiniano – orientata in direzione precisamente<br />
opposta. E che la bigamia (ancorché forse senza ancora una precisa<br />
terminologia tecnica che la riguardi) viene ora sanzionata anche come<br />
crimen.<br />
Dal secondo punto di vista, il concubinato è avversato sia sotto<br />
il profilo della legittimità delle liberalità in favore di concubine e figli<br />
nati da esso, sia sotto quello della sua compatibilità con la attualità di<br />
ulteriori relazioni stabili (matrimonio o altro concubinato).<br />
Per quanto riguarda le relazioni tra coniugi e quelle “familiari”,<br />
la loro distanza dal regime antico è marcata.<br />
Le relazioni tra i coniugi sono ormai improntate ad una parità<br />
formale. Uxor e vir – entrambi patrimonialmente indipendenti<br />
ciascuno dall’altro – hanno doveri reciproci di sostegno materiale,<br />
onore e reverenza e subiscono (ma non è una novità) reciproche<br />
limitazioni alle liti giudiziarie.<br />
Per quanto attiene ai vincoli “familiari”, essi tendono ormai a<br />
trovare il loro fondamento direttamente nella generazione.<br />
Significativa in proposito la assenza del coniuge nell’ordine<br />
successorio della Nov. 118 (anche se è opinione di molti che il<br />
coniuge superstite continuasse ad avere titolo ab intestato, in assenza<br />
di cognati). Disposizioni di favore riguardano tuttavia la vedova<br />
“povera” (anche se non le attribuiscono qualità di heres).<br />
Per quanto riguarda le relazioni tra genitori e figli, la patria<br />
potestas (che continua a qualificare la posizione dei figli nati da<br />
matrimonio o a questi equiparati, ora anche dalla legitimatio)<br />
comporta poteri disciplinari correttivi, ma non ha più l’intensità di una<br />
volta. La vitae necisque potestas, che Costantino nel 323 (CTh. 4.8.6)<br />
dichiarava ancora vigente (permissa est), diviene – nella versione<br />
giustinianea della costituzione (C. 8.47.10) – una facoltà che “olim<br />
erat permissa”. E, d’altra parte (C. 9.15.1, di Valentiniano e Valente),<br />
già almeno dal 365 (se non si vuole tenere conto di testi più risalenti,<br />
forse interpolati la repressione nei confronti del figlio in potestate che<br />
si fosse reso reus ‘enormis delicti’ veniva sottratta al pater e affidata<br />
agli organi pubblici.<br />
Le condizioni di povertà giustificano la ‘vendita’ dei figli, ma<br />
ne è ora vietata invece l’esposizione.<br />
La noxae deditio è esclusa (I. 4.8.7).<br />
Varie cause possono giustificare la sanzione della perdita della<br />
potestà paterna e altre (il loro assurgere ad alte cariche statali o<br />
ecclesiastiche) una emancipazione di diritto dei figli.<br />
Anche dal punto di vista patrimoniale, la situazione è nuova.
Non solo si estende il regime del peculium castrense agli<br />
acquisti derivanti dalla copertura di uffici e funzioni o dall’esercizio di<br />
attività particolari (come l’avvocatura), ma si limitano più in generale<br />
gli effetti acquisitivi della patria potestas (con riferimento in<br />
particolare) ai beni che pervengano al figlio per via materna. Riflesso<br />
macroscopico della nuova situazione è la presenza del padre nel primo<br />
grado dei successori ab intestato nella Nov. 118.<br />
Le relazioni agnatizie perdono di sostanziale significato.<br />
Prevale ormai il rilievo della parentela di sangue, sia in materia di<br />
doveri di solidarietà prossima (tutele, curatele, alimenti) sia in termini<br />
di doveri (riserve di quote ereditarie) e limiti che di diritti successori.<br />
15. La storia del regime familiare romano che abbiamo<br />
sommariamente ripercorso, appare – in conclusione – segnata dal<br />
passaggio da una considerazione della “familia” (in senso personale)<br />
come strumento rivolto a dare “identità giuridicamente distinta” ad<br />
una “specifica cerchia di persone” a fatto invece indicativo di “ogni<br />
cerchia di persone” legate tra loro da vincoli di discendenza<br />
giuridicamente rilevanti.<br />
<strong>Lo</strong> <strong>status</strong> hominis di chi discendeva da una particolare (perché<br />
circondata da una considerazione sociale di speciale rispetto) unione<br />
di un uomo e di una donna (matrimonio) si distingueva da quello di<br />
chi quella discendenza non poteva vantare.<br />
Unioni lecite, ma non fondate anche sulla liceità specifica<br />
espressa dal connubium determinavano parentela di sangue (non priva<br />
di varie conseguenze giuridiche), la quale era però trattata dal diritto<br />
diversamente dalla parentela “familiare” (la sola infatti a generare<br />
intensi vincoli – non solo, ma anche – di protezione e di solidarietà<br />
personale tra quanti ne erano coinvolti).<br />
Alla erosione delle antiche vedute hanno concorso fattori<br />
diversi.<br />
Innanzitutto il progressivo ed inesorabile attenuarsi (fino alla<br />
pratica scomparsa con la costituzione di Caracalla) del rilievo<br />
privilegiato che – nella condizione di appartenenza all’ordine<br />
giuridico comune – aveva la condizione cittadina rispetto a<br />
condizioni diverse, di rilievo anche ‘interno’ come quelle di latino o<br />
peregrino.<br />
In secondo luogo, fattori culturali che (diversi per origine,<br />
tempo di emersione e forza dirompente delle tradizioni) hanno spinto<br />
tuttavia in senso di fatto convergente nella direzione di una<br />
attenuazione delle differenze tra gli uomini che ne determinassero un<br />
distinto trattamento giuridico, fondato sulla loro diversa<br />
considerazione in ragione delle loro varie condizioni, quali<br />
determinate dalla natura (uomini, donne; anziani, giovani), dalla<br />
fortuna (ricchi, poveri) o da fattori ulteriori (di volta in volta<br />
storicamente emergenti come rilevanti: dalla risalente attenzione data<br />
alla condizione di libertà e alla classe sociale di appartenenza alle più<br />
tarde considerazioni persino dei mestieri praticati) e, in ragione delle<br />
quali, si riconoscevano distinti possibili ruoli non soltanto nell’ordine<br />
pubblico, ma anche in quello delle relazioni private.
<strong>Lo</strong> strumento attraverso il quale la funzione identitaria<br />
personale della familia romana è stata dapprima resa possibile, poi<br />
erosa nel suo significato, infine superata è stato il regime<br />
matrimoniale, dalla cui disciplina l’intensità di tale ruolo identitario è,<br />
nel tempo, fondamentalmente dipesa. Complesso e articolato finché ha<br />
resistito l’idea che non ogni unione meritasse la medesima<br />
considerazione sociale e quindi giuridica, tendenzialmente unitario<br />
quando quelle vedute sono tramontate e la condizione degli uomini è<br />
venuta emergendo (nella valutazione generale) come un fatto non da<br />
“articolare” e “costruire” (attraverso l’attribuzione agli stessi di<br />
distinte – e sensibilmente differenziate – condizioni giuridiche,<br />
affidate a vari criteri fondanti), ma piuttosto da registrare innanzitutto,<br />
muovendo dalla loro uniforme condizione fisica naturale, che ne<br />
postula una almeno tendenziale uniformità anche di condizione<br />
giuridica in ogni campo.<br />
La storia successiva non è stata di immediata conseguente<br />
coerenza. Ma da qualche secolo (dalla rivoluzione francese e dal<br />
pensiero che l’ha preparata) essa sembra avere imboccato la strada che<br />
va verso l’esito ultimo di quelle lontane premesse già giustinianee (e<br />
che è la preminente ragione, forse, delle nostre tensioni<br />
contemporanee): l’annullamento (o comunque la massima<br />
attenuazione possibile) di ogni fattore giuridico identitario, che non si<br />
fondi su una consapevole scelta di colui che lo assume e lo vive.