lo spazio come indicatore dell'identità urbana - La scuola di Pitagora ...

LO SPAZIO COME INDICATORE DELL'IDENTITÀ URBANA 

di ALDO DE SANCTIS 

Nella città antica lo spazio libero dei è, di norma, l’unico materiale esistente 

tra il delle costruzioni; è il presupposto perché queste si realizzino 

e funzionino. Ed è all’insieme dei vuoti, ai modi del loro costituirsi, che vogliamo 

fare riferimento: a spazi pubblici e semipubblici (non solo strade e piazze, ma slarghi, 

cortili, chiese…) che, sebbene privi di determinazioni geometriche subito riconoscibili, 

non possono considerarsi casuali, o accessori all’organizzazione urbana. 

Assegnare allo spazio il significato di un è un modo per estendere 

il concetto ed il valore di piazza (luogo per eccellenza di scambio, d’incontro, di 

relazione…) all’insieme dei vuoti presenti in ogni centro antico. Ed è anche un modo 

per considerare i differenti spazi non come elementi autonomi dal resto, con semplici 

attribuzioni funzionali, ma come organici alla città stessa, spesso in relazione tra loro 

e con il pieno delle costruzioni. 

In altri termini l’area libera di strade e piazze non come eccedenza, o superficie residua 

tra gli edifici, ma prodotto di soluzioni compositive, in grado di contemperare 

risposte sia di tipo funzionale, che architettonico e particolarmente risposte utili per 

il progetto. Ogni nuovo intervento introduce, infatti, un cambiamento di valore (di 

assetti, di volumi, di percezioni…) o, come scrive Ludovico Quaroni, una “alterazione 

che sarà tanto maggiore quanto più vasta sarà l’area interessata direttamente e 

quanto più forte la differenza fra i volumi, le superfici, le linee i colori e le altre qualità 

del preesistente e i volumi, le superfici ecc… del progettato” 1 . Produrre il nuovo 

considerando attentamente l’esistente appare, dunque, una necessità per evitare travisamenti 

e discontinuità, per evitare soluzioni architettoniche indifferenti ai caratteri 

del luogo in cui il nuovo stesso dovrà inserirsi. Ed ancora, per evitare di perdere ogni 

contatto col referente reale, con le sue attribuzioni formali e la sua storia. 

I termini di morfologia urbana e di tipologia edilizia, necessari per considerazioni più 

generali, servono meno per formulare valutazioni e per dare risposte di tipo compositivo; 

spesso funzionano per legare “insieme nel tempo il dell’edificio e il 

della strada, della piazza, dell’intero quartiere, senza peraltro, interessare, se 

non indirettamente, la progettazione dell’intero continuo urbano” 2 .

144 

Lo spazio come indicatore dell'identità urbana 

Nella tradizione italiana - potrebbe anche dirsi nella più generale tradizione europea 

- la città è un prodotto di regole, ma anche “della loro continua violazione: per interpretazione, 

rielaborazione, confronto. Regole, procedure, metodi, modelli reinventati 

di fronte all’esperienza di una diversa condizione come figure discorsive […] tecniche 

per ben fare, per rendere minimi ciò che in quel momento si considerano errori” 

3 ; ed è per la conoscenza e l’applicazione di dette regole - che in ambito urbano 

si evidenziano soprattutto nella costruzione dei vuoti - che le nostre città cambiano 

e si accreditano presso le comunità di appartenenza: corrispondenze tra pieni e vuoti, 

allineamenti, chiusure, permeabilità, ecc… definiscono, nel tempo, un formidabile 

repertorio di dispositivi progettuali, capace sia di confermare lo sviluppo urbano che 

di promuoverlo. 

Parlare di regole per il disegno della città, specialmente per quella antica, può sembrare 

un paradosso: la varietà delle forme che ne caratterizza gli spazi facilmente fa pensare a 

prove ripetute, a sperimentazioni sul campo, a raccordi ed acrobazie formali; facilmente 

fa pensare ad aggregazioni fortuite, lontane da ogni controllo normativo. 

In realtà, gli studi sull’evoluzione delle città ci dicono che lo spazio urbano è essenzialmente 

un prodotto di regole e che in ogni città, medievale o successiva che sia, apportare 

modifiche, aprire o anche correggere il perimetro di una piazza, o di una strada è 

spesso di difficile attuazione. “Nel Medioevo - scrive Cesare Brandi - entro il circuito 

delle mura, il terreno urbano costava caro (…) per la piazza della Signoria a Firenze, 

solo alla metà del Trecento fu possibile, con espropri, la costruzione della cosiddetta 

Loggia dei Lanzi, a regolarizzare la quinta a destra del Palazzo Vecchio” 4 . 

L’esproprio di un terreno interno alla città è questione che coinvolge tutti, non solo i 

diretti interessati: nel 1400 ad Avignone, quando i religiosi cercano di modificare lo 

spazio antistante la chiesa di S. Agricola, si trovano contro tutti i residenti della zona e 

le ragioni della comunità intera 5 . Partecipare alla vita sociale è una necessità ed un dovere 

diffuso e forse è proprio per questo tipo di interesse, oltre che per l’attuazione di 

strumenti generali di controllo, che le città antiche evolvono senza troppi errori. 

L’assenza di un progetto, così come oggi l’intendiamo, non significa che nella città 

antica strade e piazze nascano per caso, o siano prodotte senza regole. In generale, si

Aldo De Sanctis 

tratta di opere collettive, risultato delle motivazioni che nel tempo si sono manifestate 

e di modifiche ripetute; strade e piazze devono forse immaginarsi come l’esito 

di un , ordinato da regole essenziali e da un radicato patrimonio 

di esperienze comuni. 

Di norma, non ci sono modelli a cui rifarsi (la presenza di testimonianze più antiche 

è spesso occasione di riprogettazioni e di interpretazioni radicali), o schemi da applicare, 

come si cercherà di fare successivamente, ma precetti da seguire (allineamenti, 

livelli massimi e minimi, corrispondenze, consapevolezza funzionale), accorgimenti 

di buon senso (per l’igiene, o per la prevenzione degli incendi) e, soprattutto, 

statuti da osservare: a Spoleto, ad esempio, nel 1296 per la manutenzione viaria 

si “ordina di riparare tutte le strade della città e rifare la pavimentazione ove fosse 

rovinata (…) e se una strada è pavimentata per metà la si faccia pavimentare a spese 

dei proprietari delle case dove non c’è pavimentazione”; ancora, per la pulizia ed il 

decoro, “stabiliamo che l’autorità faccia tenere le vie pubbliche, quelle vicinali e le 

piazze pulite; e se qualcuno farà una qualsiasi bruttura nelle strade o nelle piazze che 

si punisca con ogni mezzo con una multa di quaranta soldi” 6 . 

A Siena nel 1297 si prevede che negli edifici attorno a piazza del Campo “tutte le finestre 

si facciano a colonnelli”; nel 1310 si stabilisce che “neuno possa da chinci innanzi 

haedificare ovvero rinnovare ovvero fare alcuno ballatoio ovvero solaio” 7 . 

I controlli ripetuti valgono anche per riportare a norma quanto realizzato in difformità. 

“Sulla questione dei ballatoi a Siena -scrive Franco Borsi- si ritorna anche più 

tardi, in pieno Quattrocento (…) gli Ufficiali dell’ornato della città, avendo comandato 

a un certo Augostino Dato e fratelli , li hanno trovati ” 8 . 

Sempre a Siena troviamo che “la strada che è tra la casa Perini e quella Ranucci debba 

essere sistemata e lastricata e tenuta come strada comunale cosicché non si faccia nessuna 

costruzione o ballatoio e sia libera fino al cielo” 9 . 

Si potrebbe continuare, ma per concludere questa breve rassegna ricordiamo che “nel 

Trecento quasi ogni città ha già elaborato i propri statuti, o per effetto di uno spontaneo 

sviluppo giuridico, o per imitazione dei testi già adottati da altre città” 10 . 

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146 

Lo spazio come indicatore dell'identità urbana 

Tornando ai precetti facili ed agli accorgimenti di buon senso, è evidente che la facilità 

sopra ricordata, non può confondersi con una banalizzazione di operazioni. Nei 

temi architettonici la facilità è sempre l’esito di un processo di razionalizzazione, di 

disarticolazione che, riducendo la complessità, porta ad eleggere solo alcune 

delle componenti reali a scapito di tutto il resto; un modo, cioè, per ottenere il 

risultato più convincente, in un determinato momento analitico o progettuale, col 

minimo dispendio di mezzi espressivi, di tecniche e di procedure attuative. 

Gli statuti servono, invece, per controllare lo sviluppo della città e per verificarne l’uniformità. 

Per l’istituzione di regole, passa la riconoscibilità e la coerenza delle organizzazioni urbane 

ed attraverso la conferma -a volte anche la trasgressione- delle regole passa l’articolazione 

delle componenti urbane ed anche la creatività delle loro disposizioni. 

Ci riferiamo evidentemente, a regole diverse: le prime servono per controllare quanto 

già esiste e per conservarlo, le altre per produrre il nuovo, adeguandolo al contesto 

di appartenenza. 

Le regole come opposte alla monotonia ed alla convenzionalità del fare, come un 

qualcosa che permette all’azione progettuale di istituirsi, o come un qualcosa che, al 

tempo stesso, rende possibile sia la produzione di nuove forme, che il controllo di 

quanto già esiste. 

Parenteticamente notiamo che da quando inizia a porsi, il problema della creatività 

si delinea sempre “come creatività secondo regole o ad ogni modo come creatività 

sottoposta ad una legalità generale” 11 . 

Creatività e regole non come aspetti contrapposti del fare, ma organici e non divergenti 

tra loro. Le regole non contrastano con l’inedito; sempre, servono a prefigurare 

una di dati, di volta in volta, utili sia per l’analisi (l’interpretazione, la 

conoscenza…), che per il progetto: creatività e regole come facce della stessa medaglia, 

dello stesso processo da cui scaturisce l’attività formativa. 

Ugualmente può dirsi per la nozione di identità urbana, che ancora può specificarsi 

come ricerca di regole, o come di conoscenze utili per definire ed analizzare, 

nell’insieme dei vuoti di una città, i materiali, i caratteri dimensionali e le relazioni 

(geometrie, rapporti, posizione di componenti…) che contiene; materiali, ca-

Aldo De Sanctis 

ratteri dimensionali e relazioni specifici di quell’insieme e ricorrenti tanto da riconoscersi 

come peculiari, o come identitari di quello stesso insieme. 

Regole e conoscenze propriamente compositive che consentono, altresì, di vedere la 

figuratività urbana non come un dato marginale o di gusto, ma come un carattere 

che è possibile studiare, necessario anche per definire criteri di valutazione sulla disposizione 

degli edifici e sull’importanza che singolarmente assumono (emergenza, 

elemento ricorrente…) nel più generale contesto cittadino. 

Lo spazio, dunque, come elemento ordinatore, sia a scala d’insieme che di dettaglio, 

protagonista della scena urbana e coinvolgente l’organizzazione degli edifici perché in 

accordo, spesso determinante, sia con la loro forma, che con la loro misura. 

Dal punto di vista dell’analisi è forse opportuno sottolineare che definire lo spazio 

come indicatore dell’identità urbana, non implica in alcun modo regolarità di assetti 

e neppure il riferimento a geometrie note. Anzi può dirsi che nelle realizzazioni antiche 

l’irregolarità è spesso il tratto distintivo di strade e piazze che si adeguano, per 

così dire, al disporsi naturale dell’orografia e degli insediamenti. 

Regolare o meno che sia, uno spazio ha valore per la coerenza che esprime, per l’ordine 

progettuale che è in grado di istituire tra gli elementi di perimetro (corrispondenze, 

proporzioni, materiali, riferimenti geometrici non rigorosi, ma percettivamente 

attendibili…) e per i caratteri (trasparenza/compattezza, permeabilità/chiusura, regolarità/irregolarità, 

cromatici…) che presenta. Ed è da simili modalità realizzative che 

ci sembra derivi la ricchezza formale che oggi diffusamente è possibile registrare nelle 

città antiche, spesso in contrapposizione con la riconoscibilità e, per molti versi, l’omologazione, 

spaziale e architettonica, di quelle contemporanee. 

In altro modo, lo spazio di strade e piazze vale per identificare un limite, che al tempo 

stesso diviene principio e motivo d’ordine del volume edificato. Come detto, non importa 

la regolarità, ma i rapporti e le relazioni -in una parola le regole- che per tale limite 

vengono a determinarsi tra le componenti in gioco ed è particolarmente per la 

loro presenza che lo spazio di strade e piazze può divenire un indicatore dell’identità 

urbana. 

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Note 

1 L. QUARONI, Progettare un edificio-otto lezioni di architettura, Mazzotta, Milano 1977, p. 73. 

2 L. QUARONI, op. cit., p. 71. 

3 V. GREGOTTI, L’identità dell’architettura europea e la sua crisi, Einaudi, Torino 1999, p. 173. 

4 C. BRANDI, (introduzione a) Piazze d’Italia, T.C.I., Milano 1977, pp. 8-9. 

5 Cfr. L. PICCINATO, Urbanistica Medievale, Dedalo libri, Bari 1978, p. 59. 

6 G. ANTONELLI, Statuti di Spoleto del 1296, Leo S. Olschki, Firenze 1962, p.63 e p. 81. 

7 F. BORSI, G. PAMAPALONI, a cura di, Le Piazze, De Agostini, Novara 1975, p. 11. 

8 F. BORSI, G. PAMAPALONI, a cura di, op. cit., p. 11. 

9 D. CIAMPOLI, T. SZABÒ, Lo statuto dei viari di Siena, Accademia Senese degli Intronati, Siena 

1992, p. 84. 

10 E. CRISTIANI, Statuti e Strutture comunali, Società Pistoiese di Storia Patria, Pistoia 1981, p. 9. 

11 E. GARRONI, Creatività, Einaudi, Torino 1978, p. 37. 

Lo spazio come indicatore dell'identità urbana

EFFICIENZA E COMPLESSITÀ NELL’INGEGNERIA DELLE STRUTTURE 

di GIUSEPPE FAELLA 

ingegneria delle strutture è spesso vista come una problem-solving activity, che, at- 

L’ traverso un processo progettuale, perviene alla soluzione strutturale ritenuta più 

efficiente. Quest’ultima è spesso erroneamente vista come quella che assicura la capacità 

resistente richiesta con il minore impegno di materiale, ovvero con il minor 

impegno di risorse. Tale assunto è oggi generalmente errato, poiché l’efficienza della 

soluzione strutturale dipende anche da altri fattori, tra cui la complessità del processo 

di costruzione, l’affidabilità, la gestione e la durabilità della struttura. E spesso i requisiti 

tecnici sono in conflitto tra loro: ad esempio, le forme strutturali più efficienti 

sono di frequente complesse e quindi più difficili da progettare, costruire e manutenere. 

Questa dicotomia tra efficienza e semplicità è un aspetto fondamentale della 

progettazione strutturale e la soluzione finale adottata è frequentemente frutto di un 

compromesso. Uno dei principali criteri per una buona progettazione è sicuramente 

la natura di tale compromesso, che diventa un parametro fondamentale per giudicare 

le qualità di una struttura. Peraltro, non si deve dimenticare che nel campo dell’architettura 

la suddetta dicotomia coinvolge anche il rapporto tra aspetto e prestazioni 

della costruzione. 

È opinione alquanto diffusa, ma andrebbe discussa, che il grado di efficienza da raggiungere 

debba dipendere dalle caratteristiche della costruzione (tipologia, destinazione, 

ecc.) e non solo dal suo sistema strutturale. Ma è altrettanto consolidata la consapevolezza 

di quanto sia difficile specificare e quantificare un livello di efficienza, a 

causa della complessa interrelazione tra i numerosi fattori coinvolti. 

Per secoli l’efficacia strutturale è stata misurata attraverso due soli fattori ritenuti principali, 

ossia le dimensioni degli elementi strutturali e il carico sopportato, ritenendo 

più efficienti le strutture più “leggere” che sostengono il maggior carico. Tale finalità 

era conseguita utilizzando, il più possibile, sistemi strutturali che oggi si classificano 

come resistenti per forma, ossia resistenti in virtù delle loro caratteristiche geometriche 

(quali ad esempio gli archi e le volte), in contrapposizione a quelli che resistono 

per massa, ossia grazie alle caratteristiche d’inerzia delle sezioni e dei materiali impiegati 

(per esempio le travi e le pareti). Il principio generale era improntato al conseguimento 

della massima economia di mezzi, con una struttura la cui complessità

150 

Efficienza e complessità nell’ingegneria delle strutture 

doveva essere la minima compatibile con il raggiungimento di un ragionevole livello 

di efficienza. Il tutto nella convinzione che le strutture resistenti per forma fossero 

staticamente superiori a quelle resistenti per massa. Quest’approccio progettuale conduce, 

tuttavia, a forme e geometrie strutturali non sempre del tutto realizzabili per 

ragioni estetiche o esecutive, e le inevitabili modifiche comportano inevitabilmente 

una riduzione dell’efficienza della struttura. Inoltre, quanto maggiori sono le geometrie 

strutturali, talvolta erroneamente identificate come complessità della struttura, 

tanto maggiori sono gli accorgimenti e gli elementi tecnici aggiuntivi necessari per 

assicurare lo stesso grado di efficienza. 

Il rigido rispetto del rapporto tra forma e resistenza ha sistematicamente ancorato, 

con le dovute eccezioni, le strutture del passato a forme archetipe, e solo l’introduzione 

di nuovi materiali strutturali e di nuovi procedimenti costruttivi e le innovazioni 

tecnologiche degli ultimi secoli hanno consentito una innovazione dell’ingegneria 

strutturale, con la possibilità di realizzare strutture di geometria spesso etichettata 

“complessa”. 

A tal punto la domanda da porsi è se le strutture possano essere di per sé complesse. 

Gli edifici alti (Figura 1) o i grandi ponti (Figura 2) sono strutture complesse? Matthys 

Levy e Mario Salvadori affermano “Almeno nelle strutture, sembrerebbe che più i 

problemi diventano complicati, più facili sono da risolvere!” 1 . Ma ciò si avvera sempre? 

Questa affermazione è sempre vera per la costruzione nel suo insieme? 

Per fornire una risposta è innanzitutto necessario approfondire l’aspetto etimologico 

del termine “complesso”, che ha oggi una sempre maggiore diffusione nel mondo 

scientifico. Infatti, il suo utilizzo in affermazioni o contesti spesso non contribuisce a 

rendere chiaro il concetto che si vuole esprimere, bensì contribuisce a renderlo impreciso 

e nebuloso. I vocabolari della lingua italiana danno, invece, una chiara definizione 

del termine. Il vocabolario 

dell’Istituto dell’Enciclopedia 

Italiana 

Treccani fornisce la seguente 

definizione: “Che 

1 1 Alcuni tra i più noti edifici alti.

Giuseppe Faella 

risulta dall’unione di più parti o elementi”, e tale definizione è del tutto differente da 

quella fornita per il termine “complicato”, alla cui voce è riportato: “Non semplice 

né facile. Di difficile soluzione”. Alla luce di ciò, un sistema strutturale può essere 

complesso senza essere necessariamente complicato. 

Abraham A. Moles, ingegnere (1920-1992), docente di sociologia e psicologia alle 

Università di Ulm e di Strasburgo, tuttavia, affermava che “Le costruzioni e le strutture 

sono notevolmente complicate perché composte di una grande quantità di parti 

diverse tra loro … Ogni edificio è quindi un sistema complesso” 2 . 

Riferendosi alle strutture, è opportuno porsi un ulteriore interrogativo. La complessità 

o la complicazione possono essere solo apparenti? La risposta è in un certo qual 

modo affermativa, essendo la storia dell’ingegneria ricca di esempi in tal senso, sebbene 

si debba comprendere con esattezza cosa si intenda per complessità apparente. 

Un esempio, tra i tanti, che consente una comprensione è la volta di copertura della 

cappella (1503-1519) di Enrico VII nell’Abbazia di Westminster a Londra. La copertura 

è costituita da una volta a botte con pendenti che richiamano le volte a ventaglio 

(Figura 3). Vista dall’interno della cappella, l’articolazione dei pendenti non 

consente di comprendere con chiarezza il ruolo statico dei singoli elementi e sembra 

sottintendere una struttura complessa. Molti degli elementi sono, invece, solo decorativi, 

come si comprende dalla vista superiore della volta (Figura 4), che mostra con 

chiarezza gli effettivi elementi strutturali, gli archi trasversali di sostegno, ed il loro 

ruolo di trasferimento del peso ai contrafforti esterni. 

Si deve ancora rilevare che con l’introduzione di nuovi elementi tecnici, all’incremento 

della complessità corrisponde 

sempre più un aumento 

della complicazione, 

e viceversa. Da questo ne 

consegue che complessità e 

complicazione sono direttamente 

correlate alla 

quantità e qualità degli ele- 

2 Il ponte di Akashi Kaikyo. 

Ponte sospeso più lungo del 

mondo (campata principale 1991 

m). Costruito in zona sismica e 

soggetto a possibili tifoni. 

151 

2

3 

152 

Efficienza e complessità nell’ingegneria delle strutture 

menti necessari per delineare il sistema strutturale, e quello edilizio in generale. Ma 

complessità e complicazione possono anche produrre criticità nel sistema strutturale 

e rendere più arduo e laborioso il percorso della progettazione strutturale. 

In tale ambito trova una efficace collocazione l’affermazione di Pietro Zennaro, professore 

di Tecnologia dell’Architettura presso l’IUAV di Venezia: “Cruccio di ogni operatore 

è quello di riuscire a governare la complessità e la complicazione che incrementano 

sempre più sulla base dell’aumentata domanda di prestazioni che si richiede 

alla nuova edificazione” 4 . 

Per porvi rimedio, alcuni studiosi sostengono che in architettura ed ingegneria si sta 

diffondendo la necessità di sviluppare una visione “olistica” del problema progettuale, 

trasferendo al mondo tecnico una visione tipica di altre discipline. L’olismo, infatti, 

in biologia è la “teoria secondo la quale l’organismo deve essere studiato in quanto 

totalità organizzata e non in quanto semplice somma di parti”, in filosofia identifica 

“ogni concezione secondo cui la società è una totalità non riducibile alla somma degli 

individui e delle loro azioni”, in epistemologia è la “teoria che considera il sapere 

scientifico come un insieme di proposizioni altamente interconnesse, tale da non consentire 

la verifica empirica di una singola ipotesi, ma solo di porzioni più o meno 

estese dell’insieme”. 

Da cosa dipendono esattamente complessità e complicazione di una struttura, di un 

progetto strutturale? Quali 

sono gli attori (responsabili) 

principali? A tali interrogativi 

è più agevole far 

seguire ulteriori domande 

piuttosto che tentare di fornire 

una singola e precisa 

risposta. È, in sostanza, più 

facile chiedersi: La complessità 

dipende dalle prestazioni 

richieste? Dalla 

stretta relazione con le al- 

3 La volta di copertura della cappella 

di Enrico VII nell'Abbazia di 

Westminster a Londra. Vista dall'intradosso 

(da Storia dell'Architettura 

3 ).

Giuseppe Faella 

tre discipline del processo progettuale? Dalla regolarità della costruzione e delle strutture? 

Dall’introduzione di nuovi materiali e nuove tecniche? Dalle nuove normative 

tecniche? Dalla ricerca di una verità? Qualsiasi sia la risposta ritenuta maggiormente 

valida, si deve comunque tenere ben presente che la progettazione strutturale necessariamente 

si muove in un contesto in cui devono dominare conoscenza e sicurezza. 

Ci si può porre, però, una ulteriore domanda, ovvero quanto si possa eludere o ridurre 

la complessità. La risposta probabilmente più realistica è quella fornita a tal 

proposito dalla filosofia ermeneutica, che ne accetta l’ineluttabilità. 

In definitiva si torna all’interrogativo iniziale di come si possa governare la complessità 

nell’ingegneria delle strutture. A seguito dello sviluppo delle conoscenze informatiche 

e tecnologiche, molti “pensatori” e tecnici contemporanei cercano la soluzione 

facendo proprio il diffuso convincimento che “le nuove possibilità di calcolo 

dovute all’utilizzo degli elaboratori possono riportare in auge ed essere un nuovo riferimento 

per l’architettura e l’ingegneria delle strutture”. Il brutale e “meccanico” trasferimento 

alla progettazione strutturale dell’uso indiscriminato dei mezzi informatici 

comporta invece conseguenze rovinose, dovendo l’utilizzo dei mezzi elettronici essere 

sempre e solo un supporto (oggi potentissimo) dell’attività progettuale, che si deve 

basare anche su molteplici altri mezzi, non dimenticando quanto affermava e scriveva 

Dante Gabriel Rossetti, poeta e pittore britannico (1828-1882): “L’elaborazione concettuale, 

un lavoro mentale 

fondamentale, è ciò che fa la 

differenza in tutte le arti”. 

4 La volta di copertura della cappella 

di Enrico VII nell'Abbazia di 

Westminster a Londra. Vista dall'estradosso 

(da Storia dell'Architettura 

3 ). 

153 

4

154 

Note 

1 M. LEVY, M. SALAVATORI, Why Buildings Fall Down-How Structures Fail, W.W. Norton & Com- 

pany, New York, 1992. 

2 AA. MOLES, “Complessità funzionale e strutturale”, in Scienza e Progetto, G. SUSANI, a cura di, 

Ed. Marsilio, Padova, 1967. 

3 Storia dell’Architettura, Vol. 8, Electa, 2009). 

4 P. ZENNARO, La qualità rarefatta-Considerazioni sull’influenza del vuoto nella costruzione dell’ar- 

chitettura, Franco Angeli, Milano, 2000. 

Efficienza e complessità nell’ingegneria delle strutture

CITTÀ CREATIVE 

Premessa 

di FRANCESCA FATTA, DANIELE COLISTRA, MARINELLA ARENA 

di FRANCESCA FATTA 

Ci troviamo oggi a Pompei che rappresenta un luogo paradigmatico: dalla città del 

passato possiamo proiettarci verso l’idea di una città futura. La città di domani 

non potrà che essere un luogo generatore di creatività, incubatore di economie d’innovazione, 

di cultura, di ricerca e di produzione artistica. Occorre investire sul capitale 

identitario per poterne potenziare il valore culturale e sociale, e per far questo gli 

strumenti che noi desideriamo mettere a disposizione riguardano l’analisi finalizzata 

alla conoscenza ed all’orientamento di una coscienza progettuale per la salvaguardia 

e la trasformazione della città di domani. 

Gli studi che illustrano Daniele Colistra e Marinella Arena rappresentano una proposta 

non banale di “fabbrica di conoscenza” per analizzare e comprendere i meccanismi 

di costruzione della realtà presente. Il disegno ci dà l’opportunità di cogliere la 

memoria dei luoghi lavorando, in questo caso, sui frammenti cuciti insieme dagli 

eventi, in una realtà in continua, vitale trasformazione. Da queste analisi si innescano 

le riflessioni sul progetto di architettura che può scaturire solo da una conoscenza critica 

della città letta come “testo”, per una società in divenire. 

I linguaggi della rappresentazione si prestano a ibridarsi tra loro: disegno, fotografia, 

schizzo e modellazione sono tutti parti di un sistema comune che riguarda la comunicazione 

visiva, e tutti rappresentano un’occasione per trasferire delle idee, prescindendo 

dagli steccati strumentali. 

Soprattutto poi, se il campo d’azione non riguarda una semplice architettura, ma un 

contesto complesso come la città, il desiderio di comunicare si complica e si amplifica 

ulteriormente. 

Si è sempre detto che l’architettura è una sommatoria di valori estetici e progettuali 

inscindibili che identificano sia la cultura del progetto che quella dell’immagine. Purtroppo 

all’interno delle leggi della domanda e dell’offerta essi si separano condizionando 

negativamente la qualità della progettazione. La Bauhaus, sotto la direzione di 

Gropius rimane ancora oggi, con tutte le riserve del caso, l’esempio storico più cor

1 

156 

Città creative 

retto di come dovrebbe essere strutturata una grande scuola di progettazione nella 

quale far convivere sistemi disciplinari che, dal cucchiaio alla città, consentano a docenti 

e studenti di approfondire una più estesa preparazione tecnica e culturale per 

vivere in una società che deve misurarsi con problemi ambientali, sociali e tecnologici 

di grande rilevanza. 

I sistemi informatici e le tecniche di rappresentazione delle immagini, unitamente all’avvento 

del tempo reale nelle informazioni, hanno cambiato i concetti, le percezioni 

e le comunicazioni; lo stesso MacLuhan non aveva previsto che il cambiamento sarebbe 

stato così rapido. 

I corsi di Disegno dell’Architettura e Rappresentazione hanno recepito questa esigenza 

e per questo che, in questa circostanza è interessante richiamare il tema del rapporto, 

o dei rapporti, tra fotografia, architettura e città come un nuovo percorso didattico 

da proporre agli studenti e da alimentare nella ricerca interdisciplinare. 

Spaesata città 

di DANIELE COLISTRA 

Una fabbrica della conoscenza non produce automaticamente i suoi manufatti. Questi 

ultimi affidano la loro fortuna alla forza di una rete della conoscenza. Una rete che 

deve essere in grado di comunicare in modo efficace e pertinente. 

Come comunica una città? Proprio come l’architettura, attraverso due livelli differenti. 

Ce lo ricorda Walter Benjamin: un’architettura può essere percepita nel senso 

del consumo (ci abito, la vivo, la attraverso, la danneggio, la compro, la vendo) ma 

può essere percepita anche mediante una attività più strettamente intellettuale e, quindi, 

legata alla comunicazione 

(la comprendo, la interpreto 

e la racconto agli altri). 

1 Paul Auster, David Mazzucchelli, 

Paul Karasik, Città di vetro, 

2004.

Francesca Fatta, Daniele Colistra, Marinella Arena 

Visto che la città è contemporaneamente uno strumento 

e un oggetto di comunicazione, da sempre è stata il pretesto 

per veicolare una precisa poetica. Dalla città ideale 

del Rinascimento alle stralunate città di James Ballard 

alla periferia romana di Pasolini. 

Si tratta dell’essenza del nostro mestiere: comunicare attraverso 

le immagini ciò che abbiamo capito della realtà 

che ci circonda. Come scrive Paul Auster in Moon Palace, 

“se vedi qualcosa, come puoi trasformarlo in parole? 

Il mondo penetra in noi per il tramite degli occhi, 

tuttavia noi non siamo in grado di dargli un senso finché 

esso non scende alla bocca”. Per un disegnatore, siamo 

autorizzati a dire “finché non arriva alle mani che disegnano…”. 

È, quindi, un problema di strumenti, tecniche e forme 

della comunicazione. Ne abbiamo a disposizione molti. 

Uno di questi è la fotografia di architettura. 

La fotografia è considerata prevalentemente per il suo 

valore documentario. Ci sono poi numerosi fotografi di 

architettura i cui lavori sono reputati vere e proprie opere 

d’arte (pur se riproducibili), dotate di valore in sé e, 

quindi, il cui valore è indipendente dall’oggetto rappresentato. 

La fotografia è sicuramente un’arte. Ma, a differenza di 

tutte le altre arti, difficilmente si distacca dalla concretezza 

della vita, si abbandona al virtuosismo grafico o si 

rifugia nello spiritualismo. Una fotografia presenta sempre 

luoghi ed eventi concreti, tangibili e quindi impone 

una presa di posizione rispetto agli oggetti inquadrati, al 

mondo e al sistema di valori che rappresenta. 

2 Pascal Croci, Auschwitz, 2004. 

3 Gabriele Basilico, Beirut, 2001. 3 

157 

2

4 

5 

6 

158 


In questo modo, la fotografia riveste un importante ruolo pedagogico. Perché una fotografia 

coinvolge le coscienze e induce alla comprensione. Io credo nella fotografia 

e nel suo ruolo didattico, innanzitutto perché “fotografare significa uscire dai nostri 

rifugi e camminare nelle strade, guardando. Camminare guardando per recuperare 

alla coscienza tutto quello che ogni giorno rimuoviamo dal nostro campo visivo, dal 

mondo, fino a ritrovarci indifferenti ed anestetizzati. Camminare e guardare perché 

non siano altri a decidere quale storia raccontare, quale mondo vivere” (Fulvio Orsenigo), 

ma anche perché “vediamo sempre di più con gli occhi degli altri. Potrebbe 

anche essere un vantaggio: migliaia di occhi invece di due, ma non è così semplice. 

Di queste migliaia di occhi, pochi, pochissimi, seguono una operazione mentale autonoma, 

una propria ricerca, una propria visione. Anche inconsapevolmente, le migliaia 

di occhi sono collegate a pochi cervelli, a precisi interessi, a un solo potere” 

(Ugo Mulas). 

Con queste premesse, nell’estate 2008, insieme a Marinella 

Arena, Fulvio Orsenigo e Alessandra Chemollo ho 

iniziato a lavorare sul territorio e sulla città calabrese, 

concentrandomi sulle masserie fortificate della Calabria 

e sull’architettura della ricostruzione di Reggio dopo il 

terremoto del 1908. 

Il lavoro sulle masserie fortificate si basa essenzialmente 

sul rilievo e sull’analisi grafica per la conoscenza e la comprensione 

dei rapporti fra costruito e ambiente, natura 

e artefatto: prevede anche una sezione fotografica, curata 

da Alessandra Chemollo. Un lavoro documentario, 

ma anche qualcosa di più. Perché “poco si è detto della 

fotografia come freno alle fantasie della nostra memoria 

e l’aver detto quanto essa possa essere un documento 

non basta. Documento di che? Spesso anche di noi fotografi, 

che in queste foto ricostruiamo la vita del nostro 

occhio” (Paolo Monti). 

Il lavoro sull’architettura della ricostruzione di Reggio 

4 Franco Fontana, Paesaggio urbano 

a Ibiza, 1992. 

5 Alessandra Chemollo, Masseria 

S. Mauro a Corigliano Calabro (CS), 

2008. 

6 Alessandra Chemollo, Masseria 

Pantaleo a Rossano Calabro (CS), 

2008.


post 1908, realizzato con alcuni studenti e dottorandi di disegno e coordinato con 

Fulvio Orsenigo e Marinella Arena, aveva l’obiettivo di mostrare come, dopo il terremoto, 

Reggio abbia subito un’interminabile scossa di assestamento che ha devastato 

il territorio e la città, l’ambiente e la mentalità della gente che vi abita. Ancora una 

volta, un lavoro che impone una precisa presa di posizione e la comunica agli altri. 

Comunica un intricato sistema di forze, posate ma violente più di un sisma: abusivismo 

e incuria, speculazioni, scelte sbagliate (colpose e dolose), negligenze, omissioni, 

malgoverno, ingordigia, monumenti al kitsch e al trash, indifferenza. Un sistema di 

forze distruttive a cui tutti (politici, proprietari immobiliari, amministratori, costruttori, 

docenti, architetti, cittadini), in modi diversi, abbiamo contribuito. Con i nostri 

gesti, le nostre decisioni; oppure delegando ad altri le nostre scelte, le nostre responsabilità. 

Per ignoranza, per convenienza e per ignavia. 

Fotografia come strumento di conoscenza. Fotografia come strumento di comprensione. 

Fotografia come strumento didattico. Fotografia come strumento di ricerca 

della forma e, quindi, della bellezza. Anche quando racconta storie di degrado, di sofferenza, 

di emarginazione. La bellezza è presente in qualsiasi situazione, in qualun- 

159 

7 Filippo Labate e Giuseppe Romeo, 

Fabbrica Velardi a Reggio Calabria, 

2008. 

8 Anna Panzera, Porto di Saline 

Joniche (RC), 2008. 

7-8

160 

que luogo proprio perché la bellezza non dipende né dai luoghi né dalle situazioni, 

ma solo dalla volontà del fotografo di ricercare e definire la forma. Definire la forma 

vuol dire esprimere il desiderio di avere un rapporto armonioso con gli oggetti, con 

il mondo. Vuol dire avere il coraggio di guardare con occhi obiettivi, l’intenzione di 

sentirsi responsabili, la dignità di saper discernere la geometria sottesa al disordine. 

Ma “perché la forma è bella?”, scrive Robert Adams ne La bellezza in fotografia. “Perché 

-penso- ci aiuta ad affrontare la nostra paura peggiore, il timore che la vita non 

sia che caos e che la nostra sofferenza non abbia alcun senso”. 

Città instabili 


di MARINELLA ARENA 

“Non si può conoscere con l’esperienza 

una grande città: la sua vita è troppo complessa 

Perché un qualsiasi individuo possa parteciparvi” 1 

Huxley suggerisce di rassegnarsi all’idea che la complessità della città non può essere 

conosciuta con un approccio razionale. Viene da chiedersi allora qual è la forma di 

rappresentazione che meglio si adatta a questa complessità e quale degli infiniti aspetti 

possiamo prendere in esame. 

Ho sempre pensato alla città come ad un organismo vivente composto di cellule che 

si modificano a velocità differenti. Alcune si rinnovano velocemente mantenendo sempre 

lo stesso aspetto altre invece mutano con infinita lentezza e si modificano profondamente. 

Le prime ricoprono la superficie della città, la rivestono di una pelle sensibile 

e in continuo movimento. Le seconde sono la struttura portante, sono coese, coriacee 

e, in apparenza, immobili. Se le prime sembrano obbedire al caos le seconde 

creano una struttura che sottende ad una regola. 

Nella città ordine e disordine sono correlati e, secondo Morin, “non producono confusione 

ma interagiscono per definire nuovi scenari”. 

Come adeguare la rappresentazione della città al continuo mutamento degli scenari


che la obbligano in una dimensione di instabilità permanente? 

Foucault 2 identifica nella città contemporanea una costante tensione alla metamorfosi 

che si manifesta attraverso alcune modalità territoriali come la sparizione e l’accelerazione. 

L’assetto delle grandi metropoli è in costante divenire, elementi importanti della scena 

urbana spariscono per lasciare il posto a nuove architetture generando approcci sempre 

diversi con lo spazio. 

Jonathan Safran Foer in Ogni cosa è illuminata affronta il racconto della sparizione di 

un piccolo centro con un approccio inedito e poetico. 

Una donna ucraina, sopravvissuta ad una strage nazista, conserva nel suo angusto ricovero 

i ricordi della sua gente. Tutto è impacchettato in scatole che portano le indicazioni 

più bizzarre: DIARI, BIANCHERIA, STATUETTE, OCCHIALI, OSCU- 

RITA’ SPECCHI, POESIE, CHIODI, POLVERE. 

Ogni oggetto riemerge dalla marea dei ricordi come un 

reperto archeologico. Ogni pezzo di stoffa, ogni ciocca 

di capelli, ogni batuffolo di polvere può riportare indietro 

nel tempo e riaccendere ricordi, sensazioni, speranze. 

Il gioco può procedere all’infinito, e l’azione può essere 

sostituita dal ricordo: “Tutto ricordava a tutti qualcosa 

[…] Ricordo generava ricordo che generava ricordo.[…] 

Gli abitanti del villaggio usavano il ricordo per ricordare 

il ricordo…” 3 . 

La sparizione del villaggio innesca il meccanismo del ricordo 

in un gioco caleidoscopico che è, probabilmente, 

alla base di ogni rappresentazione contemporanea della 

città. 

L’altro termine che Foucault usa per definire la città è: 

accelerazione. La città è attraversata da flussi che, di fatto, 

ne costituiscono la parte vitale. Lo studio dei flussi permette, 

infatti, la surcodificazione di tutti gli eventi che 

9 Paul Strand, Manhatta, 1921 I 

pendolari che scendono dallo Staten 

Island Ferry. 

10 René Clair, Paris qui dort, 1923. 

161 

9 

10

11 

162 

11 Francesco Jodice, Rear window, 

Hong Kong Milan Rotterdam, 

2004. 


fanno della città un “corpo senza organi”. 

Le prime rappresentazioni della città contemporanea con immagini in movimento, 

ribadiscono la vocazione dello spazio urbano ad accogliere flussi di cose e di persone. 

Nel cortometraggio “Manhatta” di Paul Strand, del 1921, tutto è movimento. 

I cappelli e le giacche nere di migliaia di impiegati disegnano trame complesse, mentre 

vanno dal ferry boat ai marciapiedi di Manhattan. Le gru, quando ruotano su se 

stesse, affettano il cielo, piatto e opaco, con traiettorie curvilinee. 

Le locomotive, scure e imponenti, avanzano fra spire di vapore. Le navi segnano l’acqua 

con tracce evanescenti e il cielo con dense nuvole di fumo. 

In Paris Qui Dort René Clair mostra la Ville Lumière attraverso un paradosso privandola 

di quell’aspetto che la caratterizza come una grande metropoli: il movimento. 

Nel film muto, del 1923, la città è immersa in un sonno profondo e artificiale, tutto 

è fermo e la rappresentazione della città ha un gusto surreale. 

Recentemente la rappresentazione di città dense e in continuo divenire ha preso altre 

vie. Alcuni fotografi come Francesco Jodice 4 la raccontano rubando, dalle vetrate


illuminate, piccoli brani di vita privata. Immagini che ci fanno intravedere la vastità 

delle relazioni umane, le infinite possibilità di scelta di ogni singolo individuo. 

Altri autori come Atta Kim fermano il tempo effettuando scatti con tempi di posa 

lunghissimi. Nelle sue immagini il movimento, continuo e intenso, è vischioso e lascia 

una traccia immateriale nello spazio. La Manhattan di Kim è avvolta da un velo 

di polvere che cancella le auto e le persone riducendole a fantasmi appena percepibili 

nella realtà urbana. 

Per ribadire la metafora della città contemporanea possiamo, dunque, scegliere di rappresentare 

quella costante instabilità data dal rapporto fra spazio topologico e spazio 

di relazione, fra luoghi materiali e luoghi immateriali, fra sparizione e ricordo, fra accelerazione 

e flusso. 

La rappresentazione si concentra sui flussi che attraversano 

lo spazio architettonico e ne modificano la consistenza, 

la percezione, il disegno. 

Ho preso spunto da alcune opere di Pierre Bismuth per 

rappresentare il movimento; l’artista registra, infatti, in 

un unico fotogramma il movimento della mano destra 

di Marylin Monroe. 

I segni neri evocano il tempo che è appena trascorso, 

come la scia di fumo che lascia una sigaretta accesa, la 

mano di Marylin altera lo spazio isotropo occupandolo 

con il ricordo del suo movimento. 

La percezione della città e delle architetture che la costituiscono 

è legata alle modalità di fruizione dello spazio, 

ai ricordi che amplificano 

i piani percettivi, agli 

stereotipi che condizionano 

il nostro sguardo. 

Così l’invaso di una strada 

è il luogo dei flussi. Uomini 

e donne attraversano lo 

12 Atta Kim, ON-AIR Project, New 

York Series, 57th Street, 8 Hours, 

2005. 

13 Pierre Bismuth, En suivant la 

main droite de Marylin Monroe. 

163 

12 

13

14 

164 


14 Marco Cosenza, Eleonora Rositani, 

Piazza 1° maggio, Palmi.


spazio secondo traiettorie sempre diverse e imprevedibili, modificano di porzioni infinitesimali 

l’invaso stesso e la sua percezione. 

Nella città reale la percezione dell’architettura è commista ad elementi che, pur essendo 

mobili, sono una costante: le auto parcheggiate davanti al basamento, le persone 

che affollano le strade più trafficate, l’ombra dei palazzi di fronte. 

Per provare a capire quanto la nostra percezione dell’architettura è parziale ho provato 

a frammentare il tempo per spogliare l’architettura di tutti quei vessilli che la 

connotano come la casa dell’uomo. 

Ho inserito, ad uno ad uno tutti gli elementi con cui l’uomo si appropria dell’architettura, 

per riconoscere quanti sono i veli si frappongono alla percezione dell’architettura 

e al tempo stesso la trasformano in uno dei fatti della città. 

Note 

1 ALDOUS LEONARD HUXLEY, Le porte della percezione Paradiso e inferno, Mondadori Milano 2007, 

I ed. The Doors of Perception Heaven and Hell, 1958. 

2 MICHEL FOUCAULT, Spazi altri, Mimesis eterotrofia, Milano 2001. 

3 SAFRAN FOER, Ogni cosa è illuminata, Guanda Editore, Parma 2002, I ed. Everything Is Illuminated, 

Houghton Mifflin Harcourt, Boston 2002. 

4 Vedi scatti come Rear window, Hong-Kong, Milan, Rotterdam T03 del 1999. 

165

RILEVARE LE CITTÀ 

RAPPRESENTARE LA CONOSCENZA CON I SISTEMI INFORMATIVI 

di PAOLO GIANDEBIAGGI, CHIARA VERNIZZI 

Il rilievo della città e la conseguente rappresentazione delle conoscenze acquisite si 

costituiscono come una questione aperta e di grande impatto. 

Quando infatti la quantità e la qualità dei dati da gestire sono elevate e devono poter 

essere interrelate, il campo delle possibilità operative si restringe e ci orienta verso 

l’unico strumento operativo che consente di interfacciare dati molto eterogenei tra 

loro, come quelli alfanumerici e quelli grafici, bi e tridimensionali, relativi ad elementi 

che investono porzioni urbane consistenti, così come elementi architettonici di 

grande impatto qualitativo e quantitativo sul tessuto urbano. 

Ad esempio, per i proprietari di grandi patrimoni immobiliari, la combinazione e la 

coesistenza di problemi di varia natura impongono necessariamente un controllo ed 

una programmazione delle attività urbanistiche ed edilizie e della loro compatibilità 

con le trasformazioni che continuamente investono la città. Questa intrinseca complessità 

impone l’acquisizione di dati ed informazioni di cui non sempre si dispone 

o si dispone in modo frammentario ed insufficiente. 

Una progettazione coerente e fattibile, sia dal punto di vista urbano sia da quello edilizio, 

non può prescindere dalla valutazione di una enorme quantità di dati fisici, di 

informazioni legislative, di valutazioni economiche, al fine di contribuire all’individuazione 

delle soluzioni compatibili e delle metodologie adottabili e perseguibili concretamente. 

A questo proposito i sistemi informativi consentono di trarre i primi benefici 

legati ad una valutazione ad 

ampio raggio degli interventi 

programmabili sui patrimoni 

edilizi e quindi di analizzare 

le ricadute che tali interventi 

hanno in termini urbanistici. 

Per questo motivo, a partire 

dall’anno 2000, l’Università 

degli Studi di Parma 

ha deciso di dotarsi di un 

proprio sistema informa- 

1 Il SIPE: localizzazione dei siti 

universitari all'interno del centro 

storico di Parma. 

1

2 

168 

Rilevare le città 

tivo, dando alla luce il SIPE (Sistema Informativo del Patrimonio Edilizio), strumento 

attraverso il quale è possibile il monitoraggio delle risorse edilizie e la prefigurazione 

di soluzioni urbanistiche, in modo tale da permettere valutazioni preventive di ipotesi 

gestionali e costruttive che da sempre provocano un forte impatto sulla città e sul 

territorio. La potenzialità del SIPE si esprime proprio nella capacità di rispondere ad 

interrogazioni complesse, fornendo informazioni specifiche correlate alle diverse soluzioni 

possibili, configurandosi come un insostituibile strumento operativo in grado 

di elaborare una corretta programmazione degli interventi. 

Il progetto è nato dall’esigenza di dotarsi di uno strumento che si ponesse quale supporto 

dell’attività di razionalizzazione, riorganizzazione e approfondimento della conoscenza 

del patrimonio universitario con il fine principale di attuare strategie di gestione 

atte a coordinare le attività di riqualificazione e manutenzione del patrimonio 

immobiliare stesso. 

In questo senso l’Ateneo ha stabilito che lo strumento essenziale per la gestione di tale 

patrimonio (oltre 80 edifici) fosse costituito da un sistema informativo in grado di gestire 

tutte le informazioni anagrafiche, funzionali e tecniche relative alla consistenza del 

bene gestito. Un sistema informativo, infatti, è uno strumento fondamentale per la costruzione 

di un apparato di metodi valutativi che sia basato su metodologie di rilevamento 

dei dati e di analisi e modellazione delle variabili tecniche ed economiche. 

Dato il particolare campo 

di applicazione del database 

in oggetto, di fondamentale 

importanza è che sia 

possibile accedere alla 

banca dati a due livelli differenti: 

da una parte a livello 

alfanumerico, dall’altra 

a livello grafico. I due 

quadri descrittivi devono 

essere in diretta relazione 

2 Il SIPE: la visualizzazione delle 

planimetrie.

Paolo Giandebiaggi, Chiara Vernizzi 

fra loro e quindi, indipendentemente dal fatto che la modellazione o le modifiche avvengano 

in un quadro o nell’altro, essi devono essere aggiornati automaticamente e 

contemporaneamente in entrambi. 

Nonostante sia possibile trovare sul mercato un sempre maggior numero di softwares, 

che nel corso degli anni diventano sempre più flessibili, la fase di organizzazione 

della banca dati si è configurata come il momento più delicato ed importante. Uno 

dei problemi fondamentali nella gestione di una banca dati di tali dimensioni è infatti 

rappresentato dal pericolo di pretendere l’inserimento di una mole troppo vasta 

di dati differenti, con il rischio di rendere ingestibile il database sia durante la fase di 

implementazione e raccolta delle informazioni, sia durante quella di interrogazione 

del sistema stesso. Innanzitutto sono state stabilite le finalità del progetto, in modo 

tale da determinare quali dovessero essere le informazioni indispensabili ad una prima 

implementazione del sistema. Visto il particolare tipo di patrimonio immobiliare e lo 

scopo fondamentale per il quale è stato costruito il sistema, 

quale unità base della banca dati si è scelto il singolo 

vano, che è divenuto l’unità minima di rilievo su 

cui impostare la raccolta dei dati, attraverso la redazione 

e la compilazione di specifiche schede di rilevamento. Il 

sistema è stato impostato secondo una struttura ad albero 

in cui il vano stesso costituisce il contenitore finale, 

quello da cui scaturiscono automaticamente parte dei dati 

contenuti nei contenitori di livello superiore nella scala 

gerarchica. La struttura ad albero del sistema rende possibile 

il calcolo in automatico di tutta una serie di dati 

dimensionali generati dall’oggetto di base, il vano. 

Forti dell’esperienza maturata attraverso la costruzione 

del SIPE, attraverso diverse convenzioni con enti pubblici 

locali sono stati costruiti altri sistemi informativi, 

concepiti sempre come strumenti per raccogliere, relazionare 

e rappresentare la conoscenza ottenuta su speci- 

3 Il sistema informativo per la 

gestione delle informazioni sulle 

strutture conventuali e monastiche 

all'interno del centro storico 

di Parma: la lettura delle stratificazioni 

storiche. 

169 

3

4 

170 


fici ambiti edilizi o urbani, ancora una volta a partire dal rilievo architettonico o delle 

cortine edilizie degli elementi oggetto di analisi. 

Ogni sistema informativo elaborato è stato ricalibrato tenendo conto delle particolari 

caratteristiche degli elementi indagati e delle finalità operative degli enti committenti 

i diversi studi. 

Il sistema informativo relativo alla documentazione derivante dal rilievo dei sistemi 

complessi monastici e conventuali presenti all’interno del centro storico di Parma è 

stato sviluppato all’interno di un progetto di ricerca interuniversitario (COFIN 2002: 

Il rilievo urbano per “sistemi complessi”: un nuovo protocollo per un sistema informativo 

di documentazione e gestione della città, Coord. Naz.: Prof. Cesare Cundari; 

progetto di ricerca svolta dall’unità operativa dell’Università di Parma: Rilievo urbano 

e documentazione degli organismi conventuali trasformati: da sistema architettonico 

religioso a sistema urbano infrastrutturale, Coord. Unità operativa : Prof. Paolo 

Giandebiaggi) ed ha visto la realizzazione condivisa tra le diverse unità operative coinvolte 

di un sistema denominato SIRPU, volto alla descrizione ed alla gestione del rilievo 

del patrimonio urbano. 

Successivamente, attraverso diverse convenzioni con l’Amministrazione Comunale di 

Parma sono stati costruiti diversi sistemi informativi specifici: uno relativo alla gestione 

della documentazione derivante dall’analisi della periferia storicizzata di Parma, in vista 

di una serie di interventi di forte trasformazione del tessuto urbano mediante lo strumento 

operativo delle STU; un altro sistema informativo relativo alla gestione del patrimonio 

edilizio scolastico, 

cui ha fatto seguito un ulteriore 

sistema informativo, 

strutturato in modo analogo 

al precedente, relativo alla 

gestione dell’intero patrimonio 

edilizio di proprietà 

comunale. 

Ultimo in termini di 

tempo è il sistema infor- 


gestione della documentazione derivante 

dall'analisi per la trasformazione 

della periferia storicizzata 

di Parma.

Paolo Giandebiaggi, Chiara Vernizzi 

mativo legato alla gestione delle analisi derivanti dal rilievo urbano dei principali assi 

commerciali presenti nel centro storico della città di Parma, impostato non più su 

una base grafica planimetrica ma su una base grafico/fotografica relativa alle cortine 

edilizie rilevate a scala urbana. 

Ogni sistema urbano si configura sempre come estremamente complesso e mutevole, 

ed è spesso difficile comprenderne le logiche evolutive, di trasformazione. Lo strumento 

che forse più di tutti si occupa di cercare di comprendere tali logiche e, quindi, 

controllarle è rappresentato dal rilievo urbano. Un eventuale sistema informativo della 

città potrebbe porsi quale complemento dello stesso. Se è vero infatti che fino ad ora 

il rilievo urbano ha vissuto di vita propria, e che un sistema informativo della città 

di una qualche utilità non potrebbe esistere senza il supporto del rilievo stesso, è altrettanto 

vero che questo nuovo mezzo di raccolta dati si configura come una straordinaria 

modalità di conoscenza, in grado di fornire indicazioni che un rilievo urbano 

da solo, per quanto accurato, non potrebbe fornire. 

Attuare una totale sinergia fra rilievo urbano e sistema informativo della città o, meglio, 

mettere quest’ultimo a servizio del rilievo urbano al fine di integrarlo e completarlo, 

potrebbe portare alla creazione di uno strumento univoco in grado di configurarsi 

come supporto dell’attività di razionalizzazione, riorganizzazione e approfondimento 

della conoscenza dei sistemi urbani. Al giorno d’oggi un processo di 

analisi della città condotto attraverso uno strumento così esaustivo, può configurarsi 

come l’unico modo per la 

creazione di un iter procedurale 

che abbia come fine 

principale quello di attuare 

strategie di riqualificazione 

e recupero degli insediamenti 

urbani; uno strumento 

in grado di controllare, 

e quindi indirizzare, le 

trasformazioni della città. 

Al limite è possibile affer- 

5 Il SIPESC: visualizzazione delle 

planimetrie degli edifici scolastici. 

171 

5

6 

172 


mare che uno strumento così concepito potrebbe porsi quale base per ogni intervento 

urbanistico, o addirittura diventare esso stesso uno strumento urbanistico. 

Le diverse tipologie di sistemi informativi messi a punto, legate a diverse caratteristiche 

degli oggetti di volta in volta indagati e soprattutto alle diverse finalità sottese alle 

analisi effettuate, si basano sempre sui rilievi architettonici ed urbani effettuati e si 

configurano sempre e comunque, pur nelle loro diversità specifiche, come strumenti 

di rappresentazione e comunicazione, oltre che di gestione, delle conoscenze acquisite, 

basate, in ogni caso, sulla conoscenza profonda dell’ambito di volta in volta indagato, 

derivante dal rilievo. 


gestione della documentazione derivante 

dal rilievo urbano degli 

assi commerciali del centro storico 

di Parma: la cortina edilizia e la 

schedatura degli elementi dell'arredo 

commerciale.

RAPPRESENTARE LA CONOSCENZA 

PAESAGGI POMPEIANI 

Premessa 

di PAOLO GIORDANO 

evocazione del toponimo Pompei è relazionato direttamente ad una condizione 

L’ di conoscenza apparentemente già data: la sua tragica scomparsa nel lontano 79 

d.C.; la sua ricomparsa settecentesca; la riscoperta ottocentesca legata alla tradizione 

Beaux-Arts; la rivisitazione novecentesca connessa al razionalismo mediterraneo e a 

quello nordico d’oltralpe. Ovvero una conoscenza basata sulla classificazione temporale 

e tipologica di quegli eventi naturali e di quei fatti artificiali che hanno caratterizzato 

la storia di Pompei negli ultimi duemila anni: una conoscenza che, seppur 

fondata su studi e ricerche consistenti, rischia di apparire superficiale ed anedottica 

se non inserita in un quadro di riferimento la cui cornice possa essere rappresentata 

da quella complessa realtà urbano-paesaggistica contemporanea concretizzata dalla compresenza 

di strati archeologici, monumenti religiosi, edifici civici e residenziali, insediamenti 

industriali e strutture agricole provvisionali. Pur senza entrare in una querelle 

epistemologica, all’interno della quale andare a verificare la forma e i limiti dell’attività 

conoscitiva, la rappresentazione della conoscenza 

relazionata ad un caso studio come quello della realtà 

pompeiana contemporanea propone due interessanti possibilità 

di approfondimento: una, in particolare, di tipo 

disciplinare e l’altra, in generale, di carattere interdisciplinare. 

Da una parte una disamina sulle potenzialità della 

Rappresentazione intesa come disciplina colta in grado 

di affrontare tutti quei problemi di misura, classificazione 

e restituzione grafica di quegli specifici beni materiali 

-architettonici e paesaggistici- insistenti su di uno 

specifico territorio antropizzato; dall’altra parte, viceversa, 

una investigazione sulle capacità di una realtà ambientale, 

complessa e delicata, a farsi crogiolo di quei diversi 

valori immateriali che, allo stato attuale, appaiono inespressi 

e non esplicitati nella loro reale potenzialità mo- 

1 Carte d'une parti e du Golfe appelé 

le Cratere tel qu'il devoit etre 

avant l'eruption de 79". Acquerello 

di F. Mazois per Les Ruines de 

Pompéi. 

1

174 

Rappresentare la conoscenza: paesaggi pompeiani 

dificativa, in senso innovativo, non solo dell’immagine ma anche e soprattutto del 

tessuto connettivo dell’intero territorio pompeiano. Conoscere la Rappresentazione 

per Rappresentare la conoscenza: è questa la sintesi problematica di una ricerca che si 

pone l’obbiettivo d’individuare la Pompei contemporanea come città e territorio in 

divenire al fine di valorizzarne la complessa e completa identità dei suoi luoghi, anzi, 

di tutti i suoi luoghi: da quelli archeologici a quelli religiosi, da quelli monumentali 

a quelli industriali, da quelli rurali a quelli infrastrutturali. In tale prospettiva i paesaggi 

pompeiani sono stati analizzati secondo una classificazione tematica capace di 

estrapolare dal mosaico edilizio complessivo -archeologico, storico e contemporaneoalcune 

tessere urbane ritenute emblematiche rispetto alla più vasta conurbazione territoriale 

pompeiana. Una sorta di classificazione conoscitiva elaborata attraverso una 

campagna di rilievo architettonico di tipo urbano ed ambientale ed affrontata nella 

consapevolezza che, come scriveva T.W. Adorno nel lontano 1947, “ la classificazione 

è una condizione della conoscenza, ma non la conoscenza stessa” e che “la conoscenza 

torna a dissolvere la classificazione”. Non solo. La storia di Pompei è ricca di ricostruzioni 

grafiche della città originaria nonché di ridisegni che, nel corso del diciannovesimo 

secolo, hanno coagulato attorno ai ruderi della città sepolta studiosi e progettisti 

che nel, corso del ventesimo secolo, riproporranno, secondo un linguaggio 

moderno, le tipologie pompeiane. In tal senso è possibile riflettere sia sulla lezione 

ereditata dalla Pompei ante 79 d.C. e sia su quella post 79 d.C. 

Pompei ante 79 d.C. ovvero la rappresentazione dell’unitarietà e dell’omogeneità 

perduta 

La scena ambientale della Pompei antica è la rappresentazione geografica ed architettonica 

di un paesaggio classico definito, contemporaneamente, dalla piatta orizzontalità 

dell’antistante golfo partenopeo e dalla geometria tronco-conica del retrostante 

Vesuvio nonchè dalla chiara infrastrutturazione pseudo-ortogonale della sua forma urbis 

caratterizzata da edilizia monumentale e residenziale.

Paolo Giordano 

PLANIMETRIA GENERALE DI POMPEI CON INDIVIDUAZIONE DEGLI AMBITI TEMATICI DI RILEVAMENTO AMBIENTALE 

175

176 


Pompei post 79 d.C. ovvero la rappresentazione dell’unitarieta’ e dell’omogeneita’ 

ritrovata 

L’ordine geografico ed architettonico della Pompei antica, andato perduto per circa 

sedici secoli e mezzo, riemerge dalle ceneri proponendo non solo le spoglie di una 

città sepolta e dimenticata ma anche e soprattutto l’embrione culturale di una nuova 

idea di classicità capace di incidere nel disegno delle nuove realtà urbane ed architettoniche 

del XIX e XX secolo 

Pompei 2009 d.C. ovvero la rappresentazione della frammentarieta’ e dell’eterogeneita’ 

consolidata 

L’abbandono delle città “sedimentarie” -ovvero disegnate e costruite dentro la logica classica 

del tracciato, della tipologia e della morfologia- ha prodotto una costellazione di 

realtà urbane moderne e contemporanee dai limiti indefiniti, diffuse nel territorio, prive 

di memoria e totalmente libere dal passato. Il risultato non è solo la metropoli globalizzata 

ma anche e soprattutto il consumo onnipervasivo del territorio determinato dalla 

crescita incontrollata di città piccole e medie, come Pompei, con relativa cancellazione 

di quelle tracce naturali ed artificiali capaci di rammemorarne l’identità storica. 

Di fronte a tale inquietante scenario si rende necessario un approccio analitico e tematico, 

avente come obbiettivo la difesa e la governance di un territorio così delicato 

come quello caratterizzante, nel suo insieme, il territorio comunale di Pompei. A tal 

fine l’obbiettivo da perseguire è quello di ri-definire un’analisi conoscitiva capace di 

ri-organizzare l’insieme geografico e gli scenari urbani ponendo sullo stesso livello di 

attenzione sia la vasta area archeologica ed il suo perimetro e sia quelle parti di territorio 

riconoscibili per caratterizzazioni tematiche omogenee e coerenti al loro interno. 

La discretizzazione dei diversi sedimenti urbani di Pompei in unità tematiche 

minime, rappresenta un primo passo per affrancarsi dalle, ormai desuete, analisi generaliste 

che contrastano con realtà urbane non più statiche bensì moderatamente dinamiche. 

Le questioni tematiche che seguono sono state individuate come punti di 

attacco per una strategia capace di affrontare la conoscenza, attraverso il rilievo ar-


chitettonico ed ambientale, di alcuni ambiti urbani che, per loro caratteristiche d’identità 

proprie, caratterizzano il territorio pompeiano. Tale approccio grafico-conoscitivo 

è il presupposto legittimo per qualsiasi azione modificativa che si pone come 

obbiettivo la riqualificazione puntuale e diffusa del territorio pompeiano nella sua 

complessa stratificazione e sovrapposizione di aree archeologiche, urbane e rurali. Nello 

specifico i temi generali individuati come altrettante linee-guida per una conoscenza 

approfondita del paesaggio pompeiano attraverso il rilievo dell’architettura e dell’ambiente 

sono stati così classificati: 

_ La realtà pompeiana nella prospettiva dello sviluppo sostenibile del suo territorio e 

del rapporto con il paesaggio, articolato in nuove reti flessibili indicative degli usi e 

delle attività (realtà rurali caratterizzate dalla consistente presenza di serre, sentieri interpoderali 

a vocazione turistica, aree agricole di bordo all’area archeologica, aree urbane 

a margine dell’area archeologica). 

_ La realtà pompeiana dei crocevia funzionali, il rapporto con le infrastrutture e gli 

spazi di interconnessione ( il problema delle aree parcheggio, la questione dello svincolo 

autostradale in prossimità di Porta Marina, terminal trasporti via terra su gomma 

e su ferro). 

_ La realtà pompeiana rappresentata dall’interno del recinto archeologico con un suo 

ambito alternativo per le aree di bordo (aree di ingresso, aree interstiziali di bordo con 

la città e con la campagna, il rapporto con la pineta della villa comunale, il sistema pedonale 

di margine meridionale, affioramenti archeologici in ambito urbano e rurale, 

piattaforme di servizio alle attività commerciali di supporto agli scavi). 

_ La realtà pompeiana della doppia polarità, un doppio apporto di materiali come 

compenetrazione di una natura esterna (i ruderi archeologici e la campagna ) e una 

natura interna (la città reale ed i suoi monumenti) caratterizzato da una mescolanza 

di funzioni. 

_ La realtà pompeiana delle situazioni omogenee (luoghi urbani consolidati, centro 

storico ed emergenze monumentali, cortine edilizie a carattere storico) e delle situazioni 

disomogenee (aree di bordo, luoghi atopici, lacerazioni nel paesaggio naturale 

del lungofiume Sarno, spazi denaturalizzati). 

Tali questioni tematiche si sono condensate in rilievi di ambiti urbani specifici, così suddivisi: 

177

178 POMPEI, RILIEVO 

AMBIENTALE: AMBITO ARCHEOLOGICO URBANO 

Rappresentare la conoscenza: paesaggi pompeiani


179 

POMPEI, RILIEVO AMBIENTALE: AMBITO CENTRO STORICO

180 POMPEI, RILIEVO 

AMBIENTALE: AMBITO FLUVIALE INDUSTRIALE 

Rappresentare la conoscenza: paesaggi pompeiani


181 

POMPEI, RILIEVO AMBIENTALE: AMBITO CIMITERIALE

182 


Ambito rurale_ rilievo ambientale di casale agricolo storico in via Grotta e lungo la 

via Nolana; 

Ambito archeologico urbano_ rilievo ambientale della villa comunale e di Via Plinio; 

Ambito periferico_ rilievo ambientale dell’incrocio di Via Passanti-Scafati; 

Ambito monumentale_ rilievo ambientale del santuario di Pompei e delle quinte urbane 

dell’antistante piazza; 

Ambito centro storico_ rilievo ambientale delle cortine edilizie di Via Roma, Via Plinio, 

Piazza Immacolata, Via Colle San Bartolo; 

Ambito fluviale industriale_ rilievo ambientale del lungofiume Sarno e delle Ex-cartiere 

Ati, cortine edilizie Via Macello. 

Calare la problematica della conoscenza puntuale, attraverso rilievi architettonici ed 

ambientali, dei diversi paesaggi pompeiani in un ragionamento teorico alla grande 

scala territoriale e, operativamente, alla piccola scala degli ambiti tematici suddetti significa, 

innanzitutto, verificare sia la consistenza qualitativa del tessuto edilizio primario 

(i monumenti) e di quello secondario (le residenze) e sia del contesto ambientale 

in cui tali realtà architettoniche sono inserite; significa, inoltre, poter predisporre 

una strategia di governo del territorio valutando a priori il potenziale impatto 

ambientale delle eventuali azioni modificative necessarie ad un riequilibrio qualitativo 

dello stesso; significa, infine, valutare la capacità del rilevamento architettonico ed ambientale 

di proporsi come una potenziale risorsa conoscitiva in grado di ricucire quella 

lacerazione paesaggistica che si è concretizzata tra un passato ideale aulico e rappresentativo 

ed un presente reale eterogeneo e frammentario. La Rappresentazione come 

conoscenza, il Rilievo come deterrenza ed il Disegno come differenza: sono questi i 

nodi concettuali attorno ai quali lavorare per documentare criticamente il passato, per 

graficizzare tematicamente il presente nonché per predisporre eticamente ed esteticamente 

il futuro ad uno scenario paesaggistico migliore di quello rappresentato dalla 

realtà contemporanea.

ARCHITETTURE E PAESAGGIO STORICO NELLA VALLE DI POMPEI 

La ricerca storico-architettonica applicata allo studio del paesaggio può offrire un 

contributo di grande interesse per la ricostruzione dell’assetto di un territorio in 

epoca antica, soprattutto nel caso di una regione caratterizzata da una costante antropizzazione. 

In tal senso l’analisi del territorio di Pompei si è rivelata particolarmente 

complessa, in quanto la tradizione storiografica ha spesso tramandato una storia 

dei luoghi semplicisticamente costruita sul mito della città romana, che ha finito 

per influenzare tutte le successive ricostruzioni filologiche. 

La ricerca in atto, di cui si anticipano i primi risultati, 

ha inteso, invece, restituire la complessità e l’identità 

perduta del territorio attraverso lo studio della 

morfologia dei luoghi e delle architetture, del disegno 

territoriale e delle sue modificazioni condotto su una molteplicità 

di fonti, dalla toponomastica alla letteratura, dalle 

raffigurazioni iconografiche e cartografiche all’analisi delle 

architetture superstiti, per ripercorrere le tappe di una 

storia negata, seppellita dalle ceneri del mito di Roma. 

Le storie correnti sottolineano che dell’antica Pompei si 

era persa nel tempo la memoria dell’esatta posizione topografica. 

Eppure molti indizi, evidenziati già dagli eruditi 

del ‘700 e ‘800, fanno sospettare che sia possibile 

ricostruire una storia parallela dei luoghi, evocata e registrata 

nelle opere letterarie e cartografiche antiche. 

Gaio Svetonio Tranquillo nella vita di Tito, che occupa l’ottavo 

libro del De vita Caesarum, narra che dopo l’eruzione 

l’imperatore Tito organizzò i primi soccorsi, nominando due 

curatores restituendae Campaniae, di rango consolare, con il 

compito di coordinare gli aiuti necessari alla ricostruzione, 

cui vennero destinati i beni delle vittime. 

Quaedam sub eo fortuita ac tristia acciderunt, ut conflagratio Vesevi 

montis in Campania, et incendium Romae per triduum totidemque 

1 Tabula Peutingeriana, Segmentum 

VII, Particolare. 

2 Distribuzione dei beni dell'abbazia 

di San Lorenzo ad Septimum 

dai codici normanni e svevi. Elaborazione 

grafica arch. P. Argenziano. 

di DANILA JACAZZI 

1 

2

184 

Architettura e paesaggio storico nella Valle di Pompei 

noctes, item pestilentia quanta non temere alias. In iis tot adversis ac talibus non modo principis sollicitudinem 

sed et parentis affectum unicum praestitit, nunc consolando per edicta, nunc opitulando quatenus 

suppeteret facultas. Curatores restituendae Campaniae consularium numero sorte duxit; bona oppressorum 

in Vesevo, quorum heredes non exstabant, restitutioni afflictarum civitatum attribuit. Ubis incendio nihil 

nisi sibi publice perisse testatus, cuncta praetorium suorum ornamenta operibus ac templis destinavit praeposuitque 

complures ex equestri ordine, quo quaeque maturius paragerentur. Medendae valitudini leniendisque 

morbis nullam divinam humanamque opem non adhibuit, inquisito omni sacrificiorum remediorumque 

genere 1 . 

Lo stato di Pompei non permise di promuovere il ritorno della popolazione sul luogo; 

la documentazione archeologica ha, però, individuato tracce di una frequentazione del 

sito funzionale a operazioni di spoglio dei rivestimenti dei principali edifici cittadini 2 . 

«Gli edifizi pubblici della Città di Pompei sonosi rinvenuti più spogli che non i privati: in alcuni mancano 

le colonne di marmo, in altri le lastre che dovevano rivestire le pareti ed i pavimenti; mentre gli stucchi, le 

pitture ed i musaici erano al loro posto. Ciò avvenne poiché dopo la memoranda catastrofe gli edifizi pubblici 

non furono obbliati come i privati; e penetrando in essi per mezzo di cunicoli, come dagli scavi si è visto, 

trasportarono a preferenza i marmi, le statue e gli oggetti che reputarono di maggiore interesse. Fa d’uopo 

inoltre tener presente che la città, allorquando venne sepolta, era in uno stato di restauro generale pei sensibili 

danni sofferti nel tremuoto del 63» 3 . 

Le attività dei cantieri destinati al recupero dei materiali di pregio dovettero forse interrompersi 

già nell’80 d.C., quando l’imperatore fu costretto ad occuparsi delle opere 

necessarie alla ricostruzione della città di Roma devastata da un incendio. 

Indubbiamente l’economia della regione ne uscì compromessa; le zone intorno al vulcano, 

anche se risparmiate dai danni più gravi, subirono serie conseguenze economiche. 

Il deposito dei materiali vulcanici sui terreni rese arduo ogni tipo di coltivazione, 

tanto che il commercio dell’intera regione ne risentì in maniera significativa. 

È certo, comunque, che, dopo l’immane catastrofe del 79 d.C., una popolazione cristiana 

dimorò in questa terra occupando prevalentemente la zona Sud, verso il fiume 

Sarno, chiamata Valle. La zona di Portici e Torre del Greco fu ripopolata tra il II e 

IV-V secolo d.C. e quella di Pompei e Ercolano solo tra il III e V secolo. 

Le ricerche storiografiche più recenti tendono ad evidenziare quelle testimonianze let-

Danila Jacazzi 

terarie che narrano degli eventi successivi all’eruzione, della “rinascita” di Pompei, nell’ipotesi 

suggestiva che almeno parte delle rovine della città romana fossero visibili, 

affiorando dal terreno dopo l’evento catastrofico. Ma qual’era l’immagine dei luoghi? 

Quali architetture, successivamente cancellate dal riemergere della città archeologica, 

connotavano il territorio? 

Pompei, secondo alcuni studiosi, perfettamente identificabile nel deserto di cenere, diventò 

una cava 4 ; la città non fu completamente sepolta dai residui vulcanici da cui fuoriuscivano 

le parti più elevate degli edifici, in seguito devastate 

per il recupero di oggetti e materiali da costruzione 5 . 

Frammentari riferimenti al territorio di Pompei riportati 

nelle fonti medioevali hanno indotto gli studiosi ad ipotizzare 

la fondazione di una “novella Pompei”, un pago 

sorto nelle vicinanze della città romana «di cui solo la 

sommità di alcuni edifizi rimase per qualche tempo fuori 

delle ceneri”» 6 . Forse a questa novella Pompei alludeva 

il monaco Martino allorché narrando di Sicardo, principe 

di Benevento nell’anno 838, accennava ad un Pompio 

campo che da Pompeia, città della Campania allora 

deserta, aveva preso il nome: «in Pompio campo qui a 

Pompeia urbe Campanie, nunc deserta nomen accepit» 7 . 

Nelle guide archeologiche dell’Ottocento si sottolinea 

come i Pompeiani rimasti senza patria ebbero ben presto 

a fondarne una seconda non lungi dalla prima. Sorsero 

delle case, sul principio per soli agricoltori, quindi 

si formò un villaggio. Questo continuò a denominarsi 

Pompei e fu abitato per molto tempo, ma in fine altra 

catastrofe, simile a quella che aveva estinta l’antica città, 

fece cessare per sempre anche la nuova 8 . 

A tal proposito il Fiorelli testimonia del ritrovamento di 

fabbriche ed utensili «non lungi da quel sito più verso 

3 Il territorio pompeiano nella 

cartografia aragonese. 

185 

3

4 

186 


il Vesuvio, maggiori per numero di quanto richiedessero i bisogni di una villa, e di 

stile che accenna ad epoca non molto lontana dal primo secolo» 9 . 

Alcuni dati rinvenuti nelle campagne di scavo settecentesche e ottocentesche farebbero 

supporre una frequentazione tra il III e IV secolo dei luoghi dell’antica città di 

Pompei, riportata -nel ricordo della città sepolta- nella coeva Tabula Peutingeriana 10 . 

Strutture medioevali addossate alle mura antiche, al di sopra del livello di ceneri e lapilli, 

vennero individuate durante la costruzione delle fondazioni delle case operaie 

dal prof. Antonio Sogliano, all’epoca Direttore degli scavi 11 . Il cantiere delle case operaie, 

completate nel 1888, diede l’occasione di osservare le costruzioni poste sul piano 

superiore di un opificio di epoca romana, probabilmente una fullonica, che risultarono 

rimaneggiate in epoca successiva all’eruzione del 79 d.C., nonché otto tombe 

scavate nella cenere e alcune monete tra le quali una in rame raffigurante l’imperatore 

Diocleziano (III sec. d.C.) 12 . 

L’inizio di una vera e propria ripresa si ebbe a partire dall’XI secolo, quando è attestata 

l’esistenza di una chiesa intitolata al SS. Salvatore. La nuova comunità religiosa 

dipendeva dall’abbazia benedettina di San Lorenzo d’Aversa, cui era stata donata nel 

1093, data di un diploma normanno che riconosceva al monastero aversano il possesso 

Ecclesiam Sancti Salvatoris de Vallo 13 . 

La fondazione della nuova cella e il trasferimento della proprietà al cenobio aversano 

comportò di certo una nuova organizzazione del territorio soprattutto in riferimento 

allo sfruttamento agricolo 

dei luoghi. Grazie all’opera 

dei benedettini i terreni 

vennero disboscati, rese 

coltivabili le aree in abbandono 

e migliorate le 

colture esistenti. L’originaria 

chiesa di Valle poté, 

così, acquisire il controllo 

di sempre più vaste aree ter- 

4 Carte Geografiche Vaticane, Italia 

antiqua.


ritoriali. In una bolla emanata da Innocenzo III nel 1215 per confermare i confini 

della Diocesi di Nola è ricordata, infatti, l’Ecclesiam S. Salvatoris de Valle cum omnibus 

pertinentiis suis 14 . 

La presenza dei benedettini di Aversa si consolidò con la creazione di nuove comunità 

monastiche legate all’abbazia madre che, attraverso una fitta rete di dipendenze 

rurali, grange e masserie, controllarono ampie zone del territorio pompeiano, favorendone 

la bonifica e lo sfruttamento agricolo, nonché la formazione di borghi e casali 

rurali. La colonizzazione monastica attuata dai benedettini nell’area vesuviana è 

documentata da un diploma del 1323 con il quale l’Abate di San Lorenzo di Aversa 

permutò la chiesa di Valle che distabant non modicum a munasterio supradicto con le 

terre di Bernardo Caracciolo site nelle immediate vicinanze dell’abbazia aversana «bona 

feudalia vicina dicto Monasterio eidem Monasterio utiliora forent», di cui il cenobio 

necessitava per comodum et aumentum del monastero 15 . Nell’atto di permuta sono registrati 

tra i beni in possesso della fondazione aversana nel territorio dell’antica Pompei, 

oltre la chiesa di S. Salvatore, anche il Casale di Valle, la chiesa di Sancte Maria 

de Spelunca, di Sancta Maria ad Jacobi e di Sancta Maria Paterese: 

«Asseruit predictum Monasterium Sancti Laurenti de Aversa habere tenere et possidere quandam Ecclesiam 

vocatam Sanctus Salvator in Valle cum Casali Vallis eiusdem Ecclesie et Ecclesiam Sancte Marie de spelunca 

et Ecclesiam Sancte Marie de ortica que nunc vocatur Sancta Maria ad Iacobum necnon Ecclesiam Sancte 

Marie paterese que site sunt in Monte Vesavo sive in nemore Scafati». 

La presenza di un così vasto 

numero di chiese dipendenti 

dal cenobio aversano 

denota una intensa 

frequentazione del territorio 

da parte di una popolazione 

sicuramente addetta 

allo sfruttamento 

agricolo dei luoghi. Il rife- 

5 Carte Geografiche Vaticane, Italia 

nova. 

187 

5

188 


rimento al Casale di Valle lascia supporre l’esistenza di un addensamento urbano posto 

sotto la giurisdizione della chiesa di S. Salvatore, di cui nella permuta vengono 

delineati i confini e i possedimenti; 

«predictum Casale Vallis cum territorio suo cuius fines sunt hii a parte meridiei est flumen scafati quod dicitur 

dragonetus ab oriente est finis territorium Sancti petri de scafato a parte septemtrionis est via puplica 

qua itur de scafato Neapolim et a parte occidentis est quoddam territorium scafati. Item tenimentum unum 

positum in territorio Graniani iuxta dictum flumen Scafati. Item territorium unum positum prope territorium 

Sancti Petri iuxta flumen predictum et iuxta terras sancti petri de Scafato. Item territoria tria seu tenimenta 

tria posita in predicto nemore Scafati iuxta territoria seu tenimenta castri Octayani et pertinentia 

ipsius». 

Possiamo affermare con certezza, dunque, che tra l’XI e il XIV secolo il paesaggio 

della Valle di Pompei era caratterizzato dalla presenza di casali sparsi e masserie rurali 

governate dalla comunità benedettina. La palude bonificata era circondata dalla 

Sylva Mala, una fitta boscaglia impenetrabile, denominata con tale appellativo dall’imperatore 

Federico II di Svevia che la distaccò dai territori di Ottaviano e la adibì 

a luogo di caccia reale; ai margini il Casale di San Pietro donato da re Carlo I d’Angiò 

all’abbazia di S. Maria di Realvalle da lui fondata. 

La presenza di aggregati urbani, seppur con differenti riferimenti toponomastici, è registrata 

in una delle pergamene di epoca aragonese fatte disegnare, probabilmente, 

dal Pontano 16 . La Carta della Penisola Sorrentina è parte di un sistematico rilevamento, 

eseguito dopo il 1480, che copriva, a differenti scale, tutte le terre del Regno di Napoli, 

dai confini settentrionali alle punte meridionali della Calabria e del Salento 17 . 

La carta non reca né intitolazione, né indicazione dell’autore o della data di esecuzione, 

né leggende esplicative, ma fa parte di una serie di pergamene fatte ricopiare, 

con la tecnica della lucidatura su carta oleata, nel XVIII secolo da Ferdinando Galiani 

a Parigi e inviate a Napoli. 

Nel foglio in esame l’area rappresentata è compresa tra il golfo di Salerno a nord e la 

Punta della Campanella a sud, fino al percorso del Sarno a nord-ovest e Torre Annunziata 

a sud-ovest. Con grande precisione grafica è indicata la linea di costa e la 

denominazione dei vari promontori, mentre l’orografia dei luoghi è completata solo


fino al corso del fiume Sarno. Le indicazioni topografiche sono didascalicamente riportate 

in caratteri aulici gotici. I corsi d’acqua sono delineati con semplici tratti di 

linee parallele. Non sono, invece, riportati dati sulla viabilità, ad eccezione dei ponti 

sui fiumi. Per indicare gli addensamenti urbani nella traduzione grafica vengono usati 

piccoli elementi simbolici che alludono a gruppi di case. Un simbolismo elementare 

fa riferimento alle caratteristiche colturali del territorio: le vaste aree agricole pianeggianti 

sono indicate, quasi per alludere al tracciato dei solchi, con segmenti di retta 

paralleli orientati in senso verticale, orizzontale o obliquo, spesso disegnati in campi 

modulari quadrati delimitati da alberi; una concentrazione di piccoli alberi definisce 

le zone boschive, mentre le montagne sono indicate da sottili linee ondulate. I rilievi 

di maggiore imponenza sono, invece, individuati con una schematica forma piramidale. 

Lungo il corso del fiume Sarno è segnato il casale di San Pietro, più a sud Scafaro 

(Scafati). Ai piedi del Vesuvio compare un addensamento di case in corrispondenza 

del toponimo Aprillio, forse corruzione di Lapillo, termine riferito ai depositi 

di cenere vulcanica. Più a sud in un’ansa del fiume tre piccole case sono indicate con 

il nome Stornia, probabilmente non un riferimento preciso alla denominazione del 

luogo, ma alla sua posizione orografica. Stornio, infatti, era un termine usato nel medioevo 

per indicare un insediamento posto nel vacuo di un meandro fluviale 18 . All’estremità 

della costa, in corrispondenza della foce del Sarno, è segnato, anche se 

privo di una configurazione insulare, il sito di Rebilliano, ricordato con tale toponimo 

anche dal Beloch 19 . 

L’uso di toponimi di origine classica, quali Casale di Lepido e Lucus Lepidi utilizzati 

per gli insediamenti nei pressi del Vesuvio, dimostra la conoscenza delle fonti letterarie 

antiche, in particolare di un passo di Plinio che narra le vicende del triumviro 

Lepido, alloggiato in un bosco, e alcuni versi di Procopio che fanno riferimento al 

fiume Sarno 20 . Ma non va dimenticato che lo stesso Pontano fu autore nel 1496 della 

Lepidina, un’ecloga costruita sul mito dell’origine della città, che trasfigura il tema 

centrale -la celebrazione delle nozze di Partenope col Sebeto- in un vivace affresco di 

Napoli e dei suoi dintorni attraverso la scenografica incarnazione dei luoghi, tra cui 

anche il Vesuvio e il fiume Sarno, in figure allegoriche che partecipano all’evento 21 . 

189

6 

190 

6 Philippe Briet, Campania et 

Samnium Descriptio, Pariis 1649. 


Ma la mancanza di riferimenti, seppur sommari, ai resti della città di Pompei in una 

serie cartografica che, in altri casi, appare molto dettagliata ed accurata nel registrare 

la presenza di antichi siti, lascia supporre che nel XV secolo si era perso il ricordo 

dell’originaria denominazione e configurazione dei luoghi. 

La prima ‘riscoperta’ della città romana avvenne sì in epoca rinascimentale, ma inizialmente 

soprattutto in ambito letterario, quando, attraverso la lettura e l’interpretazione 

umanistica delle opere classiche, si riaccese l’interesse per l’originaria geografia 

dei luoghi e per le scomparse città di Ercolano e Pompei tanto celebrate dagli scrittori 

greci e latini. 

Tra i primi letterati interessati al tema viene segnalato nella storiografia ottocentesca 

Niccolò Perotti: «Molto prima e dagli scrittori e dai dotti si conosceva qual tesoro 

nascondessero sotto di esse le nostre fertilissime vicinanze del Vesuvio. Fin dal XV secolo 

vi era chi se ne occupava, facendovi degli scavi» 22 . Il Perotti (1429 - 1480) celebre 

umanista, arcivescovo di Siponto dal 1458, fu autore della Cornucopia sive linguae 

latinae Commentarii, che, iniziata come commento agli epigrammi di Marziale, 

si trasformò in un vasto repertorio filologico della lingua latina 23 . 

Probabilmente l’interesse per la città sepolta e la conoscenza dei luoghi ormai dimenticati 

nacquero nel Perotti dallo studio della Cosmographia di Claudio Tolomeo, 

di cui possedeva un codice del 1469 (VAT. LAT. 5619) 24 . 

Iacopo Sannazaro, a metà tra la rievocazione classica e l’inventio poetica della favola 

bucolica, nell’Arcadia disegna una rappresentazione del territorio pompeiano che, seppur 

non veritiera, come sostenuto dal Fiorelli, denota pur sempre l’attenzione del 

mondo accademico rinascimentale per la collocazione della città:


«Così ancora sotto il gran Vesevo ti farei sentire li spaventevoli muggiti del gigante Alcioneo; benché questi 

credo gli sentirai, quando ne avvicinaremo al tuo Sebeto. Tempo ben fu che con lor danno tutti i finitimi li 

sentirono, quando con tempestose fiamme con cenere coperse i circonstanti paesi, sì come ancora i sassi liquefatti 

et arsi testificano chiaramente a chi gli vede. Sotto ai quali chi sarà mai che creda che e populi e 

ville e città bilissime siano sepolte? Come veramente vi sono, non solo quelle che da le arse pomici e da la 

mina del monte furon coperte, ma questa che dinanzi ne vedemo, la quale senza alcun dubbio celebre città 

un tempo nei tuoi paesi, chiamata Pompei, et irrigata da le onde del freddissimo Sarno, fu per sùbito terremoto 

inghiottita da la terra, mancandoli credo sotto ai piedi il firmamento ove fundata era. Strana per certo 

et orrenda maniera di morte, le genti vive vedersi in un punto tòrre dal numero de’ vivi! Se non che finalmente 

sempre si arriva ad un termino, né più in là che a la morte si puote andare. E già in queste parole 

eramo ben presso a la città che lei dicea, de la quale e le torri e le case e i teatri e i templi si poteano quasi 

integri discernere» 25 . 

Le descrizioni prodotte dagli umanisti del Rinascimento rivelano, quindi, l’esistenza 

di un intenso dibattito culturale, destinato a durare per lungo tempo, sull’identificazione 

del sito della città sepolta 26 . 

Sulla base dell’interpretazione delle fonti classiche l’antica Pompei è individuata con 

191 

7 Domenico de Rossi, Provincia 

di Terra di Lavoro, 1714. 

7

192 


grande precisione e in polemica con i “dotti” della corte aragonese da Flavio Biondo 

nell’Italia illustrata composta tra il 1448 e il 1458: 

«I scrittori antichi di la di Napoli pongono per lo lito del mare, Pompei, che fu un vico amenissimo, e piacevolissimo 

a Romani. Veggiamo in errore molti dotti, che sono a questa età presso il Re in molta stima, 

perche credeno, che Pompei et Herculaneo fussero là, dove è hora la Torre d’Ottavi; è però noi con un testimonio 

antico dimostreremo, dove fusse Pompei che fu un vico ben lungo, e pieno di bellissime ville, a 

punto dove è hora la Nunziata, e castello ad mare» 27 . 

Sulla scorta del Biondo, Leandro Alberti nella Descrittione di tutta Italia, pubblicata 

a Bologna nel 1550, riporta: 

«ritrovasi vicino al fiume Sarno (che sbocca nel mare) i Pompeij non molti dal monte Vesuvo discosti (come 

dice Plinio) et parimente vicini alla foce di detto fiume, secondo Strabone […] Erano questi Pompeij una 

lunga contrada dalla quale derivavano alquante belle e vaghe contradelle et villette» 28 . 

L’individuazione del sito di Pompei venne definitivamente sancita dall’inserimento 

nella città nell’affresco dell’Italia antiqua nella galleria delle Carte Geografiche in Vaticano 

(1580ca) 29 . Il Danti, utilizzando carte preesistenti e le illustrazioni storiche del 

Biondo e di Leandro Alberti, delineò una precisa configurazione dei luoghi differenziando 

le carte dell’Italia antiqua (fino al VI secolo d.C.) e dell’Italia nova (l’Italia 

della seconda metà del secolo XVI). 

I primi ritrovamenti sulla collina della Civita, sotto la quale giaceva Pompei, risalgono 

all’epoca della costruzione del Canale di Sarno, eseguita sotto la direzione di 

Domenico Fontana tra il 1592 e il 1600, quando la realizzazione dell’acquedotto - 

che «dové attraversare tutta la piana di Pompei per trasportarsi l’acqua sino alla Torre 

[…] e incontrò tempj, case, strade, cripto-portici…. anzi per non rovinare alcuni edificj 

[il conte] fece formar degli scavi sotterranei a foggia di grotte» 30 - permise il rinvenimento 

di parti di edifici e importanti iscrizioni pubbliche 31 . 

La storia ufficiale registra che solo dieci anni dopo le prime indagini nel territorio di 

Ercolano, con il regno borbonico, il 30 marzo del 1748, vennero individuati i resti 

di alcuni edifici pompeiani nel territorio del Quadrivio di Orfeo 32 . La scoperta, nel


1763, dell’iscrizione di T. Suedius Clemens permise il definitivo riconoscimento del 

sito dell’antica Pompei 33 . 

Ma le scoperte archeologiche furono, probabilmente, favorite anche da una nuova 

tensione che modificò l’ideologia dell’antico, di un mercato antiquario nascente e di 

un’élite culturale cosmopolita educata sui modelli dell’antichità 34 . 

A partire dagli inizi del XIX secolo i terreni e le strutture costruite sopra la città romana 

vennero requisite per far posto alle operazioni di scavo che annullarono definitivamente 

ogni traccia delle architetture preesistenti 35 . 

Con particolare spirito critico Julius Beloch nel 1890 intuì ciò che la ricerca forse solo 

oggi riuscirà a provare con dati scientifici quando sostenne che la notizia che Ercolano 

-cui va probabilmente aggiunta anche Pompei- giacesse sepolta sotto la cenere non fosse 

stata in effetti mai dimenticata e che una “buona sorte” aveva voluto che i tesori nascosti 

fossero venuti alla luce solo alla fine della dominazione straniera, evitando il pericolo 

di una massiccia migrazione verso le collezioni di privati e corti forestiere 36 . 

Note 

1 C. SVETONIO, De Vita Caesarum, Libro 8, Vita di Tito; cit. in A. SOLIMENO CIPRIANO, Testimonianze 

letterarie sulle città sepolte dal Vesuvio, in La regione sotterrata dal Vesuvio. Studi e prospettive, 

Atti del Convegno Internazionale, Università degli Studi di Napoli, Napoli 1982, p. 

267; F. PESANDO, M. P. GUIDOBALDI, Pompei, Oplontis, Ercolano, Stabile, Laterza, Roma-Bari 

2006., p. 15. 

2 A tale operazione è stato riferito il mancato rinvenimento di elementi decorativi di pregio negli 

edifici pubblici e nelle piazze. Sull’argomento cfr. H. THEDENAT, Pompéi, I, Paris 1922, pp. 

30-31. 

3 G. SOLARI, E. LEONE, Le rovine di Pompei disegnate e descritte, De Angelis e F., Napoli 1875, 

p. 42. 

4 G. GUADAGNO, Il viaggio di Plinio il Vecchio verso la morte, in Rivista di Studi Pompeiani, VI, 

1993-1994, L’Erma di Bretschneider, Roma 1994, p. 75. 

5 H. THEDÉNAT, Pompé. Histoire-Vie Privée, Librairie Renouard, Paris 1906, pp. 28-29; M. BA- 

193

194 

RATTA, La fatale eruzione vesuviana di Plinio, in «Athenaeum», n.s. IX, 1931, p. 88; A. SOLI- 

MENO CIPRIANO, Testimonianze letterarie, p. 267. 

6 G. FIORELLI, Giornale degli scavi di Pompei, Stamperia della R. Università, Napoli 1861, p. 57. 

7 S. BORGIA, Memorie istoriche della pontificia città di Benevento, parte prima, dalle Stampe del 

Salomoni, Roma 1763, p. 340; G. SOLARI, E. LEONE, op. cit., p. 27. 

8 G. VINCI, Descrizione delle ruine di Pompei, dalla Reale Tipografia della Guerra, Napoli 1835, 

p. 8. 

9 G. FIORELLI, Giornale …cit., Napoli 1861, p. 57. 

10 G. FIORELLI, Descrizione di Pompei, Tipografia Italiana, Napoli 1875, pp. 190-191, riconosce 

nella Domus N. Popidi Prisci un’abitazione riccamente decorata ed «a cagione della sua importanza 

ricercata dopo la catastrofe vesuviana, di che fu rimasto un ricordo nell’epigrafe domus 

pertusa graffita presso il limitare della sua porta». Nel 1861 una “croce potenziata” , databile 

tra il VI e il X secolo d.C. , venne identificata su un muro esterno dell’Anfiteatro da R. 

GARRUCCI, Una croce graffita in Pompei, in La Civiltà Cattolica, XII, 1879, pp. 211-213. Lo 

stesso riferisce di una lucerna nel con caratteri del IV sec. rinvenuta nel 1756. Cfr. R. GAR- 

RUCCI, Questioni pompeiane, Tip. G. Cataneo, Napoli 1853, pp. 69-70.. 

11 M. FRISINI, Le case operaie, in Bartolo Longo ‘urbanista’ a Valle di Pompei 1876-1926, a cura 

di M. IULIANO e S.G. FEDERICO, Esi 2000, pp. 108-109. 

12 Il Rosario e la Nuova Pompei, fasc. del 15 giugno 1887, pp. 356-360; L. PEPE, Memorie storiche 

dell’antica Valle di Pompei, Scuola Tipografica Editrice Bartolo Longo, Valle di Pompei 1887, 

pp. 15-19. 

13 Altra donazione a San Lorenzo dell’ Ecclesiam Sancti Salvatoris de Vallo, riferita al 1087 dal 

Muratori, è in un diploma ritenuto, però, apocrifo dal Di Meo. Sull’argomento cfr. L. PEPE, 

Memorie …cit, p. 23-26. 

14 Ivi, pp. 27-29. 


15 Il testo della permuta è riportato in L. PEPE, Memorie …cit, p. 33-43. 

16 I fogli relativi al Principato Citra erano stati segnalati da V. VALERIO, Immagini del Principato 

dagli Aragonesi ai Borbone, in Tra il Castello e il Mare: l’immagine di Salerno capoluogo del Principato, 

Fausto Fiorentino, Napoli 1994, pp. 56-58, e sono state recentemente oggetto di una 

più dettagliata pubblicazione in F. LA GRECA, V. VALERIO, Paesaggio antico e medioevale nelle 

mappe aragonesi di Giovanni Pontano. Le terre del Principato Citra, Edizioni del Centro di Promozione 

Culturale per il Cilento, Acciaroli 2008. Sulla storia delle pergamene aragonesi cfr. D.


JACAZZI, LA MEMORIA E L’IMMAGINE DEL TERRITORIO NAPOLETANO NELLE PERGAMENE ARAGO- 

NESI, in Architettura nella storia. Scritti in onore di Alfonso Gambardella, a cura di G. CANTONE, 

L. MARCUCCI, E. MANZO, Skira, Milano 2007, vol. I, pp-89-99; D. JACAZZI, Il territorio campano 

in età aragonese, in Pomeriggi rinascimentali. II ciclo, a cura di M. SANTORO, Fabrizio Serra 

editore, Pisa-Roma 2008, pp. 87-98. 

17 Bibliothèque Nationale di Parigi, Cartes et Plans, Ge AA 1305/5. 

18 Nel ferrarese esisteva, ad esempio, una «plebem Sancta Mariae in Stornio quam diruit Flumen 

Padus»; cfr. Bolla di Martino II del 944 riportata in L. A. MURATORI, Antiquitates Italicae medii 

aevi, tomo I, Tipografia Società Palatina, Milano 1738, col. 947. 

19 J. BELOCH, Campanien. Geschichte und Topographie des antiken Neapel und seiner Umgebung, 

Breslau 1890, ed. It, Campania. Storia e topografia della Napoli antica e dei suoi dintorni, a cura 

di C. FERONE e F. PUGLIESE CARATELLI, Bibliopolis, Napoli 1989, p. 285. 

20 F. LA GRECA, Antichità classiche e paesaggio medioevale nelle carte geografiche del Principato Citra 

durate da Giovanni Gioviano Pontano. L’eredità della cartografia romana, in F. LA GRECA, V. 

VALERIO, op.cit., pp. 37-38. Plinio, Nat. Hist., XXXV, 38, 121 narra come il triumviro Lepido, 

alloggiato dai magistrati in una casa fra gli alberi, protestò per il canto degli uccelli che disturbava 

il suo riposo e che, per spaventare gli uccelli, i magistrati ricorsero allo stratagemma di dipingere 

un drago (dragonem) su una striscia di pergamena lunghissima posizionata intorno al 

bosco. A questa testimonianza letteraria si collega l’uso del termine Drakon per indicare il fiume 

Sarno attestato in Procopio, Goth., IV, 35, 7-9. 

21 D. DE ROBERTIS, L’esperienza poetica del Quattrocento, in Storia della Letteratura Italiana. Il 

Quattrocento e l’Ariosto, vol. III, Garzanti, Milano 1966, pp. 662-664. 

22 A. DE IORIO, Notizie sugli scavi di Ercolano, dalla Stamperia Francese , Napoli 1827, p. 13. 

23 G. MERCATI, Per la cronologia della vita e degli scritti di Niccolò Perotti, Arcivescovo di Siponto, 

Biblioteca Apostolica Vaticana, Roma 1925. 

24 A. MARUCCHI, Codici di Niccolò Perotti nella Biblioteca Vaticana, in «Humanistica Lovaniensia. 

Journal of neo-latin Studies», vol. XXXIV, Leuven University Press, 1985, p. 118. 

25 Arcadia, XII; G. FIORELLI, op. cit., p. 58. 

26 C. LENZA, La cultura architettonica e le antichità. Scavi, rilievi, restauri, editoria antiquaria e dibattito 

teorico, estratto da L’architettura dei Borbone di Napoli e Sicilia, a cura di A. GAMBAR- 

DELLA, Esi, Napoli 2000, p. 1. 

27 Roma ristaurata et Italia illustrata di Biondo da Forlì tradotte in buona lingua volgare da Lucio 

195

196 

Fauno, in Venetia, 1542, p. 236. 

28 L. ALBERTI, Descrittione di tutta l’Italia et Isole pertinenti ad essa, appresso Paolo Ugolino, in 

Venetia 1596, p. 186r. 

29 L. LAGO, Imago Mundi et Italiae: la versione del mondo e la scoperta dell’Italia nella cartografia 

antica. La mongolfiera, Trieste 1992; L. GAMBI, A. PINELLI, La Galleria delle Carte Geografiche 

in Vaticano. Franco Cosimo Panini, Modena 1993-1994. 

30 D. ROMANELLI, Viaggio a Pompei a Pesto e di ritorno a Ercolano ed a Pozzuoli, parte prima, 

nella Tipografia di Angelo Trani, Napoli 1817, pp. 14-15. 

31 F. PESANDO, M. P. GUIDOBALDI, op. cit., p. 25. 

32 Cfr. F. ZEVI, La storia degli scavi e della documentazione, in Pompei 1748- 1980. I tempi della 

documentazione, Multigrafica Editrice, Roma 1981, pp. 11-21. 

33 F. PESANDO, M. P. GUIDOBALDI, op. cit., p. 25. 

34 A. OTTANI CAVINA, Il Settecento e l’antico, in Storia dell’arte italiana, parte seconda, volume se- 

condo, pp. 600-603. 

35 S. ADAMO MUSCETTOLA, Problemi di tutela a Pompei nell’Ottocento: il fallimento del progetto di 

esproprio murattiano, in Pompei Scienza e Società. 250° Anniversario degli Scavi di Pompei, Atti 

del Convegno Internazionale, Napoli 25-27 novembre 1998, a cura di P. G. GUZZO, Electa, 

Milano 2001, pp. 29-49. 

36 JULIUS BELOCH, op. cit., p. 259. 

Architettura e paesaggio storico nella Valle di Pompei

L'APPROCCIO MODELLISTICO NELLA RAPPRESENTAZIONE 

DELLA COMPLESSITÀ IN AMBITO ECOLOGICO 

Complessità e approccio sistemico 

di GIULIANA LAURO, RAFFAELA DE MARTINO 

Fin dalle origini della civiltà gli esseri umani hanno cercato di rappresentare attraverso 

modelli la conoscenza della realtà. L’arte e la scienza hanno da sempre avuto 

il compito di comunicare questa conoscenza. Alla base della nascita e dello sviluppo 

dell’attività scientifica c’è l’esigenza di costruire modelli semplici che possano spiegare 

e riprodurre i fenomeni naturali. La ricerca di una rappresentazione semplice 

della realtà ha prodotto come conseguenza, in tutti i campi della conoscenza scientifica, 

enormi progressi con ricadute positive su tutti i settori della società. L’approccio 

Galileiano allo studio della Fisica, in cui l’esperimento costituisce il momento fondante 

nella verifica dell’apparato teorico che modella il fenomeno naturale, si basa 

sulla scomposizione di fenomeni, pur complessi, in elementi semplici. La legge di caduta 

dei gravi, ad esempio, è stata formulata con l’ausilio sperimentale della variazione 

di pochi parametri quali il peso o l’altezza da cui veniva lasciato cadere l’oggetto. 

Questa metodologia è caratterizzata dalla tendenza a ricercare elementi semplici 

mediante la scomposizione dei sistemi in parti indipendenti. Già con Newton 

si comincia a vedere il concetto di interdipendenza: Newton, come è noto, formulò 

la legge di gravitazione universale in termini di attrazione 

reciproca tra corpi, in cui nessun corpo è indipendente 

da un altro; l’influenza non può che essere reciproca, 

interdipendente. In epoca moderna ci si sta rendendo 

conto sempre di più delle limitazioni imposte dall’approccio 

riduzionista, in particolar modo quando si 

ha a che fare con sistemi complessi, sistemi per i quali 

non è possibile utilizzare semplificazioni, anche concettuali, 

in grado di ricondurre il fenomeno in esame ad 

un modello semplice. 

I sistemi complessi sono sistemi composti da parti tra 

loro interagenti in modo non lineare. Le parti del sistema 

mostrano capacità auto-organizzative che danno 

1 DNA nel sistema complesso"cellula". 

1

198 

L'approccio modellistico nella rappresentazione della complessità in ambito ecologico 

luogo a comportamenti globali caratterizzati da proprietà che possono essere completamente 

estranee agli elementi del sistema nella sua configurazione iniziale (proprietà 

emergenti). La cellula, ad esempio, può essere considerata un sistema complesso: 

tutti i componenti cellulari ovvero, il nucleo, il nucleolo e gli organuli cellulari 

sono in continua comunicazione tra loro, scambiano continuamente informazioni, 

materiali, energia. Il DNA del nucleo di una cellula conserva l’informazione 

genetica ed è responsabile dell’autoreplicazione. La vita è in questo continuo fluire, 

in tutte le direzioni, di informazioni, è l’informazione che permette la dinamica delle 

attività e dei continui aggiustamenti degli equilibri interni alla cellula e di quelli tra 

la cellula l’ambiente, ovvero del sistema più ampio che la contiene. 

Una città può essere considerata un sistema complesso: se guardiamo la pianta di 

una città con gli occhi della complessità riconosciamo in essa il “sistema urbano”. 

Strade, vie, vicoli, piazze, ponti collegano le diverse parti della città. La città emerge 

come realtà “complessa”, “tessuta insieme”, che è poi il significato etimologico della 

parola latina “complexus”. Le città nascono e si sviluppano in funzione della possibilità 

creatrice di stabilire e sviluppare un sistema efficiente di scambi, flussi, relazioni. 

È interessante notare che un sistema complesso sia nel contempo qualcosa di più e 

qualcosa di meno di quella che potrebbe venir definita come la somma delle sue parti. 

Il metodo meccanicistico-riduzionista vede la realtà fenomenica come un insieme di 

rapporti lineari tra cause ed effetti, distinguendo nettamente le prime dai secondi. Il 

concetto di “sistema”, al contrario, nasce proprio dal riconoscimento della interdipendenza 

globale: essa non segue percorsi di tipo lineare ma dà vita piuttosto ad un 

processo circolare in cui il mutamento della parte modifica il sistema globale che a 

sua volta rimodifica (feedback) la parte, fino a che il sistema non si stabilizza, grazie 

ai meccanismi omeostatici di cui è dotato. L’approccio sistemico conduce ad una visione 

della realtà assai diversa da quella del modello meccanicista-riduzionista, con un mondo assai 

più ricco, ma anche più difficile da gestire. Si ribadisce che scopo della scienza è quello 

di approssimare sempre meglio la descrizione della realtà, ma se tale realtà è evidentemente 

complessa è inevitabile affrontarne lo studio con un approccio sistemico che riconosce pienamente 

tale caratteristica senza operare eccessive e limitanti semplificazioni.

Giuliana Lauro, Raffaela De Martino 

Ecosistema e Ambiente 

In ambito territoriale l’ecosistema e il paesaggio sono i modelli scientifici attualmente 

più in uso per studiare l’ambiente, entrambi ispirati a paradigmi sistemici e complessi 

che integrano elementi fisici e biologici con i fattori umani, compresi quelli economici 

e socioculturali. 

Qualsiasi programma che tende oggi a salvaguardare o ripristinare sistemi ambientali, 

adotta modelli interpretativi complessi, gerarchici, multidimensionali, e mira a 

conoscere e modellare organizzazioni, processi e interazioni. 

Oggi l’ambiente è concepito come il contesto sistemico di cui anche la specie umana 

è parte integrante e all’interno del quale avvengono scambi di materia, energia e informazione 

tra viventi ed elementi fisici. Proprietà emergenti, complessità, meccanismi 

di feedback, autoregolazione e autorganizzazione, gerarchia, sono gli elementi attraverso 

i quali interpretiamo i sistemi ambientali. 

Un’efficace difesa ambientale, oggi, comporta sia la necessità di promuovere nuovi 

strumenti di piano, capaci di integrare e armonizzare lo sviluppo delle società umane 

con la tutela della stabilità ecologica, sia l’obbligo di ampliare la concezione stessa di 

ambiente. 

Quest’ultimo non deve essere identificato esclusivamente con le caratteristiche di alcune 

sue componenti fisiche (aria, acqua, suolo, ...) o, in termini ancor più riduttivi, 

con le loro patologie, ma, secondo un approccio olistico, deve aprirsi a considerare 

l’ambiente stesso come sistema complesso ed eterogeneo, dinamico ed evolvente. Tale 

sistema è definito dalla combinazione di unità paesistiche differenti per struttura e 

funzione, correlate da scambi di materia ed energia biologica, immagazzinata nei composti 

organici (Ingegnoli, 1993; Ingegnoli & Forman, 2002). 

È questa una concezione che trova largo riscontro nei principi teorici e nei 

metodi operativi dell’”Ecologia del Paesaggio” (Landscape Ecology). 

Tale disciplina, attraverso un ripensamento critico dei paradigmi della 

conservazione e della salvaguardia ambientale, stabilisce che le scelte 

pianificatorie non possano essere genericamente condizionate dalle 

2 Organizzazione gerarchica della 

vita sul pianeta. 

199 

2

200 


caratteristiche ambientali esistenti a livello di unità paesistica, ma debbano essere riferite 

al sistema ambientale, sotteso a un paesaggio, nella sua totalità e complessità, 

individuando le leggi che ne governano il funzionamento. Secondo l’ecologia del paesaggio 

il funzionamento di un sistema ambientale deve essere valutato soprattutto in 

relazione alla sua stabilità ecosistemica, all’interno della quale la biodiversità gioca un 

ruolo fondamentale. 

In quest’ottica, quindi, l’attenzione di chi opera nel campo della pianificazione e gestione 

del territorio deve essere rivolta a mitigare tutti i processi che in qualche misura 

causano la perdita di biodiversità e di stabilità ambientale. Processi tra i quali 

gioca un ruolo non marginale la frammentazione ambientale. L’ecologia del paesaggio 

propone una interessante sintesi della rappresentazione ecologica e di quella geografica 

dell’ambiente: definisce il paesaggio come una entità complessa, un grande 

contenitore di processi distinti di almeno cinque tipi diversi: biologici, ecologici in 

senso stretto, cognitivi, culturali ed economici (Farina, 2004). 

L’ecologia del paesaggio studia questa entità e la propone come possibile modo di 

rappresentare e interpretare l’ambiente: per conoscerlo, infatti, occorre conoscere il 

territorio, la sua geografia, il suo assetto geo-morfologico, la diversità biologica, la cultura 

della gente, le forze economiche in campo, la tecniche di utilizzazione e gestione. 

L’uso dei Sistemi Informativi Territoriali (GIS) costituisce un essenziale supporto a 

questo processo di conoscenza. Quello del paesaggio viene definito “il dominio entro 

il quale l’uomo può ritrovare tutti i processi che lo interessano” (Farina, 2004).


Modello del Grafo. Rete Ecologica 

La rappresentazione della conoscenza di un territorio può, come già detto, avvalersi 

di modelli, costruiti mediante i concetti dell’”Ecologia del Paesaggio”, che tengano 

conto della sua complessità. In quest’ambito, qualsiasi sistema ambientale è costituito 

da un mosaico di paesaggi. Le unità di paesaggio, elementi ben delimitati, si configurano 

come sistemi di ecosistemi, con struttura e funzioni omogenee. Individuare 

tali unità vuol dire selezionare i principali paesaggi di un determinato territorio: paesaggio 

agricolo, fluviale, costiero, collinare, montano oppure, attraverso una classificazione 

rispetto al livello di antropizzazione, paesaggio naturale, seminaturale, rurale, 

urbano, ecc. Queste unità divengono ambiti fondamentali per il controllo ecologico 

delle trasformazioni territoriali. 

L’ecologia del paesaggio utilizza questi ambiti per comprendere ed analizzare i processi 

di trasformazione di un paesaggio e soprattutto per valutare la sua capacità omeostatica, 

ossia la capacità del sistema di resistere a stress esterni (stabilità di resistenza) 

e di recuperare (stabilità di resilienza), pur in presenza di perturbazioni di origine naturale 

e antropica, in un equilibrio di struttura e funzionamento. La possibilità che 

un ecosistema ha di sviluppare una certa stabilità è fortemente legata alla sua biodiversità, 

ossia alla ricchezza delle specie in esso presenti. Se la capacità di recupero del 

sistema diminuisce inizia il degrado e l’ecosistema si trasforma in un altro ecosistema 

a bassa trasformabilità, non più riequilibrabile. 

L’individuazione delle unità di paesaggio non è facile e la loro delimitazione non può 

affidarsi esclusivamente alla composizione ecòtopica del territorio ma deve necessariamente 

tener conto del microclima, della geomorfologia, della vegetazione, dell’uso 

del suolo e soprattutto del gradiente antropico, tutti fattori che influenzano notevolmente 

la struttura paesaggistica. 

Una volta individuate le unità di paesaggio, ed effettuata una prima valutazione qualitativa 

sugli elementi che compongono la struttura e sulle relazioni esistenti tra di 

essi, si procede alla quantificazione delle dinamiche territoriali attraverso gli indici di 

controllo tipici della Landscape Ecology che consentono proprio di “misurare” il livello 

201

3 

202 

3 Grafo ecologico territoriale. 


di organizzazione del sistema ambientale analizzato. 

Bioenergia e connettività sono i fondamentali indici di controllo utilizzati nella valutazione. 

La bioenergia rappresenta la parte statica del sistema ambientale ossia le risorse energetiche 

e materiche in esso presenti. Il valore di bioenergia dipende dalla tipologia 

degli ecòtopi presenti (biopotenzialità territoriale) e dalla forma, permeabilità e biodiversità 

dei biotopi (coefficiente di forma, di permeabilità e di diversità) che compongono 

il mosaico territoriale esaminato. 

La connettività rappresenta invece la parte dinamica del sistema e valuta gli scambi 

funzionali tra unità ambientali adiacenti: a partire da due unità adiacenti il valore di 

connettività dipende dai perimetri delle unità, dal perimetro di contatto tra di esse e


infine dal coefficiente di permeabilità biologica della barriera che le separa. 

Infine attraverso un software GIS (Geographical Information System) i valori “energetici” 

di un territorio (bioenergia e flussi energetici) possono essere visualizzati in un 

Grafo Ecologico. 

L’immagine è un esempio di analisi bio-energetica di un territorio. Ogni unità di paesaggio 

contiene un nodo, il cui diametro è proporzionale al valore di bioenergia calcolata, 

ed è legata alle altre unità da archi, il cui spessore dipende dalla maggiore o 

minore connettività ossia dai flussi di energia scambiati. 

Analisi qualitative e quantitative conducono infine all’evidenziazione delle condizioni 

di equilibrio ottimale per le varie unità, delle esigenze e criticità ambientali, delle possibilità 

di trasformazione. 

Ma questo non è tutto. Infatti il modello fornisce importanti informazioni circa il livello 

di frammentazione del territorio e può suggerire successivamente la necessità di 

attuare interventi di miglioramento ambientale volti alla tutela delle connessioni esistenti, 

alla ricucitura ecosistemica delle aree fortemente compromesse dai processi antropici 

e alla conservazione della biodiversità. Più sinteticamente questo modello può 

fornire una base di partenza per ricerche relative all’individuazione di reti ecologiche 

territoriali. 

Individuare una rete ecologica implica innanzitutto il riconoscimento di quelle realtà 

ambientali che per loro caratteristiche rappresentano risorse fondamentali per sostenere 

l’intero sistema. Ma a questo approccio deve immediatamente seguirne uno di 

tipo biologico/funzionale: è necessario cioè prendere in considerazione, per il territorio 

in esame, le differenze comportamentali di alcune specie prioritarie (specie focali) 

maggiormente soggette a rischio. Le specifiche esigenze 

ecologiche della specie vanno poi relazionate all’uso del 

suolo del paesaggio attraverso un parametro caratteristico: 

l’impedenza, cioè quella grandezza che si oppone alla diffusione 

ed alla colonizzazione delle specie. Le aree contraddistinte 

da valori di impedenza bassi sono da considerarsi 

le aree nucleo (core areas) della rete ecologica specifica 

per la specie considerata. Infine dopo aver sche- 

4 Algoritmo di least cost path. 4 

203

5 

204 

matizzato il territorio come una matrice di celle ognuna delle quali ha un’impedenza, 

il problema dell’individuazione dei corridoi tra le core areas precedentemente identificate 

viene risolto attraverso l’algoritmo di least cost path secondo cui il cammino minimo 

ottimale tra la posizione “A” e la posizione “B” (dove per A e B si intendono 

due generiche aree nucleo) è il percorso sul quale la somma dei valori delle impedenze 

delle celle che lo costituiscono è minima. 

Questa metodologia, che combina tra loro da un lato criteri di ordine paesaggistico/strutturale 

e dall’altro criteri di ordine biologico/funzionale, è stata applicata per 

l’individuazione della Rete Ecologica Regionale dell’Umbria (progetto RERU) che ad 

oggi rappresenta la prima esperienza conclusa in Italia che riguardi un intero distretto 

amministrativo regionale, e che si è prefissata l’obiettivo di integrare gli aspetti legati 

alla stabilità ecosistemica sia nei processi delle trasformazioni dei suoli che nelle attività 

di gestione del territorio. 

Conclusioni 


L’approccio sistemico non va considerato come una “disciplina”, ma come una metodologia, 

che permette di collegare e di organizzare le nostre informazioni per ottenere 

maggiore efficacia nello studio e nella rappresentazione della conoscenza di sistemi 

complessi. 

La disciplina dell’”Ecologia del Paesaggio” nasce dall’applicazione di tale approccio 

allo studio del paesaggio dando luogo all’integrazione dei concetti 

e dei metodi dell’ecologia con le peculiarità dell’azione antropica. 

In tale disciplina vengono applicati i paradigmi della complessità e delle 

gerarchie, si studiano le organizzazioni e le proprietà emergenti quali 

stabilità e resilienza. 

Il paesaggio rappresenta il livello gerarchico più complesso ed elevato 

della diversità ambientale. I paradigmi sistemici applicati ad esso introducono 

inoltre forme di educazione ad un pensiero che sappia 

riconoscere ed affrontare la complessità, ci abituano a 

5 Disegno complessivo di rete 

ecologica per la Regione Umbria.


guardare la realtà come costituita da parti che sono coinvolte in un dinamico processo 

di integrazione che preserva, però, il riconoscimento della loro piena individualità, 

autonomia e specifica vocazione. 

Forse un modello di mondo inteso come grande organizzazione può essere d’aiuto nel rafforzare il senso di 

rispetto reverenziale nei confronti del vivente, senso che abbiamo quasi completamente perso durante gli ultimi 

e sanguinosi decenni della storia umana (Bertalanffy, 2004). 

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205

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Torino 2008. 

Il Paradigma Sistemico, www.enciclopediaolistica.com.

UNA SOTTILE STRISCIA DI MEDITERRANEO 

Premessa 

di MARIO MANGANARO 

Mi capita di guardare quasi ogni giorno una porzione di Mediterraneo. Il tratto di 

mare è sempre lo stesso e non muta nemmeno il punto di osservazione, ma la 

scena cambia in continuazione al ritmo del volgere del tempo e delle stagioni. 

Innumerevoli variazioni si susseguono nel tratto di mare e nella striscia di cielo che 

lo sovrasta. Il cielo ed il mare sono in stretto rapporto e le variazioni di colore e di 

movimento delle onde si riflettono quasi in uno specchio nella moltitudine di forme 

delle nuvole e di toni del cielo. 

Il vento, la pioggia e qualche volta anche la nebbia, che come candida bambagia s’incunea 

nelle valli parallele alla costa e che i locali chiamano “lupa”, giocano un ruolo, 

che rende ancora più mutevole il tempo. Minori o più difficili da percepire, perché 

più lenti, sono invece i cambiamenti sulla costa, da dove guardo, e su quella di fronte. 

È per l’appunto un tratto speciale di mare, una sorta di collo d’imbuto in curva, dove 

passano navi da trasporto, navi da crociera, pescherecci, yacht, velieri, barche, motoscafi, 

portaerei, dragamine, cacciatorpediniere, ecc. La traiettoria dei natanti non segue 

un percorso rettilineo; si presentano appena scorciati di prua, riprendono lentamente 

la snellezza del profilo, per ritornare poi a stringersi di poppa e svanire verso 

la rocca di Scilla o nascondersi verso la rada di Paradiso. 

Le navi traghetto si distinguono per forma e colore e soprattutto per il loro continuo 

1 Veduta dello Stretto da Papardo. 

1

2 

208 

2 Veduta dello Stretto con veliero. 

Una sottile striscia di Mediterraneo 

andare avanti e indietro da una sponda all’altra. È più raro vedere sagome di delfini 

che saltano o scie di qualche raro branco di capodogli. Altrettanto rara è la vista di 

sottomarini in emersione; di essi si profila sull’acqua una sottile striscia nera appena 

bombata nella zona centrale, da cui emerge il blocco con il periscopio, mentre nella 

schiuma bianca della scia, che si forma dietro, spunta una piccola pinna nera, quasi 

a simulare un grosso pesce meccanico. 

Una secca a poca distanza dalla costa peloritana spesso raccoglie un nutrito numero 

di barche da pesca, che si affollano come mosche attorno ad un grumo di zucchero. 

Durante il periodo della pesca delle costardelle (un pesce azzurro) si sentono dei suoni 

provenire dalle barche. Sono i pescatori che in una fase particolare della pesca con le 

pietre prese sulla spiaggia battono sul legno dello scafo, ottenendo dei suoni, che sembrano 

un ritmo musicale di tamburi africani. 

Nelle belle giornate quando il cielo è terso ed il mare limpido si riflettono le coste 

sull’acqua e lo sguardo si fa attento per cercare di percepire fenomeni di riflessione

Mario Manganaro 

speciali, come quello famoso della “Fata Morgana”. Diversi documenti lo testimoniano, 

ma io non l’ho mai visto. 

Raccontano infatti che in piena estate per un fenomeno di rifrazione dell’aria si rifletta 

per breve tempo sullo specchio dell’acqua una città fantastica e mutevole. 

Intanto mentre continuo a disegnare questa striscia di mare, passano le stagioni e le 

navi sembrano ritornare puntuali, come gli elementi colorati di una giostra. 

Variazioni e permanenze (Cariddi) 

Nella primavera avanzata e durante l’estate sono sempre presenti le motopasserelle per 

la pesca del pesce spada. Fanno avanti e indietro tutto il giorno, eccetto nei periodi 

di tempo cattivo, che rende precario l’assetto dello scafo con la lunga passerella sostenuta 

dagli stralli agganciati al grande albero centrale in traliccio metallico. In quelle 

209 

3 Veduta dello Stretto e di Messina. 

3

4 

210 

4 Veduta dello Stretto dalle alture 

della Calabria. 


rare occasioni si riparano nelle piccole rade della riviera protette da barriere composte 

da numerosi massi cubici di cemento, che hanno sostituito in buona parte i tetrapodi. 

Quando è proprio burrasca scompaiono alla vista rifugiandosi in una zona più 

sicura nei pressi di Capo Rasocolmo. Gli stralli nemmeno si vedono da lontano; solo 

a volte si percepiscono perché luccicano colpiti dagli ultimi raggi del sole al tramonto. 

Nella bella stagione sono più frequenti le grandi navi da crociera, che solcano il Mediterraneo 

e passano lo Stretto per raggiungere le isole greche. Le precedono le veloci 

pilotine della capitaneria, che minuscole rispetto alle mastodontiche navi le conducono 

all’ingresso del porto. 

Anche le barche da diporto aumentano e non è difficile vedere gare di tavole a vela 

o di piccole barche sportive con le vele variopinte che si gonfiano al vento nei pressi 

della sede della lega navale. 

Nel periodo autunnale e invernale passano sempre le solite navi portacontainer e le 

navi traghetto delle ferrovie e delle compagnie private, riconoscibili dalla forma e dal 

colore. Alcune, più grandi delle altre, sono delle navi traghetto di origine svedese o 

danese. Hanno la parte inferiore dello scafo dipinta di un colore verde scuro. Dai 

nomi e dalle carte nautiche esposte nei saloni di coperta si capisce che prima di navigare


nello Stretto di Messina facevano sevizio di traghettamento nello Stretto di Kattegat. 

Ad ore precise si vedono comparire le navi ro-ro con la tozza prua, che fanno la rotta 

Messina Salerno o Catania Salerno e gli aliscafi, compatti e veloci che vanno e vengono 

dalle isole Eolie. 

La superficie del mare, liscia come l’olio o appena increspata durante l’estate prende 

tutti i toni del blu e dell’azzurro, mentre d’inverno quando c’è vento o burrasca, cambia 

colore virando sul verde o grigio piombo e le onde s’innalzano con lingue bianche 

e rotolanti di spuma. In queste occasioni il traffico delle navi diminuisce. 

Quello locale addirittura si ferma se le onde sono molto alte e pericolose per gli scafi 

dei mezzi veloci o delle navi traghetto, mentre qualche nave che proviene da lontano 

preferisce ripararsi temporaneamente nella rada di Paradiso. 

La lingua di terra che divide il mare Ionio dal Tirreno e che si spinge in avanti con 

l’antica fortificazione, segna la punta estrema del Capo Peloro e costituisce insieme 

alla rocca di Scilla una simbolica porta dello Stretto. 

L’abitato di Torre Faro sta su questa lingua di terra tra il mare e i pantani di Ganzirri, 

in cui si è sempre praticata la molluschicoltura. Sono dei luoghi con una vegetazione 

speciale per cui molti uccelli migratori di passaggio si fermano temporanea- 

211 

5 Veduta dello Stretto da Cannitello. 

5

212 

mente, trovando un habitat ideale. In questa striscia di terra pianeggiante vi sono ritagliati 

piccoli appezzamenti di terreno, che gli abitanti ancora in parte coltivano ad 

orti e vigne. 

Un tempo non lontano, a causa del terreno sabbioso, si produceva una qualità pregiata 

di meloni e veniva coltivata la vite, da cui si ricavava un vino doc. Le produzioni, 

che erano contenute, ora si sono ulteriormente ridotte e pare che anche il terreno 

abbia subito una trasformazione, che lo ha reso meno fertile. 

Uno sguardo dalla parte opposta (Scilla) 


Le coste dalla parte di capo Peloro sono basse. La collina sale morbida nella prima 

parte prima di inerpicarsi verso le pendici dei Peloritani. Dall’altra parte la conformazione 

orografica calabrese è diversa. La costa dopo l’abitato di Cannitello diventa 

alta. Gli abitati sul mare, ridotti a strisce lineari, andando verso settentrione scompaiono. 

Basta pensare che fino a Bagnara e Palmi, quando la pesca del pescespada si 

esercitava con il sistema antico (avvistamento dalla feluca e caccia con il luntro), il 

pesce si avvistava da terra. In questo caso faceva le funzioni di avvistatore un pescatore 

appostato su una torretta, costruita sulla sommità della parete rocciosa. 

La linea d’orizzonte quindi dalla parte del continente è più alta. La visione dello Stretto 

appare profondamente diversa, non solo per ampiezza, alla percezione dell’osservatore, 

ma soprattutto per l’altezza della linea d’orizzonte. Si è in presenza di un balcone panoramico 

sullo Stretto. I numerosi forti umbertini, in buona parte abbandonati, dislocati 

in posizioni strategiche per il controllo del ristretto specchio di mare ora diventano 

luoghi privilegiati per ammirare il paesaggio e assumono una valenza percettiva senza 

eguali. Inoltre sono dei grandi contenitori che potrebbero accogliere nuove funzioni all’interno 

di una strategia di promozione integrata del territorio. 

Uno di essi è stato concesso ad una associazione che si occupa di tutela ambientale. 

I giovani volontari che lavorano in quella sede dopo aver provveduto alla pulizia dei 

locali e dei cortili, hanno avuto l’idea di immettere all’interno della struttura dei conigli. 

Gli animali, secondo loro, avrebbero pensato ad eliminare l’erba che cresceva


rigogliosa intorno. I conigli infatti hanno mangiato tutta l’erba all’interno del forte, 

ma nel frattempo si sono moltiplicati a tal punto che i cortili sono pieni di buche 

scavate da loro. Il numero dei conigli ora viene controllato in maniera cruenta dai 

rapaci, che trovano negli animali più piccoli e meno attenti facile preda quotidiana. 

Il panorama, che verso settentrione è chiuso dai promontori collinari di Bagnara e 

Palmi, ha in primo piano la rocca di Scilla, che costituisce un elemento di riconoscimento 

importante; si può considerare una porta dello Stretto. 

Sulla rupe sorge il castello, che domina da una parte l’imboccatura settentrionale dello 

Stretto dall’altra l’abitato, che si snoda da ambedue le parti del promontorio, conservando 

nella parte settentrionale (Chianalea) un rapporto strettissimo tra residenza 

e mare. 

Da forte Stiacci (il forte umbertino situato più in alto) la costa ionica dell’isola si può 

apprezzare bene dalla punta di Capo Peloro fino a capo Taormina a perdita d’occhio. 

La città di Messina sembra lì davanti a due passi con le navi traghetto che entrano 

ed escono dalla falce del porto. 

213 

6 Veduta dell'Etna dai piani di 

Lopa. 

6

214 


Il protendersi della zona collinare quasi fin sulla costa fa si che dalla Calabria si abbia 

una vista della Sicilia più ampia; addirittura la distanza dell’isola sembra più vicina di 

quella reale. Inoltre spostandosi più a meridione sulle alture oltre Reggio Calabria verso 

i Piani di Lopa e arretrandosi dalla costa, lo Stretto non è più percepibile e allora sembra 

che la montagna dell’Etna sia in continuità con la terra di Calabria.

NUOVE TRASVERSALITÀ PER LA RIQUALIFICAZIONE DI POMPEI 

di CARLO ALESSANDRO MANZO 

Negli ultimi anni una parte della ricerca progettuale del dottorato di progettazione 

architettonica e urbana si è applicata allo studio dei processi di costruzione della 

campagna urbanizzata, nella direzione di un maggiore equilibrio tra parti edificate, 

infrastrutture e aree verdi ed agricole. Questi progetti su Pompei aggiungono un altro 

tassello alle elaborazioni rivolte ad approfondire idee e tecniche dell’inserimento 

di interventi qualificanti nelle aree sensibili delle città esistenti, con particolare attenzione 

alla realtà del mezzogiorno. Si tratta di sovrapposizioni, ma anche inserimenti 

e rimodellazioni del suolo che modificano impianti organizzativi e densità, nella consapevolezza 

che anche trasformazioni contenute del preesistente, alterando le forme e 

le condizioni d’uso, introduce sensibili cambiamenti di senso e di carattere nei paesaggi 

urbani. Nella realtà campana il ribaltamento tra spazi interni edificati ed esterni 

a verde è una conseguenza della massiccia edificazione della campagna. Qui, come in 

altre aree metropolitane, molti territori agricoli si trovano ad essere paradossalmente 

delle enclaves delimitate dall’edificato. Condizioni analoghe di ribaltamento si ripresentano 

-a scala più ravvicinata- nei centri urbani, quando giardini e cortili si aprono 

alla città e le cortine edilizie, un tempo nascoste, si trasformano in prospetti urbani 

con un marcato spostamento di caratteri architettonici e d’uso. 

L’interesse scientifico e progettuale per le vicende urbane di Pompei muove dalla singolare 

natura di questa città, (di rifondazione abbastanza recente dopo l’interruzione 

degli antichi fasti romani), oggi fortemente caratterizzata dalla presenza degli scavi e 

del Santuario oltre che da una posizione strategica nel quadro territoriale. Serrata tra 

il Vesuvio, la foce del Sarno e la catena collinare che si innesta nella penisola sorrentina, 

Pompei sembra reclamare 

il potenziamento dei 

nodi infrastrutturali urbani, 

e risposte di ampio 

respiro e di buona sensibilità 

paesistica, per riqualificare 

il sistema ferrovia-autostrada-parcheggicanali- 

1 Progetti per la nuova area mercatale 

di Pompei. Gruppi di ricerca 

diretti da Carlo A. Manzo_Studi 

plani volumetrici F. Colella e M. 

R. Puca. 

1

2 

216 

Nuove trasversalità per la riqualificazione di Pompei 

campagna-siti turistici. 

È noto che gli Scavi di Pompei sono uno siti dei più visitati (oltre 2 milioni e mezzo 

di persone all’anno secondo la Soprintendenza), così come Il Santuario di Pompei è, 

per numero di visitatori, uno dei più importanti santuari mariani d’Europa. Queste 

due fonti di turismo culturale sono tanto importanti quanto diverse ed autonome: 

pochi visitatori dell’antica Pompei vanno a visitare quella nuova con il suo Santuario 

e viceversa. Quindi per le proposte di riqualificazione del sistema turistico-culturaleurbano 

di Pompei sono finalizzate in primo luogo a integrare i due principali poli, 

gli Scavi e il Santuario (ovvero l’antico e il nuovo) -facendo della città una Porta del 

turismo culturale in Campania, decisivo per esplorare i principali itinerari turisticoculturali 

della regione (Area Vesuviana, Napoli-Campi Flegrei, Penisola Sorrentina). 

La rete infrastrutturale che attraversa Pompei, complessa e stratificata nel corso del 

novecento, taglia in due il territorio comunale da ovest ad est, rendendo difficili i collegamenti 

nella direzione nord-sud, tra paesaggio del Vesuvio e paesaggio della Costiera. 

Da qui nasce la necessità di farne elemento di unione e non di divisione tra i 

versanti per trasformare il fondovalle del territorio comunale, tra la linea FS e il Sarno, 

nel luogo delle nuove centralità territoriali, proponendo progetti capaci di tracciare 

nuove trasversalità urbane. Gli obiettivi evidenti di questa strategia di potenziamento 

e riqualificazione delle infrastrutture sono molteplici. 

- Ridistribuzione dei flussi turistici di accesso ai beni culturali e paesistici 

- Incremento delle presenze interessate al turismo culturale connesso alla produzione e 

distribuzione di prodotti artigianali e artistici e un migliore collegamento con le diverse 

produzioni del territorio, 

- Risparmio energetico derivato 

dalla razionalizzazione 

del traffico e incremento 

di produzione energia, 

attraverso nuove utilizzazioni 

dei sistemi fotovoltaici 

ecc. 



dirett da Carlo A. Manzo, gruppo 

A e G. Diana_Vista modello.

Carlo Alessandro Manzo 

Sulla base di queste considerazioni il workshop 1 di progettazione del dottorato, opportunamente 

inquadrato nelle iniziative del Benecon e successivamente integrato da 

esperienze didattiche finalizzate, si è applicato ad un’ampia riqualificazione del sistema 

urbano e infrastrutturale attraverso la riprogettazione di quattro aree significative, corrispondenti 

ad altrettanti problemi del territorio pompeiano. 

1. Nell’area antistante gli scavi, lungo la strada alberata, viene proposta la creazione 

di una grande piattaforma panoramica che nasconde la linea ferroviaria e si apre alla 

vista verso la costiera sorrentina. Il basamento viene ritagliato per accogliere le vecchie 

case esistenti e inciso da tagli che illuminano gli spazi sottostanti, destinati allo 

stazionamento dei pullmann, a laboratrori, a parcheggi e servizi collegati agli scavi archeologici. 

2. L’area localizzata tra il fiume Sarno e la linea l’autostrada Napoli-Salerno, viene ridisegnata 

con l’inserimento di nuove attrezzature e di strutture mercatali integrate nel 

ridisegno del verde urbano, come descritto più avanti. 

3. Per potenziare i collegamenti trasversali rispetto alla fascia infrastrutturale esistente, 

viene proposta una linee di funivia elettrica orizzontale a bassa quota, altamente automatizzata, 

a zero emissioni e a basso costo, che colleghino la stazione centrale e la 

piazza del santuario con l’area meridionale delle attrezzature urbane e delle serre. 

4. Un nuovo parco agricolo nell’area ad est degli Scavi archeologici, integrato con attrezzature 

sportive e termali, ricompone in un nuovo grande disegno unitario gli orti, 

i nuovi sistemi irrigui, le serre d’arte e i luoghi per il tempo libero. 

Partendo dalle condizioni 

di ciascuna area il lavoro 

progettuale ha poi cercato 

di tracciare delle lineeguida 

per la rivitalizzazione 

del sistema vivaistico, diffuso 

sull’intero territorio 

comunale. Il sistema di serre 

di Pompei è un’insieme 



dirett da Carlo A. Manzo. Pianta 

e viste tridimensionali. 

217 

3

4 

218 



dirett da Carlo A. Manzo. Percorsi. 


molto parcellizzato di piccolissime aziende agricole, quasi tutte individuali, o a conduzione 

familiare e di dimensioni inferiori a un ettaro, con un basso know-how tecnologico. 

Le diseconomie di scala legate ai trasporti, alla manodopera e soprattutto 

all’ approvvigionamento energetico, stanno assumendo dimensioni tali da far perdere 

competitività alle produzioni locali. Lo studio di prototipi per una serra ad alta efficienza 

energetica e a forte comunicabilità estetica, risponde a queste esigenze, utilizzando 

le potenzialità produttive industriali presenti nel territorio. 

Le proposte per l’area mercatale hanno tenuto in considerazione le esigenze espresse 

dall’amministrazione comunale di Pompei per sistemare in una soluzione unitaria i 

problemi irrisolti di questa zona complessa: gli spazi del mercato settimanale all’aperto, 

uniti a un mercato coperto cittadino, la sistemazione delle aree verdi produttive 

e ricreative, il contorno delle serre e di alcuni frammenti di zone archeologiche 

da rivitalizzare. 

L’area nel suo complesso è delimitata da una serie di elementi naturali ormai “addomesticati” 

e dai forti segni orizzontali delle infrastrutture che la isolano dal contesto. 

Il Sarno a sud, il canale Bottaro e l’autostrada Salerno-Reggio Calabria a nord, la linea 

ferroviaria ad ovest, rendono difficili i collegamenti con le aree circostanti. All’area 

si accede mediante un serie di sottopassi o sovrappassi collegati con un sistema 

stradine e di percorsi secondari di campagna a servizio delle case rurali e delle serre. 

Il tracciato dei lotti agricoli, a differenza delle infrastrutture, ha un disegno di accentuata 

verticalità mentre l’isola residenziale ad est, edificato da case a schiera e da 

edilizia economica e popolare, riprende alcune giaciture di antichi tracciati. 

La scelta fondamentale è quella di potenziale connessioni nord-sud mediante l’aper-

Carlo Alessandro Manzo 

tura di visuali e di nuovi collegamenti: sia i sottopassaggi dell’autostrada, sia i nuovi 

ponti di l’attraversamento del Sarno, hanno infatti il primario obiettivo di allacciare 

l’area alla fascia a sud del fiume. Sono state individuate sub-aree di intervento, compatibili 

con le preesistenze e con le vocazioni del territorio: l’area da destinare ai mercati; 

il parco agricolo-fluviale a ridosso del fiume Sarno con gli orti urbani e il mercato 

settimanale; l’area interclusa tra gli isolati residenziali diventa lo spazio pubblico 

delle attrezzature urbane e di quartiere; una piccola area archeologica lungo l’autostrada; 

infine il sistema di serre da ad ovest, accanto alla linea ferrata. 

Le soluzioni per la zona mercato sono finalizzate ad un’ampia riqualificazione dell’area 

libera meridionale che si affaccia sul lungofiume del Sarno. Partendo dall’esigenza 

di sistemare il mercato settimanale sulle area di proprietà comunale lungo il Sarno, 

le ipotesi di progetto ridisegna il lungofiume, integrando in una sistemazione unitaria 

le attività commerciali, gli orti urbani produttivi e il verde attrezzato. Gli aspetti 

qualificanti della proposta sono quelli di riconvertire ad un uso collettivo permanente 

per la vita pubblica e per il tempo libero gli spazi usati secondo i ritmi discontinui 

del mercato settimanale, con la creazione di piazze, spazi aperti, percorsi porticati e 

sistemi di muri attrezzati. Di particolare interesse è la proposta di una tipologia innovativa 

di area commerciale verde, che inserisce le nuove funzioni nelle pieghe di un 

suolo ampiamente rimodellato (esposizione e vendita di piante, fiori e vegetali, stand, 

servizi, pannelli fotovoltaici ecc.) per lasciare libera la visuale verso i paesaggi della penisola 

sorrentina. I nuovi ponti sul Sarno, per cui si prevede un risanamento ambientale 

fino ad a renderlo un canale nuovamente navigabile, potenziano i collegamenti 

trasversali rispetto alle principali infrastrutture di Pompei, e conquistano un’altra 

area, a sud, al disegno di un nuovo ampio parco fluviale. 

219

220 

Note 


1 Il workshop del dottorato coordinato da Carlo A. Manzo è stato curato da Emanuele Carreri . 

Vi hanno partecipato inoltre i docenti Marino Borrelli, C. Gambardella, Efisio Pitzalis, Massimiliano 

Rendina, e i dottori e dottorandi G.L. Cioffi, A. Santacroce, G. Cinquegrana, F. Colella, 

G. Mascolo, M. R. Puca, con laureandi.

VERSO IL MITO DELLA MEDITERRANEITÀ 

LA DIMENSIONE DOMESTICA DI POMPEI E I VIAGGIATORI SCANDINAVI 

di ELENA MANZO 

Quando l’abate Ferdinando Galiani, Segretario d’Ambasciata del Regno di Napoli 

a Parigi, da qui scrive a Bernardo Tanucci, perorando con fervore l’edizione in 

inglese e francese delle Antichità di Ercolano esposte, sono ormai trascorsi vent’anni 

dalla corrispondenza intercorsa tra il marchese Scipione Maffei e padre Bernardo de 

Rubeis sui recenti ritrovamenti archeologici in area vesuviana e segnatamente a Ercolano1 

. Era il 10 novembre 1747 e quelle “pregevoli anticaglie”, descritte da quest’ultimo 

all’erudito veronese, erano così richieste dal mercato antiquario internazionale da 

essere ormai entrate a far parte del collezionismo artistico privato di autorevoli prelati, 

aristocratici committenti, raffinati intellettuali, facoltosi e influenti personaggi politici, 

arricchendo le più prestigiose residenze europee. Ben presto, a causa della loro difficile 

reperibilità e dei costi elevati, presso le botteghe di artigiani e orafi iniziarono ad essere 

vendute copie di oggetti dissepolti ottimamente riprodotti e di pregevole fattura. 

Rinvenute «accidentalmente cavando pozzi», già in epoche molto lontane dall’avvento 

di Carlo di Borbone, è appena il caso di ricordarlo, la loro ricerca era stata razionalmente 

perseguita, quando questi era salito al trono del Regno di Napoli e, dopo soli 

quattro anni, con scrupolosa sistematicità, con «genj troppo superiori, e comandi 

troppo più sublimi», aveva dato l’avvio alla più intensa e florida campagna archeologica 

dell’intera penisola, sostenuta dall’impegno ufficiale della Corona2 . 

La colossale opera di scavo, infatti, era stata intrapresa non solo investendo un sorprendente 

numero di risorse umane, tecniche, culturali ed economiche, ma con organicità 

di azioni tale da configurarsi come un complesso sistema di iniziative volte 

alla conoscenza, alla conservazione e alla divulgazione 

dei monumenti antichi secondo un programma operativo 

e legislativo senza precedenti3 . Al tempo stesso, l’imponente 

cantiere archeologico offriva continue occasioni 

scientifiche di sperimentare innovativi metodi e tecniche 

di intervento, prelievo, restauro e conservazione sia sui 

reperti prelevati, sia sui manufatti architettonici riportati 

alla luce; pertanto, a fronte dei frequenti limiti rilevati 

dalla storiografia più accreditata, alla base del notevole 

1 Pompei, casa dei Vettii. La domus 

al momento della scoperta nel 

1896 in una foto di repertorio. 

2 C.F. Harsdorff, progetto per la 

Frederiks Church, 1754 (Copenhaghen, 

Kunstakademiets). 

1 

2

3 

222 

Verso il mito della mediterraneità 

sforzo organizzativo, per la prima volta, era emerso un articolato meccanismo di integrazione 

dei saperi e delle competenza scientifiche, sostenuto da un programma assolutamente 

innovativo, che andava maturando in un clima progressista, dove era protagonista 

un governo accentratore, ma aperto e illuminato 4 . 

In realtà, come è noto, la stessa “scoperta” settecentesca di Ercolano era stata preceduta 

da una lunga serie di eventi volti a tal fine, le cui radici si individuano in un 

dibattito teorico avviato già in epoca aragonese, nonché casuali scoperte, come quelle 

avvenute presso la collinetta della Civita (appunto, l’antica Pompei) e a Resina. Anche 

l’inizio della rinomata impresa era stato determinato a seguito di ritrovamenti fortuiti 

e sporadici avvenuti durante la costruzione della reggia di Portici; ma, mentre 

in una prima fase i reperti avevano continuato ad alimentare tanto il collezionismo 

privato, quanto l’antica prassi del reimpiego delle spolia 

-iscrizioni, colonne, cornici- e delle opere scultoree a completamento 

o arredo di architetture, successivamente, dal 

1750, con atteggiamento illuminato, gran parte degli oggetti 

scoperti, organizzati, ordinati e catalogati, furono 

indirizzati alla conservazione, allestendo l’Herculanense 

Museum, una ricchissima galleria in cui confluirono anche 

quelli provenienti da altri cantieri archeologici del 

Mezzogiorno d’Italia. 

L’iniziativa carolina, infatti, al di là di rimarchevoli episodi 

artistici e di lussuose ville suburbane, stava quotidianamente 

dissotterrando un cospicuo corredo di frammenti 

di mosaici, statue, monete, suppellettili, gioielli, 

monili e persino cristalli, dal valore assolutamente non 

trascurabile soprattutto per il significato documentale che 

ciascun elemento ritrovato andava assumendo proprio 

nella singolare congiuntura epocale del volgere verso la 

cultura neoclassica. 

Si era iniziato a scavare a Resina (l’attuale Ercolano) pro- 

3 F. Duban, Terme del Foro di 

Pompei, sezione di due ambienti 

e dettagli, 1823-1828 (da Pompei 

e gli architetti francesi, cit.).

Elena Manzo 

seguendo, è appena il caso di ricordarlo, a Stabia e a Pompei, il cui cantiere, coordinato 

dall’ingegnere spagnolo Joachim de Alcubierre, si era aperto ufficialmente solo 

nel 1748; finché, dopo importanti iniziative a carattere scientifico-documentario e divulgativo- 

vale per tutte, nel 1754, la pubblicazione del Catalogo degli antichi monumenti 

dissotterrati dalla scoperta della città di Ercolano, per ordine della Maestà di Carlo, 

redatto da monsignor Ottavio Antonio Bayardi - il 13 dicembre 1755, per volere del 

re, fu fondata l’Accademia Ercolanese. Affidata alla presidenza del Segretario di Stato 

della Casa Reale Bernardo Tanucci, superando gli iniziali programmi editoriali, tra il 

1757 e il 1792, darà alle stampe Le Antichità di Ercolano esposte…., nei suoi primi 

otto tomi dei quaranta previsti; nonostante ciò, la diffusione dei modelli ercolanensi 

(si ricorda che con il nome di “Ercolano” si raggruppavano anche le scoperte archeologiche 

di Pompei) fu piuttosto lenta, poiché, i volumi dell’enciclopedica opera 

potevano essere donati solo per espressa indicazione del re ad alti dignitari o a elevati 

ranghi dell’aristocrazia 5 . Come è noto, infatti, se un lungo, controverso e gravoso impegno 

editoriale si era proposto di registrare e documentare la colossale impresa, gli 

effettivi intenti del re Borbone erano principalmente celebrativi e dettati dalla sua innata 

propensione al collezionismo e all’antiquaria, per cui la critica storiografica ha 

frequentemente distorto la sua genuina interpretazione e snaturato la profonda carica 

scientifica dell’impresa 6 . A dispetto di ciò, l’inizio della colossale opera de Le Antichità 

esposte non solo si accordava perfettamente allo spirito di catalogazione del secolo, 

mutuandone gli strumenti logici dalle metodologie pertinenti alle discipline naturalistico-antropologiche, 

ma anticipava l’interesse classificatorio 

dell’Illuminismo con sorprendente modernità. 

Di contro, si prospettava come assolutamente inedita e 

rivoluzionaria l’ipotesi avanzata da Scipione Maffei di 

trasformare la ritrovata città di Herculaneum in un museo 

territoriale “a cielo aperto”, il più esteso e completo 

d’Europa. Tuttavia, la modernità della proposta, così precoce 

rispetto alla sensibilità epocale, ancora troppo lontana 

dalla capacità di leggere un singolo episodio archi- 

4 L.A. Winstrup, particolare delle 

Terme del Foro di Pompei, 1849c. 

(Copenhaghen, Kunstakademiets). 

223 

4

224 


tettonico nel suo contesto paesistico e nel suo significato antropico, cioè oltre l’aulicità 

artistica, trovava concreti e insormontabili ostacoli nelle discutibili tecniche adottate 

e nelle controverse opinioni al riguardo. Prima fra tutte quella esplicitamente 

espressa dal più rinomato archeologo del tempo, Johann Joachim Winckelmann, secondo 

cui Ercolano offriva a studiosi e visitatori «una città diroccata e mucchi di pietre», 

giacché la lava aveva coperto sotto uno spesso strato di roccia vulcanica l’intera 

città, lasciando solo «antiche muraglie rovinate» 7 . Un giudizio duramente aspro e assolutamente 

lontano dal valore che dimostrava avere, giorno dopo giorno, il vasto sito 

vesuviano, esteso tra Portici e Resina, Torre dell’Annunciata (Pompei) e Gragnano 

(Stabia), interamente sepolto dalla tragica eruzione del 79 d.C. 

Le considerazioni di Winckelmann, di fatto, avrebbero implicitamente accompagnato 

il lento e progressivo declino della città, a favore di Pompei: rimarcandone la difficoltà 

di scavo, infatti, si era evidenziato come quest’ultima, non coperta dalla consistente coltre 

di lava, ma solo da un manto di cenere e lapilli, avrebbe potuto offrire un repertorio 

integro di più facile accessibilità ed era, quindi, una meta da preferire per coloro che 

«vogliono vedere interamente scoperte le quattro mura di case […] seppellite» 8 . 

Per molti anni, però, l’accesso agli scavi fu consentito solo a pochissime persone, le 

quali, tra l’altro, avevano il preciso divieto di prendere disegni dal vero. Eppure, a dispetto 

dei numerosi decreti reali, che vietavano qualunque forma di riproduzione, la 

fortuna critica delle scoperte in atto, come è noto, stava avendo una divulgazione sorprendente, 

al punto da inserire l’intero scavo vesuviano tra le delle tappe d’obbligo 

negli itinerari del Grand Tour 9 . 

Quando, però, negli ultimi mesi del 1767, l’abate Galiani scrive una delle sue più celebri 

lettere a Bernardo Tanucci - ormai diventato Ministro degli Esteri e della Casa 

Reale borbonica dal 1754 - con grande lungimiranza individua uno di principali 

temi di interessi suscitati dai ritrovamenti ercolanensi sul mercato internazionale della 

produzione dell’oggetto d’arte e di quello domestico. 

A dispetto della ritrosia dimostrata dalla Corte partenopea verso una edizione in inglese 

e francese de Le Antichità di Ercolano esposte, maggiormente accessibile a un vasto 

pubblico e alla vendita dei volumi sul mercato comune, infatti, l’Ambasciatore

Elena Manzo 

del Regno di Napoli a Parigi considerava: «Riguardo alle difficoltà dell’impresa non 

sono d’accordo con V.E. Si è qui stampata l’Enciclopedia, opera di tre milioni e mezzo 

di lire, e le forze di tre soli librai hanno bastato, nonostante che siasi potuta vendere 

tomo a tomo. Ci è librai qui che hanno due milioni di fondi. Ma dice V.E., ci vonno 

duemila compratori, e dove trovarli? Su questo veggo che Ella non è ben al fatto. 

Certamente se si vogliono cercare duemila antiquari e letterati ricchi per lo mondo 

non si trovano; ma l’Ercolano ha un altro uso qui. Tutti gli orefici, biciuttieri, pittori 

di carrozze, di soprapporte, tappezzieri, ornamentisti hanno bisogno di questo libro. 

Sa V.E. che tutto si ha da fare oggi à la greque, che è lo stesso che à Erculanum. Attualmente 

sta facendo farsi questo ambasciator veneto 

una scatola d’oro con vari bassirilievi tirati dalle pitture 

d’Ercolano. Non si fanno più bronzi, intagli, pitture, che 

non si copino dall’Ercolano. Quella pittura di una donna 

che vende amoretti come polli, io l’ho vista ricopiata qui 

in più di dieci casi. Or ciò posto, vede benissimo V.E. 

l’uso e il consumo che si farebbe dell’Ercolano ristampato, 

e i poveri artisti, quando non possono avere l’opera 

intera, piglierebbero rami sciolti e staccati» 10 . 

In tal modo, suggerisce Galiani, mentre era ancora poca 

l’attenzione dedicata alle seduzioni cromatiche offerte dal 

vasto ed eterogeneo repertorio -dai vetri dei pregiati bicchieri, 

ai tasselli dei mosaici o agli affreschi- Le Antichità 

di Ercolano esposte, pubblicate in una edizione meno pregiata, 

avrebbero avuto un riscontro immediato nelle vendite 

e avrebbero offerto una raccolta di modelli senza 

confronti, riproducibili in quantità seriale, altrimenti usati 

come forme archetipe da reinterpretare con un proprio 

individuale e autonomo significato, ma ricche di riferimenti 

culturali 11 . Di fatto, l’abate, che come aveva scritto 

Charles Augustin de Sainte-Beuve «nessuno ha giudicato 

5 F. Duban, Pompei. Mosaico 

della casa Championnet (da Pompei 

e gli architetti francesi, cit.). 

6 G.C. Hilker, Copenhaghen. Decorazioni 

pompeiane nel vestibolo 

dell'Università di Copenhaghen, 

1840 (da H. Raabyemagle, C.M. 

Smidt, cit.). 

225 

5 

6

7 

226 


la Francia meglio […]» di lui, in poche e determinate considerazioni aveva condensato, 

anticipandole, una lunga serie di questioni culturali, economiche e di gusto, le 

quali, come è stato più volte messo in luce dalla storiografia, di lì a poco sarebbero 

state cruciali nel dibattito artistico internazionale 12 . Tra queste, una, in particolare, 

merita nuove riflessioni sulle differenti prospettive con cui, dai diversi Stati europei, 

si guardava alle scoperte archeologiche in atto nel Regno dei Borbone. 

Se, infatti, con concretezza e realismo, Tanucci gli replica un ennesimo rifiuto, rilevando 

quanto l’antiquaria «sia gusto di pochi e che comincia a nauseare», Galiani, 

d’altro canto, con arguzia, specifica come “l’Ercolano” avesse in Europa, ma soprattutto 

in Francia “un altro uso”, giacché, qui, se iniziava ad apparire superato l’interesse 

didascalico verso il ritrovato monumento dell’antichità e, quindi, ancor più quello 

per il valore antiquario del singolo oggetto, di contro, si faceva largo, con discrezione, 

una insolita e inedita curiosità per suppellettili e utensili, che si rivelerà tra i maggiori 

stimoli ad alimentare la tenuta della lezione ercolanese e pompeiana fino al primo 

quarto del XX secolo 13 . In tal senso, le riflessioni dell’abate sulla possibilità della ristampa, 

anche parziale, dei volumi de Le Antichità, vanno ben oltre quell’attenzione 

strettamente economica finora evidenziata dalla critica storiografica. La sua intuitiva 

interpretazione in termini di un fenomeno di tendenza di gusto ampiamente diffuso 

oltre le barriere culturali e sociali, individua con perspicacia sia l’elemento di continuità 

tra Settecento e Novecento, anche quando sarà sancito il superamento dello 

stile neoclassico, sia, soprattutto, un diverso approccio al repertorio di forme offerte, 

al cromatismo e alle tecniche di trattamento dei materiali. Di fatto, se si pensa alle 

lontane industrie ceramiste Wedgwood o a quelle di Capodimonte, 

alla fabbrica Ferniani, alla modernissima Ginori, 

fino all’industria del vetro finlandese, alle interpretazioni 

del minotauro che Picasso elabora pensando alla 

pompeiana Casa del Labirinto e al design delle ceramiche 

di Gio’ Ponti, le fiduciose previsioni di Galiani, dunque, 

si rivelano ben più veritiere delle considerazioni di Tanucci. 

D’altronde, si fondavano sulla diffusa consapevo- 

7 G.C. Hiker e C. Costantin, disegno 

acquerellato per gli affreschi 

del vestibolo dell'Università di 

Copenhaghen. Particolari (da H. 

Raabyemagle, C.M. Smidt, cit.).

Elena Manzo 

lezza che, a dispetto della preziosa reperibilità dell’opera e dei restrittivi divieti reali a riprodurre 

le scoperte degli scavi, Ercolano, Pompei e Stabia erano ormai già inserite tra 

le mete più ambite dai viaggiatori colti, pur restando appannaggio di privilegiati e raffinati 

studiosi fino agli ultimi decenni del Settecento. Tra le prime testimonianze in tal 

senso si devono menzionare alcune scrupolose valutazioni di Cherles de Brosses, registrate 

già nel 1739, quando si era appena aperto il cantiere archeologico e le considerazioni, 

quasi coeve, espresse in forma di lettere dallo scrittore inglese Horace Walpole, 

poi raccolte nell’epistolario pubblicato al termine del suo Grand Tour 14 . 

All’inizio, gli Inglesi e i Francesi furono i maggiori frequentatori del vasto sito archeologico, 

ma i primi assumeranno un ruolo sostanziale nell’investigazione scientifica 

del manufatto architettonico soprattutto negli anni venti del XIX secolo, quando 

si farà strada il dibattito sulla policromia e Pompei sarà indicata tra le principali fonti 

di studio insieme alla Grecia e alla Sicilia 15 . Per gli altri, invece, il soggiorno partenopeo 

-e segnatamente quello nell’intera area vesuviana- era, in parte, un modo per 

approfondire le radici classiche della loro appartenenza mediterranea, la riscoperta di 

paesaggi e luoghi ben più congeniali, con i quali non solo si erano confrontati già in 

epoche remote, ma in cui presto torneranno ufficialmente durante il decennio di occupazione 

ottocentesca, intervenendo da protagonisti nel riassetto dell’organizzazione 

del vastissimo cantiere di scavo 16 . 

La stagione vesuviana francese era stata aperta, tra l’altro, da personaggi dalla caratura 

da Abel-François Poisson de Vandières, marchese di Marigny. Questi, che presto 

sarebbe diventato direttore generale dei Bâtimentes, Arts, Jardins et Manufactures, giunto 

nella nostra Penisola tra il 1749 e il 1751, era accompagnato da Charles Nicolas Cochin, 

Maestro reale di Disegno e Conservatore del Gabinetto dei Disegni e delle 

Stampe di Corte, il quale, al rientro in patria, trascrisse le esperienze italiane in alcuni 

libri di viaggio. Il volume Observations, in particolare, è dedicato al soggiorno 

campano. Strutturato in tre parti e arricchito da un significativo corpus di tavole, in 

cui Cochin riprodusse “a memoria” quanto ebbe modo di vedere presso lo scavo ercolanese, 

il libro è ritenuto il primo e principale veicolo di divulgazione in Francia 

delle opere recuperate dalla lava del Vesuvio 17 . 

227

228 


Al volgere del secolo, per gran parte dei Pensionnaires dell’Académie française a Roma, 

le dissepolte città vesuviane costituivano, ormai, una tappa imprescindibile nei loro itinerari 

di studio, al punto da essere inserita tra i “lavori obbligatori” già dal 1788. Negli 

anni successivi, è registrato un notevole incremento dei viaggi effettuati da studiosi, 

artisti e architetti, dignitari, politici e antiquari francesi, benché esplicitamente critici e 

consapevoli dei disagi di studio determinati non solo dalla già ricordata difficoltà a redigere 

riproduzioni dal vero, ma anche dai continui spostamenti dei reperti rinvenuti. 

Il fascino mostrato all’estero per gli oggetti reperiti, in realtà, era parte di quell’interesse 

scientifico e, al tempo stesso, di profonda seduzione suscitati dal ritrovamento, 

per la prima volta, di ampi brani di città, dissotterrati nella loro interezza del quotidiano 

e immobilizzati, come in una lastra fotografica, nell’intimità della vita domestica 

bruscamente interrotta dal drammatico evento dell’eruzione. D’altra parte, l’unicità 

dell’evento ritrovato alimentava quella curiosità verso la scoperta dell’oggetto 

d’uso comune, che ne dilatava il campo di studio fino all’indagine diretta delle abitudini 

e dei costumi di civiltà del mondo antico, conosciute solo attraverso il linguaggio 

colto e raffinato di resti e rovine di monumenti. L’aulica cultura del Mediterraneo, 

qui, infatti, interagiva con il quotidiano, perdendo la sua aurea astrazione 

per prepararsi a esprimere con antiretorica comunicatività le complesse implicazioni 

culturali del secolo successivo. 

Nel 1754, mentre si dava alle stampe il Catalogo degli antichi monumenti dissotterrati 

e si era iniziato a pensare alla pubblicazione dei primi volumi de Le Antichità, era 

stato ripreso anche il cantiere archeologico di Pompei, sebbene, qui, il primo scavo 

fosse stato già avviato il 23 marzo 1748, quando si era ritenuto di aver individuato 

le tracce dell’antica Stabia, per poi essere subito interrotto. 

Pompei, dopo la lunga pausa dei lavori a vantaggio della vicina Ercolano, dove per 

procedere, però, si doveva «[…] rompere e portar via tutta la lava e la terra impietrita», 

negli ultimi decenni del Settecento, si preparava a offuscare la risonanza di Ercolano 

all’estero 18 . 

Le costanti difficoltà di procedere con i lavori di sbancamento del tenace spessore di 

lava, come aveva preannunciato Winckelmann, infatti, contribuiranno non poco a 

rallentare il mito delle “antichità ercolanensi” fino a dare un impulso inaspettato a

Elena Manzo 

Pompei, che, giorno dopo giorno, offriva un repertorio documentario senza precedenti, 

rivelando usi e abitudini del quotidiano, contrapponendo il privato al pubblico 

e affiancando semplici consuetudini dei cittadini ai lussuosi costumi patrizi. Una preziosissima 

fonte di informazioni, dunque, che era rimasta pressoché ignota fino ad 

allora -come sottolinerà Raoul-Rochette nel 1828- ma che stava diventando con rapidità, 

la principale meta della tappa vesuviana del Grand Tour, grazie all’integrità 

delle sue case 19 . 

Nonostante ciò, fino agli ultimi decenni del XVIII secolo, il valore delle architetture 

di Pompei e l’ampiezza della città fu, però, poco percepita dai francesi, se si pensa 

che il cantiere aveva ripreso i lavori da oltre un decennio, quando, nel 1765, l’astronomo 

francese Joseph-Jérôme Lefrançais de Lalande scrive: «[…] questi scavi sono 

cominciati nel 1755, ma vi si è messa a lavorare poca gente e l’area scavata è poca 

cosa» e, nel 1776, François de Paule Latapie, discepolo di Montesquieu, si trova al 

cospetto di un sito ancora in gran parte coperto da «un terreno piantato di vigne sostenute 

da alti pioppi e seminato a lupini che qui servono per l’alimentazione dei 

buoi» 20 . Tuttavia, con maggiore consapevolezza critica, questi, considera «[…] che la 

grande causa di distruzione della parte superiore di tutte le case di Pompei è la coltivazione 

del terreno che le ricopre. I contadini […] hanno distrutto con la vanga e 

qualche volta con la zappa quanto hanno trovato delle costruzioni che facevano resistenza 

e si sono serviti in 

seguito delle pietre, sia per 

costruire delle case sia per 

separare le loro proprietà 

con muri a secco […]. 

Senza tutto questo si ha 

l’impressione che la città di 

Pompei sarebbe stata ritrovata 

in uno stato di perfetta 

conservazione» 21 . 

Se analoghe considerazioni 

possono estendersi ai viag- 

8 C.O. Zeuthen, La corte principale 

del Museo Thorvaldsen, 1847, 

litografia acquerellata (da H. 

Raabyemagle, C.M. Smidt, cit.). 

229 

8

9 

230 


giatori inglesi e d’Oltralpe, tema, per altro, ampiamente analizzato dalla storiografia, soprattutto 

per quanto concerne l’Ottocento e il Novecento, ben diverso è il rapporto artistico 

e intellettuale intercorso tra le dissepolte città vesuviane e gli scandinavi 22 . La questione, 

infatti, è in gran parte da ridefinire non tanto per l’essenza della sua spinta propulsiva 

o per i presupposti culturali, ma piuttosto per l’ambito cronologico da anticipare 

di oltre un quarto di secolo, specialmente per i Danesi, di cui va considerato lo 

stretto legame culturale con la Francia del Settecento. 

Da un’indagine più dettagliata al riguardo, infatti, sono emersi primi dati che documentano 

come, a dispetto di quanto è stato finora asserito, già dalla seconda metà 

del Settecento siano sempre più numerosi coloro che vengono in Italia per compiere 

esperienze dirette con l’antico. Vale per tutti ad esempio il viaggio, ancora inedito, 

compiuto da Christian Frederik Hansen, tra il 1783 e il 1784, quando, giovanissimo, 

vinse presso l’Accademia di Belle Arti di Copenhagen una Borsa di studio per recarsi 

in Italia. Questi, al rientro in patria, diventerà il protagonista indiscusso del Neoclassicismo 

danese 23 . 

Durante questi anni, con una rapidità sorprendente, le scoperte archeologiche napoletane 

entreranno a far parte di un vero e proprio lessico decorativo e troveranno la 

loro più completa applicazione sia nei registri parietali, sia negli arredi degli interni e 

negli oggetti d’uso non solo di rappresentativi edifici pubblici, ma anche delle case 

scandinave, come dimostrano i numerosissimi disegni e taccuini di viaggio rinvenuti 

presso gli archivi danesi. 

Il passaggio a Pompei, ancor più degli impegnativi viaggi in Grecia, influenzerà in modo 

pregnante non solo il nuovo orientamento del settore decorativo, 

ma piuttosto quello della produzione e l’intera 

cultura scandinava, diventando l’espressione del gusto della 

borghesia del primo Novecento, che non esiterà a conformare 

i propri ambienti interni al nuovo linguaggio. Ne 

sono un esempio i disegni di G.C. Hilker e Costantin 

Hansen per l’ingresso principale dell’Università di Copenhaghen 

(1840), gli schizzi acquarellati di G. Binde- 

9 H.E. Freud, Copenhagen, pannelli 

murari negli interni di Materialgåde 

sul Frederiksholms Kanal, 

1830-'35 (da H. Raabyemagle, 

C.M. Smidt, cit.).

Elena Manzo 

sbøll o di C.O. Zeuthenper il Museo Thorvaldsen, gli interni realizzati da C.F. Hardorff 

per il Palazzo reale di Fredensborg, ma anche alcuni ambienti domestici costruiti 

da H.E. Freund sul Frederiksholm Kanal della capitale o, in perfetto stile pompeiano, 

gli appartamenti decorati da Hilker per alcune case sulla Vestergade 24 . 

Dai primi decenni dell’Ottocento, in particolare, l’archeologia si appropria delle caratterizzazioni 

del suo specifico disciplinare, intensificando le campagne di scavi, ma 

offrirà all’architettura un più vasto repertorio da cui attingere nuovi modelli e tipi 

edilizi. Pompei, più delle altre città dissepolte, suggerisce infiniti spunti di ispirazione, 

di confronto e di esperienze, nonché offre la possibilità di partecipare personalmente 

alle campagne di scavi e, come si è detto in precedenza, diventa la fonte imprescindibile 

nel dibattito sulla policromia, iniziato intorno al 1820, alimentando gli studi 

sul colore dell’architettura antica, ma anche una nuova sensibilità coloristica e un 

nuovo modo di sentire il paesaggio 25 . 

Il rapporto tra arte, architettura e archeologia diventa sempre più stretto: con sofisticate 

tecniche grafiche si rappresentano i capolavori studiati, pazientemente rilevati e ridisegnati 

ovvero reinterpretati con veloci e raffinati schizzi. L’aulica sintassi della magnificenza 

di una Roma imperiale e la raffinata grammatica di Atene, così, cedono il passo 

al linguaggio intimo e domestico dalla domus vesuviana, in cui, presto, si rifletteranno 

le nuove dinamiche culturali della mediterraneità. Qui, tra la moltitudine di stimoli sollecitati 

dalle scoperte archeologiche vesuviane, agli Scandinavi sembra avere individuato 

un valore in più, poiché per loro, maggiormente che per i Francesi, «lo studio dell’abitazione 

non si compendia in un problema di vocabolario tecnico, ma investe il problema 

della vita quotidiana. La prima cosa che colpisce i 

visitatori sono le piccole dimensioni degli alloggi […]. 

Un’altra caratteristica lascia sorpresi […] cioè la mancanza 

del confort», ma sono soprattutto i brillanti contrasti cromatici 

degli affreschi, la disposizione degli ambienti interni 

alla casa e il ricorrente uso del cortile interno a sollecitare 

studi architettonici fino allora inediti 26 . 

Tuttavia, dopo la seconda metà dell’Ottocento e, in par- 

10 G.C. Hilker, Copenhaghen. Decorazioni 

pompeiane in un appartamento 

sulla Vestergade (da H. 

Raabyemagle, C.M. Smidt, cit.). 

231 

10

232 

ticolare dal 1864, anno in cui Thomas Cook organizza il primo viaggio collettivo in 

Italia e quello individuale, “compiuto da una stretta elité è affiancato è ufficialmente affiancato 

dal turismo organizzato, condiviso da larghi strati della borghesia”, Pompei entra 

in un nuovo differente circuito di visitatori, già alimentato dalla fermata ferroviaria 

“Pompei Scavi” di epoca borbonica, ma incrementato nel 1884 dalla diramazione al 

Santuario e, infine, dalla Stazione della Circumvesuviana, costruita nel 1905. 

BIBLIOTECA UNIVERSITARIA DI GENOVA 


193. COCHIN, Charles Nicolas (Parigi 1715 - 1790) 

Observations sur les antiquités d’Herculanum; avec quelques réflexions sur la peinture & la sculpture 

des anciens; & une courte description de plusieurs antiquités des environs de Naples. Par 

MM. Cochin & Bellicard. Second édition. 

A Paris, chez Ch. Ant. Jombert, 1757. 

XXXXI, 84 p., 4 0 tav. [ma 41], 8°. 

La tav. 29 è numerata due volte . Alcune tav. sono firmate: Bellicard fec. Altre ill. sono di N. Cochin. 

Dedica al marchese di Marigny; Avertissement; Recherches historiques sur Herculaneum; Table de sections 

et de articles. Privilège du roi. 

Durante un via ggio in Italia nel 1749-51 a seguito del giovane marchese de Marigny, fratello di 

madame Pompadour, Charles N icolas Cochin, maestro di disegno alla corte parigina e conservatore 

del Gabinetto dei disegni e delle stampe del re, poté osservare da vicino i ritrovamenti di 

Ercolano. Tornato in Francia, ne trasse materia per alcune pubblicazioni, fra cui quest e Observations. 

Uscito nel 1755 con un discreto corredo di tavole , questo libretto fu il primo a diffondere 

immagini d elle antichità ercolanesi, disegnate ‘a memori a’ dai due autori a causa de i divieti imposti 

dalle autorità borboniche. L’opera è articolata in tre parti. Nella prima parte ( preceduta da 

una prefazione sulla storia di Ercolano e da una descrizione naturalistica del Vesuvio ) sono illustrati 

alcuni reperti ercolanesi conservati nel palazzo reale di Portici ; la seconda parte è costituita 

da una dissertazione su alcune scult u re e pitture parietali ercolanesi; la terza parte infine contiene 

la descrizione di altri siti archeologici campani (Napoli, Pozzuoli, Baia, Cuma e Capua). La 

prima e la terza parte e la relazione introduttiva sul Vesuvio sono dell’architetto Bellicard, così 

come i disegni delle piante degli edifici e degli elementi architettonici antichi; le tavole con le pitture 

parietali, non firmate, sono invece d el Cochin. 

Graesse II, 206; Books on art p. 91; BMC 40, col. 1161 ; NUC 45, p.226

Elena Manzo 

Nota di possesso ms. nel v. del piatto ant.: Di Giovanni e Francesco Carrega. Piccolo timbro a olio 

con stemma papale nel front . Timbro ovale: Biblioteca della R.a Università di Genova nel v. del 

front. 

2 A VI bis 24 CATALOGHI: OD., BOTTO, CAT.1854 

242. GORI, Anton Francesco 

Admiranda antiquitatum Herculanensium descripta et illustrata ad annum MDCCL. Collegit et 

praefationem adjecit Antonius Franciscus Gorius. Tomus primus (-secundus). 

Patavii, s. t., 1752. 

2 vol., 3 tav., 8°. 

I vol.: [4], XVIII, 139 p.; II vol.: [2], XX, 203, [1] p.. Tav. f.te: Marco Tuscher (paesaggio vesuviano); 

V. Franceschini sculp. (statua equestre di M.N. Balbo ) e B.R . (pitture ercolanesi). 

I t.: Index opusculorum; Praefatio; II t.: Dedica al march. Luigi Pindemonte; Prefazione di Anton 

Grancesco Gori. 

Raccolta di comunicazioni scientifiche in forma di epistolare sugli scavi di Ercolano. Scoperta nel 

1711 e scavata in maniera più sistematica dal 1738, la zona archeologica ercolanense non era liberamente 

accessibile e per disposizione di Carlo III di Borbone la riproduzione del materiale di 

scavo era proibita (i reperti archeologici saranno resi noti ufficialmente solo a partire dal 1757, 

con la pubblicazione dei volumi dell’Accademia Ercolanense). Francesco Gori fu tra i primi a sfidare 

il protezionismo borbonico pubblicando le relazioni inviategli dai pochi studiosi che avevano 

potuto visitare gli scavi . Questi due tomi di epistole erudite furono preceduti da una prima analoga 

raccolta nel 1748 ( Notizie del memorabile scoprimento dell’antica città di Ercolano vicino 

a Napoli, del suo famoso teatro, ... avute per lettera da vari celebri letterati ). Il secondo tomo 

contiene la traduzione di una relazione del Marchese de l’Ospital (Notizie intorno alla città sotterranea 

Ercolano e suoi monumenti antichi ...) uscita in Francia qualche tempo prima e una anonima 

relazione sulle pitture (Lettera sopra le pitture d’ Ercolano ... Bruxelles 20 genn. 1751), corredata d 

a una incisione con gli esemplari pittorici più noti. 

Books on art p. 704; BMC 89, col. 277 

Nota di poss. ms. nel v. piatto ant. del II vol.: Giovanni e Francesco Carrega. Libri due. Timbro 

ovale: Biblioteca della R.a Università di Genova nel v. del front. 

2 R VII 10-11 CATALOGHI: OD., BOTTO, CAT.1854 

233

234 

Note 

1 Lettera del Signor Marchese Scipione Maffei sopra le Antichità di Ercolano al M.R. Padre Bernardo 

De Rubeis domenicano MDCCLVII, in Margini ercolanesi. Scelta di testi e documenti ercolanesi, 

a cura di M. CAPASSO, Erasmo Edizioni Lubrensi , Massa Lubrense 1984. Sul carteggio tra Tanucci 

e Galiani cfr. B. TANUCCI, Lettere a Ferdinando Galiani, prefazione e note di F. Nicolini, 

Laterza, Bari 1914. In particolare, per quanto attiene la lettera citata, cfr. F. TRINCHERA, Lettera 

inedita dell’abate Galiani sul terzo tomo delle antichità ercolanensi, in “Giornale degli scavi 

di Pompei”, Stamperia della R. Università, Napoli 1861, pp. 107-109. 

2 Lettera del Signor Marchese…, op. cit., p. 15. 

3 Tra la copiosa letteratura sull’argomento si segnalano i saggi C. LENZA, La cultura architettonica 

e le antichità scavi, rilievi, editoria antiquaria e dibattito teorico, estratto anticipato da A. GAM- 

BARDELLA, a cura di, L’architettura dei Borbone di Napoli e Sicilia, Edizioni Scientifiche Italiane, 

Napoli 2000, ove ampia bibliografia; inoltre, Id., Studio dell’antico e internazionalismo neoclassico: 

l’attività di Francesco La Vega nei cantieri vesuviani e la fortuna dei disegni, Edizioni scientifiche 

italiane, Napoli 2003; U. PAPPALARDO, Archeologia Pompeiana, L’Orientale Editrice, Napoli 

2007; Pompei e il Vesuvio: scienza, conoscenza ed esperienza, Cangemi, Roma 2010. Per un 

più ampio quadro di riferimento bibliografico si rimanda a L. GARCIA Y GARCIA, Nuova Bibliotheca 

Pompeiana. 250 anni di bibliografia archeologica. Catalogo dei libri e degli scritti riguardante 

la storia, l’arte e gli scavi di Pompei, Ercolano, Stabia ed Oplonti con numerose referenze 

per l’eruzione vesuviana del 79 d. C., i papiri ercolanensi, le raccolte del Museo Nazionale di Napol 

ie per i libri dei Viaggiatori in Campania. Ad uso degli studiosi, degli amatori, dei collezionisti 

e dei librari, Roma 1998. 

4 Per un riferimento bibliografico ragionato specifico su Pompei, si rimanda a Pompei, Ercolano, 

Stabiae, Oplontis. 79-1979, catalogo della Mostra Bibliografica (Napoli, Biblioteca Universitaria, 

1979), Biblioteca Universitaria, Napoli 1984. Cfr. anche Il Vesuvio e le città vesuviane 1730- 

1860. In ricordo di Georges Vallet, Atti del convegno/Napoli, Istituto Suor Orsola Benincasa, 

28-30 marzo 1996), CUEN, Napoli 1998. 

5 Cfr. V. TROMBETTA, L’edizione delle Antichità di Ercolano esposte, “Rendiconti dell’Accademia di 

Archeologia Lettere e Belle Arti di Napoli”, a. 1984, vol. LIX, pp. 151-172. 

6 C. LENZA, La cultura…, op. cit. 


7 Lettera sulle scoperte di Ercolano al Sign. Conte Enrico di Brühl, (Dresda, 1762), ora in J.J.

Elena Manzo 

WINCKELMANN, Le scoperte di Ercolano, con nota introduttiva e appendice di Franco Strazzullo, 

Liguori, Napoli 1981, p.80. cfr. anche P. PANZA, Antichità e restauro nell’Italia del Settecento, 

con presentazione di Marco Dezzi Bardeschi, Franco Angeli, Milano 1990. 

8 Ibidem. 

9 Sul Grand Tour cfr. C. DE SETA, L’Italia nello specchio del “Grand Tour”, in “Storia d’Italia. Annali”, 

Il Paesaggio, a cura di Cesare de Seta, Einaudi, Torino 1982, V,pp. 227-253; Id., Grand 

Tour. Viaggi narrati e dipinti, a cura di Cesare de Seta, atti del convegno (Roma 1997), Electa, 

Napoli 2001. Inoltre si cfr. l’inedita prospettiva critica di lettura F. MANGONE, L’architetto come 

turista. Mete e miti della provincia napoletana nella formazione dei progettisti europei, 1815-1914, 

in C. DE SETA, A. BUCCARO, a cura di, I centri storici della provincia di Napoli. Struttura, forma, 

identità urbana, ESI, Napoli 2009, pp. 61-89. 

10 F. TRINCHERA, Lettere…, op. cit., p.108. 

11 P. L. CIAPPARELLI, Dalla documentazione al progetto: l’architettura neopompeiana a Napoli, in F. 

MANGONE, a cura di, Architettura e arti applicate tra teoria e progetto. La storia, gli stili, il quotidiano. 

1850-1914, Electa, Napoli 2005, pp. 122-133. 

12 Cfr. F. BOLOGNA, La riscoperta di Ercolano e la cultura artistica del Settecento europeo, in Le Antichità 

di Ercolano, edizioni Banco di Napoli, Napoli 1987, pp. 83-105. Sul giudizio del prestigioso 

scrittore Sainte-Beuve nei confronti della profonda conoscenza dei Francesi da parte 

dell’abate Galiani cfr. SAINTE-BEUVE, Causeries du Lundi, Garnier Freses, Paris 1857-1870, III, 

p. 436-442. 

13 Cfr. il numero monografico “Parametro”, Pompei e l’architettura contemporanea, a cura di FA- 

BIO MANGONE e MASSIMILIANO SAVORRA, n. 261, a. XXXVI, genn.-febbr. 2006. 

14 Per l’epistolario di De Brosses si rimanda all’edizione C. DE BROSSES, Viaggio in Italia. Lettere 

familiari, prefazione di Carlo Levi, Laterza 1973. Inoltre, H. WALPOLE, Lettres d’Horace Walpole, 

depuis Comte d’Orford, a Georges Montagu, ... depuis l’annee 1736 jusqu’en 1770…., Louis 

Janet, Paris 1818; cfr. anche H. WALPOLE, Horace Walpole’s miscellaneous correspondence, a cura 

di W. S. LEWIS e JOHN RIELY, Oxford University Press, Oxford 1980. 

15 Tra la vasta e articolata letteratura sul gusto classicista inglese e il legamen con Pompei cfr. il 

saggio J. WILTON-ELY, Pompeian Revival, ad vocem, in The Dictionary of Art, a cura di J. TUR- 

NER, London 1996, pp. 1991-194, con riferimenti bibliografici; F. SALOMON, British Architects, 

Italian Fine Arts Academies and the Foundation of the RIBA. 1816-43, in “Architectural History”, 

1996, vol. 39, pp. 77-113. Per quanto attiene il dibattito sulla policromia, cfr. D. VAN ZAN- 

235

236 

TEN, Architectural polycromy: life in architecture, in R. MIDDLETON, a cura di, The Beaux-Arts 

tradition and nineteenth-century French architecture, London 1982, pp. 196-215. 

16 Pompei e gli architetti francesi dell’Ottocento, catalogo della mostra (Parigi, genn.-marzo 1981; 

Napoli-Pompei, apr.-lugl. 1981), Ècole nationale supérieure des Beaux-Arts e Ècole française de 

Rome, Napoli 1981, pp. 3-53. 

17 C. N. COCHIN, Charles Nicolas, Observations sur les antiquités d’Herculanum; avec quelques réflexions 

sur la peinture & la sculpture des anciens; & une courte description de plusieurs antiquités des environs de 

Naples. Par MM. Cochin & Bellicard. Second édition, per Ch. Ant. Jombert, Paris 1757. 

18 Lettera sulle scoperte di Ercolano…, op. cit. 

19 Raoul-Rochette, I, p.1; vedi anche Pompei e gli architetti francesi dell’Ottocento, Napoli-Pompei 1981. 

20 J.-J. LALANDE, Voyage d’un Française en Italie, fait das les années 1765 et 1766, VII, Venezia 

1769, p. 207. F. P. LATAPIE, Description des fouilles de Pompeii (a. 1776), a cura di PIERRE BAR- 

RIÈRE e AMEDEO MAIURI, “Rendiconti della Accademia di Archeologia Lettere e Belle Arti”, 

Napoli, 1953, vol. XXVIII, pp. 233-234. 

21 Ibidem. 

22 Sui viaggiatori d’Oltralpe tra Ottocento e Novecento, cfr. M. GIUFFRÈ, P. BERBERA, G. CIAN- 

CIOLO COSENTINO, The Age of Schinkel and the age of Neoclassicism between Palermo and Berlin, 

atti del convegno internazionale (Palermo, 17-19 giugno 2004), Biblioteca del Cenide, Cannitello 

2006. In particolare, per i Tedeschi cfr. G. CUSATELLI, a cura di, I tedeschi e l’Italia, 

Scheiweiller, Milano 1996; A. MAGLIO, L’Arcadia è una terra straniera. Gli architetti tedeschi e 

il mito dell’Italia nell’Ottocento, Clean edizioni, Napoli 2009. Sui viaggiatori scandinavi il riferimento 

è F. MANGONE, Viaggi a sud. Gli architetti nordici e l’Italia, Electa, Napoli 2002. 

23 E. MANZO, La trasmissione del modello. La Danimarca in età moderna, in G. PIGAFETTA, Storia 

dell’architettura moderna. Imitazione e invenzione fra XV e XX secolo, Bollati Boringhieri, Torino 

2007, vol. I, pp. 395-408. 

24 H. RAABYEMAGLE, C.M. SMIDT, Classicism in Copenhagen. Architecture in the Age of C.F. Han- 

sen, Gyldendal, Copenhagen 1999. 

25 F. MANGONE, Viaggio…., op. cit. 

26 Pompei e gli architetti… cit., p. 96. 

Verso il mito della mediterraneità

lo spazio come indicatore dell'identità urbana - La scuola di Pitagora ...

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