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Sintesi 24° Rapporto Italia - Eurispes (.pdf) - Prima Comunicazione

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RAPPORTO ITALIA 2012<br />

Documento di <strong>Sintesi</strong><br />

UFFICIO STAMPA EURISPES


INDICE<br />

CONSIDERAZIONI GENERALI<br />

Il coraggio di rompere il “patto”<br />

L’<strong>Italia</strong> vittima e complice di una democrazia bloccata<br />

VITA/MORTE<br />

Decidere di (non) morire<br />

1. Testamento biologico e “fine vita”<br />

2. Le nuove rappresentazioni della morte<br />

3. Gli infortuni sul lavoro e le morti bianche<br />

4. Vecchie e nuove malattie professionali<br />

5. Biotecnologie e immortalità: la clonazione<br />

6. Fecondazione assistita: padri e madri ad ogni costo<br />

7. Morte ad alta velocità<br />

8. Scegliere di non vivere<br />

9. La condizione anziana oggi e il rapporto con la sanità: opinioni e valutazione dei protagonisti<br />

10. <strong>Italia</strong>ni salutisti? (Sondaggio)<br />

ESSERE/AVERE<br />

Il precario equilibrio tra essenza e sostanza<br />

11. La condizione economica delle famiglie (Sondaggio)<br />

12. Gli italiani e il risparmio tra il 2000 ed il 2010: beato chi è riuscito a risparmiare<br />

13. Il superfluo e lo spreco<br />

14. La metamorfosi della televisione<br />

15. Nella rete della partecipazione<br />

16. Social Shopping, il nuovo eldorado?<br />

17. Gli italiani e le lingue estere: il caso del Servizio Biblioteche di Roma (Sondaggio)<br />

18. In difesa della lingua<br />

10. Disagio psicologico e psicoterapia<br />

20. <strong>Italia</strong>, un amore difficile (Sondaggio)<br />

GIUSTIZIA/INGIUSTIZIA<br />

La somma delle ingiustizie<br />

21. La fiducia dei cittadini nelle Istituzioni (Sondaggio)<br />

22. Quell’esigenza di giustizia giusta<br />

23. I costi della giustizia: l’eccessiva lentezza dei processi civili danneggia il Sistema Paese<br />

24. Avvocati “detrattori”?<br />

25. Gli effetti sociali delle norme sulla giustizia e in materia di riforma delle professioni<br />

26. Gli italiani e il diritto europeo: un rapporto contraddittorio<br />

27. L’estremo orrore degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg)<br />

28. Suicidi in carcere, la strage silenziosa<br />

29. Vite in carcere<br />

30. Al centro della sicurezza<br />

RAGIONEVOLE/IRRAGIONEVOLE<br />

L’<strong>Italia</strong> dell’economia: tra ritardi e prospettive<br />

31. La sostenibilità del debito pubblico in <strong>Italia</strong><br />

32. Lavoro precario, lavoro in bilico<br />

33. L’impatto sociale delle norme in materia di previdenza, sugli effetti dell’Imu, sui rapporti tra fisco e lavoro femminile<br />

34. Innovazione. Confronti internazionali<br />

35. Tendenze, consumi e sfide del mercato italiano del lusso<br />

36. Denominazioni territoriali e qualità: il perimetro delle produzioni italiane a Denominazione d’Origine<br />

37. Proteggi oggi il nostro pasto quotidiano ovvero i Carabinieri contro le frodi e le sofisticazioni alimentari<br />

38. Big Pharma e il rischio dell’imperialismo sanitario<br />

39. Il Prometeo dei libri: innovazione e tradizione<br />

40. Il possesso dei beni materiali, il consumismo (Sondaggio)<br />

GENITORI/FIGLI<br />

Genitori oggi: attese, esigenze, problemi, criticità<br />

41. Benessere nella terza età (Sondaggio)<br />

42. Genitori in Rete<br />

43. Genitori e figli: tra fiducia e responsabilità<br />

44. C’eravamo tanto amati<br />

45. La maternità in età avanzata, tra progressi della medicina e dilemmi etici<br />

46. Affidi e adozioni: una famiglia per ogni bambino<br />

47. Affidamento condiviso<br />

48. I giovani, la politica e i partiti (Sondaggio)<br />

49. Dall’agricoltura italiana “giovani” opportunità per il Paese<br />

50. La chirurgia estetica ovvero il mito della bellezza<br />

SOSTENIBILITÀ/INSOSTENIBILITÀ<br />

Il XXI Secolo sarà il “Secolo verde”, quello della Sostenibilità<br />

oppure un “Secolo bollente” con un aumento di temperature<br />

da catastrofe ambientale?<br />

51. The day after. La stampa quotidiana italiana di fronte<br />

all’incidente nucleare di Fukushima<br />

52. Contrasto ai cambiamenti climatici: l’adattamento<br />

53. Energia da fonte eolica e piano d’azione nazionale: situazione e prospettive<br />

54. Biodiversità, sostenibilità e sviluppo economico<br />

55. Agricoltura, per un nuovo “patto con la società”<br />

56. Bioedilizia, buone prassi per il risparmio energetico<br />

57. Raee, rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche: un’opportunità per il recupero di materie prime ed energia<br />

58. Il turismo sostenibile: un caso studio per le Isole minori<br />

59. La mobilità sostenibile in <strong>Italia</strong><br />

60. Le Aree Protette, culla della biodiversità<br />

Hanno curato i saggi: Gioia Di Cristofaro Longo • Paolo De Nardis • Roberto De Vita • Guido Corazziari • Maurizio Quilici • Alfonso Pecoraro Scanio<br />

NOTA<br />

La rilevazione campionaria (tramite questionario) relativa ai dati contenuti nelle schede-sondaggio è stata effettuata dall’<strong>Eurispes</strong><br />

tra il 20 dicembre 2011 e 5 gennaio 2012, su un campione - rappresentativo della popolazione italiana - di 1.090 cittadini.<br />

2


IL CORAGGIO DI ROMPERE IL “PATTO”<br />

L’ITALIA VITTIMA E COMPLICE DI UNA DEMOCRAZIA BLOCCATA<br />

Considerazioni generali<br />

di Gian Maria Fara<br />

Come prima, più di prima. Sono passati trent’anni dalla nascita del nostro Istituto. Nel 1982 l’<strong>Eurispes</strong> iniziò il suo<br />

viaggio all’interno della società italiana indagando tra le pieghe nascoste, tra le antiche fragilità e quelle nuove che la<br />

crescita economica aveva cominciato a produrre. Erano quelli gli anni della “società affluente”, della convinzione che la<br />

crescita economica ci avrebbe fatto diventare tutti più ricchi e si sarebbero risolti i problemi e le contraddizioni che<br />

l’<strong>Italia</strong> aveva accumulato nel corso dei decenni precedenti.<br />

Le sfide aperte erano tante e, solo per citarne alcune: il ritardo del Mezzogiorno e il divario Nord-Sud; il problema<br />

energetico e la questione ambientale; l’ammodernamento delle infrastrutture e la cattiva organizzazione della Pubblica<br />

amministrazione; il funzionamento del sistema sanitario e della giustizia; il malessere nella scuola e nell’Università; la<br />

crescita incontrollata del debito pubblico e la necessità di riformare le Istituzioni; le vecchie e le nuove povertà e la<br />

razionalizzazione del welfare; la riforma del mercato del lavoro e la lotta all’evasione fiscale; la crescita del disagio<br />

giovanile e la diffusione della droga; l’espansione della criminalità mafiosa e la crescita della corruzione.<br />

L’elenco potrebbe essere ancora più lungo tanti erano i temi e le questioni che agitavano allora il dibattito pubblico.<br />

Sono gli stessi argomenti al centro dell’attenzione oggi, ma con una non lieve differenza: da allora la situazione non è<br />

migliorata, anzi, si è progressivamente aggravata nel corso degli anni sino ad assumere i caratteri di una vera e propria<br />

emergenza nazionale. La crisi che stiamo vivendo ha fatto il resto.<br />

Vassalli, valvassori e valvassini. Siamo di fronte ad un generale senso di depressione che taglia trasversalmente tutte le<br />

classi sociali: i poveri perché vedono, giorno per giorno, allontanarsi la possibilità di poter migliorare la loro condizione<br />

economica e sociale; i ceti medi perché hanno sempre più timore di cadere nel baratro della povertà; i benestanti e i<br />

ricchi perché si sentono criminalizzati e hanno persino timore a mostrare i segni del proprio status e del proprio<br />

benessere, frutto, secondo la vulgata ormai corrente, di chissà quali nefandezze.<br />

La sensazione è quella di un Paese bloccato, immobile, rassegnato, ripiegato su se stesso che non riesce a trovare la forza<br />

per reagire alla malattia, assistito da un nugolo di medici scarsamente dotati, nella migliore delle ipotesi, o interessati a<br />

che la malattia si protragga per continuare ad esercitare il proprio controllo sul malato, in quella peggiore. I medici sono<br />

la metafora della nostra classe dirigente generale, di quella classe che, come dice il nome, dovrebbe avere il compito ed il<br />

dovere di dirigere il Paese e avere cura del benessere dei suoi cittadini. Di quella classe che dovrebbe affrontare e<br />

risolvere i problemi, indicare la mèta, mettere a punto il progetto ed impegnarsi a realizzarlo, coinvolgendo i cittadini di<br />

ogni ordine e grado. Una classe dirigente che dovrebbe produrre buoni esempi e buone idee e farsi carico delle esigenze<br />

e dei bisogni generali e soprattutto di rappresentare nel migliore dei modi il Paese nel proscenio internazionale.<br />

Utilizziamo la definizione di “classe dirigente generale” per ribadire, ancora una volta, che occorre uscire dall’equivoco,<br />

non del tutto innocente, che pretende di attribuire alla sola responsabilità della politica l’origine di tutti i mali che<br />

affliggono l’<strong>Italia</strong>. La politica ha grandi ed evidenti responsabilità, ma essa rappresenta solo una parte, e forse neppure<br />

quella decisiva, della “classe dirigente generale” alla quale sarebbe più corretto riferirsi. Sono classe dirigente i nostri<br />

“valorosi” imprenditori che talvolta trascurano gli aspetti sociali della loro vocazione e sono sempre pronti a<br />

delocalizzare, quando si presenta l’occasione di maggiori guadagni in paesi più o meno lontani dove la manodopera<br />

costa meno, le regole sono meno rigide e i diritti dei lavoratori sono spesso un optional. Sono classe dirigente tutti quegli<br />

illustri professori che pontificano con forti richiami all’etica e intanto pilotano concorsi e mandano in cattedra figli,<br />

nipoti, generi e nuore, e ci affliggono dalle pagine dei giornali parlando di cose che hanno solo letto sui libri scritti da chi<br />

ha letto solo libri, ma non hanno mai messo piede dentro una fabbrica o fatto qualche lunga fila allo sportello di un<br />

qualsiasi ufficio della nostra Pubblica amministrazione e non hanno mai avuto il problema della quarta settimana.<br />

Sono classe dirigente i nostri sindacalisti, proletari a parole e spesso radical-chic nei fatti, ancorati ad un mondo che non<br />

c’è più e che difendono con le unghie e con i denti. Più attenti a tutelare chi è già garantito che non a farsi carico delle<br />

attese di un popolo di precari senza alcuna prospettiva. Sono classe dirigente i manager delle banche, delle assicurazioni,<br />

delle grandi imprese pubbliche e private che, mentre si tartassano i cittadini con redditi da sopravvivenza, incassano<br />

compensi da milioni e milioni di euro l’anno e laute liquidazioni. Sono classe dirigente i grandi commis dello Stato che<br />

dopo aver goduto nel corso della carriera, di stipendi d’oro e di innumerevoli benefit, mantengono privilegi di stampo<br />

feudale, anche ad anni di distanza dal pensionamento. Sono classe dirigente i magistrati e i giudici che di sovente<br />

sbagliano, ma hanno il vantaggio di non dovere rendere conto a nessuno. E capita spesso che alcuni di loro pretendano di<br />

affermare uno Stato etico, invece di perseguire l’etica dello Stato e utilizzino la loro notorietà per fini politici personali.<br />

Sono classe dirigente, anzi lo sono ancora di più perché hanno il compito ed il dovere di raccontare la verità e di<br />

informare i cittadini, gli operatori dell’informazione talvolta troppo ligi e proni ai voleri della proprietà, pubblica o<br />

privata che sia, e che spesso deformano o ignorano la realtà quando questa non conviene. E, ma l’elenco potrebbe essere<br />

ancora lungo, sono classe dirigente anche coloro che fanno il nostro mestiere, i produttori di dati “primi”, quelli più<br />

delicati, che non disdegnano di piegare i numeri a seconda delle esigenze di chi comanda.<br />

3


Questa classe dirigente nel suo insieme è la vera responsabile dei ritardi, delle difficoltà, dei problemi dell’<strong>Italia</strong>.<br />

Insomma, della crisi che stiamo vivendo e della quale tutti siamo chiamati, sia pure con ruoli e responsabilità diverse, a<br />

rispondere e a dover pagare il conto. Questa classe dirigente costituisce ormai un blocco solidale e separato dal resto del<br />

Paese e non ha nessuna intenzione di rinunciare, neppure in piccola parte, ai vantaggi e ai privilegi conquistati.<br />

È una classe dirigente articolata sul modello feudale dei vassalli, dei valvassori e dei valvassini. Un sistema all’interno<br />

del quale tutto si tiene e tutto si conviene. Dove ogni corporazione sostiene l’altra, nella consapevolezza che la caduta dei<br />

privilegi dell’una produrrà inevitabilmente la sfortuna dell’altra.<br />

Doppia articolazione della morale. Se la classe dirigente generale ha le responsabilità che le attribuiamo, la società<br />

italiana da parte sua ha molto da farsi perdonare e la sua evidente arrendevolezza, anche di fronte ad una pressione che<br />

farebbe infuriare chiunque, è la dimostrazione di una tacita e antica complicità, che ormai mostra i segni dell’usura e<br />

sembra sul punto di interrompersi. Certo, occorrerebbe stabilire quanto la classe dirigente sia la rappresentazione fedele<br />

della società che la esprime e, viceversa, quanto la seconda sia lo specchio dei comportamenti della prima. Almeno in<br />

questo caso Tertium datur: sono vere tutte e due le ipotesi.<br />

Le èlites non sono peggiori della società civile e questa non è migliore delle sue èlites. Resta comunque il fatto che alla<br />

classe dirigente spetterebbe il compito di esercitare un ruolo pedagogico attraverso il quale indirizzare le pulsioni del<br />

corpo sociale, valorizzarne le potenzialità, governarne ed esaltarne le vocazioni. Per fare tutto ciò, la nostra classe<br />

dirigente dovrebbe ritrovare il senso etico perduto, riscoprire i valori da troppo tempo abbandonati, recuperare il senso<br />

del dovere e della responsabilità, superare l’interesse soggettivo e di gruppo, affermare la preminenza del ruolo rispetto<br />

alle ambizioni e agli interessi della persona ed infine produrre, attraverso i comportamenti, esempi che stimolino scelte<br />

virtuose indirizzate al perseguimento del bene comune. Invece, la nostra classe dirigente con il suo spirito di<br />

conservazione, con le sue resistenze ai cambiamenti, con la sua autoreferenzialità, con le sue paure, con la sua vocazione<br />

feudale tiene in ostaggio la società civile. E questa si è, nel tempo, acconciata ad un sistema che ne asseconda gli istinti<br />

egoistici e familisti, che deresponsabilizza, che assicura nicchie di impunità e di esercizio di piccolo potere, che ne<br />

sopporta le contraddizioni e le debolezze. Ma, soprattutto, incoraggia l’affermazione di una doppia articolazione della<br />

morale: gli italiani, da una parte, invocano la più dura delle repressioni nei confronti degli evasori fiscali e dall’altra<br />

condannano chi, per dovere d’ufficio è costretto ad applicare leggi, magari sbagliate e ingiuste, ed esige che le tasse<br />

vengano pagate. Il fatto è che ciascuno di noi è portato ad essere severo con gli altri e comprensivo e benevolo con se<br />

stesso: l’evasore da colpire è sempre il vicino della porta accanto. Da ciò derivano l’immobilità del nostro sistema e<br />

l’incapacità di trasformare, come dicemmo qualche anno fa, la potenza – della quale comunque il nostro Paese è ricco –<br />

in energia.<br />

Insomma, siamo di fronte ad una società che è, insieme, vittima e complice nello stesso tempo. Ad una società che nel<br />

complesso è molto diversa da come raccontano le statistiche ufficiali. Basti pensare al problema del sommerso che,<br />

secondo l’<strong>Eurispes</strong>, ha raggiunto ormai quota 540 miliardi di euro equivalente al 35% del Pil ufficiale che, come è noto,<br />

è di circa 1.540 miliardi di euro. Con una conseguente evasione fiscale pari ad almeno 230/250 miliardi di euro,<br />

imputabili certo ai grandi evasori dei quali, quando scoperti, raccontano con dovizia di particolari i nostri mezzi di<br />

comunicazione, ma anche, o forse soprattutto, a milioni di piccoli evasori quotidiani che aggirano il fisco con la loro<br />

compiacenza e la loro omertà, per piccole somme che, moltiplicate esponenzialmente, producono cifre enormi. Sono le<br />

somme, apparentemente insignificanti nel quadro complessivo, che non superano spesso le centinaia di euro, pagate dalle<br />

famiglie italiane nella gestione del loro vissuto quotidiano: la baby sitter, l’idraulico, l’imbianchino, l’elettricista, la<br />

badante, il medico, il ristoratore che non rilascia la ricevuta e tantissimi altri ancora.<br />

Siamo tolleranti nei confronti di questa evasione spicciola per almeno due motivi. Il primo è, che non essendo mai stato<br />

introdotto nel nostro sistema fiscale il metodo del contrasto di interessi – ovvero la possibilità di detrarre nella nostra<br />

dichiarazione dei redditi almeno una parte delle spese – non abbiamo neppure l’interesse a sollecitare la ricevuta o la<br />

fattura; il secondo è che spesso, a nostra volta, siamo produttori di sommerso quando, per cercare di far quadrare il<br />

bilancio familiare sempre più compresso da aumenti, bollette, rincari, tasse e balzelli di vario genere e origine, siamo<br />

costretti a cercare un doppio lavoro o ad accettarne uno in nero.<br />

Per questi motivi, la recente disposizione che impedisce i pagamenti in contanti per importi superiori ai mille euro si<br />

rivelerà del tutto inutile e dannosa, poiché contribuirà a rendere ancora più complicata la vita di milioni di cittadini<br />

scarsamente inclini alla gestione telematica dei loro conti. Basti pensare al fatto che il nostro Paese ha una tra le più alte<br />

percentuali di anziani e vecchi in Europa, mentre di sicuro incrementerà gli introiti delle banche e delle società che<br />

operano nel mercato delle carte di credito. Infine, per aggirare l’ostacolo, sarà sufficiente frazionare i pagamenti e ciò<br />

finirà per rafforzare ulteriormente la consueta connivenza.<br />

A tutto ciò va aggiunto il fatto, spesso trascurato, che in <strong>Italia</strong> circolano più ricchezza e più contante di quanto le<br />

statistiche ufficiali abbiano mai censito. Infatti, all’enorme quantità di sommerso che abbiamo in precedenza segnalato<br />

occorre aggiungere il cosiddetto “fatturato criminale”, frutto del traffico di stupefacenti, estorsioni, prostituzione, usura,<br />

caporalato, corruzione, traffico d’armi, falsificazione e altro ancora che frutta, secondo nostre stime – confortate dalle<br />

analisi degli inquirenti e degli investigatori – oltre duecento miliardi l’anno.<br />

In sostanza, l’<strong>Italia</strong> ha tre Pil: uno ufficiale, uno sommerso e uno criminale.<br />

Il capro espiatorio. Allora, se tutto ciò corrisponde alla realtà, la politica, pur con i suoi innumerevoli torti, le sue<br />

inadempienze, la sua inadeguatezza, rischia di essere il Mamurio Veturio, il capro espiatorio del sistema sul quale<br />

4


scaricare tutte le colpe per distrarre l’attenzione dalle responsabilità che appartengono anche ad altri e sono equamente<br />

diffuse. Il problema vero è che la critica alla politica, nei modi e nei termini con i quali viene oggi esercitata, rischia di<br />

mettere in discussione le fondamenta stesse delle Istituzioni e, di conseguenza, del nostro ordinamento democratico<br />

fondato sulla sovranità popolare.<br />

La sgradevole ondata di populismo, spesso strumentalmente alimentata, trae dall’antipolitica la sua linfa vitale che, come<br />

l’esperienza insegna, da Pericle a Otto von Bismark, passando per Hobbes, oltre al contrapporsi alla politica ufficiale non<br />

è mai riuscita a produrre alcunché di positivo. L’attacco alla classe politica diventa così un attacco indistinto al sistema<br />

istituzionale. Il populismo non avanza serie proposte di riforma, ma punta soltanto alla delegittimazione della politica ed<br />

infine del sistema democratico. L’antipolitica populista quasi mai riesce a trasformarsi in politica attiva, ma resta in una<br />

fase pre-politica di eterna contestazione. La rappresentanza politica, il voto, rappresentano pur sempre l’unico modello<br />

per affermare una democrazia compiuta. Si possono studiare forme più dirette, formulare leggi elettorali più attente alle<br />

esigenze e alle istanze degli elettori, ma l’architrave di ogni democrazia resta il Parlamento come diretta conseguenza del<br />

principio di sovranità popolare. Il suo ruolo è stato efficacemente sintetizzato da Hegel con l’espressione di «porticato tra<br />

lo Stato e la società civile»; di conseguenza, indebolendo l’istituto rappresentativo per eccellenza, si indebolisce l’intero<br />

sistema democratico.<br />

Forse, si affrontano temi di grande rilevanza e spessore con troppa leggerezza e spesso si dimentica di quali e quanti<br />

sacrifici siano costate, alle generazioni che ci hanno preceduto, quelle conquiste di libertà che oggi noi consideriamo<br />

come fatti acquisiti, consolidati e immodificabili. Invece, la democrazia vive in uno stato di perenne fragilità e precarietà<br />

e, purtroppo, se ne sente la mancanza solo quando la si perde.<br />

La difesa dell’istituto parlamentare come architrave del nostro sistema istituzionale dovrebbe stare a cuore a ogni<br />

cittadino e dovrebbe rappresentare il compito primario di ogni rappresentante politico.<br />

Un istituto democratico viene innanzi tutto giudicato dai cittadini per i comportamenti dei propri rappresentanti, per la<br />

dignità con la quale essi esercitano la loro funzione, per la capacità di interpretare i bisogni e le attese che la società,<br />

nelle sue diverse articolazioni, esprime. Ma ai cittadini sono stati sottratti persino il diritto e la possibilità di scegliere i<br />

propri rappresentanti attraverso il sistema della preferenza; e si è imposto loro quello della selezione e della nomina<br />

dall’alto per cooptazione, che consente ad un numero ristrettissimo di capi partito di nominare, di fatto, il Parlamento,<br />

con tutte le conseguenze che ne derivano sia sul piano della qualità della rappresentanza, sia su quello della effettiva<br />

democraticità del metodo. E, come ci ricorda E. Gibbson, i princìpi di una libera Costituzione sono irrevocabilmente<br />

perduti quando il potere legislativo è nominato da quello esecutivo. Quando la classe politica si allontana dal Paese reale,<br />

quando essa dimostra di avere in massima cura solo i propri privilegi ed interessi, quando occupa le Istituzioni, a tutti i<br />

livelli, con personaggi di infimo livello culturale e morale, quando sostituisce al necessario spirito di servizio l’esercizio,<br />

spesso in forme bieche, del potere, il patto tra governanti e governati si rompe, il sistema entra in crisi e si creano le<br />

condizioni per un rifiuto della democrazia stessa. I cittadini partecipano al processo politico affidando la loro sovranità<br />

ad Istituzioni che hanno una legittima autorità sulla base della volontà effettiva dei cittadini che rappresentano. Questo<br />

delicato rapporto è il vero fondamento della democrazia. E quando questo rapporto viene meno, allora cominciano a farsi<br />

strada crisi profonde. Gli atteggiamenti antipolitici non sono, infatti, soltanto l’espressione politica più forte della<br />

mancanza di ottimismo della gente, ma anche un segnale evidente della mancanza di idee e di progetti convincenti da<br />

parte della stessa politica [Navarro Valls J. 2007].<br />

Tuttavia, la politica non nasce dal nulla. Chi la interpreta e chi la rappresenta ai diversi livelli istituzionali proviene dalla<br />

società civile, dal mondo della cultura e delle professioni. Di conseguenza, la “classe dirigente generale” alla quale ci<br />

riferiamo ha una doppia responsabilità: quella di non voler compiere sino in fondo il proprio dovere e di pensare<br />

principalmente a difendere i propri interessi; e quella di infeudare con i suoi rappresentanti la politica e le Istituzioni.<br />

Troppo spesso si identifica la politica con il solo Parlamento, trascurando il fatto che ormai gran parte del potere e delle<br />

risorse e quindi dei “costi della democrazia” appartiene al sistema territoriale, Regioni, Province, Comuni con le loro<br />

proiezioni operative ed economiche. Si crea lo scandalo attorno ai privilegi della cosiddetta “casta” – anche se sarebbe<br />

più corretto parlare di “caste” – e questa viene identificata soprattutto con il Parlamento e si dimentica che il vero<br />

scandalo è costituito dalle migliaia di assessori, consiglieri comunali, amministratori di aziende pubbliche locali che si<br />

moltiplicano quasi miracolosamente come nella parabola dei pani e dei pesci.<br />

Il Consiglio regionale del Lazio, proprio nel bel mezzo delle polemiche sui privilegi della politica e mentre il Sistema<br />

Sanitario Regionale sprofonda in un baratro di sprechi, ha pensato bene di procedere a sostanziosi aumenti delle<br />

indennità dei consiglieri e degli assessori. Si denunciano i privilegi e le retribuzioni mensili dei parlamentari, ma poi, ad<br />

una attenta e non strumentale osservazione, si scopre che i loro compensi sono spesso inferiori a quelli di dirigenti<br />

pubblici e privati di medio livello e che il costo finale per lo Stato non supera quello dei parlamentari di Francia,<br />

Germania e Regno Unito ed è nettamente al di sotto di quello sostenuto dal Parlamento Europeo. Così come si trascura di<br />

osservare e di indignarsi per le retribuzioni milionarie degli amministratori delle società a partecipazione pubblica.<br />

Alcuni, malignamente, pensano che forse la disattenzione degli uomini dell’informazione possa essere dovuta al fatto<br />

che queste grandi società sono anche dei formidabili inserzionisti pubblicitari.<br />

Nello stesso tempo, il sistema mostra tutta la sua schizofrenia retribuendo i suoi amministratori in termini<br />

qualitativamente e quantitativamente del tutto irragionevoli.<br />

5


Ci si chiede infatti perché il Presidente di una sia pur importante azienda pubblica debba percepire un compenso di<br />

quindici volte superiore all’appannaggio assegnato al Capo dello Stato, o perché il direttore generale di una sperduta Asl<br />

debba vedersi riconosciuta una retribuzione tre volte superiore a quella del presidente dell’Inps, che amministra il<br />

secondo bilancio dopo quello dello Stato. O, ancora, perché un magistrato della Corte dei Conti o del Tar debba ricevere<br />

uno stipendio di molto superiore a quello di un giudice o di un pubblico ministero costretti a vivere da reclusi in terra di<br />

mafia. Senza considerare il fatto che, alle cosiddette magistrature superiori, è concessa la possibilità di svolgere altre<br />

attività esterne come, ad esempio, arbitrati e consulenze che, quasi sempre, superano ampiamente per valore la<br />

retribuzione ordinaria. Forse è arrivato il momento di procedere ad una rapida ed incisiva razionalizzazione,<br />

determinando nuovi parametri e nuovi tetti che eliminino le contraddizioni più vistose e siano meglio rappresentativi dei<br />

ruoli ricoperti e della loro importanza.<br />

I ricchi sono migliori. Che la politica debba impegnarsi per ridurre i suoi costi appare fuori di ogni discussione, ma è<br />

altrettanto fuori discussione il fatto che il Parlamento debba conservare la propria dignità e il proprio ruolo che sono,<br />

come in ogni democrazia che si rispetti, assolutamente centrali. È vero che alcuni privilegi andrebbero aboliti, così come<br />

dovrebbe essere ridotto il numero ridondante degli stessi parlamentari. Tuttavia, occorre evitare di passare dalla<br />

moralizzazione e dalla razionalizzazione alla delegittimazione e alla criminalizzazione, con il rischio di gettare – come in<br />

passato è avvenuto – il bambino con l’acqua sporca. Istigare, come alcuni fanno pur godendo degli stessi privilegi che<br />

mettono sotto accusa, l’opinione pubblica verso il rifiuto rancoroso della politica e della sua istituzione cardine, il<br />

Parlamento, è non solo facile ed ingiusto, ma, soprattutto, pericoloso. A meno che l’obiettivo non sia proprio quello di<br />

affermare l’idea che del Parlamento si può fare tranquillamente a meno e che la democrazia con tutti i suoi riti, i suoi<br />

passaggi e le sue regole possa essere considerata superata in un mondo sempre più caratterizzato dalla necessità di<br />

decisioni rapide, assunte da gruppi ristretti di comando.<br />

Quegli stessi critici che accusavano chi pensava di poter gestire il Paese come se si trattasse di una azienda privata, oggi,<br />

nel mettere in discussione il ruolo del Parlamento, di fatto, aprono la strada all’amministratore unico.<br />

E neppure può essere preso in seria considerazione chi, sia pure in forma ipotetica, perora la causa del “governo dei<br />

migliori”, anzi dei ricchi, visto che questi sarebbero, essendo appunto ricchi, meno inclini alla corruzione di quanto non<br />

lo siano i poveri che, come è noto, sarebbero più permeabili alla tentazione. Che ad esporre simili tesi sia un illustre<br />

politologo è davvero preoccupante e mortifica chi è già penalizzato dalla vita, cioè i poveri, tendenzialmente disonesti.<br />

Ma forse si dimentica che – come ci è stato insegnato – è più facile che un cammello passi attraverso la cruna di un ago<br />

che un ricco entri in Paradiso. Comunque sia, l’opera di delegittimazione del Parlamento, attuata con la fattiva<br />

partecipazione di alcuni suoi impresentabili esponenti, ha prodotto i primi risultati. Abbiamo un “Governo dei Migliori”<br />

sostenuto dalla politica in cambio della tutela di alcuni forti e ben noti interessi: basti pensare alla questione della<br />

attribuzione delle frequenze televisive; o alla riluttanza nell’imporre una patrimoniale, che gran parte dei cittadini<br />

sarebbero stati disposti a pagare, per l’opposizione di chi intende tutelare i propri grandi patrimoni.<br />

Chi paga il conto? Con qualche forzatura delle procedure e della prassi istituzionale sono stati nominati dei nuovi<br />

amministratori dai quali, tutti, ci aspettiamo maggiore razionalità e oculatezza, nella gestione della cosa pubblica, di<br />

quante non ne siano state espresse in precedenza. Scrivemmo lo scorso anno, nel presentare il 23° <strong>Rapporto</strong> che – così<br />

come ammoniva allora la signora Merkel – non esistono debiti pubblici ma esistono solo debiti privati e che tutti<br />

saremmo stati chiamati, prima o poi, a risponderne. Quel momento è arrivato e dovremo fare di necessità virtù.<br />

Si ha, però, la sensazione che la distribuzione dei sacrifici non corrisponda ai necessari criteri di equità e che a pagare il<br />

conto siano chiamati i soliti noti mentre rimangano intonsi i privilegi, gli interessi corporativi, le posizioni di rendita<br />

spesso parassitarie. Così come i tagli e la pressione fiscale siano concentrati sui ceti più fragili, sul welfare e sulla qualità<br />

della vita, confermando la teoria che è più facile far pagare i molti, spesso deboli e indifesi, che non i ricchi, pochi, ma<br />

potenti. E destano perplessità alcune scelte come quella di procedere, nonostante la crisi e il salasso al quale i cittadini<br />

sono sottoposti, all’acquisto di 131 caccia bombardieri di ultima e controversa, in termini qualitativi, generazione, per la<br />

modica cifra di 15 miliardi di euro, equivalenti ad una manovra finanziaria. Stanziamenti dei quali i disoccupati, i<br />

cassintegrati, i giovani precari, i pensionati al minimo, gli imprenditori pignorati da Equitalia, le famiglie con il problema<br />

della quarta settimana, immaginiamo, non sentissero il bisogno. Certo, alcune di queste misure erano quelle concordate<br />

con l’Unione europea, altre riguardavano contratti e impegni sottoscritti dal precedente Governo e sarà faticoso riuscire a<br />

rimetterli in discussione. Ma quali che siano le responsabilità, resta il fatto che a questa “volontà di potenza”, fa da<br />

contraltare la impossibilità di pagare gli straordinari agli appartenenti alle Forze dell’ordine o di acquistare i carburanti<br />

per le volanti della Polizia o di liquidare i crediti delle imprese portate sull’orlo del fallimento dai ritardi nei pagamenti<br />

della Pubblica amministrazione.<br />

Ma sono stati valutati tutti i rischi? Varrà la pena di sottolineare alcuni passaggi di una situazione che ha introdotto nel<br />

quadro politico italiano elementi completamente nuovi, fissando alcuni punti fermi su quei dieci giorni che hanno<br />

“alterato” la Seconda Repubblica e portato diritto a quello che è stato definito da tutti gli osservatori politici “il governo<br />

del Presidente”. L’8 novembre la Camera certifica che la maggioranza non ha più i numeri (308 rispetto ai 316 necessari)<br />

sul voto di assestamento del bilancio dello Stato. Dopo averne preso atto, il Presidente del Consiglio si reca al Quirinale<br />

per annunciare che si dimetterà dopo l’approvazione della legge anticrisi. Il 9 novembre il Presidente Napolitano nomina<br />

Mario Monti senatore a vita e contemporaneamente rilascia una serie di dichiarazioni che spingono alla approvazione<br />

rapida della legge. Il 12 novembre la Camera approva il provvedimento. Tre ore dopo, il Cavaliere si reca al Quirinale e<br />

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si dimette. La stampa sottolinea che pare esserci una perfetta linea di intesa fra Napolitano e Berlusconi anche perché<br />

stavolta il Presidente della Repubblica si muove con un decisionismo che sorprende innanzi tutto i suoi vecchi compagni<br />

di partito. Dopo aver fatto quella che era stata definita in termini scacchistici “la mossa del cavallo”, questa volta,<br />

passando dalla sua proverbiale prudenza al “colpo di teatro” della crisi, spiazza tutti dando al nuovo senatore a vita<br />

l’incarico di formare il nuovo Governo. In contemporanea, l’ex premier manda al Paese – stordito dagli avvenimenti<br />

succedutisi così rapidamente – un videomessaggio per spiegare il suo “atto di generosità” e chiarire ai suoi sostenitori<br />

che “non lascerà la vita politica”. Durante quei dieci giorni, il Quirinale diventa così il centro della crisi.<br />

Tra consultazioni e trattative private si innesta il pressing di Napolitano sui maggiori partiti politici e anche sulle forze<br />

minori delle due ali del Parlamento. La pressione, in un gioco fin troppo scoperto, è diretta soprattutto su Bersani per il<br />

Partito Democratico e su Berlusconi per il Popolo delle Libertà che appare il più riluttante e diviso.<br />

La formazione del “governo tecnico” fa discutere e i giornali della destra parlano apertamente di “trappola” dei banchieri<br />

e dei nuovi padroni. I tradizionali ruoli tra destra e sinistra sembrano scambiarsi. L’opinione pubblica è vieppiù<br />

frastornata. Giovedì 17 e venerdì 18 novembre il Governo Monti incassa la larghissima fiducia del Parlamento.<br />

Questi sono i fatti, nudi e crudi, che raccontano una cronaca dalla quale emerge lo straordinario “interventismo” del<br />

Quirinale che non ha certamente precedenti nella storia repubblicana, per la forma e la sostanza che lo hanno<br />

contraddistinto. Fra gli innumerevoli commenti di stampa abbiamo colto una annotazione dello storico Giovanni<br />

Sabbatucci che, per quanto positiva, coglie in pieno le grandi contraddizioni che l’epilogo della vicenda segnala.<br />

Scrive Sabbatucci su Il Messaggero: «Mai, nemmeno nella fase tumultuosa del passaggio dalla <strong>Prima</strong> alla Seconda<br />

Repubblica, il Capo dello Stato aveva dovuto assumersi prerogative così ampie e responsabilità così pesanti come quelle<br />

che sono toccate in queste ultime settimane a Giorgio Napolitano. E possiamo considerare una fortuna nella sfortuna il<br />

fatto che la gestione di una crisi per molti aspetti senza precedenti sia stata presa in mano da una personalità che non solo<br />

possiede le doti di equilibrio, moderazione, autorevolezza indiscusse, abilità politica, spirito di iniziativa, capacità,<br />

all’occorrenza, di surrogare vuoti e carenze dei poteri ordinari, ma se li è visti attribuire, per quasi unanime<br />

riconoscimento, da un amplissimo arco di forze». Un caso, quello del “Governo Monti-Napolitano” che il Corriere della<br />

Sera definisce da «manuale di diritto costituzionale» quando scrive per la penna di uno dei suoi più autorevoli<br />

commentatori, il costituzionalista Michele Ainis: «Perché circola la percezione di un governo Monti-Napolitano? Perché<br />

la prima nomina ha condizionato la seconda, ne ha offerto, per così dire, l’antipasto. Un gesto di fantasia costituzionale<br />

mentre i mercati reclamavano una soluzione di ricambio. Così Napolitano, usando una sua prerogativa (la nomina dei<br />

senatori a vita), ha indicato subito la via e i partiti vi si sono subito incamminati».<br />

Ora, senza nulla togliere al misurato ottimismo di gran parte dei mass media e degli osservatori politici, l’<strong>Eurispes</strong> ritiene<br />

di poter individuare, nel modo in cui i fatti e l’intera vicenda si sono dipanati, un rischio di fondo che è pari se non<br />

superiore a tutti i vantaggi che ne sono stati finora ricavati. Parliamo naturalmente del “Governo del Presidente” che ha<br />

ridisegnato il rapporto tradizionale tra Napolitano e la sinistra, la sua area di provenienza e di elezione alla suprema<br />

carica. La presa di posizione dei sindacati, in particolare della Cgil, ha indebolito fortemente il Partito Democratico che<br />

già di suo mostra incrinature profonde. Per non parlare poi delle formazioni collocate alla sinistra del PD che hanno<br />

preso nettamente le distanze dal Governo e intendono chiaramente lucrare sulle difficoltà del loro maggiore alleato. Ma<br />

c’è di più. Il termometro politico segna una presa di distanza crescente dal Governo Monti appena insediato, di settori<br />

importanti dell’opinione pubblica, classe operaria e ceti medi che sono da sempre legati alla sinistra storica moderata.<br />

Insomma, come ha scritto il dalemiano Fabrizio Rondolino: «Il problema principale del Partito Democratico è diventato<br />

il Quirinale. Perché il Quirinale è il più robusto e intransigente sostenitore del Governo Monti».<br />

Quello che abbiamo chiamato il rischio di fondo dell’attuale nuova situazione, potrebbe sconvolgere l’intero quadro<br />

politico, spostando ingenti quantità di elettori che rifiutano l’idea che il “loro Presidente” abbia cavalcato la linea di<br />

austerità e di taglio del tenore di vita di milioni di famiglie italiane, identificandosi con “il governo dei banchieri”.<br />

Ad esso si accompagna l’ipotesi, sempre viva e presente, che potrebbe vedere l’ex premier uscire dal bunker nel quale si<br />

è rinchiuso, prendere, come si dice, “il toro per le corna”, togliere la fiducia al Governo e provocare la caduta di Monti<br />

nel momento che riterrà più conveniente. Con il risultato che tutti possiamo immaginare di caduta simultanea<br />

dell’immagine del Quirinale, tale da far apparire l’uscita dal berlusconismo l’ultima grande illusione nella quale si è<br />

perso il Paese.<br />

L’ultima spiaggia. O il Governo Monti sarà messo nelle condizioni di operare e di poter finalmente rompere gli schemi<br />

che tengono imprigionato il Paese e che ne impediscono la modernizzazione e la ripresa oppure sarebbe stato preferibile<br />

indire rapide elezioni e dare all’elettorato la facoltà di decidere del proprio futuro.<br />

Si è detto che, stante la difficile congiuntura, le elezioni e la relativa campagna elettorale avrebbero aggravato la<br />

situazione. Sono stati utilizzati toni da “ultima spiaggia” e nessuno dubita che la situazione fosse estremamente critica,<br />

ma mettere sotto tutela gli elettori è stato forse una medicina più dolorosa della stessa malattia, almeno dal punto di vista<br />

della prassi democratica. Si ritorna così all’idea che gli elettori non siano sufficientemente maturi ed è bene che qualcuno<br />

decida per loro, dimenticando che non esistono elettori stupidi e che comunque in democrazia è a loro che spetta l’ultima<br />

parola. Un grande paese come l’<strong>Italia</strong> non potrà sopportare ancora a lungo questa fase di autosospensione della politica,<br />

questa abdicazione dalle proprie responsabilità, in attesa che il Governo dei tecnici tolga le castagne dal fuoco<br />

assumendosi il peso e l’onere del “lavoro sporco” che la politica non si sente in grado di fare per timore di dover pagare<br />

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pegno in termini di consenso. Chi sostiene il Governo in Parlamento ritiene, forse a torto, di potersi ripresentare, quando<br />

sarà il momento, di fronte agli elettori come se nulla fosse accaduto. Ma non sarà così.<br />

Intanto, non sarà facile dare il benservito ad un Governo che dopo aver imposto duri sacrifici riesca, magari con un<br />

pizzico di fortuna, ad intercettare un trend positivo e mettere in moto quel meccanismo di ripresa che l’<strong>Italia</strong> si aspetta.<br />

In secondo luogo, quando si andrà alle urne niente sarà più come prima e le forze politiche saranno costrette a prenderne<br />

atto e ad adeguarsi pena la loro stessa sopravvivenza. Per quanto criticato e criticabile per le misure adottate in questa<br />

prima fase, il Governo Monti ha introdotto uno stile ed una nuova sobrietà che non ammettono ripensamenti e sta<br />

restituendo alle Istituzioni l’immagine di autorevolezza e credibilità che si era persa nelle mille dichiarazioni e nelle<br />

mille smentite, nelle chiacchiere inutili e nei “corpo a corpo” dei talk show televisivi, veri strumenti di distruzione della<br />

dignità della politica. Anche a livello internazionale l’atteggiamento dei governi e dei media è radicalmente mutato<br />

nell’arco di poche settimane. E ciò non può che far bene ad un Paese che per troppo tempo ha dovuto subire il sarcasmo<br />

e l’ironia degli osservatori politici stranieri.<br />

Proprio per questi motivi non è da escludere che le forze politiche che oggi sostengono il Governo possano trovarsi nella<br />

situazione descritta da Luigi Pirandello ne La giara, o meglio, nei panni di quel Don Lolò Zirafa che affidò a Zì Dima,<br />

valente artigiano che aveva inventato un mastice resistentissimo, l’incarico di riparare una giara che si era spaccata in<br />

due. Come andò a finire la storia è a tutti noto, e quanto questa possa costituirsi in metafora dell’attualità politica italiana<br />

è del tutto evidente. Resta da vedere quale e quanto coraggio saprà dimostrare il premier Mario Monti e quanto riuscirà<br />

ad essere autonomo dalle forze politiche che sono, almeno per il momento, obbligate a sostenerlo.<br />

Di certo ha di fronte a sé un’occasione storica: quella di infrangere quel sistema di complicità accettato e subìto nello<br />

stesso tempo tra la società e la sua classe dirigente e di riportare, anche con una forte e per quanto dolorosa<br />

accelerazione, il nostro Paese verso la normalità, sospesa da quindici anni di contrapposizioni e dal bipolarismo forzato<br />

al quale ha dovuto sottostare per un troppo lungo periodo di tempo.<br />

Avrebbe certamente dalla sua parte una larga fetta dell’opinione pubblica. Quella parte che vuole sottrarsi all’idea del<br />

declino ed è stanca di una politica inconcludente, rissosa e del sistema dei veti incrociati che ha immobilizzato l’<strong>Italia</strong><br />

sino a renderla irriconoscibile.<br />

Cittadini o sudditi? Ma la credibilità di un Governo non si gioca solo sul piano internazionale o su quello della<br />

competenza tecnica e neppure solo su quello della sobrietà nei comportamenti, tutte questioni delle quali si sentiva<br />

comunque fortemente bisogno. I governi traggono la loro credibilità, autorevolezza e legittimazione presso l’opinione<br />

pubblica soprattutto dalla capacità che dimostrano nel saper cogliere ed interpretare la vera natura dei problemi e delle<br />

difficoltà che i cittadini e le imprese affrontano nella loro vita quotidiana. E tra questi vi è il peso insopportabile del<br />

sistema asfissiante di regole e del conseguente cattivo funzionamento della Pubblica amministrazione. Si segnalano da<br />

anni l’urgenza e la necessità della semplificazione delle procedure e del complessivo ammodernamento della macchina<br />

amministrativa, ma tutto ciò sembra appartenere ad una dimensione quantomeno nebulosa, mentre certi restano i danni<br />

economici ed il disagio complessivo che i privati cittadini ed il sistema economico nel suo insieme subiscono.<br />

Nel corso degli anni, attraverso numerose e approfondite ricerche, sono stati valutati anche i costi diretti e indiretti della<br />

macchinosità e lentezza delle procedure e si è accertato che queste corrispondono ad almeno due punti percentuale del<br />

Pil nazionale. Ma ciò che desta maggiore preoccupazione e provoca certamente maggiori danni e che il Governo dovrà<br />

affrontare con la massima sollecitudine possibile, è il problema dei tempi di pagamento della Pubblica amministrazione.<br />

Problema che, se fosse stato preso immediatamente di petto, avrebbe potuto dare un immediato e decisivo contributo alla<br />

ripresa economica. Da sola, questa misura sarebbe in grado di portare sollievo a centinaia di migliaia di imprese e di<br />

fornitori e di salvaguardare un numero consistente di posti di lavoro.<br />

Ci richiamiamo spesso all’Europa e alla necessità di osservarne le regole. Anche i sacrifici sono sollecitati ai cittadini e<br />

alle imprese in nome dell’Europa, ma il comportamento dello Stato è incoerente e contraddittorio: in Germania la<br />

Pubblica amministrazione liquida i propri debiti in trenta giorni; in Francia è attiva una disposizione che impegna<br />

l’Amministrazione a pagare entro sessanta giorni. In <strong>Italia</strong> i tempi sono praticamente indefiniti e comunque legati, più<br />

che al diritto e alle buone prassi, alla fortuna, alla benevolenza e al sistema delle conoscenze o, peggio ancora, alla<br />

corruzione che, come tutte le inchieste sociologiche e le tante indagini della magistratura confermano, ha raggiunto<br />

livelli non più sopportabili. Si susseguono ormai con una impressionante cadenza i casi di suicidio di piccoli<br />

imprenditori, che proprio a causa di questi ritardi precipitano in una spirale perversa e vedono messa in discussione una<br />

intera vita di lavoro e di sacrifici.<br />

E andrebbero affrontati e risolti i drammi provocati in Sardegna dalla legge regionale 44, varata, a suo tempo, a sostegno<br />

delle attività agricole e di allevamento e successivamente cassata dall’Unione europea costringendo centinaia di aziende<br />

– che avevano contratto finanziamenti dal sistema bancario al tasso agevolato previsto dalla legge e si sono<br />

incolpevolmente ritrovate, a distanza di anni – a dover rifondere i finanziamenti ricalcolati a tasso corrente e quindi a<br />

rimborsare anche le differenze maturate.<br />

Decine e decine di aziende sono state costrette a chiudere, altre sono state pignorate o poste sotto sequestro, altre ancora<br />

sono già andate all’asta e vendute per un’infima quota del loro valore reale. Tutto ciò sta creando, in una regione già<br />

afflitta da tanti malanni, un profondo disagio economico e sociale e una marcata frattura tra operatori economici e Stato,<br />

soprattutto per il fatto che quest’ultimo assume le sembianze del persecutore, essendo la riscossione affidata a Equitalia,<br />

braccio operativo della Agenzia delle Entrate.<br />

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Non si può correre il rischio di sottovalutare le possibili ricadute che le procedure di riscossione mettono in moto, anche<br />

perché lo stesso Stato, che da una parte promulga leggi contro la pratica criminale dell’usura, dall’altra fa di questa<br />

pratica un largo uso a danno di quei cittadini che dovrebbe invece tutelare.<br />

Per rendersi conto di quanto ciò sia vero, basterebbe osservare come tra interessi e sanzioni un modestissimo debito<br />

possa crescere esponenzialmente. Nello stesso tempo, appare non più sostenibile l’impostazione feudale del rapporto<br />

Stato-cittadino nel quale il primo considera e tratta il secondo come un suddito che, anche quando ha ragione, si troverà<br />

di fronte a mille ostacoli e alla impossibilità di vedersela riconosciuta in tempi decenti.<br />

A confortare l’idea che su questo tema occorre impegnarsi con la massima urgenza vi sono le minacce e gli attentati<br />

sempre più numerosi che hanno come obiettivo proprio la Agenzia di riscossione.<br />

La questione ha assunto ormai connotazioni politiche da vera e propria emergenza di ordine pubblico. Le stesse autorità<br />

preposte alla sicurezza hanno segnalato la pericolosità della situazione e paventato la reale possibilità di una escalation<br />

del fenomeno, che si innesta all’interno di un generale clima sociale fortemente teso.<br />

Occorre, a nostro modesto avviso, riformare il sistema e le procedure di riscossione nel tempo più breve possibile, se<br />

veramente si vuole evitare che questa vicenda assuma toni ancora più aspri e pericolosi con il rischio che questo<br />

malessere, sempre più esteso, possa essere strumentalmente cavalcato.<br />

Crescere, ma come? Un’altra fonte di malessere diffuso è costituita dal problema della disoccupazione, sopratutto<br />

quella giovanile, che ha raggiunto, specialmente nel Meridione, picchi mai toccati in passato.<br />

Sui temi del lavoro è aperta, non da oggi, una vivace discussione sia tra gli studiosi e gli esperti, sia all’interno delle<br />

forze politiche, sia tra le centrali sindacali divise al loro stesso interno sugli obiettivi e le strategie da seguire.<br />

Le proposte in campo sono numerose e sarebbe forse impossibile sintetizzarle tutte e valutarne la bontà e la praticabilità<br />

e, comunque, non è questa la sede adatta a trattare con l’attenzione e la competenza che l’argomento meriterebbe una<br />

materia di così grande complessità. Ci limiteremo quindi ad alcune riflessioni su taluni degli aspetti, a nostro parere,<br />

centrali: quelli legati alla ripresa e alla crescita da tutti invocate come condizione indispensabile per rimettere in moto il<br />

Paese. Il premier Monti ha segnalato la necessità di far leva su visioni di medio-lungo periodo. Occorrono linee<br />

strategiche e metodi di pianificazione e controllo, fase per fase, dei risultati.<br />

In definitiva, la crescita dipende dalla ripresa degli investimenti, e in questo caso una buona notizia sarebbe quella della<br />

riapertura del credito, sempre che le banche non preferiscano continuare a comprare titoli di Stato invece che finanziare i<br />

propri clienti; dalla crescita costante ed elevata della produttività in tutti i settori ed in particolare in quello dei servizi<br />

ove essa non cresce abbassando la media generale; da un clima di fiducia in se stessi e dall’abbandono del timore delle<br />

ristrutturazioni, considerando che abbiamo sufficienti risorse per sopravvivere fino al momento della ripresa.<br />

In questo quadro occorre riflettere su alcune considerazioni di carattere elementare: la produttività è necessaria per la<br />

crescita. È la crescita competitiva di cui già parlava Delors trent’anni fa. Se la produttività cresce del 10% i costi dei<br />

fattori consumati diminuiscono del 10% ed è per questo che la crescita diventa competitiva. La produttività crescente<br />

genera anche riduzione dei consumi dei fattori, sia lavoro sia capitale, e ciò rappresenta l’effetto desiderato della<br />

contrazione dei costi per unità di prodotto. Ne consegue che un’alta produttività è legata, in molte imprese e in molti<br />

settori, alla riduzione del livello di occupazione e del monte di ore impiegate. Tuttavia, se il tasso di crescita del Pil è<br />

superiore al tasso di crescita della produttività si aprono nuovi spazi per un incremento dell’occupazione ed una<br />

maggiore dotazione di capitali. Questo è ciò che, anche in assenza di notizie ufficiali, sta accadendo nell’industria<br />

agroalimentare, ma non nei servizi a partire soprattutto dalla Pubblica amministrazione. Sul fronte del mercato del lavoro<br />

occorre prendere atto che dal 1970 ad oggi il sistema di regolazione è costantemente peggiorato. Fino al 1970, era nella<br />

riconosciuta responsabilità delle parti sociali attraverso due accordi pilastro: quello sui licenziamenti collettivi e quello<br />

sulla giusta causa riguardante la tutela dei rappresentanti sindacali e degli attivisti (non più di 70/100 l’anno). Nel 1970,<br />

con lo Statuto, il contratto interconfederale sulla giusta causa è diventato legge e le parti hanno perso il controllo sulla<br />

materia, passata nelle mani di avvocati e giudici. Poi si è barato, facendo credere che la difesa dell’articolo 18 fosse un<br />

deterrente contro ogni licenziamento. I disoccupati sono aumentati di qualche milione, ma è rimasta la percezione che in<br />

<strong>Italia</strong>, grazie all’articolo18, esista ancora il diritto all’occupazione a vita. Così, all’interno risultano beffati lavoratori e<br />

imprese, mentre all’estero resta la convinzione che, stante questa regola, sia meglio non investire in nuove attività nel<br />

nostro Paese. In buona sostanza, tutta la discussione intorno all’articolo18 è strumentale e comunque non decisiva né per<br />

le prospettive della crescita né per le sorti dell’economia, soprattutto se si riflette sul fatto che questo articolo si applica<br />

solo alle imprese con più di 15 dipendenti, in un sistema come il nostro dove la stragrande maggioranza delle imprese è<br />

di piccole dimensioni. La stessa Ocse giudica l’<strong>Italia</strong> tra i paesi più flessibili e quello in cui è più semplice che non in<br />

altri licenziare, quindi non vi sarebbero ragioni serie per modificare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Il vero<br />

problema è sempre stato quello del reintegro, nell’ipotesi in cui il Tribunale riconosca la mancanza di una giusta causa,<br />

anche se questo obbligo è presente in gran parte dei paesi europei: allora quella sull’articolo 18 sembra essere più una<br />

battaglia di principio che non di sostanza. Sbaglia chi ne chiede l’abolizione, attribuendo a questa norma la responsabilità<br />

e la colpa delle difficoltà aziendali e della limitazione della libertà di organizzazione dell’impresa. E sbaglia anche chi<br />

ritiene che certi temi non debbano neppure essere messi in discussione, esercitando un vero e proprio diritto di veto<br />

rivolto non solo al Governo ma anche al Parlamento e ai cittadini italiani: in democrazia, piaccia o non piaccia, si può e<br />

si deve discutere di tutto.<br />

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Insomma, l’articolo 18 è diventato un vero e proprio totem da difendere o da abbattere a seconda degli interessi che si<br />

intendono tutelare. Per ciò che ci riguarda – anche se il nostro parere conta ben poco – riteniamo quell’articolo un<br />

simbolo, anche se ormai di scarsa efficacia, delle conquiste dei lavoratori. Ma forse è proprio per l’essere “simbolo” che<br />

si è conquistato tanti nemici. Il vero problema da affrontare, l’atto di intelligenza e coraggio richiesto a Governo e parti<br />

sociali, è quello di rimodulare tutto il sistema delle relazioni industriali alla luce delle sfide poste dalla competizione<br />

globale. Occorre, in particolare, da un lato, ridisegnare ruolo, compiti, funzioni della concertazione e dall’altro, della<br />

contrattazione: collettiva e individuale, nazionale e locale. A questo riguardo le questioni poste da Marchionne e dalla<br />

Fiat, la cui uscita da Confindustria ha segnato nel 2011 uno dei momenti storicamente più negativi della vita della<br />

Confederazione, non possono essere superficialmente eluse; rappresentano infatti uno dei nodi da sciogliere sul ruolo<br />

effettivo che le parti sociali intendono svolgere ai fini della crescita.<br />

Il capitale è mobile. Non vi è dubbio che i rischi recessivi, se non dominati e messi subito sotto controllo, insieme alle<br />

ristrutturazioni necessarie, genereranno una crescita della disoccupazione. Una disoccupazione però che non dovrà essere<br />

curata con la cassa integrazione – pur di affermare che comunque resta in essere un rapporto di lavoro – ma con una<br />

generosa indennità di disoccupazione che coinvolga in modo attivo i lavoratori nella ricerca di una nuova occupazione.<br />

In positivo, è necessario promuovere la crescita della produttività e le ristrutturazioni e favorire le innovazioni di<br />

processo e di prodotto e di nuovi e più efficienti servizi. Così come avvenne tra il 1947 e il 1970, quando si svilupparono<br />

i servizi dell’auto, dei motocicli, degli elettrodomestici, delle autostrade, dell’acqua e dell’energia.<br />

Fantasia e tecnica dovrebbero, così come si fece allora, esercitarsi sul fronte della qualità dei servizi per il mercato<br />

europeo e oltre. Qualcosa in questa direzione si muove, ma stentatamente e senza il necessario livello di competenza e<br />

serietà. Nel medio e lungo periodo nascerà una nuova ed evidente contraddizione tra crescita della produttività ed<br />

occupazione, specie nel caso in cui il Pil superi il tasso della produttività.<br />

Rimane il problema posto da Keynes e Leontief. Se il potenziale di produttività sarà elevato, ci troveremo<br />

inevitabilmente di fronte ad una costante diminuzione del monte ore lavorativo, perciò occorre sin da ora riflettere sul<br />

tempo destinato al lavoro. Ossia ad una nuova ripartizione del lavoro. Se tutti lavorassimo 4 o 5 ore al giorno disponendo<br />

di un Pil più elevato, soprattutto in termini di qualità, la stessa qualità della vita potrebbe essere molto migliore. In linea<br />

ipotetica, se riuscissimo a pianificare la crescita della produttività al 2% per tutta l’economia, potremmo modificare la<br />

retribuzione al lavoro destinando, per esempio, l’1% alla riduzione dell’orario (o più a seconda dell’azienda) e l’1%<br />

all’incremento dei salari. Già oggi i premi di produttività sono incoraggiati sia sul piano contributivo sia su quello<br />

fiscale. Se gli accordi, che al momento non superano il migliaio, fossero mezzo milione o più, diventerebbe evidente<br />

l’effetto di una maggiore domanda per alimentare lo sviluppo anche a compensazione del minor salario dovuto alla<br />

riduzione dell’orario di lavoro. In definitiva, ci troviamo di fronte ad una nuova, grande sfida che non possiamo eludere.<br />

Occorre ripensare tutto sia sul fronte della crescita sia su quello della mobilità. E, d’altra parte, se il capitale è mobile in<br />

un sistema globale, non si può continuare a pensare che il lavoro possa sopravvivere nella totale immobilità.<br />

L’istinto conservatore di questo nostro Paese impedisce spesso di ragionare e di confrontarsi con l’apertura mentale<br />

necessaria. Le regole, com’è evidente, devono essere rispettate, ma le regole non possono piegare la realtà, casomai la<br />

devono assecondare, accompagnare, sostenere. E la realtà ci dice che dal 1970 ad oggi sono passati ormai più di<br />

quarant’anni. In questi quarant’anni il mondo è radicalmente cambiato, così com’è cambiato il modo di produrre e di<br />

vivere. Forse è arrivato il momento di mettere mano al cambiamento di quel sistema di regole che ha perso gran parte del<br />

senso che aveva in un’altra epoca.<br />

Tornare al progetto. Per la ripresa sarà determinate la cosiddetta “fase 2” dell’azione di Governo a cui è stato affidato il<br />

titolo – speriamo benaugurante – di “Cresci <strong>Italia</strong>”. Sia pure a fatica, qualche idea oltre alle prime misure varate sta<br />

emergendo. Innanzitutto appaiono sempre più evidenti la necessità di superare la tecnica della navigazione a vista, che ha<br />

caratterizzato l’azione dei Governi negli ultimi quindici anni, e l’obbligo di dispiegare una nuova e più lungimirante<br />

capacità progettuale alla quale affidare il futuro del Paese. In numerose occasioni, anche attraverso le pagine dei<br />

precedenti Rapporti, abbiamo segnalato, tra le urgenze, quella di elaborare un Progetto che fosse in grado di interpretare<br />

le capacità, assecondare le vocazioni, mettere a frutto gli asset strategici sui quali l’<strong>Italia</strong> può contare. Non è più<br />

accettabile l’idea che un Paese come il nostro possa continuare a vivacchiare alla giornata in balìa di ogni turbolenza,<br />

senza una mèta e una direzione, costretto a subire decisioni assunte altrove ma delle quali è spesso chiamato a sostenere<br />

gli oneri. È indispensabile, ormai, riprendere in mano il nostro futuro e decidere quale dovrà essere il nostro posto nel<br />

mondo. Verbi come programmare, pianificare, progettare devono tornare al centro della riflessione e del dibattito<br />

politico, economico e sociale. Devono essere liberati dalle interpretazioni ideologiche alle quali sono stati affidati nei<br />

decenni passati quando, con l’ondata neoliberista, si affermò anche l’idea che essi dovessero automaticamente essere<br />

associati al dirigismo economico delle società del socialismo di Stato. Passò l’idea, appunto, che programmare e<br />

pianificare rappresentassero un ostacolo alla crescita e al progresso: l’economia neo-liberista non aveva bisogno di<br />

strategie, così come avrebbe dimostrato nel tempo di voler fare a meno della politica, poiché il mercato da solo avrebbe<br />

indicato la strada e gli obiettivi. E invece la storia recente ci insegna che gli Stati hanno non solo il ruolo ma soprattutto<br />

il dovere di stabilire regole, orientare le scelte e indirizzare le risorse nelle direzioni più confacenti al bene comune. E in<br />

questa direzione andrebbe la messa a punto di un processo di riallineamento degli investimenti con gli obiettivi che si<br />

intendono perseguire. La difficile congiuntura ci obbliga ad una gestione sempre più attenta ed oculata della spesa<br />

pubblica.<br />

10


Tanto per fare un esempio: ogni anno l’Amministrazione spende per appalti di beni, servizi e forniture circa 100 miliardi<br />

di euro e si stima che le stazioni appaltanti siano in <strong>Italia</strong> non meno di settantamila. A parte il problema di una spesa<br />

pubblica che si frantuma e si disperde in mille rivoli, queste stazioni sono gestite attraverso percorsi e procedure di spesa<br />

non sempre omologabili e si trasformano, in numerosi casi, in veri e propri centri oscuri di gestione del potere.<br />

Proprio in questa direzione si rendono necessari una maggior trasparenza ed un maggior controllo, anche attraverso una<br />

classificazione delle stazioni appaltanti e l’introduzione di un sistema di rating che ne osservi e ne valuti la qualità sotto<br />

la competenza della Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici.<br />

E per far ciò, occorre ritornare alla strategia, al progetto, alla programmazione. E occorre farlo soprattutto oggi, in tempo<br />

di scarsità di risorse, di mancata crescita e di impoverimento complessivo. Ciò di cui si dispone deve essere investito e<br />

impegnato nella consapevolezza che deve produrre frutti e benefici non solo per le generazioni presenti, ma anche per<br />

quelle future. L’<strong>Italia</strong> è, com’è noto, un paese povero di materie prime e deve la propria crescita, nel corso degli ultimi<br />

cinquant’anni, alla sua capacità di trasformazione e di vendita, alla inventività e alla duttilità dei suoi imprenditori, alla<br />

progressiva affermazione del Made in Italy. Tuttavia, è uno dei paesi più ricchi del mondo per possesso di “materie<br />

prime irripetibili” – e speriamo inesauribili – sulle quali costruire la propria prospettiva economica. Ci riferiamo<br />

all’enorme patrimonio artistico, naturale, culturale che tutto il mondo ammira e ci invidia. Eppure, noi non siamo mai<br />

riusciti a capire appieno questa ricchezza e la portata che essa può produrre in termini economici e di sviluppo.<br />

Altri, meglio di noi, hanno saputo intercettare e sfruttare a piene mani i nostri asset arricchendosi e impoverendo noi.<br />

Basti pensare, solo per fare un esempio, alla nostra produzione agroalimentare riconosciuta e apprezzata nel mondo e<br />

all’italian sounding, cioè alla falsificazione a livello mondiale dei nostri prodotti e dei nostri marchi, che frutta agli<br />

imitatori ben 60 miliardi di euro l’anno, senza contare ciò che accade per tanti altri settori.<br />

Programmare significa, quindi, fare l’inventario di ciò che si possiede in termini materiali e immateriali e decidere come<br />

e in quali tempi investire risorse ed energie per trarne ulteriore ricchezza. Una cosa è certa: i nostri asset non<br />

conosceranno mai nessuna caduta della domanda; anzi, sono destinati ad essere apprezzati e fruiti da un numero sempre<br />

crescente di persone nel mondo.<br />

Certamente l’<strong>Italia</strong> non potrà né dovrà mai rinunciare alla propria industria manifatturiera: primo perché questa assicura<br />

buona produzione, buoni fatturati e un consistente numero di posti di lavoro; in secondo luogo, perché la produzione è lo<br />

strumento attraverso il quale prendono corpo e vita le idee e le innovazioni delle quali siamo capaci; in terzo luogo<br />

perché, soddisfacendo il mercato interno, limita, per quanto possibile in un’economia globalizzata, il ricorso alla<br />

importazione di beni. Naturalmente, il nostro settore manifatturiero in tutte le sue dimensioni e proiezioni di impresa<br />

dovrà puntare, per cercare di essere al passo con la concorrenza internazionale, al continuo rafforzamento in termini di<br />

innovazione di processo e di prodotto. Tuttavia, ferma restando la necessità di tutelare e sostenere la nostra produzione<br />

tradizionale, la prospettiva di sviluppo sarà sempre più caratterizzata dalla nostra capacità di valorizzare il nostro<br />

patrimonio naturale, artistico e culturale al quale si faceva prima riferimento. Ma per fare ciò, è necessario un cambio di<br />

passo, un vero e proprio cambio di mentalità e di cultura. Occorre accettare, proprio in termini culturali, la<br />

postmodernità, con le sfide che essa impone, superando l’idea che l’industria possa essere ancora il vero motore dello<br />

sviluppo futuro, almeno per un Paese come il nostro.<br />

Il nostro futuro dipende e dipenderà ancora di più dalla capacità di produrre ricerca e innovazione, dalla qualità del<br />

nostro sistema di istruzione, dalla cura che avremo del nostro territorio e dei nostri beni artistici, dal livello dei nostri<br />

servizi e dalla qualità della nostra produzione in tutti i settori. Ma sarà determinante anche la lungimiranza con la quale<br />

sapremo gestire la presenza nel nostro territorio di milioni di immigrati e dei loro figli ormai parte integrante della nostra<br />

popolazione e che costituisce un indubbio fattore di ricchezza, sia per l’apporto economico che essi forniscono al nostro<br />

Pil, sia per i collegamenti che gli immigrati tengono aperti con i loro paesi di provenienza, sia per il contributo che danno<br />

al superamento del nostro deficit demografico. È consolante il fatto che proprio il ministro Passera, già dai tempi in cui<br />

era ai vertici di una delle prime banche italiane, abbia espresso nel corso di un’ampia intervista rilasciata al Corriere<br />

delle Sera, la necessità di dare un progetto al Paese.<br />

Oggi il ministro Passera è titolare di un enorme dicastero che ha accorpato le competenze di ben sette precedenti<br />

ministeri e ha quindi la possibilità di dare seguito alle idee a suo tempo manifestate e di imprimere una svolta, almeno<br />

sul piano del metodo, all’azione del Governo. Ritornare al “progetto” significa anche, o forse soprattutto, riattivare la<br />

“produzione di senso” della quale l’<strong>Italia</strong> ha uno straordinario bisogno. Viviamo in una fase che potremmo definire di<br />

galleggiamento, la nostra barca è ferma in mezzo al mare in balìa delle onde. Si cerca di interpretare il vento e le<br />

correnti, si compiono piccole manovre che ne garantiscono un minimo di stabilità ma la barca non ha né una mèta da<br />

raggiungere né una rotta tracciata da seguire. I suoi marinai, stanchi e delusi, si limitano alla gestione ordinaria in attesa<br />

di ordini, che dall’armatore non arrivano. Non hanno alcuna missione da compiere e niente per cui valga la pena di<br />

impegnarsi. Si vive alla giornata e a sera appare già un grande risultato il non essere affondati, nonostante il mare agitato<br />

e l’arrivo di qualche onda anomala. Progettare significa anche mettere a confronto idee e visioni; chiamare a raccolta le<br />

intelligenze migliori; considerare attentamente esperienze diverse; sostenere la creatività; immaginare possibili sviluppi;<br />

valutare costi e benefici ma soprattutto alimentare la speranza, l’ottimismo, la voglia di fare e di impegnarsi, di esserci,<br />

di partecipare alla costruzione del futuro. Un paese senza progetto è, per rimanere alla metafora marinara, un barca alla<br />

deriva in un mare pieno di insidie naturali e di pirati famelici sempre pronti all’arrembaggio.<br />

11


Sciogliere i nodi. Ma per dar vita al “Progetto Paese” occorrono impegno, lungimiranza, capacità di decisione,<br />

assunzione di responsabilità, scelte chiare e sicure e soprattutto il coraggio di dire no, quando necessario. E, prima di<br />

ogni altra cosa, occorre recuperare una cultura e un metodo dell’osservazione e dell’analisi scientifica che, attraverso un<br />

approccio multidisciplinare e sistemico, eviti al Paese i clamorosi errori di valutazione e previsione sinora compiuti.<br />

È finito il tempo della “compatibilità obbligata”, dell’arte di riuscire a far convivere tutto con il suo contrario. È arrivato<br />

il tempo di richiamare ciascuno alle proprie responsabilità e ai propri doveri. Ma, oltre a ristabilire il giusto equilibrio tra<br />

diritti e doveri, il Progetto, per poter esprimere tutte le sue potenzialità, deve essere condiviso e attivamente partecipato<br />

dai cittadini attraverso tutte le articolazioni della società civile. Se l’operazione politica della formazione del Governo<br />

Monti genera, in molti, dubbi legittimi sul tasso di democraticità che la caratterizza, la definizione di un progetto per lo<br />

sviluppo si presenta davvero come l’occasione per ricucire il rapporto di fiducia tra eletti ed elettori sul punto<br />

delicatissimo del livello effettivo di democrazia in questa fase della vita nazionale. In questo caso, la individuazione dei<br />

contenuti del progetto ha una uguale importanza rispetto alle modalità attraverso le quali esso sarà elaborato.<br />

Quindi, sarà un progetto imposto dall’alto, dai “migliori” ai cittadini o sarà un progetto ampiamente partecipato?<br />

Il nostro suggerimento è quello di procedere per questa seconda direzione anche nei tempi stretti imposti dalla crisi. Le<br />

moderne tecnologie informatiche, gli avanzati metodi di ascolto per la valutazione e selezione delle proposte – tutti<br />

strumenti consolidati nei sistemi di democrazia partecipativa – consentono di poter operare presto e bene. Non vi è<br />

dubbio che, riguardo alla vita politica ed istituzionale, questa sia la strada per costruire un “patto” che sia fondato su reali<br />

elementi di consenso e in grado di allontanare i rischi di rottura della società italiana. Ma un Paese, che voglia<br />

immaginare – attraverso il progetto – un futuro migliore, deve prima di ogni altra cosa rimettere ordine al proprio interno<br />

e sciogliere i nodi che lo tengono bloccato. Deve affrontare e risolvere i suoi problemi annosi che costituiscono una<br />

zavorra che frena qualsiasi possibilità di movimento. Tra i tanti problemi da affrontare, così come abbiamo segnalato<br />

all’inizio di questa riflessione, ve ne sono alcuni che, ancor più di altri, assumono un carattere decisivo e rappresentano<br />

uno snodo vitale per la prospettiva stessa del Paese. Tra questi, il problema dei problemi, quello dell’impoverimento dei<br />

ceti medi e della povertà in generale, e quindi, della redistribuzione della ricchezza, ormai decisivo non più solo per le<br />

prospettive dell’economia e della crescita, ma anche per le sorti stesse della nostra democrazia. Da anni il nostro Istituto<br />

segnala il progressivo impoverimento dei ceti medi, la crescita delle vecchie e nuove povertà, il blocco della mobilità<br />

sociale, l’eccessiva concentrazione della ricchezza nelle mani di un numero sempre minore di soggetti e l’affacciarsi di<br />

un nuovo darwinismo sociale. Fummo noi tra i primi a lanciare l’allarme sulla sindrome della “quarta settimana”, che<br />

diventò rapidamente della “terza”, per centinaia di migliaia di famiglie che non riuscivano più ad arrivare alla fine del<br />

mese. Così come segnalammo il fenomeno, fino ad allora sconosciuto, dei “poveri in giacca e cravatta”, testimoniato dal<br />

profondo cambiamento delle caratteristiche sociali dei fruitori delle mense della Caritas.<br />

Ancor più della crisi politica e istituzionale, le difficoltà economiche di strati sempre più ampi della società italiana<br />

determineranno le prospettive della nostra democrazia. Stiamo consumando la rottura di quel patto sociale, che sinora ha<br />

tenuto insieme il Paese anche nei momenti di maggiore gravità, e prendono nuovo vigore le derive corporative che<br />

esaltano l’egoismo e la separatezza sociale. Il conflitto ritorna sulla scena con tutta la sua carica dirompente e, in<br />

mancanza di un adeguato sistema di regolazione sociale, i bisogni vengono sacrificati agli interessi e, a loro volta, gli<br />

interessi particolari prendono il sopravvento su quelli generali.<br />

Tutto ciò sollecita un rapido ritorno della politica. Di una politica che riesca a liberarsi delle sue scorie. Una buona<br />

politica che sappia prendere su di sé il compito e la responsabilità di restituire all’<strong>Italia</strong> il futuro che merita.<br />

12


CAPITOLO 1<br />

VITA/MORTE<br />

DECIDERE DI (NON) MORIRE<br />

I giovani e la morte. Protagonisti di un’età strutturalmente legata a incertezza esistenziale, i giovani barcollano la loro<br />

quotidianità tra la solitudine e la socialità del gruppo dei pari. Il passaggio all’età adulta passa necessariamente attraverso<br />

riti di iniziazione, contornati di rischi e pericoli, dove i primi definiscono le possibili esternalità negative connesse a<br />

un’impresa, mentre i secondi non sono riconducibili a un evento decisionale: il giovane decide di correre un rischio, ma<br />

non decide di sottostare a un pericolo, casomai si limita a subirlo. È proprio la morte che unisce in sé la dimensione del<br />

rischio e quella del pericolo: il brivido adrenalinico di sfidare la sorte in una situazione rischiosa e l’incoscienza (in realtà<br />

“ricercata”, quindi cosciente) dell’esposizione a dinamiche imprevedibili e pericolose. Tutto questo fa parte<br />

dell’adolescenza e si addice al giovane, sicuramente più che non la sicurezza, la protezione del sé, la prudenza, la<br />

lungimiranza. Sfidare contemporaneamente la dimensione del rischio e quella del pericolo accresce l’autostima del<br />

giovane e gli permette di accarezzare il sogno dell’invulnerabilità, un’illusione tanto più cogente se pensiamo alle<br />

difficoltà per un giovane di trovare una presa sulla realtà nella società tardo-moderna. Gioventù e irrequietezza sono un<br />

binomio inscindibile, che richiama gesta straordinarie, fossero anche fortemente inusuali o stupide.<br />

Morte e gioventù sono intimamente legate, ma il loro rapporto muta sulla base del diverso contesto, fino a scatenare<br />

situazioni inedite in epoche diverse. Come accadeva ieri, il giovane si confronta con la morte, ma oggi – a differenza di<br />

ieri – il giovane è solo di fronte alla morte. Solo di fronte alla morte perché in larga parte privo di contatto con le metanarrazioni<br />

(ad esempio le religioni e le ideologie politiche rivoluzionarie) che fornivano indicazioni di comportamento<br />

nei confronti del Passo Estremo. La morte è oscena perché contrasta con la logica della razionalità strumentale che<br />

caratterizza i nostri tempi, perché infrange il sogno dell’immortalità di cui siamo pervasi: per questo motivo cerchiamo<br />

continuamente di esorcizzare la morte e il morire.<br />

La morte in Rete. La società tardo-moderna rinuncia a elaborare collettivamente il lutto. Manca completamente una<br />

“pedagogia della morte”: di fronte a questo evento ci scopriamo smarriti, non solo per la perdita in sé, ma per<br />

l’impreparazione di fronte alla dimensione della dipartita, dell’assenza, del vuoto ontologico. Non sapendo interpretare la<br />

morte corriamo ai ripari spostandoci sul livello che più ci è congeniale oggi: quello della comunicazione. Cerchiamo di<br />

rendere la morte “virtuale”, trasportandola su un piano che sappiamo essere fittizio, quindi rassicurante.<br />

La morte in Rete non è mai anonima né ordinaria, dal momento che persegue l’obiettivo di rinfrancare il pubblico<br />

rispetto allo sgretolamento del mito dell’immortalità, considerato uno dei capisaldi della tardo-modernità. Internet<br />

adopera una ri-sacralizzazione della morte, introducendo riti e cerimonie che non sono inferiori a quelli che hanno<br />

accompagnato il passaggio dei defunti in tutte le epoche e in tutte le civiltà.<br />

La negazione della morte come “scelta educativa” nei confronti delle giovani generazioni non può essere perseguita fino<br />

in fondo: la morte c’è, continua a esistere e a cogliere anche le mele più acerbe, non solo quelle più mature.<br />

Quando la morte è volontaria. L’evento mortale continua a fare capolino, fino a diventare un’opzione praticabile su<br />

base volontaria, non solo un’ineludibile accidente della vita. È il caso del suicidio, un evento per il quale l’<strong>Italia</strong> ha<br />

storicamente avuto statistiche rassicuranti, ma di cui conosce negli ultimi anni una preoccupante impennata. Gli aumenti<br />

di suicidi nel nostro Paese, sono trasversali alle classi di età e rispondono a motivazioni che possiamo presumere essere<br />

differenti: la crisi economica che rende incerto il posto di lavoro, i cambiamenti nei rapporti di coppia all’interno delle<br />

famiglie tipiche e a-tipiche, l’insostenibilità della quotidianità nelle istituzioni totali, la difficoltà di accettare, da parte<br />

degli anziani, l’inesorabile deperimento fisico e il corollario della sofferenza. Soffrire non è nelle corde della società<br />

attuale: il dolore è una condizione da evitare a tutti i costi, va rimosso non solo nella sua veste fisica, ma anche in quella<br />

psicologica: proprio allo psicologo il paziente chiede la rimozione del dolore. Un atteggiamento del genere è trasmesso,<br />

ovviamente, anche alle nuove generazioni, “anestetizzate” di fronte alla sofferenza ma private, in questo modo, della<br />

pedagogia della morte: il lutto è una situazione dalla quale ristabilirsi il prima possibile per “tornare in società”, dal<br />

momento che le persone morenti non insegnano niente, né a proposito della vita terrena che stanno per concludere, né nel<br />

merito di quella ultraterrena che, forse, si apprestano a iniziare. La sofferenza – e la morte (che del dolore è la massima<br />

causa scatenante) – non trovano alloggio nella società tardo-moderna.<br />

La sociologia della morte. Vita e Morte continuano a essere legate: la Morte ha bisogno della Vita esattamente come i<br />

morti hanno bisogno dei vivi: poiché chi muore è narrato e ricordato da chi rimane. Da ciò deriva, come ulteriore<br />

conseguenza, che la morte è sempre la morte dell’Altro: non ci riguarda perché non ci può tecnicamente riguardare, dal<br />

momento che, quando noi ci siamo, la morte ancora non c’è; e viceversa, come ricordava già Epicuro. Una volta, l’unica<br />

arma era la memoria, adesso la tecnologia, quando è liberata dall’attacco delle credenze religiose e può sprigionare la sua<br />

gioiosa vitalità, può dare un sostanzioso aiuto. La morte produce così cultura e società: relazioni, stati d’animo<br />

individuali e intere psicologie collettive, istituzioni giuridiche e patrimoniali, organizzazioni e sistemi politici<br />

rappresentano l’indotto della morte, alla pari di lacrime, tristezza e mancanza.<br />

13


Non abbiamo ancora fatto pace con la Morte. La morte è sì un evento imprevedibile, incontrollabile, oscuro (per quanto<br />

oggi questi aggettivi debbano essere relativizzati, se applicati alla morte), ma conserva una sua naturalità e una sua<br />

fisiologia. Lo si voglia o meno, si continuerà a morire. Se è vero che ogni cultura ha costruito il proprio immaginifico<br />

percorso verso l’immortalità, non è mendace affermare che il nostro tempo per la prima volta punti con decisione le<br />

proprie fiches sulla figura del cyborg,che gioca con la vita e mette tra parentesi la morte.<br />

Conclusioni. Il mondo occidentale ha deciso da tempo di rifiutare il concetto di morte. Lo ha fatto in coerenza con i<br />

paradigmi della razionalità strumentale, ma non ha potuto eliminare il sospetto che questa sia stata una decisione animata<br />

dalla paura e dal tentativo di esorcizzare il rischio.<br />

Il sistema culturale ovatta la morte in tutte le sue fasi, ma non può garantire una cloroformizzazione completa: qualcosa<br />

filtra e si insinua tra le certezze di una vita dedita alla ricerca del benessere. La condizione dell’essere malato, come è<br />

stato già detto, è assolutamente evitabile, non solo in base al (sacrosanto) diritto di perseguire una buona salute, ma<br />

anche per le “conseguenze sociali” date dalla malattia: oggi il malato è dipinto come un colpevole. Il motivo non risiede<br />

nel fatto che tutta la comunità si fa carico della sua malattia, ma nel fatto che la sua malattia insinua nella società il tarlo<br />

della mortalità e della finitezza della vita. L’idealtipo del cyborg serve proprio a negare questa evidenza, sostituendola<br />

con la proposta di un soggetto umano capace di riparare singole parti del proprio corpo, sconfiggendo l’usura, la<br />

vecchiaia, la consunzione, la morte.<br />

L’uomo-macchina è un vecchio topos letterario, una figura cinematografica, un’allucinazione punk, un sogno<br />

biotecnologico: l’individuo che “ripara” meccanicamente la propria vita intende sostituire le leggi naturali con quelle<br />

artificiali, dettate non da un dio su tavole di pietra, ma da un team di scienziati nelle ampolle dei laboratori.<br />

Ma esiste una “terza via” tra la dimensione della morte inglobata nelle rigide dinamiche dell’antica vita di comunità e la<br />

morte ignorata dalle biotecnologie e dal cyborg: consiste nell’osservazione della morte come produzione di emozioni e –<br />

paradossalmente – di “socialità”.<br />

14


SCHEDA 1 | TESTAMENTO BIOLOGICO E “FINE VITA”<br />

L’opinione degli italiani sul testamento biologico. L’opinione degli italiani sulla creazione di una legge specifica<br />

riguardo al testamento biologico è stata più volte al centro delle rilevazioni dell’<strong>Eurispes</strong>. È interessante mettere a<br />

confronto i risultati di diversi anni per capire quali sia stato in generale l’orientamento dell’opinione pubblica. Prendendo<br />

in considerazione i dati relativi agli anni 2007, 2010 e 2011, si riscontra innanzitutto una maggioranza assoluta di quanti<br />

si dicono favorevoli all’introduzione di una legge sul testamento biologico che non scende mai al di sotto del 70%.<br />

Nell’arco temporale considerato, si registra però inizialmente un aumento dei favorevoli (dal 74,7% 2007 all’81,4 del<br />

2010) e in seguito una flessione (77,2% 2011).<br />

Anche nella rilevazione effettuata quest’anno si è evidenziato un ulteriore cambiamento che ha fatto registrare il 65,8%<br />

dei favorevoli al testamento biologico e, in parallelo, aumentare il numero dei contrari (30,3%), ciò potrebbe essere<br />

dovuto all’attenuazione degli effetti sull’opinione pubblica prodotti da alcuni casi di grande rilevanza mediatica negli<br />

anni passati. Allo stesso tempo, negli anni è diminuito il numero di quanti si sono astenuti dall’esprimere un giudizio.<br />

Punti di vista in <strong>Italia</strong>. In <strong>Italia</strong>, nonostante la volontà del paziente, i trattamenti di alimentazione e idratazione vengono<br />

comunque applicati e, di fatto, lasciano il paziente in vita contro la sua volontà espressa (qualora sia stata<br />

precedentemente manifestata). Ciò è tuttora motivo di dibattito tra laici e cattolici e il disegno di legge del luglio 2011<br />

non ha aiutato a risolvere i contrasti. Il disegno di legge si articola in otto punti che in pratica svuotano completamente il<br />

significato stesso di “testamento biologico”. In sostanza, le dichiarazioni anticipate di trattamento non sono vincolanti<br />

per i medici ed escludono la possibilità di sospendere nutrizione e idratazione artificiali (definite “naturali”), salvo in casi<br />

terminali. Sono applicabili, inoltre, solo se il paziente ha un’accertata assenza di attività cerebrale. I princìpi guida del<br />

ddl 2011 condivisi da entrambi gli schieramenti si concentrano in particolare su 4 punti: no all’accanimento terapeutico;<br />

il malato può, e non è obbligato a farlo, indicare in anticipo le cure accettate o rifiutate per quando non sarà più in grado<br />

di intendere o di volere; nominare un fiduciario che sarà notaio e anche interprete del volere del paziente che non può più<br />

decidere; il cittadino-paziente può modificare le volontà del testamento biologico in ogni momento. I punti più discussi<br />

sono anch’essi quattro: la possibilità di interrompere l’alimentazione forzata e l’idratazione; il ruolo e poteri del<br />

fiduciario e del medico; l’obbligo per il medico di rispettare la volontà espressa in anticipo del paziente (ma una<br />

mediazione si sta formando intorno alla possibilità dell’obiezione di coscienza); a chi spetta decidere quando le cure<br />

sconfinano nell’accanimento terapeutico?<br />

La Germania. La legge per il Testamento biologico è del giugno 2009. Le dichiarazioni dei pazienti in materia di fine<br />

vita sono considerate valide e vincolanti per i medici, purché siano fatte per iscritto. Qualora manchi il testamento o esso<br />

nulla dica su una particolare malattia, salvo si trovi un immediato accordo, il caso verrà risolto in tribunale. Il testamento<br />

può essere redatto in relazione a qualsiasi malattia e in qualsiasi stadio essa si trovi.<br />

La Francia. La legge del 2005 “Relativa ai diritti del malato ed alla fine della vita”, di modifica del Code de la santé<br />

publique, all’art. L. 1111 autorizza il medico, nel quadro di una procedura collegiale, a prendere la decisione (benché<br />

suscettibile di porre il paziente in pericolo di vita) di limitare o interrompere il trattamento, nel caso in cui la persona<br />

malata non sia in grado di esprimere la propria volontà. In attuazione di tali disposizioni, è intervenuto il decreto del 6<br />

febbraio 2006, che modifica l’articolo R. 4127-37 del Code de la santé publique e disciplina la facoltà del medico di<br />

astenersi da ogni accanimento terapeutico, nel caso in cui le terapie siano inutili e sproporzionate o abbiano il solo effetto<br />

del mantenimento in vita artificiale.<br />

Il Regno Unito. Il testamento biologico (living will) non è espressamente previsto dalla disciplina legislativa, ma è<br />

riconosciuto da una consolidata giurisprudenza, che ha definito le condizioni per la validità del medesimo. Il punto di<br />

partenza di questo orientamento giurisprudenziale è il caso Bland, deciso nel 1993 dalla Corte Suprema del Regno Unito,<br />

in cui si afferma che non sussiste per i medici l’obbligo di somministrare trattamenti ritenuti inutili, secondo una<br />

valutazione scientifica della condizione di vita del paziente, e non rispondenti al suo migliore interesse.<br />

La Spagna. Dal 2008 la legge che permette ai cittadini spagnoli esprimano per iscritto le proprie volontà sulle scelte<br />

terapeutiche da ricevere nel caso non fossero più capaci di intendere e di volere. Ben lungi dall’eutanasia attiva, che resta<br />

illegale, la legge sul testamento biologico permette di decidere di rinunciare all’accanimento terapeutico in caso di<br />

malattia allo stadio terminale o di danni cerebrali irreversibili e scegliere quindi la via di quella che viene definita una<br />

“morte dignitosa”. Una volta espresse per iscritto le proprie volontà, in un testamento biologico o testamento di vita che<br />

entrerà a far parte di un registro nazionale, il personale sanitario è tenuto a rispettare la volontà del paziente di non<br />

prolungare la sua vita con modalità non conformi a quanto scritto nel testamento biologico.<br />

I Paesi Bassi e il testamento biologico. Il testamento biologico è attualmente disciplinato nei Paesi Bassi dalla Legge<br />

del 2001 (“Legge per il controllo di interruzione della vita su richiesta e assistenza al suicidio”) il cui art. 1 definisce<br />

“l’assistenza al suicidio” come «l’assistere intenzionalmente un altro al suicidio o il fornirgli i mezzi, come indicato nel<br />

Codice Penale». L’art. 2 esclude la punibilità del medico per aver provocato la morte del malato consenziente, qualora<br />

siano stati rispettati i “criteri di accuratezza”. La legge prevede l’istituzione di commissioni regionali di controllo per<br />

interruzione della vita su richiesta e assistenza al suicidio. Esse hanno il compito di verificare che il medico abbia<br />

rispettato – nell’atto di interruzione della vita o di assistenza al suicidio – i criteri individuati dalla normativa.<br />

15


SCHEDA 2 | LE NUOVE RAPPRESENTAZIONI DELLA MORTE<br />

La rappresentazione moderna della morte: tra negazione e virtualizzazione. La spettacolarizzazione del tema della<br />

morte diventa anche un modo per rappresentarla, forse nel tentativo di esorcizzarla, tramutandola anche in qualcosa di<br />

artificiale. Il suo significato si permea dunque dell’artificialità della rappresentazione mediatica e potremmo ben dire<br />

anche della sua sovra-rappresentazione all’interno dei media. La morte non è qualcosa di sacro, ma qualcosa da guardare<br />

e osservare nei Tg, nelle fiction, nei programmi televisivi, al cinema. Lo dimostrano anche i dati relativi agli ascolti<br />

televisivi dei quali l’<strong>Italia</strong> detiene il record europeo di cronaca nera: addirittura sembra che il 2011 abbia toccato l’apice<br />

di ascolti, in seguito a importanti fatti di cronaca a tutti ben noti. Il paradosso non sta tanto nella quantità di omicidi o di<br />

episodi di morte presentati dai media, quanto nell’attaccamento mediatico successivo all’evento e al successo, se così si<br />

può dire, del pubblico. I crimini, non solo hanno uno spazio quotidiano, ma vengono trattati – e sceneggiati – come<br />

fiction. La criminalità, in sostanza, costituisce un vero e proprio genere televisivo a cui dedicare più spazio di qualsiasi<br />

altro tema. I dati dell’Osservatorio Europeo sulla Sicurezza (Demos, Osservatorio di Pavia e Unipolis) confermano<br />

questo trend: nei primi mesi del 2010 la sola Rai1 ha dedicato 431 minuti alla cronaca nera in prima serata, circa l’11%<br />

delle notizie. In questo siamo tra i primi in Europa, con un indice di pervasività e serialità che distingue l’<strong>Italia</strong> da tutti<br />

gli altri contesti europei. Per avere un termine di paragone, basterebbe pensare che la rete tedesca Ard, nello stesso<br />

periodo, ha dedicato alla cronaca nera 34 minuti (2%), la francese France2 114 (4%), la spagnola TVE 159 minuti<br />

(4,2%) e la BBC britannica 267 (8%).<br />

Morire sul web: dai 15 minuti di celebrità all’eternità virtuale. La spettacolarizzazione della morte mediatica non<br />

colpisce soltanto la televisione, ma anche il web. Le notizie di cronaca nera, insieme a quelle sportive (in particolare<br />

calcistiche), sono i temi più cercati e “cliccati” in Rete dagli utenti. Il binomio calcio-morte fa riflettere ancora una volta<br />

sul senso moderno della morte, privata del suo significato sacro, che viene in tal senso profanizzata e spettacolarizzata,<br />

ma soprattutto esorcizzata.<br />

Grazie alla rete Internet, anche i cimiteri diventano virtuali, come nel caso del sito serialkiller.it dedicato ai principali<br />

serial killer della storia: all’interno si può trovare la sezione del “cimitero virtuale”, dedicato alle vittime dei serial killer,<br />

ma anche a persone comuni. I visitatori hanno la possibilità di inserire, gratuitamente, anche una foto dei loro cari,<br />

semplicemente inviando una mail ai gestori.<br />

Non solo: ricercando la voce “cimiteri virtuali” si scopre una moltitudine infinita di siti che sostituiscono virtualmente i<br />

cimiteri dove, gratuitamente o a pagamento, si possono pubblicare necrologi, scrivere commenti, dedicare frasi ai propri<br />

cari o alle persone scomparse.<br />

Sulla stessa linea anche l’utilizzo dei Social Network, che oggi rappresentano la morte in un passaggio significativo dal<br />

reale al virtuale. Proprio questi ultimi diventano un modo non solo per riportare notizie di cronaca nera, postate sulle<br />

pagine di Facebook o Twitter, ma anche uno strumento per comunicare la morte dei propri cari e condividere lutti. Il rito,<br />

giunto alla totale profanazione, è sostituito dai network sociali e, tra le pagine, la morte di un familiare o di un amico<br />

viene presentata in tutte le sue forme e lungo il suo iter: l’annuncio del decesso, la condivisione del dolore, persino la<br />

data, l’ora e il luogo del funerale sono comunicate al suo interno. Facebook viene indicato sempre più spesso come “il<br />

nuovo cimitero on line”, tanto da scatenare polemiche anche sul problema della cancellazione del profilo di utenti<br />

defunti, per il quale è necessaria una vera e propria pratica burocratica, presentando il certificato di morte dell’anagrafe.<br />

Solo così il profilo del defunto può essere eliminato dalle ricerche in Rete, altrimenti rimarrà aperto per sempre. Una<br />

strada alternativa che si mostra sempre più in voga è quella del cosiddetto “profilo commemorativo”: post, commenti e<br />

foto da parte degli amici mantengono in vita il ricordo del defunto tramite la sua pagina personale.<br />

Polvere eri… Le statistiche della Sefit (Federutility - Servizi funerari), aggiornate al giugno 2008, parlano addirittura di<br />

un boom della cremazione (registrato in particolare nelle città di Milano e Torino, dove è resa possibile dalla presenza di<br />

strutture e attrezzature idonee). Se in <strong>Italia</strong> la percentuale delle cremazioni è del 10%, con un grosso divario tra Sud e<br />

Nord del Paese, in città settentrionali come Milano si passa dal 42% del 2001 al 62% nel 2007. Torino tocca il 40%,<br />

Bologna il 30% e Roma il 26%. Nel Sud e nel Centro <strong>Italia</strong> si registrano le percentuali più basse: la Sicilia (0,2%), la<br />

Puglia (0,6%) e la Sardegna (0,4%) sono le regioni italiane in cui la cremazione è meno frequente. Nonostante ciò,<br />

sebbene la tumulazione rimanga la forma più diffusa di sepoltura in <strong>Italia</strong> (56,5% nel 2008), negli anni sta aumentando la<br />

pratica della cremazione, seppur lentamente: dal 2007 al 2008 la percentuale cresce dell’1% in <strong>Italia</strong> passando dal 10,3<br />

all’11%. Anche in questo caso la Rete aiuta, laddove è possibile trovare, tramite Internet, la soluzione più semplice per la<br />

cremazione, all’interno non solo di cimiteri virtuali, ma di siti specifici di associazioni che si occupano di svolgere le<br />

pratiche: l’Icrem (Istituto per la cremazione e dispersione delle ceneri), l’Idicen (Associazione nazionale di cremazione e<br />

dispersione delle ceneri), la Federazione italiana per la cremazione e l’Associazione per la cremazione. Esiste anche un<br />

sito dove poter reperire la mappa dei crematori italiani. La crescita del tasso di cremazione in <strong>Italia</strong> potrebbe essere<br />

ricondotta al processo di desacralizzazione della morte in cui si segnala anche la trasformazione dell’idea di culto fisico a<br />

un “culto ideale” che passa attraverso la sua virtualizzazione, come nell’esempio dei cimiteri on-line.<br />

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SCHEDA 3 | GLI INFORTUNI SUL LAVORO E LE MORTI BIANCHE<br />

Le ultime tendenze dell’infortunistica sul lavoro. La quantificazione degli infortuni sul lavoro continua a essere un<br />

esercizio impegnativo: in primo luogo perché è subordinata alle denunce presentate all’Inail (con la conseguente<br />

esclusione dell’amplissimo settore del lavoro in nero), in secondo luogo – nello specifico delle serie storiche<br />

sull’infortunistica – perché dipende dal numero di lavoratori assicurati dall’Inail. Tale numero si è andato<br />

progressivamente espandendo (fino a superare, nel 2008, i 18 milioni di addetti), ma era limitato a poche decine di<br />

migliaia di “privilegiati” fino alla Seconda Guerra Mondiale.<br />

Dopo la diminuzione record del 10% degli infortuni sul lavoro nel 2009, il 2010 non ha registrato alcun “effetto<br />

rimbalzo” e si è chiuso a -1,9%. La riduzione maggiore si registra tra gli infortuni in itinere (cioè quelli occorsi mentre si<br />

raggiunge il posto di lavoro o lo si abbandona per tornare a casa) (-4,7%), mentre la riduzione degli infortuni “in<br />

occasione di lavoro” è contenuta (-1,5%).<br />

È anche vero che il 2010 ha registrato un calo occupazionale dello 0,7%, pari a 153mila unità (secondo l’Istat, ma è<br />

probabile che il dato effettivo sia maggiore), che ha sicuramente influito sulla diminuzione dell’infortunistica.<br />

Si evidenzia inoltre l’aumento degli infortuni occorsi ai lavoratori che operano sulla strada (autotrasporto merci/persone,<br />

commessi viaggiatori, addetti alla manutenzione stradale, ecc.) (+5,3%) e il dato non è da sottovalutare, dal momento<br />

che il contesto italiano si sta ormai orientando su una caratteristica principale: produce sempre di meno, ma sposta e<br />

trasporta sempre di più merci prodotte altrove.<br />

Andando più nello specifico, le variazioni infortunistiche rilevate nel 2010 (rispetto all’anno precedente) su base<br />

settoriale indicano come l’Industria e l’Agricoltura abbiano riscontrato il calo più evidente degli infortuni denunciati<br />

(rispettivamente -4,7% e -4,8%). Si conferma ancora una volta il legame tra la minore occupabilità e la diminuzione<br />

dell’infortunistica, dal momento che proprio l’Industria e l’Agricoltura continuano a soffrire di un calo occupazionale.<br />

Non è un caso che gli infortuni nel settore dei Servizi, invece, siano aumentati, seppure lievemente (+0,4%). La<br />

medesima chiave di lettura è applicabile anche alla differenziazione territoriale: nel Nord <strong>Italia</strong>, dove continua a<br />

concentrarsi più della metà degli infortuni (anche in virtù della maggiore densità occupazionale), il calo è stato<br />

dell’1,5%. La riduzione sale all’1,8% per il Centro e arriva al 3,2% nel Sud <strong>Italia</strong>, ovviamente più penalizzato dalla<br />

diminuzione dei posti di lavoro.<br />

Dove le statistiche si fermano: il lavoro nero. L’Inail ha valutato che nel 2009 gli infortuni “invisibili” (quantomeno<br />

quelli di entità medio-grave) siano stati circa 165mila, anche questi in diminuzione rispetto alla precedente elaborazione<br />

(che parlava di 175mila infortuni nel lavoro in nero per il 2006). La quota di infortuni “invisibili” attribuibile ai<br />

lavoratori stranieri sarebbe del 12% (20mila casi), ma è fortemente polarizzata intorno a determinati settori economici. Il<br />

perché è evidente: i lavoratori stranieri sono impiegati per lo più in attività manuali usuranti (edilizia, industria pesante,<br />

agricoltura), con lunghi turni di lavoro e una formazione professionale inadeguata (anche perché nel paese di<br />

provenienza spesso svolgevano lavori cognitivi).<br />

È interessante notare come alcuni comparti lavorativi conoscano una quota prevalente di lavoratori stranieri, tra coloro<br />

che hanno subìto e denunciato infortuni: gli stranieri incidono per il 23,3% nell’infortunistica della lavorazione del<br />

cuoio, per il 22,6% negli infortuni dell’industria dei metalli, per il 21% nell’edilizia, nel 20,9% nell’industria della<br />

gomma e della plastica. Volgendo lo sguardo al settore dei Servizi, si arriva al 77% di infortuni stranieri tra il personale<br />

domestico (colf e badanti), dove la presenza immigrata è notoriamente imponente.<br />

La tutela del lavoro è una scienza perennemente giovane e inesperta, in <strong>Italia</strong>, con la conseguente necessità di tempo per<br />

essere assimilata tanto dai legislatori (che ne devono fornire il quadro normativo), quanto dagli stessi lavoratori (che la<br />

devono assimilare). Questi ultimi, inoltre, sono essi stessi in eterna evoluzione, accogliendo al proprio interno categorie<br />

per le quali l’ingresso massivo nel mondo del lavoro italiano è piuttosto recente. Si pensi alle donne e agli stranieri, che<br />

non a caso soffrono di una percentuale più elevata di infortuni sul posto di lavoro. Di certo non aiuta il continuo<br />

evolversi del mondo della produzione, al perenne inseguimento di nuove tecnologie, di macchinari innovativi, di una<br />

domanda oggi sfuggente perché giocata su un piano globale. È questo il motivo per cui un’altra categoria ad alto rischio<br />

di infortuni è rappresentata dai lavoratori più giovani, che si immettono in un mercato “frenetico” e con poche garanzie.<br />

La serie storica sulle morti bianche. Il decennio 2001-2010 è stato caratterizzato da un trend costantemente<br />

decrescente, per quanto riguarda gli infortuni mortali sul lavoro. Basti ricordare, per fare un confronto, come l’anno 1963<br />

conobbe il tragico record di 4.664 morti sul lavoro: aver abbattuto la simbolica soglia dei mille morti, come è avvenuto<br />

nel 2010, ha significato diminuire di tre quarti quella cifra.<br />

L’analisi in valori assoluti dei morti sul lavoro in base al settore economico non può essere oggi esauriente, in quanto<br />

non tiene conto della diversa incidenza di ciascun ramo di attività sul sistema di produzione italiano. Soprattutto se si<br />

ricorda come i settori economici abbiano subìto sostanziali trasformazioni, nella storia italiana, anche limitatamente al<br />

decennio preso in considerazione. Un’analisi ponderata utilizza l’Indice di Incidenza Infortunistica Mortale (Iiim), che<br />

rapporta il numero di morti per infortunio al rispettivo numero di occupati per ciascun ramo di attività. Il calo dei morti<br />

sul lavoro, nell’ultimo decennio, è effettivamente sostenuto in tutti e tre i macro-settori economici, in termini assoluti e<br />

relativi: dal 2001 al 2010 gli infortuni mortali si sono ridotti da 1.546 ai 980, che equivale a dire che l’Iiim è passato da 7<br />

morti a 4,3 per 100mila lavoratori. Si muore nell’Industria, si muore nel settore dei Servizi, ma si continua a morire<br />

anche nell’Agricoltura, nonostante l’<strong>Italia</strong> abbia da tempo completato la transizione occupazionale tipica delle economie<br />

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sviluppate, ridimensionando il numero di addetti nel settore primario. Soprattutto, si continua a morire non solo nella<br />

contingenza del proprio posto di lavoro, ma anche “in itinere”, quando si va a lavorare o si torna a casa dopo il lavoro.<br />

Nel 2010 le persone decedute lungo il tragitto casa-lavoro-casa sono state 244 (quasi l’11% in meno dell’anno<br />

precedente): a esse va ad aggiungersi un numero persino superiore (296, quasi il 4% in meno del 2009) di altre vittime<br />

della circolazione stradale. Anche a fronte di un apprezzabile calo, il 2010 non è stato esentato dal fornire, tra i<br />

lavoratori, 540 vittime sulle arterie stradali e sui mezzi di trasporto: un miglioramento e una razionalizzazione della<br />

viabilità porterebbero sicuramente giovamento a questo dato statistico, peraltro costante nel corso del decennio. Circa un<br />

quarto degli infortuni mortali avviene “in itinere”. La stessa modalità di evento, applicata alla più generale fattispecie<br />

degli infortuni sul lavoro è andata costantemente aumentando, passando dal 5,7% del 2001 all’11,4% del 2010.<br />

L’incidenza dei decessi “in itinere” è importante soprattutto per le differenze di genere, dal momento che tra le donne<br />

questa modalità di evento causa addirittura la metà degli infortuni mortali. Le donne incidono per il 31,6% sul totale<br />

degli infortuni sul lavoro, ma i casi mortali scendono all’8,1% del totale: il lavoro delle donne sembra, quindi, meno<br />

rischioso, probabilmente in virtù del fatto che sono impiegate soprattutto nei servizi e in settori a bassa pericolosità. Il<br />

dato preoccupante, però, è rappresentato dal fatto che le “morti bianche” tra le donne aumentano (+9,7%), in maniera<br />

quasi speculare alla diminuzione che si registra per gli uomini (-8,2%).<br />

Le fasce centrali di età (35-49 e 50-64anni) sono le più colpite, infatti assommano in sé quasi il 70% dei casi mortali,<br />

mentre i più giovani pesano per il 26,4%, registrando un calo di oltre dieci punti percentuali rispetto alla statistica del<br />

2009, un dato che può essere imputato all’allarmante aumento della disoccupazione giovanile.<br />

Nel Nord <strong>Italia</strong> si registra il 60% degli infortuni sul lavoro che avvengono in <strong>Italia</strong>, con una forte concentrazione in<br />

Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto: il dato non sorprende, se ricordiamo come si tratti delle regioni con la maggiore<br />

densità occupazionale. Il Sud presenta il 19,5% degli infortuni in complesso, ma ben il 33,2% dei decessi. Il dato degli<br />

infortuni mortali divisi per i principali settori di attività economica registra una uniforme diminuzione, nella quale spicca<br />

il -37,8% del comparto metallurgico e il -26,3% di quello del commercio. Di contro, il numero di decessi nel settore dei<br />

trasporti e delle comunicazioni (+9,8 nel passaggio dal 2009 al 2010) sta a indicare come una maggiore attenzione alla<br />

viabilità produrrebbe conseguenze positive anche sull’infortunistica lavorativa.<br />

I dati Inail riferiti al primo semestre 2011 (da ritenersi non ancora consolidati) parlavano di una sostanziale tenuta nel<br />

numero degli incidenti mortali, per i primi sei mesi del 2011: da 431 a 428 vittime, per un calo dello 0,7%, notevolmente<br />

più basso del calo riscontrato sul più generale numero di infortuni (-4% rispetto allo stesso periodo del 2010).<br />

I lavoratori stranieri. Crisi o non crisi, gli stranieri continuano a erogare i loro servizi in <strong>Italia</strong> e continuano a subire<br />

infortuni per questa attività: il 2010 è stato un anno addirittura peggiore dei precedenti, con gli infortuni incrementati da<br />

119.240 a 120.135 e solo parzialmente compensati dalla lieve diminuzione delle morti sul lavoro (dai 144 del 2009 ai<br />

138 del 2010). Quando muore un lavoratore oggi in <strong>Italia</strong>, ci sono 14,1 probabilità su cento che sia straniero e, più nello<br />

specifico, 8,6 probabilità che sia un lavoratore extracomunitario. I lavoratori stranieri muoiono sul posto di lavoro perché<br />

tendenzialmente impiegati in settori a rischio: dall’edilizia (dove si concentra il 23,2% dei casi mortali tra gli stranieri)<br />

all’agricoltura (15,9%), ai trasporti (15,2%). Confrontando l’infortunistica degli stranieri con quella degli italiani si può<br />

notare come il 23,3% degli infortuni denunciati nel campo della lavorazione del cuoio coinvolge i lavoratori immigrati,<br />

come pure il 22,6% degli infortuni nella metallurgia e il 21% circa di quelli nei comparti delle costruzioni e<br />

dell’industria plastica. Più in generale, l’incidenza infortunistica degli stranieri è più alta di quella degli italiani: tra questi<br />

ultimi si registrano 39,2 denunce all’Inail ogni mille occupati, tra gli stranieri 45 denunce. Non solo: i lavoratori stranieri<br />

che subiscono infortuni, anche mortali, sono tendenzialmente giovani, comunque più di quanto non lo siano gli italiani.<br />

Oltre l’86% dei lavoratori stranieri deceduti in <strong>Italia</strong> nel 2010 aveva meno di cinquanta anni: il dato rispecchia una<br />

tendenza occupazionale che vuole il lavoratore straniero come giovane, pena la sua espulsione dal mercato del lavoro.<br />

Non è un caso che, in riferimento alla più numerosa casistica degli infortuni (anche non mortali) tra i 50 e i 64 anni, le<br />

donne straniere abbiano una incidenza del 60% più alta degli uomini, a dimostrazione che, tra le classi di età più<br />

avanzate, siano soprattutto le donne straniere a lavorare, spesso nei servizi di cura alla persona o alla casa.<br />

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SCHEDA 4 | VECCHIE E NUOVE MALATTIE PROFESSIONALI<br />

Per quanto riguarda la situazione europea, l’Inca (Istituto Nazionale Confederale di Assistenza), riferendosi ai dati<br />

dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro e dell’Eurostat, afferma che nei 27 paesi dell’Unione europea ogni anno<br />

muoiono per malattie professionali 159.500 lavoratori. Se si aggiungono le 5.580 persone che muoiono a causa di<br />

infortunio sul lavoro, si stima una media di un morto ogni tre minuti e mezzo a causa del lavoro.<br />

Le denunce per malattie professionali. Il 2010 è stato un anno record: 34.000 lavoratori denunciatori e 42.397 denunce<br />

presentate, circa il 22% in più dell’anno precedente (7.500 in più) e un più 58% negli ultimi 5 anni. Un valore più<br />

elevato si riscontra solo nel 1993 (46.000 denunce). Secondo l’Inail l’aumento delle denunce è da ricondurre a tre fattori.<br />

Affiorano le cosiddette patologie “perdute”; nuovi accertamenti confermano il nesso causale tra malattie e rischi presenti<br />

nell’ambiente lavorativo. Le nuove malattie tabellate (Dm aprile 2008), come quelle muscolo-scheletriche, poiché<br />

godono della “presunzione legale d’origine” e quindi di un riconoscimento immediato, vengono più facilmente<br />

denunciate. Dai dati emerge infatti che le malattie muscolo-scheletriche originate da sovraccarico bio-meccanico e da<br />

movimenti ripetuti costituiscono il 60% delle malattie denunciate nel 2010 e in soli 5 anni sono aumentate del 158%.<br />

Queste nuove tecnopatie rappresentano la principale causa di morte per malattia professionale non solo in <strong>Italia</strong>, ma in<br />

tutta Europa. Infine, l’incremento di denunce si ricollega all’aumento delle denunce plurime connesse alla stessa<br />

mansione svolta (delle oltre 42mila denunce presentate, un quarto sono plurime).<br />

Con l’entrata in vigore del Dm 169/2008, le nuove malattie professionali tabellizzate hanno registrato un incremento di<br />

denunce, passando da 26.752 del 2006 a 34.573 del 2009. Tra queste, le patologie più frequenti registrate dall’Inail sono<br />

le affezioni dei dischi intervertebrali (oltre 9.000 denunce) e le tendiniti (oltre 8.000). Segue l’ipoacusia da rumore (nel<br />

2010 600 casi in più dell’anno precedente). Rispetto al 2009, aumentano del 7% le patologie da asbesto (amianto);<br />

questo materiale è stato messo fuori legge solo dal 1992 e le malattie associate si stanno manifestando in questi anni,<br />

dopo un lungo periodo di latenza.<br />

Industria e servizi e Agricoltura. Nel 2010, l’Inail calcola che le denunce per malattie professionali associate alle<br />

lavorazioni nell’industria e nei servizi sono pari all’84% del totale (in valori assoluti, oltre 35.500 denunce). Rispetto al<br />

2006 l’incremento è stato del 42,3%, rispetto al 2009 è stato pari al 16,7%. Oltre la metà delle malattie denunciate rientra<br />

tra le nuove malattie tabellate, causate da sovraccarico biomeccanico e movimenti ripetuti. Risultano invece<br />

sottodenunciati i tumori professionali e i disturbi psichici da stress lavoro-correlato. Nell’ultimo quinquennio, si registra<br />

un aumento di denunce del più 123,5% nelle Isole, del più 50% nel Sud e Centro <strong>Italia</strong>, del circa 40% nel Nord-Est e del<br />

più 6% nel Nord-Ovest. Nel settore agricolo le denunce per malattia professionale sono aumentate del 340,9% rispetto al<br />

2006 e del 62,6% rispetto al 2009. Analogamente alla tendenza generale, sono prevalenti le denunce per malattie da<br />

asteo-articolari e muscolo tendinee (5.100 denunce nel 2010, a fronte delle 700 presentate nel 2006); in discesa ci sono le<br />

ipoacusie da rumore che passano da circa il 21% del 2006 al 9% del 2010 e le malattie respiratorie che scendono da circa<br />

l’11% del 2009 al 4% del 2010. Negli ultimi cinque anni è cambiato il peso del numero di denunce presentate nelle<br />

diverse ripartizioni territoriali: nel 2006 il 60% delle denunce era stato presentato dalle regioni del Centro e del Nord-Est,<br />

mentre attualmente sono i lavoratori del Sud e delle Isole ad avanzare più della metà delle denunce totali (presentano un<br />

incremento rispettivamente del +819,9% e del +549,2%).<br />

Casi riconosciuti e indennizzati. I casi di indennizzo in fase di definizione, a causa dei lunghi tempi delle procedure e<br />

delle pratiche, sono aumentati notevolmente, passando da 131 del 2006 a 3.075 del 2010. Il rapporto tra casi riconosciuti<br />

e casi denunciati è gradualmente aumentato nel tempo, passando dal circa il 36% nel 2006 al 42% nel 2009, per poi<br />

diminuire nuovamente nel 2010 (38%). Lo stesso discorso vale per il rapporto tra casi indennizzati e casi riconosciuti<br />

(passano dal 67% del 2006 al 73% nel 2010); più lieve è l’aumento del rapporto tra indennità ricevute e denunce<br />

presentate, aumentato di soli 3 punti percentuali (dal 25% del 2006 al 28% del 2010).<br />

Tra i casi indennizzati, l’85% è per menomazione permanente. Inoltre, come pubblicato dal <strong>Rapporto</strong> Inail del 2010,<br />

l’incidenza dei casi mortali sui casi indennizzati è maggiore tre le malattie professionali che tra gli infortuni. Tra le<br />

malattie professionali rientrano le patologie tumorali, difficilmente curabili, e riconosciute come tali per il 50% dei casi;<br />

quest’ultime costituiscono il 90% delle tecnopatie indennizzate che causano la morte del lavoratore e la maggior parte<br />

sono causate dall’amianto.<br />

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SCHEDA 5 | BIOTECNOLOGIE E IMMORTALITÀ: LA CLONAZIONE<br />

Le nuove opportunità della clonazione. Utilizzando la tecnica del Dna ricombinante, la clonazione viene supportata<br />

dalla tecnologia, dando vita a una serie di sperimentazioni e attuazioni diverse.<br />

Le biotecnologie verdi trovano spazio nel settore agroalimentare. In questa applicazione la procedura di clonazione è già<br />

stata sperimentata da molti anni e oggi ulteriormente potenziata grazie alle nuove tecnologie. Si creano in natura i<br />

cosiddetti Ogm (Organismi geneticamente modificati), ricavati inserendo nelle piante geni diversi rispetto al proprio<br />

patrimonio genetico, producendo una varietà di prodotti che altrimenti maturerebbero più lentamente, o per permettere<br />

loro di resistere alle condizioni climatiche sfavorevoli (siccità, freddo, pesticidi, insetti). Allo stesso modo, si è<br />

intervenuti sugli animali, chiamati pertanto “transgenici”, che presentano un patrimonio genetico modificato, ottenendo<br />

ad esempio carne o latte di migliore qualità.<br />

Le biotecnologie rosse applicate ai settori della medicina, della veterinaria e dell’industria farmaceutica puntano allo<br />

sviluppo di nuovi farmaci o nuovi procedimenti di trattamento profilattico terapeutico di patologie. Il settore<br />

farmaceutico è probabilmente quello che presenta maggiori sviluppi grazie alle biotecnologie e apre prospettive future.<br />

Ad esempio, l’insulina fu la prima sostanza prodotta con la clonazione del Dna, dal 1982 in poi, e da allora usata anche<br />

per la sintesi di ormoni, proteine e anticorpi. La possibilità di migliorare dunque l’efficacia e la qualità di prodotti,<br />

insieme alla produzione di sostanze su larga scala a costi inferiori, sono state le principali risorse delle biotecnologie in<br />

campo farmaceutico. Oggi la stessa procedura consente anche la creazione, seppur sperimentale, di circa 500 farmaci.<br />

Rientrano in questo campo anche tutti gli studi e le applicazioni delle biotecnologie nella medicina, prospettando lo<br />

sviluppo di terapie cellulari che permetterebbero la cura di patologie come il cancro o quelle neurodegenerative, così<br />

come di vaccini per patologie quali l’Aids.<br />

Le biotecnologie bianche, infine, utilizzate nei processi industriali, hanno a che fare con la produzione di energia, lo<br />

smaltimento dei rifiuti grazie anche all’utilizzo di enzimi che producono nuovi composti chimici.<br />

La clonazione nel dibattito pubblico. Molti studi e ricerche si sono soffermati di conseguenza sull’idea pubblica in<br />

merito alle biotecnologie, evidenziando come, tra i fattori che maggiormente incidono su chi si dichiara pro o contro,<br />

giochino un ruolo determinante le posizioni normative, l’influenza della religione dominante, i fattori socio-demografici<br />

e infine l’attenzione mediatica. Si registra in generale un’inclinazione favorevole dei cittadini nei confronti<br />

dell’innovazione sociale, con particolare riguardo ai temi cui ci si sente maggiormente vicini o investiti sul piano<br />

personale. Emblematica in proposito la rilevazione dell’Eurobarometro del 2010, secondo la quale cresce in generale<br />

l’ottimismo per l’applicazione delle biotecnologie: il 53% degli europei si dichiara infatti favorevole per il campo<br />

medico. Cresce anche la fiducia verso gli Ogm: se nel 2005 era favorevole il 57% dei cittadini europei, nel 2010 lo sono<br />

il 61% (5% in più), mentre è totalmente negativa la loro opinione verso la clonazione animale (18%). In tutti i paesi, fatta<br />

eccezione per l’Austria in cui l’indice è negativo (si rileva un -7%), nelle restanti nazioni europee i valori mostrano<br />

indici positivi, con una percentuale maggiore di persone ottimiste sulle biotecnologie. In Finlandia, Grecia e Cipro, gli<br />

indici aumentano negli anni dal 2005 al 2010, mentre l’incremento è solo lieve per Spagna, Irlanda, Regno Unito,<br />

Francia ed Estonia. In tutte le altre nazioni, nello stesso arco temporale, le opinioni (pur mantenendosi positive)<br />

mostrano un progressivo declino dei consensi. Le nazioni che non rientrano nell’Ue, come Islanda e Norvegia, sono le<br />

più favorevoli nei confronti della sperimentazione biotecnologica. La situazione dell’opinione sulle biotecnologie in<br />

<strong>Italia</strong> è oscillante: analizzando le serie storiche nel 2010 il consenso pubblico è notevolmente decresciuto rispetto al<br />

1991-1993 e anche rispetto al 2005, mentre il 1999 è l’anno con il livello più basso di ottimisti.<br />

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SCHEDA 6 | FECONDAZIONE ASSISTITA: PADRI E MADRI AD OGNI COSTO<br />

Il lungo cammino della fecondazione assistita. Nel 2009 sono state trattate 63.840 coppie. Come segnalano i dati del<br />

Ministro della Salute, l’età media delle pazienti è in crescita (da 35,25 anni nel 2005 a 36,17 nel 2009) e aumentano i<br />

centri specializzati, pubblici e privati, che praticano la Procreazione Medicalmente Assistita (da 316 nel 2005 a 350 nel<br />

2009, con una concentrazione in Lombardia, Lazio, Campania e Sicilia). I cicli di trattamento avviati sono anch’essi<br />

notevolmente aumentati (63.585 a 85.385), così come le gravidanze (da 9.499 a 14.033) ottenute.<br />

Rispetto al numero delle coppie trattate con l’inseminazione semplice, nel solo 2009, l’incidenza percentuale dei diversi<br />

problemi che causano l’infertilità è stata maggiore per i casi legati a fertilità idiopatica (31,1%), ad infertilità maschile<br />

(26,4%) e infertilità endocrina ovulatoria (16,5%). La percentuale delle gravidanze calcolata rispetto al numero<br />

complessivo delle inseminazioni effettuate è 11,3%, se calcolata rispetto al numero complessivo dei cicli avviati è<br />

10,2%. Sempre nel 2009, sono state trattate con tecniche di 2° e 3° livello 39.761 coppie: l’infertilità maschile è il<br />

motivo che conduce la maggior parte delle coppie presso un centro di PMA (34,7%).<br />

Le percentuali di gravidanze ottenute, in base ai cicli avviati, ai prelievi ed ai trasferimenti effettuati con le tecniche<br />

FIVET ed ICSI nel 2009 si attestano rispettivamente al 20,7%, 23% e 26,6%.<br />

A queste si aggiungono le gravidanze ottenute con le tecniche da scongelamento (2° e 3° livello): sono state 1.019, in<br />

valore assoluto, le gravidanze ottenute da embrioni crioconservati, ovvero il 2% rispetto al numero complessivo dei cicli<br />

avviati. Quando sono stati utilizzati ovociti crioconservati si sono ottenute 3.102 gravidanze, ovvero il 6% rispetto al<br />

totale dei cicli avviati. Queste percentuali appaiono più significative se calcolate in base al numero dei trasferimenti<br />

effettivamente eseguiti. Infatti, le gravidanze ottenute da embrioni scongelati diventano il 18,5% e quelle ottenute dagli<br />

ovociti scongelati diventano il 17,1% dei trasferimenti. Rispetto alle gravidanze emerge un altro dato interessante: quello<br />

dei parti singoli (76,5%), gemellari (21,2%) o plurigemellari (2,4%). Non tutte le gravidanze ottenute, tuttavia, giungono<br />

a termine: su 8.986 gravidanze monitorate nel 2009 il 75,4% si sono concluse con il parto, nel 21,4% si è verificato un<br />

aborto spontaneo, nel 2% una gravidanza ectopica e nell’1% un aborto spontaneo.<br />

La fecondazione assistita all’estero. Subito dopo la legge n.40/2004, che consentiva di produrre al massimo 3 embrioni<br />

con l’obbligo di impiantarli tutti e tre contemporaneamente e che impediva la crioconservazione degli embrioni, molte<br />

coppie hanno iniziato a rivolgersi a centri di altri paesi per aggirare queste limitazioni. Successivamente, la sentenza<br />

della Corte costituzionale 151/2009 rimuoveva tali limitazioni, mantenendo, però il divieto della donazione eterologa.<br />

Va detto che in altri paesi vigono leggi diverse, che, per esempio, consentono la donazione di seme, come in Austria,<br />

Germania, Norvegia, Svizzera. Oltre alla donazione del seme è consentita anche la donazione degli ovociti in Bulgaria,<br />

Danimarca, Francia, Gran Bretagna, Irlanda, Svezia. Infine, in alcuni paesi, quali Belgio, Cipro, Finlandia, Grecia,<br />

Olanda, Portogallo, Repubblica Ceca, Slovenia, Spagna, Ucraina è consentita anche l’embriodonazione.<br />

Secondo il terzo rapporto dell’Osservatorio sul turismo procreativo è proprio la limitazione sulla fecondazione eterologa<br />

che spinge numerose coppie italiane a varcare i confini nazionali. Nel periodo giugno 2009-luglio 2010, sono state 2.700<br />

le coppie italiane nei centri PMA esteri. Il paese privilegiato dagli italiani risulta la Spagna, dove, appunto è consentita la<br />

fecondazione eterologa su tutti i fronti, ovvero quella che consente la donazione di seme, di ovociti e di embrioni. Sono<br />

1.700 le coppie che si sono rivolte ad un centro spagnolo. A seguire, molte coppie, 700, soprattutto quelle provenienti dal<br />

Nord dell’<strong>Italia</strong> hanno scelto la Svizzera, poco distante, dove è consentita la donazione di seme.<br />

Secondo l’European Society of Human Reproduction and Embriology il fenomeno procreativo è largamente diffuso in<br />

Europa, ma il confronto tra paesi mette in luce un primato tutto italiano per quanto riguarda il ricorso a centri<br />

specializzati in paesi esteri: nel solo periodo che va da ottobre 2008 a marzo 2009 i “turisti” italiani della fecondazione<br />

assistita sono stati 391 su un totale di 1.230 persone di diverse nazionalità, con un incidenza percentuale del 31,8%. A<br />

grande distanza, pur se in seconda e terza posizione si collocano, in questa particolare classifica, Germania (14,4%) e<br />

Olanda (12,1%). I “paesi meta”, a livello europeo, sono soprattutto il Belgio (29,7%), Repubblica Ceca (20,5%) e la<br />

Danimarca (12,5%).<br />

21


SCHEDA 7 | MORTE AD ALTA VELOCITÀ<br />

La sicurezza stradale è un’emergenza a livello planetario, ogni giorno nel mondo muoiono 3.500 persone, circa 1,3<br />

milioni l’anno (Fondazione Ania per la Sicurezza Stradale).<br />

Meno morti sulle strade italiane. Rispetto all’obiettivo fissato dall’Ue nel Libro Bianco del 2001, che prevedeva la<br />

riduzione della mortalità su strada del 50% entro il 2010, l’<strong>Italia</strong> ha raggiunto una diminuzione del 42,4% del numero dei<br />

morti, valore in linea con la media europea pari al -42,8%. Il calo appare più evidente se si analizza l’incidentalità nel<br />

lungo termine in <strong>Italia</strong>: tra il 1991 e il 2002 è stato registrato un incremento costante, seppur con qualche oscillazione,<br />

del numero degli incidenti e, a partire dal 2003, un trend discendente in parte attribuibile all’entrata in vigore del decreto<br />

legge del 27 giugno 2003 che ha introdotto la “patente a punti” e nuove regole in tema di sicurezza stradale.<br />

Nel 2010 in <strong>Italia</strong> si sono registrati 211.404 incidenti stradali con lesioni a persone. Il numero degli incidenti mortali è<br />

stato di 3.847, con 4.090 decessi. Mediamente ogni giorno nel 2010 si sono verificati 579 incidenti stradali, la morte di<br />

11 persone e il ferimento di 829 soggetti. Tuttavia, si riscontra una leggera diminuzione rispetto al 2009 del numero degli<br />

incidenti (-1,9%) e dei feriti (-1,5%), insieme a un consistente calo del numero dei morti (-3,5%). La regione italiana che<br />

è stata teatro del maggior numero di incidenti stradali e di decessi è la Lombardia con oltre 39mila sinistri (circa il 19%<br />

sul totale) e 565 morti. Segue il Lazio che ha fatto registrare quasi 28mila incidenti (circa il 13% sul totale) e 450 vittime<br />

(Istat-Aci, 2011).<br />

Nonostante il calo del numero degli incidenti in quasi tutte le regioni italiane tra il 2009 e il 2010 è interessante notare<br />

come, in alcuni casi, alla diminuzione degli incidenti non sia corrisposto un numero inferiore di vittime. Un fenomeno<br />

che può essere in parte imputabile alla tipologia di incidente e al numero di persone coinvolte nel singolo episodio. Ma<br />

ancora più interessante è evidenziare come il trend positivo non abbia riguardato in maniera uniforme tutte le regioni:<br />

nella Valle d’Aosta gli incidenti nel 2009 sono stati 359 aumentando nel 2010 fino a 370, così pure i decessi da 8 a 11;<br />

stesso andamento per il Veneto (da 15.643 a 15.651 incidenti, da 339 a 396 morti), la Liguria (da 9.654 a 9.702 incidenti,<br />

da 76 a 84 morti), il Molise (da 530 a 657 incidenti con, rispettivamente, 21 e 28 decessi), la Basilicata (da 942 a 1.147<br />

incidenti con 46 e 48 morti).<br />

Nel luglio del 2010 sono state introdotte nuove norme del Codice della Strada che hanno disposto un inasprimento delle<br />

sanzioni sia per quanto riguarda l’alta velocità sia per l’uso di sostanze alcoliche e stupefacenti da parte dei conducenti<br />

dei veicoli. Numerose, inoltre, le campagne di sensibilizzazione rivolte in particolare ai giovani, essendo gli incidenti<br />

stradali la prima causa di morte di soggetti al di sotto dei 40 anni in tutti i paesi europei (Ania, 2010).<br />

Sempre secondo i dati Istat-Aci, la categoria di veicolo maggiormente coinvolta negli incidenti stradali è costituita dalle<br />

autovetture (67,8% sul totale). Seguono motocicli (13,2%), i ciclomotori (5,6%) e autocarri/motocarri (6,9%): le<br />

biciclette si attestano al 3,9%. In correlazione a questi dati, i decessi a causa di incidenti stradali vedono al primo posto<br />

quelli in autovettura (52,3%). I motocicli, pur essendo coinvolti in sinistri in minor misura rispetto alle automobili, fanno<br />

registrare una percentuale di decessi pari al 27,1% sul totale. Sembra opportuno evidenziare il caso delle biciclette che<br />

sono state coinvolte solo nel 3,9% in incidenti stradali, ma hanno riportato il 7,6% di decessi sul totale. Per quanto<br />

riguarda le cause, nel 45,7% dei casi l’incidente stradale si è verificato per il mancato rispetto delle regole di precedenza<br />

(17,1%), per guida distratta (17%) o per velocità troppo elevata (11,6%).<br />

Le vittime degli incidenti. Il 69,4% sul totale dei morti in incidenti stradali è rappresentato dai conducenti degli<br />

autoveicoli. Nonostante l’alta percentuale dei conducenti vittime di incidenti stradali, confrontando i dati con l’anno<br />

precedente, si rileva una riduzione importante pari al 3,3%. Per quanto riguarda l’età, la maggior parte dei decessi è<br />

concentrata nella classe di età compresa tra i 20 e i 24 anni.<br />

Per i maschi il maggior numero di decessi si registra nella classe di età compresa tra i 20 e i 24 anni. Mentre per le donne<br />

i picchi di decessi si registrano per la classe di età 20-24 anni ma anche per quelle 75-79 e 80-84 anni. La frequenza<br />

elevata per le classi di età più avanzata delle donne è da attribuirsi al maggior coinvolgimento in incidenti di anziane<br />

decedute nel ruolo di pedone.<br />

Anche tra i conducenti deceduti i più colpiti sono i giovani, infatti la fascia di età in cui rientra il maggior numero di<br />

conducenti-vittima è quella che comprende soggetti che hanno tra i 20 e i 24 anni (282 morti). I passeggeri delle<br />

autovetture coinvolti in incidenti stradali e deceduti sono invece concentrati nella fascia di età 15-24 anni. Nel 2010 si<br />

sono registrate 639 vittime tra i passeggeri. Rispetto al 2009 si rileva un leggerissimo aumento del numero dei passeggeri<br />

morti, pari allo 0,5%.<br />

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SCHEDA 8 | SCEGLIERE DI NON VIVERE<br />

Due morti al minuto per suicidio. La decisione di porre fine alla propria esistenza coinvolge circa 1 milione di vittime<br />

all’anno secondo le stime dell’Oms, che segnala, in parallelo a questa cifra impressionante, un continuo aumento dei<br />

tassi di suicidio. Statisticamente il suicidio è oggi tra le prime tre cause di morte in ogni paese, tanto da essere<br />

considerato una delle emergenze psichiatriche globali.<br />

Negli ultimi quaranta anni, i tassi di suicidio sono aumentati addirittura del 65%, secondo la World Health Organization<br />

(2007): nel 1998 il peso mondiale del suicidio nel carico globale di malattia nel mondo era dell’1,8%, mentre nel 2020 le<br />

stime prevedono che si arriverà al 2,4%, solo per quello che riguarda gli ex paesi del blocco sovietico.<br />

Nello specifico del caso italiano, le statistiche internazionali e quelle nazionali riportavano fino al 2007 un tasso di<br />

suicidi minore di altri paesi. Infatti, facendo una stima (su 100mila abitanti), i tre Stati che dominavano erano la Lituania<br />

(38,6), seguita dalla Bielorussia (35,1) e dalla Russia (34,3), mentre all’<strong>Italia</strong> spettava una posizione più bassa nella<br />

classifica con 7,1. Interessante soprattutto considerare che in <strong>Italia</strong> la percentuale era anche inferiore a quella di paesi<br />

limitrofi come la stessa Francia (18,0), l’Austria (17,9) e la Svizzera (17,4). Tuttavia, da uno sguardo generale sulle<br />

statistiche degli ultimi anni, la WHO rileva per l’<strong>Italia</strong> una tendenza oscillante nei tassi di suicidio, dal 1950 al 2007<br />

(rilevazioni ogni 5 anni), con un aumento considerevole negli anni 2009-2011. Prendendo in considerazione soprattutto<br />

gli anni recenti, si passa dall’8,0 al 7,1 nel periodo tra il 1995 e il 2000, per poi scendere negli anni 2000-2007 al 6,3.<br />

All’interno del totale, la percentuale degli uomini è sicuramente maggiore di quella delle donne: il 10,0 maschile contro<br />

il 2,8 femminile. Sulla stessa linea di tendenza si pongono anche i dati rilevati dalle Forze dell’ordine e raccolti dall’Istat<br />

negli ultimi anni in <strong>Italia</strong>: si conferma un andamento discontinuo dei tassi di suicidio negli anni, con un picco nel 2004<br />

(5,6) e nel 2006 (5,2) per arrivare al 4,7 del 2008. Ciò significa che in <strong>Italia</strong> nell’arco di un solo anno (appunto il 2008),<br />

ben 2.828 persone hanno messo fine alla propria vita. Ancora più interessante è considerare la loro distribuzione sul<br />

territorio italiano, dove il tasso di suicidi avviene in prevalenza nelle regioni del Nord rispetto al Sud della penisola. Se<br />

poi dalla situazione fotografata nel 2007-2008 si passa a quella del 2009, il fenomeno del suicidio si presenta in continua<br />

crescita: 2.986 suicidi in <strong>Italia</strong> nell’arco dell’intero anno, con il 5,6% in più dell’anno precedente. Seguendo l’andamento<br />

per fasce d’età, anche nel 2009 l’allarme riguarda gli uomini adulti e si diffonde maggiormente tra le fasce della<br />

popolazione anziana, ovvero superiore ai 64 anni con 8,4 (totale tra maschi e femmine). La tendenza che ha maggiore<br />

rilievo risulta l’incremento di suicidi tra gli uomini di età compresa tra i 45 e i 64 anni, che nel 2007 e 2008 erano pari al<br />

9,2 e nel 2009 salgono al 10,4. Giungendo infine agli anni 2010-2011, nonostante la difficoltà a reperire informazioni<br />

dettagliate come per i precedenti anni, si può in ogni caso segnalare la crescita continua del fenomeno del suicidio in<br />

<strong>Italia</strong>, tanto che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stimato tra il 2010 e il 2011 un numero pari a 14mila suicidi,<br />

cifre a dir poco allarmanti, soprattutto se poste a confronto con i dati antecedenti.<br />

All’interno delle statistiche, ciò che di nuovo si presenta in maniera preponderante per quanto riguarda la situazione<br />

italiana sul tasso di suicidi è la sua relazione con la condizione economica definita all’interno di una crisi generale del<br />

sistema produttivo, intrecciandosi a sua volta in modo sistematico anche con gli alti tassi di disoccupazione nel Paese.<br />

Il suicidio nella coppia. Uno dei temi che negli ultimi anni ha destato maggiore attenzione nei media è stato quello<br />

dell’altissimo numero di donne vittime di violenza domestica in <strong>Italia</strong>.<br />

Nel 2003 l’<strong>Eurispes</strong>, nell’ambito del V <strong>Rapporto</strong> sull’infanzia e l’adolescenza, aveva portato alla luce l’incremento del<br />

fenomeno omicidio-suicidio all’interno della coppia, tanto che risultava come – tra gennaio e dicembre 2003 – si fossero<br />

presentati 42 casi di suicidio con movente passionale, di cui 38 commessi da uomini e 4 da donne. Tra l’altro, il tasso di<br />

“suicidi passionali” continua ad aumentare negli anni, secondo la WHO, passando da 318 casi nel 2000 a 320 nel 2009,<br />

con un picco minimo nel 2002 (267) e uno massimo solo nell’anno successivo, nel 2003, pari a 361 casi. Il delitto<br />

passionale, all’interno del quale potremmo comprendere anche il suicidio, sembra a prima vista avere dunque una<br />

relazione diretta anche con l’aumento dei casi di violenza domestica che lo stesso Istat nel Dossier Sicurezza dei cittadini<br />

(ottobre 2007) aveva richiamato all’attenzione pubblica con dati allarmanti: ben tre milioni di donne in <strong>Italia</strong> subiscono<br />

violenza nel corso della vita e nel 70% dei casi l’aggressore è il marito o il partner.<br />

L’“effetto Werther” nell’era dei Social. Passando dalle azioni terroristiche che si avvalgono di attentatori suicidi fino<br />

ai suicidi collettivi che si verificano in alcune sette, l’effetto imitazione sembra accomunare le varie tipologie di suicidio,<br />

individuale o collettivo. Ed è un fenomeno particolarmente rilevante se si pensa anche alla possibilità dei mezzi di<br />

comunicazione di massa di poter veicolare e diffondere informazioni. Il suicidio infatti sempre più spesso si organizza su<br />

Internet si avvale della visibilità e della moltiplicazione del messaggio offerta dal mezzo. Parlare di effetto imitazione<br />

aiuta perciò a collocare le dinamiche del suicidio all’interno della società moderna, dove l’utilizzo di Social Network per<br />

dare l’annuncio, vero o talvolta presunto, del proprio suicidio è diventata una pratica diffusa.<br />

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SCHEDA 9 | LA CONDIZIONE ANZIANA OGGI E IL RAPPORTO CON LA SANITÀ:<br />

OPINIONI E VALUTAZIONE DEI PROTAGONISTI<br />

Anziani: tra nuove opportunità e marginalizzazione. La sempre maggiore longevità della popolazione italiana<br />

registrata nell’ultimo secolo è un tema di importanza rilevante. Negli ultimi decenni, soprattutto nei paesi più sviluppati,<br />

ci sono stati progressi eccezionali nella riduzione della mortalità tra le età più elevate. Dal “<strong>Rapporto</strong> nazionale 2009<br />

sulle condizioni e il pensiero degli anziani” risulta che nel 2050 il 34,6% della popolazione italiana supererà i 65 anni, e<br />

le proiezioni demografiche stimano che per quello stesso anno gli ultrasessantenni in tutto il mondo sfioreranno il<br />

miliardo e mezzo. Non sono soltanto gli anziani ad aumentare, ma anche i grandi anziani.<br />

Atteggiamenti, comportamenti e stili di vita sono molto cambiati nella nostra società rispetto al passato e la cosiddetta<br />

“terza età”, che porta alcuni studiosi a distinguerla dalla “quarta età della dipendenza”, non si configura come l’ultima<br />

fase della vita, anzi rappresenta per molti (soprattutto coloro che hanno buone possibilità economiche e sono in buona<br />

salute) un periodo con nuove opportunità. Ma non è sempre così. Infatti molti anziani vivono in condizioni economiche<br />

precarie per cui la vita non risulta molto facile, dal momento che, spesso, la forte incidenza di alcune spese che<br />

aumentano con questa età, come quelle mediche, grava sulle loro spalle.<br />

Negli ultimi anni il numero degli anziani che vivono da soli è aumentato. Ciò porta in molti casi a una lenta e progressiva<br />

emarginazione sociale nei confronti di questa fascia della popolazione, tant’è che si può parlare di vere e proprie zone di<br />

abbandono. Certo, in molti altri casi la famiglia continua ad occupare un ruolo centrale nella vita dell’anziano,<br />

soprattutto per quanto riguarda la sua cura, ma questo rapporto viene gestito in modo diverso. Si è infatti sviluppata negli<br />

ultimi anni la tendenza ad affidare gli anziani a una figura nuova, sempre più presente nelle famiglie italiane: la badante.<br />

Comunque è all’interno della famiglia che l’anziano ha la possibilità di continuare a esercitare un ruolo attivo con uno<br />

scambio ottimale di esperienza e disponibilità di tempo a favore delle proprie esigenze di assistenza e aiuto; ruolo,<br />

questo, che lo fa sentire ancora partecipe attivo della società.<br />

Anziani e salute: la tendenza all’iper-medicalizzazione. Grazie alla diminuzione dei fattori di rischio, allo sviluppo di<br />

nuove tecnologie e terapie, lo stato di salute dei nostri anziani è sostanzialmente buono, tanto che i ricoveri di questa<br />

fascia d’età si discostano poco da quelli dell’intera popolazione: l’età inizia a diventare significativa solo una volta<br />

superati gli ottanta anni, nella già ricordata “quarta età”, quando per molti iniziano i problemi di autosufficienza.<br />

Gli anziani sono accomunati da una grande attenzione verso il proprio corpo e soprattutto verso la medicina, in cui<br />

ricercano continuamente nuovi rimedi contro lo scorrere del tempo. Spesso, però, nei loro confronti viene applicato un<br />

accanimento terapeutico: si ricorre e si affida al servizio infermieristico anche il più piccolo inconveniente o disagio<br />

fisico, generando così una sovrapproduzione di iniziative preventive e trattamentali. Molte famiglie, infatti, nella cura<br />

dell’anziano sono influenzate dalla cultura sociale dominante basata sulla iper-medicalizzazione della senilità:<br />

conseguenza di tutto ciò è la negazione della vecchiaia, considerata come dimensione da evitare e ritardare, insieme alla<br />

riduzione della senescenza a malattia.<br />

L’eccessiva medicalizzazione ed il ricorso a controlli e cure diventano questioni percepite con disagio perfino dagli<br />

anziani stessi: da diverse indagini realizzate negli ultimi anni risulta infatti come molti di essi reputino eccessivo il<br />

ricorso alle prestazioni sanitarie. Un’opinione del genere è sottolineata anche tra chi supera gli 80 anni di età, nonostante<br />

l’accrescersi dei problemi di salute. Tutto ciò comporta, oltre che un dispendio consistente di risorse, anche molti dubbi<br />

in coloro che ricevono le suddette prestazioni inappropriate. Questo eccessivo ricorso alla sanità e all’uso dei farmaci è,<br />

in molti casi e sempre secondo più del 50% degli anziani (Centro documentazione dell’<strong>Eurispes</strong>, 2011), legato alla<br />

sensazione di solitudine e quindi di malessere presente in chi abusa di questi servizi: un malessere psichico e sociale<br />

quindi, che viene percepito anche come malessere fisico e finisce per pesare sulla spesa sanitaria pubblica e privata.<br />

Il rapporto con i servizi sanitari. In un’indagine finanziata dal Ministero della Salute e promossa dall’Agenzia per i<br />

servizi sanitari regionali, condotta su un campione di ultra-sessantacinquenni, si analizza lo stato di salute degli anziani,<br />

le pratiche di cura e il rapporto con i servizi sanitari.<br />

I risultati mettono in evidenza una positiva percezione da parte degli over65 della propria salute e del proprio benessere,<br />

adeguati stili di vita, una forte propensione a ricorrere a esami e controlli preventivi e un positivo rapporto con i servizi<br />

sanitari, in particolar modo con il medico di medicina generale e con gli ospedali. Gli anziani spendono per la salute tre<br />

volte tanto quanto le altre fasce d’età, con la differenza che questi hanno maggiori problemi ad accedere alle cure a causa<br />

dei bassi redditi. Secondo il “<strong>Rapporto</strong> nazionale 2009 sulle condizioni e il pensiero degli anziani” la spesa per pensioni,<br />

previdenza e assistenza rappresenta il 15,8% del Prodotto interno lordo: la spesa per la salute negli ultimi anni è molto<br />

aumentata, passando dai 96,1 miliardi nel 2001 ai 113 miliardi nel 2009.<br />

Nonostante ciò, sembra comunque che con l’avanzare degli anni le terapie farmacologiche destinate a migliorare la<br />

sopravvivenza e la qualità della vita siano poco applicate: questo risulta dalla ricerca “Salute e benessere dell’anziano”<br />

condotta dalla Società italiana di Gerontologia e Geriatria in collaborazione con la fondazione Sanofi Aventis. Sempre<br />

più numerosi e bisognosi di cure, gli anziani non accedono ai trattamenti che, insieme ai progressi della medicina,<br />

potrebbero offrire loro un miglioramento della qualità della vita. Oltre la metà degli anziani è a rischio per la riduzione<br />

delle cure: tra i 65 e gli 85 anni i controlli regolari e le prescrizioni farmacologiche adeguate si dimezzano e la spesa pro<br />

capite del Sistema Sanitario Nazionale si dimezza fra i più anziani, passando da 1.016 a 453 euro l’anno.<br />

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SCHEDA 10 | SONDAGGIO ITALIANI SALUTISTI?<br />

Non proprio salutisti: gli italiani alle prese con una “moderata” cura di sé. Come e quanto gli italiani si prendono<br />

cura della propria salute? Qual è il tempo che sono disposti a dedicare all’obiettivo forma perfetta? Il 53,7% del segue<br />

un’alimentazione abbastanza equilibrata (mentre il 30,9% lo fa poco), il 47,5% fa periodicamente esami medici di<br />

controllo (contro il 33,4% che non è così attento alla prevenzione), il 46,7% tiene sotto controllo il peso (contro il<br />

32,3%), ispirandosi ad uno stile di vita salutare oppure avendo come obiettivo la linea fisica.<br />

A fare poca attività motoria è invece il 42,8% degli intervistati, seguiti dal 28,4% che ne fa abbastanza e dal 19,7% che<br />

ammette di seguire uno stile di vita decisamente sedentario.<br />

Quasi la metà invece (47,2%) non cerca su Internet informazioni sulla prevenzione delle malattie e su eventuali sintomi e<br />

cure, seguita dal 26,7% che lo fa poco e dal 19% che lo fa abbastanza.<br />

Esiste infine poco meno di un decimo della popolazione che si dedica con impegno e costanza alle attività appena<br />

indicate, che prende molto seriamente l’obiettivo di avere cura di sé e del proprio corpo: l’8,3% tiene sotto monitoraggio<br />

costante il proprio stato di salute, ricorrendo periodicamente all’ausilio di esami medici di routine e non dimentica di<br />

tenere sotto controllo il peso, l’8,2% scandisce la propria giornata stando attento al regolare fabbisogno energetico<br />

quotidiano, il 7,4% fa molta attività fisica e il 5% si tiene aggiornato su Internet circa sintomi e cure delle malattie,<br />

ritenendo importante la prevenzione.<br />

Sommando le risposte “per niente” e “poco” e “abbastanza” e “niente”, emergono le differenti abitudini di uomini e<br />

donne nel prendersi cura della propria salute: i primi preferiscono praticare attività fisica (37,6% vs 34,4%), tenendo<br />

sempre conto del fatto che a non praticarla o a farlo raramente è il 61,6% dei maschi e il 63,6% delle femmine, mentre<br />

queste ultime fanno registrare un’attenzione maggiore circa un regime alimentare equilibrato (65,4% vs 58,1%), una più<br />

assidua frequentazione di centri medici di controllo (59,2% vs 53,3%), una particolare attenzione alla variazione del peso<br />

corporeo (57,4% vs 52,7% e alla prevenzione, secondo le ultime notizie reperibili in Rete (25,1% vs 23%).<br />

Poco movimento e “abbasso” le diete. Tra correre e camminare prediligono sicuramente il secondo: il 40,7% dichiara<br />

infatti di camminare spesso per almeno venti minuti e il 34,4% lo fa qualche volta, mentre a correre qualche volta è il<br />

31,3%, seguito dal 12,1% di chi lo fa spesso e dal 53% che invece proprio non ci riesce.<br />

Le palestre sono frequentate con ritmo regolare solo dal 3,9% del campione e dal 21% di chi non è costante<br />

nell’allenamento, mentre il 62,2% rinuncia volentieri all’iscrizione. Per quanto riguarda i centri benessere e i centri<br />

estetici è rispettivamente il 79,2% e il 76,5% a dichiarare di non frequentarli, seguiti dal 15,6% e dal 15,9% che decide<br />

occasionalmente di prendere un appuntamento. Complessivamente, la componente femminile è più propensa a recarsi<br />

presso un centro benessere (21,1%) estetico (33,4%), quest’ultimo risulta invece frequentato da un maschio su dieci<br />

(12%). Neanche le diete, dimagranti o purificanti che siano, riscuotono troppi successi tra gli italiani: nel primo caso è<br />

infatti il 26,1% ad ammettere di seguirle ogni tanto, probabilmente soprattutto all’avvicinarsi della bella stagione e della<br />

prova costume, mentre il 65,1% non lo fa nemmeno prima dell’estate e nel secondo è il 74,8% del campione a non<br />

mostrare alcun interesse, seguito dal 19,2% che lo fa di tanto in tanto.<br />

I fumatori sono un terzo, ma gli “incalliti” sono la minoranza. Nel 63,8% casi prevalgono i non-fumatori, dato<br />

sicuramente in salita rispetto al passato per una serie di ragioni che possono intuitivamente essere riassunte in<br />

un’attenzione maggiore ai danni provocati dal fumo, segnatamente il tumore ai polmoni, e in un rifiuto a spendere<br />

eccessivamente per un bene che, oltre ad essere nocivo per la salute, subisce continui rincari, che pesano sulle tasche<br />

degli italiani soprattutto in un momento storico come quello che stiamo vivendo che invita alla parsimonia e<br />

all’oculatezza nelle spese. Il restante terzo (35,5%) si divide tra chi, pur non avendo “il vizio” ne gradisce una ogni tanto<br />

(10,4%), chi fuma meno di mezzo pacchetto al giorno (8,9%) e chi supera le dieci ma non le quindici sigarette quotidiane<br />

(8,2%). I fumatori più accaniti consumano invece circa un pacchetto al giorno nella misura del 6,1% e soltanto l’1,9%<br />

ammette di non riuscire a soddisfare il proprio fabbisogno quotidiano di nicotina con venti sigarette in un giorno. La<br />

propensione al fumo si registra in misura maggiore tra le fasce d’età più giovani dai 18 ai 34 anni.<br />

Le cure omeopatiche sono le più seguite tra quelle della medicina non convenzionale. Nonostante in <strong>Italia</strong> il ricorso<br />

alla medicina tradizionale vada per la maggiore (83,5%), c’è una fetta della popolazione (14,5%) che ricorrere all’ausilio<br />

di medicinali non convenzionali, quali quelli omeopatici. Rispetto alla rilevazione di due anni fa quest’ultimo dato<br />

registra una contrazione (-4%). Entrando nel dettaglio delle cure offerte dalla medicina non convenzionale scopriamo<br />

come il rimedio preferito dagli italiani per curare i disturbi fisici sia l’omeopatia (70,6%), seguita dalla fitoterapia<br />

(39,2%), la pratica che prevede il ricorso ad estratti di erbe e piante, dall’osteopatia (21,5%), dall’agopuntura (21%),<br />

dalla chiropratica (17,2%), che consiste nell’intervenire sulle zone del corpo interessate da malesseri tramite<br />

manipolazioni. A seguire, sotto la soglia dei dieci punti percentuale, si collocano in questa particolare classifica la<br />

medicina ayurvedica (8,9%), che combina l’attenzione alla condizione biologica a quella psichica, attribuendo<br />

fondamentale importanza all’alimentazione e all’igiene, l’omotossicologia (6,4%), che identifica i fattori tossici come<br />

causa di tutte le malattie, la medicina antroposofica (5,1%), che tiene conto, in maniera congiunta, delle dimensioni<br />

corporea, psichica e spirituale dell’uomo e, per finire, la medicina tradizionale cinese (3,8%), che si occupa da millenni<br />

di come lavora l’energia vitale dell’uomo.<br />

25


Introduzione del testamento biologico: una possibilità rimane largamente condivisa. Tra i temi etici più dibattuti,<br />

grande favore incontra l’istituzione del testamento biologico con il 65,8% dei favorevoli, ai quali fa da contraltare il<br />

30,9% dei contrari. Questo documento racchiude la volontà di un individuo in merito alle terapie mediche cui accetta o<br />

meno di sottoporsi in un futuro in cui potrebbe non essere in grado di esprimere la sua precisa volontà. Avendo forti<br />

implicazioni di carattere morale e religioso, e in mancanza di una regolamentazione giuridica il tema si alimenta dei casi<br />

che di volta in volta si propongono all’attenzione della pubblica opinione.<br />

Il tema dell’eutanasia divide l’opinione pubblica. L’interruzione volontaria della vita di un essere umano che versa in<br />

gravi condizioni di salute, l’eutanasia, vede infatti gli intervistati spaccarsi in un 50,1% di quanti sono favorevoli e un<br />

46,6% di coloro che viceversa sono contrari a tale pratica.<br />

Contrari al suicidio assistito. Tra le questioni etiche sollevate dalle cronache più recenti, il suicidio assistito riscuote il<br />

71,6% di pareri contrari e appena il 25,3% di quelli favorevoli. Il suicidio assistito viene praticato in alcuni paesi e si<br />

differenzia dall’eutanasia per il ricorso all’ausilio di pratiche mediche non di “fine vita”, ma in totale assenza di malattie,<br />

per una scelta volontaria e lucida di porre fine alla propria esistenza per ragioni estranee allo stato di salute.<br />

Il 58% è favorevole all’utilizzo alla pillola abortiva. Nel 58% dei casi l’introduzione della pillola abortiva RU-486<br />

accoglie favori positivi (contro il 39,3% dei non favorevoli). La tanto discussa pillola, permette l’interruzione di<br />

gravidanza entro i primi due mesi di gestazione senza bisogno di intervenire chirurgicamente.<br />

Per il divorzio breve un plebiscito. Gli italiani si schierano, nella misura dell’82,2% in favore del divorzio breve,<br />

ovvero la possibilità di avvalersi delle norme comunitarie ottenendo, in presenza di consensualità e in assenza di prole, la<br />

possibilità di porre fine al matrimonio entro un anno, limitando logoranti lungaggini e superando la fase dei tre anni che<br />

va dalla separazione legale alla possibilità di chiedere il divorzio. Ad essere contrario è invece il 15,8%. È chiaro che su<br />

questo tema esiste un forte “effetto immedesimazione”, se non per il vissuto personale, almeno per quello di amici,<br />

parenti, ecc. in considerazione dell’alto tasso che la fine dei matrimoni fa registrare da anni nel nostro Paese, insieme alla<br />

connatura litigiosità che accompagna in genere la fine di un unione. Probabilmente se si ponesse lo stesso quesito<br />

ipotizzando il divorzio breve anche in presenza di figli nella coppia, i risultati sarebbero molto differenti.<br />

Caccia, vivisezione e vegetariani. Come emerso dal sondaggio, condotto dall’<strong>Eurispes</strong> lo scorso anno, i principali<br />

sentimenti degli italiani nei confronti degli animali sono affetto (51,3%) e rispetto (35,9%), inoltre il 42% ha in casa uno<br />

o più animali domestici. Nel nostro Paese, quindi, sono in molti ad amare gli animali, ma c’è pure chi, come nel 12,1%<br />

di coloro che hanno preso parte all’indagine, sostiene l’ammissibilità della pratica della vivisezione, la sperimentazione<br />

sugli animali vivi, che provoca loro immani sofferenze. Più dei quattro quinti degli intervistati, l’86,3%, si schiera invece<br />

contro la vivisezione, sostenendo che il rispetto per gli animali sia di gran lunga superiore ai vantaggi e agli eventuali<br />

benefici che l’uomo potrebbe trarre dallo sperimentare su altri esseri viventi. Sul tema della caccia si scontra invece il<br />

21,4% dei favorevoli e il 76,4% dei contrari.<br />

Soltanto il 3,1% dichiara di essere vegetariano, un dato in calo rispetto alla rilevazione dello scorso anno. Le motivazioni<br />

indicate dagli intervistati circa la scelta di diventare vegetariani o vegani attiene principalmente all’attenzione per la<br />

salute (43,2%), seguita da un forte rispetto per gli animali, contro il loro sfruttamento da parte dell’uomo (29,5%),<br />

mentre soltanto il 4,5% adduce come motivazione la tutela e il rispetto dell’ambiente, impegno quest’ultimo sicuramente<br />

seguito da una buona fetta della popolazione per altre vie, le quali non prevedono al loro interno la privazione<br />

alimentare. Si tratta quindi di una scelta che condiziona coloro la cui posizione non è ideologicamente radicata, che può<br />

essere influenzata da altre variabili come ad esempio la crisi economica, e questo può spiegare la contrazione del dato dei<br />

vegetariani nel nostro Paese.<br />

26


CAPITOLO 2<br />

ESSERE/AVERE<br />

IL PRECARIO EQUILIBRIO TRA ESSENZA E SOSTANZA<br />

La ricerca della felicità. Avere e essere sono due dimensioni che appartengono ad ogni persona, due sfere autonome<br />

ma, al contempo, interdipendenti. Il nostro tempo si presenta con caratteristiche peculiari, che delineano spesso un<br />

pericoloso squilibrio tra le due dimensioni. L’avere sembra prevalere sulla sfera dell’essere e rischia di far identificare<br />

l’uno con l’altro. L’immaginario culturale in cui siamo immersi è “invaso” da proposte di acquisizioni di beni a cui si<br />

connettono promesse di felicità, ma ciò che si viene a possedere ne dona solo una limitata ed effimera, che non basta<br />

mai, e si persevera nel desiderare sempre di più: l’appagamento di un desiderio si trasforma in bisogno, poiché l’avere, il<br />

possedere, diventa condizione imprescindibile per essere.<br />

L’identità nel possesso. Sarebbe un errore attribuire solo al singolo la responsabilità di determinate scelte che rivestono<br />

un carattere, invece, sociale: sono infatti strategie sociali ed economiche a proporre e spesso imporre agli individui<br />

determinate scelte, che si concretizzano in precisi stili di vita, ognuno dei quali comporta una definizione a livello<br />

identitario. La personalità di un individuo viene comunicata non più e non solo per il ceto di appartenenza, per nascita,<br />

professione o attività svolte, bensì dal tipo di abiti indossati, tipo di abitazione e arredamento, gusti musicali,<br />

alimentazione, ecc. Il consumo, quindi, come attività non solo economica, ma soprattutto sociale e simbolicocomunicativa.<br />

Si affermano in questo scenario nuovi consumi legati al mutare del sistema di valori culturali di<br />

riferimento, che hanno al centro in particolare il corpo (salute, fitness, diete, ecc.), il tempo libero (vacanze, viaggi),<br />

l’ecologia; appare evidente la funzione surrogatoria dei consumi rispetto ai valori, la possibilità di consumare diventa<br />

finalità di vita, occupa lo spazio valoriale, anzi si identifica con esso. Il consumo si insinua nello spazio fisico e mentale,<br />

è una vera e propria occupazione, un’occupazione forzata e fortemente indotta, che invade il nostro immaginario<br />

culturale. Oggi le persone si “ritrovano”, si riconoscono, in base a scelte e indicazioni precise di consumo che danno<br />

luogo ad appartenenze ed identificazioni. Non c’è dubbio che tutta la realtà del consumo che attraversa la sfera privata,<br />

in strettissima interconnessione con l’organizzazione della società, debba costituire una realtà da rileggere in profondità,<br />

criticamente, cercando di ricreare/creare il giusto rapporto tra valori, beni, obiettivi, progetti nella piena consapevolezza<br />

dei rischi a cui altrimenti si può seriamente andare incontro.<br />

La società dell’immagine: il ruolo del corpo. I comportamenti riflettono il processo di adeguamento dell’individuo ai<br />

modelli prospettati: ogni modello comunica un orientamento culturale, sistemi culturali ai quali ciascuno si rapporta in<br />

termini di adesione o presa di distanza, a seconda delle situazioni e delle possibilità, con tutta la gamma di risposte<br />

intermedie e con una gradualità di sentimenti che vanno dalla massima soddisfazione alle forme più estreme di<br />

frustrazione. Ogni epoca, ogni cultura, elabora un proprio modello di bellezza a cui, più o meno consciamente, ognuno<br />

tende a rapportarsi. Il corpo diventa così il luogo in cui si incontrano, e scontrano, speranze e desideri con dolori e<br />

naufragi: la rappresentazione mentale di noi stessi diventa la componente principale nel determinare l’autostima che un<br />

individuo ha in un’epoca di società dell’immagine. Attraverso il corpo, oggi, ci si può costruire e alimentare la propria<br />

autostima ed il riconoscimento della propria identità: l’insoddisfazione legata all’immagine corporea e la conseguente<br />

non accettazione di sé, sono gli elementi con i quali si misura la possibilità del proprio successo e della propria<br />

realizzazione. L’immagine diviene il criterio rappresentativo ed interpretativo della realtà. La sfida culturale ed<br />

esistenziale si gioca, dunque, sull’immagine del corpo. In questo modo si avalla e si potenzia un immaginario culturale<br />

che punta tutto sui canoni estetici, una vera e propria dittatura del corpo, operando un trasferimento di senso dalle qualità<br />

spirituali a quelle fisiche, che pretendono di rappresentarle entrambe.<br />

Lo spazio virtuale: una nuova modalità identitaria. Tra l’essere e la rappresentazione dell’essere nei mass media<br />

tradizionali, oggi dobbiamo considerare l’essere virtuale legato all’introduzione delle tecnologie digitali, che sta<br />

cambiando le abitudini di un crescente numero di persone, se non la trasformazione della società stessa.<br />

I nuovi media e le nuove tecnologie permettono l’abbattimento delle barriere spazio-temporali; la possibilità di<br />

interazione a distanza e l’istantaneità della comunicazione permettono di dialogare, scambiare esperienze e connettersi<br />

nella Rete fino a creare vere e proprie comunità virtuali, sempre più aperte e senza confini, luoghi di associazione e<br />

condivisione. La lontananza dell’essere corporeo può assumere valenze problematiche, collegate al fatto che negli spazi<br />

virtuali possono giocarsi ruoli vicini o lontani dal sé reale, fino ad assumere identità plurime, dando luogo anche a<br />

mascheramenti della propria identità: si giunge alla costituzione di un Io telematico che può interagire con altre<br />

maschere. I Social Network rappresentano un vero e proprio ambiente nel quale, oltre alla realtà positiva di mettere in<br />

comunicazione un numero amplissimo di persone altrimenti impossibile, si configura il rischio che la realtà virtuale vada<br />

ad incidere sulla realtà concreta, ovvero che il reale si identifichi cioè con il virtuale. Sicuramente la comunicazione<br />

digitale offre una molteplicità di sé, che entrano in interazione con una quantità di persone rispetto alle quali vengono a<br />

cadere timori, pregiudizi e distinzioni sociali. Anche in questo campo e, forse, ancora in forma più urgente, diventa<br />

decisiva una “educazione ai mezzi” che consenta un equilibrio non più solo tra essere e avere, bensì tra essere virtuale ed<br />

essere reale.<br />

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SONDAGGIO SCHEDA 11 | LA CONDIZIONE ECONOMICA DELLE FAMIGLIE<br />

Economia: un anno da dimenticare per l’<strong>Italia</strong>. La situazione economica del Paese secondo il 67% degli italiani è<br />

nettamente peggiorata negli ultimi dodici mesi; si tratta del dato più “nero” registrato dalle rilevazioni dell’<strong>Eurispes</strong> dal<br />

2004, e in forte aumento (+15,2%) rispetto a quanto emerso lo scorso anno. La constatazione di un netto peggioramento<br />

della situazione economica dopo aver subito un drastico calo nel 2007, quando si registravano solo il 27,8% di giudizi<br />

negativi rispetto ad un andamento medio di oltre il 45% tra il 2004 e il 2005, ha seguito un trend crescente (37,6% nel<br />

2008; 47,1% nel 2010; 51,8% nel 2011; 67% nel 2012). Allo stesso tempo, la quota di quanti ritengono la situazione<br />

peggiorata, ma di poco, diminuisce passando dal 29,8% del 2011 al 26,6% di quest’anno. In drastico ribasso anche il<br />

numero di quanti indicano che negli ultimi dodici mesi l’economia del Paese si sia mantenuta sostanzialmente stabile<br />

(12,4% nel 2011 contro il 3,9% nel 2012). Coloro che pensano che il Paese abbia migliorato (poco o tanto) la propria<br />

economia, nel corso degli ultimi dodici mesi, sono solamente l’1,4%, un dato mai riscontrato con tale pochezza: erano il<br />

3,7% dodici mesi fa, quasi il 6% nel 2010, il 7,4% nel 2004, per non parlare del 14,2% del 2007.<br />

La situazione peggiore nel Mezzogiorno. La ripartizione geografica influenza la considerazione sull’economia del<br />

Paese nell’anno appena archiviato, ma non tanto da mutare il quadro di fondo: nel sondaggio 2011 i più pessimisti si<br />

trovavano al Sud, dove il 56,3% del campione considerava “nettamente peggiorata” la condizione economica italiana,<br />

quattro punti e mezzo percentuali in più rispetto al dato nazionale. Passano dodici mesi e la rilevazione riscontra un<br />

atteggiamento coerente: le Isole raggiungono la vetta più alta di pessimismo, con il 76,1% che indica un “netto<br />

peggioramento”, scalzando il Sud <strong>Italia</strong>, che si ferma “solo” al 75,6%, ma la somma delle modalità negative<br />

(“nettamente peggiorata” e “un po’ peggiorata”) conferma il dato negativo dell’<strong>Italia</strong> meridionale, con il 96,7%. Di<br />

contro, proprio Sardegna e Sicilia esprimono un minimo di ottimismo, con l’8,4% degli intervistati che riscontra una<br />

situazione stabile, se non addirittura in lieve miglioramento.<br />

Un pessimismo trasversale, al di là dell’appartenenza politica. Il 73,3% degli intervistati che si dichiarano “di<br />

sinistra” considera nettamente peggiorata la situazione economica, seguito dal 67,3% degli elettori di destra: lo iato tra le<br />

due categorie di elettori, pur essendo agli estremi opposti, è di soli sei punti percentuali. Un netto peggioramento viene<br />

indicato tra quanti si collocano al centro (61%) e al centro-sinistra (58,9%) seguiti dal centro-destra (57,4%). In queste<br />

tre aree di appartenenza politica è comunque più diffusa, rispetto alle altre, la convinzione secondo la quale la situazione<br />

nell’ultimo anno abbia subito un peggioramento, ma lieve (rispettivamente 28,6%, 38,3% e 34,1%). Da sottolineare<br />

invece la porzione di quanti dichiarano di non sentirsi rappresentati da alcun partito (si tratta di una fetta importante del<br />

campione, pari a quasi il 40% del totale) che nel 95,6% indica un peggioramento netto (74,6%) o lieve (21%).<br />

Nella rilevazione dello scorso anno, i cittadini di centro-destra e di destra mostravano giudizi meno pessimistici rispetto<br />

alla situazione italiana, certamente perché rappresentati dal governo in carica e quindi con più speranze. Non a caso, la<br />

differenza in “ottimismo” era di ben 43 punti percentuali, tra chi, appartenendo alla sinistra, considerava nettamente<br />

peggiorata la situazione italiana (il 71,1% nel 2011), e chi lo pensava appartenendo invece alla destra (solo il 27,7%). È<br />

necessario aggiungere, però, che nessuno considerava decisamente migliorato il panorama italiano.<br />

La speranza non è nel miglioramento, ma almeno nella stabilità. I cittadini italiani non nascondono le preoccupazioni<br />

per il prossimo anno: solo il 6,1% pensa che la situazione economica migliorerà, a fronte di un 56,6% che pronostica un<br />

peggioramento, mentre il 26,9% si attende una condizione di stabilità. Desta impressione il ricordare che solo cinque<br />

anni fa oltre un terzo del campione prevedeva un miglioramento nella condizione economica per l’anno successivo.<br />

La geografia del pessimismo indica negli uomini una maggiore sfiducia nei confronti del prossimo anno (tra di loro il<br />

59,6% pensa che la situazione economica peggiorerà, contro il 53,4% delle donne), negli anziani previsioni più fosche di<br />

quelle formulate dai più giovani (il 61,5% degli ultra sessantaquattrenni teme un peggioramento, contro il 42,9% dei 18-<br />

24enni, che rappresentano l’unica classe di età non pessimista in termini assoluti) e nei cittadini, che si dichiarano di<br />

destra, prospettive ancora meno rosee della media (tra di loro il 65,3% crede in un ulteriore peggioramento). Un anno fa<br />

gli abitanti delle regioni settentrionali manifestavano un pessimismo maggiore rispetto ai cittadini delle altre aree<br />

geografiche. Dodici mesi dopo il Nord-Ovest si conferma decisamente sfiduciato (il 67%, quasi quindici punti<br />

percentuali in più del 2011), ma è il Sud <strong>Italia</strong> a segnare il maggior aumento di pessimismo, passando dal 49,3%<br />

all’attuale 62,2% di previsioni negative. In ogni area territoriale l’idea un peggioramento è diffusa (con l’eccezione del<br />

Centro, fermo al 49,1%), in nessuna la quota di chi, al contrario, pensa probabile un miglioramento raggiunge il 10%.<br />

Prevedono una situazione stabile per i prossimi dodici mesi il 32,7% di quanti abitano al Centro <strong>Italia</strong> e il 31,8% al Nord-<br />

Est; una posizione non troppo distante da quanto registrato nelle Isole 26,8% e al Sud (24,4%), ma che si discosta<br />

notevolmente dal dato del Nord-Ovest (16,5%).<br />

La condizione economica delle famiglie. Dalla situazione economica del Paese alla propria condizione materiale il<br />

passo è breve: inevitabilmente la condizione economica del Paese viene considerata una premessa logica della salubrità o<br />

insalubrità delle proprie finanze. I tre quarti del campione (74,8%) hanno infatti testimoniato un peggioramento della<br />

propria situazione economica durante gli ultimi dodici mesi, in un’equa ripartizione tra “forte” e “lieve” peggioramento.<br />

Rispetto alle classi d’età sono i più anziani ad indicare un deterioramento della propria condizione economica oltre la<br />

media, nel corso dell’ultimo anno: 81,5% rispetto al 74,8%.<br />

<strong>Italia</strong>ni alle prese con la contrazione del reddito. Oltre un quarto del campione (26,2%) ha chiesto negli ultimi tre<br />

anni un prestito bancario. Il prestito bancario è stato aperto per soddisfare esigenze di base: ai primi posti si collocano il<br />

28


mutuo per l’acquisto della casa (41,9%) e il pagamento di debiti accumulati (33,1%). Quest’ultima indicazione, unita alla<br />

quella relativa del debito contratto per saldare prestiti con altre banche o finanziarie (20,9%), testimonia il rischio della<br />

moltiplicazione del debito familiare secondo modalità usurarie: si apre un mutuo per pagare un debito pregresso,<br />

entrando in un circolo mefitico potenzialmente letale. Inoltre, nel 13,6% dei casi il prestito è stato chiesto per sostenere i<br />

costi di matrimoni, cresime o battesimi, mentre nell’9,8% è servito a coprire le spese mediche e solo nel 2,8% è stato<br />

utilizzato per poter andare in vacanza.<br />

Quando si parla di prestiti bancari è bene precisare che spesso non si tratta di cifre astronomiche: oltre il 35% di chi ha<br />

ammesso di aver chiesto un prestito negli ultimi tre anni non ha superato l’importo di 10mila euro, mentre solo il 18% ha<br />

sforato i 100mila euro. I prestiti di entità modesta sono propri soprattutto delle classi di età più giovani, mentre i più<br />

anziani manifestano un’equi-distribuzione tra le diverse somme richieste, e le classi di età centrali (soprattutto quella tra i<br />

35 e i 44 anni) accendono i prestiti più corposi.<br />

Quasi la metà delle famiglie italiane (48,5%) è costretta a usare i risparmi per arrivare a fine mese, e comunque incontra<br />

qualche difficoltà a superare la fatidica “quarta settimana” (45,7%), mentre il 27,3% dichiara di non arrivare a fine mese.<br />

Oltre il 70% degli intervistati riferisce di non riuscire a risparmiare, contro il 15,7% di quanti riescono a mettere da parte<br />

del denaro; un quarto (24,9%), inoltre, dichiara di avere difficoltà a pagare la rata del mutuo e quasi un quinto (18,6%)<br />

ha lo stesso problema con il canone di affitto.<br />

Il quadro evidenzia una maggiore difficoltà nel Centro e al Sud del Paese, dove si concentrano i valori più alti in merito<br />

all’utilizzo dei risparmi per arrivare a fine mese, all’impossibilità di risparmiare, al rischio insolvenza per mutuo e<br />

canone di affitto, alla difficoltà, più in generale, a fronteggiare la famosa “quarta settimana”. A ben vedere, però, è tutto<br />

il sistema-<strong>Italia</strong> a mostrare un palese disagio: in nessuna area territoriale la percentuale di chi riesce, nonostante la<br />

coincidenza con la crisi economica, a mettere da parte una porzione di stipendio (in attesa di tempi ancora più duri) non<br />

supera mai il quinto degli intervistati. Solo nel Nord-Est poco più della metà del campione afferma di non avere<br />

difficoltà ad arrivare a fine mese, mentre il rischio insolvenza rispetto ai mutui bancari e ai canoni di affitto affligge una<br />

quota di popolazione che oscilla tra il 15% e il 20%.<br />

Risparmio, addio. La quota di quanti ritengono di poter “certamente” risparmiare, nei prossimi dodici mesi, è inferiore<br />

al 5%, mentre quelli che pensano “probabilmente” di riuscire a mettere da parte una porzione di reddito arrivano al<br />

13,1%. Per il 38,2% è probabile che non ci sarà possibilità di risparmio e le indicazioni di assoluta certezza<br />

dell’impossibilità di non poter risparmiare nei prossimi mesi raggiungono il 34,8%. Nel Nord (21% Nord-Est; 22,8%<br />

Nord-Ovest) si riscontra una maggiore certezza, o almeno la probabilità, di risparmiare. Anche l’uso dell’eventuale quota<br />

di risparmio, peraltro, alza il velo sulle incertezze e le perplessità delle famiglie italiane, rispetto all’attuale congiuntura<br />

economica: il Nord-Est (dove si raggiunge la quota più alta di cittadini possibilisti sul risparmio futuro, con quasi un<br />

quarto degli intervistati) propenderebbe per tenere il risparmio fermo nel conto corrente. L’altra grande “calamita di<br />

risparmio” è rappresentata – e non è certo una novità – dal “mattone”, che attira la maggior parte dei risparmiatori del<br />

Nord-Ovest, del Centro, del Sud e delle Isole. Forme più dinamiche di investimento sono invece rifiutate a priori:<br />

l’acquisizione di fondi o azioni è un’ipotesi che coinvolge solo il 3,3% degli italiani, con la punta del 6,4% nel Nord-Est<br />

e pressoché nullo nelle Isole. Anche l’investimento in titoli di Stato, nonostante la retorica dell’intervento “patriottico”,<br />

raccoglie scarsi consensi: l’8,8% su base nazionale, con punte nel Nord-Est e generale disinteresse nel Centro e nelle<br />

Isole. È da sottolineare, infine, come quasi un terzo degli intervistati non sa come utilizzare la sua (eventuale) quota di<br />

risparmio. Forse perché, rebus sic stantibus, non si pone proprio il problema.<br />

I consumi delle famiglie. Oltre i tre quarti degli italiani (73,6%) hanno avvertito (“molto” 28% e “abbastanza” 45,6%)<br />

una perdita del proprio potere di acquisto, nel corso del 2011. Questa opinione è diffusa trasversalmente alle classi di età<br />

(con il lieve distinguo dei 35-44enni, che sfiorano “solo” il settanta per cento), al genere, alla distribuzione geografica<br />

(con l’eccezione del Nord-Est, dove tale percezione coinvolge il 55,2%, mentre il 37,8% degli intervistati ha avvertito<br />

solo una modesta riduzione del potere di acquisto), persino all’appartenenza politica (per quanto gli elettori centristi si<br />

limitino al 66,3%).<br />

In una fase di contrazione dei consumi, in seguito alla crisi economica, gli italiani tendono a tagliare le spese superflue e<br />

i piccoli/grandi lussi della quotidianità: rispetto alla rilevazione dello scorso anno aumenta il numero di quanti tagliano le<br />

spese per i regali (dal 77,8% del 2011 all’82,7% del 2012, +4,9%) e per viaggi o vacanze (dal 70% al 72,2%). L’acquisto<br />

dei prodotti in saldo (75,4%; nel 2011 74,5%) e di abbigliamento in punti vendita più economici (73,4; nel 2011 71,3%)<br />

sono altre strategie anti-crisi largamente diffuse. Una tendenza al risparmio sembra coinvolgere anche i prodotti<br />

alimentari, anche se, rispetto allo scorso anno, si registra una lieve inversione di rotta per gli acquisti nei discount (da<br />

55,6% al 52,1% di quest’anno) e per il cambio di marca di un prodotto alimentare se più conveniente (dal 67,8% al<br />

65,9%). Infine, le spese per il tempo libero hanno subìto una riduzione nel 67,2% dei casi e quelle per i pasti fuori casa<br />

nel 68% dei casi. Non manca chi ha preferito rivolgersi al mercato dell’usato per i propri acquisti (21,5%) e sono in molti<br />

(32,9%) a cercare sconti e promozioni online.<br />

Quasi tre quarti degli intervistati (73,1%) limita le uscite fuori casa; il 56,7% sostituisce la pizzeria con le cene<br />

casalinghe in compagnia degli amici e una percentuale pressoché identica rimpiazza il biglietto del cinema con il dvd<br />

(oppure guarda il film in streaming su Internet). La crisi economica fa guadagnare tempo allo stare in famiglia, come ha<br />

dichiarato il 67,9% degli intervistati (che diventano il 75,6% nelle Isole e il 76,2% nel Centro <strong>Italia</strong>). Quando si<br />

rivolgono alle bancarelle, i consumatori prediligono l’acquisto di prodotti per la casa, di abbigliamento e – in misura<br />

29


minore – di calzature e di prodotti alimentari, tralasciando completamente i cosmetici, considerati forse a rischio di<br />

contraffazione.<br />

Il canale di vendita privilegiato dai consumatori è la grande distribuzione organizzata (56,1%), seguita a distanza da<br />

discount (16,6%), negozi di vicinato (15,3%) e dai mercati diretti di vendita degli agricoltori (10,7%).<br />

Il valore del made in Italy. Acquistando prodotti alimentari oltre due terzi dei consumatori (77,6%) privilegiano il made<br />

in Italy. Sono due terzi del totale (76,8%) quanti affermano di controllare l’etichettatura e la provenienza degli alimenti<br />

che acquistano. Quasi la metà (46,4%) compra spesso prodotti Dop, Igp, Doc.<br />

Meno di un terzo (30,7%) sceglie invece, al momento dell’acquisto, i prodotti alimentari più economici,<br />

indipendentemente dalla loro provenienza.<br />

Gli italiani, almeno in ambito alimentare, sembrano decisamente attenti alla provenienza nazionale dei prodotti, percepita<br />

come garanzia di qualità; per questo privilegiano gli alimenti italiani e controllano le informazioni sulla confezione per<br />

accertarsi della loro origine.<br />

La nettissima maggioranza degli italiani (79,4%), quando si parla di made in Italy, intende prodotti con materie prime,<br />

lavorazione e confezionamento italiani. Il 10,7% è convinto invece che le materie prime possano anche non essere<br />

italiane, purché lo sia la lavorazione, mentre per il 7,9% le materie prime devono essere italiane, ma lavorazione e<br />

confezionamento possono essere anche stranieri.<br />

Si ricorre alle rate soprattutto per l’acquisto dei beni durevoli.L’acquisto tramite rateizzazione (una modalità che ha<br />

coinvolto nell’ultimo anno oltre un quarto degli intervistati (25,8%), che diventano oltre il 30% nel Centro <strong>Italia</strong> e quasi<br />

il 36% nelle Isole) viene effettuato soprattutto per beni considerati “durevoli”: elettrodomestici (49,2%), automobile<br />

(46,4%), pc e telefonini (25,6%), arredamento per la casa (28,9%), moto e scooter (14,4%); la necessità di accedere alla<br />

rateizzazione anche per far fronte a cure mediche (riscontrabile nel 17,6% dei casi, ma nel Centro <strong>Italia</strong> il dato supera il<br />

25%) costituisce, di contro, un aspetto inquietante e da tenere in conto nel momento in cui si procede all’ulteriore<br />

alleggerimento della sanità pubblica.<br />

Lo specchio della crisi: i “Compro-Oro”, la vendita di oggetti online e il rischio usura. Il combinato tra la restrizione<br />

dell’accesso al prestito bancario e la fiducia ai minimi storici verso gli istituti bancari hanno introdotto forme di prestito<br />

“informale” e hanno fatto proliferare nelle nostre città esercizi commerciali come i “Compro-Oro”, ai quali si è rivolto,<br />

nell’ultimo anno, l’8,5% degli intervistati (Isole: 9,9%; Sud: 9,8%; Nord-Ovest: 8,5%; Nord-Est: 8,2% e Centro: 7,1%).<br />

In parallelo, la vendita di oggetti/beni attraverso canali di compravendita on line come eBay è stata utilizzata dal 12,4%<br />

degli intervistati.<br />

Molto preoccupante il dato relativo a quanti, non potendo accedere a prestiti bancari, si sono rivolti a privati (non parenti<br />

e né amici) per chiedere soldi in prestito: il 6,3%. Occorre inoltre considerare, che una domanda così diretta su un<br />

fenomeno sommerso come l’usura, raccoglie fisiologicamente sempre meno indicazioni di quelle reali.<br />

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SCHEDA 12 | GLI ITALIANI E IL RISPARMIO TRA IL 2000 ED IL 2010: BEATO CHI È RIUSCITO A RISPARMIARE<br />

Dieci anni di risparmio. Durante gli ultimi mesi del 2011 il diffondersi di notizie sulla possibile bancarotta del Paese ha<br />

focalizzato l’attenzione degli italiani sull’entità dei loro risparmi in tutte le loro forme. Un’analisi dei dati pubblicati<br />

dalla Banca d’<strong>Italia</strong> consente di offrire un quadro sintetico della situazione del risparmio nel nostro Paese negli ultimi<br />

dieci anni. Nell’anno 2000, il valore della ricchezza lorda (ossia calcolata al lordo dei debiti) delle famiglie consumatrici<br />

e delle famiglie produttrici (ovvero ditte individuali ed aziende familiari), era composto rispettivamente da 4.165 miliardi<br />

di euro in attività reali (abitazioni, oggetti di valore, fabbricati non residenziali, impianti, macchinari, terreni, ecc.) e da<br />

3.715 miliardi di euro in attività finanziarie, per un totale di 7.880 miliardi di euro. Dieci anni dopo, nel 2010, la<br />

ricchezza lorda era composta rispettivamente da 5.925 miliardi di euro in attività reali e da 3.600 miliardi di euro in<br />

attività finanziarie (denaro contante, depositi bancari e postali, titoli ed obbligazioni, partecipazioni, ecc.) per un totale di<br />

9.525 miliardi di euro. Quindi la ricchezza lorda degli italiani è aumentata, tra il 2000 ed il 2010, del 21%, al netto<br />

dell’inflazione; un incremento da attribuirsi principalmente alla crescita registrata dal valore complessivo del patrimonio<br />

immobiliare, che costituiva l’80% del valore delle attività reali nel 2000 e l’83,7% dello stesso valore nel 2010.<br />

Il maggiore peso acquisito nel tempo dalle attività reali si riflette nella composizione delle attività degli italiani: infatti<br />

nell’anno 2000 il valore della ricchezza lorda complessiva (attività reali più attività finanziarie) era costituito al 52,9% da<br />

attività reali ed al 47,1% da quelle finanziarie, contro il 62,2% di attività reali ed il 37,8% di quelle finanziarie dell’anno<br />

2010. Questo significa che la percentuale di liquidità detenuta dagli italiani è considerevolmente diminuita.<br />

La maggior parte della ricchezza, nel 2000 come nel 2010, è costituita da beni immobili; infatti le rimanenti voci<br />

dell’attivo reale (oggetti di valore, fabbricati non residenziali, impianti, macchinari, attrezzature, scorte e terreni)<br />

rappresentavano il 20% del complesso delle attività reali nel 2000 ed appena il 16,3% del complesso nel 2010.<br />

Nell’insieme, la ricchezza degli italiani è nelle mani di pochi e lo certifica la stessa Banca d’<strong>Italia</strong>: il 50% più povero<br />

delle famiglie italiane detiene il 10% della ricchezza totale, mentre il 10% più ricco è possessore di quasi il 45% della<br />

ricchezza complessiva.<br />

Gli immobili: un bene per molti, una ricchezza per pochi. È noto che molti italiani preferiscono investire in immobili,<br />

considerati come beni rifugio per eccellenza. Nel periodo 2000-2010, coerentemente con questa preferenza, gli italiani<br />

hanno continuato ad investire in immobili; infatti lo stock della ricchezza in abitazioni è passato da 2.659 miliardi di euro<br />

nell’anno 2000 a 4.961 miliardi di euro nell’anno 2010 (con un incremento della ricchezza, al netto dell’inflazione, del<br />

48,9%). Si potrebbe concludere che gli italiani sono stati accorti risparmiatori che hanno fatto fruttare i loro risparmi<br />

investendo in immobili, dato il cospicuo incremento delle quotazioni registrato tra il 2004 ed il 2008; tuttavia, si<br />

tratterebbe di una conclusione poco veritiera. Infatti, occorre considerare che la distribuzione della ricchezza in immobili<br />

è tale per cui il 5% di proprietari più ricchi possiede un valore delle abitazioni pari a circa un quarto del valore totale,<br />

mentre il 50% dei proprietari più poveri possiede solo il 18,7% del valore delle abitazioni (Agenzia del Territorio 2011);<br />

dunque, anche se la crescita delle quotazioni ha avuto senz’altro un generale effetto positivo per tutti i proprietari, i<br />

maggiori frutti sono stati probabilmente raccolti da una percentuale relativamente esigua della popolazione. Occorre poi<br />

analizzare i dati ulteriormente: infatti i dati dell’analisi di Banca d’<strong>Italia</strong> necessariamente sintetizzano il valore dello<br />

stock immobiliare di un intero paese attraverso l’individuazione di valori medi. Esaminando le stime delle quotazioni<br />

immobiliari dell’Agenzia del Territorio, si evince che nel periodo 2004-2008 esse sono cresciute del 28% a livello<br />

nazionale, del 30,2% nei capoluoghi e del 27% nei comuni non capoluoghi; tra il 2008 ed il 2010 le quotazioni sono<br />

rimaste sostanzialmente invariate. Differenze apparentemente contenute entro pochi punti percentuali, ma che aumentano<br />

ulteriormente se si osservano le quotazioni a livello comunale: nel periodo 2004-2008, le quotazioni medie sono<br />

aumentate rispettivamente del 21,2% nei comuni con meno di 5.000 residenti, del 26% nei comuni il cui numero di<br />

residenti è compreso tra 5.000 e 25.000, del 32,8% nei comuni il cui numero di residenti è compreso tra 25.000 e 50.000,<br />

del 28,7% nei comuni il cui numero di residenti è compreso tra 50.000 e 250.000 ed infine del 32,4% nei comuni con più<br />

di 250.000 residenti. Dunque, anche se praticamente in tutta l’<strong>Italia</strong> le quotazioni degli immobili hanno registrato<br />

incrementi considerevoli tra il 2004 ed il 2008 (rimaste poi stabili dal 2008 sino al 2010), queste non sono state eguali<br />

ovunque sul territorio; quindi è probabile che gli italiani ne abbiano beneficiato in misura diversa e, di conseguenza,<br />

anche il valore dei loro risparmi investito in immobili sia cresciuto in misura diversa.<br />

Le differenze tra quotazioni immobiliari medie, a seconda che l’abitazione si trovi in un piccolo comune o in una grande<br />

città sono notevoli: da €1.032/metro quadro per le abitazioni nei comuni con meno di 5.000 residenti a €2.821/metro<br />

quadro per le grandi città con più di 250.000 residenti.<br />

Inoltre, se si guarda alla popolazione dei comuni, poco più della metà della popolazione (51,7%) risiede in comuni abitati<br />

da 25.000 o meno persone: per loro le abitazioni sono quotate nell’anno 2010 in media 1.189 euro/metro quadro; circa<br />

un terzo della popolazione (33,3%) risiede in comuni abitati da un numero di residenti compreso tra 25.000 e 250.000 e<br />

nell’anno 2010 le loro abitazioni sono quotate, in media, 1.611 euro/metro quadro; poco meno di un decimo della<br />

popolazione (9,1%) vive in città con più di 250.000 abitanti, le loro abitazioni sono quotate nel 2010, in media, 2.821<br />

euro/metro quadro, un valore ben lontano dalla quotazione media nazionale 2010 pari a 1.578 euro/metro quadro.<br />

In sintesi, tra il 2004 ed il 2008, poco più della metà della popolazione ha visto le quotazioni dei propri immobili<br />

crescere di circa il 23,5%, mentre poco meno di un quinto della popolazione (19,6%) ha visto le quotazioni crescere del<br />

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28,7% ed infine poco più di un quinto (22,8%) della popolazione ha registrato un incremento delle quotazioni pari al<br />

32,6%; è evidente, quindi, che il risparmio in immobili ha avuto rendimenti molto diversificati tra la popolazione.<br />

Bisogna anche considerare che il prezzo di vendita di un immobile è influenzato dalle sue condizioni di conservazione,<br />

dalla sua collocazione e da diversi altri parametri, quindi può facilmente accadere che il prezzo effettivamente spuntato<br />

durante la vendita dell’immobile sia inferiore alla quotazione media registrata in un dato anno nella zona in cui si intende<br />

vendere l’immobile. Alla luce di quanto detto, per determinare l’effettivo rendimento dell’investimento immobiliare,<br />

occorrerebbe valutare, caso per caso, anche il costo del mutuo eventualmente accesso per acquistare l’immobile, le<br />

imposte pagate per il suo possesso, i costi di manutenzione ordinaria e straordinaria, eventuali costi condominiali, redditi<br />

da affitto, ecc. Si comprende pertanto come possa essere semplicistico affermare che gli italiani sono “ricchi” (o sono<br />

diventati più ricchi negli ultimi 10 anni) o che sono riusciti a ben investire i loro risparmi solo perché, in aggregato,<br />

possiedono un considerevole patrimonio immobiliare; d’altra parte, buona parte di questo maggior valore è da attribuirsi<br />

al considerevole incremento occorso alle quotazioni degli immobili residenziali tra il 2004 ed il 2008. Si tratta, quindi, di<br />

un incremento di ricchezza che, “sulla carta”, interessa tutti i residenti proprietari di immobili, ma appunto solo “sulla<br />

carta”. Occorre poi considerare che, date le attuali incertezze sul futuro dell’economia italiana ed europea, non tutti i<br />

proprietari di immobili su cui ancora grava un mutuo potrebbero essere in grado di pagare le rate residue, nè si può dare<br />

per scontato che le banche che hanno concesso i loro mutui saranno sempre disposte a rinegoziarli; per queste persone, il<br />

rendimento dei loro risparmi è ancora molto incerto. E c’è da ricordare anche che, a seguito della reintroduzione della<br />

tassazione Ici (ora Imu o Imp) sulla prima casa ed a seguito della prevista riforma del sistema catastale, finalizzata a<br />

ricondurre i valori catastali a valori più prossimi a quelli di mercato, in futuro si potrebbero registrare casi in cui il<br />

proprietario di un immobile, anche acquisito anni orsono, si trovi a dover pagare imposte in parte calcolate sul valore di<br />

mercato attuale dell’immobile, quasi certamente superiore al prezzo pagato ed agli attuali valori catastali: non è detto che<br />

tutti i proprietari riescano ad avere un reddito sufficiente a far fronte a questa maggiore spesa. Occorre, infine,<br />

considerare che le famiglie italiane hanno contratto un ammontare considerevole di mutui per acquisto di abitazioni:<br />

riferendosi esclusivamente alle famiglie consumatrici, l’ammontare dei mutui è passato dai 131 miliardi di euro del<br />

primo trimestre 2004 a 252 miliardi di euro del primo trimestre 2010, pari ad un incremento del 92% (dati Abi su dati<br />

Banca d’<strong>Italia</strong>).<br />

Le attività finanziarie. La percentuale di attività più liquide detenuta dagli italiani è cresciuta, passando dal 23%<br />

dell’anno 2000 al 30% del totale del loro attivo finanziario nell’anno 2010.<br />

Diminuisce la percentuale di titoli pubblici italiani direttamente detenuti (dal 6,5% dell’anno 2000 al 5% dell’anno 2010)<br />

ma occorre ricordare che la diminuzione si è verificata tra il 2009 ed il 2010; negli anni precedenti, infatti, nonostante i<br />

rendimenti medi dei titoli di stato siano stati prossimi al tasso di inflazione, molti italiani hanno continuato a confidare<br />

nella loro relativamente bassa rischiosità e liquidità.<br />

Chi ha acquistato obbligazioni bancarie o quote di fondi comuni di investimento ha continuato a “possedere”, seppur<br />

indirettamente, consistenti quote di titoli di stato italiani come di altri paesi; questo perché banche e fondi comuni non<br />

disdegnano la relativa sicurezza offerta dai titoli di stato e ne hanno acquistati in quantità (e talora sono tenuti ad<br />

acquistarne per mantenere bassa la rischiosità dei loro investimenti); solo in tempi recenti le instabilità e le speculazioni<br />

registrate nei mercati finanziari hanno reso relativamente più rischiosi (percezione che si è riflessa nei maggiori tassi<br />

d’interesse) i titoli di stato italiani e di altri paesi europei; sarebbe forse convenuto a molti italiani continuare a possedere<br />

direttamente dei titoli di stato, evitando così di incorrere nelle commissioni dei fondi comuni.<br />

Molti italiani hanno scelto di sperimentare i fondi comuni: nell’anno 2000 le famiglie possedevano 475 miliardi di euro<br />

(correnti) in questa forma di investimento, ma gradualmente li hanno lasciati, dato che nel 2008 detenevano appena 190<br />

miliardi di euro (correnti) in fondi di investimento; successivamente le famiglie hanno cominciato a reinvestire in fondi,<br />

ma con maggiore cautela. In altre parole, molto probabilmente molti dei risparmiatori italiani che hanno scelto i fondi<br />

comuni d’investimento negli ultimi 10 anni hanno ottenuto dei risultati inferiori a quelli che avrebbero ottenuto se<br />

avessero investito in titoli di stato.<br />

Risparmio futuro: per molti sempre più difficile risparmiare. Risparmiare, nel corso degli anni, è diventato quasi<br />

un’impresa: secondo una recente nota dell’Oecd: «l’1% più ricco degli italiani ha visto la proporzione del proprio reddito<br />

aumentare del 7% del reddito totale nel 1980 fino a quasi il 10% nel 2008. La proporzione di reddito detenuta dallo 0,1%<br />

della popolazione è aumentata da 1,8% a 2,6% nel 2004. Allo stesso tempo, le aliquote marginali d’imposta sui redditi<br />

più alti si sono quasi dimezzate passando dal 72% nel 1981 al 43% nel 2010». Non stupisce, quindi, che di recente sia<br />

stato registrato un considerevole incremento delle sofferenze dei prestiti alle famiglie consumatrici, che sono<br />

praticamente raddoppiate in valore tra il 2009 (12,8 miliardi di euro) ed il mese di ottobre 2011 (24,2 miliardi di euro); è<br />

un chiaro segnale delle sempre maggiori difficoltà che molte famiglie sperimentano nel far “quadrare” i conti attingendo<br />

solo al risparmio, finendo così, nella migliore delle ipotesi, a dover ricorrere al credito al consumo e nella peggiore a<br />

cadere nelle mani della criminalità organizzata o degli usurai.<br />

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SCHEDA 13 | IL SUPERFLUO E LO SPRECO<br />

È proprio tutto necessario? Da quando il consumismo ha iniziato a contaminare le sensazioni di felicità e appagamento<br />

dei moderni abitanti delle società occidentali, il regno del superfluo ha visto aumentare a dismisura le sue dimensioni,<br />

espandendosi al punto tale da far perdere di vista i suoi confini con il mondo del necessario. Siamo ormai talmente<br />

abituati ad avere e a desiderare più di quello che abbiamo e che realmente ci è utile, vivendo con un tenore di vita sempre<br />

superiore alle reali possibilità economiche, che parlare di bisogni primari risulta quasi anacronistico. Dando per assodato<br />

che avere da mangiare, un tetto sotto cui vivere, degli abiti da indossare non sono per molti traguardi da raggiungere ma<br />

punti da cui partire, e non potendo ingaggiare una lotta contro l’intera società nella quale viviamo, occorre ricorrere al<br />

proprio senso critico se non per debellare totalmente il superfluo da ciò che ci circonda, almeno per porre un freno agli<br />

sprechi, per dare il giusto valore a questioni di primaria importanza, quali il nutrimento e il rispetto per l’ambiente.<br />

Lo spreco alimentare. Parlando di spreco, il primo ed immediato collegamento che si attiva nella mente è quello con il<br />

cibo: dalla tavola alla pattumiera il passo è breve, il gesto è automatico e così ogni anno milioni di persone potrebbero<br />

essere sfamate con i cibi destinati a finire nell’immondizia, se solo avessimo tutti una maggiore oculatezza e fossimo in<br />

grado di gestire al meglio le risorse alimentari. Dal Libro nero dello spreco in <strong>Italia</strong>: il cibo emerge come dagli anni<br />

Settanta ad oggi sia aumentato del 50% lo spreco alimentare nel mondo. La Commissione Agricoltura del Parlamento<br />

Europeo ha recentemente approvato il <strong>Rapporto</strong> “Evitare lo spreco di alimenti: strategie per migliorare l’efficienza della<br />

catena alimentare nell’Ue” che si pone, tra gli altri, l’obiettivo di ridurre del 50% gli sprechi alimentari in Europa entro il<br />

2025. L’Adoc, Associazione per la difesa e l’orientamento dei consumatori, riferisce che, nell’ultimo anno, le famiglie<br />

italiane hanno buttato in media 335 euro di prodotti alimentari (pari a circa il 7% della spesa totale effettuata).<br />

Escludendo le feste (periodo in cui è più forte la tendenza a disfarsi degli avanzi), lo spreco alimentare delle famiglie<br />

italiane ammontava nel 2009 a 515 euro, importo ridottosi a 454 euro nel 2010 e a 315 nel 2011.<br />

La Coldiretti testimonia come il Capodanno appena trascorso abbia visto, oltre che una spesa inferiore del 12% rispetto<br />

all’anno scorso per i generi alimentari, il recupero di circa mezzo miliardo di euro in cibi e bevande con la cucina degli<br />

avanzi. Ma proprio nel periodo tra Natale e Capodanno, nonostante la crisi, le famiglie italiane hanno buttato, secondo la<br />

Confederazione italiana agricoltori, circa 50 euro di vivande a famiglia, e sono infatti finite nei cassonetti 440mila<br />

tonnellate di cibo, per un ammontare di 1,32 miliardi.<br />

Sprecare meno vuol dire diminuire la produzione di rifiuti. L’analisi dei dati Eurostat indica che, nel 2008, sono stati<br />

525 i chilogrammi di rifiuti urbani raccolti per abitante in Europa (-1% rispetto al 2007, che aveva già visto una<br />

diminuzione dello 0,6% rispetto all’anno precedente). Sono 12 i paesi che si attestano sopra la media della quota di rifiuti<br />

prodotti, capeggiati dalla Danimarca (802 kg per abitante), seguita da Cipro (770), Irlanda (733), Lussemburgo (701),<br />

Malta (696), Paesi Bassi (622), Austria (601), Germania (581), Spagna (575), Regno Unito (565) e Francia (543); tra<br />

questi, all’undicesimo posto, si trova l’<strong>Italia</strong>, con l’unico dato stimato per il 2008 <strong>Italia</strong> (561). In fondo alla classifica, le<br />

prestazioni migliori in merito alla produzione di rifiuti vedono primeggiare i Paesi dell’Europa dell’Est, in testa a tutti la<br />

Repubblica Ceca (306), seguita da Polonia (320), Slovacchia (328), Lettonia (331), Romania (382), Lituania (407) e<br />

Ungheria (453). In <strong>Italia</strong>, le regioni che producono più rifiuti rispetto alle altre sono quelle del Centro e del Nord-Ovest,<br />

e precisamente la Toscana (689,3 kg di rifiuti pro capite), seguita da Emilia Romagna (685,3), Umbria (616,4), Liguria<br />

(612,8) e Valle d’Aosta (610,1). Le situazioni migliori si registrano in Basilicata (386,3), Molise (419,9), Calabria<br />

(459,2) e Campania (468,6) (dati Ispra). Confrontando la tendenza alla produzione di rifiuti all’interno delle macro<br />

regioni, dal 1996 al 2006 si è registrato un aumento più o meno continuo dell’ammontare dei rifiuti pro capite (Nord-<br />

Ovest da 456,1 nel 1996 a 530,7 nel 2006; Nord-Est da 476 a 567,1; Centro da 493,9 a 643,2; Centro-Nord da 473,2 a<br />

575; Mezzogiorno da 436,6 a 508,5), mentre a partire dal 2006 si inizia a registrare la tendenza opposta, con una lieve,<br />

ma progressiva, diminuzione del fenomeno negli anni successivi. A non subire mutamenti è invece la concentrazione del<br />

fenomeno, più voluminoso al Centro e al Nord, nel 1996 così come 12 anni dopo.<br />

La direzione del futuro. Il Banco Alimentare nel 2010 ha raccolto 75.716t di cibo, soprattutto dall’Agea, Agenzia per<br />

le Erogazioni in Agricoltura (48.823t), dall’industria (10.663t), dalla colletta alimentare e altre fonti (10.018t),<br />

dall’ortofrutta (3.841t), dalla distribuzione (2.091t) e dalla ristorazione (280t).<br />

Benché lo sperpero di un bene primario come il cibo, e la sua trasformazione in pattume, siano le questioni più annose da<br />

risolvere per combattere la lotta allo spreco e al superfluo, esistono una serie di buone pratiche, di idee innovative e<br />

originali – nate da un punto di vista altro rispetto al comune sentire della società consumistica – da cui osservare il nostro<br />

mondo per provare a viverlo meglio. Ne sono esempio il commercio equo e solidale, le iniziative di riciclo di oggetti,<br />

nate numerose e spesso spontanee su Internet, come pure i gruppi di opinione che sollecitano il dibattito sulla necessità<br />

di tornare al risparmio e ad un uso più parsimonioso di ciò che è a nostra disposizione.<br />

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SCHEDA 14 | LA METAMORFOSI DELLA TELEVISIONE<br />

La televisione è ancora il focolare domestico? Nell’<strong>Italia</strong> del boom economico la televisione è divenuta a tutti gli<br />

effetti il nuovo focolare domestico degli italiani, conservando per decenni un ruolo dominante e privilegiato, nel tempo<br />

libero e nei consumi. La Tv accomunava, riuniva, orientava, educava ed influenzava la popolazione con una capacità di<br />

penetrazione nelle case, nelle abitudini e nell’immaginario dei cittadini senza precedenti. Mai come nell’ultimo anno si è<br />

presa coscienza del fatto che la televisione, come era stata intesa per tanti decenni, non esiste più e che il meccanismo<br />

degli ascolti è già irreversibilmente mutato.<br />

I fruitori del futuro. Soprattutto nelle fasce giovanissime e giovani la Rete rappresenta uno strumento di erosione del<br />

primato televisivo sui tempi dello svago. Una valida alternativa ed un fortissimo polo di attrazione. Il 52,6% dei ragazzi<br />

tra i 12 ed i 18 anni afferma di guardare meno la Tv da quando utilizza Internet. Solo per il 47,9% la televisione<br />

costituisce il principale canale di informazione. (<strong>Eurispes</strong>-Telefono Azzurro, 2011).<br />

La parcellizzazione degli ascolti. Uno dei più evidenti cambiamenti che negli ultimi anni ha investito in misura<br />

crescente il mondo della televisione è rappresentato dall’erosione degli ascolti delle reti generaliste, seguìto al passaggio<br />

al digitale terrestre. Sky è giunta a 5 milioni di abbonati, Mediaset Premium, grazie ad una forte promozione delle<br />

proprie offerte ed a costi più contenuti, ha conquistato nuovi abbonati. Ma la rivoluzione viene soprattutto<br />

dall’affermazione dei nuovi canali in chiaro. Nel 2011, con una decisa impennata, si è quindi affermata la<br />

frammentazione dell’audience. Il peso percentuale delle reti generaliste è passato, analizzando i dati Auditel, dal 90,7%<br />

del 2000 al 76% della prima metà del 2011 e continua a calare (gli ultimi mesi del 2011 hanno fatto segnare il 73%). Tra<br />

settembre e ottobre 2011 le 6 reti generaliste hanno perso in prima serata, rispetto allo stesso periodo del 2010, il 7,7%<br />

complessivo di share, 2.371.000 telespettatori. La perdita più consistente riguarda le due ammiraglie della tv generalista:<br />

Rai 1 e Canale 5. Rai 1 è scesa ad uno share del 20% (solo nel 2006 era al 23%), Canale 5 nell’autunno 2011 addirittura<br />

sotto il 18%. Ma anche <strong>Italia</strong> 1, Rete 4 e Rai 2 fanno segnare un calo. Unica eccezione, nella debacle di Rai e Mediaset, è<br />

rappresentata da Rai 3, in crescita. Fra le generaliste Rai 3 ha tenuto, incrementando i propri ascolti, grazie a scelte di<br />

qualità e ad un rafforzamento della propria immagine, che gode oggi di maggiore credibilità rispetto alle concorrenti Rai<br />

e Mediaset. Discorso affine per La 7, che oltre ad essersi fortemente rafforzata grazie ad acquisti di pregio, ha saputo<br />

offrire più innovazione e mantenere indipendenza rispetto ai giochi di potere che hanno travolto, in particolare, la Rai.<br />

L’aumento degli spettatori sulle Tv specializzate della Rai (+346.000) non compensa le perdite, mentre Mediaset<br />

recupera spettatori sul digitale (+584.000, free o a pagamento). E lo share delle generaliste dovrà affrontare una minaccia<br />

imminente non trascurabile: la revisione dei meccanismi dell’Auditel, richiesta con forza da Sky e da La 7. I meccanismi<br />

attuali di rilevazione dell’audience, infatti, sono poco attendibili e falsati e sovrastimano gli ascolti di Rai e Mediaset,<br />

che controllano Auditel con quote di maggioranza (la proprietà di Auditel è per il 60% di Rai e Mediaset). Sky ha di<br />

recente presentato un esposto e l’Antitrust ha emesso una condanna. In questo scenario rischia di innescarsi un ciclo<br />

nefasto. Meno ascolti significano meno introiti pubblicitari, meno risorse economiche per finanziare i grandi spettacoli, i<br />

migliori artisti, un’offerta di qualità. Proprio il fattore qualità, d’altra parte, ha contribuito ad innescare in modo tanto<br />

dirompente il meccanismo della parcellizzazione dell’audience, che un’offerta più soddisfacente da parte delle reti<br />

generaliste avrebbe potuto quanto meno contenere.<br />

I canali digitali. In alcuni casi, anziché proporre novità, puntano sulla riproposizione della Tv del passato (telefilm,<br />

cartoni). In altri, come Real Time, costituiscono una novità. La rete in chiaro di Discovery propone trasmissioni<br />

americane e format propri ed ha saputo imporsi, soprattutto a partire dall’estate 2011, attirando la curiosità di un<br />

pubblico giovane ed eterogeneo. Dopo una rapida scalata, Real Time è oggi il secondo canale digitale non generalista,<br />

dopo Rai 4 e davanti alle già affermate Rai News, Boing ed Iris. Meno movimentata la graduatoria dei canali a<br />

pagamento più seguiti, con la conferma del primato del calcio (Premium Calcio e Sky Sport 1) e l’affermazione<br />

dell’informazione di Sky Tg 24 davanti ai canali di cinema.<br />

Il declino delle reti generaliste. La Rai è oggi, sotto ogni punto di vista, una realtà malata. All’azienda non bastano 2,5<br />

miliardi di euro l’anno di introiti tra canone e pubblicità. Il bilancio del 2010 registrava 100 milioni di perdite, il bilancio<br />

2011 mostra che i debiti consolidati superano i 350 milioni di euro. Nel 2011 la Sipra, la concessionaria della Rai, ha<br />

raccolto 980 milioni di euro dalla pubblicità, cioè 50 milioni in meno rispetto al 2010. Nel 2012 la Rai faticherà a trovare<br />

i 140 milioni di euro necessari per acquistare i diritti degli Europei di calcio e delle Olimpiadi. Su oltre 13.300<br />

dipendenti Rai, 2.000 sono precari e l’azienda sta portando avanti una politica di licenziamenti. Eppure solo 6 anni fa la<br />

Rai era ancora un’azienda sana finanziariamente. Un primo grande colpo è stato il passaggio al digitale terrestre, costato<br />

500 milioni di euro. In un quadro simile Mediaset, paradossalmente, ha a lungo prosperato pur nell’insuccesso, ha visto<br />

cioè aumentare i propri introiti pubblicitari rispetto alla Rai nonostante la drammatica emorragia dei suoi ascolti.<br />

Nell’ultimo anno, tuttavia, anche in casa Mediaset qualcosa comincia a scricchiolare: le pesanti perdite del titolo<br />

Mediaset in Borsa (quasi 3 miliardi di euro bruciati in un anno, titoli al minimo storico dalla quotazione del 1995), la<br />

pubblicità in calo (-2,9% nei primi 9 mesi del 2011), la sconfitta contro Sky nella guerra nelle pay tv, La7 che finalmente<br />

si propone come vera alternativa alle vecchie generaliste, gli ascolti in caduta libera che persino su Canale 5 dal 20% di<br />

un tempo si stanno assestando sul 15%. Nel 2011 gli utili si assestano su circa 300 milioni, solo nel 2005 arrivavano a<br />

più del doppio (603 milioni). Mediaset accusa il colpo di non aver più come unica “concorrente” la Rai. Dall’arrivo nel<br />

2004 di Murdoch con Sky gli utili di Mediaset hanno cominciato a calare. Sky ha superato la Rai già nel 2010 per giro<br />

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d’affari (quasi 3 miliardi). La pubblicità conta in modo ancora marginale per i suoi ricavi (9,2% al giugno 2010), ma<br />

raggiungendo 5 milioni di abbonati ha conquistato la fetta di pubblico più preziosa, quella disposta a pagare di più per<br />

vedere contenuti televisivi. La pay tv di Mediaset, invece, su cui i vertici dell’azienda hanno puntato, nel 2011 è ancora<br />

in rosso per 30 milioni di euro. Nonostante sia cresciuta (ha superato i 2 milioni di spettatori), infatti, nell’ultimo anno,<br />

complice la crisi, ha visto una flessione del 28% dei nuovi abbonati.<br />

Mediaset Premium ha saputo intercettare due terzi dei nuovi abbonati, ma costa il 40% in meno rispetto a Sky, quindi i<br />

suoi sforzi devono essere maggiori per competere sui ricavi. I costi dei diritti del calcio, inoltre, sono lievitati. Per correre<br />

ai ripari, l’azienda ha annunciato alla fine del 2011 un piano di contenimento dei costi per 250 milioni di euro in tre anni,<br />

per compensare il calo degli introiti pubblicitari.<br />

Entrambe le corazzate navigano dunque in acque agitate. In considerazione dei mutamenti in atto e della posizione<br />

privilegiata di cui ha goduto in passato, Mediaset oggi teme soprattutto la concorrenza, in primis l’eventuale<br />

privatizzazione della Rai. La Rai, nonostante il forte calo continua a conservare un pubblico generalista più vasto rispetto<br />

a Mediaset, ma Mediaset si è organizzata in modo più efficace nella raccolta pubblicitaria e nello sfruttamento dei nuovi<br />

canali digitali.<br />

La metamorfosi. Oggi i contenuti televisivi vengono veicolati dai canali gratuiti digitali (generalisti, tematici, +1), dai<br />

canali digitali a pagamento, dalla Tv satellitare e dal Web. Il sito più conosciuto e cliccato è You Tube, dove i video sono<br />

accessibili a chiunque sia connesso alla Rete, fruibili nel momento in cui si vuole e tutte le volte che si vuole. Mediaset<br />

ha allestito un proprio sito sul quale mette a disposizione i propri contenuti. Il consumo di video su Internet solo<br />

nell’ultimo anno è aumentato del 19%.<br />

In questi anni si è quindi moltiplicata e frammentata l’offerta televisiva, ma, soprattutto, si sono moltiplicate le<br />

piattaforme; televisore, pc, cellulare smatphone, tablet. È nella “televisione multipiattaforma” che si può individuare uno<br />

spartiacque nella storia della televisione moderna. Più che di un superamento ed un disinteresse per la televisione è<br />

corretto parlare di un’evoluzione delle modalità di consumo. Se per il 2013 è previsto un calo dello share dall’80% al<br />

70% sulle televisioni tradizionali, sulle nuove piattaforme (gratuite e a pagamento) salirà dal 25% al 35%, finendo così<br />

per compensare la perdita (stima Groupm 2011).<br />

La Rete, in particolare, spesso considerata la grande rivale per eccellenza, non svolge soltanto un ruolo sostitutivo<br />

rispetto al mezzo televisivo. Paradossalmente, in molti casi contribuisce in modo determinante alla diffusione dei<br />

contenuti e dei miti televisivi, fa da cassa di risonanza, dà loro maggiore visibilità, permette il recupero di quel che si è<br />

perso e la segnalazione ad altri spettatori. Ciò vale soprattutto per la fruizione differita rispetto alla programmazione<br />

televisiva, per le mode ed i programmi cult, per l’altrimenti sfuggente target dei giovani, che sono appassionati utenti di<br />

Internet. Si parla in questo caso di “Catch up tv”, uno stile di consumo in cui i contenuti video vengono ricercati in modo<br />

attivo su altre piattaforme rispetto allo schermo tradizionale.<br />

Sempre sulla Rete diviene possibile la riscoperta delle serie perse al momento della loro messa in onda. Lo streaming e la<br />

multimedialità hanno scippato tutta una serie di prodotti televisivi alla fruizione tradizionale passiva, consentendo una<br />

fruizione attiva caratterizzata dalla scelta dei mezzi, dei tempi, dei luoghi. Gli stessi che ospitano scambi di informazioni<br />

e commenti sui prodotti: blog, forum, Social Network in cui gli appassionati dialogano ed alimentano il legame col<br />

prodotto televisivo, seppur sradicato dal piccolo schermo.<br />

Sono sempre più numerose le trasmissioni che non si limitano ad allestire un sito Internet, ma puntano decisamente sulla<br />

Rete per favorire la diffusione dei contenuti, il dialogo ed il confronto con gli spettatori, la fidelizzazione e la<br />

promozione degli appuntamenti. Molti degli artisti televisivi più celebri si sono lanciati nella Rete in prima persona,<br />

soprattutto sfruttando i Social Network per anticipazioni sui propri programmi, richieste di pareri e consigli, preparando<br />

così l’evento con anticipo e gratificando il pubblico più attento con un coinvolgimento che sembra annullare le distanze<br />

con celebrità altrimenti irraggiungibili. I Social Network si sono rivelati strumenti per mantenere viva la popolarità dei<br />

personaggi, anche quando non sono presenti sul piccolo schermo con nuovi programmi.<br />

La fetta di telespettatori interessati dal cambiamento di abitudini si sta allargando. Anche i meno giovani ed i meno colti,<br />

incuriositi, stanno gradualmente acquistando dimestichezza col nuovo: con i canali digitali, con gli smartphone su cui<br />

seguire i programmi, con i decoder, con Internet e di conseguenza i siti web delle diverse reti, You Tube e i suoi<br />

“fratelli”.<br />

Il futuro è probabilmente nei “Connected Tv”, i televisori che si collegano ad Internet per sfruttare contenuti e servizi<br />

online. Mediaset si è già mossa in modo chiaro in direzione della multimedialità assoluta che caratterizzerà il futuro<br />

prossimo. Nel 2011 è partita Premium Net Tv, che permette agli abbonati di Mediaset Premium di vedere in<br />

collegamento Adsl sia sulla Tv sia sul computer i contenuti dell’archivio Premium. Dopo alcuni mesi è divenuta<br />

Premium Play, con maggiore scelta di programmi ma anche un costo aggiuntivo sull’abbonamento. Un’offerta affine è<br />

quella di Sky Anytime. Sky, inoltre, ha messo a punto un’offerta commerciale congiunta con Fastweb: pacchetti Sky,<br />

Internet e telefono illimitato Fastweb ad una tariffa minima di 64 euro. La vecchia televisione, forse, è già morta. La<br />

nuova televisione, però, sembra più forte e pervasiva che mai.<br />

35


SCHEDA 15 | NELLA RETE DELLA PARTECIPAZIONE<br />

L’attivismo su Internet. Il popolo di Seattle, nelle sue intrinseche e differenti ramificazioni, è stato il primo movimento<br />

a sperimentare le potenzialità della Rete, il potere del mezzo ed il valore del messaggio. Una rivoluzione epocale delle<br />

modalità di attivismo e partecipazione, se comparata ai fatti degli anni Sessanta, dove l’incidenza di foglio, papiers,<br />

manifesti e radio “libere” costituiva la base dei movimenti di protesta giovanili. Nel 1999 e negli anni successivi, almeno<br />

fino alla nascita di Facebook (2004) ed alla diffusione massiva (2006-2008), Internet godeva di una natura meno<br />

“sociale” e personalizzata. Il passaggio dalle frammentarie teorizzazioni dell’attivismo online alle attività nelle piazze ed<br />

alle proteste era pressoché immediato ed efficace. La protesta non terminava con il corteo, ma proseguiva in un dibattito<br />

senza fine e, spesso, in assenza di mediazione, sui canali mail e blog della Rete. I fatti degli anni successivi, dagli<br />

attacchi dell’11 settembre 2001, agli interventi delle truppe alleate in Afghanistan ed in Iraq, ai cambiamenti degli assetti<br />

geopolitici, all’affermazione dei “Bric’s” (Brasile, Russia, India, Cina), hanno confermato le basi di una tendenza in atto:<br />

una nuova forma di partecipazione, più attiva, dinamica ed istantanea, stava nascendo nella Rete e l’opinione pubblica,<br />

nella sua complessità, faceva sentire la sua voce in una modalità del tutto innovativa e ricca di contenuti. In opposizione<br />

alla strategia capitalista di globalizzazione dall’alto, le subculture dei cyber-attivisti cercavano di ricondurla ad un’azione<br />

dal basso, bottom down, dando origine a forme di partecipazione orizzontali e non subordinate. Da un lato, l’azione era<br />

indirizzata a modificare lo strumento stesso di Internet, contrastando i player principali del settore informatico nella<br />

creazione di software chiuso e limitato, dall’altro sul versante dei contenuti, promuovendo idee libertarie, anticapitaliste<br />

e con un impianto, in taluni casi, utopico, ma con azioni ben radicate sul territorio (es. “Moveon”, negli Stati Uniti, che<br />

ha animato le proteste contro le politiche di Bush jr e contribuito a creare le basi per il successo di Obama). La potenza<br />

dei blogger a metà del 2000 era ormai un dato di fatto, al punto che anche i quotidiani e le riviste più autorevoli finivano<br />

per tenerne in qualche modo conto. All’inizio della seconda decade del XXI secolo, Internet mostra un’anima<br />

decisamente “sociale”: la partecipazione attiva dei detentori del potere politico ed economico, delle celebrità e dei<br />

comuni mortali certifica la centralità che la Rete ha assunto nelle nostre vite. Il social networking, nella sua totalità,<br />

conta 1,2 miliardi di utenti e rappresenta l’attività più popolare online, pari a 1 su 5 minuti spesi online ad ottobre<br />

2011(Comscore Whitepaper). Facebook ha superato gli 800 milioni di iscritti e prevede di averne 1 miliardo in<br />

contemporanea con la quotazione nella borsa di Wall Street. Twitter, il più diretto competitor di Facebook, con una<br />

struttura demografica diversa e basato su un’architettura comunicativa racchiusa in 140 caratteri, vanta 100 milioni di<br />

utenti. Recentemente il mercato dei Social Network, estremamente concorrenziale nei siti locali, ha visto l’ingresso di<br />

Google con Google+, la cui crescita maggiore è prevista nel 2012.<br />

La partecipazione nel 2011 tra rivolte e referendum. Nel 2011 l’influenza degli opinionisti e degli attivisti online ha<br />

contribuito a cambiare il corso della storia: dalle rivolte in Egitto passando per la Tunisia, dal conflitto libico e fino alle<br />

proteste contro il regime siriano, alle manifestazioni antigovernative a Mosca, agli “english riots” di Londra, alla lotta<br />

anticapitalista del “Occupy Wall Street”. Nella maggior parte dei casi si è passati, grazie all’attivismo digitale, da una<br />

“repressione mediatica” ad una “rivoluzione mediatica”. Solo durante la rivoluzione egiziana si è passati da 2.300 tweet<br />

giornalieri a 230.000 ed i primi 23 video diffusi hanno ricevuto 5,5 milioni di visitatori in tutto il mondo.<br />

Il risveglio dei Paesi Arabi. Il risveglio delle coscienze civili e la spinta alla democratizzazione sono stati al centro del<br />

dibattito pubblico dell’anno appena concluso. L’entusiasmo della partecipazione sembra aver contagiato tutti, pur<br />

essendo ancora difficile valutare in termini qualitativi il reale apporto che l’utilizzo coordinato o disaggregato del social<br />

networking ha dato alle azioni di piazza. I dati dell’Arab Social Media Report possono essere utili per capire le<br />

potenzialità dei Paesi Arabi: in Algeria gli utenti di Facebook sono 1.413.280, in Tunisia 1.820.880, negli Emirati Arabi<br />

Uniti 2.135.960, in Marocco 2.446.300, in Egitto 3.213.420, in Arabia Saudita 4.634.600 e negli altri Paesi Arabi<br />

raggiungono quota 5.697.423. Il numero di utenti Facebook a livello aggregato nei Paesi Arabi è cresciuto del 78% tra il<br />

2009 e il 2010, collocandosi a 21.361.000. I giovani tra i 15 e i 29 anni su Facebook costituiscono il 75%. Passando a<br />

Twitter, il numero stimato di utenti attivi (a marzo 2011) era pari a 1.150.000. Gli utenti totali, saltuariamente attivi,<br />

6.500.000 circa. Il numero stimato di tweet generati nei Paesi Arabi dagli utenti attivi nel primo trimestre del 2011 è pari<br />

22.750.000, 250.000 al giorno e 175 al minuto.<br />

La democrazia in diretta. La partecipazione ai dibattiti, l’organizzazione delle basi per la raccolta delle firme, le<br />

manifestazioni di piazza sul territorio non avrebbero prodotto un risultato così intenso alle urne, se non fossero stati<br />

generati e diffusi attraverso la Rete: Internet è dunque l’ecosistema in grado di creare forme di democrazia diretta, luogo<br />

per rinsaldare i legami comunitari e spazio pubblico discorsivo. I legami che si formano all’interno delle comunità<br />

virtuali possono favorire la formazione di fiducia, norme e reciprocità in grado di trasformare l’interesse personale in<br />

interessi collettivi, dando vita a percorsi di azione politica: addirittura, quella che si delinea all’orizzonte è una forma di<br />

democrazia continua, dove la voce dei cittadini può levarsi in qualsiasi momento e da qualsiasi luogo, divenendo parte<br />

del concerto politico quotidiano.La democrazia dei post, dei tweet e dei followers è fluida e dinamica, orizzontale ed<br />

istantanea. I processi di informatizzazione delle Istituzioni e della Pubblica amministrazione vanno avanti, seppur con<br />

rallentamenti ed investimenti non sempre congrui. Le linee di tendenza sembrano ormai definirsi. Il rapporto cittadino-<br />

Stato e centro-periferia è stato ampiamente ridisegnato nel corso di questi ultimi quindici anni. I governanti ed i<br />

governati non possono più continuare ad ignorarsi, l’abbattimento delle distanze nella comunicazione ha generato<br />

un’esigenza di maggior controllo e protezione, risposte immediate e puntuali.<br />

36


SCHEDA 16 | SOCIAL SHOPPING, IL NUOVO ELDORADO?<br />

L’E-commerce diventa social. La Internet economy ha generato in <strong>Italia</strong> 32 mld di euro corrispondente al 2% del Pil.<br />

Nel 2015 le previsioni stimano un incremento rilevante, elevando l’asta a 77 mld di euro, pari al 4,3% del Pil italiano<br />

(The Boston Consulting Group, 2011). L’impatto economico sull’occupazione è ampiamente positivo: negli ultimi 15<br />

anni sono stati creati 700.000 nuovi posti di lavoro, 1,8 per ogni unità persa e il 10% di crescita media annua per le<br />

aziende attive sul web, rispetto alla stagnazione delle non attive (Digital Advisory Group 2011). Nel 2011 il valore delle<br />

vendite da siti italiani di e-commerce ha generato 8.141 mld di euro segnando un incremento del 20% su base annua. La<br />

diffusione dei prodotti cresce del 24%, un valore maggiore rispetto ai servizi che aumentano del 18%, ma che<br />

rappresentano a livello aggregato i 2/3 del mercato e-commerce. Gli acquirenti online sono stimati in 9 mln in crescita<br />

del 7% con una spesa media superiore a 1.000 euro su base annua (Netcomm, 2011). Anche Amazon ha deciso di aprire<br />

una divisione italiana operativa dal 2011, segno che l’<strong>Italia</strong> ha un potenziale di crescita rilevante nel settore degli acquisti<br />

online, nonostante il duplice gap del digital divide e della logistica di distribuzione dei beni, ancora inefficiente in molte<br />

aree del Paese. Un’analisi dei dati interni a Google mostra come nel periodo 2006-2010 sia aumentata del 5.765% a<br />

livello aggregato la ricerca dei termini “made in Italy” da dispositivo mobile e con una differenziazione geografica<br />

notevole (Netcomm 2011). Allo sviluppo del canale e-commerce si sta dunque affiancando il cosiddetto m-commerce,<br />

dove la componente di mobilità (utilizzo di cellulare e tablet) costituisce il driver prioritario per incrementare le vendite<br />

istantanee ed ubique. La propensione verso l’acquisto mobile nel nostro Paese dovrebbe essere maggiore per una<br />

naturale predisposizione di massa verso l’adozione di cellulari ed è altresi confermata dai dati BCG che attestano<br />

all’<strong>Italia</strong> un interesse pari a 10 (su una scala di valori di 12) superiore ai principali paesi europei ed una propensione<br />

all’acquisto pari a 3, analogo alle altre realtà europee. Persistono, tuttavia, le incertezze e lo scetticismo di una parte dei<br />

consumatori e dei venditori. E le motivazioni rilevate, ancora approssimative, attengono per lo più alla sicurezza, ai<br />

metodi di pagamento ed alla possibilità di cambiare la merce. La crescente diffusione della pubblicità online ed il<br />

monitoraggio dei gusti e delle tendenze sui principali Social Network, Facebook e Twitter in primis, costituiscono i punti<br />

di forza dell’e-commerce. I consumatori sono raggiunti direttamente e costantemente da sollecitazioni all’acquisto e la<br />

resistenza al consumismo, complici la miriade di offerte e l’aggressività delle proposte, diventa un’impresa ardua. Il<br />

grado di engagement dei brand e dei rispettivi store online con i consumatori è in aumento. Le imprese ed i marchi<br />

“dialogano” continuamente con i potenziali acquirenti ed i fedeli consumatori penetrando nelle loro vite, modificandone<br />

le tendenze ed orientando le scelte. Un altro processo importante in atto prevede il passaggio dall’e-commerce al<br />

concetto di m-commerce, il commercio su mobile in grado di “geolocalizzare” il consumatore e proporre acquisti<br />

personalizzati in base ai gusti ed alla posizione geografica direttamente sul dispositivo mobile attraverso le applicazioni<br />

di riferimento. Il terreno di conquista dell’m-commerce ha visto in prima linea i servizi finanziari ed i collaterali, ma<br />

anche le offerte di beni sono approdate a questo nuovo canale. Altro fronte sul quale si coniugano le tendenze sociali e<br />

mobili, interprete di uno straordinario successo è costituito dal social buying, nella cui arena proliferano i gruppi di<br />

acquisto, i siti di coupon e sconto, vero fenomeno del 2011, interpreti di un’esperienza di consumo personalizzata e<br />

sociale al tempo stesso.<br />

I coupon digitali: la nuova frontiera degli acquisti di gruppo.I gruppi di acquisto online nascono e si sviluppano in<br />

misura esponenziale a partire dal 2009. Il modello degli acquisti di gruppo online si diffonde rapidamente, complici la<br />

crisi finanziaria del 2008 e la riduzione dei consumi in atto in Nord America ed in Europa Occidentale. Il modello di<br />

business è semplice, ma innovativo ed in grado di coniugare le esigenze di vendita virtuali (del coupon) con l’erogazione<br />

di un servizio o vendita di un bene reali e locali. Il sito di deals (affari) si pone da intermediario tra il merchant<br />

(venditore) e una pluralità di acquirenti. Il merchant promuove un bene o servizio in sconto con l’obiettivo di attirare<br />

nuovi clienti potenziali: una forma di investimento pubblicitario in cui il prodotto è il mezzo, lo strumento per generare<br />

visibilità ed il costo iniziale è pari a 0. Il bene o servizio scontato con una percentuale considerevole viene proposto al<br />

pubblico in un tempo (24 ore, 3 o 5 giorni) e spazio (una città o parte di essa) limitati. L’acquirente acquista il bene su<br />

Internet e si reca nel punto vendita fisico per consumare una cena di coppia, ricevere un massaggio, effettuare un<br />

trattamento ricostituente, acquistare un bene, etc. Il sito di deal, una volta conclusa la vendita online, accorda al venditore<br />

il ricavo trattenendo una percentuale variabile in base al contratto stipulato. Il successo del couponing negli ultimi due<br />

anni è dirompente, superiore a qualsiasi altro fenomeno di e-commerce, complice l’unione tra la virtualità della Rete e la<br />

realtà variegata della miriade di imprese e servizi locali, alla ricerca di promozioni e nuovi clienti. Nel solo 2011 il<br />

mercato del couponing ha generato un volume di affari pari 2,67 mld di dollari (B2B Industry analisys of Social Buying,<br />

2011). In <strong>Italia</strong> i siti principali sono in parte riconducibili ad operatori internazionali, in parte a realtà specifiche del<br />

nostro Paese. Nel 2011 i siti del settore hanno generato transazioni superiori ai 400 mln di euro, contribuendo alla spinta<br />

complessiva del settore e-commerce. Oltre a Groupon, che in <strong>Italia</strong> è attivo in parte grazie ad una partnership con City<br />

Deal, troviamo Groupalia, già presente in Spagna e in America Latina, Letsbonus, riconducibile parzialmente all’attività<br />

del gruppo Amazon, Prezzo Felice, Poinx e tanti altri. Di particolare interesse risulta l’ingresso sul mercato di due attori<br />

istituzionali quali Telecom <strong>Italia</strong> e Seat Pagine Gialle, entrambi dotati di una forza vendite ben radicata sul territorio ed<br />

eterogenea, uno dei punti di forza trainanti nel settore. I gruppi di acquisto online sono passati in un anno da 3 a 23. I<br />

primi tre player del mercato italiano sono Groupon, Groupalia e Letsbonus le cui offerte rappresentano il 90% dei<br />

coupon venduti.<br />

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SONDAGGIO SCHEDA 17 | GLI ITALIANI E LE LINGUE ESTERE:<br />

IL CASO DEL SERVIZIO BIBLIOTECHE DI ROMA<br />

Un’iniziativa delle rete europea EUNIC: il valore del multilinguismo. In quale modo e misura la frequenza di una<br />

biblioteca pubblica può stimolare in un cittadino la conoscenza delle lingue estere? Questa domanda si è posta in<br />

occasione di una importante iniziativa promossa da EUNIC - European Union National Institutes for Culture, la rete<br />

europea di coordinamento degli istituti esteri di cultura che operano all’interno di ogni Stato membro dell’Unione. Si è<br />

trattato di una conferenza internazionale, svoltasi a Roma il 19 ottobre 2011 in collaborazione con la Rappresentanza in<br />

<strong>Italia</strong> della Commissione Europea, che ha posto al centro dei lavori l’utilità di ampliare la conoscenza delle lingue estere<br />

in un’Europa caratterizzata da un forte multilinguismo. Con “Un’Europa - Molte Lingue - Nuove Opportunità”, EUNIC<br />

ha voluto ricordare soprattutto tre cose: che l’utilizzo della propria lingua è riconosciuto dall’Unione come un diritto<br />

fondamentale di tutti i cittadini; che il multilinguismo è un valore, una risorsa, una fonte di opportunità; infine, che<br />

l’Unione europea è impegnata a promuovere programmi per fare in modo che un cittadino possa arrivare a comunicare<br />

con la lingua materna ed in più con almeno altre due lingue estere.<br />

Il sistema dell’Istituzione Biblioteche di Roma. In questo contesto si è inserita l’iniziativa di un sondaggio mirato<br />

condotto per l’occasione dall’<strong>Eurispes</strong> (e che sarà presentato ufficialmente nelle prossime settimane) presso le<br />

biblioteche del comune di Roma, un sistema complesso, molto qualificato ed avanzato, formato da 34 biblioteche diffuse<br />

su tutta l’area metropolitana e che fa capo all’Istituzione Biblioteche di Roma, costituita nel 1996. Lo scopo era di<br />

comprendere quale fosse l’atteggiamento prevalente dei frequentatori di una biblioteca pubblica di fronte al problema del<br />

multilinguismo, quali interessi, stimoli, incentivi avessero ad apprendere le lingue estere, a cogliere le opportunità legate<br />

alla loro conoscenza. In parallelo si sono cercati elementi specifici per comprendere quale tipo di incentivo può venire, in<br />

tale àmbito, al frequentatore di una biblioteca della Capitale, data la grande varietà dell’offerta dei servizi che essa<br />

propone. Oltre 1.900.000 di visitatori, 600.000 prestiti librari che diventano oltre 1.030.000 se si sommano i prestiti degli<br />

audiovisivi; in media, nel corso di un anno, ogni biblioteca ha prestato 28.057 documenti (16.355 libri e 11.702<br />

audiovisivi): questi dati del 2009, che fanno riferimento ad un patrimonio documentale complessivo di 896.766 unità ed<br />

a 2.496 posti di lettura, offrono un quadro preciso dell’entità del fenomeno “partecipazione” promosso dal servizio<br />

bibliotecario romano, oltreché della efficienza (diffusione sul territorio, molteplicità di offerta) e della efficacia della<br />

funzione svolta nella diffusione della cultura.<br />

l sondaggio <strong>Eurispes</strong> 2011: “Conosci le lingue estere”. Il questionario, distribuito e somministrato in 28 delle 34<br />

biblioteche del comune di Roma nel periodo compreso tra il 4 e il 14 ottobre 2011, si compone di due parti: una destinata<br />

agli utenti e l’altra ai responsabili e/o agli operatori che lavorano all’interno delle biblioteche.<br />

Il campione degli intervistati è composto per la maggioranza (il 57%) da utenti di sesso femminile, che registrano<br />

un’eccedenza di ben 14 punti percentuali sulla complementare utenza maschile (43%). Anche se minima, in esso è<br />

presente una componente di nazionalità straniera, formata prevalentemente da giovani studenti di genere femminile, che<br />

costituisce appena il 4% del totale. Per quanto riguarda il titolo di studio, il 47,2% ha un diploma di maturità e il 46,9%<br />

una laurea e/o un master. Gli intervistati risultano essere principalmente occupati (il 39,1%) e studenti (il 32,9%),<br />

costituendo insieme il 70% del totale, a cui fa seguito il 13,2% di persone “in cerca di nuova occupazione” e “in cerca di<br />

prima occupazione”, con una leggera prevalenza della prima modalità (rispettivamente il 9,4% e il 3,8%).<br />

La conoscenza delle lingue straniere. L’89,4% del totale, afferma di conoscere almeno una lingua straniera. In<br />

particolare, il 42,3% dichiara di sapere una lingua estera, il 38,4% due, percentuali che diminuiscono bruscamente<br />

all’aumentare del numero di idiomi conosciuti. Andando poi ad indagare se le lingue estere conosciute siano tra quelle<br />

parlate all’interno dei paesi dell’Unione europea o meno, si registra una percentuale del 99,8% a favore delle prime,<br />

contro un 6,7% di intervistati che afferma di conoscere lingue straniere extra-europee.<br />

Conoscere nuove lingue straniere… Quali? Ben l’85% (842 individui) degli intervistati avrebbe interesse ad<br />

apprendere una lingua straniera che non conosce.<br />

Tra le 23 lingue ufficiali dell’Unione europea la voglia di conoscenza si concentra di nuovo su cinque delle lingue<br />

appartenenti all’Europa occidentale ante caduta del muro di Berlino: il 43,4% imparerebbe lo spagnolo, il 34,2% il<br />

tedesco, il 30,9% il francese, il 28% l’inglese e il 10,1% il portoghese. Mentre il restante 8,6% si distribuisce tra le altre<br />

18 lingue ufficiali Ue.<br />

“Saprebbe indicare quali sono le 23 lingue ufficiali dell’Unione europea?”Solamente un individuo (lo 0,2%) ne ha<br />

fatto l’elenco completo. Nell’analisi delle risposte fornite bisogna tener conto della confusione che la domanda ha<br />

generato nei rispondenti. Sono state indicate, infatti, anche lingue di paesi appartenenti all’Europa fisica, ma non<br />

appartenenti all’Unione europea.<br />

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SCHEDA 18 | IN DIFESA DELLA LINGUA<br />

La Società Dante Alighieri. La Società Dante Alighieri si occupa da 124 anni di «tutelare e diffondere la lingua e la<br />

cultura italiana nel mondo, tenendo ovunque alto il sentimento di italianità, ravvivando i legami spirituali dei<br />

connazionali all’estero con la madre patria e alimentando tra gli stranieri l’amore e il culto per la civiltà italiana».<br />

L’attività della “Dante” si orientò fin da subito in più direzioni; da un lato si lavorava per promuovere la nostra lingua e<br />

la nostra cultura nei vari Paesi del mondo, sostenendo anche le istanze politiche di unificazione delle aree italofone al<br />

Regno d’<strong>Italia</strong>, come nel caso delle regioni irredenti, ma più in generale cercando di rafforzare la presenza italiana dove<br />

già era forte (Malta, Nordafrica, Grecia); dall’altro si sviluppò fin dalle origini un’attenzione partecipe alle vicissitudini<br />

dei nostri emigranti. Oggi la “Dante” continua nel suo lavoro, fondando e sostenendo scuole, biblioteche, circoli e corsi<br />

di lingua e cultura italiane, diffondendo libri e pubblicazioni, promuovendo conferenze, escursioni culturali e<br />

manifestazioni artistiche e musicali, assegnando premi e borse di studio e in generale promuovendo ogni evento rivolto<br />

ad illustrare l’importanza della diffusione della lingua, della cultura e delle creazioni del genio e del lavoro italiani; per<br />

fare questo può contare su una rete di 409 Comitati sparsi per il pianeta. Il lavoro volontario dei suoi soci permette ogni<br />

anno a tanti discendenti di emigrati di conservare il legame con le proprie radici, ma soprattutto consente a tantissimi<br />

cittadini dei paesi ospiti di conoscere e apprezzare direttamente gli aspetti più significativi della cultura italiana. L’opera<br />

della “Dante” dà quindi un contributo prezioso anche alla diffusione del Made in Italy, tanto che in molte aree<br />

strategiche si affianca attivamente agli sforzi di Istituti <strong>Italia</strong>ni di Cultura, Camere di Commercio italiane all’estero e<br />

associazioni di categoria. La nascita dei grandi movimenti migratori verso l’Europa ha poi chiamato la “Dante” a una<br />

nuova sfida, quasi a un ritorno alle origini: offrire ai cittadini immigrati in <strong>Italia</strong> la possibilità di imparare la nostra lingua<br />

e di conoscere la nostra cultura, in un processo di integrazione che spesso si affianca a quello delle Istituzioni e degli<br />

Enti locali. Fondamentale, da questo punto di vista, è stata la nascita del Progetto Lingua <strong>Italia</strong>na Dante Alighieri<br />

(PLIDA), nell’ambito del quale si svolgono attività di carattere scientifico per la diffusione dell’insegnamento e della<br />

certificazione di qualità della lingua italiana.<br />

La presenza della Dante sul territorio nazionale: i Comitati italiani. Attualmente in <strong>Italia</strong> sono attivi 89 Comitati,<br />

distribuiti su tutto il territorio nazionale; la Dante è infatti presente in 19 regioni su 20 (con la sola eccezione della Valle<br />

d’Aosta) e nella Provincia autonoma di Bolzano. La capillare diffusione territoriale fa sì che 18 capoluoghi di regione su<br />

20 e 74 capoluoghi di provincia su 107 ospitino un Comitato SDA. Nel solo 2011 sono state moltissime le attività<br />

realizzate, a cominciare dalle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’<strong>Italia</strong> e dalle “Giornate della Dante”, fino ad<br />

arrivare a partecipazioni importanti come la Giornata Mondiale del Libro promossa dall’Unesco (che ha visto impegnato<br />

il Comitato di Cosenza) o come la quinta edizione della manifestazione “Dove ‘l sì suona”, giornata di studio dedicata<br />

all’insegnamento dell’italiano nel territorio nazionale, organizzata dal Comitato di Venezia, o ancora il concerto benefico<br />

realizzato dal Comitato di Firenze dopo il terremoto in Giappone, finalizzato alla raccolta di fondi per la Croce Rossa<br />

nipponica. Sempre nel 2011, sono stati 20 i Comitati impegnati nella realizzazione di progetti dedicati alla formazione di<br />

cittadini immigrati; nel corso di queste iniziative, svolte in collaborazione con Enti e Istituzioni locali, allo studio della<br />

lingua sono stati abbinati in molti casi percorsi di formazione professionale, servizi di accoglienza e mediazione<br />

linguistica e culturale, iniziative didattiche mirate per donne e minori. L’esempio più significativo di questo tipo di<br />

iniziative è stato il progetto KNE (Knowledge Network Estero), organizzato nel 2010 dalla “Dante” in collaborazione<br />

con l’IRFI (Istituto Romano per la Formazione Imprenditoriale), con l’OIM (Organizzazione Internazionale per le<br />

Migrazioni) e con molti enti territoriali per la formazione professionale, e finanziato dal Fondo Europeo per<br />

l’Integrazione. Il KNE ha permesso a 350 persone di più di 20 nazionalità diverse di seguire un corso intensivo di lingua<br />

italiana, affiancato a un percorso informativo sulla legislazione italiana e a corsi di formazione nei più vari settori<br />

lavorativi. Al termine del progetto i partecipanti hanno potuto certificare la loro competenza in lingua italiana sostenendo<br />

gli esami PLIDA (maggio 2010) e sono stati quasi tutti inseriti in vari ambienti lavorativi.<br />

La presenza della Dante nel mondo: i Comitati esteri. La Dante è presente in 73 paesi del mondo su 195 riconosciuti;<br />

con la sua rete raggiunge quindi il 37,4% del pianeta. I corsi organizzati all’interno della rete dei Comitati, permettono<br />

ogni anno a circa 200.000 persone di imparare o di approfondire la conoscenza della nostra lingua.<br />

Il PLIDA (Progetto Lingua <strong>Italia</strong>na Dante Alighieri). Il Progetto Lingua <strong>Italia</strong>na Dante Alighieri (PLIDA) promuove,<br />

produce e diffonde tutti gli strumenti utili ad agevolare e migliorare l’attività di insegnamento della lingua italiana:<br />

materiali per la didattica, valutazione, formazione e aggiornamento, ricerca scientifica. Tra le principali attività del<br />

PLIDA rientra la Certificazione di competenza in italiano come lingua straniera. Alla certificazione normale si affianca il<br />

PLIDA Juniores, concepito espressamente per gli adolescenti, che, dal 2008 al 2011, ha registrato un aumento dei paesi<br />

coinvolti nella certificazione (da 13 a 20), dei Centri Certificatori che hanno somministrato l’esame (da 32 a 49) e degli<br />

iscritti (da 1.048 a 1.968). Un’altra importante attività consiste nell’organizzazione di corsi di aggiornamento per<br />

insegnanti. Il carattere innovativo dei corsi consiste nel coniugare un rigoroso aggiornamento linguistico e<br />

glottodidattico, con un vasto approfondimento scientifico degli aspetti più rilevanti del patrimonio artistico e culturale<br />

dell’<strong>Italia</strong>. Oggi il PLIDA può contare su una rete di oltre 250 Centri certificatori autorizzati nel mondo, organizzati<br />

all’interno dei Comitati ma anche sulla collaborazione di Istituti <strong>Italia</strong>ni di Cultura, Università e scuole private; ogni<br />

anno migliaia di persone hanno così la possibilità di certificare la propria competenza in lingua italiana nelle cinque<br />

sessioni d’esame annuali.<br />

39


SCHEDA 19 | DISAGIO PSICOLOGICO E PSICOTERAPIA<br />

Le situazioni più gravi di disagio: il trattamento sanitario obbligatorio. L’analisi dei dati Istat evidenzia che, nel<br />

2008, Sicilia (1.474, 14,5% del totale), Lombardia (1.313, 12,9%), Emilia Romagna (1.262, 12,4%), Campania (1.107,<br />

10,9%) e Lazio (928, 9,1%) sono state le regioni che hanno registrato il più alto numero di TSO. Al contrario, Valle<br />

d’Aosta (37 ricoveri), Basilicata (43), Molise (71) e Friuli Venezia Giulia (81) hanno registrato il numero minore. Dal<br />

confronto tra il 2008 ed il 2009 emerge che il numero complessivo dei ricoveri diminuisce in termini assoluti, anche se<br />

non in maniera significativa (da 10.177 a 9.398). Nel 2009, Sicilia (1.385), Lombardia (1.175), Emilia Romagna (1.100),<br />

Campania (1.065) e Lazio (797) restano le regioni con il più alto numero di TSO, pur registrando una diminuzione in<br />

termini assoluti, al confronto con il 2008. Rispetto alle diagnosi dei complessivi ricoveri in TSO nel 2008, la categoria<br />

che contiene il maggior numero di frequenze è Schizofrenia e disturbi correlati con il 38,2% del numero complessivo di<br />

TSO. Nel 2009, questa rimane la categoria più ampia, con il 38,3%. Seguono Disturbi affettivi, con il 19,5% sia nel 2008<br />

sia nel 2009 e Altre psicosi con il 18,2% nel 2008 ed il 19,3% nel 2009. Le categorie Ansia, disturbi somatoformi,<br />

dissociativi e della personalità passano dal 9,9% del 2008 al 10,4% del 2009, i Disturbi mentali dovuti ad abuso di alcool<br />

diminuiscono dal 5,2% al 4,1%, mentre si mantiene stabile la percentuale relativa ai ricoveri imputabili a Disturbi<br />

mentali senili e organici (3,2% nel 2008 e 3% nel 2009).<br />

Ricovero psichiatrico spontaneo: soprattutto per disturbi affettivi e schizofrenia. Più colpiti i 25-44enni in<br />

Lombardia, Sicilia e Lazio. I ricoveri per disturbi psichici, senza la necessità di un trattamento obbligatorio, sono stati<br />

nel 2008 287.952 e nel 2009 sono lievemente calati a quota 274.173. Sia nel 2008 sia nel 2009 le regioni con il più alto<br />

numero di ricoveri spontanei sono la Lombardia (15,6% e 16,1%), il Lazio (12% e 11,6%) e la Sicilia (10,2% e 11,1%);<br />

in termini assoluti si è trattato nel 2009, per queste regioni, rispettivamente di 44.279, 31.913 e 30.453 casi. Consistente<br />

anche il dato riscontrato nel Veneto (21.074) e in Campania (20.604). In questi casi, differentemente dai TSO, la<br />

categoria più ampia è quella dei Disturbi affettivi, che comprende il più alto numero sia nel 2008 (22,8%) sia nel 2009<br />

(22,9%). Schizofrenia e disturbi correlati è una categoria significativa (come anche nel caso dei TSO) registrando il<br />

16,4% dei casi nel 2008 ed il 16,3% nel 2009. Seguono Ansia, disturbi somatoformi e disturbi dissociativi e della<br />

personalità con il 15% nel 2008 ed il 14,8% nel 2009. Infine Disturbi mentali senili e organici registra il 14,8% dei casi<br />

nel 2008 ed il 15,3% nel 2009. La fascia d’età più colpita è quella che va dai 25 ai 44 anni (80.469 casi nel 2009), con<br />

una maggiore concentrazione in Lombardia (14.783), in Sicilia (9.278) e nel Lazio (7.045); seguono i 45-64enni (74.246)<br />

soprattutto in Lombardia (12.745), Sicilia (8.643) e Piemonte (7.340). La fascia d’età meno colpita, invece, sembra<br />

essere quella cha va dai 18 ai 24 anni (13.420 ricoveri nel 2009). La fascia d’età più colpita è ancora quella dai 25 ai 44<br />

anni, con una maggiore diffusione di Schizofrenia e disturbi correlati (20.175 nel 2009), Disturbi affettivi (19.063) e<br />

Ansia, disturbi somatoformi, dissociativi e della personalità (16.816), facendo registrare un trend che si è mantenuto<br />

rispetto al 2008. La categoria più colpita è quella dei singles (113.062 nel 2008 e 106.577 2009), con la maggiore<br />

incidenza nelle regioni Lazio e Lombardia, e quella dei coniugati (74.841 e 69.706). I separati/divorziati, invece<br />

sembrerebbero essere i meno colpiti rispetto sia ai coniugati sia ai vedovi.<br />

L’immigrazione ospedaliera. Questo fenomeno riguarda i ricoveri in ogni regione di pazienti provenienti da altre<br />

regione del territorio nazionale. Nel 2008 e nel 2009 il numero complessivo dei ricoveri extra regioni rappresenta circa il<br />

9% dei ricoveri totali sul territorio nazionale. La Toscana e la Lombardia, sia nel 2008 sia nel 2009, risultano le regioni<br />

che accolgono il maggior numero dei ricoveri extra-regione (circa 17% e 14%).<br />

Come si interviene sul disagio psicologico? Nel caso di ricoveri psichiatrici, TSO o meno, il trattamento è<br />

principalmente di tipo farmacologico. Inoltre, i pazienti partecipano ad incontri di terapia di gruppo, con i familiari e<br />

individuali. Solitamente dopo le dimissioni, a seconda dei casi, gli stessi vengono invitati a proseguire il trattamento sia<br />

farmacologico (anche perché questo non può essere interrotto repentinamente), sia psicoterapico presso la stessa struttura<br />

ospedaliera, o presso una struttura territoriale della stessa zona di residenza dei pazienti.<br />

I costi di una terapia nel pubblico sono quelli del ticket; se, invece, si vuole ricorrere ad un libero professionista, per una<br />

psicoterapia privata, i costi, da tariffario (reso pubblico dall’Ordine Nazionale degli Psicologi sul proprio sito) sono in<br />

media di 90 euro a seduta per una terapia individuale, 120 se di coppia, 45 a persona se di gruppo. Chiaramente, terapia e<br />

tempi, così come il numero delle sedute necessarie, variano da paziente a paziente. Volendo solo indicare un costo medio<br />

mensile, ipotizzando un minimo di una seduta a settimana, la terapia individuale dovrebbe costare 360 euro/mese, 480<br />

euro/mese per quella in coppia e 900 euro/mese ad un ipotetico gruppo di 5 persone.<br />

40


SONDAGGIO SCHEDA 20 | ITALIA, UN AMORE DIFFICILE<br />

Un Paese a corto di speranza. Quando si chiede agli italiani di guardare all’odierna situazione del Paese, e di esprimere<br />

in merito un sentimento prevalente, ben il 63,2% si dice “spesso” (45,5%) o “sempre” (17,7%) sfiduciato. Altrettanto<br />

diffusa è poi una sensazione di impotenza, da intendersi anche come incapacità o impossibilità di incidere attivamente<br />

per migliorare l’attuale condizione, condivisa (spesso 33,8% e sempre 23,9%) dal 57,7%. Circa un terzo dichiara, inoltre,<br />

di non sentirsi “mai” né ottimista (35,1%) né sereno (32,8%) guardando al presente dell’<strong>Italia</strong>. L’immagine di un Paese a<br />

corto di speranza e di ottimismo appare rafforzata, guardando soprattutto alle fasce di età in cui tali sentimenti risultano<br />

prevalenti: sono infatti i giovani tra i 25 e i 34 anni, ovvero le classi “biologicamente” più proiettate verso il futuro, a<br />

dichiararsi, in oltre il 75% dei casi, “spesso” o addirittura “sempre” sfiduciate, seguite dai 45-64enni (63,8%), dai 35-<br />

44enni (60,5%), dai 18-24enni (58,9%) e infine da chi ha 65 anni o più (56,6%). Quanti hanno dichiarato di non sentirsi<br />

rappresentati da alcuna area politica, nel 73,2% dei casi si sono anche definiti “spesso” o “sempre” sfiduciati, seguiti dal<br />

68,1% di coloro che non hanno saputo indicare un’area politica di appartenenza. Nelle restanti situazioni, sono i<br />

potenziali elettori dei partiti più estremi, di sinistra (66,7%) e di destra (63,2%), ad esprimere con più frequenza tale<br />

sentimento. Chi invece si riconosce nelle forze schierate al centro appare coinvolto “a metà” nella sensazione di sfiducia:<br />

il 52,6% dei potenziali elettori di centro-sinistra, il 50,6% di quelli di centro-destra e il 49,4% di quelli di centro si è<br />

infatti dichiarato sfiduciato. Così come il sentimento di sfiducia, anche quello di impotenza coglie “spesso” (33,9%) o<br />

addirittura “sempre” (26,8%) soprattutto i giovani tra 18 e 24 anni (60,7%).<br />

Segnali dal Sud. Nel Sud e nelle Isole gli intervistati si dimostrano ben più inclini all’ottimismo rispetto alle regioni del<br />

Nord e soprattutto del Centro: nelle Isole si riscontrano, in particolare, le percentuali minori di quanti dichiarano di non<br />

sentirsi “mai” ottimisti dinanzi alla situazione attuale (22,5%); seguono gli abitanti del Sud (29,7%), del Nord-Ovest<br />

(30%), del Nord-Est (40,8%) e infine del Centro dove i pessimisti raggiungono il 45,7% del totale. Sempre nel Sud <strong>Italia</strong><br />

si riscontra anche una decisa prevalenza di persone disposte a definirsi “spesso” o “sempre” ottimiste, che arrivano al<br />

17,5%, contro il 7,5% del Nord-Ovest, il 7,8% del Centro, l’11,2% del Nord-Est e l’11,3% delle Isole.<br />

Con le mani legate? Le ragioni che sono alla base di uno stato d’animo collettivo così marcatamente segnato da<br />

sentimenti di sfiducia e di impotenza, sono ovviamente molteplici e di non facile individuazione. Il peggioramento del<br />

quadro economico ed occupazionale, una congiuntura internazionale decisamente poco favorevole e i rischi emersi negli<br />

ultimi mesi relativi proprio al “caso italiano” in Europa, sono tutti elementi che possono aver contribuito a diffondere<br />

una sensazione di insicurezza e di debolezza nell’opinione pubblica, anche a prescindere dalla condizione personale. La<br />

domanda “Come cittadino italiano oggi sente limitata la sua libertà di iniziativa?” è stata utile per comprendere almeno<br />

una delle ragioni che possono essere ritenute alla base del clima attuale. Ben il 40,6% dei cittadini ha affermato di<br />

sentirsi “abbastanza” limitato e il 18,9% addirittura “molto”: quasi due italiani su tre (59,5%) sperimenterebbero dunque<br />

questa spiacevole sensazione di impedimento. Di contro, solo il 13,1% non ha assolutamente questa sensazione e il<br />

25,4% la sperimenta in misura decisamente lieve.<br />

Non stupisce che siano ancora una volta i giovani, e in particolare i giovanissimi (18-24 anni), a sentirsi limitati nella<br />

libertà di iniziativa, complessivamente nel 69,6% dei casi (molto 20,5% e abbastanza 49,2%), cui va a sommarsi il<br />

64,4% dei 25-34enni (molto 22% e abbastanza 49,1%). Il dato tende a scendere tra i 35-44enni (molto e abbastanza<br />

complessivamente 55,7%), ma risale nuovamente al 61,9% tra i 45-64enni per poi crollare al di sotto del 50% (48,7%)<br />

tra gli over65. Inoltre, l’analisi dei risultati ha mostrato l’esistenza di una relazione pressoché stabile tra aumento del<br />

titolo di studio e diffusione di tale percezione: tra chi non possiede titoli di studio o ha una licenza elementare, la<br />

percentuale di quanti si dicono “abbastanza” o “molto” limitati si ferma al 54,5%; al 55,7% si attesta invece il dato di<br />

quanti hanno una licenza media e al 58,7% per i diplomati. Il 63,7% tra i laureati e coloro che hanno frequentato un<br />

master si considera limitato pione, con una significativa incidenza dell’indicazione “molto”(22,8%).<br />

Impegno e sacrifici. Vale la pena? Pronti a definirsi ristretti nei confini di un Paese che li lascia insoddisfatti rispetto<br />

alla possibilità di esprimere la loro libera iniziativa, gli italiani non sembrano tuttavia molto propensi a spendersi in<br />

prima persona per la sorti collettive: la maggioranza del campione (59,6%) si è infatti detto “poco” (42,9%) o “per<br />

niente” (16,7%) stimolata ad impegnarsi per la ripresa del Paese; a fronte di un 38,3% che si è invece definito<br />

“abbastanza” (30%) o “molto” (8,3%) spronato in tal senso. Il quadro cambia, almeno parzialmente, quando si chiede se<br />

valga la pena fare sacrifici per superare l’attuale momento di difficoltà dell’<strong>Italia</strong>: oltre la metà (53,1%) si esprime in<br />

questo caso in senso positivo, giudicando “abbastanza” (41,3%) o “molto” (11,8%) utili i sacrifici richiesti per far fronte<br />

allo scenario di crisi attraversato dal Paese. Occorre comunque segnalare che gli scettici arrivano a circa il 45% (il 32% è<br />

poco d’accordo con l’idea che sia utile fare sacrifici e il 13,1% non lo è per niente). I più convinti dell’utilità dei sacrifici<br />

richiesti risultano gli elettori di centro-sinistra, con il 66,3% delle risposte concentrate sulle opzioni “abbastanza” (40%)<br />

e “molto” (16,7%). Segue il centro-destra, con il 55,7% (molto 10,2% e abbastanza 45,5%); in terza posizione coloro che<br />

si riconoscono nelle forze politiche di centro (53,3%). Tra gli elettori dei partiti più estremi, i più convinti della bontà<br />

delle iniziative assunte per risanare la situazione del Paese appaiono quelli di sinistra (complessivamente 46,7% e il dato<br />

più elevato nella risposta “molto”: 16,7%), in quota leggermente inferiore rispetto a chi ha invece dichiarato di non<br />

sentirsi rappresentato da nessuna forza politica (47,8%). I meno convinti si dimostrano, rispettivamente, coloro che non<br />

hanno saputo indicare un’area politica di appartenenza (45%) e infine gli elettori di destra, che comunque si sono detti<br />

abbastanza o molto convinti dell’utilità dei sacrifici nel 44,9% dei casi.<br />

41


Eppure vivere in <strong>Italia</strong> è ancora considerata una fortuna. A mutare radicalmente il quadro sin qui tracciato sono<br />

soprattutto le risposte fornite alla domanda: “Per lei vivere in <strong>Italia</strong> è una fortuna o una sfortuna?”: nel bilancio degli<br />

aspetti positivi e negativi, evidentemente ritenuti importanti per la propria vita, il 72,4% non ha dubbi: vivere in <strong>Italia</strong> è<br />

una fortuna. Non la pensa invece così il 26% di quanti indicano il vivere in <strong>Italia</strong> come una sfortuna.<br />

Quanti si considerano fortunati si concentrano soprattutto tra la fascia d’età più avanzata: l’85,3% delle persone con 65<br />

anni o più. Sono poi gli appartenenti alla fascia di età intermedia (35-44enni) a ritenersi più frequentemente fortunati<br />

(72,6% dei casi), seguiti dai 45-64enni (71,6%). Tra quanti pensano, invece, che vivere in <strong>Italia</strong> sia una sfortuna, le<br />

percentuali maggiori si concentrano, ancora una volta, tra i 18-24enni (31,3%) e soprattutto tra i 25-34enni (37,3% dei<br />

casi). È tra i residenti nel Nord-Est che si registra il più alto livello di soddisfazione per il fatto di vivere in <strong>Italia</strong><br />

(81,1%), seguiti dai cittadini delle Isole (78,9%) e a maggiore distanza da quelli del Centro (70,1%), del Sud (69,5%) e,<br />

meno di frequente, del Nord-Ovest (64,3%).<br />

Cara mia, non so se ti lascio. Se nell’anno che precede l’avvio della “grande crisi”, il 2006, solo il 37,8% si dichiarava<br />

disponibile a lasciare il proprio Paese, cinque anni più tardi (2011) la percentuale era aumentata di quasi tre punti<br />

(40,6%). Parallelamente, calava però di oltre 10 punti percentuali la quota di coloro che non si sarebbero trasferiti (dal<br />

58% al 47,7%), a vantaggio di quanti non sapevano rispondere o non rispondevano affatto al quesito. Un anno dopo, nel<br />

2012, la situazione si presenta sorprendentemente identica, per quanto concerne la platea delle persone disponibili al<br />

trasferimento, ferme a quota 40,6%; nello stesso periodo è, però, diminuita la percentuale di coloro che non contemplano<br />

la possibilità di trasferirsi in un altro paese (dal 47,7% al 45,2%), e contemporaneamente è cresciuto di ben 2,5 punti il<br />

numero di incerti. Nel complesso, negli ultimi 12 mesi si registra dunque, se non proprio una maggiore disponibilità ad<br />

emigrare, certamente una diminuzione di contrari e un deciso avanzamento dell’area di incertezza.<br />

Cervelli in fuga? All’estero andrebbero soprattutto i giovani per avere maggiori opportunità di lavoro. Il 59,8%<br />

dei più giovani (18-34 anni) si dichiara disponibile a lasciare il Paese, così pure 57,1% tra i 25-34enni. Il dato scende al<br />

di sotto del 50% tra i 35-44enni (45,2%) per poi calare in maniera più decisa tra i 45-64enni (35%) e ancor tra gli over65<br />

(20,5%). Tra l’altro, sulle motivazioni alla base di un ipotetico trasferimento all’estero, non ci sono dubbi: a prevalere<br />

nettamente sono le maggiori opportunità lavorative (22,9%), seguite a molta distanza dalle opportunità più<br />

genericamente intese (14,1%) e dal minore costo della vita (11,8%). La ricerca di maggiore sicurezza spingerebbe invece<br />

il 6% dei cittadini a trasferirsi all’estero, insieme alla curiosità (5,8%), al clima politico migliore (5,7%) e ad una<br />

maggiore libertà di espressione (4,6%). Clima culturale vivace e contatto con la natura sono ciò che invece si<br />

aspetterebbe dalla vita in un altro paese rispettivamente il 3,4% e il 2,6% di quanti lascerebbero il nostro.<br />

Insomma, quasi il 60% dei giovani tra 18 e 24 anni, seguiti a poca distanza dai 25-34enni, si dice disposta, oggi, ad<br />

intraprendere un progetto di vita all’estero, configurando così un bacino di potenziali emigranti, la cui “fuga” segnerebbe<br />

di fatto la perdita delle risorse umane più dinamiche e intraprendenti del Paese, rischiando di far sfumare anche l’ambìto<br />

obiettivo della ripresa italiana. Indagando nel campo dei sentimenti e delle sensazioni individuali, i risultati si prestano<br />

ovviamente a letture plurime, ma la fotografia scattata vede indubbiamente una parte di cittadini in una situazione di<br />

significativa sofferenza. Si tratta della componente più giovane, ed in particolare di quei giovani con titoli di studio<br />

elevati, che appaiono invariabilmente i più delusi e insoddisfatti, soprattutto rispetto alla presente situazione<br />

occupazionale (il 42,3% fino a 24 anni e 35,3% da 25 a 34 anni cercherebbe altrove occasioni di lavoro).<br />

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CAPITOLO 3<br />

GIUSTIZIA/INGIUSTIZIA<br />

LA SOMMA DELLE INGIUSTIZIE<br />

L’ingiustizia redistributiva. Il Novecento è stato il secolo del conflitto tra modelli ideologici basati rispettivamente sul<br />

primato della libertà individuale e su quello della giustizia sociale. Nei paesi democratici si svilupparono sistemi di<br />

compensazione e di limiti alle derive capitalistiche: lo Stato non si limitava a riconoscere libertà economiche<br />

fondamentali ma si impegnava a promuovere la giustizia sociale attraverso strumenti macroeconomici e fiscali di<br />

redistribuzione della ricchezza.<br />

Tuttavia, con la caduta del socialismo reale, non venne più avvertita l’esigenza di garantire equità sociale, e la ricchezza<br />

si ritrovò progressivamente e esponenzialmente concentrata nelle mani di pochissimi. Pochi ricchissimi, molti sempre<br />

più indebitati e Stati ad oggi pressoché insolventi. Della giustizia sociale solo lo spettro.<br />

La mancata redistribuzione del reddito ha comportato un indebitamento sempre maggiore dei ceti medi. Poiché infatti<br />

doveva comunque essere sostenuta la crescita attraverso l’acceleratore della domanda per consumi, questi sono stati<br />

garantiti, non attraverso la redistribuzione dei profitti, bensì attraverso l’indebitamento privato.<br />

La crescita ha generato enormi profitti industriali e finanziari che, tuttavia, non hanno mai raggiunto i lavoratori. Le<br />

famiglie sono state incentivate a mantenere elevata la domanda di consumi, oltre le loro disponibilità reali, attraverso il<br />

ricorso al debito, al fine di garantire la crescita e quindi i profitti di pochi.<br />

Lo Stato, per finanziare le proprie politiche, non è ricorso alla leva fiscale sulle grandi ricchezze ma ha scelto di<br />

indebitarsi: la giustizia sociale, è stata garantita non attraverso la ricchezza prodotta, ma attraverso il debito dello Stato e<br />

delle famiglie.<br />

L’attuale crisi economica, determinata da una cronica ed abusata mancata redistribuzione del reddito, aumenterà<br />

drammaticamente le condizioni di ineguaglianza distributiva e di marginalizzazione, innescando rivolgimenti sociali di<br />

cui allo stato si può solo temere ma non percepire l’esatta dimensione e portata.<br />

L’ingiustizia fiscale .L’<strong>Italia</strong> è il paese dove i più poveri sostengono, non solo percentualmente ma anche in assoluto, il<br />

carico fiscale più elevato. Il gettito fiscale complessivo è, infatti, garantito principalmente dal prelievo sui lavoratori<br />

dipendenti e sui pensionati e da imposte su beni di consumo e servizi di prima necessità.<br />

L’evasione fiscale ha fatto sì che il prelievo tributario si orientasse prevalentemente nei confronti di chi non può evadere<br />

ovvero sui beni di largo consumo e primari ai quali non è possibile rinunciare. I più poveri pagano di più. Ma il prelievo<br />

fiscale non è solo lo strumento per garantire entrate allo Stato, è il principale strumento per la redistribuzione della<br />

ricchezza: prelevando proporzionalmente di più dai più ricchi si garantiscono servizi in condizioni di accessibilità reali ai<br />

più poveri. Garantendo, così, una effettiva giustizia sociale.<br />

L’ingiustizia generazionale. I padri hanno consumato risorse ultra generazionali finendo per ipotecare negativamente il<br />

presente ed il futuro dei figli. E stanno continuando a farlo.<br />

I giovani d’oggi sono costretti a subire le conseguenze negative degli sperperi passati, e non possono affrancarsi da<br />

quegli stessi padri che si prendono cura di loro, consentendo loro di sopravvivere in una società sempre più ostile ed<br />

inaccessibile. Il ventenne che intraprende e termina con successo un percorso di studio, si affaccia timidamente al mondo<br />

del lavoro cercando, e anzi reclamando a buon diritto, il suo spazio: il panorama che gli si offre, però, è del tutto mutato<br />

rispetto a quello delle generazioni precedenti. Anche per il trentenne è ben lontano il momento in cui potrà affrancarsi<br />

del tutto dal padre, e ancora più lontani sono i famosi diritti, dei quali forse egli non godrà mai: la criticità dell’attuale<br />

situazione e l’esigenza di soluzioni immediate impongono l’adozione di scelte sacrificali, anche di lungo periodo, che<br />

ricadono su di lui, allontanando definitivamente quel sogno di stabilità e benessere.<br />

I giovani, sottorappresentati e privi di ogni voce in capitolo, vengono condannati ad un futuro ancora più incerto, in cui<br />

la disoccupazione e la precarietà delle condizioni occupazionali si intrecciano alla necessità di porre le basi per la<br />

ricostruzione del Paese. I giovani dovranno lavorare in condizioni ben peggiori rispetto a quelle nelle quali si sono<br />

trovati i padri, i dissipatori, ma più a lungo, proprio per garantire la sopravvivenza di entrambi.<br />

L’ingiustizia dell’esclusione. L’ingiustizia redistributiva genera impossibilità di accesso ai beni e servizi primari ovvero<br />

divide il Paese tra cittadini di serie A e cittadini di serie B e C. L’ingiustizia fiscale impedisce allo Stato di rimuovere o<br />

mitigare le disparità, non re-distribuisce ricchezza e non consente di garantire l’accesso a soggetti comunque bisognosi.<br />

Le risorse sono scarse per definizione, pertanto si garantisce l’accesso ad un servizio pubblico o ad un bene primario ad<br />

alcuni, i più bisognosi o più meritevoli, e non ad altri: la selezione/esclusione è inevitabile. Il problema riguarda i criteri<br />

e i modi della individuazione dei beneficiari.<br />

Lo Stato si dimostra incapace di selezionare secondo una graduatoria di merito i beneficiari di quell’accesso seppur<br />

minimo, non riesce a discriminare tra bisognosi reali ed apparenti; e dove la meritocrazia non ha spazio, la selezione si<br />

traduce in una inevitabile ingiustizia dell’esclusione.<br />

L’ingiustizia della Giustizia. La Giustizia non è solo il luogo di amministrazione di un servizio pubblico, è il cardine<br />

fondativo della convivenza pacifica e regolata tra consociati e, al tempo stesso, banco di prova della democrazia. In<br />

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<strong>Italia</strong>, l’incertezza temporale e, soprattutto, l’abnorme durata dei procedimenti giudiziari, nega in radice la certezza del<br />

diritto ed è elemento privativo dello Stato di diritto.<br />

La Giustizia insolvente amplifica ed aggrava comportamenti inadempienti e genera un perverso proselitismo di nuove<br />

condotte inadempienti. Purtroppo, la percezione o il vissuto dell’Ingiustizia, determina un incremento del mancato<br />

rispetto della norma. Le buone pratiche attuate dai “giusti” all’interno del perimetro delineato dalle norme, sono sempre<br />

maggiormente derise e frustrate dall’irrispettosa, quando non illecita, intraprendenza dei furbi che, non trovando limite<br />

nella regola concreta fatta rispettare ed attuata dall’ordinamento, vedono premiati quei comportamenti che una volta<br />

avremmo definito antisociali.<br />

Differenze, diseguaglianze, specificità non comprimibili, dovrebbero trovare nell’applicazione concreta del diritto il<br />

momento massimo della affermazione del principio di uguaglianza e di certezza del diritto. Ma ciò non è esigibile<br />

dall’Ingiustizia.<br />

La Giustizia malata rischia il default a fronte della crisi economica (e quindi sociale) sempre più grave, e il drammatico<br />

precipitare delle condizioni di privati ed imprese, sta generando una elevatissima domanda di giustizia: si assiste ad un<br />

aumento esponenziale della necessità di “mediazione” giudiziale dei conflitti, ma a questo bisogno democratico la<br />

Giustizia non è in grado di far fronte.<br />

Le responsabilità e gli abusi individuali si confondono con questa malattia sistemica, facendo della Giustizia, il luogo<br />

dell’irresponsabilità e degli arbitrii.<br />

La crisi economica mondiale e l’aggravante della specificità patologica delle condizioni dell’<strong>Italia</strong> hanno bisogno di una<br />

immediata risposta, che valga a ridare fiducia democratica attraverso la condivisione dei sacrifici e l’assunzione di<br />

responsabilità, e solo seguendo questa strada potrà essere ricomposta la “frattura democratica dell’Ingiustizia”.<br />

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SONDAGGIO SCHEDA 21 | LA FIDUCIA DEI CITTADINI NELLE ISTITUZIONI<br />

Pessimo il giudizio nei confronti delle Istituzioni. Se nella rilevazione dello scorso anno l’<strong>Eurispes</strong> segnalava la forte<br />

sfiducia dei cittadini nei confronti delle Istituzioni, a distanza di un anno il trend resta confermato. Per il 71,6% degli<br />

italiani la fiducia è diminuita, mentre soltanto per il 4,1% è aumentata. Per il 21,6% è invece rimasta invariata. La serie<br />

storica dal 2004 mette in evidenza come il dato del 2012 sia, in assoluto, il più alto sul fronte della sfiducia dei cittadini.<br />

Nonostante un lievissimo incremento nella percentuale dei cittadini che dichiarano di aver maggiore fiducia nelle<br />

Istituzioni rispetto allo scorso anno (+1,9%), l’alto tasso di sfiducia non può che essere interpretato come una vera e<br />

propria presa di distanza nei confronti del sistema istituzionale in generale. L’aumento dei delusi, tra un anno e l’altro,<br />

passa dal 68,5% del 2011 al 71,6% del 2012 e, raffrontato con il 2010 (45,8%) segna un incremento superiore al 26%.<br />

Ad esprimere un senso di sfiducia più forte sono i giovani tra i 25 e i 34 anni (74,6%) e i 45-64enni (72,8%), seguiti<br />

dagli over65 (70,7%). La maggior quota di delusione si concentra nell’area di destra (69,4%) e di sinistra (66,7%),<br />

mentre il dato si abbassa tra chi si sente più vicino all’area di centro-sinistra (62,3%), di centro-destra (60,8%) e di centro<br />

(58,4%). Merita attenzione il dato dell’82,4% dei delusi tra coloro che dichiarano di non riconoscersi in nessuno degli<br />

schieramenti politici (e che rappresentano il 40% del campione totale).<br />

La fiducia nel Presidente della Repubblica tiene, ma con qualche scossone. Sulle principali Istituzioni repubblicane il<br />

giudizio dei cittadini vede un solo protagonista che raccoglie il 62,1% dei consensi: il Presidente della Repubblica. Si<br />

rileva, tuttavia, l’interruzione del trend positivo: un calo di fiducia del 6,1% tra lo scorso anno (68,2%) e quest’anno<br />

(62,1%) e, parallelamente, un aumento di quanti segnalano la propria sfiducia (ne aveva poca o nessuna<br />

complessivamente il 27,6% nel 2011, mentre nel 2012 il dato arriva al 35,5%). Resta da capire se anche il Capo dello<br />

Stato sia entrato nella spirale della sfiducia degli italiani nei confronti dell’intero sistema politico, oppure se il calo della<br />

fiducia sia legato al ruolo da protagonista politico svolto negli ultimi mesi. Certamente ha influito su questo calo la<br />

nascita del Governo Monti, sostenuto anche dall’intervento di Napolitano, e i successivi passi compiuti dal Governo che<br />

hanno imposto ai cittadini pesanti sacrifici. Nelle diverse aree geografiche l’apprezzamento per il Presidente è<br />

sostanzialmente omogeneo (sempre oltre il 60% con picchi del 67% al Nord-Ovest e del 66,9% nelle Isole), con l’unica<br />

eccezione del Nord-Est dove si registra un gradimento del 50,2%. Lo stesso vale per le differenti fasce d’età, per le quali<br />

si segnala solo una flessione nell’accordare la propria fiducia rispetto al dato generale, sempre al di sopra del 60%, tra i<br />

25 e i 34 anni (51,4%). Il Presidente della Repubblica conta sul consenso e sull’apprezzamento degli elettori di sinistra<br />

(83,3%), di centro-sinistra (75,5%) e del centro (68,9%). D’altra parte i sostenitori di centro-destra pur rappresentando<br />

una quota pari al 59,6%, sono diminuiti drasticamente rispetto allo scorso anno, quando arrivavano addirittura al 71% (-<br />

11,4). In calo quest’anno anche il sostegno degli elettori di destra con il 40,8% dei consensi; quest’ultimo dato non è<br />

soltanto lontano dalla media (62,1%) e dalla percentuale di coloro i quali dichiarano di non riconoscersi in nessuna area<br />

politica (55,5%), ma è anche inferiore di oltre 20 punti rispetto alla rilevazione dell’anno scorso (61,7%).<br />

Nuovo Governo, ma il trend non si inverte. Il passaggio dal Governo politico di Berlusconi al Governo tecnico di<br />

Monti non sembra aver contribuito ad aumentare la fiducia in questa Istituzione. Nonostante un certo favore<br />

dell’opinione pubblica nei confronti del Governo tecnico, i primi provvedimenti in materia economica, come la riforma<br />

delle pensioni e l’aumento delle tasse, hanno di certo avuto ripercussioni forti sul senso di sfiducia dei cittadini. Solo il<br />

21,1% si dichiara fiducioso, il 76,4% mostra di avere poca o nessuna fiducia e il 2,5% non sa esprimere un giudizio o<br />

non risponde. Il 21,1% che si esprime positivamente supera di 6 punti percentuali il dato al 14,6% segnato nel 2011 dal<br />

precedente governo. In estrema sintesi, l’“effetto Monti” vale al momento solo il 6% in più nella fiducia degli italiani,<br />

mentre si riduce dall’84,2% del 2011 al 76,4% del 2012 la percentuale di quanti assumono un atteggiamento pessimista.<br />

Il dissenso attraversa con poche variazioni tutte le fasce d’età, con una punta in quella tra i 25 e i 34 anni: tra coloro che<br />

hanno poca (50,3%) e nessuna fiducia (32,8%), si arriva a quota 83,1%. La sfiducia infine si fa sentire in tutte le aree<br />

geografiche del Paese (con una media di circa il 76% di delusi), ma con un picco registrato nelle Isole (83,1%). Cala<br />

drasticamente la percentuale degli elettori di destra che mostrano fiducia nel Governo: ne ha poca o nessuna il 79,6%,<br />

mentre lo scorso anno era pari a al 57%. I cittadini rappresentati dall’area di centro-sinistra sono i più fiduciosi (33,2%).<br />

Il Parlamento occupa il gradino più basso nella classifica di considerazione degli italiani. Solo il 9,5% vi ripone<br />

molta o abbastanza fiducia. Confrontando i dati con quelli relativi agli anni precedenti, si passa dal 26,9% del 2010 al<br />

15% del 2011, sino all’attuale 9,5%, che rappresenta in assoluto il punto più basso dal 2004 (36,5%) ad oggi.<br />

Magistratura: tra problemi strutturali del sistema-giustizia e tensioni interne. Il livello di fiducia nella Magistratura<br />

tocca quest’anno il 36,8%, ben 17 punti percentuali in meno rispetto alla precedente rilevazione (53,9%). Si tratta del<br />

dato più basso registrato dopo il 38,6% del 2006. Considerando la serie storica, il 2012 segna una rottura rispetto al trend<br />

nel complesso positivo, anche se altalenante, dal 2004 (52,4%) al 2011 (53,9%). I fattori che hanno influito su questo<br />

orientamento possono essere molteplici: il mal funzionamento della giustizia italiana, i processi infiniti, l’inadeguatezza<br />

delle leggi, l’imparzialità dei magistrati, sono problemi ampiamente dibattuti e oggetto di numerose e sempre più accese<br />

critiche. Accanto ai nodi storici e mai risolti, nel corso del 2011 se ne sono sviluppati, poi, di nuovi e, per certi versi, più<br />

complessi. La tensione tra politica e Magistratura ha toccato lo scorso anno picchi rilevabili soltanto nel biennio 1992-<br />

1994. Le indagini che hanno visto il coinvolgimento di alcuni magistrati hanno avuto un’eco importante nell’opinione<br />

pubblica. Gli scontri aperti tra alcune procure in ordine ad importanti inchieste giudiziarie e, non ultimo, alcuni eclatanti<br />

casi di cronaca giudiziaria hanno alimentato il senso di sfiducia nei confronti della Magistratura. Maggiore sfiducia viene<br />

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espressa dagli uomini (62,8%) rispetto alle donne (58,4%). In termini anagrafici sono più sfiduciati gli appartenenti alla<br />

fascia degli ultra 65enni (70,8%), nella fascia d’età tra i 18 e i 24 anni esprime poca o nessuna fiducia il 56,2%, in quella<br />

tra 25 e 34 anni il 60,5%, in quella tra i 35 e i 44 anni il 59,6%, mentre in quella tra i 45 e 64 anni si attesta al 56,9%. Per<br />

quanto riguarda invece il livello culturale degli intervistati si può constatare una omogeneità delle risposte, rilevando una<br />

crescita della fiducia con il crescere del titolo di studio: i laureati arrivano al 45,2%. Il versante dell’appartenenza politica<br />

mostra una notevole spaccatura tra centro-sinistra e centro-destra. Gli appartenenti all’area di sinistra (63,4%) e di<br />

centro-sinistra (56,5%) esprimono il più alto livello di fiducia; coloro che si dichiarano di centro arrivano soltanto al<br />

37,7%, mentre il livello espresso dagli intervistati di centro-destra scende al 27,8% e al 24,4% per quelli di destra.<br />

Forze dell’ordine: le più amate. Tra le Istituzioni, quelle più apprezzate e sulle quali si ripone un’ampia fiducia vi sono<br />

le Forze dell’ordine. Carabinieri, Polizia di Stato, Guardia di Finanza che raggiungono sempre, in tutte le rilevazioni<br />

annuali, quote di consenso molto ampie. Al primo posto – si potrebbe dire come tradizione – figura l’Arma dei<br />

Carabinieri con un livello di consenso pari al 75,8%, seguito dalla Polizia di Stato con il 71,7% e dalla Guardia di<br />

Finanza con il 63,3%. Un trend di crescita costante negli anni, che è passato per i Carabinieri dal 57,4% del 2008 al<br />

75,8% di quest’anno. Lo stesso vale per la fiducia nella Polizia di Stato, passata dal 50,7% del 2008 al 71,7% del 2012.<br />

Un lieve calo accusa la Guardia di Finanza che passa dal 64,1% del 2011 all’attuale 63,3%, ma che comunque rispetto al<br />

2008 (46,3%) mantiene un trend decisamente positivo.<br />

Carabinieri. Sono gli uomini con il 76,3%, ad esprimere maggior fiducia nell’Arma (34% molta fiducia, 42,3%<br />

abbastanza fiducia) rispetto alle donne (75,1% , di cui 27,3% molta e 47,8% abbastanza). Si tratta di un consenso diffuso<br />

soprattutto tra coloro che hanno tra 45 e 64 anni (79,6%), gli ultra 65enni (77,5%) e coloro che hanno tra i 35 e i 44 anni<br />

(80,4%). I più giovani (18-24 anni), esprimono il dato più basso: il 25% ha molta fiducia, mentre il 37,5% ha abbastanza<br />

fiducia per un totale del 62,5%. Questa fascia d’età ha uno scarto positivo più significativo nella fiducia nei Carabinieri<br />

rispetto ai dati dell’anno scorso. La geografia del consenso si esprime al suo massimo nel Nord-Ovest con l’82%, e nelle<br />

Isole con l’81%, seguite dal Centro con il 77,3%, dal Nord-Est con il 71,2% e infine dal Sud con il 70,8%. Scorporando<br />

il dato per area politica di appartenenza, il massimo di fiducia viene espresso da coloro che si dichiarano di centro:<br />

cumulando le percentuali che esprimono molta (33,8%) e abbastanza fiducia (55,8%), si arriva all’89,6%. Seguono gli<br />

appartenenti al centro-sinistra (85,1%), gli elettori di destra (67,4%) e di sinistra (66,7%); mentre i cittadini che si<br />

collocano nel centro-destra si definiscono fiduciosi per un 53,5%. Importante infine il dato pari al 69%, registrato tra<br />

coloro che non si riconoscono in alcuna area politica.<br />

Polizia di Stato. Nel caso della Polizia di Stato sono le donne (72,9%) ad indicare complessivamente una maggiore<br />

fiducia rispetto agli uomini (70,6%). Maggiore fiducia si concentra nella fascia d’età dei 35-44 anni (77,4%), in quella<br />

tra i 45 e i 64 anni si registra il 75,9%, tra i 25 e i 34 anni si riscontra il 68,3%, gli over 65 raggiungono il 66,9%, mentre<br />

tra i 18 e i 24 anni il dato è pari al 64,3%.Per quanto riguarda l’area geografica si registra il più alto livello di fiducia<br />

nelle Isole 80,2%, segue il Sud con il 72,8%, il Centro con il 72,1% e il Nord-Ovest con il 70%. La percentuale di fiducia<br />

più bassa si registra nel Nord-Est, con il 66,1% di chi esprime molta o abbastanza fiducia. Colpisce soprattutto il dato<br />

espresso dall’area di sinistra (molta fiducia per il 16,7% e abbastanza fiducia per il 44,4%, per un complessivo 61,1%),<br />

valore inferiore rispetto all’area di centro-sinistra (80,6%) e di centro-destra (80,1%), mentre il centro si colloca al<br />

79,2%, la destra al 73,5% e chi non si colloca politicamente ha fiducia nella polizia per il 64,7%.<br />

Guardia di Finanza. Anche per la Guardia di Finanza si osserva una prevalenza delle donne nell’espressione del grado<br />

di fiducia (64,6%) rispetto agli uomini (62,3%), mentre i dati per fasce di età sono sostanzialmente omogenei fatta<br />

eccezione per gli over65, unico caso nel quale il dato scende sotto il 60% (56,6%). Anche rispetto all’area geografica si<br />

registra un picco massimo al Nord-Ovest (41%) e Nord-Est (46,4%). Si rileva infine una certa concentrazione del livello<br />

di fiducia nell’area di centro-sinistra (76%) e nel centro-destra (69,3%). Il livello più basso si colloca invece a sinistra<br />

con il 55,5% e risale poi al centro con il 61,1% e a destra con il 61,2%. Tra le tre Forze di polizia, il livello di fiducia<br />

espresso nei confronti della Guardia di Finanza si dispiega in modo uniforme e trasversale e racconta di una progressiva,<br />

graduale e compatta collocazione positiva nell’immaginario degli italiani.<br />

Forze armate, Servizi segreti e Corpo forestale dello Stato. Le Forze Armate costituiscono uno dei pilastri su cui si<br />

basa la nostra sicurezza interna ed esterna. Il ruolo sempre più importante che le nostre Forze armate hanno assunto,<br />

negli anni, nel contesto internazionale, con la presenza in numerose missioni umanitarie e di peacekeeping, hanno<br />

contribuito a collocare i militari in una posizione privilegiata presso l’opinione pubblica. Il livello di fiducia nelle Forze<br />

Armate si attesta al 67,8%, mentre nutre poca o nessuna fiducia il 31,1% degli intervistati. Grande consenso soprattutto<br />

presso i giovanissimi tra i 18 e i 24 anni (33% molta fiducia e 42% abbastanza fiducia) che posiziona le Forze Armate<br />

come la prima Istituzione quanto a fiducia riscossa tra i giovani. Ottimi risultati ottiene il Corpo Forestale dello Stato<br />

che con il 68,1% dei consensi cresce rispetto allo scorso anno (64,6%) e si inserisce allo stesso livello delle altre Forze di<br />

polizia. La fiducia espressa nei confronti del Corpo Forestale premia l’impegno in favore della difesa dell’ambiente e del<br />

territorio, e segnala, nel contempo, una sempre più marcata sensibilità degli italiani verso i temi della qualità della vita e<br />

della tutela dell’habitat naturale. I Servizi segreti compiono quest’anno un balzo in avanti, raccogliendo la fiducia del<br />

40,6% dei cittadini e segnando un aumento di ben 10 punti percentuali rispetto al 30,5% del 2011. A questo dato<br />

corrisponde evidentemente un livello di non o scarsa fiducia pari al 57,3%, a conferma del fatto che la storia recente del<br />

nostro Paese non ha reso giustizia al ruolo svolto silenziosamente dai nostri servizi di sicurezza.<br />

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La Chiesa torna a crescere, insieme alla scuola. Sempre peggio per associazioni degli imprenditori, la PA,<br />

sindacati e partiti. La Chiesa cattolica torna ai livelli del 2010 dopo il calo dello scorso anno (40,2%), attestandosi al<br />

47,3%. Parallelamente, le altre confessioni religiose segnalano una lieve crescita rispetto al dato 2011 (22%) passando<br />

al 22,7% nel 2012. Lieve flessione anche per le associazioni di volontariato, che godono, comunque, di un consenso<br />

altissimo: 71,3% nel 2009, balzato all’82,1% nel 2010, diminuito nel 2011 al 79,9% e attestatosi oggi al 77,4%. Le<br />

associazioni dei consumatori conquistano un buon risultato raccogliendo il 52,1%, ma con un calo rispetto al 55% dello<br />

scorso anno. In calo le associazioni degli imprenditori, che erano passate dal 21% del 2009 al 35,7% del 2010,<br />

scendendo ancora al 28,6% nel 2011 e arrivando quest’anno al 20,9%. Soffre anche la Pubblica amministrazione, che<br />

passa dal 19,5% al 17%. I sindacati, calano ancora arrivando al 17,2% dei consensi (21,3% nella scorsa rilevazione). Un<br />

discorso a parte meriterebbero i partiti politici, che declinano progressivamente e inesorabilmente nella fiducia degli<br />

italiani: si passa dal 12,8% del 2009 al 12,1% del 2010 e si assiste infine al crollo, segnalato nel 2011 al 7,1% e<br />

quest’anno al 6,8 Cresce infine la fiducia nella scuola che nel 2011 raccoglieva il 43,7% e quest’anno arriva al picco<br />

(nelle rilevazioni dal 2009 ad oggi) del 48,9%.<br />

Governo Monti: scetticismo sul versante economico, maggiore fiducia nell’aumento di credibilità nel contesto<br />

internazionale. Lo scetticismo sembra prevalere, rispetto alla fiducia nella capacità dell’attuale Governo di rilanciare la<br />

nostra economia, mentre un cauto ottimismo si manifesta nella capacità di tenere alta l’immagine dell’<strong>Italia</strong> nel contesto<br />

internazionale (48,2%). Il 40,6% ha fiducia (molta 8,6%, abbastanza 32%) nella possibilità di risanare i conti; il 30,8%<br />

punta sulla capacità del Governo di garantire unità e coesione al Paese e il 29,5% è fiducioso in un nuovo impulso<br />

all’economia. Solamente il 17% crede che il Governo riuscirà a far crescere l’occupazione. Emblematico è il 67,2% delle<br />

risposte che indica mancanza o poca fiducia nel Governo nel dare nuovo impulso all’economia. In merito alla durata del<br />

Governo e alle polemiche tra le forze politiche su questo argomento, ecco l’opinione degli italiani: il 35,9% indica il<br />

termine del Governo alla fine della legislatura; il 26,6% afferma che l’esecutivo deve durare sino a quando non avrà<br />

raggiunto gli obiettivi per cui è stato formato; il 5,4% auspica la durata più lunga possibile, mentre il 21,2% vuole lo<br />

scioglimento quanto prima per consentire le elezioni. Il 10,9% non sa o preferisce non fornire alcuna risposta. La quota<br />

maggiore di quanti auspicano una durata del Governo sino al termine della legislatura si concentra tra le aree di centro<br />

(48,1%), di centro-destra (44,9%) e di centro-sinistra (44,6%), segue la sinistra (41,1%), ma il vero crollo si registra a<br />

destra (22,4%) e tra chi afferma di non riconoscersi in nessuno degli schieramenti politici (28,7%). La quota di cittadini<br />

che vogliono che il Governo si dimetta quanto prima, per consentire le elezioni, è prevalente a destra (40,8%). Resta alta<br />

la percentuale, anche tra i cittadini che non si sentono rappresentanti da nessuna area politica (24,9%).<br />

Il giudizio sulla manovra “Salva <strong>Italia</strong>”. Soltanto per il 7,2% dei cittadini la manovra è stata equa. Il 45,9% crede che<br />

la manovra sia stata dura solo con i ceti più deboli e il 38,6% afferma che la manovra ha penalizzato i ceti medi,<br />

privilegiando le classi abbienti. In molti affermano che il Governo Monti sia espressione delle banche, l’opinione degli<br />

italiani è che questo corrisponda al vero nel 58,3% dei casi (30,8% abbastanza; 27,5% molto), non la pensa così il 26,6%<br />

(18,9% poco; 7,7 per niente) e una buona parte non ha saputo esprimere un giudizio (14,5). Da alcuni settori della<br />

politica, dei media e dell’opinione pubblica è stato sottolineato come l’attuale governo rappresenti una sospensione della<br />

democrazia: per la maggior parte dei cittadini italiani (46,5%) questa affermazione non è condivisibile, il 29,8% invece<br />

condivide questa opinione, mentre sono in molti (23,7%) a non saper dare un’indicazione precisa o a non voler fornire<br />

una risposta in proposito. La tesi della sospensione della democrazia è condivisa soprattutto da coloro che si dichiarano<br />

di centro-destra (40,9%) e di destra (42,9%). Per i cittadini, due sono le cause maggiori che hanno portato alle attuali<br />

difficoltà del Paese: l’incapacità della classe politica (52,9%) e della classe dirigente in generale (30,8%), segue a<br />

distanza l’impossibilità di governare una crisi di dimensioni internazionali (8%) e l’inadeguatezza e la forte<br />

burocratizzazione della Pubblica amministrazione (2,3%). Il fallimento del modello capitalistico, le previsioni errate<br />

degli economisti e l’inadeguatezza dei sindacanti vengono indicati in percentuali minime (1,5%, 0,5% e<br />

0,3%).L’osservazione per aree geografiche mostra la maggiore concentrazione di risposte che attribuiscono le cause della<br />

crisi all’inadeguatezza della classe politica al Sud (41,5%), mentre l’incapacità della classe dirigente generale segna la<br />

percentuale maggiore nel Nord-Ovest (34,9%).<br />

La partecipazione e la questione irrisolta della legge elettorale. Nell’indagine annuale, l’<strong>Eurispes</strong> ha cercato di riflettere<br />

sulla partecipazione elettorale della popolazione. Se, infatti, nel 2003, l’82,7% dei cittadini dichiarava di recarsi ai seggi<br />

sempre, nel 2008 solo il 77,1% dichiara di fare altrettanto, una percentuale lievemente aumentata nel 2011 (79,1%) e ancora di<br />

più quest’anno, tornato ai livelli del 2004 (84,1%). Rispetto al passato, inoltre, diminuisce la percentuale degli astensionisti<br />

convinti, di chi ammette cioè di non votare mai (2,5% nel 2004, l’1,2% nel 2012), diminuisce inoltre rispetto all’anno scorso la<br />

quota di chi sostiene di farlo solo qualche volta (dal 15% all’11,7%). Il 9,4% dichiara già con certezza che non andrà a votare<br />

alle prossime elezioni e il 18,3% si dichiara indeciso a riguardo. Solamente il 72,1% afferma di avere intenzione di farlo. Per<br />

quanto riguarda il sistema delle preferenze, l’orientamento generale dell’opinione pubblica è quello della reintroduzione<br />

dell’espressione diretta di voto al proprio candidato. Nel 2010, infatti, l’83,1% del campione si dichiara favorevole a questa<br />

possibilità, e nel 2011, pur calando lievemente, la percentuale delle risposte affermative si assesta sull’80%. Nel 2012 la<br />

percentuale scende ancora al, pur sempre alto, 78,2%. A calare, rispetto all’anno scorso, sono coloro che si sono dichiarati<br />

contrari a questa eventualità, passati dal al 7,3% al 5,6%, mentre aumenta la quota di persone che non ha una posizione chiara<br />

in merito (dal 12,7% al 16,2%) e che, forse, sfiduciata dal clima politico attuale, non crede possa bastare introdurre le<br />

preferenze per risanare la situazione.<br />

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SCHEDA 22 | QUELL’ESIGENZA DI GIUSTIZIA GIUSTA<br />

Non solo Tortora: i detenuti “ignoti”. Sono 9 milioni i processi pendenti fra civile e penale e il 90-95% dei reati restano<br />

impuniti per incapacità di individuarne gli autori. In questo quadro, gli errori giudiziari sono soltanto un aspetto della crisi della<br />

Giustizia italiana, che è divenuta una grande e irrisolta questione sociale. La spesa dello Stato dal 2003 al 2010 a titolo di<br />

riparazione per ingiusta detenzione, a causa di errore giudiziario, ammonta a circa 323 milioni di euro. In otto anni si è passati<br />

dai circa 45 milioni di euro pagati nel 2003 ai circa 36,5 milioni di euro del 2010. Il picco nei pagamenti dello Stato a cittadini<br />

che erano stati vittime di ingiusta detenzione a causa di un errore giudiziario si è registrato nel 2004 (oltre 55 milioni di euro).<br />

Intorno al 10% è la quota di risarcimenti nei confronti di cittadini stranieri (Ministero dell’Economia e delle Finanze).<br />

L’irragionevole durata del processo: il ritardo nel ritardo. Ogni giorno, per effetto della “legge Pinto” (n. 89 del 2001),<br />

lo Stato indennizza i cittadini per l’eccessiva durata dei processi. Il provvedimento del 2001 fu introdotto per tentare di<br />

limitare il numero di ricorsi che i cittadini italiani indirizzavano alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, ma, a<br />

dieci anni dalla sua prima applicazione, non ha determinato un miglioramento delle condizioni in cui versa la nostra<br />

giustizia, non essendo riuscito ad accelerare la durata dei procedimenti. Attraverso questo farraginoso meccanismo,<br />

inoltre, il cittadino subisce una doppia violazione: è stato leso il diritto ad avere un processo di durata ragionevole e,<br />

nonostante la giusta intenzione di risarcimento per il danno subìto, viene perpetrata una seconda violazione, che impedisce<br />

al ricorrente di disporre dell’indennizzo in tempi ragionevoli. Si crea insomma una condizione paradossale: il ritardo nel<br />

ritardo. Dall’entrata in vigore della legge Pinto sono stati promossi, dinanzi alle Corti d’appello, quasi 40.000 procedimenti<br />

camerali per l’equa riparazione dei danni derivanti dall’irragionevole durata del processo, con costi enormi per le finanze<br />

dello Stato. Il Ministero della Giustizia ha pagato, fino al 2009, 150 milioni di euro di risarcimento per legge Pinto ed ha un<br />

debito ancora esistente, fino al 2008, di 86 milioni di euro. La spesa dello Stato dal 2003 al 2010, a titolo di risarcimento per<br />

il danno subìto a seguito dell’eccessiva durata dei processi, ammonta a circa 111 milioni di euro. Nel corso di questi otto<br />

anni si è passati dai circa 5 milioni di euro pagati nel 2003 ai circa 16,5 milioni di euro del 2010. Il picco nei pagamenti<br />

dello Stato a cittadini che avevano subìto un processo troppo lungo si è registrata nel 2008 (circa 25 milioni di euro). Al 31<br />

dicembre 2009 il debito dello Stato risultava pari a 267 milioni ed erano 11.343 i procedimenti pendenti per la legge-Pinto.<br />

La Commissione Tecnica per la Finanza Pubblica (Ctfp), istituita nella Finanziaria del 2007, per la valutazione della spesa<br />

pubblica (spending review), nella Revisione della spesa pubblica. <strong>Rapporto</strong> 2008 aveva sottolineato come «(…) a tali<br />

somme vadano aggiunte le ulteriori spese che non hanno trovato copertura nelle dotazioni di bilancio e che, non potendo<br />

essere pagate, vanno ad alimentare il debito sommerso. Tali importi risultano ad oggi di difficile quantificazione». Sempre<br />

la Ctfp segnalava un considerevole potenziale di crescita per questa voce di spesa, ricordando che «ipotizzando un<br />

risarcimento medio anche di 4.000 euro a testa ed un rimborso delle spese di difesa limitato a 1.000 euro, le sole cause<br />

introdotte in un anno potrebbero determinare una spesa di 500 milioni di euro». L’evidenza della crisi della giustizia italiana<br />

è data anche da un dato che riguarda il fabbisogno economico per i risarcimenti delle Corti d’appello italiane e che è pari a<br />

60.473.471,72 euro per l’anno 2009, mentre le risorse messe a disposizione dal bilancio dello Stato sono pari soltanto a<br />

13.618.237,00 euro. Ormai i ricorsi presentati dalle vittime della “giustizia lumaca” hanno toccato il numero di 37.393<br />

procedimenti arretrati, con riferimento al primo semestre del 2009 e con un aumento del 43,1% rispetto al medesimo<br />

periodo del 2008 quando ne risultavano giacenti 26.132, e di 18.033 per quanto riguarda i procedimenti sopravvenuti. Tra<br />

il primo semestre 2008 e il primo semestre 2009 l’aumento dei ricorsi sopravvenuti ha punte elevatissime a Trieste<br />

(+521%), Cagliari (+217,4%) e Genova (+156%). Nello stesso periodo le Corti d’appello di Napoli (-11,2%), Venezia (-<br />

20%), Caltanissetta (-29%) e Brescia (-45,6%) hanno registrato un calo dei ricorsi. A primeggiare nella classifica dei ricorsi<br />

sopravvenuti nel primo semestre 2009 è Roma con 5.556 domande ricevute, seguita da Napoli con 3.417 ricorsi ex legge<br />

Pinto. Il numero più basso di ricorsi si registra presso la Corte d’appello di Brescia con soltanto 49 casi. Da segnalare la<br />

Corte d’appello di Milano che nei primi sei mesi del 2009 registrava 167 ricorsi di indennizzo per la non ragionevole durata<br />

del processo (Ministero della Giustizia). Una diminuzione seppur modesta del considerevole numero di cause “a rischio<br />

risarcimento”, potrebbe portare al risparmio di diversi milioni di euro e ridurrebbe senz’altro l’esposizione debitoria<br />

potenziale. Numerose sono le proposte legislative in materia di riforma della legge Pinto, ma ad oggi nessun disegno di<br />

legge è riuscito ad essere approvato dal Parlamento.<br />

La Corte europea dei diritti umani. Recentemente la Corte di Strasburgo ha fornito i dati del numero di violazioni dal<br />

1950 al 2010. L’<strong>Italia</strong> è seconda soltanto alla Turchia con 2.121 violazioni nelle condanne inflitte dalla Corte Europea nei<br />

suoi diversi ambiti di giurisdizione. In particolare, le condanne inflitte all’<strong>Italia</strong> in base all’art.6 sono 1.382, di cui 238 per il<br />

diritto ad un equo processo, 1.139 per la non ragionevole durata del processo e 5 per la mancata assistenza legale che ha<br />

reso inefficace il ricorso. La durata del processo costituisce il vero record italiano in tema di condanne ricevute dalla Corte<br />

di Strasburgo: dal 1959 al 2010 circa un quarto delle condanne per la durata del processo sono state inflitte all’<strong>Italia</strong>. Le<br />

nostre 1.139 condanne sono seguite da lontano dalla Turchia (699) e dalla Russia (530); il confronto con la Germania (83) e<br />

la Francia (279) rendono visibile la grave crisi del nostro sistema giustizia. Le violazioni accertate dalla Corte Europea dei<br />

Diritti Umani per violazione dell’articolo 6, dal 2004 al 2010 ammontano a 241. Di queste, 82 per violazione del diritto ad<br />

un equo processo e 159 per violazione del diritto ad un equo processo sotto il profilo della ragionevole durata del<br />

procedimento. Nel 2007 si è registrato il picco delle condanne (57), con 51 violazioni per non ragionevole lunghezza del<br />

procedimento giudiziario. Il 2005 è stato l’anno con minori sentenze di condanna da parte della Corte di Strasburgo nei<br />

confronti dell’<strong>Italia</strong>.<br />

48


SCHEDA 23 | I COSTI DELLA GIUSTIZIA: L’ECCESSIVA LENTEZZA DEI PROCESSI CIVILI DANNEGGIA IL SISTEMA PAESE<br />

1 punto di Pil perso per la lentezza del procedimento civile. L’ex-Governatore della Banca d’<strong>Italia</strong>, Mario Draghi, ha<br />

segnalato come la perdita annua di Pil, attribuibile ai difetti della nostra giustizia civile, potrebbe valere un punto<br />

percentuale, ossia poco meno di 15,5 miliardi di euro nell’anno 2010.<br />

Sistemi a confronto: Francia, Spagna e <strong>Italia</strong>. I dati raccolti dalla Commissione Europea per l’Efficienza della<br />

Giustizia (CEPEJ) permettono di tentare una comparazione tra i sistemi di Francia, <strong>Italia</strong> e Spagna (relativamente simili<br />

per popolazione, Pil e ordinamento giuridico). La spesa complessiva per garantire l’esecuzione di un procedimento<br />

giudiziario nel 2008 è stata pari a 3,3 miliardi di euro per la Francia, 4,18 miliardi di euro per l’<strong>Italia</strong>, 3,9 miliardi di euro<br />

per la Spagna. La voce più importante in tutti paesi considerati è quella relativa ai salari (lordi) che da soli arrivano<br />

rispettivamente a oltre 1,8 miliardi per la Francia, quasi 2,4 miliardi per l’<strong>Italia</strong> e oltre 2,4 miliardi per la Spagna. Resta<br />

comunque il fatto che senza un sistema collaudato di contabilità analitica che consenta di imputare ragionevolmente i<br />

costi diretti ed i costi comuni, quantomeno ad ogni distretto giudiziario (o, meglio ancora, a livello di tribunale), e di<br />

effettuare questo esercizio in ogni paese considerato, le comparazioni di costo tra paesi non sembrano avere un elevato<br />

valore informativo. Tuttavia, si possono effettuare alcune comparazioni quantomeno interessanti.<br />

Nel 2008 il sistema giuridico francese e quello spagnolo hanno “concluso” circa 2,1 milioni di procedimenti ciascuno,<br />

quello italiano ben 4,4 milioni; inoltre, dai casi sopravvenuti, ossia i nuovi casi presi in carico dai sistemi giudiziari,<br />

emerge che il sistema italiano ha registrato circa 4,6 milioni di nuovi casi, contro i 2,2 milioni della Francia ed i 2,6<br />

milioni della Spagna.<br />

È quindi evidente come, anche solo in termini di numerosità di casi, i sistemi giudiziari francese e spagnolo si trovino a<br />

dover affrontare annualmente carichi di nuovo lavoro ben inferiori al nostro, un’anomalia invero tutta italiana. Si<br />

consideri, ad esempio, che i giudici di pace hanno visto aumentare incredibilmente il numero di nuove (sopravvenute)<br />

“opposizioni a sanzioni amministrative” presentate ogni anno tra il 2006 ed il 2009: 756mila nuovi procedimenti nel<br />

2006, 859mila nel 2007, 961mila nel 2008 ed infine 992mila nel 2009; si noti che questo non è il numero di opposizioni<br />

cumulato, ma è il numero di “nuove” procedure iscritte in ciascun anno indicato.<br />

Gli indici di rotazione di Francia ed <strong>Italia</strong> siano molto prossimi, rispettivamente 0,96 e 0,97: in altre parole sia il sistema<br />

giudiziario francese che quello italiano, nel 2008, hanno “concluso” un numero di procedimenti pregressi molto<br />

prossimo al numero di nuovi procedimenti iscritti nello stesso anno. Poiché, però, l’indice di rotazione non è pari ad 1,<br />

ciò implica che nel 2008 entrambi i sistemi hanno accumulato un numero di cause inevase che dovranno essere evase<br />

negli anni successivi. Questa, seppur contenuta, incapacità di recuperare il pregresso ha contributo alla formazione di un<br />

considerevole numero di procedimenti civili pendenti in Francia (1,5 milioni di procedimenti), che tuttavia è ben<br />

inferiore ai 4,8 milioni di procedimenti civili pendenti registrati in <strong>Italia</strong> al 31 dicembre 2008.<br />

In media 3 anni in Tribunale, 3 anni in Corte d’appello e ora quasi 2 anni dal Giudice di pace. I dati del Ministero<br />

della Giustizia mettono in evidenza come la durata media effettiva di un procedimento civile per le materie definibili con<br />

sentenza in Corte di appello è pari a 1.056 giorni (poco meno di 3 anni) nel 2006 e a 1.197 giorni nel 2008, con un<br />

incremento della durata media del 13,4% tra il 2006 ed il 2008. Valori pressoché identici si registrano per i procedimenti<br />

nei Tribunali ordinari, anche il dato ha subito negli anni considerati una contrazione dell’1,20%: 1.121 nel 2006 e 1.108<br />

nel 2008.Presso il giudice di pace, la durata media effettiva dei procedimenti era pari a 463 giorni nel 2006 ed a 533<br />

giorni nel 2008, con un incremento della durata media del 15,10%.<br />

49


Scheda 24 | Avvocati “detrattori”?<br />

La conciliazione nel diritto del lavoro e il “giusto processo”. Diverse forme di “giustizia alternativa” sono da sempre<br />

presenti nel nostro Paese. Tuttavia, l’innovazione di più grande eco è stata l’introduzione del tentativo di conciliazione in sede<br />

pregiudiziale per le controversie di lavoro con il D. Lgs. n. 80 del 31 marzo 1998. Un altro passo verso lo snellimento del<br />

sistema giustizia è stato mosso l’anno successivo dall’<strong>Italia</strong> con la cosiddetta riforma del “Giusto processo”. Ottenere una<br />

durata ragionevole del processo non significa non perseguire la ricerca di una verità o non dare il giusto spazio al diritto di<br />

difesa; significa rispettare più attentamente quelle disposizioni che tendono a semplificare e ad alleggerire tutto l’iter, in quanto<br />

la cronica lentezza del sistema giustizia è dovuta, più che alla disciplina legale del processo in sé, alla insufficienza di strutture<br />

e ai difetti di gestione.<br />

Il decreto legislativo n. 28/2010. L’introduzione nel sistema processuale italiano dell’istituto della mediazione ha avuto<br />

ufficialmente inizio con la legge n. 69 del 18 giugno 2009, recante “Delega al Governo in materia di mediazione e<br />

conciliazione delle controversie civili e commerciali”, per la cui attuazione è stato emanato il D. Lgs. n. 28 del 5 marzo 2010,<br />

cui sono seguiti il Dm n.180 del 18 ottobre 2010 e il Dm n.145 del 6 luglio 2011, che ha dato piena attuazione alla norma,<br />

introducendo, a decorrere dal 20 marzo 2011, il procedimento di mediazione obbligatoria, con l’obbligo di esperire, a pena di<br />

improcedibilità, la mediazione, prima di dare corso all’azione giudiziaria, per le liti che vertono sulle materie indicate dall’art.<br />

5 del decreto: diritti reali, divisione, successione ereditaria, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende,<br />

risarcimento del danno derivante da responsabilità medica o da diffamazione o con altro mezzo di pubblicità, contratti<br />

assicurativi, bancari, e finanziari; dal 20 marzo 2012 anche per le controversie condominiali e per quelle relative al<br />

risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti. La novità apportata dal D. Lgs. 28/2010 riguarda<br />

innanzitutto l’assurgere dell’esperimento della mediazione a condizione di procedibilità per presentare un’eventuale successiva<br />

domanda giudiziale nelle materie oggetto del decreto. La mediazione è gestita da un organismo, pubblico o privato, in possesso<br />

di un’apposita abilitazione, mediante l’iscrizione in un registro tenuto presso il Ministero della Giustizia. Non intercorre tra il<br />

mediatore e le parti alcun rapporto di natura contrattuale, che invece intercorre da un lato tra le parti e l’organismo di<br />

mediazione, dall’altro tra l’organismo di mediazione e il mediatore.<br />

Aspetti critici e controversi del D. Lgs. n. 28/2010. Non mancano punti critici su cui si vivono disaccordi e conseguenti<br />

tensioni. Tra gli aspetti più “controversi” la previsione dell’obbligatorietà del procedimento di mediazione da un lato e la non<br />

previsione dell’obbligatorietà della presenza di un legale dall’altro. Tra gli altri aspetti risultati poco graditi rientra la non<br />

previsione di criteri per la attribuzione di una competenza territoriale degli organismi di conciliazione, la non previsione<br />

dell’obbligo, a carico della parte e dell’organismo che inizia la mediazione, di riportare nella richiesta di mediazione una<br />

dettagliata specifica delle ragioni della pretesa azionata.<br />

Gli avvocati “detrattori”: professionalità dei mediatori... Alla problematica della professionalità dei mediatori, alla quale si<br />

è cercato di ovviare con le modifiche apportate al Dm 180/2010 dal Dm 145/2011 in materia di requisiti, prevedendo il<br />

tirocinio obbligatorio per i mediatori, l’assegnazione delle liti in base anche ad un criterio di competenza tecnica, l’incremento<br />

del supporto amministrativo dell’autorità di vigilanza sugli organismi di mediazione.<br />

... E professionalità dei formatori e degli organismi di mediazione. Per quanto riguarda i formatori, il decreto di attuazione<br />

prevede l’obbligo di avere svolto un’attività di docenza in corsi o seminari in materia di mediazione, conciliazione o<br />

risoluzione alternativa delle controversie presso ordini professionali, Enti pubblici o loro organi, Università pubbliche o private<br />

riconosciute, nazionali o straniere, nonché l’impegno a frequentare presso i medesimi Enti corsi di aggiornamento. Il problema<br />

è che la nuova disciplina affida tale importante compito anche a società private, rischiando di convertire e ridurre la formazione<br />

dei mediatori ad un’attività di tipo meramente lucrativa. Sarebbe stato sicuramente più appropriato se il Ministero della<br />

Giustizia, coordinandosi con il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, avesse assegnato la formazione dei<br />

mediatori a docenti universitari di ruolo e più in generale alle Università, in grado di assicurare le necessarie competenze e una<br />

rete presente sull’intero territorio nazionale.<br />

Conclusioni. I requisiti dei mediatori non prevedono la necessaria cognizione di diritto sostanziale, che invece ciascun<br />

mediatore dovrebbe avere. Su questo punto il regolamento si dimostra fallace, a meno che il Ministero non decida in futuro di<br />

obbligare le parti ad avvalersi dell’assistenza di un legale oppure riveda i requisiti di accesso. Insomma si è data la facoltà a<br />

soggetti del tutto estranei alla categoria forense di svolgere un lavoro per il quale sono necessarie le competenze e le<br />

conoscenze giuridiche che si raggiungono dopo corsi di laurea, pratiche forensi, corsi intensivi di specializzazione ed esami di<br />

abilitazione alla professione. Quando si parla di ordine forense non si fa più riferimento ad un ordine omogeneo, ma ora ai<br />

civilisti, ora ai penalisti, ora agli amministrativisti. Si è assistito, negli anni, alla moltiplicazione di “sottospecializzazioni”:<br />

diritto matrimoniale, diritto societario, diritto tributario, diritto comunitario, diritto d’autore, diritto della stampa e<br />

dell’informazione, diritto dell’ambiente, dell’urbanistica, dell’ecologia. In più, in seguito alle varie riforme di diritto sostanziale<br />

e processuale, l’avvocato necessita di un continuo aggiornamento. Perciò forse non ci si deve stupire se gli avvocati<br />

“detrattori” si chiedano se la nuova categoria dei mediatori sia fornita delle basi e delle fondamenta necessarie ad affrontare nel<br />

migliore dei modi una qualsiasi specie di controversia. Il successo della mediazione dipenderà moltissimo dalla serietà degli<br />

organismi di mediazione, dalla preparazione dei mediatori e dalla fiducia e funzionalità che la procedura saprà conquistarsi nel<br />

mondo dei consumatori e delle imprese.<br />

50


SCHEDA 25 | GLI EFFETTI SOCIALI DELLE NORME SULLA GIUSTIZIA E IN MATERIA DI RIFORMA DELLE PROFESSIONI<br />

La riforma della giustizia è sempre all’ordine del giorno, ma non si vede come le misure di volta in volta proposte<br />

possano realmente migliorare l’efficienza dei Tribunali. Una delle principali difficoltà nell’affrontare il problema è<br />

costituito dalla misurazione dell’efficienza dei vari Tribunali. I fattori che si prendono a base per una simile valutazione:<br />

sono le spese e la durata dei procedimenti. Da alcuni studi anche di tipo comparato emerge con forza che se da un lato<br />

non è vero che chi spende di più ha anche una giustizia più rapida, è altrettanto vero che a parità di spesa si potrebbe<br />

ridurre del 30% la durata dei processi. L’efficienza della giustizia civile comunque ha un effetto prociclico sull’economia<br />

e la lentezza dei processi aggrava la crisi economica per le imprese italiane. Un aumento delle risorse pubbliche potrebbe<br />

non risolvere il problema. La spesa pubblica in questo settore infatti non è bassa, tanto più se confrontata con quella<br />

degli altri paesi europei: il sistema giudiziario dispone di un numero di magistrati e di un impiego di risorse finanziarie<br />

non inferiore, e talvolta superiore, a paesi che pure mostrano una performance giudiziaria migliore. In <strong>Italia</strong>, nel<br />

decennio scorso, la spesa per la giustizia è risultata una delle voci in maggior crescita del bilancio dello Stato, negli anni<br />

Novanta è aumentata del 140% e i magistrati in servizio sono aumentati di circa il 15%. Dal 2004 al 2007 la spesa<br />

pubblica destinata alla voce “magistrati” è cresciuta di circa il 27%, mentre quella per i cancellieri è rimasta<br />

sostanzialmente costante (+1%). All’aumento di risorse destinate al settore non è però corrisposto un adeguato<br />

miglioramento dei risultati. Il numero dei procedimenti pendenti, civili e penali, non è affatto diminuito. Al contrario, il<br />

tasso di crescita è risultato in continua ascesa.<br />

Negli ultimi vent’anni lo stock di cause civili arretrate si è pressoché triplicato. Nello stesso periodo i procedimenti<br />

penali pendenti in primo grado sono più che raddoppiati. La produttività dei magistrati cresce al crescere delle<br />

dimensioni dei Tribunali in cui essi operano. Circa il 70% dei Tribunali resta troppo piccolo per essere davvero<br />

efficiente, e le stime evidenziano che i Tribunali sono meno produttivi e più inefficienti nell’esercizio della funzione<br />

civile di quanto non avvenga per le materie penali. Anche il confronto internazionale conferma l’eccesso di sedi:<br />

secondo i dati del Consiglio d’Europa, in <strong>Italia</strong> gli abitanti serviti da una corte di prima istanza sono mediamente 55mila,<br />

una densità di uffici doppia rispetto alla Germania, al Regno Unito e alla Francia, dove peraltro il governo ha predisposto<br />

accorpamenti e chiusure delle sedi minori, per migliorare l’efficienza del settore.<br />

Il <strong>Rapporto</strong> redatto annualmente dalla Banca Mondiale prende in considerazione la media di nove indicatori caratteristici<br />

del ciclo di vita di una impresa: dalla facilità nell’aprire un’azienda, all’ottenimento del credito, fino alla rapidità delle<br />

procedure fallimentari. Tra i nove indicatori, e considerando la classifica che misura il recupero di un credito per via<br />

giudiziale (Enforcing Contracts), l’<strong>Italia</strong> si colloca alla 157a posizione, occupando il grado di gran lunga peggiore. Il<br />

motivo principale della lentezza della giustizia civile in <strong>Italia</strong> è l’altissimo numero di cause iscritte a ruolo ogni anno, in<br />

un trend sempre crescente: 4,3 milioni nel 2007, 4,6 milioni nel 2008 e 5 milioni nel 2009. Di queste cause, solo il 44%<br />

arriva a sentenza. Il resto intasa inutilmente il lavoro dei magistrati, in quanto transatto o abbandonato. Con questa<br />

enorme mole di lavoro, la produttività dei nostri magistrati è tra le più alte d’Europa.<br />

L’anomalia, tutta italiana, è generata dalla combinazione deleteria di due fattori, ossia la presenza sopra la media di un<br />

gran numero di “clienti” del sistema giustizia (sia litiganti che consulenti) ed il bassissimo costo che lo Stato richiede sia<br />

all’inizio che al termine del processo. Il costo del servizio giustizia (ossia il contributo unificato) in <strong>Italia</strong> è tra i meno<br />

cari: il 2,9% del valore del contenzioso (quasi la metà della Germania e dell’Olanda); ciò nonostante l’introduzione del<br />

contributo unificato nell’opposizione alle multe ha ridotto drasticamente le cause davanti ai Giudice di pace.<br />

L’introduzione della conciliazione ha creato ulteriori spazi per la risoluzione delle liti in modo che ogni conflitto non si<br />

trasformasse necessariamente in una causa. Il numero di mediazioni cresce giorno dopo giorno, il 70% degli incontri si<br />

chiude con un accordo e le iscrizioni a ruolo nei Tribunali stanno diminuendo in maniera significativa. Il 51,8% di tutte<br />

le cause di Rc auto in <strong>Italia</strong> davanti ai Giudici di pace si è concentrato nel 2010 in una sola regione: la Campania con<br />

119.978 su un totale di 231.565. La percentuale sale al 79% se si comprendono anche Puglia, Sicilia e Calabria. Il<br />

rimanente 21% delle cause è distribuito equamente nelle altre sedici regioni. In Campania viene depositato il 1.400% in<br />

più di cause di Rc auto rispetto a una regione attigua e con un numero simile di abitanti come il Lazio.<br />

Riforma delle professioni. Ad oggi numerosi sono stati i tentativi di riforma delle professioni, spesso però bloccati dalle<br />

folte e ben rappresentate lobby di categoria. Nella sua formulazione iniziale la riforma prevedeva interventi di<br />

liberalizzazione delle professioni, alcuni dei quali molto radicali. Si andava dall’abolizione del divieto di incompatibilità<br />

tra attività commerciale e professionale, all’impossibilità di vietare da parte degli ordini la pubblicità per ragioni di<br />

decoro, fino all’abolizione dell’esame di stato per avvocati e commercialisti, ma quelle norme sono state cancellate.<br />

In un <strong>Rapporto</strong> della Fondazione Rodolfo Debenedetti sul tema delle professioni regolamentate, è stato evidenziato che<br />

gli ordini servono a garantire la qualità dei servizi offerti in mercati nei quali è difficile per il consumatore valutare la<br />

capacità degli operatori e la qualità dei servizi prodotti. Quelle stesse norme, tuttavia, generano limitazioni della<br />

concorrenza con potenziali effetti negativi sul benessere collettivo.<br />

Difficile procedere con un dibattito costruttivo se non si riconosce questo duplice aspetto della regolamentazione e si<br />

continua a sostenere che non vi è alcun problema di concorrenza nelle professioni. Nel citato <strong>Rapporto</strong> viene presentata<br />

una serie di analisi empiriche che suggeriscono che qualcosa non funziona nelle procedure di selezione all’ingresso in<br />

molte professioni dove non sempre vengono accolti gli operatori più qualificati.<br />

51


Da qui alcune proposte di riforma, quali, ad esempio, l’eliminazione di potenziali conflitti d’interesse nell’esame di<br />

abilitazione, evitando che sia preparato o corretto dagli stessi professionisti che saranno concorrenti diretti di chi l’esame<br />

lo supera, o la separazione del ruolo auto-regolamentazione degli ordini da quello di rappresentanza degli interessi di<br />

categoria.<br />

Si badi bene che liberalizzare non significa cancellare (e attualmente non ci sono proposte legislative finalizzate alla<br />

cancellazione degli ordini professionali) ma non vuol dire neanche consentire a chiunque di fare l’avvocato o il<br />

professionista e non deve voler dire abbassare la qualità dei servizi offerti.<br />

Per certi versi, infatti, è proprio questo il nodo centrale in tema di professioni, ossia quello del rapporto tra<br />

regolamentazione e qualità. In effetti, la regolamentazione dei servizi professionali si giustifica solo se garantisce<br />

un’elevata qualità dei servizi. L’attuale normativa non sembra aver consentito il raggiungimento di quest’obiettivo,<br />

minando la ragione d’essere degli ordini, assimilabili in molti casi a corporazioni che offrono servizi agli associati e non,<br />

come dovrebbero, trasparenza e garanzia di qualità ai consumatori. Ma liberalizzare e limitare il potere degli operatori<br />

presenti sul mercato ha un impatto negativo sulla qualità, come sostengono i difensori dello status quo? Non<br />

necessariamente. È infatti plausibile pensare che il peso (economico, ma non solo) imposto dalle barriere all’entrata nelle<br />

professioni liberali sia differente tra individui. Persone la cui famiglia è già presente nella professione possono godere,<br />

per esempio, di un accesso privilegiato grazie alla possibilità di ottenere informazioni, know-how e rete di clienti dai<br />

familiari. La presenza di barriere all’ingresso, perciò, non necessariamente migliora la qualità media dei servizi offerti<br />

sul mercato. L’effetto dipende infatti dalla correlazione tra la produttività individuale e il costo imposto dalle barriere<br />

all’ingresso. In tale àmbito vanno considerati gli effetti della cosiddetta riforma Bersani sulla qualità dei servizi legali.<br />

Per valutare gli effetti di tale riforma (di cui al Dl n. 223 del 4 luglio 2006, convertito dalla legge n. 248 del 4 agosto<br />

2006) che ha abolito le tariffe minime, il divieto di pubblicità e il patto di quota lite, sono stati raccolti i dati relativi agli<br />

avvocati iscritti agli albi della Regione Veneto dal 2000 al 2009 .<br />

Gli albi sono pubblici e contengono, tra le altre informazioni, il nome, il cognome, l’età, la data di abilitazione e<br />

l’indirizzo dello studio di ciascun iscritto. Ciò ha permesso di costruire un indice individuale che misura la frequenza del<br />

cognome nell’albo (rispetto alla frequenza nella provincia). I risultati dell’analisi mostrano che la probabilità di uscire<br />

dalla professione è associata negativamente alla frequenza del cognome nell’albo (relativamente alla frequenza del<br />

cognome nella provincia). La riforma ha, quindi, ridotto l’impatto delle connessioni familiari sulla capacità degli<br />

individui di operare sul mercato, favorendo così una migliore selezione tra gli avvocati. Per avere successo nella<br />

professione forense nel periodo che precede la riforma non era necessaria (solo) la competenza, ma anche (e forse<br />

soprattutto) l’appartenenza a un network in grado di dare accesso, o in alternativa di scalfire, le posizioni acquisite dagli<br />

operatori già presenti sul mercato. Nel caso del settore dei servizi legali la deregolamentazione non ha dunque inciso<br />

negativamente sulla qualità.<br />

52


Scheda 26 | Gli italiani e il diritto europeo: un rapporto contraddittorio<br />

<strong>Italia</strong> - Europa: il primato negativo delle infrazioni… Nell’attuazione del diritto della Ue, l’<strong>Italia</strong> risulta all’ultimo posto tra gli<br />

Stati membri. Lo scrive senza mezzi termini la 28a Relazione annuale della Commissione Europea sul controllo dell’applicazione<br />

del diritto dell’Unione europea (settembre 2011). A fine 2010 il nostro Paese si è “aggiudicato” il peggior primato per il numero di<br />

procedimenti d’infrazione (176) e quello di nuovi avviati (90). Per avere un termine di confronto, utile a valutare meglio la<br />

posizione ultima dell’<strong>Italia</strong>, bisogna ricordare che alla fine del 2010, la banca dati della Commissione Europea ha registrato in<br />

totale 2.100 casi di infrazione aperti (nel 2009 i casi aperti erano 2.900) e che i settori maggiormente interessati sono l’ambiente, il<br />

mercato interno e la fiscalità, i quali rappresentano il 52% del totale delle infrazioni. Più di un quinto di tutti i casi avviati sono<br />

legati alla normativa ambientale (444), mentre quelli legati al mercato interno e alla fiscalità (rispettivamente 326 e 324) contano<br />

ciascuno il 15% di tutte le infrazioni. Tuttavia, precisa la Commissione, i nuovi procedimenti di infrazione avviati nel 2010, hanno<br />

riguardato settori nuovi, in primis la salute e la tutela dei consumatori. Nel complesso, si può osservare che le maggiori infrazioni<br />

contestate agli Stati membri riguardano la qualità della vita dei cittadini e dei servizi relativi.<br />

…E il primato negativo dei ritardi. Altro utile elemento di confronto si trova nel riferimento al complesso dell’acquis<br />

dell’Unione europea, vale a dire nell’insieme dei diritti e degli obblighi che vincolano gli Stati membri dell’Unione europea.<br />

Nel 2010 esso comprendeva circa 8.400 regolamenti e quasi 2.000 direttive, in aggiunta al diritto primario dei trattati. Nello<br />

stesso anno, gli Stati membri sono stati chiamati a recepire 111 direttive (erano 71 nel 2009). Anche in questo caso, in<br />

relazione alla lunghezza dei tempi, si rileva che l’<strong>Italia</strong> è stata la meno efficace nel recepimento (34 casi), seguita dalla Polonia<br />

(32 casi); mentre, all’opposto, gli Stati più efficaci nel recepimento delle direttive sono stati la Danimarca e Malta (ciascuno<br />

con solo 5 casi di mancato recepimento). Con riferimento ai settori d’intervento, i maggiori ritardi si registrano nel settore<br />

ambientale, seguito dai trasporti (stradali e marittimi) e dal mercato interno e dei servizi (specificamente quelli finanziari).<br />

<strong>Italia</strong> - Ue: il comportamento attivo degli italiani. Le petizioni. Se, da un lato, lo Stato italiano ha conseguito in Europa il<br />

primato negativo delle infrazioni al diritto europeo e della lentezza nella sua applicazione, dall’altro, i cittadini italiani si<br />

segnalano tra i gruppi più attivi nella partecipazione alla sua corretta e sollecita applicazione. È l’altro risvolto, in questo caso<br />

positivo, della medaglia che segna le contraddizioni del nostro sistema nel suo grado di europeismo. L’indicatore di questa<br />

diffusa partecipazione attiva è offerto dal ricorso allo strumento della petizione al Parlamento europeo: nel 2010,<br />

l’Europarlamento ha ricevuto 1.655 petizioni (di cui 653, il 39,%, dichiarate irricevibili). I firmatari più attivi sono risultati i<br />

tedeschi (409 petizioni), seguiti, nell’ordine, da spagnoli (261), italiani (214), rumeni e polacchi. Quanto all’oggetto delle<br />

denunce, l’ambiente resta di gran lunga l’argomento principale (245 petizioni). Altre questioni che hanno richiamato<br />

l’attenzione degli europei riguardano, nell’ordine, la tutela dei diritti fondamentali dei cittadini (153 petizioni), il<br />

funzionamento del mercato interno (131), la giustizia (125), i trasporti (101).<br />

La Ue per la partecipazione attiva dei cittadini: diritti e strumenti principali. Il diritto di petizione è stato consolidato<br />

come uno dei diritti fondamentali dei cittadini europei. In base al Trattato di funzionamento dell’Unione europea, qualsiasi<br />

cittadino, in qualsiasi momento, ha il diritto di presentare all’Europarlamento una petizione, sia individualmente, sia in<br />

associazione con altri, su materie e questioni che rientrano nell’ambito di attività dell’Unione e che lo riguardano direttamente.<br />

Tale diritto è garantito dal Trattato anche alle persone residenti in uno Stato membro, non necessariamente cittadini europei, ed<br />

alle società, organizzazioni, associazioni che abbiano la loro sede sociale all’interno della Ue. La petizione può assumere la<br />

forma di una denuncia o di una richiesta e può riguardare problemi aperti di ordine pubblico o privato; può contenere una<br />

richiesta personale, un reclamo, un’osservazione riguardo all’applicazione della normativa comunitaria o un invito al<br />

Parlamento a pronunciarsi su una determinata questione. La “iniziativa dei cittadini” e il “Mediatore europeo” completano il<br />

quadro degli strumenti ed organismi che sono stati introdotti o rafforzati dal Trattato di Lisbona per promuovere una più<br />

intensa partecipazione diretta dei cittadini all’applicazione e al miglioramento del diritto europeo.<br />

Ue: verso nuove esperienze di democrazia partecipativa. Quando a fine 2010, la Commissione Europea ha chiuso la<br />

consultazione pubblica sul Libro Verde sull’iniziativa dei cittadini europei con la proposta di Regolamento per rendere<br />

concretamente utilizzabile il nuovo strumento di democrazia diretta previsto dal Trattato, sono stati in molti a sottolineare che<br />

la partecipazione dei cittadini, delle associazioni ed istituzioni era stata notevole ed era andata al di là delle previsioni. Con un<br />

quadro assai variegato di proposte, contenute in comunicazioni scritte pubblicate in Rete, hanno fornito il loro contribuito alla<br />

elaborazione del Regolamento: 150 cittadini, 70 associazioni non registrate nell’elenco del “dialogo europeo”, 65 associazioni<br />

registrate, 40 autorità istituzionali. Nel 2012, si apre, dunque, la possibilità di sperimentare una nuova soluzione di democrazia<br />

partecipativa che dovrebbe accompagnare, integrare ed arricchire, l’esperienza di democrazia rappresentativa fatta finora,<br />

senza che i due istituti siano in alternativa tra di loro.<br />

Partecipazione-disaffezione-assenteismo. In questo quadro di iniziative, in cui si sta costruendo come un “sistema binario”<br />

tra democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa i cittadini europei, in particolare gli italiani, si stanno inserendo in<br />

modo partecipe ed attivo e sembrano cogliere bene il valore di queste opportunità. Questo è un dato che, obiettivamente, va in<br />

controtendenza sia rispetto al fenomeno della disaffezione diffusa che gli osservatori continuano a registrare in Europa, sia con<br />

l’alto tasso di assenteismo che caratterizza da tempo le elezioni politiche europee. Eppure questo dato positivo esiste ed è<br />

espressione di una volontà di partecipazione sui cui occorre ben riflettere. Le prossime tappe – le iniziative dei cittadini nel<br />

2012, l’anno europeo della cittadinanza nel 2013, le elezioni politiche europee nel 2014 – consentiranno di comprendere se<br />

l’Unione ha realmente imboccato la strada per recuperare sul piano della prassi democratica, per mezzo della introduzione di<br />

un diverso sistema di governance in grado di garantire un rapporto più diretto tra i cittadini e le Istituzioni.<br />

53


SCHEDA 27 | L’ESTREMO ORRORE DEGLI OSPEDALI PSICHIATRICI GIUDIZIARI (OPG)<br />

Fino alla scorsa primavera pochi italiani sarebbero probabilmente stati in grado di sciogliere la sigla “Opg”. Gli ospedali<br />

psichiatrici giudiziari restavano una dimensione poco nota e talvolta completamente ignorata da larga parte dell’opinione<br />

pubblica, a torto convinta che l’istituzione manicomiale fosse stata definitivamente superata da oltre un trentennio. Se la<br />

condizione in cui versano gli ospedali psichiatrici giudiziari italiani era ampiamente nota agli addetti ai lavori, una parte<br />

del Paese è rimasta scioccata dalle immagini diffuse dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul Servizio sanitario<br />

nazionale dopo una serie di ispezioni all’interno delle sei strutture adibite ad accogliere i cosiddetti “folli rei”, ovvero<br />

quei cittadini con disturbo mentale autori di reato. Il video, realizzato durante i sopraluoghi e rilanciato da moltissime<br />

testate giornalistiche nazionali, racconta molto meglio delle parole la situazione che il gruppo di commissari guidati dal<br />

senatore Ignazio Marino si è trovato davanti entrando negli ospedali di Barcellona Pozzo di Gotto, Aversa, Napoli,<br />

Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia e Castiglione delle Stiviere. Le cause che hanno determinato la sopravvivenza di<br />

simili strutture sono ovviamente molteplici. Volendo tuttavia individuare una ragione di fondo si deve sottolineare, come<br />

rilevato dagli stessi commissari, che la legge di riforma della psichiatria italiana ha lasciato queste istituzioni in una sorta<br />

di cono d’ombra. L’impostazione teorica della legge 180/1978 si basava del resto proprio sulla necessità di superare il<br />

binomio culturalmente stabilito tra malattia mentale e pericolosità sociale del soggetto psicotico. La figura del malato<br />

psichico autore di reato costituiva in tal senso una scomoda eccezione, proprio perché evidenziava la relazione non<br />

automatica, ma comunque possibile, tra psicosi e pericolosità sociale. Esclusi dal perimetro della riforma Basaglia, i<br />

pazienti autori di reato hanno così avuto un destino drammaticamente diverso dai malati mentali “ordinari”: mentre il<br />

manicomio tradizionale spariva, quello giudiziario è sopravvissuto sino ai nostri giorni.<br />

La popolazione “invisibile” degli Opg. Nonostante l’avvio del “programma di superamento graduale degli Opg” stabilito<br />

nel 2008, a tre anni di distanza all’interno delle varie strutture territoriali è ancora possibile rilevare la presenza di circa<br />

1.500 persone, che segnano peraltro una sensibile crescita del numero dei ricoveri rispetto all’inizio del decennio. I dati del<br />

Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria indicano che la popolazione degli Opg è oggi costituita prevalentemente<br />

da internati, ai quali si somma tuttavia un consistente numero di detenuti provenienti dal circuito carcerario. Per quanto<br />

riguarda le categorie giuridiche presenti al 14 aprile del 2011 oltre un terzo dei ricoveri era costituito da casi “classici” di<br />

persone prosciolte in sede processuale per infermità mentale e ritenute “socialmente pericolose” (ex art. 222 Cp). Una<br />

cospicua parte della popolazione internata (424 persone) è tuttavia riconducibile alla categoria dei “provvisori” (ex art. 206<br />

Cp), ovvero ad imputati in qualsiasi grado di giudizio, sottoposti alla misura di sicurezza in considerazione della loro<br />

presunta pericolosità sociale. Il ricovero in ospedale psichiatrico si configura cioè in questo caso come una misura cautelare,<br />

in attesa che il giudice si esprima in maniera definitiva sulla pericolosità sociale del soggetto. Otre 300 sono anche gli<br />

internati con vizio parziale di mente, dichiarati socialmente pericolosi e assegnati alla casa di cura e custodia (Opg e Ccc<br />

sono di fatto ospitati nelle stesse strutture e impiegano lo stesso personale) eventualmente in aggiunta alla pena detentiva<br />

(previo accertamento della pericolosità sociale: ex art. 219 Cp). È il caso dei seminfermi di mente che hanno commesso il<br />

fatto in una situazione in cui la loro capacità di intendere e volere risultava momentaneamente compromessa. Se ritenuti<br />

socialmente pericolosi, questi soggetti si trovano così a dover scontare cumulativamente sia la pena detentiva che la misura<br />

di sicurezza in Opg. Sebbene meno numerosa, anche la popolazione detenuta presenta al proprio interno posizioni<br />

giuridiche abbastanza eterogenee: in 75 casi si tratta di persone condannate per le quali l’infermità mentale è sopravvenuta<br />

durante l’esecuzione della pena (ex art. 148 Cp); 49 sono invece i così detti “minorati psichici”, per i quali la patologia<br />

psichiatrica sconsiglia la permanenza in un istituto di reclusione ordinario; 19 sono infine i detenuti per i quali deve essere<br />

accertata l’infermità psichica durante un periodo di osservazione non superiore ai 30 giorni. Con riferimento al 2010,<br />

emerge che gli internati presentano un tasso di suicidi (0,11), di tentati suicidi (2,40) e di atti di autolesionismo (9,82)<br />

superiore rispetto a quello registrato tra i detenuti condannati (rispettivamente 0,007, 1,65 e 9,07) e imputati (0,09, 1,66 e<br />

7,46). Maggiore anche la frequenza di decessi per cause naturali all’interno degli ospedali psichiatrici giudiziari (0,95<br />

contro lo 0,17 dei condannati e lo 0,10 degli imputati). Per il 2011 l’associazione Ristretti Orizzonti censisce 7 casi, a cui si<br />

aggiungono tuttavia 4 episodi di morte per cause ancora da accertare, su un totale di 11 decessi avvenuti in Opg. La<br />

lentezza del processo di uscita dagli Opg. Alla fine della propria ricognizione, la Commissione d’inchiesta parlamentare<br />

ha stilato una lista con quasi 400 nomi di pazienti immediatamente dimettibili, solo una parte dei quali è oggi effettivamente<br />

riuscita ad uscire dalle mura degli Opg. Tale circostanza dimostra come un numero molto rilevante di persone non più<br />

socialmente pericolose rimanga in internamento soprattutto a causa della mancanza di strutture e di reti di assistenza<br />

territoriali disponibili alla loro presa in carico. Un report pubblicato nel settembre dello scorso anno dalla Conferenza<br />

Unificata, testimonia che su 543 soggetti dimettibili monitorati tra gennaio 2010 e maggio 2011, solo 217 (il 39,9%) sono<br />

stati effettivamente dimessi. Se in alcuni casi, come quello della Lombardia e dell’Emilia Romagna, il numero dei dimessi<br />

si è attestato sul 90% dei pazienti in esame, in altri, come Veneto e Calabria, tale percentuale è invece rimasta ampiamente<br />

al di sotto del 20%. Tali inadempienze sono peraltro riconducibili solo in parte alla cronica carenza di risorse che<br />

notoriamente interessa i servizi sanitari territoriali. Emblematico è in tal senso il ritardo accumulato dalla Regione Sicilia<br />

nel recepire la legge di riforma del 2008. In seguito alla denuncia della Commissione d’inchiesta parlamentare, a inizio<br />

2011 il Ministero della Salute ha inoltre erogato 5 milioni di euro destinati proprio all’assistenza territoriale degli internati<br />

dimissibili. Alla fine di marzo dello scorso anno, solo la metà delle Regioni aveva presentato un progetto e ottenuto così<br />

l’accesso ai fondi ministeriali.<br />

54


SCHEDA 28 | SUICIDI IN CARCERE, LA STRAGE SILENZIOSA<br />

Quella che si consuma anno per anno tra le mura dei nostri penitenziari è una strage silenziosa: nel solo 2011, secondo<br />

l’Associazione Ristretti Orizzonti i suicidi sono stati 66, 692 negli ultimi dodici anni, cioè più di un terzo di tutti i decessi avvenuti<br />

in carcere. Si tratta di un tasso di suicidi più di 20 volte superiore a quello registrato nel resto della popolazione italiana, al quale si<br />

deve aggiungere il numero impressionante di tentativi di suicidio e atti di autolesionismo.<br />

Chi, dove e come. Accanto ai 66 casi accertati nel 2011, è da segnalare la presenza di 23 episodi di morte per cause ancora “da<br />

accertare”: a questa voce corrispondono anche alcuni decessi avvenuti in circostanze “ambigue”, per le quali sono in corso<br />

indagini giudiziarie, volte ad accertare eventuali responsabilità del personale sanitario o di custodia. Nelle restanti situazioni il<br />

decesso è invece avvenuto per cause naturali e, in un caso, per omicidio. Uno degli aspetti che più colpisce dei suicidi è la giovane<br />

età di molte delle persone coinvolte che, in media, avevano da poco superato i 37 anni. In 28 casi si è trattato di condannati con<br />

sentenza definitiva, in 27 di persone in attesa di primo giudizio; tre casi si stati sono registrati tra condannati in primo grado. Molto<br />

significativa è, tuttavia, anche la presenza di 8 eventi tra le persone sottoposte a misure di sicurezza detentiva, considerato<br />

soprattutto che in questo caso la popolazione di riferimento è molto esigua (circa 1.500 persone). 46 suicidi si sono consumati<br />

all’interno di sezioni comuni, dove vive circa il 90% della popolazione detenuta; 10 sono invece in internamento (9 all’interno di<br />

ospedali psichiatrici giudiziari e uno in casa di lavoro), 4 in isolamento, 3 in sezione protetti e 1 in alta sicurezza (2 in infermeria).<br />

Suicidi ed altri “eventi critici”. Tra le scarse fonti di informazione disponibili circa la vita che si svolge all’interno degli istituti di<br />

pena italiani, si distingue, tuttavia, un dossier realizzato dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap) e<br />

significativamente intitolato “eventi critici”. Oltre al numero dei suicidi, all’interno di questo report si possono leggere le cifre<br />

relative agli atti di autolesionismo e agli episodi di tentato suicidio avvenuti nel corso dell’anno tra la popolazione detenuta.<br />

L’insieme di questi dati focalizza l’attenzione su come il comportamento autolesionistico, di cui il suicidio rappresenta la più<br />

estrema espressione, sia in realtà molto più diffuso rispetto al numero dei casi in cui la morte si realizza concretamente: se<br />

consideriamo che soltanto per il 2010, il dossier riporta ben 5.703 episodi di autolesionismo e 1.137 casi di tentato suicidio, i<br />

decessi volontari si presentano infatti come un esiguo sottoinsieme dei comportamenti messi in campo contro se stessi da un<br />

numero non esiguo di detenuti. Il tasso più elevato degli episodi di autolesionismo si registra tra la popolazione carceraria straniera<br />

(14,84%) e, in particolare, tra quella di sesso maschile (15,35%); tra i detenuti italiani sono invece le donne a presentare un tasso<br />

più elevato (11,36%). Anche per quanto riguarda i tentati suicidi, le maggiori frequenze si registrano tra la popolazione italiana<br />

femminile (2,41%) e tra quella straniera maschile (2,13%). I suicidi sono invece molto più diffusi tra i detenuti maschi italiani, tra<br />

i quali si concentrano 42 dei 55 casi censiti dal Dap nel 2010. I detenuti in attesa di giudizio presentano un tasso di suicidi più<br />

elevato rispetto ai condannati (0,09% contro 0,07%): un dato che sembra indicare come nella risoluzione individuale a togliersi la<br />

vita, l’impatto con il carcere abbia in sé un ruolo determinante, a prescindere dalla durata della pena inflitta. Una conferma<br />

indiretta di questo stato di cose si ricava da un focus sui tempi del suicidio carcerario, realizzato sull’arco di tempo compreso tra il<br />

1987 e il 2008: tale studio evidenzia infatti che nel 34% dei casi il suicidio avviene entro il primo mese di reclusione e nel 28%<br />

addirittura entro la prima settimana di permanenza in carcere (Il carcere: del suicidio ed altre fughe, 2009). In assoluto è tuttavia<br />

tra la popolazione degli ospedali psichiatrici giudiziari che si riscontrano i maggiori tassi di suicidi, tentati suicidi, atti di<br />

autolesionismo e persino di decessi per cause naturali, ad indicare una maggiore esposizione dei così detti “internati” al verificarsi<br />

di eventi critici. Anche le manifestazioni di protesta messe in campo dai detenuti sono ancora una volta riconducibili ad<br />

atteggiamenti di tipo autolesionistico, tra i quali spicca sicuramente il ricorso allo sciopero della fame: nel corso del 2010 si sono<br />

contati ben 6.626 episodi di questo tipo messi in campo da singoli detenuti. Le proteste di tipo collettivo sono state 350, per un<br />

totale di oltre 56mila detenuti coinvolti. Le forme più utilizzate sono state in questo caso la percussione rumorosa dei cancelli (180<br />

episodi, 36.641 soggetti coinvolti), il rifiuto del vitto e delle terapie (125 episodi, 14.632 soggetti), e l’astensione dalle attività<br />

lavorative, trattamentali, ricreative o comunque l’inosservanza delle regole dell’istituto (24 episodi, 3.408 soggetti coinvolti).<br />

21mila detenuti oltre la capienza regolare nelle carceri italiane. Al 31 dicembre del 2011 il Dap rilevava la presenza di 66.897<br />

persone detenute nelle 206 strutture esistenti, la cui capienza regolamentare si fermava a 45.700 posti, facendo così registrare un<br />

numero di detenuti in sovrannumero superiore alle 21mila unità. All’aumento del numero di detenuti, negli ultimi dodici anni si è<br />

generalmente accompagnata anche una crescita degli eventi critici, con picchi in corrispondenza degli anni 2001 e 2009.<br />

La correlazione tra sovraffollamento e suicidi. Una ricerca mirata realizzata sempre da Ristretti Orizzonti nel 2010, ha preso in<br />

esame i 9 istituti nei quali si erano verificati almeno 2 suicidi nel corso dell’anno, è stato individuato un tasso di sovraffollamento<br />

medio pari al 176%, a fronte di una media nazionale del 154%, con situazioni limite per Firenze Sollicciano, Padova e Reggio<br />

Emilia. Entrando nel dettaglio delle strutture più critiche dal punto di vista del tasso di suicidi, si distinguevano poi i casi di<br />

Sulmona (1 suicidio ogni 148 detenuti) e Catania “Bicocca” (1 suicidio ogni 117 detenuti): istituti che si collocavano stabilmente<br />

al primo e secondo posto per frequenza di episodi simili nel corso di tutto il quinquennio 2006-2010. Analoga situazione si<br />

riscontra peraltro anche in relazione al 2011: ben 9 degli 11 istituti coinvolti nel corso dell’anno da almeno 2 eventi, presentano<br />

infatti un tasso di sovraffollamento ancora superiore alla media nazionale. Le risorse destinate al carcere. Alla fine dello scorso<br />

giugno il Dap ha reso noto che gli incentivi previsti dalla legge 193/2000, per le assunzioni dei detenuti, non sarebbero più stati<br />

operativi a causa dell’esaurimento del budget annuale destinato a coprire i benefici fiscali per le imprese e le cooperative attive nel<br />

settore. Il dipartimento si è infine impegnato a reperire una copertura finanziaria fino alla fine del 2011, ma per il futuro la<br />

prospettive restano molto incerte. Già oggi si nota peraltro una sensibile riduzione del numero di detenuti lavoratori, che alla data<br />

dell’ultima rilevazione del Dap (giugno 2011) avevano raggiunto per la prima volta in vent’anni la soglia minima del 20,4% della<br />

popolazione carceraria.<br />

55


SCHEDA 29 | VITE IN CARCERE<br />

Sindrome del burnout, vale a dire dell’operatore “bruciato”. Negli ultimi dieci anni si sono tolti la vita oltre 100<br />

poliziotti penitenziari. Troppo spesso gli osservatori tendono a trascurare il ruolo e le problematiche connesse agli<br />

operatori di giustizia, che popolano, ancor prima di gestire, gli Istituti di pena: un’intera comunità che, per necessità o<br />

per scelta, condivide la propria quotidianità con i detenuti: gli oltre 40.000 agenti di custodia.<br />

Analisi dell’emergenza. Il trend di crescita della popolazione carceraria si attesta a circa 700 unità a settimana e le<br />

carceri sono ormai sovraffollate. A questo si aggiungei un progressivo depauperamento dell’organico della Polizia<br />

penitenziaria, che oggi manifesta punte di carenza superiori al 29%. La Uil penitenziaria ha recentemente reso noto che,<br />

negli ultimi 10 anni, a fronte di un incremento della popolazione carceraria pari a circa il 51%, si è registrata la<br />

contrazione degli operatori penitenziari pari al 9%. Sulla base dei dati relativi ai Provveditorati Regionali, ben 8 Regioni<br />

presentano una carenza di personale penitenziario, appartenente ai ruoli non dirigenziali, che supera il 15% dell’organico<br />

effettivamente presente, in particolare le maggiori criticità sono registrate in Toscana (-29,2%), Triveneto (-25,1%),<br />

Marche (-24,2%) Lombardia (-23,7%), Piemonte e Val d’Aosta (-23,6%), Liguria (-21%), Emilia Romagna (-18,6%) e<br />

Umbria (-15,4%). In valore assoluto, su base nazionale, la carenza è quantificabile in oltre 3.700 unità, circa il 10%<br />

dell’intera Polizia penitenziaria attiva. Tale dato acquisisce connotazioni ancor più allarmanti se associato alla carenza di<br />

personale del ruolo dirigente: in tale segmento, infatti, le carenze toccano punte del 42,9% in Sardegna, del 40% in<br />

Piemonte, del 38,5% in Toscana e del 37,5% nelle Marche. In linea generale, a fronte di una carenza organica<br />

complessiva di 93 unità (98 tenendo conto dei distacchi), pari al 17,48% dell’organico previsto e al 21,18% di quello<br />

effettivamente assegnato, si registrano ben 12 Provveditorati su 16 con carenze superiori al 20%, 8 dei quali denunciano<br />

una carenza superiore al 30%. In particolare, analizzando le figure degli educatori professionali e degli assistenti sociali,<br />

si riscontrano percentuali di carenze ancora più elevate di quelle osservate nell’ambito degli operatori di Polizia, ciò<br />

comporta un peggioramento delle condizioni di lavoro degli agenti. Il ruolo degli educatori registra carenze<br />

costantemente superiori al 20%, evidenziando vuoti organici superiori al 30% in ben 10 Provveditorati, fra i quali<br />

spiccano quelli di Basilicata (-40,9%), Emilia Romagna (-40,5%), Umbria (-37,5%), e Triveneto (-36,1%). Sul fronte<br />

degli assistenti sociali la situazione è ancor più critica: a fronte di una media generale di vacanza organica rispetto alle<br />

aliquote effettive superiore al 35%, 8 Provveditorati presentano carenze superiori al 40%, con punte vicine al 57%:<br />

Abruzzo e Molise (-56,9%), Basilicata (-53,8%), Marche (-52,4%), Lazio (-48,9%), Umbria (-48,1%).<br />

Una piaga sociale. Il costante peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro delle carceri italiane impone di<br />

affrontare la questione della gestione degli Istituti di pena, più come una piaga sociale che come una inefficienza della<br />

Pubblica amministrazione.Dall’analisi delle ricorrenze dei principali eventi critici appare evidente la correlazione<br />

esistente fra questi e la carenza di personale effettivo assegnato al distretto regionale di riferimento. Non è certamente un<br />

caso, infatti, che il maggior numero di tentativi di suicidio (38) sia stato registrato nel 2011 in un carcere (Firenze S.) nel<br />

cui distretto di riferimento (Toscana) si segnala una carenza record di organico degli operatori della Polizia penitenziaria:<br />

2.140 unità attive a fronte delle 3.021 unità previste (-29,2%). L’istituto di pena (Padova N.C.) in cui si è registrato il<br />

maggior numero di eventi critici su base annuale (414), rientra nella competenza del distretto Triveneto nel quale sono<br />

operative 2.166 unità, a fronte delle 2.893 previste, con una carenza superiore al 25% (la seconda su base nazionale).<br />

Nello stesso Istituto si sono svolti il maggior numero di scioperi della fame (325). Il maggior numero di aggressioni ai<br />

danni del personale penitenziario è stato segnalato (con esclusione degli Opg, Ospedali Psichiatrici Giudiziari) nel<br />

Carcere di Genova Marassi (10 aggressioni con 12 ferimenti), nel cui distretto di competenza si segnala una carenza<br />

organica del 21%: 999 unità attive a fronte delle 1.264 unità previste.<br />

La fisiologica carenza di organico e la ricerca di una soluzione. La cronica carenza di operatori carceraria fa<br />

registrare sottodimensionamenti che toccano percentuali del 50% su specifici comparti, su base regionale.<br />

La condizione di sovraffollamento delle carceri ha indotto il Governo a dichiarare, il 13 gennaio del 2010, lo “stato di<br />

emergenza nazionale” delle carceri italiane, successivamente prorogato fino al 31 dicembre 2011. A fronte di tale<br />

emergenza, è stato varato dal Ministero della Giustizia il cosiddetto Piano Carceri che prevede, tra l’altro,<br />

implementazione degli organici di Polizia penitenziaria e miglioramento delle condizioni di lavoro presso le strutture<br />

carcerarie. Il piano governativo ha stabilito, da un lato, l’assunzione di 2.000 nuovi agenti, dall’altro ha previsto delle<br />

misure per supplire al fisiologico turnover (nei prossimi tre anni si prevede un turnover di circa 800 unità in meno<br />

all’anno). I tempi di assunzione di nuovo personale saranno ridotti rispetto alle ordinarie procedure di reclutamento<br />

tramite concorso pubblico, in quanto per almeno mille unità si potrà attingere alla graduatoria degli idonei non vincitori<br />

del concorso pubblicato nella Gazzetta ufficiale del 10 ottobre 2008. Sebbene l’analisi della situazione attuale, ed ancor<br />

di più del trend evolutivo del rapporto detenuti-agenti, stimoli il varo di misure urgenti, ridurre a sei mesi il periodo di<br />

formazione al fine di accelerare ulteriormente l’immissione in servizio delle nuove unità di personale, potrebbe intaccare<br />

la professionalità degli operatori che, per la particolare delicatezza dell’incarico, necessiterebbero, al contrario, di una<br />

adeguata preparazione specialistica.Se, da un lato, le ipotesi istituzionali avanzate per risolvere l’emergenza sembrano<br />

abbracciare l’idea di una repentina diminuzione della popolazione carceraria e di un contemporaneo incremento della<br />

Polizia penitenziaria, dall’altro, invece, accantonano la prospettiva di un miglioramento qualitativo della permanenza in<br />

carcere. L’attenzione dovrebbe invece focalizzarsi sulle attività necessarie al reinserimento nel sociale dei detenuti e,<br />

parallelamente, ad una formazione più qualificata del personale di sorveglianza.<br />

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SCHEDA 30 | AL CENTRO DELLA SICUREZZA<br />

I dati quantitativi relativi alle principali fenomenologie criminali non descrivono un Paese in deficit di sicurezza; ciò<br />

nonostante la popolazione continua ad avvertire una sempre crescente esigenza di controllo del territorio, manifestando,<br />

non di rado, sintomi di intolleranza razziale.<br />

Le elaborazioni effettuate sulle rilevazioni delle principali fenomenologie criminali rese disponibili dal Ministero<br />

dell’Interno descrivono una situazione generale in cui ad un costante incremento demografico rilevato nel triennio 2008-<br />

2010 corrisponde una diminuzione degli eventi criminosi denunciati, che (secondo i dati Istat) hanno mantenuto un<br />

livello sostanzialmente stabile nell’anno successivo. Si è passati da una media di un reato denunciato ogni 20 abitanti ad<br />

uno ogni 23, andamento rappresentativo di un decremento dei reati denunciati, ponderati sulla popolazione residente,<br />

pari al 12,9% in tre anni.<br />

In termini assoluti le denunce di reato, nell’ultimo quadriennio oggetto di rilevazione, sono diminuite di oltre il 10%,<br />

consolidando un trend decrescente. Tuttavia le rilevazioni Istat del 2011 (che presentano un lieve calo complessivo<br />

rispetto al 2010) hanno consentito di rilevare alcune inversioni di tendenza, che in casi isolati assumono dimensioni<br />

significative (Lazio e Basilicata, rispettivamente +7,2 % e + 8,2 % rispetto al 2010).<br />

Su base triennale (2008/2010) la diminuzione delle denunce ha riguardato tutte le regioni italiane, mentre considerando<br />

anche i dati rilevati nel 2011 soltanto due regioni manifestano un lieve incremento rispetto al 2008 (Basilicata e<br />

Sardegna). Analogamente, per quanto riguarda le province, 93 su 103 (pari al 90,3%) hanno fatto registrare una<br />

diminuzione dei reati denunciati nel triennio 2008/2010, che si riducono a 91 su 103 (pari al 88,35 %) se si prendono in<br />

considerazione anche le rilevazioni 2011.<br />

Alcune province hanno registrato un trend discendente che ha portato il valore 2010 su livelli inferiori all’80% di quello<br />

2008, con un calo superiore al 20%: Verbania, Bologna, Crotone e Roma; quest'ultima nel 2011 ha invertito la tendenza<br />

segnando un aumento di oltre il 7,7 % rispetto all’anno precedente, trend che, considerando anche i dati 2011, ha<br />

interessato anche le province di Verona, Rovigo, Pordenone, Genova e Rimini. Fra quelle che presentano un andamento<br />

in controtendenza Enna si distingue per un incremento delle denunce pari al 9,12 % su base triennale e del 14,69 % nel<br />

periodo 2008/2011.<br />

Violenza sessuale. Il dato relativo alle violenze sessuali, al contrario, ha manifestato un andamento discontinuo, facendo<br />

registrare una prima diminuzione nel 2009, per poi crescere significativamente nel 2010 (con un incremento dell’1,3%<br />

rispetto al 2008 e dell’1,43% rispetto al 2009) e tornare a diminuire del 3 % nel 2011. Tale incremento risulta essere di<br />

poco superiore all’incremento demografico avutosi in <strong>Italia</strong> nel triennio 2008/2010, che è pari al 1,21%. All’incremento<br />

delle violenze sessuali, ha fatto da contraltare la diminuzione delle violenze sessuali su minori, che hanno fatto registrare<br />

un calo complessivo di oltre il 20% su base triennale. La prostituzione minorile, il cui andamento è piuttosto costante fra<br />

gli anni 2008 e 2010, sembra aver avuto un picco significativo nel 2009, quando le denunce sono state 2.028, a fronte<br />

delle 1.885 dell’anno precedente. Il dato rilevato nel 2010, in calo di quasi 8 punti percentuali rispetto a quello del 2009,<br />

è riuscito a compensare l’impennata dell’anno precedente, riportando il valore al di sotto del livello del 2008.<br />

Usura. Un incremento di oltre il 21% hanno subito invece le denunce per usura. Su scala regionale spicca il dato della<br />

Puglia, che nel triennio 2008-2010 ha visto quasi raddoppiare il loro numero, passando da 27 a 52 (+92,6%), al contrario<br />

del Piemonte che si pone invece significativamente in controtendenza, manifestando una diminuzione di circa il 31,25%,<br />

passando dalle 32 denunce del 2008 alle 22 del 2010. Incoraggiante il dato rilevato nel 2011, che riporta i valori sui<br />

livelli del 2009 (374 denunce).<br />

Riciclaggio. Le denunce per riciclaggio rilevate nel 2010 hanno registrato un incremento percentuale di quasi 5 punti<br />

rispetto al 2008 e di 1,3 rispetto al 2009. Nel 2011 la situazione è ulteriormente peggiorata, registrando un incremento<br />

del 5,9 % rispetto al 2010, arrivando ad un incremento su base quadriennale di oltre l’11,1 %.<br />

Omicidi e tentati omicidi. I dati concernenti gli omicidi volontari sono in costante e significativo calo. Dai 627 eventi<br />

rilevati nel 2008 si è scesi ai 611 del 2009, ai 586 del 2010 (- 6,5 % rispetto al 2008) e ai 526 del 2011 (- 16,1 % rispetto<br />

al 2008). Anche nell’ambito degli omicidi tentati, il dato del 2010 sembra essere incoraggiante; dopo un lieve incremento<br />

registratosi nel 2009 (1.621 a fronte dei 1.588 del 2008), nel 2010 si è scesi a 1.346, con una riduzione rispetto all’anno<br />

precedente di oltre 16,9 punti percentuali; andamento confermato dai dati Istat rilevati nel 2011, che vedono un ulteriore<br />

calo del 2,75 % rispetto al 2010, dato che su base quadriennale segna una diminuzione di oltre il 17,5%.<br />

Sicurezza sulle strade. L’analisi dei dati relativi agli omicidi colposi avvenuti sulle strade consente di rilevare una<br />

significativa diminuzione nell’arco del triennio 2008/2010. Dai 1.706 del 2008 si è passati ai 1.314 del 2010, con un calo<br />

rispetto al 2008 di circa il 23%. Le rilevazioni 2011 rappresentano un valore stabile rispetto al 2010 (1327).<br />

57


CAPITOLO 4<br />

RAGIONEVOLE/IRRAGIONEVOLE<br />

L’ITALIA DELL’ECONOMIA: TRA RITARDI E PROSPETTIVE<br />

Il disagio economico di fine millennio.La fine del Ventesimo secolo spinge naturalmente, anche in campo economico, a tentare un bilancio dei<br />

cento anni passati e a domandarsi cosa riserverà l’avvenire. Quali sono le domande che sorgono nella mente dell’uomo della strada a fronte dei<br />

messaggi forniti dai media e dalla propaganda politica? In <strong>Italia</strong>, vi sono segnali quotidiani di un malessere profondo che si esprime, in termini<br />

macroeconomici, in tassi di crescita molto vicini all’unità ed in saggi di disoccupazione di due cifre. Questo stesso malessere sembra coinvolgere<br />

più generalmente l’Europa dell’Euro: in questo fine secolo l’economia dei paesi dell’Euro mostra segni di affanno, e qualcuno ha parlato di un<br />

vero e proprio “european disease”. La grande imputata delle crisi che colpiscono le diverse parti del mondo è la globalizzazione.<br />

La globalizzazione. Ricordiamo alcuni punti che già in passato l’<strong>Eurispes</strong> aveva evidenziato riguardo alla globalizzazione. Il primo riguarda la<br />

pericolosità della globalizzazione finanziaria: maggiori flussi di capitale attraverso le frontiere, permettendo “allocazioni” più efficienti del<br />

risparmio e dell’investimento, potrebbero ridurre le strozzature di cui soffrono per mancanza di capitali i paesi poveri, offrendo<br />

contemporaneamente rendimenti più elevati ai risparmiatori. Tuttavia vediamo che i capitali tendono viceversa a concentrarsi sulle grandi Borse<br />

valori, cercando non una ragionevole retribuzione del risparmio, ma guadagni rapidi ed esplosivi, altamente rischiosi e dipendenti dai grandi<br />

investitori. La componente estera non può essere ritenuta responsabile dello stato di depressione strisciante che pervade i più grandi paesi del<br />

vecchio continente. Se considerata nell’insieme, l’area dell’Euro ha un avanzo delle partite correnti e non si presenta più aperta verso l’estero.<br />

Inoltre, né il deprezzamento dell’Euro, né la domanda elevata e crescente proveniente dagli USA sembrano sufficienti a dare una scossa alla<br />

languente economia del vecchio continente. Le paure o i timori della globalizzazione sono di origine culturale, psicologica, sociale, religiosa,<br />

politica, antropologica, ecologica e quant’altro si voglia, ma trovano modesto fondamento sul piano strettamente economico. Di fronte a quella<br />

che a tutti appare come una crisi da domanda, l’unica politica che la Banca centrale europea ha potuto seguire è stata quella dei bassi tassi<br />

d’interesse ma, anche attuando questa strategia, la propensione all’investimento è rimasta modesta. Una riduzione dell’imposizione fiscale, pur<br />

essendo naturalmente benefica, incontra tuttavia alcuni limiti, il primo dei quali è naturalmente il vincolo di bilancio, che, nei tempi brevi non<br />

sembra permettere una manovra in questa direzione di dimensioni tali da potersi considerare decisiva. In un mondo che ha scoperto le aspettative<br />

razionali, non resta che agire direttamente sulla domanda di investimenti attraverso una decisa e massiccia politica di opere pubbliche. Non<br />

mancano i progetti già pronti o in via di definizione che possono fornire quella massa d’urto capace di riportare, a parità di tasso di inflazione, la<br />

domanda globale ai livelli desiderati, ma questo percorso in realtà semplice e lineare è tuttavia cosparso di ostacoli di natura culturale, politica,<br />

ideologica e forse anche normativa ed economica.<br />

Lo stato sociale e gli anziani. L’aspetto sul quale l’attenzione si è concentrata negli ultimi anni è lo stato sociale o welfare. La questione, quanto<br />

meno in <strong>Italia</strong>, è quali settori devono essere potenziati, quanto deve essere gestito da strutture pubbliche e quanto invece può essere affidato ad<br />

imprese private. In particolare, il dibattito si è incentrato sullo squilibrio finanziario esistente, fra contributi e prestazioni pensionistiche,<br />

identificato come la maggiore causa di appesantimento del bilancio statale. Squilibrio che, a causa della crescita della popolazione anziana sul<br />

totale della popolazione e la modesta crescita dell’occupazione, tende a crescere con il tempo. La misura più semplice proposta è un<br />

innalzamento generale dell’età pensionabile. Tuttavia, da un punto di vista dell’economia generale sembra provato che il pensionamento<br />

anticipato o la cassa integrazione non favoriscano le assunzioni di giovani, e soprattutto non liberino un corrispondente numero di posti di lavoro.<br />

La vita si è prolungata enormemente per uomini e donne proprio negli ultimi cinquant’anni, anche lo stato di salute e le capacità di lavoro si sono<br />

proporzionalmente allungate. Inoltre, la maggior parte dei lavori, non solo quelli d’ufficio, ma anche quelli alle macchine e persino in agricoltura,<br />

possono essere meglio eseguiti da persone anziane dotate della necessaria esperienza che non da muscolosi giovani inesperti. Sarebbe molto<br />

meglio per il benessere dell’economia se i più anziani continuassero ad andare al lavoro. Ottenere anche piccoli aumenti dell’età media<br />

pensionabile ha un grande effetto: fintanto che le persone restano sul mercato del lavoro pagano tasse e contributi, e non ricevono una pensione.<br />

Il Sud. Le regioni d’Europa non coincidono necessariamente con le regioni degli Stati nazionali, e all’interno di grandi paesi come Germania e<br />

<strong>Italia</strong> possiamo trovare dualismi molto significativi, sia sul piano culturale sia su quello economico: a fianco di regioni ad elevato sviluppo, ne<br />

troviamo altre popolose e ricche di grandi città dove viceversa il reddito è basso, i tassi di disoccupazione sono elevatissimi, ed una parte<br />

consistente delle entrate delle famiglie è fornita da trasferimenti pubblici. Il grande problema economico dell’Unione europea è il problema del<br />

Mezzogiorno, non è infatti solo l’<strong>Italia</strong> ad averne uno: occorrerebbe che i governi, possibilmente di concerto, si facessero parte diligente per<br />

accrescere l’attenzione normativa e finanziaria della UE nei confronti delle grandi aree sottosviluppate, anche con progetti ad hoc. Tuttavia<br />

questo non potrà comunque risolvere il problema: le regioni meridionali non riescono già oggi ad utilizzare al meglio i fondi messi a disposizione<br />

della Comunità per interventi strutturali, a causa, tra gli altri motivi, della mancanza di progettualità e di indirizzo politico.<br />

Che cosa ci aspettiamo dal duemila. Vi è la convinzione che il pianeta stia per affrontare un secolo di prosperità crescente e molti, in<br />

Occidente, ritengono che nei prossimi decenni si potrà sconfiggere la fame, la mortalità infantile e l’analfabetismo in gran parte dei paesi del<br />

mondo. Tutto ciò come andamento generale che non esclude e non escluderà guerre locali, conflitti anche violenti all’interno dei singoli paesi, e,<br />

sul piano economico, insuccessi anche molto dolorosi. L’Europa e l’<strong>Italia</strong> hanno anch’esse bisogno di cambiamenti, sia sul piano politico che<br />

economico. In campo strettamente economico si devono affrontare tre grandi problemi: la debolezza della domanda globale, lo squilibrio<br />

demografico, difficoltà di bilancio, rigidità di spesa, ed eccessivi sprechi di energie, competenze e professionalità, e i dualismi territoriali<br />

fortissimi. Su questi tre terreni si deve misurare la proposta di politica economica comunitaria e nazionale, e questo non può essere fatto per via<br />

amministrativa affidandosi alle sole istituzioni, comunitarie e nazionali. La classe politica deve recuperare un suo ruolo, che è quello di dare<br />

corpo ai sogni delle popolazioni, alle utopie dei filosofi, alle meditazioni degli studiosi e sposare progetti in grado di scaldare gli animi, di<br />

accendere le fantasie, di suscitare volontà di crescita e di costruzione del nuovo.<br />

Avvertenza: Soprattutto per ricordare a noi stessi ciò che abbiamo prodotto e scritto nel corso degli anni, abbiamo deciso di ripubblicare il saggio pubblicato sullo stesso argomento nel <strong>Rapporto</strong> <strong>Italia</strong> dell’anno 2000.<br />

58


SSCHEDA<br />

31 | LLA<br />

SOSTENIBBILITÀ<br />

DEL DE EBITO PUBBLLICO<br />

IN ITALIA<br />

Reegole<br />

fiscali e controllo del deficit. I vinccoli<br />

imposti daall’Europa,<br />

att traverso il Trat attato di Maasttricht<br />

ed il con nseguente Pattto<br />

di<br />

Staabilità,<br />

hanno certamente inndirizzato<br />

il prrocesso<br />

di conntenimento<br />

del l debito pubblico,<br />

ma spessoo<br />

non hanno portato p ai risuultati<br />

preefissati.<br />

Questoo<br />

perché la riggidità<br />

dei paraametri<br />

individuuati<br />

non ha co onsentito di teenere<br />

conto deel<br />

contesto spe ecifico dei divversi<br />

Paeesi<br />

e in particoolare<br />

di variabbili<br />

come tassi d’interesse, crrescita<br />

dell’eco onomia, rappoorto<br />

debito/Pill,<br />

ecc. Per l’Ita alia, l’efficaciaa<br />

dei<br />

vinncoli<br />

fiscali immposti<br />

da Bruxxelles<br />

è stata rriscontrata<br />

per un periodo di i tempo limitaato,<br />

in coincideenza<br />

con l’ent trata in vigoree<br />

nel<br />

19999<br />

del Patto ddi<br />

Stabilità e finno<br />

ai primissimmi<br />

anni del nuuovo<br />

millennio o, con un apprrezzabile<br />

decreemento<br />

del Ra apporto debitoo/Pil<br />

e ddeficit/Pil.<br />

Nell<br />

periodo 19988-2002<br />

si è ossservata<br />

una rriduzione<br />

cost tante del rappoorto<br />

debito/Pill;<br />

nel 2003-20 007, il debito si è<br />

stabbilizzato<br />

intorrno<br />

al 105%; nnel<br />

2008-20100,<br />

la crisi finannziaria<br />

ha pro ovocato un aummento<br />

tale da ricondurre il rapporto ai livvelli<br />

preecedenti<br />

l’entraata<br />

in vigore ddell’euro.<br />

In cinque<br />

anni, quuindi,<br />

si ottenn ne una riduzioone<br />

del rapportto<br />

di circa 18 punti percentuuali,<br />

connvincendo<br />

moolti<br />

che i vinccoli<br />

europei fo fossero perfettamente<br />

effica aci. Una voltaa<br />

entrati pienaamente<br />

nell’Eu uro, tuttavia, si è<br />

ossservata<br />

un’invversione<br />

di tenndenza<br />

in alcuuni<br />

paesi, tra ccui<br />

l’<strong>Italia</strong>. So olo nel bienniio<br />

2006-2007 si è asistito ad a un calo sia del<br />

defficit<br />

che del deebito,<br />

grazie alll’adozione<br />

di una politica ddi<br />

bilancio rest trittiva volta a favorire il rispparmio<br />

pubblic co (il “tesorettto”).<br />

Il pperiodo<br />

successsivo<br />

è senza ddubbio<br />

condizzionato<br />

dallo sccenario<br />

interna azionale, quanndo<br />

lo scoppioo<br />

della crisi fin nanziaria del 22008<br />

cosstrinse<br />

i govern rni ad intervennire<br />

pesantemeente<br />

a sostegnoo<br />

dell’econom mia nazionale, aattraverso<br />

un fforte<br />

indebitam mento. Per quaanto<br />

riguuarda<br />

l’<strong>Italia</strong>, l’effetto è statto<br />

quello di unn<br />

ritorno indietrro<br />

di circa 14 anni a in terminni<br />

di rapporto ddebito/Pil<br />

(+10 0% nel 2009).<br />

Ineefficacia<br />

dellaa<br />

politica fiscaale<br />

europea. LLa<br />

stabilizzaziione<br />

del debito o intorno al 1005%<br />

nel perioddo<br />

2002-2007 non è stata fru rutto<br />

uniicamente<br />

di unn<br />

allentamentoo<br />

fiscale, ma rrisente<br />

anche ddel<br />

mutament to in alcune vaariabili<br />

fondammentali<br />

quali il i tasso di cresscita<br />

dell<br />

Pil e l’andammento<br />

dei tassii<br />

d’interesse suui<br />

titoli di Stat ato. Le regole di d Maastricht e del Patto di i Stabilità non tengono contto<br />

di<br />

queesti<br />

fattori, o mmeglio<br />

vengoono<br />

assoggettaati<br />

a delle ipottesi:<br />

spetta poi i ai governi nnazionali<br />

il commpito<br />

di front teggiare eventtuali<br />

cammbiamenti<br />

“strrutturali”,<br />

tali da consentire il rispetto deii<br />

vincoli imposti.<br />

In questo mmodo<br />

è stato individuato il limite del 3% % sul<br />

rappporto<br />

deficit/PPil,<br />

valore conn<br />

il quale il debbito<br />

si stabilizzza<br />

al 60% (e quindi q tende vverso<br />

di esso), ma solo nel caso c in cui il taasso<br />

di ccrescita<br />

nominnale<br />

del Pil (all<br />

lordo dell’infflazione)<br />

sia mmediamente<br />

al l 5% su base aannua.<br />

È possiibile<br />

stimare lo o scostamentoo<br />

del<br />

rappporto<br />

debito/PPil<br />

dalla linea di tendenza. OOsservando<br />

il grafico succe essivo, la lineaa<br />

tratteggiata inndica<br />

il perco orso del debitoo<br />

nel<br />

casso<br />

in cui le ipootesi<br />

fossero sstate<br />

pienamennte<br />

verificate a partire dal 19 998, ovvero see<br />

il deficit fossse<br />

sempre sta ato pari al 3% e la<br />

creescita<br />

sempre ppari<br />

al 5%. Glli<br />

interessi paggati<br />

annualmennte<br />

sul debito precedente p sonno<br />

invece “neeutrali”,<br />

poiché é si ipotizza chhe<br />

il<br />

defficit<br />

li copra pper<br />

la quota ecccedente<br />

il 3% %. La linea conntinua,<br />

invece,<br />

mostra l’anddamento<br />

in cuii<br />

si inseriscano o i valori effetttivi<br />

delll’onere<br />

sul deebito<br />

e del tassso<br />

di crescita, fissando uniccamente<br />

il live ello di deficit al 3%. In altrre<br />

parole tale curva c rappreseenta<br />

l’anndamento<br />

del debito che peermette<br />

di evittare<br />

sanzioni: la discrepanza a tra le due cuurve<br />

dimostra un certo grad do di “inefficaccia”<br />

dellle<br />

regole fiscaali<br />

europee, chhe<br />

non necessaariamente<br />

porttano<br />

ad un calo<br />

costante dell<br />

debito pubbliico.<br />

Le barre, infine, i mostraano<br />

i<br />

liveelli<br />

effettivi dii<br />

rapporto debiito/Pil,<br />

che ha iniziato a deviiare<br />

dal percor rso “sostenibille”<br />

a partire daal<br />

2002.<br />

Scennari<br />

di andamentoo<br />

del rapporto debiito/Pil<br />

per gli anni 1998-2010 (Elaborrazione<br />

su dati Am meco, 2011)<br />

I faattori<br />

dell’ind debitamento. PPer<br />

quanto rigu uarda l’<strong>Italia</strong>, ill<br />

Pil è rimasto in media al dii<br />

sotto delle asppettative<br />

europ pee (al 4%), annche<br />

esccludendo<br />

gli annni<br />

della crisi fi finanziaria, evid denziando prob blematiche di tipo t strutturale, tuttora irrisoltee<br />

ed anzi ampl lificate dagli efffetti<br />

dellla<br />

crisi in atto. L’onere medioo<br />

sul debito meerita<br />

invece un approfondimen nto specifico: ddal<br />

1998 al 20110<br />

il valore è di iminuito di 3 ppunti<br />

perrcentuali,<br />

dal 77%<br />

al 4%, sosstanzialmente<br />

ggrazie<br />

agli effe fetti positivi ge enerati dall’entr trata nell’Euro. . Di conseguen nza, nonostantte<br />

la<br />

creescita<br />

tra le più bbasse<br />

d’Europa a, l’effetto snow wball è stato tuutto<br />

sommato contenuto.<br />

Il ssaldo<br />

di bilanccio<br />

primario. IIl<br />

netto peggior ramento dei coonti<br />

pubblici ne el periodo 20011-2005<br />

non è immputabile<br />

ad un u ciclo econom mico<br />

moondiale<br />

sfavoreevole,<br />

ma ad unna<br />

precisa voloontà<br />

di allentammento<br />

fiscale, affiancata a dalla mancanza di ppolitiche<br />

struttu urali per favorir re la<br />

creescita,<br />

che è rimmasta<br />

stagnante te per l’intero pperiodo.<br />

Solo nnel<br />

biennio suc ccessivo, 20066-2007,<br />

si osserrva<br />

l’attuazion ne di interventi che<br />

hannno<br />

portato nell<br />

2007 ad un avvanzo<br />

struttura ale nuovamentee<br />

intorno al 2% %. Grazie poi alll’adozione<br />

di mmisure<br />

una tan ntum, si è regist trato<br />

nelllo<br />

stesso annoo<br />

un avanzo di oltre il 3%. LL’adozione<br />

di innterventi<br />

struttu urali è certificaata<br />

dalla tenden nza della curva a negli anni 20008<br />

20110:<br />

nonostantee<br />

la recessionee<br />

del Pil, il saaldo<br />

potenzialle<br />

si è attestat to poco sopra a l’1%, limitanndo<br />

dunque l’ ’effetto della fforte<br />

commponente<br />

ciclicca<br />

e permettenndo<br />

all’<strong>Italia</strong> dii<br />

registrare salddi<br />

effettivi tra i più contenuti dd’Europa,<br />

con un disavanzo inferiore all’1% % al<br />

parri<br />

della Germannia.<br />

I contributti<br />

maggiori all’ ’incremento deella<br />

spesa pubb blica provengonno<br />

da specifici i settori, spesso o considerati coome<br />

saccche<br />

di ineffici ienza della Puubblica<br />

ammini istrazione. Traa<br />

il 2003 ed il 2007 sono auumentate<br />

magg giormente le spese s per la saanità<br />

(+00,7%)<br />

e quelle pper<br />

i servizi geenerali<br />

(+0,5%) ), che comprenndono<br />

la gestion ne amministrattiva<br />

generale annche<br />

a livello lo ocale. Le spesee<br />

per<br />

la ddifesa<br />

e per gli<br />

affari econommici<br />

(gestione delle attività pproduttive<br />

quali i agricoltura, inndustria,<br />

energgia<br />

e trasporti) sono variate ddello<br />

0,33%,<br />

come la quuota<br />

relativa aalla<br />

protezione sociale. Questt’ultima<br />

rappre esenta di gran lunga la voce principale, car ratterizzata da una<br />

creescita<br />

costante in funzione deel<br />

noto problemma<br />

dell’invecchhiamento<br />

dem mografico: si noota,<br />

tuttavia, chhe<br />

le entrate da a contributi socciali<br />

(veedi<br />

paragrafo pprecedente)<br />

sonno<br />

sufficienti a coprire la speesa<br />

pensionistic ca (circa il 12-13%<br />

del Pil). Lo stesso setto ore comprendee<br />

un<br />

ulteeriore<br />

6% di sppesa<br />

assistenzia ale, composta aad<br />

esempio daai<br />

sussidi di dis soccupazione e dagli assegni di invalidità. Nel N periodo di ccrisi<br />

20008-2009<br />

la speesa<br />

per protezi ione sociale è aumentata delll’1,5%,<br />

ma so olo lo 0,5% è sstato<br />

utilizzato per l’attivazio one di meccaniismi<br />

auttomatici<br />

(cosidd detti “stabilizzzatori”)<br />

di rispoosta<br />

alla recessione.<br />

59


SCHEDA 32 | LAVORO PRECARIO, LAVORO IN BILICO<br />

Gli effetti (non)sperati della flessibilità. I contratti atipici, introdotti con il “pacchetto Treu” del 1997 e dalla legge<br />

Biagi del 2003, avevano il dichiarato obiettivo di promuovere la crescita occupazionale del Paese, favorendo in primo<br />

luogo l’accesso delle fasce di popolazione giovanile e delle donne, soggetti tradizionalmente deboli del nostro mercato.<br />

Nella seconda metà degli anni Novanta, una spinta forte in direzione di una maggiore flessibilità arrivava del resto anche<br />

dall’Europa: nel 1997, con la Strategia Europea per l’Occupazione (SEO), l’Unione metteva per la prima volta a punto<br />

una serie di orientamenti comuni in materia, stabilendo tra l’altro la necessità di rendere i contratti di lavoro meno rigidi<br />

e più adattabili alle fluttuazioni dell’economia.<br />

Gli effetti di questi nuovi indirizzi non si faranno attendere e, almeno in termini quantitativi, negli anni immediatamente<br />

successivi l’<strong>Italia</strong> sperimenta un sensibile miglioramento della propria situazione occupazionale. Dal 1996 al 2001, il<br />

numero di occupati cresce mediamente al ritmo di 223mila unità all’anno, a fronte di un aumento del Prodotto interno<br />

lordo dell’1,9%. Un risultato decisamente positivo, soprattutto se confrontato con il precedente periodo di espansione<br />

dell’economia internazionale: tra il 1985 ed il 1991, a fronte di una crescita del Pil ben più sostenuta (2,9% come media<br />

annua), il numero di occupati era salito in dodici mesi di sole 179mila unità. In maniera ancora più sorprendente, tra il<br />

2002 e il 2005, mentre la crescita del Pil rallenta notevolmente (+0,6% in media), il tasso di occupazione continua a<br />

salire a livelli sostenuti (145mila unità per anno), fino a raggiungere la cifra record di 660mila nuovi assunti nel corso del<br />

biennio 2006-2007, in concomitanza con una leggera ripresa . Indiscussi protagonisti della nuova occupazione italiana<br />

sono proprio i lavoratori atipici, che a fine 2008 raggiungono secondo l’Istat quota 2 milioni 800mila.<br />

È principalmente su questo capitale umano che la crisi ha iniziato a dispiegare i propri effetti. Nel 2009 si assiste infatti<br />

ad una marcata flessione della componente atipica dell’occupazione, con una caduta del numero di dipendenti a termine<br />

e di collaboratori. In un primo momento i contratti standard a tempo pieno e indeterminato dimostrano una tenuta<br />

decisamente migliore. Le ragioni sono abbastanza comprensibili: da un lato per il datore di lavoro è stato sicuramente più<br />

conveniente attendere la scadenza naturale di un contratto a tempo determinato piuttosto che affrontare i costi di<br />

licenziamento per un lavoratore stabile; il lavoro dipendente standard ha poi potuto beneficiare del generoso ricorso alla<br />

cassa integrazione guadagni. Ma la situazione è destinata a cambiare rapidamente: assottigliato il bacino<br />

dell’occupazione atipica, nel 2010 la contrazione occupazionale investe in pieno i lavoratori garantiti, con un tracollo di<br />

285mila dipendenti a tempo indeterminato, mentre la leggera crescita di posti di lavoro osservabile nel corso dell’anno si<br />

deve quasi esclusivamente a forme di lavoro atipico.<br />

La recessione dell’economia che si profila oggi all’orizzonte del Paese potrebbe incidere ancora più in profondità sulla<br />

qualità dell’occupazione italiana, imponendo una sensibile accelerazione al processo di flessibilizzazione in atto e quindi<br />

una rapida estensione dei soggetti sociali coinvolti nella precarietà. Se nel loro primo decennio di vita i contratti atipici<br />

hanno infatti rappresentato una porta di accesso al mondo del lavoro soprattutto per i giovani, c’è ora la possibilità che<br />

possano costituire l’unica modalità di permanenza sul mercato anche per un crescente numero di meno giovani. In altre<br />

parole, la precarietà rischia di trasmettersi dai “figli” ai “padri”, dispiegando così per intero i difetti che sin dall’inizio<br />

hanno contraddistinto il nostro modello di flessibilità. Alla progressiva liberalizzazione contrattuale, in <strong>Italia</strong> non ha<br />

infatti mai fatto seguito un’adeguata revisione degli schemi di protezione sociale, lasciando di fatto gli atipici ai margini<br />

di un sistema ritagliato su misura del lavoro standard.<br />

Dopo anni di immobilismo, un’evidente accelerazione sulla strada di una riforma organica della materia è arrivata con<br />

l’insediamento del governo tecnico guidato da Mario Monti. Contestualmente alla riforma pensionistica che ha esteso a<br />

tutti i lavoratori il sistema di calcolo contributivo, è stato infatti annunciato un intervento legislativo di grande portata in<br />

tema di lavoro e di ammortizzatori sociali.<br />

Non solo giovani. Un recente studio condotto dall’osservatorio Datagiovani sulle rilevazioni Istat delle forze lavoro<br />

(Rcfl) nel primo semestre 2011, rivela in effetti che gli under 35 rappresentano quasi il 43% dei precari italiani: su un<br />

totale di 3 milioni e 800mila, i precari sotto i 35 anni sarebbero infatti 1 milione e 640mila. Rispetto al primo semestre<br />

del 2007, la loro incidenza sul totale degli occupati più giovani si sarebbe così rafforzata di oltre 4 punti percentuali,<br />

passando così dal 22,5% al 26,9%. È tuttavia interessante notare come nello stesso intervallo di tempo la percentuale di<br />

precari sia cresciuta per tutte le tutte le fasce età: tra gli occupati di età compresa tra i 35 e i 44 anni (si passa dall’11 al<br />

13,3%), tra quelli dai 45 ai 54 anni (dal 7,9% al 10,3%) e persino tra i lavoratori over 55 (dal 6% al 7%). Nel complesso,<br />

la presenza di precari tra le forze lavoro è cresciuta in tre anni di oltre 3 punti percentuali: dal 13,3% al 16,6%. Quindi<br />

nel vasto universo del precariato italiano si possono ormai incontrare anche lavoratori più che maturi, talvolta persino<br />

alla fine del proprio percorso occupazionale.<br />

Il sottoprecariato. Il quadro del precariato italiano non potrebbe tuttavia dirsi completo senza considerare una categoria<br />

ulteriore e del tutto peculiare di lavoratori-non lavoratori: ovvero gli stagisti, diventati negli ultimi anni una presenza<br />

stabile all’interno di molte aziende ma anche della Pubblica amministrazione italiana. Con una licenza linguistica<br />

potremmo identificare queste figure, per lo più giovani e con titoli di studio elevati, come sottoprecari.<br />

Introdotti nel 1997, i così detti tirocini formativi sono stati inizialmente esperienze marginali, per poi subire una<br />

vertiginosa crescita in anni recenti, fino a toccare un picco massimo nel 2009, quando il fenomeno è arrivato a<br />

coinvolgere il 14,9% delle imprese italiane. Nell’arco del 2010, il <strong>Rapporto</strong> Excelsior di Unioncamere calcola la<br />

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presenza di 311mila stagisti, che segnano così per la prima volta una diminuzione di circa 11mila unità rispetto all’anno<br />

precedente. Il settore trainante è sicuramente quello dei servizi, dove si concentra il 71% circa dei tirocini.<br />

I tirocini attivati dalle imprese non esauriscono tuttavia il panorama degli stage italiani, molti dei quali si svolgono infatti<br />

all’interno del settore pubblico. Calcolare il loro numero non è impresa semplice, considerato che la Pubblica<br />

amministrazione non ha mai provveduto a censire il numero dei propri stagisti, nonostante il sensibile ampliamento delle<br />

opportunità di stage offerte da Comuni, Province, Regioni, tribunali e altri uffici pubblici negli ultimi anni. Tenuto conto<br />

che i tirocini svolti in queste strutture dai soli studenti universitari sono stati secondo il consorzio Almalaurea circa<br />

80mila nel 2010, è tuttavia ipotizzabile che il numero totale degli stagisti all’interno della Pubblica amministrazione<br />

superi ormai le 150mila unità ogni anno. Sommate al settore privato, tali esperienze arriverebbero così a coinvolgere tra<br />

le 400 e le 500mila persone nell’arco di 12 mesi.<br />

Dell’uso distorto dello stage ha preso atto di recente anche il Legislatore che con l’art. 11 del decreto 138/2011 ha<br />

introdotto una significativa restrizione per l’attivazione dei tirocini formativi svolti da laureati: d’ora in avanti tali<br />

esperienze dovranno essere limitate ad un periodo di sei mesi e non potranno svolgersi a distanza di oltre un anno dalla<br />

laurea. Difficile dire quali esiti concreti potrà avere questa parziale riforma.<br />

Il caso italiano in Europa. La precarizzazione del lavoro non è certo un fenomeno solo italiano. Gli Stati europei hanno<br />

considerevolmente esteso la possibilità di far ricorso a forme di lavoro temporaneo, ampliando numero e tipologie di<br />

contratto. Al tempo stesso, hanno però mantenuto sostanzialmente invariati il costo e le tutele dei lavoratori assunti con<br />

contratti standard. Gli studiosi parlano in proposito di una “deregolamentazione parziale selettiva” che ha di fatto<br />

caricato solo sulle spalle dei lavoratori non standard i costi della flessibilità. Considerando però il tipo di welfare, le<br />

regioni continentali si sono mostrate generalmente più generose verso i nuovi disoccupati rispetto a quelle mediterranee,<br />

tra le quali si inserisce a pieno titolo l’<strong>Italia</strong>.<br />

Una strada diversa è stata intrapresa da alcuni paesi nordici che, a fronte di una notevole libertà in materia di assunzioni<br />

e di licenziamenti per l’impresa, hanno elaborato sistemi di tutela contro il rischio di licenziamento universali e molto<br />

generosi. Questo regime, noto ormai come flexsecurity, ha trovato una delle sue migliori applicazioni in Danimarca ed è<br />

oggi considerato il più adatto a contemperare le esigenze di flessibilità delle imprese con la protezione del lavoro. Un<br />

modello ancora diverso è quello anglosassone, contraddistinto da basse tutele contrattuali contro il licenziamento ma da<br />

un welfare poco generoso.<br />

L’<strong>Italia</strong>, secondo l’Eurostat, non si configura tra i paesi più precari d’Europa Gli italiani sono sostanzialmente in linea<br />

con la media europea quanto a numero di occupati temporanei, che nel 2008 avevano raggiunto il 12,8% del totale,<br />

contro una media europea del 14%. Percentuali superiori sono ad esempio rintracciabili in Germania (14,7%) e in<br />

Francia (14,9), ma soprattutto in Olanda (18,3%), Portogallo (23%) e Spagna (25%). È interessante anche notare come in<br />

Danimarca e nel Regno Unito, dove all’imprenditore viene concessa un’ampia libertà in materia di licenziamento, il<br />

ricorso al lavoro temporaneo sia invece molto contenuto (8,6% e 6%). Un ulteriore e significativo metro di confronto<br />

internazionale è poi rappresentato dall’indice sintetico attraverso il quale l’Ocse misura il livello di protezione legislativa<br />

dell’occupazione nei vari contesti nazionali, secondo il quale l’<strong>Italia</strong> si colloca ancora una volta in una posizione<br />

intermedia nel confronto con gli altri paesi euroepei, tanto per quanto riguarda il livello di protezione dal licenziamento<br />

individuale per il lavoro standard, che per quanto concerne la regolamentazione del lavoro a termine. Il focus sui costi e<br />

gli adempimenti aggiuntivi richiesti nel caso di licenziamenti collettivi ci vedono invece in vetta alla classifica degli Stati<br />

Ue analizzati dall’Ocse: solo in questo specifico caso i lavoratori italiani risultano dunque più protetti rispetto ai loro<br />

concittadini europei.<br />

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SCHEDA 33 | L’IMPATTO SOCIALE DELLE NORME IN MATERIA DI PREVIDENZA,<br />

SUGLI EFFETTI DELL’IMU, SUI RAPPORTI TRA FISCO E LAVORO FEMMINILE<br />

La previdenza. In materia pensionistica, il decreto “Salva <strong>Italia</strong>” impone di rimetter mano ai coefficienti di<br />

trasformazione utilizzati per calcolare la prima annualità di pensione, riguardando quelli in vigore per il triennio 2010<br />

2012 le sole età da 57 a 65 anni, mentre da gennaio serviranno anche quelli da 66 a 70. L’ambiziosa riforma del 1995<br />

provò a riprogettare la ripartizione per garantire la sostenibilità “strutturale” e per fare spazio a una nuova idea di equità,<br />

definita come equivalenza attuariale fra i contributi e le prestazioni di ciascuno. Ma le condizioni ambientali e lo scarso<br />

tempo disponibile consentirono un risultato mediocre. Uno degli errori si rintraccia nella revisione decennale dei<br />

coefficienti di trasformazione che sono moltiplicati per il montante contributivo per generare la prima annualità di<br />

pensione. La legge 247/2007 ritenne di passare da dieci anni a tre; il decreto “Salva <strong>Italia</strong>” da tre a due. Nel modello<br />

contributivo, il coefficiente di trasformazione è il “guardiano” dell’equivalenza attuariale. Per far bene il mestiere, deve<br />

essere inversamente commisurato alla durata della pensione (a durate minori devono corrispondere coefficienti<br />

maggiori). A sua volta, la durata diminuisce con l’età al pensionamento e (in presenza di longevità crescente) aumenta<br />

con l’anno di nascita. L’ovvia conclusione è che il coefficiente deve essere funzione di due variabili indipendenti anziché<br />

di una soltanto. Il meccanismo di revisione dovrebbe allora conformarsi al seguente protocollo: alla vigilia di ogni anno<br />

solare, la coorte in procinto di compiere l’età pensionabile minima riceve i “propri” coefficienti (crescenti per età) che ne<br />

riflettono la longevità al meglio perché calcolati sull’ultima tavola di sopravvivenza disponibile; i coefficienti sono<br />

assegnati a titolo definitivo nel senso che la coorte destinataria non sarà riguardata dalle assegnazioni successive,<br />

unicamente destinate a quelle più giovani. In Svezia, dove l’età pensionabile va da 61 a 67 anni, i nati nel 1951, che<br />

compiranno 61 anni nel 2012, hanno appena ricevuto i loro sette coefficienti (calcolati sulla tavola di sopravvivenza<br />

rilevata nel 2010). Con la stessa modalità, le coorti nate negli anni dal 1945 al 1950 (che nel 2012 saranno in età<br />

compresa fra 62 e 67 anni) hanno progressivamente ricevuto i rispettivi coefficienti fra il 2005 ed il 2010. In totale, nel<br />

2012 saranno in età di pensione sette coorti, ciascuna delle quali è assegnataria di sette coefficienti. In <strong>Italia</strong>, la legge 247<br />

prevede coefficienti che restano in vigore per un triennio durante il quale sono applicati erga omnes, cioè<br />

indipendentemente dall’anno di nascita. Pertanto, i coefficienti entrati in vigore nel 2010 resteranno “in carica” fino a<br />

tutto il 2012 (sia pure con le integrazioni previste dalla manovra). I coefficienti erga omnes all’italiana sono iniqui in due<br />

sensi. Lo sono in senso inter generazionale perché la tavola di sopravvivenza su cui sono calcolati (e perciò la longevità<br />

che essa esprime) è indifferentemente imputata a soggetti nati in anni diversi che vanno in pensione nello stesso triennio.<br />

Lo sono in senso intra-generazionale perché tavole (di longevità) diverse sono imputate a soggetti nati nello stesso anno<br />

che vanno in pensione in trienni diversi. Ad esempio, tra i nati nel 1950, chi andrà in pensione nel 2012 (a 62 anni) “avrà<br />

diritto” a una tavola di maggior favore rispetto a chi vorrà farlo (a 63 anni) nel 2013. Oltre che iniqui, i coefficienti erga<br />

omnes creano disagio sociale ostacolando la programmazione del pensionamento. Senza contare che ogni revisione si<br />

traduce in un formidabile incentivo all’anticipazione del pensionamento mettendo a rischio l’aumento di pensione cui è<br />

finalizzata la scelta di restare in attività. L’adozione pro rata del metodo contributivo per tutti i lavoratori dal 1° gennaio<br />

2012 è comunque un provvedimento apprezzabile sia per i suoi effetti sull’equità intergenerazionale, sia per le<br />

implicazioni, almeno nel medio termine, sul contenimento della spesa per pensioni. Se questa scelta fosse stata adottata<br />

nel 1995 con la riforma del sistema previdenziale, i risparmi per il bilancio del settore pubblico sarebbero stati crescenti<br />

nel tempo, per un ammontare complessivo pari a quasi 2 punti di Pil (per la metodologia di calcolo effettuata<br />

dall’<strong>Eurispes</strong> cfr la presente scheda in versione integrale).<br />

Imu: le differenze su prima e seconda casa. È utile rilevare in tema di fiscalità che l’Imu, Imposta Municipale Propria<br />

sull’abitazione di residenza, genera, sulla prima casa, effetti distributivi meno negativi rispetto all’Ici del 2007. Non è<br />

così invece per le seconde case, per la contemporanea eliminazione delle rendite catastali dall’Irpef. Una scelta forse da<br />

riconsiderare perché assieme alla cedolare secca sui canoni di locazione erode ancor di più la base imponibile dell’Irpef,<br />

rendendola sempre più simile a un’imposta sui soli redditi da lavoro e pensioni. E se poi una parte dei “poveri” fossero<br />

solo evasori? Il patrimonio delle famiglie italiane è molto ampio in un confronto internazionale: il Global Wealth Report<br />

del Credit Suisse stima per l’<strong>Italia</strong> una ricchezza mediana pari nel 2010 a oltre 115mila dollari per adulto, contro i 78mila<br />

del Regno Unito e i 66mila della Francia o i 47mila degli Stati Uniti. Ma secondo stime recenti, ben l’85% è investito in<br />

immobili, per i quattro quinti nella residenza principale (il 70% delle famiglie italiane è proprietaria dell’immobile dove<br />

abita), ragione non secondaria della osservata maggior equità nella distribuzione della ricchezza in <strong>Italia</strong> rispetto a altri<br />

paesi. In particolare, dei 32,5 milioni di immobili del gruppo catastale A (dove rientrano le abitazioni) censiti<br />

dall’Agenzia del territorio, ben 29,6 milioni sono di proprietà delle famiglie. Che succede quando questo ingente<br />

patrimonio familiare è sottoposto a tassazione? In particolare come si ripartisce il nuovo carico tributario tra le famiglie<br />

ricche e quelle povere? Per fornire una qualche risposta a queste domande, si può utilizzare un modello di<br />

microsimulazione costruito sull’Indagine sui bilanci delle famiglie della Banca d’<strong>Italia</strong> che consente di abbinare alle<br />

informazioni sulla ricchezza immobiliare, anche quelle sui redditi dichiarati. Considerando le rendite catastali rivalutate<br />

del 5% da un minimo di 250 euro a un massimo di 1.500 euro sull’abitazione principale, rispetto all’Ici aumenta il valore<br />

catastale esente dall’imposta: con l’Ici sono esenti le abitazioni di residenza con valore catastale pari a 22.500 euro<br />

(applicando l’aliquota media del 5,2 per mille e la detrazione media di 117 euro), con l’Imu si sale fino a 50mila euro<br />

(corrispondenti a 31.250 euro con il coefficiente pari a 100 come nell’Ici e l’aliquota del 4 per mille). Per rendite fino a<br />

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750 euro si pagherà meno con la nuova Imu, per rendite superiori si pagherà di più. Consideriamo invece nel dettaglio gli<br />

effetti redistributivi, il nostro modello stima all’aliquota del 4 per mille un gettito complessivo sulle abitazioni di<br />

residenza di 3 miliardi di euro, un po’ più basso rispetto alle previsioni della Relazione tecnica (3,8 miliardi di euro),<br />

probabilmente perché nel nostro modello non possiamo tener conto delle “pertinenze” associate alla abitazione<br />

principale. Grazie alla detrazione concessa su tutte le abitazioni di residenza, le famiglie che presentano una Imu positiva<br />

(cioè che devono pagare l’imposta) sono meno del 30%; questo significa che circa un quarto delle famiglie proprietarie<br />

non deve nulla all’erario, o se si preferisce, visto che non tutte le famiglie sono proprietarie, solo la metà circa di tutte le<br />

famiglie italiane deve pagare la nuova Imu. La conclusione è che la nuova imposta, pur naturalmente penalizzando chi<br />

possiede l’abitazione di residenza rispetto agli altri, è più “progressiva” rispetto all’Ici 2007.<br />

La situazione cambia per le seconde case. Per gli immobili diversi dall’abitazione principale, il carico fiscale dell’Imu è<br />

circa il doppio dell’attuale Ici. Tuttavia, se si combina l’aumento dell’Imu con l’esenzione dall’Irpef, emerge che rispetto<br />

alla normativa attuale, dal 2012 l’imposta complessiva aumenta di più per un contribuente con reddito basso e di meno per<br />

un contribuente con reddito elevato. Il risultato è dovuto tutto all’impatto della riforma in sede Irpef: le rendite scontano<br />

un’aliquota marginale elevata per un contribuente ricco e una più contenuta per un contribuente con reddito basso.<br />

Donne e mercato del lavoro. Quello dell’occupazione femminile resta nel nostro Paese una questione aperta. I dati<br />

dell’Istat segnalano che dal 2008 al 2010 il tasso di attività femminile (misurato dai 15 ai 64 anni) è passato dal già<br />

bassissimo 47% del 2008 al 46,1% del 2010. Anche riguardo al tasso di inattività, in cinque anni l’<strong>Italia</strong> ha visto<br />

aumentare il suo svantaggio da 12 a 13,4 punti percentuali. Si è tornati indietro, sui livelli di dieci anni fa, sempre più<br />

lontani da quegli obiettivi di Lisbona che chiedevano entro il 2010 un tasso di attività femminile del 60%. In Francia, ad<br />

esempio, il tasso di attività femminile non è diminuito, attestandosi intorno al 60%, mentre in Germania nello stesso<br />

triennio è aumentato dal 65 al 66%. La distanza dei livelli italiani con quelli medi dell’Unione europea supera ormai i 12<br />

punti percentuali. Lo svantaggio aumenta ancora per le madri, che spesso lasciano il lavoro alla nascita del primo figlio.<br />

L’altra faccia della scarsa partecipazione delle donne al mercato del lavoro è il sovraccarico di lavoro familiare. Pochi<br />

sono, infatti, i servizi offerti dalle strutture pubbliche e la famiglia continua ad essere a tutt’oggi una irrinunciabile fonte<br />

di aiuto. Lo svantaggio delle donne italiane, già presente rispetto alla media europea anche per le donne senza figli,<br />

aumenta poi quando si prendono in considerazione le madri ed il loro numero di figli. Il crollo dei tassi di attività al<br />

crescere del numero di figli porta a essere occupate neanche un terzo di madri italiane con tre o più figli. Tra le nuove<br />

generazioni la situazione non migliora: tra le madri che lavorano, il 15% dichiara di aver smesso di lavorare a causa della<br />

nascita di un figlio (Istat, 2009). La percentuale è cambiata di solo un punto rispetto alle generazioni precedenti: dal<br />

15,4% delle generazioni di donne nate tra il 1944 e il 1953 al 14% delle generazioni nate dopo il 1973. In <strong>Italia</strong>, poi,<br />

mediamente il 76% del tempo dedicato al lavoro familiare grava sulle donne. Oltre venti anni fa, quando nel 1988 furono<br />

raccolti i dati della prima indagine Istat sull’uso del tempo, tale percentuale si attestava intorno all’85%, mentre nel<br />

2002, a seguito di una seconda indagine, intorno al 78%. Dunque, la condivisione dei carichi di lavoro familiare è meno<br />

sbilanciata, ma pur essendo gli uomini un po’ più collaborativi rispetto al passato, i cambiamenti sono lenti e la divisione<br />

dei ruoli ancora molto rigida. Le trasformazioni degne di nota sono semmai avvenute nell’ambito della cura dei figli: le<br />

madri, anche quelle occupate, dedicano oggi meno tempo al lavoro domestico e più tempo alla cura dei figli sotto i 13<br />

anni. Il risultato è che, quando entrambi i partner sono occupati, in un giorno medio settimanale la donna lavora oltre<br />

un’ora e mezzo più del suo partner, con un’ora e dieci minuti di tempo libero in meno. Ed è ancora una peculiarità tutta<br />

italiana il fatto che le donne lavorino in totale ben più degli uomini: nella maggior parte dei paesi avanzati, invece, se si<br />

somma il tempo per il lavoro remunerato con il tempo di lavoro non remunerato, si arriva a valori simili tra uomini e<br />

donne. L’offerta di lavoro femminile, in particolare delle madri con figli piccoli, non è certo incentivata in <strong>Italia</strong> dai<br />

servizi offerti dalle strutture pubbliche e le famiglie si avvalgono soprattutto dell’aiuto della rete informale. In <strong>Italia</strong> la<br />

famiglia di origine continua ad essere, perciò, una fonte di aiuto irrinunciabile e ciò in assoluta controtendenza rispetto<br />

agli altri paesi dell’Unione europea. Per questo motivo, dopo due anni di blocco, è tornata in vigore la norma che<br />

permette alle aziende di ottenere risorse a fondo perduto per attuare sperimentazioni che favoriscano la conciliazione<br />

della famiglia con il lavoro, con uno stanziamento, nel 2011, di 15 milioni di euro attraverso la riapertura di un bando per<br />

la candidatura di progetti a valere sull’articolo 9 della legge 53/2000. Già nel suo precedente periodo di funzionamento,<br />

ovvero dal 2000 al 2008, la norma aveva evidenziato, però, alcune criticità: la complessità della procedura che la rendeva<br />

difficilmente utilizzabile da parte delle piccole e medie imprese (le più numerose nel nostro Paese); i tempi di risposta,<br />

incerti e a volte prolungati, che non consentivano una pronta risposta alle esigenze mutevoli dei destinatari degli<br />

interventi; le modalità di erogazione del contributo (25% all’avvio del progetto e tutto il restante 75% alla validazione<br />

del consuntivo) che penalizzavano troppo le piccole realtà che non erano in grado di anticipare a lungo il 75% dei costi;<br />

l’impossibilità di contare su linee guida precise, puntuali e certamente interpretabili. In oltre otto anni di attività,<br />

comunque, sono 683 le imprese che risultano aver ottenuto finanziamenti ai sensi dell’articolo 9 della legge 53/2000 per<br />

un totale di circa 42 milioni di euro, ma non sono disponibili dati aggiornati sul reale utilizzo delle risorse ammesse a<br />

contributo e sulle misure che le aziende hanno effettivamente posto in atto.<br />

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SCHEDA 34 | INNOVAZIONE. CONFRONTI INTERNAZIONALI<br />

L’Oecd Factbook 2011-2012 (Science and technology - Research and Development - Patents) riporta i dati sui brevetti<br />

triadici – quei brevetti per i quali è richiesta contemporanea protezione nei tre principali Uffici brevetti mondiali:<br />

europeo, giapponese e statunitense. Considerato il costo che comporta la procedura di estensione ai tre uffici, si ritiene di<br />

norma che tali brevetti si connotino per un maggiore valore commerciale atteso.<br />

Dopo un’espansione costante nella seconda metà degli anni Novanta, pari al 4,5% all’anno, la crescita annuale del<br />

numero di queste famiglie di brevetti è andata diminuendo (dello 0,5% all’anno) dall’inizio del XXI secolo. Un calo che<br />

ha riguardato in misura molto simile tutti e tre i colossi della registrazione di brevetti in àmbito internazionale.<br />

I brevetti triadici provengono, nel 2009, soprattutto dall’Europa (31%); seguono Stati Uniti (29%) e Giappone (28%).<br />

Dal 1990 a questa parte la paternità delle famiglie dei brevetti tende a spostarsi nei paesi asiatici: la crescita più marcata<br />

è riscontrabile in Corea, la cui quota è passata dall’1,3% del 1999 al 4,2% del 2009. Forti aumenti sono stati rilevati<br />

anche per la Cina e l’India, con una crescita media del numero di brevetti triadici di più del 15% all’anno tra il 1999 e il<br />

2009. Ciò nonostante nel 2007, considerando i valori espressi in percentuale rispetto alla popolazione totale, i quattro<br />

paesi più inventivi sono risultati la Svizzera, il Giappone, la Svezia e la Germania. Al di sopra della media Ocse si<br />

collocano poi l’Austria, la Danimarca, la Finlandia, la Francia, la Germania, Israele, ancora la Corea, i Paesi Bassi e gli<br />

Stati Uniti, mentre la Cina, al contrario, ha meno dello 0,5% di brevetti per milione di abitanti.<br />

L’<strong>Italia</strong> si inserisce in questo contesto come lontana anni luce dalla prospettiva di adottare misure utili al rinnovamento;<br />

d’altronde, non sembra avere mai avuto una vera e profonda determinazione a sviluppare la propria capacità innovativa.<br />

La mancanza di un insieme coerente e completo di misure per l’industria, l’insufficiente apprezzamento nei confronti<br />

delle imprese nazionali quali portatrici di capacità innovativa, uniti all’assenza di politiche di emulazione nei confronti<br />

dei paesi virtuosi, hanno prodotto nel corso degli anni un mancato adeguamento reale agli standard delle nazioni più<br />

innovative.<br />

A titolo esemplificativo, analizzando la serie storica dei brevetti statunitensi concessi, per paese richiedente dal 1883 al<br />

2007, l’<strong>Italia</strong> non supera mai il dato del 3,35% registrato nel 1973, bassissimo rispetto all’andamento registrato per altri<br />

paesi europei come la Francia, la Germania o la Gran Bretagna.<br />

Investimenti in R&S. Confronti internazionali. Stando ai dati Oecd Factbook 2011-2012, la ricerca e sviluppo dei paesi<br />

Ocse nel loro complesso risulta pari al 2,3% del Pil. La Danimarca (dal 2009), la Finlandia, Israele, il Giappone, la<br />

Corea, la Svezia e la Svizzera sono stati gli unici paesi in cui tale spesa ha raggiunto livelli percentuali rispetto al Pil<br />

superiori al 3%, ben al di sopra della media Ocse. Dal 2000 in poi si è avuto un aumento significativo in Europa e in<br />

Giappone mentre negli Stati Uniti è stato più attenuato. In Cina l’aumento di tale spesa sul Pil è passato allo 0,9% del<br />

2000 all’1,7% del 2009. Nell’ambito dei paesi Ocse, dalla metà degli anni Novanta la spesa in ricerca e sviluppo è<br />

cresciuta più velocemente in Turchia e in Portogallo, con tassi di crescita annuale del 10%. In Cina la crescita reale della<br />

spesa si è attestata su un valore percentuale pari al 18%.<br />

L’<strong>Italia</strong>, con un valore pari all’1,23% (anno 2008) appare senza dubbio distante dai paesi europei più avanzati ma non<br />

lontana dall’obiettivo fissato a livello nazionale per il 2020 (1,53%). Considerato, però, che nel 2001 tale valore era<br />

dell’1,9%, non si può non constatare il risultato di un’evidente carenza nel rilancio delle politiche della ricerca che hanno<br />

deteriorato nel tempo la capacità di crescita del nostro Paese. Tale debolezza si riscontra anche nei dati riferiti al rapporto<br />

tra la spesa in R&S delle imprese ed il Pil (pari allo 0,65%), al di sotto della media europea (1,21%).<br />

Innovazione e capitale umano. Il livello di istruzione della popolazione di un paese è comunemente utilizzato per<br />

valutare lo stock di “capitale umano”. I paesi dell’area Ocse hanno registrato, nel corso degli ultimi decenni, aumenti<br />

significativi nella percentuale di popolazione adulta con istruzione terziaria. Nel 2009 oltre il 30% della popolazione di<br />

età compresa tra i 25 e i 64 anni ha raggiunto il livello di istruzione superiore in più della metà dei paesi Ocse. Tale<br />

percentuale è significativamente più alta in Canada, Israele, Giappone, Nuova Zelanda e Stati Uniti; nella Federazione<br />

Russa raggiunge il 50%. Al contrario, in <strong>Italia</strong>, Portogallo e Turchia, così come in alcuni paesi del G20 (Argentina,<br />

Brasile, Cina, Indonesia, Arabia Saudita e Sud Africa) la quota di popolazione della stessa fascia d’età con livello di<br />

istruzione terziaria (universitaria) è inferiore al 15%.<br />

La spesa per la formazione sostenuta dai paesi dell’Ocse nel 2008 (ultimo anno disponibile di riferimento) è stata del<br />

6,1% del Pil. Più di tre quarti di questa somma proviene da finanziamenti pubblici. La spesa più elevata è stata sostenuta<br />

in Cile, in Danimarca, in Islanda, in Israele, in Corea, in Norvegia e negli Stati Uniti, con almeno il 7% del Pil. Quasi un<br />

terzo della spesa Ocse per le istituzioni educative ha riguardato la formazione terziaria, i cui costi (tasse di iscrizione,<br />

insegnamento, durata dei programmi, etc.) variano notevolmente da paese a paese. Canada, Cile, Israele, Corea e Stati<br />

Uniti spendono tra l’1,7% e il 2,7% del loro Pil per le istituzioni terziarie (sono anche i maggiori sostenitori delle spese<br />

private per tale livello di istruzione), mentre Belgio, Brasile, Estonia, Francia, Islanda, Irlanda, Svizzera e Regno Unito<br />

spendono meno della media Ocse in questa fascia, investendo maggiormente nella formazione primaria, secondaria e<br />

post secondaria (non universitaria).<br />

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SCHEDA 35 | TENDENZE, CONSUMI E SFIDE DEL MERCATO ITALIANO DEL LUSSO<br />

Oggi il comparto del lusso, nonostante la crisi finanziaria dal 2007 abbia bloccato la crescita di alcuni settori produttivi,<br />

risulta in crescita sia nel mercato italiano che in quello internazionale. Le tendenze nel segmento italiano corrispondono<br />

ad un’evoluzione del modello di consumo di alta gamma e del profilo dei consumatori. Fra i nuovi orientamenti spiccano<br />

la ricerca del Made in Italy e l’avvio di produzioni etiche da parte dei marchi più noti. Il lusso etico è un modello di<br />

sviluppo economico che si basa su valori rispettosi dell’ambiente, sul sostegno alla produzione del Made in Italy, sul<br />

controllo e monitoraggio continuo delle varie fasi della filiera produttiva e sulla qualità dei materiali utilizzati (non<br />

realizzati attraverso lo sfruttamento del lavoro minorile).<br />

I luxury consumers rivolgono la loro attenzione a beni di lusso di target elevato realizzati con materiali eco-compatibili e<br />

sintetici, lavorati e impreziositi come fossero materie prime pregiate. Il marchio Prada, ad esempio, produce bijoux<br />

sostituendo i diamanti con strass, i coralli con resine colorate e il platino con alluminio. Il consumo di lusso non si limita<br />

a beni materiali, oggi l’alto livello è ricercato anche nelle esperienze e nei luoghi: i più esigenti intendono vivere il<br />

benessere e la cura di sé in luoghi a cinque stelle, per servizio ricevuto e qualità dell’ambiente.<br />

L’impiego delle nuove tecnologie consente alle aziende di riuscire a coniugare la possibilità di captare sempre più ampie<br />

fasce di luxury consumers, realizzando un’offerta di prodotti ad alta gamma, sempre più sofisticati ed estetici,<br />

all’avanguardia e ipertecnologici, adottando nel contempo comportamenti etici nella filiera produttiva. La tecnologia si<br />

inserisce nel segmento del lusso su piani differenti, dalla fabbricazione dei capi di moda o degli accessori al management<br />

o alle vendite online, che sono destinate ad aumentare grazie al successo dell’uso di Internet e dei Social Network.<br />

I circuiti del lusso e della moda hanno assunto, nelle varie società, ruoli determinanti sia nel sistema culturale ma<br />

soprattutto in quello economico. Veblen definiva il lusso «uno strumento usato con l’obiettivo di mostrare<br />

pubblicamente la propria appartenenza di status con la quale distinguersi socialmente da tutti gli altri». L’agiatezza<br />

vistosa costituisce una categoria indicativa dell’esistenza di una cultura di classe, e lo spreco esibito rappresenta la<br />

testimonianza della superiorità di uno stile di vita che di fatto è riservato a pochi. Eppure oggi il lusso non è più esclusivo<br />

come in passato: la richiesta crescente di beni di lusso sul mercato sia italiano che internazionale è riconducibile alle<br />

nuove esigenze strutturali di una società globale che sta cambiando pelle. La stessa accezione del termine “lusso” oggi<br />

risulta cambiata. Essa non contraddistingue più, come accadeva nel passato, i prodotti costosi ed esclusivi che<br />

conferiscono status privilegiato e prestigio a chi li usa o li esibisce: oggi il lusso è sinonimo di ricchezza, simbolo di<br />

qualità della vita e del contenuto valoriale che è prerogativa di una regione o territorio, ed in <strong>Italia</strong> coincide con i valori<br />

che si celano nel Made in Italy. Gli attuali stili di consumo si inseriscono all’interno di uno scenario che risulta<br />

profondamente mutato: si è passati da un tipo di consumo d’élite ad uno di massa, e la produzione su vasta scala da parte<br />

di marchi e holding del segmento del lusso, ha reso accessibile questa realtà ad ampie categorie sociali. La teoria sul<br />

consumo vistoso, secondo cui i beni di lusso vengono percepiti dai consumatori più sensibili come unici e difficili da<br />

ottenere (Veblen), si è oggi palesemente capovolta: tali beni, ormai facilmente reperibili sul mercato, rischiano di perdere<br />

il loro carattere di unicità e sinonimo di privilegio.<br />

Il lusso in cifre. Dalla fotografia scattata sui “paperoni” del mondo dalla banca d’affari Merrill Lynch e dalla società di<br />

consulenza Capgemini è emerso che la ricchezza complessiva delle persone abbienti (quelle con un patrimonio netto<br />

superiore al milione di dollari esclusa la residenza principale) è salita a circa 39mila miliardi di dollari, in crescita in un<br />

anno del 18,9% (Monti M., “La crisi è finita per i super-ricchi”, in Il Sole-24Ore, 24 giugno 2010). In particolare, la<br />

classifica mondiale dei super ricchi è dominata dal trio Usa-Giappone-Germania, che da soli continuano ad ospitare oltre<br />

la metà dei “super ricchi” di tutto il mondo. L’<strong>Italia</strong> si colloca, invece, nel 2009, al nono posto, mentre una novità<br />

importante è rappresentata dal sorpasso del Brasile, in decima posizione, da parte dell’Australia. Come sottolineato da<br />

più parti, India, Cina e Brasile saranno i paesi che guideranno la crescita nei prossimi anni. Ma dove investono i “super<br />

ricchi”? L’indagine evidenzia che i milionari sono appassionati agli oggetti di lusso e sono pertanto diventati dei veri e<br />

propri investitori collezionisti. In particolare, dalla fine del 2009 sono tornati in auge soprattutto auto, jet e yacht, specie<br />

nel mercato asiatico, ma anche arte, gioielleria, pietre preziose, orologi e vini d’annata.<br />

“Insensibile” alla crisi: l’andamento del mercato dei beni di lusso. Le stime (2011) Altagamma-Bain vedono crescere<br />

il mercato globale del lusso dell’8% (a tassi di cambio costanti) da 172 a 185 miliardi di euro; il maggiore tasso di<br />

crescita atteso (+25% anno su anno) è riferibile alla Cina: tra il 2007 ed il 2010, infatti, il consumo di beni di lusso è più<br />

che raddoppiato (da 4,5 a 9,2 miliardi di dollari). I ricavi globali del settore, tra il 2008 ed il 2009 hanno registrato una<br />

marcata diminuzione (166 miliardi di euro nel 2008, contro 153 miliardi di euro nel 2009, pari ad una diminuzione del<br />

7,8%); la ripresa è stata, d’altronde, ancora più marcata, dato che nel 2010 i ricavi hanno raggiunto 172 miliardi di euro<br />

(+12% rispetto al 2009). La domanda globale per beni di lusso sembra quindi essere decisamente rigida e non molto<br />

sensibile alla congiuntura economica, dato che nemmeno una crisi globale è riuscita a ridurla sostanzialmente o in modo<br />

perdurante. La maggior parte del fatturato 2010 per beni di lusso si concentra nell’area europea (37%, in calo di un punto<br />

percentuale rispetto al 2009) e nelle Americhe (31%, contro il 29% del 2009). I paesi asiatici sembrano, tuttavia, poter<br />

rappresentare l’area di maggior crescita nel futuro immediato, data la crescita registrata in Cina (+30%) e le previsioni di<br />

crescita per il 2011 (+25% a tassi di cambio costanti).<br />

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SCHEDA 36 | DENOMINAZIONI TERRITORIALI E QUALITÀ:<br />

IL PERIMETRO DELLE PRODUZIONI ITALIANE A DENOMINAZIONE D’ORIGINE<br />

Le produzioni a Denominazione d’Origine. Con l’istituzione delle certificazioni d’origine dei prodotti alimentari,<br />

avvenuta esattamente un ventennio fa, nel 1992, l’Unione europea ha voluto rendere manifesta una precisa idea di valore<br />

di queste produzioni, che si basa su tre key-word: qualità, tradizione, biodiversità. In buona sostanza, posta di fronte alle<br />

incipienti sfide della nuova globalizzazione, l’Europa si pose il problema di preservare – ovvero difendere e valorizzare<br />

– tre cose: 1) la propria agricoltura e produzione alimentare, fondata su un tessuto imprenditoriale frammentato, ma<br />

anche per questo capace di raggiungere straordinarie punte di eccellenza qualitativa; 2) le proprie tradizioni alimentari<br />

locali, ricche di varietà e significati, ma esposte al rischio di omologazione dalla incipiente globalizzazione; 3) l’idea di<br />

una qualità dei prodotti che miscela assieme, in un unicum prettamente europeo (e, ci permettiamo di aggiungere,<br />

“mediterraneo”), fattori materiali e immateriali non altrove riproducibili – in primis i territori, intesi non solo in senso<br />

geografico, ma anche antropico. Evidente, in questa visione, la sensibilità del legislatore europeo verso la salvaguardia<br />

del territorio e delle tradizioni locali da un lato, la tutela della biodiversità, dall’altro.<br />

Quest’obiettivo di difesa e valorizzazione appariva sensato a fronte della percezione d’esistenza di alcune minacce,<br />

potenzialmente dirompenti: a) l’integrazione progressiva dei mercati, che avrebbe aperto libere praterie all’azione<br />

potente delle multinazionali alimentari e della ristorazione, foriere di modelli omologanti (e americanizzanti) e basati su<br />

un’idea di qualità ben più modesta; b) il progressivo strutturarsi delle reti commerciali alimentari in forme<br />

imprenditoriali complesse (e sempre più multinazionali anch’esse), con la decisa conquista del potere contrattuale a<br />

scapito dei piccoli produttori e delle produzioni di qualità; c) l’esposizione delle produzioni europee di maggiore<br />

prestigio e notorietà al fenomeno dell’imitazione da parte di produttori non europei, con la conseguente perdita di quote<br />

di mercato, volumi venduti, base produttiva e, conseguentemente, occupazione. La soluzione al problema fu individuata<br />

nell’istituzione di un sistema di certificazioni, articolato su tre livelli.<br />

L’<strong>Italia</strong>, campione del mondo delle produzioni a Denominazione d’Origine. Non capita molto spesso – ma<br />

comunque accade più frequentemente di quanto si creda – che il nostro Paese si ponga all’avanguardia mondiale per fatti<br />

positivi: il caso delle produzioni a DO è uno di questi. I prodotti certificati, in Europa, sono attualmente<br />

1.031(Fondazione Qualivita-Ismea). L’<strong>Italia</strong> è saldamente leader per numero di produzioni certificate – con 229<br />

denominazioni complessive (143 DOP, 85 IGP e 1 STG) – seguita dalla Francia con 184 (rispettivamente 82, 102) e<br />

dalla Spagna con 150 (di cui 79 DOP, 68 IGP e 3 STG).<br />

Nel 2010 gli operatori presenti nei comparti DOP-IGP in <strong>Italia</strong> censiti dall’Istat sono quasi 85mila, la cui attività<br />

interessa circa 147mila ettari di territorio. Il 94% di questi è rappresentato dai produttori (alcuni dei quali possono anche<br />

svolgere attività di trasformazione), entro i quali si contano circa 47mila allevamenti. In prevalenza si tratta<br />

d’insediamenti localizzati al Nord <strong>Italia</strong> (48%) e nelle zone collinari e di pianura.<br />

La quantità di prodotto a DO realizzata da questi player è considerevole e, in chiave di medio termine (2004-2010),<br />

pressoché costantemente in crescita, segno questo di una vitalità del comparto – che porta alla nascita, ogni anno, di<br />

nuove denominazioni – e di un suo ruolo fondamentale nella formula competitiva dell’agroalimentare italiano. Le DO<br />

italiane hanno generato nel 2010 un giro d’affari considerevole, stimato in circa 6 miliardi di euro alla produzione<br />

(+13,7% sul 2009) e circa 10 al consumo (+8%), i tre quarti dei quali sul mercato nazionale (+2,2% sul 2009).<br />

All’interno del comparto delle DO quasi l’83% del fatturato è realizzato da appena dieci prodotti. Rispetto alle singole<br />

categorie che compongono il settore, emerge che: i formaggi rappresentano la prima categoria a DO (57% sul fatturato<br />

alla produzione, 49% al consumo); Grana Padano, Parmigiano Reggiano, Gorgonzola, Mozzarella di Bufala e Pecorino<br />

Romano, i prodotti leader per quantità certificate. I prodotti a base di carne rappresentano la seconda categoria a DO<br />

(31% sul fatturato alla produzione, 41% al consumo). I prodotti leader per quantità certificate sono il Prosciutto di<br />

Parma, la Mortadella di Bologna, il Prosciutto San Daniele, la Bresaola della Valtellina e lo Speck dell’Alto Adige; i<br />

prodotti ortofrutticoli sono la terza categoria, ovviamente per loro natura con valori economici molto distanti dalle prime<br />

due (5% del fatturato). Volumi importanti si registrano per la Mela Alto Adige e Val di Non, seguita a lunga distanza<br />

dall’Arancia Rossa di Sicilia e dalla Cipolla di Tropea; gli aceti balsamici, coi loro 83 milioni di euro al consumo, sono<br />

al quarto posto – seguiti dagli oli extravergini di oliva (con 73 milioni di euro), dove l’olio Toscano e Terra di Bari sono<br />

le denominazioni più rilevanti per volumi – e dalle carni fresche; chiude la classifica una congerie di altri prodotti, dove<br />

il Pane di Genzano e quello di Altamura realizzano i volumi più significativi.<br />

Le produzioni italiane a DO, a dispetto di quanto ci si possa attendere, stentano a divenire dei veri alfieri del Made in<br />

Italy agroalimentare nel mondo: appena l’8% della produzione certificata, infatti, riesce ad oltrepassare la soglia dei<br />

mercati domestici e, di questa, circa un terzo si dirige al di fuori dell’Ue.<br />

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SCHEDA 37 | PROTEGGI OGGI IL NOSTRO PASTO QUOTIDIANO<br />

OVVERO I CARABINIERI CONTRO LE FRODI E LE SOFISTICAZIONI ALIMENTARI<br />

Il Comando Carabinieri Politiche Agricole e Alimentari è il Reparto Speciale dell’Arma istituito nel 1982 presso il Ministero delle<br />

Politiche Agricole Alimentari e Forestali per contrastare le frodi comunitarie e le frodi agroalimentari. In particolare, le sue unità<br />

operative, i NAC, Nuclei Antifrodi Carabinieri svolgono controlli straordinari sugli aiuti comunitari nel settore agroalimentare, della<br />

pesca ed acquacoltura, sulle operazioni di ritiro e vendita di prodotti agroalimentari, ivi compresi gli aiuti a Paesi in via di sviluppo e<br />

agli indigenti. Inoltre, esercita controlli specifici sulla regolare applicazione dei regolamenti comunitari con particolare riferimento<br />

alle produzioni con certificazioni di qualità (DOP, IGP, STG, Biologico) nonché alla disciplina sulla etichettatura e sulla tracciabilità<br />

dei prodotti. L’attribuzione duale dell’azione di controllo conferita al Comando Carabinieri Politiche Agricole e Alimentari sia sul<br />

fronte delle “frodi comunitarie”, intese in senso tecnico come le illecite erogazioni comunitarie, sia sul fronte delle “frodi<br />

agroalimentari” riferite agli illeciti nella qualità e sicurezza alimentare, risponde ad una visione unitaria e strategica che persegue il<br />

rigore nelle azioni di sostegno e la qualità delle produzioni per sostenere la filiera agroalimentare di fronte alle nuove dinamiche<br />

competitive globali. I dati di sintesi dell’azione di contrasto posta in essere nel settore nel biennio 2010-2011 dai Nuclei Antifrodi del<br />

Comando Carabinieri Politiche Agricole e Alimentari evidenziano: 2.828 aziende controllate, 16.000 tonnellate di prodotti sequestrati<br />

per un valore di 40 milioni di euro, ai quali vanno aggiunti altri 323 milioni relativi al valore complessivo dei beni immobili, conti<br />

correnti ed altri beni sequestrati; l’intercettazione di 24 milioni di euro di aiuti indebitamente ricevuti o richiesti, l’individuazione di<br />

656 violazioni penali e amministrative, 646 persone segnalate all’Autorità giudiziaria e 46 segnalazioni alla Corte dei Conti.<br />

L’Azione di contrasto alle Frodi Comunitarie. La Politica Agricola Comune assorbe attualmente il 40% circa del budget<br />

comunitario e per l’<strong>Italia</strong> si traduce in apporti finanziari stimati in circa 6 miliardi di euro annui per i pagamenti diretti della PAC.<br />

Secondo i dati dell’Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura negli ultimi anni gli aiuti diretti del fondo FEAGA erogati all’agricoltura<br />

italiana ammontano mediamente a circa 4,9 miliardi di euro mentre gli aiuti legati allo sviluppo rurale, fondo FEASR, consistono in<br />

circa 1,2 miliardi di euro (comprensivi della quota di co-finanziamento nazionale pari a 600 milioni di euro). A questi importi si<br />

aggiungono i non trascurabili stanziamenti per le forniture degli aiuti alimentari agli indigenti, per un valore di circa 1,2 miliardi di<br />

euro, gli aiuti interamente a carico del bilancio nazionale erogati al comparto agroalimentare per circa 11 milioni di euro nonché gli<br />

importi erogati in attuazione del programma di aiuto alimentare a favore dei paesi in via di sviluppo, circa 1 milione di euro.<br />

Solo di recente le Istituzioni europee hanno preso coscienza che in paesi come l’<strong>Italia</strong> l’elevato numero di frodi denunciate non è<br />

necessariamente indice di una maggiore propensione alla frode ma è soprattutto il risultato di un sistema di controlli particolarmente<br />

efficace. Le condotte criminose più diffuse riguardano: la falsa attestazione di conduzione di superfici agricole (anche di proprietà<br />

pubblica) finalizzata all’illecito percepimento del Premio Unico o all’illecito accesso alla distribuzione dei Titoli di aiuto da parte<br />

della Riserva Nazionale; l’attestazione di operazioni inesistenti (realizzazione o ammodernamento di strutture aziendali) o sovrastima<br />

dei costi di acquisto di macchinari e/o realizzazione di impianti finalizzate allo sviamento delle risorse assegnate dalle erogazioni dei<br />

fondi strutturali del comparto.L’azione di contrasto alle frodi comunitarie dei Nuclei Antifrodi Carabinieri ha consentito, nell’ultimo<br />

triennio, a fronte di circa 53,8 milioni di euro di finanziamenti verificati, di accertare finanziamenti illeciti per un valore di circa 32,7<br />

milioni di euro, pari al 60,8% del totale.<br />

L’Azione di contrasto all’agropirateria. L’azione di contrasto all’agropirateria da parte dei Nuclei Antifrodi Carabinieri ha<br />

consentito, nel solo biennio 2010/2011, di sequestrare 15.599 tonnellate di prodotti per un valore di 40 milioni di euro. Questi i<br />

principali illeciti riscontrati nel settore: falsa “evocazione” in etichetta e sui documenti di vendita di marchi DOP; introduzione nel<br />

circuito commerciale nazionale di pomodoro concentrato cinese non dichiarato in etichettatura e nei documenti di vendita, di<br />

pomodoro falso biologico, di prodotto privo di documentazione sulla tracciabilità nonché di pomodoro in cattivo stato di<br />

conservazione; commercializzazione anche nelle catene della grande distribuzione di formaggi e derivati evocanti falsamente marchi<br />

DOP nonché di carne ovina falsamente indicata come IGP; commercializzazione di false produzioni indicate come “biologiche” in<br />

specie nel settore delle carni; commercializzazione di “olio di oliva” o “olio di semi” alterato con la clorofilla, olio lampante o<br />

deodorato in luogo di olio extra vergine di oliva che ha riguardato anche il circuito della ristorazione; commercializzazione di prodotti<br />

ittici recanti nell’etichettatura e nei documenti di vendita false date di scadenza o di prelevamento (in particolare per molluschi<br />

bivalvi); presenza di latte vaccino, congelato o in polvere nella filiera della Mozzarella di Bufala Campana DOP.<br />

L’Azione di contrasto alla Criminalità organizzata. Le principali organizzazioni criminali hanno da sempre coltivato interessi<br />

anche nel comparto agroalimentare e certamente ad esse non sfugge il business legato ai finanziamenti comunitari, al controllo della<br />

logistica e alle nuove risorse del “greening”. La lotta alle frodi e alle contraffazioni alimentari è dunque protesa a contrastare la<br />

concorrenza sleale e le varie forme di illegalità che comportano distorsioni nel mercato agroalimentare, ove si insidiano anche gli<br />

interessi della Criminalità organizzata.<br />

Infatti, le linee evolutive della criminalità organizzata mostrato da tempo un sicuro interesse oltre che per il traffico di sostanze<br />

stupefacenti anche per la gestione della “criminalità d’affari”. È in tale ottica che va collocata la linea di basso profilo tenuta tanto<br />

dalle organizzazioni criminali tradizionali quanto dalle nuove forme di criminalità transnazionali che sembrano essere orientate alla<br />

rimodulazione delle attività verso vere e proprie forme di imprenditorialità criminale. È anche attraverso queste forme di criminalità<br />

economica che viene assicurato il controllo del territorio in cui i soggetti criminali operano come veri e propri soggetti economici che<br />

con metodi del condizionamento dei mercati, della corruzione dei pubblici funzionari, dello sfruttamento della manodopera<br />

clandestina, delle frodi alimentari e dell’agropirateria. A tal proposito il Reparto ha sviluppato una efficace azione di contrasto nei<br />

seguenti àmbiti: circuito dell’illegalità “d’affari”; condizionamento dei prezzi nei mercati;usura e attività estorsiva; circuito dell’ippica<br />

circuito illegale degli “agrofarmaci”; ircuito illegale delle energie alternative.<br />

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SCHEDA 38 | BIG PHARMA E IL RISCHIO DELL’IMPERIALISMO SANITARIO<br />

L’invenzione delle malattie. Se è difficile fornire una definizione di “malattia”, le difficoltà aumentano con quella di<br />

“non-malattia”, a partire dal fatto che il suo nome consiste in una litote. Il concetto diventa più chiaro quando si scorre la<br />

lista di alcune non-malattie individuate dal British Medical Journal: la solitudine, l’infelicità, la vecchiaia, la gravidanza.<br />

È normale che ogni società definisca il proprio malessere (e cerchi le modalità con cui curarlo o sublimarlo), ma<br />

etichettare come “malattie” quelle che sono condizioni di vita decisamente “normali” comporta esiti prevedibili:<br />

determinati malesseri corrono il rischio di essere “strumentalizzati”. Alla pari di ogni altra industria che opera nel<br />

mercato globale, la sanità necessita sempre di nuovi sbocchi e di allargare l’universo dei potenziali clienti e per fare<br />

questo si dota anche di un imponente marketing. Parlando di ricerca medica, è presumibile pensare che il bilancio delle<br />

aziende farmaceutiche sia dedicato in buona parte allo sviluppo e ai laboratori. Risulta apparentemente anomalo, quindi,<br />

che la voce più consistente, a livello di budget, fosse destinata nell’anno 2000 al non ben specificato “marketing e<br />

amministrazione”, peraltro ben differenziato, al proprio interno, poiché il 35% dei dipendenti delle case farmaceutiche<br />

era impegnato nel reparto marketing e il 12% in quello amministrativo, secondo i dati di PhRMA. Perché le aziende<br />

farmaceutiche hanno bisogno di un così imponente ufficio marketing? La risposta è semplice: per vendere i farmaci.<br />

L’elenco degli 8 farmaci più venduti negli Stati Uniti tra il 1998 e il 1999, messi a confronto con le rispettive quote<br />

pubblicitarie, mettono in evidenza come, ad esempio, per un antiulcera si siano spesi in promozione 79,4 milioni di<br />

dollari con un ritorno di vendite di circa 3.649 milioni di euro.<br />

Le malattie dimenticate. Il mancato accesso ai farmaci, anche a quelli essenziali, è spesso dovuto a una motivazione<br />

così semplice che non si riesce a estirpare: la povertà. Quest’ultima, come è intuibile, è legata a filo doppio con la<br />

malattia: i poveri si ammalano di più, sia perché impossibilitati a curarsi, sia perché solitamente vivono in condizioni<br />

socio-ambientali che facilitano la proliferazione di morbi e virus. Per quanto sia inaccettabile continuare a ritenere<br />

inevitabile l’associazione povertà e malattia, quasi che il povero sia tale “naturalmente”, se non addirittura per una sua<br />

qualche colpa (come se fosse inevitabile un quantum di povertà in ogni società), ci troviamo di fronte, in questo senso, a<br />

un problema strutturale, profondamente innervato nelle regole dell’economia di mercato. Diverso, invece, è il caso del<br />

mancato accesso alle cure o alle prestazioni sanitarie perché queste sono inesistenti. Le malattie “neglette” hanno la<br />

sfortuna di essere state ormai debellate nelle aree più ricche del mondo globale e di concentrarsi quasi esclusivamente<br />

nelle aree sottosviluppate, in quei paesi dotati di scarsa influenza politica ed economica, nelle zone prive di copertura<br />

mediatica: sono malattie “dimenticate” perché non fanno notizia nell’Occidente e non godono di attenzione politica. In<br />

più – come ulteriore aggravante – non producono profitti, ma solamente perdite: curare tali malattie costituirebbe un<br />

“fardello economico” per una industria farmaceutica che considera la malattia come un mercato, al pari degli altri.<br />

Chi pensa che la diffusione di malattie “eterodosse” (rispetto ai canoni ai quali siamo abituati, come utenti e potenziali<br />

malati, in Occidente) sia un problema che attenga solamente i diversi Sud del mondo sbaglia due volte: in primo luogo<br />

perché la rigida stratificazione sociale e la forte polarizzazione dei redditi che si riscontra in Occidente crea anche nei<br />

paesi industrializzati sacche di povertà e di degrado – dove periodicamente vengono avvistati focolai di morbi che si<br />

pensava essere debellati –, in secondo luogo perché l’Occidente conosce il fenomeno delle “malattie rare”, del tutto<br />

speculare a quello delle “malattie neglette”. I farmaci necessari per curare tali patologie, di conseguenza, vengono<br />

definiti “orfani”, in quanto privi dell’interesse dei produttori privati e del sostegno delle Amministrazioni pubbliche.<br />

A ben vedere, sia le “malattie neglette”, sia quelle “rare” sono vittima del diniego del mercato farmaceutico, seppur per<br />

motivi diversi: le malattie che coinvolgono una fetta minoritaria della popolazione (per quanto si parli sempre di diverse<br />

migliaia di pazienti) non hanno una domanda sufficiente a stimolare gli appetiti delle case farmaceutiche. Le “malattie<br />

neglette” o “malattie della povertà” offrono, di contro, un mercato sterminato, data la loro diffusione numerica, ma<br />

difficilmente “solvibile”, in quanto posizionato in aree depresse. L’apatia delle case farmaceutiche nei confronti delle<br />

malattie trascurate e molto trascurate si accentua negli ultimi anni e si concretizza nel limitato numero di nuovi farmaci,<br />

alcuni dei quali, peraltro, risultano essere nuove formulazioni o combinazioni di entità chimiche già conosciute.<br />

L’associazione Medici Senza Frontiere ha calcolato che, nel periodo dal 1975 al 1999, le suddette case farmaceutiche<br />

hanno sviluppato ben 179 medicinali contro le malattie cardiovascolari (che pure incidono per non più dell’11% sul<br />

totale mondiale delle patologie). Le malattie dimenticate, invece, producono annualmente oltre mezzo milione di morti.<br />

Le poco conosciute “malattie neglette” si sovrappongono inoltre alle tre “grandi malattie” (Hiv/Aids, malaria e<br />

tubercolosi), rendendo complicata la cura anche di queste ultime e ostacolando una oggettiva mappatura del carico di<br />

malattie di cui soffrono le popolazioni dei Sud del mondo.<br />

“Big Pharma” e l’imperialismo sanitario. La classifica delle prime dodici compagnie farmaceutiche stilata da Fortune<br />

500 fa emergere chiaramente che esse sono tutte concentrate in pochi paesi (con forte preferenza statunitense), e<br />

connotate dalla “chilometricità” delle denominazioni, composte da diversi cognomi. Questi ultimi denotano una sorta di<br />

“nobiltà economica”, dal momento che derivano dal processo di fusione che continua a caratterizzare il settore<br />

farmaceutico, restringendo sempre di più il novero delle grandi aziende: è da qui che nasce la definizione di “Big<br />

Pharma”, a indicare una sorta di moloch, un sistema farmaceutico altamente concentrato e oligopolistico, che determina<br />

la condizione di salute o di malattia di milioni di persone.<br />

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SCHEDA 39 | IL PROMETEO DEI LIBRI: INNOVAZIONE E TRADIZIONE<br />

Editoria in crisi? Nel 2009 l’industria editoriale è in crisi registrando una perdita del 4,3%. Il settore librario, ovvero<br />

quello che rappresenta la quota maggiore, produce 57.558 titoli per un totale di 208.165 copie ed una tiratura media di<br />

3.617. Tale dato diventa significativo se lo si confronta con i numeri relativi all’anno 2008: rispetto alle medesime<br />

variabili si evidenzia, infatti, una sottile flessione negativa (rispettivamente 58.829, 213.163 e 3623). Quest’ultima<br />

diventa ulteriormente pregnante se si considera che a partire dal 2007 l’industria editoriale registra una diminuzione dei<br />

titoli pari al 3,8% e delle copie del 12,2%. Il quadro che emerge mostra come si vada progressivamente verso una<br />

riduzione dell’offerta, spiegabile solo in parte con il fatto che in <strong>Italia</strong> la lettura, quale che sia la sua funzione, tocca<br />

meno del 50% della popolazione sopra i sei anni: si legge sempre meno, sebbene aumenti il numero dei lettori forti.<br />

Secondo il <strong>Rapporto</strong> sullo stato dell’editoria in <strong>Italia</strong> 2011, a cura dell’ufficio di studi AIE, nel 2010 il mercato editoriale<br />

italiano torna a crescere, seppure di uno 0,3% (coadiuvato anche da un segno positivo riguardante l’aumento del numero<br />

dei lettori rispetto al 2009) per un fatturato complessivo di 3,4 miliardi di euro. Si conferma, tuttavia, una riduzione dei<br />

titoli e delle copie. La crisi economica è, senz’altro, la chiave per spiegare una simile riduzione dell’offerta; tuttavia, si<br />

rende opportuno comprenderne il significato anche alla luce dei mutamenti che tutta la filiera editoriale sta attraversando,<br />

filiera sempre più attenta alle possibilità offerte dal web e dalle tecnologie digitali. Ne sono un esempio il servizio<br />

Arianna+ e la nuova realtà del print on demand. Il primo è un servizio dedicato a tutti gli operatori del mondo del libro,<br />

attraverso un sito che aggiorna settimanalmente i nuovi titoli degli editori registrati, quelli attualmente in libreria e quelli<br />

di prossima pubblicazione; inoltre, sono disponibili dati delle classifiche dei libri più venduti e approfondimenti in<br />

merito ai dati di produzione e di vendita. Il secondo, l’editoria on demand, nata grazie allo sviluppo delle tecnologie<br />

digitali, rappresenta una valida alternativa al comune canale di vendita, utile soprattutto per una produzione di nicchia e<br />

settoriale (si pensi alla letteratura scientifica e accademica) a tiratura limitata e da cui possono trarre vantaggio<br />

soprattutto gli autori emergenti. Nel solo biennio 2006-2007 il numero di editori che si è avvicinato alla stampa digitale o<br />

al print on demand è quasi raddoppiato: è passato dai 235 del 2006 ai 413 del 2007. Sebbene il numero degli editori che<br />

ricorrono a queste nuove modalità sia ancora ridotto rispetto alle realtà editoriali esistenti (il totale degli editori censiti<br />

per il 2006 è di 7.547 e per il 2007 è di 8.373), il dato è comunque indicativo di una tendenza sempre più diffusa nel<br />

mondo editoriale, ossia quella di sfruttare al massimo le chances offerte dalle nuove tecnologie e da Internet, laddove<br />

soprattutto si cerca di rispondere al crescente pubblico di clienti orientati all’e-commerce anche per quel che concerne il<br />

comparto editoriale.<br />

Una nuova realtà. Si è accennato al fatto che l’editoria degli ultimi venti anni abbia inglobato elementi dapprima<br />

estranei all’editoria tradizionale della carta stampata, creando un mercato in cui il libro, seppure primeggiando, deve<br />

condividere i suoi spazi con prodotti elettronici (cd-rom e dvd), servizi digitali (banche dati e servizi Internet) ed e-book:<br />

un mercato digitale, insomma, che rappresenta attualmente il 10% del mercato editoriale complessivo, valore per lo più<br />

stazionario dal 2007 al 2010. La ricerca condotta da Francesca Vannucchi nel 2009, Gli editori e la rete, è volta proprio<br />

ad indagare i due elementi del binomio fornendoci dei dati interessanti. L’indagine, seppur parziale, poichè ha preso in<br />

esame le sole case editrici che si occupano di narrativa aventi un indirizzo internetattivo, è comunque significativa di un<br />

fenomeno divenuto ormai parte integrante del settore di business dell’e-commerce. È da considerare come l’utilizzo di<br />

Internet da parte delle case editrici sia considerevolmente aumentato nel lasso di tempo che va dal 1995 (in cui solo 14<br />

case editrici ne facevano uso) al 2009 (sono 5.367 le case editrici che ricorrono al mercato on line su un totale di 10.103<br />

marchi censiti). La crescita maggiore si è avuta nel periodo dal 1995 al 2006 per poi registrare una fase di assestamento<br />

dal 2007 al 2009. La forte crescita iniziale del fenomeno si spiega con l’ingresso di Amazon nel mercato on line,<br />

marchio che ha giocato un ruolo importante anche nel decidere il futuro dei dispositivi e-book, grazie al concept<br />

innovativo del sito, non semplice negozio on line, ma vero e proprio aggregatore sociale che, mediante gli strumenti del<br />

collaborative filtering, crea una vera e propria comunità fidelizzata.<br />

Il mercato degli e-book. Quello degli e-book in <strong>Italia</strong> è un mercato estremamente giovane, per cui risulta abbastanza<br />

difficile tracciarne un quadro rappresentativo ed esauriente: nasce nel 2010 offrendo a gennaio 1.601 titoli italiani attivi<br />

in formato e-book (ovvero leggibili su un dispositivo dedicato), per arrivare a 6.950 a fine anno per un fatturato di 1,5<br />

milioni di euro ed un totale di 380.000 e-reader venduti (il prezzo medio di un reading device è ancora abbastanza alto,<br />

tra i 200 e i 300 euro). L’Ufficio studi Aie rileva inoltre che la quota di mercato rappresentata dagli e-book sul mercato<br />

totale del libro è ancora decisamente modesta, lo 0,05%, soprattutto se confrontata con le percentuali relative agli Usa (8-<br />

10%) e al Regno Unito (2-3%); i restanti paesi dell’Ue considerati mostrano, invece, un mercato certamente più vitale di<br />

quello italiano, tuttavia non troppo brillante (in Francia la quota di mercato è del’1,5%; in Spagna non supera lo 0,1%,<br />

mentre in Germania si attesta allo 0,5%). Se il decollo del mercato italiano degli e-book sembra stentare nel 2010, il<br />

2011 registra un progressiva accelerazione, come dimostrano le cifre relative all’offerta dei titoli e-book che da 6.950 del<br />

dicembre 2010 arrivano a: 7.559 a gennaio 2011; 8.186 a febbraio 2011; 8.932 a marzo 2011; 11.271 a maggio 2011;<br />

17.951 a settembre 2011; 18.816 a novembre 2011; 19.500-20.000 a dicembre 2011 (previsione). Significativo che dei<br />

342 editori di e-book attualmente in <strong>Italia</strong> più dei 2/3, ovvero 284, siano piccoli editori; ancora più significativo il fatto<br />

che nel 2010 fossero solo 94, a dimostrazione di come i fenomeni legati alla Rete e alle nuove tecnologie digitali possano<br />

rappresentare un’alternativa di sviluppo soprattutto per quelle realtà medio-piccole altrimenti poco raggiungibili dal<br />

mercato tradizionale.<br />

69


SONDAGGIO SCHEDA 40 | IL POSSESSO DEI BENI MATERIALI, IL CONSUMISMO<br />

Solo il 3,1% non ha una Tv. La maggior parte ne possiede due (43,9%) o tre (22,8%). Stando ai risultati emersi<br />

dall’indagine dell’<strong>Eurispes</strong> di quest’anno, quasi la metà del campione (43,9%) possiede due televisori, seguito dal 22,8%<br />

di coloro che ne hanno tre e dal 21% che dichiara di averne uno soltanto, mentre l’8,6% ne possiede addirittura quattro o<br />

più, contro il 3,1% di coloro che ne fanno a meno. Per quanto riguarda i computer è invece il 47,2% ad averne uno in<br />

casa, seguito dal 27,2% di chi ne possiede due, dal 12,8% di coloro che dichiara di non averne, dal 7,3% di chi ne<br />

possiede tre e dal 4,2% che ne ha quattro o più.<br />

Hi-Fi e Dvd in oltre la metà delle case. Ad essere dotato di un impianto Hi-Fi è il 54,9% degli intervistati, contro il<br />

33,4% di chi non lo possiede, mentre è in possesso di un lettore Dvd il 58,8%, contro il 17,9% e il 17,2% di coloro che<br />

dichiarano di averne rispettivamente nessuno e due. La consolle per videogiochi (Playstation, PSP, XBox e /o Wii) resta<br />

ancora fuori da più di metà (57,8%) delle nostre case, essendo posseduta da un terzo del campione (30,2%) e dal 6,6% di<br />

coloro che dichiarano di averne due. A possedere uno o più Tablet è invece il 16,9%, contro il 78,7% di chi non lo<br />

possiede. Il lettore Mp3 vede una suddivisione abbastanza equa tra chi non lo possiede (39,7%) e chi ne ha uno (36%),<br />

facendo registrare un possesso multiplo nel 20,1% dei casi (il 15,1% ne possiede due, il 3,3% tre e l’1,7% 4 o più).<br />

Tutti con il cellulare: l’81,4% ne ha almeno uno di base. Uno su due ha in tasca o in borsa uno smart-phone.<br />

Parlando di cellulari con funzioni base, il 35,4% ne ha uno, il 25,7% ne ha due, l’11,5% tre e l’8,8% quattro o più, di<br />

contro il 15,5% dichiara di non possederne. Possiede uno smart-phone quasi la metà del campione (47%): il 25,4% ne<br />

uno, il 14,5% ne ha due, il 5% arriva a quota tre e il 2,1% a quattro; l’altra metà (48,2%) non possiede uno smat-phone.<br />

La propensione agli abbonamenti: Internet, satellitari e digitali. La disponibilità del collegamento ad Internet per<br />

mezzo di un abbonamento è ormai largamente diffusa (75%). Per quanto Internet sia di uso comune, lo stesso non si può<br />

dire dei canali satellitari e digitali a pagamento: tra questi esiste comunque un distacco, che vede il 27,8% degli<br />

intervistati pagare un canone di abbonamento per usufruire dei canali messi a disposizione dalla Tv satellitare e il 17,7%<br />

preferire (o avere in aggiunta) i canali digitali a pagamento.<br />

L’abbonamento a Internet è un’abitudine riscontrata in un alto numero di persone dai 18 ai 64 anni, con percentuali che<br />

decrescono in modo quasi progressivo dalle fasce di età più giovani a quelle più adulte (lo conferma il 93,8% dei 18-<br />

24enni, l’84,7% dei 25-34enni, l’80,9% dei 35-44enni e il 79% dei 45-64enni). Sotto la soglia della metà del campione<br />

(44,9%) si colloca invece il numero di persone di 65 anni e oltre che hanno in casa un abbonamento a Internet.<br />

Nonostante però il dato non sia in linea con quello delle altre fasce d’età resta un buon indicatore circa il cambiamento di<br />

abitudini della nostra popolazione. I canali satellitari e digitali a pagamento sono preferiti dai più giovani<br />

(rispettivamente il 33% e il 28,6%), seguiti dai 35-44enni (33% e 22,2%), dai 25-34enni (28,2% e 18,6%), dai 45-64enni<br />

(27,2% e 14,3%) e dagli ultra65enni (20,5% e 12,7%).<br />

La propensione a sottoscrivere abbonamenti per usufruire dei servizi Internet e dei canali satellitari a pagamento è<br />

maggiormente diffusa sul territorio dell’area Nord-Ovest (85,5% e 33,5%) e nelle Isole (80,3% e 39,4%), seguiti, per<br />

quanto riguarda l’abbonamento a Internet, dal Centro (74%), dal Nord-Est (70,4%) e dal Sud (69,1%) e per quanto<br />

riguarda i canali satellitari, dal Sud (27,2%), dal Nord-Est (24,5%) e dal Centro (20,8%). A preferire invece<br />

l’abbonamento ai canali digitali a pagamento è il Sud (20,3%), cui seguono Centro, Isole e Nord-Ovest (17,8%, 17,6% e<br />

17,1%) e il Nord-Est (15,5%).<br />

Le abitudini allo svago tra rinuncia e fruizione. La crisi ha pesato parecchio sulle tasche e ha inevitabilmente inciso<br />

sulle abitudini di consumo. Il “lusso” a cui gli italiani non rinunciano volentieri è la frequentazione di locali e ristoranti:<br />

ad indicare di avere pranzato o cenato fuori qualche volta e spesso nel corso 2011 è rispettivamente il 41,7% e il 9,4%<br />

del campione. Tutte le altre risposte fanno invece registrare un comportamento contrario: che si tratti di acquistare<br />

oggetti di antiquariato, di frequentare centri benessere, di fare acquisti in gioielleria o di comprare biglietti per concerti e<br />

rappresentazioni teatrali, nell’anno appena trascorso sono almeno i tre quinti del campione a dichiarare di non avere<br />

destinato mai, o di averlo fatto raramente, parte della propria spesa per seguire le abitudini sopra citate. Nello specifico<br />

l’87,7% non ha mai acquistato beni antiquari, il 77% non ha mai frequentato un centro benessere e il 13,3% lo ha fatto<br />

solo qualche volta; il 66,5% non ha mai fatto acquisti in gioielleria (e lo ha fatto raramente nella misura del 24,3%,<br />

contro il 7,5% che dichiara di averlo fatto qualche volta), mentre a non avere mai speso soldi per l’acquisto di biglietti<br />

per concerti o teatro è il 59%, seguito dal 25,3% di coloro che lo hanno fatto raramente e dall’11,8% di quanti invece<br />

qualche volta non vi ha rinunciato. Ancora, tra chi non ha fatto alcun viaggio al di là delle vacanze estive, chi ha<br />

rinunciato all’acquisto di capi di marca e ai trattamenti estetici troviamo il 49,2%, il 40,4% e il 40,3% degli intervistati,<br />

cui si aggiunge più di un quarto del campione che dichiara di averlo fatto soltanto qualche volta nel corso dell’ultimo<br />

(20,9%, 20,7% e 21,8%).<br />

Gli uomini sembrano far registrare maggiore spirito di sacrificio. L’unico caso in cui le donne hanno risposto “mai”<br />

in misura maggiore rispetto agli uomini riguarda l’acquisto di oggetti di antiquariato: a non averlo effettuato è infatti<br />

l’88,8% delle femmine contro l’86,7% dei maschi (+2,1%). Le persone di 65 anni e oltre rappresentano la categoria che<br />

più delle altre ha rinunciato ad una serie di distrazioni per via di una minore disponibilità economica rispetto alle classi<br />

più giovani della popolazione, di una minore abitudine a spendere per beni e servizi accessori o di una maggiore<br />

propensione al risparmio. Hanno infatti risposto “mai” e “raramente” nel 94,6% dei casi circa i centri benessere,<br />

nell’89,7% sull’acquisto di gioielli, nell’86,8% sulla spesa per concerti o teatro (a pari merito con la classe d’età<br />

70


immediatamente inferiore), nell’85,4% sui viaggi, nel 72,7% circa i trattamenti estetici e nell’81% sull’acquisto di capi<br />

di abbigliamento griffati. I più giovani, al contrario, dai 18 ai 34 anni, hanno abitudini di comportamento più simili tra<br />

loro e mostrano una maggiore propensione ad andare almeno qualche volta a mangiare al ristorante (il 51,4% dei 25-<br />

34enni e il 49,1% dei 18-24enni). Questa consuetudine è indicata in misura minore man mano che aumenta l’età: è stato<br />

qualche volta a mangiare fuori il 43,5% dei 35-44enni, il 38,7% dei 45-64enni e il 32,2% degli over 65.<br />

“Italie” a confronto. Aggregando le risposte “qualche volta” e “spesso” è possibile tracciare un ideal-tipo di<br />

comportamento che distingue il meridionale dal settentrionale dall’italiano del Centro. A considerare più degli altri le<br />

attività e le abitudini proposte come “irrinunciabili” sono gli abitanti del Nord-Ovest e quelli delle Isole. I primi infatti<br />

hanno dichiarato di aver mangiato “qualche volta” e “spesso” al ristorante nel 67,5% dei casi, contro una media tra le<br />

altre regioni del 47,7% e di aver viaggiato per svago, oltre alle vacanze estive, nel 32% dei casi contro una media del<br />

20,8%. Gli isolani primeggiano per l’acquisto di scarpe, calzature e borse firmate (38,7% contro 21,4% di media delle<br />

altre regioni), l’attenzione ai trattamenti estetici (40,1% contro 29,5%, tenendo presente che il Nord-Ovest si attesta a<br />

quota 36,5%), l’acquisto di biglietti per concerti o spettacoli teatrali (21,8% contro 12,3% di media, su cui incide il 18%<br />

del Nord-Ovest) e l’acquisto di gioielli (ben 20,4% contro 6,4%). In fondo alla classifica, tra le attività meno praticate,<br />

troviamo il 13% di quanti nel Nord-Ovest dichiarano di aver frequentato centri benessere contro una media del 7,5% e il<br />

4,9% di isolani che hanno reso noto di aver effettuato spese per l’acquisto di oggetti di antiquariato contro una restante<br />

media del 2%. La relazione diretta esistente tra il conseguimento di un titolo di studio e l’occupazione lavorativa indica<br />

che coloro che hanno conseguito un livello di istruzione inferiore hanno una minore propensione ad usufruire di<br />

passatempo e destinare le proprie risorse economiche (presumibilmente inferiori rispetto a coloro che hanno un titolo di<br />

studio superiore) ad attività accessorie, non necessarie. Nella lista dei “mai”, confrontando questi con chi possiede invece<br />

una laurea o un master, troviamo infatti il 96,4% e l’82,5% di quanti non hanno fatto acquisti da un antiquario, il 94,5%<br />

contro il 41,3% di coloro che non hanno assistito a pagamento a concerti o rappresentazioni, il 92,7% contro il 32% di<br />

coloro che non sono stati in vacanza se non durante il periodo estivo, il 90,9% conto il 67% di quanti non hanno<br />

usufruito dei servizi offerti all’interno dei centri benessere, l’89,1% contro il 58,1% di coloro che hanno risparmiato sulla<br />

spesa in gioielleria, il 67,3% contro il 26,7% di chi ha acquistato capi d’abbigliamento non griffati, il 56,4% contro il<br />

32,7% di coloro che hanno preferito non usufruire di trattamenti estetici e il 45,5% contro solamente il 3,3% di quanti,<br />

infine, non sono mai stati al ristorante nel corso del 2011.<br />

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CAPITOLO 5<br />

GENITORI/FIGLI<br />

GENITORI OGGI: ATTESE, ESIGENZE, PROBLEMI, CRITICITÀ<br />

Nuove famiglie. La famiglia ha subìto trasformazioni estese nell’ultimo mezzo secolo, passando da un modello “nucleare”<br />

tradizionalmente “chiuso”, ad una ampia, variamente intesa e soprattutto in continuo cambiamento. Alla famiglia triadica genitori-figli si<br />

sono affiancate famiglie monogenitoriali composte da un solo genitore con un figlio, raramente due: le nuove forme familiari<br />

raggiungono ormai cifre altissime. Si aggiungono poi famiglie ricostituite non coniugate, famiglie omosessuali, famiglie composte da<br />

amici, da fratelli e da single.<br />

Il “terzo genitore”. Da un punto di vista statistico, secondo l’Istat sono circa mezzo milione le famiglie “allargate” in <strong>Italia</strong>, intendendo<br />

con questo termine coppie in cui almeno uno dei due partner ha alle spalle un precedente matrimonio o una separazione. Quanto ai<br />

risvolti di tipo psico-pedagogico, la famiglia allargata instaura una serie di relazioni multiple che vanno ad aggiungersi a quelle<br />

biologiche: rapporto fra nuovo partner e figli del precedente, rapporto tra figli di precedente e di nuova unione, rapporto fra attuale coppia<br />

ed ex coniuge (o partner), rapporto dell’adulto e dei propri figli con i genitori del nuovo partner…). Il coesistere di genitori biologici e<br />

genitori “sociali” pone anche delicati problemi di ordine giuridico, in merito alle responsabilità (ma anche alla tutela) dei secondi. Alcuni<br />

trovano giusto stabilire a carico del “terzo genitore” doveri nei confronti del minore convivente, e legittima – anzi meritoria – la richiesta<br />

di tutela da parte di uomini e donne che hanno assunto comunque funzioni genitoriali, a volte stabilendo rapporti di grande affetto con<br />

bambini e ragazzi; altri temono che una equiparazione giuridica porti al rischio che la figura del padre biologico si offuschi di fronte a<br />

quella del padre sociale.<br />

Nuovi padri e madri. Il cambiamento della famiglia ha portato con sé il cambiamento dei suoi componenti. I genitori si sono trasformati<br />

entrambi, ma la figura paterna vive una realtà del tutto nuova: può esprimere la sua sensibilità, la sua tenerezza, le sue emozioni nei<br />

confronti dei figli. Anche la dimensione meno autoritaria e più comprensiva ed empatica con la quale il padre vive il rapporto con i figli<br />

costituisce una novità importante. Nuova è pure l’elasticità di ruoli, intesa come intercambiabilità, fra padre e madre. Altri caratteri di<br />

novità si riscontrano nei genitori di oggi: probabilmente anche a causa della ridotta natalità e dell’allungamento dell’età media del primo<br />

parto si osserva un forte aumento di comportamenti apprensivi nei riguardi dei figli. Genitori iper-ansiosi, a fine di bene naturalmente,<br />

che talvolta superano i limiti fisiologici di controllo e protezione ed entrano di diritto nella patologia: e le attenzioni eccessive dei genitori<br />

possono pregiudicare un corretto sviluppo dei figli.<br />

Figli “bamboccioni”. Eccoli qua: ragazzoni che a 35 anni non intendono lasciare la casa dei genitori. Non solo e non sempre per<br />

obiettive difficoltà lavorative, ma spesso perché a casa di papà e mamma si trovano benissimo, godono di tutti gli agi e non è richiesta<br />

loro alcuna assunzione di responsabilità. I figli sono troppo legati ai genitori, ma i genitori non lo sono da meno, abdicando così a quel<br />

compito di spingere i figli fuori della famiglia, verso l’autonomia e l’indipendenza: oggi sono spesso gli stessi genitori a farsi complici o<br />

fautori di una prolungata convivenza con i figli, figli che, in questo modo non crescono mai.<br />

I genitori del “sì”. Per secoli i genitori hanno affrontato lo “scontro” con i figli, passaggio doloroso eppure necessario: quel conflitto era<br />

come un prolungato rito di passaggio, segnava l’abbandono di uno stato e il trasferirsi in un altro, più adulto, più maturo. Oggi in molte<br />

famiglie i rapporti verticali sono stati sostituiti da rapporti orizzontali, il padre-amico ha sostituito non solo il padre autoritario, ma anche il<br />

padre autorevole, il padre della regola. Lo scontro generazionale non ha più ragion d’essere, il conflitto si è quietato in una pace tuttavia<br />

sospetta, perché troppo “comoda”: evita stress, evita il conflitto. Ma se non c’è ostacolo, alterità, non c’è formazione.<br />

Separazione e bi-genitorialità. C’è un momento della vita nel quale l’essere genitore subisce un doloroso, brutale contraccolpo: il<br />

momento della separazione e dell’affidamento dei figli. La tipologia di procedimento scelta in prevalenza per la separazione è quella<br />

consensuale, ma dietro ad essa, spesso, non c’è un vero accordo.<br />

Quanto all’affidamento dei figli, la legge non distingue più, come in passato, tra genitore affidatario e quello con “diritto di visita”,<br />

adottando la soluzione di affidamento condiviso laddove possibile. Non può esserci, infatti, automatismo nella applicazione, ed è<br />

necessaria la valutazione discrezionale del giudice con riferimento all’interesse del minore.<br />

Quella della separazione è una fase che investe come un cataclisma la vita della coppia e, quel che è peggio, dei figli: dovrebbe indurre a<br />

recuperare le proprie risorse positive, attivare la parte migliore di sé, far emergere senso di responsabilità verso i figli, maturità,<br />

correttezza… In realtà, è facile che avvenga esattamente il contrario e che emergano delusione, rancore, dolore, frustrazione, senso di<br />

vuoto, timore del futuro, paura per il rapporto con i figli… Tutto questo scatena spesso una conflittualità esasperata che ricade sui figli.<br />

Ma nulla dovrebbe giustificare un conflitto che strumentalizza i figli e ne fa insieme partigiani e vittime. Due sono i genitori, nel bene e<br />

nel male. Due devono continuare ad essere anche nel momento della separazione. Per sottolineare questo principio, si sono elaborati il<br />

termine e il concetto di “bi-genitorialità”: padre e madre sono egualmente indispensabili al corretto sviluppo dei figli, al loro equilibrio<br />

armonioso. Fin dalla nascita si richiede la presenza di entrambi, con ruoli e funzioni complementari e talora elastici.<br />

Alcune conclusioni. I genitori di oggi sono sommersi da messaggi, stimolati, guidati, allettati… eppure, o forse proprio per questo,<br />

appaiono insicuri, disorientati, desiderosi di punti di riferimento, di occasioni di confronto, poiché queste molteplici informazioni sono<br />

spesso contraddittorie. Una maggiore sensibilità nei confronti dell’infanzia e una più diffusa conoscenza dei meccanismi psicologici e<br />

pedagogici, attraverso forme di divulgazione mediatica, hanno fatto sì che caratteri, compiti, ruoli e funzioni dei genitori siano di continuo<br />

sotto la lente. Con un doppio esito: rendere padre e madre più attenti, consapevoli e partecipi, ma anche ingenerare in essi il dubbio, lo<br />

sconcerto, il timore di sbagliare, la quotidiana necessità di fare delle scelte, molto spesso da soli.<br />

72


SONDAGGIO SCHEDA 41 | BENESSERE NELLA TERZA ETÀ<br />

L’indagine campionaria svolta quest’anno dall’<strong>Eurispes</strong> sulla condizione degli anziani si è concentrata sulle relazioni<br />

sociali, gli interessi, le attività e gli impegni, la loro apertura alla modernità e l’autosufficienza. La maggioranza degli<br />

ultra64enni con il coniuge (55,9%). Un considerevole 17,6% vive, oltre che con il coniuge, con almeno un figlio, mentre<br />

il 14,1% vive solo ed il 4% con uno o più figli. Rappresentano una minoranza gli anziani che vivono con altri parenti<br />

(3,5%); solo lo 0,4% divide la casa con un badante o un domestico. Se la quota degli anziani che vivono da soli risulta<br />

omogenea nelle diverse aree geografiche del Paese, variazioni significative si registrano rispetto alla quota di chi vive<br />

con coniuge e figli, con valori alti al Sud (27,6%) ed al Nord-Ovest (27%). Soprattutto al Centro (l’11,4%) gli over64<br />

vivono con parenti diversi dal coniuge e dai figli.<br />

Una visione positiva della terza età. La maggioranza (45,4%) considera la terza età un’occasione per dedicarsi di più a<br />

se stessi e ai propri interessi, il 27,8% considera invece l’età matura come una fase di declino, mentre per il 19,4% si<br />

tratta di un periodo in cui ci si può riposare. Sono soprattutto gli uomini che vedono questa fase della vita come<br />

un’occasione per coltivare i propri interessi personali (48,5% contro il 41,2% delle donne), mentre le donne la<br />

identificano con un momento nel quale è possibile concedersi un po’ di riposo (22,7% contro 16,9%). Nei soggetti con<br />

basso livello di istruzione è decisamente più frequente che in quello con livello alto, una visione più negativa e passiva<br />

della vecchiaia: ben il 43,6% di chi è privo di titolo o possessore di licenza elementare vede la terza età come una fase di<br />

declino, percentuale che si abbassa all’innalzarsi del titolo di studio fino a raggiungere un contenuto 18,4% nei laureati.<br />

Le paure legate all’età: malattie e perdita di autonomia. Le malattie rappresentano il principale timore associato alla<br />

condizione anziana (48,7%). Al secondo posto, indicata in un caso su 5 (21,9%), si trova la paura di non essere più<br />

autonomi. Segue la paura della solitudine (10,5%), di sentirsi inutile (7,5%), di trovarsi in difficoltà economiche (6,1%).<br />

Le donne in misura maggiore indicano come prima paura le malattie (51,5% contro 44,9%) e allo stesso tempo temono,<br />

più degli uomini, la solitudine negli anni della vecchiaia (15,3% contro 6,9%).<br />

Le occupazioni più frequenti nel tempo libero sono incontrare amici, parenti, stare con i nipoti e dedicarsi alla<br />

lettura di libri o quotidiani. La metà del campione incontra spesso i propri amici, il 38,6% qualche volta; il 43,6% vede<br />

spesso i parenti, il 41,9% qualche volta. Ben il 60,9% di chi ha nipoti sta spesso insieme a loro, il 20,1% qualche volta.<br />

Sempre nel tempo libero, le uniche attività realmente diffuse risultano essere la lettura di quotidiani (il 43% lo fa spesso,<br />

il 32,5% qualche volta) e libri (il 27,6% spesso e il 35,1% qualche volta). Le altre attività rimangono appannaggio di una<br />

minoranza: oltre un terzo fa attività fisica spesso o qualche volta (36,1%: il 12,8% spesso ed il 23,3% qualche volta),<br />

quasi un terzo coltiva un hobby (il 9,7% spesso, il 21,6% qualche volta). Solo il 22% frequenta mostre o musei qualche<br />

volta o spesso, il 16,3% va al cinema, il 12,4% a teatro o concerti. Il 17,2% viaggia per svago qualche volta (13,7%) o<br />

spesso (3,5%), il 13,6% svolge attività di volontariato, il 13,2% frequenta centri e luoghi di ritrovo per anziani.<br />

Sono soprattutto le relazioni umane, fortunatamente, a riempire la vita della maggioranza degli anziani, anche se non<br />

manca una percentuale minoritaria, ma preoccupante, che riferisce di non vedere mai o quasi le persone care: il 13,2%<br />

non vede mai o solo raramente parenti, il 9,7% amici, il 10,6% i nipoti.<br />

Le donne vanno meno spesso al cinema (il 54,6% mai, a fronte del 46,9% degli uomini), e sono nettamente più numerosi<br />

fra gli uomini coloro che leggono regolarmente i quotidiani (51,5% contro 31,6%) e svolgono attività fisica (non ne<br />

svolge mai solo il 31% a fronte di un più sostenuto 40,8% delle femmine) e nel coltivare hobby (36,9% contro 49,5%).<br />

Le ultrasessantaquattrenni, invece, appaiono decisamente più attive sul piano delle relazioni famigliari: è più elevata che<br />

fra i loro coetanei la percentuale di chi incontra spesso parenti (48,5% contro 40%) e nipoti (66,2% contro 57,1%). Gli<br />

uomini coltivano però maggiormente i rapporti sociali extrafamigliari: il 54,6% vede spesso gli amici, a fronte del 43,9%<br />

delle donne.<br />

Anziani e rapporto con le nuove tecnologie. L’apparecchio tecnologico utilizzato più comunemente anche dagli<br />

ultrasessantaquattrenni è, come prevedibile, il cellulare: la maggioranza lo utilizza con regolarità (il 27,2% tutti i giorni,<br />

il 26,3% spesso), solo il 6,6% non lo usa mai ed un 6,1% non sa usarlo. Seguono poi il computer ed Internet: circa la<br />

metà utilizza questi due strumenti anche se con tempi di fruizione differenti (47,7% e 45,8%), mentre un’altra metà<br />

ammette il proprio analfabetismo informatico (il 38,6% per il pc ed il 37,9% per Internet) oppure dichiara di non farne<br />

mai uso. I quotidiani online, ancora poco diffusi nella terza età, sono consultati tutti i giorni solo dal 5,3% ed ignorati<br />

dalla netta maggioranza degli intervistati (73,6%). Ancor meno frequente risulta l’utilizzo di You Tube e del Social<br />

Network per eccellenza, Facebook: li consultano tutti i giorni rispettivamente l’1,8% ed il 4% degli intervistati (non li<br />

usa o non li sa usare rispettivamente l’81,9% ed il 77,5%). I dati confermano che per il momento, nel nostro Paese, solo<br />

una minoranza di persone mature può vantare reale dimestichezza con le moderne tecnologie, che rimangono in larga<br />

parte appannaggio dei giovanissimi, dei giovani, e di buona parte degli adulti ancora attivi. Se nel caso di You Tube e<br />

Facebook lo scarso utilizzo da parte degli anziani può anche essere messo in relazione con strumenti e linguaggi non del<br />

tutto in linea con la loro età e la loro formazione culturale.<br />

Gli uomini laureati sono i più tecnologici tra gli over64. Lo scorporo dei dati per sesso evidenzia un netto primato<br />

maschile nell’utilizzo delle tecnologie. La differenza, ancora abbastanza contenuta nell’uso del cellulare (il 9,2% delle<br />

donne non sa usarlo contro il 3,8% degli uomini), risulta macroscopica nel caso del computer e di Internet. Oltre la metà<br />

delle donne (51%) non sa usare il pc, a fronte del 29,2% degli uomini; il 26,2% dei maschi lo usa tutti i giorni, a fronte di<br />

73


un modestissimo 3,1% delle donne. Situazione analoga per Internet: il 49,5% delle donne non sa navigare, contro il<br />

29,2% degli uomini; il 20% degli uomini naviga tutti i giorni contro il 3,1% delle donne.<br />

La minore dimestichezza femminile con la Rete risulta confermata nelle sue diverse applicazioni – giornali online, You<br />

Tube, Facebook. I due sessi si differenziano soprattutto per un utilizzo maschile nettamente più diffuso dei quotidiani<br />

online: il 51,5% delle donne non sa usarli ed il 33% non li consulta mai, contro, rispettivamente, il 33,8% ed il 31,5%<br />

degli uomini. Gli uomini, d’altra parte, sono lettori più assidui dei quotidiani anche nella loro tradizionale versione<br />

cartacea. Il 55,3% degli ultrasessantaquattrenni laureati usa tutti i giorni il cellulare, a fronte di un modesto 7,7% dei<br />

privi di titolo o possessori di licenza elementare (il 25,6% dei quali afferma di non saperlo neanche usare). Le percentuali<br />

aumentano in modo chiaro all’innalzarsi del titolo di studio; i diplomati, con il 29,9% di soggetti che riferiscono un uso<br />

quotidiano del telefonino, si collocano in una posizione intermedia.<br />

Il 44,7% dei laureati usa il computer tutti i giorni, il 31,6% Internet, a fronte di percentuali inferiori al 5% riscontrate tra i<br />

non diplomati (oltre l’84% dei privi di titolo o possessori di licenza elementare ammette di non saperli neppure usare). I<br />

diplomati, sempre in posizione intermedia, usano il pc tutti i giorni nel 20,8% dei casi ed Internet nel 17,1%, ma la quota<br />

di chi non sa usare questi mezzi risulta bassa come fra i laureati.<br />

Per quanto riguarda la consultazione tutti i giorni dei quotidiani online, solo i laureati si distinguono in positivo rispetto<br />

agli altri (21,1%). Anche nell’utilizzo di Facebook, i laureati mantengono un primato rispetto alle altre classi, ma anche<br />

per loro i valori risultano decisamente bassi (solo il 13,1% usa Facebook spesso o tutti i giorni).<br />

Quando il welfare lo fanno gli anziani. Il compito di cui gli over64 si fanno carico con maggior frequenza per aiutare i<br />

figli è tenere i nipoti (68,5): il 10,3% lo fa sempre, il 33,2% spesso, il 25% qualche volta, un contenuto 21,2% mai (una<br />

buona parte dei quali, presumibilmente, non vive nella stessa città dei figli, ed è quindi impossibilitata a farlo).<br />

Il secondo tipo di sostegno ai figli è rappresentato dagli aiuti economici (71,3%), che il 9,6% del campione dà addirittura<br />

sempre, il 29,8% spesso, il 31,9% qualche volta, il 25,5%, invece, mai.<br />

Sono poi molti gli ultrasessantaquattrenni abituati a preparare da mangiare per i propri figli (11,7% sempre, 18,1%,<br />

35,1% qualche volta) ed a portare i nipoti a scuola (4,9% sempre, 22,4% spesso, 24% qualche volta). Il 19,6% fa anche<br />

la spesa per i propri figli spesso o sempre e il 31,4% qualche volta, mentre sono meno numerosi quelli che fanno pulizie<br />

di casa per loro (il 71,3% non lo fa mai, il 10,1% spesso o sempre, il 14,9% qualche volta). Prevedibilmente, sono le<br />

donne dai 65 anni in su le più impegnate, rispetto agli uomini, nel sostegno del figli. Fatta eccezione per gli aiuti<br />

economici, che vengono un po’ più spesso dai padri (77,4% rispetto al 64%), le madri tengono più spesso i nipoti e li<br />

portano a scuola, ma soprattutto preparano da mangiare e, in alcuni casi, puliscono e riordinano la casa.<br />

Nel tentativo di esplorare il delicato tema della solitudine degli anziani, al campione è stato chiesto con chi ha trascorso<br />

le ultime feste natalizie. I risultati indicano che, almeno in questo particolare periodo dell’anno, la quasi totalità degli<br />

intervistati è stata in compagnia. In linea con quanto rilevato precedentemente, che evidenziava una presenza assidua dei<br />

famigliari nella vita degli ultrasessantaquattrenni, il 91,1% è stato insieme alla propria famiglia. Solo l’1,6% ha trascorso<br />

il Natale con amici, mentre il 2,4% è stato da solo.<br />

Il grado di autonomia. Il 77,6%, dei over64 senza dover chiedere aiuto a nessuno, si reca dal medico, il 76,4% si reca in<br />

banca o alla posta, il 74,9% fa la spesa, il 74,7% prepara da mangiare, il 66,1% sbriga i lavori domestici.<br />

Emerge anche una percentuale minoritaria, ma degna di attenzione, di chi denuncia un disagio, avrebbero cioè bisogno di<br />

aiuto per le necessità di tutti i giorni, ma nessuno glielo offre. La quota più alta si registra rispetto all’incombenza della<br />

spesa (il 6,5% afferma di non avere l’aiuto che gli sarebbe necessario); seguono sbrigare i lavori domestici (4,5%),<br />

andare dal medico (3,7%), preparare da mangiare (2,9%), recarsi in banca/alla posta (2,4%). Contenute le quote di quanti<br />

si avvalgono dell’aiuto di un/una badante per le proprie necessità; la percentuale sale al 12,7% solo nel caso delle<br />

faccende domestiche. Uno su 10, invece, può contare sul supporto di parenti e amici: l’11% per preparare da mangiare, il<br />

10,6% per recarsi dal medico, il 9,7% per fare la spesa, il 9,8% per recarsi in banca o alla posta, il 9% per sbrigare i<br />

lavori domestici.<br />

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SCHEDA 42 | GENITORI IN RETE<br />

“Nativi digitali” vs “Figli di Gutenberg”. Nell’ambito dell’Indagine Conoscitiva sulla Condizione dell’Adolescenza in<br />

<strong>Italia</strong> 2011 realizzata da <strong>Eurispes</strong> e Telefono Azzurro nel mese di ottobre del 2011 sono stati intervistati 1.266 genitori di<br />

alunni italiani tra i 12 ed i 18 anni. Interrogati sui motivi per i quali utilizzano Internet, i genitori hanno fornito le<br />

seguenti risposte: per cercare informazioni (80,3%), per inviare o ricevere e-mail (64,6%), per leggere quotidiani online<br />

(51,8%), per guardare filmanti su You Tube (40,1%). Altre attività (spesso prioritarie per i figli) risultano essere poco<br />

diffuse tra i genitori: utilizzare i Social Network (35,7%) scaricare musica/film/giochi/video (26,6%) o fare acquisti<br />

online (24,6%); allo stesso modo, i genitori sono attratti in modo marginale da altre possibilità della Rete che invece i<br />

figli amano, come per esempio giocare con i videogiochi su Internet (14,6%), leggere o scrivere su un forum (14,3%),<br />

leggere o scrivere su un Blog (12,4%). Il 47,6% dei genitori conosce Facebook, ma non è iscritto. Circa il 40% degli<br />

adulti lo conosce e ha una pagina Fb, ma il 12,9% di questi non lo utilizza pur essendovi iscritto. Nonostante la fama di<br />

questo Social l’1,8% dei genitori non sa che cosa sia.<br />

Rimane preoccupante il dato di un genitore su cinque che afferma di conoscere poco o niente delle attività dei figli nel<br />

mondo virtuale (il 16,6% dei genitori è convinto di saperne poco ed il 5,4% ritiene di non saperne nulla). Si tratta di un<br />

dato che sale ancora in relazione al crescere dell’età dei figli: se il 3,8% dei genitori con figli di età compresa tra i 12 ed<br />

15 anni dichiara di non sapere nulla di cosa facciano su Internet, è molto più alta la percentuale (9,3%) dei genitori di<br />

figli di età compresa tra 16 e 18 anni. Lo stesso trend si riscontra sia nella percentuale dei genitori che affermano di<br />

saperne poco (che cresce da 14,3% a 21,4%) sia nella percentuale dei genitori che affermano di saperne molto (che<br />

diminuisce dal 33% al 16%).<br />

Internet e genitori: fiducia sconcertante e sottovalutazione dei rischi. Oltre a non sapere ciò che fanno i figli online, i<br />

genitori sembrano anche sottovalutare, almeno in parte, i rischi connessi ad un utilizzo poco tutelante della Rete. Poco<br />

meno della metà (46,4%) dei genitori ritiene che sia pressoché impossibile che i loro figli entrino in contatto su Internet<br />

con un adescatore/pedofilo; il 30,8% lo ritiene possibile, ma poco probabile, mentre il 14,2% dei genitori ritiene che sia<br />

un’eventualità abbastanza probabile.<br />

Inoltre, l’88,9% esclude che i propri figli possano spogliarsi per inviare online proprie immagini o video su Internet,<br />

l’85,4% che i propri figli effettuino acquisti su Internet usando la loro carta di credito, l’84% che i figli diffondano su<br />

Internet informazioni/video che possono far soffrire altri coetanei (cyberbullismo), il 71,5% che frequentino siti che<br />

inneggiano alla violenza.<br />

Il 25,6% dei genitori ritiene che sia abbastanza probabile che i loro figli vedano immagine violente mentre usano<br />

Internet, il 17% che vedano immagini sessualmente esplicite, il 15,8% che trascorrano troppo tempo su Internet<br />

isolandosi e trascurando altri impegni, il 14,6% che scarichino illegalmente della musica o dei video.<br />

Basta proibire? Nonostante la poca conoscenza di ciò che i figli fanno online, gran parte dei genitori cerca di indicare<br />

loro quali siano i comportamenti pericolosi o potenzialmente tali, coerentemente con quelle che risultano essere le<br />

principali ansie dei genitori: il 79% proibisce ai figli di parlare online con persone sconosciute, il 78,8% di navigare<br />

troppo a lungo, il 77,8% di incontrare dal vivo persone conosciute online, il 76,9% di rivelare dati personali su Internet,<br />

il 67,7% di effettuare acquisti online, il 62,6% di accedere ad alcuni siti web ed il 51,3% di mettere online le proprie foto<br />

o filmini. Infine, il 24,5% proibisce ai propri figli di iscriversi ad un Social Network.<br />

Il 38,9% dei genitori ritiene che il miglior modo per proteggere i propri figli dalle insidie di Internet sia quello di parlare<br />

loro dei rischi e di aiutarli a difendersi da soli, mentre il 18,1% ritiene che regolamentare l’utilizzo di Internet possa<br />

ottenere l’effetto tutelante desiderato. Rimane ancora troppo elevato il dato del 14,4% di genitori convinti che i propri<br />

figli siano utenti più esperti di Internet e che se la sappiano cavare, mentre solo un genitore su 10 pensa che sia meglio<br />

accompagnare i figli nella navigazione in Rete. Il 3,1% dei genitori vede nel proibire l’accesso a Internet il modo<br />

migliore per proteggere i figli, mentre il 2,9% si affida a programmi/sistemi di parental control.<br />

Educare ai nuovi media. Circa il 34% dei genitori ritiene rilevante l’impegno della scuola nell’educazione alle nuove<br />

tecnologie (20%) e una maggior conoscenza di Internet degli stessi genitori (13,9%). Nonostante la consapevole<br />

necessità di implementare nuove azioni di corresponsabilità educativa, la risposta maggiormente significativa per i<br />

genitori, è quella che indica l’aumento delle sanzioni a coloro che producono siti/servizi/contenuti online non adeguati ai<br />

ragazzi (36,5%). Per altri è necessario avviare campagne di informazione sui pericoli connessi all’uso della Rete (17,6%)<br />

o implementare nuovi software di monitoraggio sull’utilizzo della Rete (7,9%).<br />

75


SCHEDA 43 | GENITORI E FIGLI TRA FIDUCIA E RESPONSABILITÀ<br />

L’Indagine Conoscitiva sulla Condizione dell’Adolescenza in <strong>Italia</strong> 2011 è stata realizzata da <strong>Eurispes</strong> e Telefono<br />

Azzurro nell’ottobre del 2011 con l’obiettivo di cogliere il ventaglio più ampio possibile di suggestioni e stimoli<br />

provenienti dai ragazzi e dai genitori. La rilevazione sul campo ha coinvolto 21 scuole; sono stati analizzati 1.496<br />

questionari somministrati ad alunni tra i 12 ed i 18 anni e 1.266 somministrati ai genitori. Una sezione dell’indagine, in<br />

particolare, ha messo a confronto, su un numero selezionato di domande rivolte ad entrambi, le posizioni dei figli e<br />

quelle dei genitori. I campioni considerati per questa analisi sono quello costituito dai ragazzi la cui madre o il cui padre<br />

hanno compilato il questionario e quello costituito dai rispettivi genitori.<br />

I genitori ritengono di affrontare argomenti impegnati, delicati e personali, ma i figli ridimensionano le loro<br />

convinzioni. Ben il 40,4% dei ragazzi sostiene di non parlare mai di ecologia ed ambiente con i genitori, a fronte di un<br />

decisamente più contenuto 16,9% di genitori che ammettono di non parlarne; parallelamente se il 26,9% dei genitori<br />

afferma di affrontare spesso questi argomenti con i figli, solo l’8,3% dei ragazzi afferma altrettanto. Anche facendo<br />

riferimento alla crisi economica, sono decisamente più numerosi tra i figli che tra i genitori coloro che sostengono di non<br />

parlarne mai in famiglia (28,9% contro 16,9%), con un 32,4% dei genitori secondo cui se ne parla spesso a fronte di un<br />

più modesto 22,6% dei figli. Differenze analoghe sono evidenti in relazione ai casi di cronaca: i genitori secondo i quali<br />

se ne parla spesso sono il 34,5%, i figli il 24,4%.<br />

La larga maggioranza sia dei genitori sia dei figli riferisce di parlare spesso della scuola in famiglia, ma tra i primi la<br />

percentuale arriva all’88%, mentre tra i figli al 78,6%. Tra i ragazzi è infatti più alta che fra i genitori la quota di chi<br />

afferma di parlare di questo argomento occasionalmente (18,6% contro 8,1%).<br />

Significative le divergenze nelle risposte relative alle discussioni sulle amicizie: ben il 72,3% dei genitori riferisce di<br />

parlarne spesso con i propri figli, a fronte del 51,6% dei ragazzi, che inoltre dichiarano nel 39,1% dei casi di parlarne<br />

solo occasionalmente. Ancora più accentuate le differenze rispetto alla frequenza con cui si parla in famiglia di amore e<br />

relazioni sentimentali: ben il 45,4% degli adolescenti sostiene di non parlarne mai con i genitori; fra questi ultimi,<br />

invece, solo il 20,1% riferisce di non parlarne mai con i propri figli; il 26% dice di farlo spesso (contro il 16,8% dei<br />

figli), il 48,9% occasionalmente (contro il 36,8% dei figli).<br />

Gli ambiti in cui le testimonianze di genitori e figli divergono maggiormente sono la droga e la sessualità. Oltre la metà<br />

dei ragazzi (53,6%) dichiara di non parlare mai del consumo di stupefacenti con i propri genitori, mentre solo il 15,6%<br />

dei padri e delle madri afferma lo stesso. Quasi la metà dei genitori (47,5%) dice di affrontare occasionalmente il<br />

discorso (a fronte del 36,5% dei figli) e quasi un terzo di farlo spesso (32,4%), a fronte di un ben più contenuto 8,8% dei<br />

ragazzi. Per quanto concerne infine la sessualità, arrivano al 63% i ragazzi che dicono di non parlarne mai con i genitori,<br />

mentre il 29,5% dice di toccare l’argomento occasionalmente ed il 6,3% spesso. Diversamente, solo il 29% dei genitori<br />

dichiara che la sessualità non rientra mai nei temi di discussione con i propri figli, la maggioranza dice di parlarne<br />

occasionalmente (52,4%), il 14,2% spesso.<br />

Videogiochi violenti, una questione in parte sottovalutata. Genitori e figli sostengono con percentuali simili (intorno<br />

al 60%) che la fruizione di videogiochi violenti non è un problema che riguarda la loro famiglia. D’altra parte, vi è una<br />

quota di ragazzi che gioca spesso (8,6%) o addirittura sempre (8,1%) con videogiochi violenti, mentre i genitori sono più<br />

propensi a credere che i figli lo facciano al massimo qualche volta (33,5%), ma non assiduamente.<br />

Anche sul controllo pareri discordanti. Quasi la metà dei figli (45,3%) sostiene che i genitori non controllano in alcun<br />

modo il loro utilizzo dei videogiochi mentre, al contrario, solo il 18,4% dei genitori ammette di non adottare nessuna<br />

forma di controllo.<br />

Le opinioni rispetto al compito principale che la scuola dovrebbe svolgere risultano abbastanza affini, ma con una<br />

differenza degna di nota: il compito citato con più frequenza dai ragazzi è preparare al mondo del lavoro (33,2%, un<br />

intervistato su 3, che invece per i genitori rappresenta solo la terza scelta (18,7%). I genitori privilegiano l’importanza di<br />

accrescere la cultura (28,8%) e far maturare i ragazzi come persone (28,7%), compiti comunque considerati rilevanti<br />

anche da molti ragazzi (rispettivamente 26,4% e 27,4%). Sono più numerosi tra i genitori che tra i figli coloro che<br />

individuano, come obiettivo principale della scuola, la trasmissione di valori (12,8% contro 6,1%) e lo sviluppo del senso<br />

critico (7,2% contro 3,3%).<br />

Bullismo, poca consapevolezza tra i genitori. La percentuale di genitori consapevole che il proprio figlio è stato<br />

vittima risulta inferiore rispetto alla percentuale di ragazzi che riferiscono di esserne stati vittime. Il divario tra genitori e<br />

figli risulta più elevato per la diffusione di informazioni false o cattive sui figli (25,2% dei figli contro 9,4% dei genitori),<br />

per le offese immotivate (21% contro 13,8%), per le provocazioni e/o prese in giro ripetute (21,9% contro 16,4%).<br />

Interrogati sui comportamenti adottati dai genitori in relazione agli atti di bullismo subiti dai figli, prevale la percentuale<br />

di chi afferma che i genitori hanno suggerito ai figli di ignorare questi comportamenti (il 17% dei figli ed il 14,3% dei<br />

genitori). Fra i genitori risulta più alta che tra i figli la quota di chi risponde che hanno suggerito di parlarne con gli<br />

insegnanti (11,8% contro 3,5%) o che hanno parlato personalmente con gli insegnanti o con il preside (7,8% contro<br />

1,9%). La differenza può però dipendere dal fatto che il 15,2% dei ragazzi ha ammesso di non aver fatto parola<br />

dell’accaduto con i propri genitori.<br />

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SCHEDA 44 | C’ERAVAMO TANTO AMATI…<br />

...E vissero felici e scontenti. Dall’analisi dei dati forniti dall’Istat numero complessivo dei matrimoni dal 2005 al 2009<br />

ha subìto una diminuzione, pur con un andamento fluttuante nel corso del quinquennio. A fronte di 250.360 matrimoni<br />

celebrati nel 2007 si registrano 81.359 separazioni; nel 2008 su 246.613 matrimoni le separazioni sono state 84.165 e nel<br />

2009 su 230.613 matrimoni le separazioni aumentano a 85.945. I valori percentuali dimostrano in modo concreto il<br />

crescere delle separazioni rispetto al numero dei matrimoni. Il dato è reso significativo dal fatto che a fronte di una<br />

diminuzione del numero dei matrimoni si registra un aumento del numero delle separazioni. La maggior parte delle<br />

richieste di separazione è consensuale (con un’incidenza medi negli anni considerati del 75%), inoltre molte coppie che<br />

inizialmente richiedono una separazione giudiziale arrivino poi a voler cambiare il rito del procedimento in consensuale<br />

(in media il 12%), forse per la minore durata di quest’ultimo. In caso di separazione la durata media dell’unione<br />

matrimoniale nel 2009 è stata pari a 15 anni; 18 anni, invece, in caso di divorzio. L’età media dei separati è di 45 anni<br />

per gli uomini e 41 per le mogli. I divorziati, invece, hanno mediamente 47 anni, se uomini, 43 anni se donne.<br />

I figli dei separati. Molte separazioni coinvolgono anche figli nati dall’unione (57.096 separazioni con figli nel 2009 e<br />

62.663 figli affidati), nella maggior parte dei casi minori per i quali viene disposto l’affidamento congiunto (86,7%).<br />

Tuttavia, il giudice può disporre l’affidamento dei figli ad un solo genitore, quando l’affidamento all’altro risulti<br />

contrario all’interesse del minore. In questo caso la madre risulta essere il genitore affidatario in misura largamente<br />

superiore rispetto al padre (12,2% e 1,1%).<br />

I provvedimenti economici nella separazione. Nelle separazioni si determinano anche i provvedimenti economici, per<br />

esempio l’assegnazione della casa ad uno dei coniugi, l’assegno corrisposto al coniuge, l’assegno ai figli. Dal 2007<br />

(27,1%) al 2009 (21,1%) la disposizione di versare un assegno al coniuge è in diminuzione, invece quando si tratta di<br />

figli l’assegno di mantenimento ha un’incidenza stabile tra il 74-75%. La casa viene assegnata nella maggior parte dei<br />

casi alla moglie (56%).<br />

Viaggio di divorzio. Per tante coppie il matrimonio comincia con un esotico viaggio di nozze e finisce con un viaggio<br />

meno esotico, ma altrettanto suggestivo, tra i tribunali della Transilvania. I regolamenti n. 44/2001 e n. 2201/2003 del<br />

Consiglio europeo permettono il riconoscimento del divorzio effettuato in un paese diverso dal proprio, purché<br />

comunitario. Il paese più specializzato in divorzi economici e veloci sembra essere la Romania. Qui, per prima cosa<br />

bisogna stipulare un contratto d’affitto di almeno tre mesi, con il quale si può ottenere la residenza necessaria per avviare<br />

la causa al tribunale civile. Bastano tre giorni per avere la residenza ed entro tre mesi parte la causa di divorzio. Dopo 60<br />

giorni dalla richiesta ha luogo la prima sentenza, che spesso è anche l’ultima, poiché il tribunale può già pronunciare la<br />

sentenza di divorzio. Quando le cause sono più lunghe, non superano comunque i 6 mesi. Ottenuta la sentenza definitiva<br />

bisogna attendere un mese per averne una copia scritta. Se si desidera un pacchetto all inclusive basta rivolgersi ad una<br />

agenzia specializzata, anche on line, che offre pacchetti comprensivi di volo, soggiorno e divorzio. Negli altri paesi<br />

d’Europa i tempi sono ugualmente più brevi rispetto all’<strong>Italia</strong>. Per esempio in Francia, in caso di divorzio consensuale<br />

basta una firma dal notaio; in Spagna, nel 2005, è stato inserito il divorzio lampo: entro tre mesi dalla richiesta si ottiene<br />

il divorzio; in Germania il matrimonio viene dichiarato finito se i coniugi vivono separati da un anno e richiedono il<br />

divorzio, infine in Gran Bretagna i coniugi, concordi, possono divorziare on line in 6 mesi.<br />

Facciamo finta che non sia successo niente. I Tribunali Ecclesiastici Regionali sono 19 su tutto il territorio nazionale.<br />

Le cause di 1° grado sono state, nel 2010, 2.901 per quanto riguarda quelle introdotte, 3.022 quelle decise e 6.114 quelle<br />

pendenti. Nel passaggio al secondo grado, le cause introdotte risultano essere 2.576, quelle decise 2.554 e quelle<br />

pendenti 1.564. I costi di un processo di annullamento vengono ripartiti in due punti: da una parte c’è un contributo da<br />

versare al Tribunale Ecclesiastico per le spese processuali, dall’altra l’onorario dell’esperto che assisterà il fedele che<br />

vuole richiedere l’annullamento nel processo. Tale contributo è mediamente pari a 525 euro a carico della parte attrice (il<br />

coniuge che richiede l’annullamento), è pari a 262,50 euro a carico della parte convenuta (il coniuge che subisce la<br />

richiesta di annullamento). Le parcelle degli avvocati variano da 1.575 a 2.992 euro se l’appello termina con un decreto<br />

di conferma; se è necessario un rinvio ad esame i costi vanno da 604 a 1.207 euro. Pertanto, il costo medio di un<br />

procedimento di annullamento è di 3.583 euro, cui vanno aggiunti gli oneri fiscali previsti dalle legge, rispetto ai quali<br />

ogni Tribunale Regionale può fornire i dettagli.<br />

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SCHEDA 45 | LA MATERNITÀ IN ETÀ AVANZATA, TRA PROGRESSI DELLA MEDICINA E DILEMMI ETICI<br />

Madri “attempate” e mamme-nonne in <strong>Italia</strong>… Il tasso di fertilità è passato da 1,26 del 2000 a 1,40 del 2010. In<br />

generale si evidenzia inizio di una tendenza a fare più figli, ma in età avanzata. Quanto all’età, si registra un aumento<br />

dell’età media delle donne al primo figlio, infatti in un anno si è passati da un’età media di 31,1 anni nel 2008 ad un’età<br />

media di 31,2 anni nel 2009. L’età delle donne al momento del parto, inoltre, è in aumento; dal 2000 al 2009 la fascia<br />

d’età in cui sono più numerose le donne che hanno un figlio resta quella compresa tra 30 e 34 anni, seguita da quella di<br />

25-29 fino al 2007. Dal 2008 le madri 35-39enni diventano più numerose delle 25-29enni.<br />

Apparentemente il dato relativo all’aumento dell’età della madre al momento del parto sembra poco sensibile, in realtà è<br />

reso significativo dal fatto che da una parte si registra un calo delle nascite, dall’altra un aumento di bambini nati da<br />

donne in età più avanzata. In percentuale la fascia d’età 30-34 anni è la più rappresentativa nel periodo 2000-2009 e<br />

gradualmente crescono anche le fasce d’età 35-39 e 40-44, seppur lievemente. Infine un dato non più trascurabile, visto il<br />

lento, ma progressivo aumento, è quello delle madri 45-49enni e ultracinquantenni.<br />

…e in Europa. In Europa i paesi più prolifici nel 2009 sono stati la Francia (825.564 nascite), la Gran Bretagna<br />

(790.204), la Germania (665.126). Al quarto posto di questa particolare classifica si colloca l’<strong>Italia</strong> (568.857 nascite),<br />

seguita dalla Spagna (494.997). Ma se si rapportano i dati alla densità della popolazione, i paesi con il più alto tasso di<br />

fertilità sono Islanda (2,23), Irlanda (2,07) e Francia (2). Se si considera il tasso al 2000 e al 2009 risulta che il paese più<br />

in crescita è la Svezia, con un incremento del tasso di fertilità dello 0,4, seguita dalla Gran Bretagna con un incremento<br />

dello 0,3. Meno sensibile è l’incremento del tasso di fertilità di paesi come Grecia, Irlanda, Spagna, Belgio, <strong>Italia</strong> e<br />

Islanda. Per quanto riguarda l’età delle donne al momento del parto, s’è già visto che in <strong>Italia</strong> le donne hanno più<br />

frequentemente un’età compresa tra 30 e 34 anni e subito dopo tra 35 e 39 anni; la stessa cosa accade in Spagna. In altri<br />

paesi, come Belgio, Francia, Austria, Gran Bretagna, Islanda e Norvegia l’età si abbassa, infatti le madri hanno<br />

principalmente un’età compresa tra 25 e 29 anni e subito dopo tra 30 e 34 anni. Infine, in Danimarca, Germania, Irlanda,<br />

Grecia, Lussemburgo, Olanda, Portogallo, Finlandia, Svezia, Svizzera l’età più frequente delle donne al parto è di nuovo<br />

compresa tra 30 e 34 anni, ma subito dopo, 25-29 anni.<br />

Per quanto riguarda l’età avanzata fino ai limiti, e oltre, della fertilità naturale (45-49 e 50 e più) nel 2009 primeggia<br />

l’<strong>Italia</strong>, che riporta il maggior numero in valore assoluto di madri “attempate” (1.787 e 162), seguita da Francia (1.367 e<br />

112) e Gran Bretagna (1.636 e 111).<br />

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SCHEDA 46 | AFFIDI E ADOZIONI: UNA FAMIGLIA PER OGNI BAMBINO<br />

Molte coppie che non riescono ad avere figli naturali ricorrono alla procreazione medicalmente assistita o fanno richiesta<br />

di adozione. L’infertilità, infatti, per 1.952 coppie adottive nel 2010 (85,1%), è stata il motivo della richiesta di adozione.<br />

In realtà ci sono anche altre coppie che, pur avendo già dei figli naturali, avanzano la medesima richiesta.<br />

Dai dati della Commissione per le adozioni internazionali emerge che le domande di adozione internazionale hanno fatto<br />

registrare in 10 anni, dal 2001 al primo semestre del 2011, 27.234 richieste. I dati del primo semestre del 2011<br />

confermano che il numero delle richieste di adozione è in aumento e nel corso dell’ultimo decennio è più che<br />

raddoppiato: si è passati, infatti, dalle 1.570 nel 2001 alle 3.241 del 2010 (1.641 nei primi 6 mesi nel 2011).<br />

Le coppie adottive. Il numero maggiore di richieste proviene da coppie che risiedono in Lombardia, Veneto, Toscana e<br />

Lazio, sia nel 2010 che nel 2011. I tribunali competenti, che attivano più procedimenti adozionali, sono quelli di Milano,<br />

Roma, Firenze e Venezia; quelli che ne attivano meno, ma che hanno comunque almeno 50 richieste, sono i tribunali di<br />

Genova e di Bari.<br />

L’età media delle coppie che ottengono il decreto di idoneità all’adozione si è alzata di circa 2 anni nel corso degli ultimi<br />

10 anni, sia per l’uomo sia per la donna. Si è passati da un’età media di 40,5 anni per l’uomo nel 2001 a 42, 3 anni nel<br />

2011. Per la donna si è passati da un’età media di 38,2 nel 2001 a 40,3 nel 2011. Rispetto al numero dei minori richiesti<br />

in adozione le coppie più numerose sono quelle che ne richiedono almeno uno (2.495 nel 2010), ma molte ne richiedono<br />

due (614).<br />

Più frequentemente sono coppie senza figli ad avanzare la richiesta di adozione, tuttavia è significativamente diffusa<br />

anche la situazione in cui coppie, con un figlio naturale, chiedono di poterne accogliere un altro attraverso il processo<br />

adozionale.<br />

La pargoletta mano… Quanti sono i bimbi stranieri che, mano nella mano, sono arrivati nel nostro Paese? Il numero è<br />

in crescita continua: se erano 1.797 nel 2001 sono passati a 3.402 nel 2004 per arrivare a 4.130 nel 2010; un trend<br />

confermato dai dati del 1° semestre del 2011 con 2.052 minori adottati che hanno fatto ingresso nel nostro Paese. I paesi<br />

da cui proviene la maggior parte di bambini adottati sono, nel 2010, la Federazione Russa (18,1%), la Colombia (14,3%)<br />

e l’Ucraina (10,3%).<br />

Una volta arrivati in <strong>Italia</strong>, i bambini adottati sono andati a vivere soprattutto in Lombardia, Toscana e Lazio sia nel 2010<br />

sia nel 2011. Al 1° semestre 2011, la maggior parte di bambini con un’età fino a 1 anno proviene dall’Asia (23,2%),<br />

bambini che hanno da 1 a 4 anni di età provengono in misura maggiore dall’Africa (48,9%), bambini con un’età da 5 a 9<br />

anni arrivano prevalentemente dall’America (56,7%), infine dall’Europa arriva la maggior parte dei bambini più grandi,<br />

cha hanno un’età cha va da 10 anni in poi (23,1%).<br />

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SCHEDA 47 | AFFIDAMENTO CONDIVISO<br />

Se si osserva lo scenario europeo, si può affermare che la Francia, ancora in anticipo sulla fondamentale Convenzione di New<br />

York del 1989, aveva introdotto nel proprio ordinamento l’affido condiviso come una delle ipotetiche forme di regolamentazione<br />

di rapporti tra i genitori e i figli in caso di separazione per giungere, nei primi anni Novanta a definire l’affidamento congiunto<br />

come una forma privilegiata nelle stesse ipotesi. Con legge del 2002 si innova il Codice civile in materia, con gli art. 372, “Il padre<br />

e la madre esercitano in comune l’autorità genitoriale”, art. 373, co. 2, “La separazione tra i genitori è senza effetto sulle regole di<br />

esercizio dell’autorità genitoriale. Tali norme assicurano ai figli la continuità nelle consuetudini familiari, indipendentemente dal<br />

rapporto di coppia e garantiscono la possibilità di continuare a svolgere a pieno titolo i loro compiti di educazione e di cura”. In<br />

Germania, la legge quadro del 1998, sui minorenni, Kindeschaftsrechts, stabilisce che, non pronunciandosi il giudice<br />

sull’affidamento, rimane in vigore il regime congiunto di esercizio dell’autorità genitoriale che valeva in costanza di matrimonio a<br />

meno che non pervengano richieste motivate in senso difforme. Queste ultime possono provenire da un genitore che, chiedendo<br />

l’affidamento esclusivo, otterrebbe solo una porzione dei diritti e dei doveri che provengono dalla potestà genitoriale. A tale<br />

richiesta possono opporsi sia l’altro coniuge che il figlio di almeno 14 anni. Infine, la Spagna sul piano delle riforme nell’ambito<br />

del diritto di famiglia, ha vissuto, negli ultimi anni, una stagione di repentini cambiamenti che hanno introdotto importanti novità<br />

nella normativa relativa alle separazioni e divorzi. In tal senso il fatto di aver introdotto una legge che accorcia notevolmente il<br />

tempo medio necessario alla cessazione degli effetti civili del matrimonio – oggi tale situazione si produce in un tempo compreso<br />

tra i 4 e i 6 mesi – consente anche di ridurre la conflittualità tra i genitori rispetto alla tutela dei figli. Ciò detto, tuttavia<br />

l’affidamento congiunto è solo uno dei tipi di affidamento e può essere imposto dal giudice alle parti e, pertanto, in tal senso,<br />

prevale ancora una logica del rapporto filiale che risponde ad un modello del passato, come meglio si esplicherà di seguito.<br />

La legislazione italiana. In <strong>Italia</strong> si auspicava da diverso tempo una riforma che modificasse il regime dell’affidamento sui<br />

minori, il cui destino veniva per lo più stabilito da una contrastante giurisprudenza la quale si ispirava ad un concetto di colpa per<br />

individuare il genitore più idoneo allo svolgimento delle funzioni di accudimento, istruzione ed educazione della prole. È<br />

importante sottolineare che l’art. 147 Cod. civ., che prevede il dovere di entrambi i genitori di assistere, accudire ed educare la<br />

prole, era stato scarsamente applicato; come si è detto, si scontava un’idea di suddivisione dei compiti all’interno della famiglia in<br />

forza della quale la cura e crescita dei figli è un compito demandato alle madri. I padri, dal canto loro, assolvevano alle loro<br />

funzioni genitoriali nei confronti dei figli, nel momento di rottura dell’unione familiare, mediante la corresponsione dei mezzi<br />

economici necessari alla prole e all’ex coniuge, per vivere secondo un modello di benessere goduto in costanza di matrimonio.<br />

Nel corso del tempo e con l’evoluzione della società in generale, ivi compreso l’ingresso nel mondo del lavoro delle donne ha<br />

mostrato tutti i segni di debolezza e di insoddisfazione di un bisogno di costruzione di un legame affettivo tra genitori e figli. I<br />

padri si sono resi conto che quel modello di famiglia, sostenuto da una maggioritaria giurisprudenza, li estrometteva totalmente<br />

dalla vita dei loro figli, laddove l’unione coniugale si fosse interrotta, e che venivano relegati ad esercitare l’unica funzione di<br />

sostentamento economico della famiglia. La supremazia monetaria degli uomini sulle donne, non più rispondente, peraltro, allo<br />

stato delle cose, aveva creato una sorta di trappola per cui si monetizzava il ruolo genitoriale dei padri come sola forma di<br />

esercizio di tutta quella serie di doveri, e anche piaceri, verso i proprio figli previsti dalla Costituzione e dalla legislazione<br />

ordinaria in materia.Le conseguenze di questo orientamento ha fatto emergere come i figli crescessero con una grave e a volte<br />

irreparabile perdita di affettività, esperienze comuni, ed emotività con i loro padri. La presa di coscienza individuale dei genitori<br />

sul proprio ruolo, consente anche di aprire una riflessione sul modello di società che si è creato negli ultimi anni in cui il modello<br />

di famiglia previsto dalla Costituzione, art. 29, «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul<br />

matrimonio», tendesse a costituire solo uno delle forme possibile di unioni. Sulla scorta di questa adesione ad un modello di<br />

natura nei rapporti – i quali esistono anche a prescindere ed al di là di un pur rivendicato riconoscimento giuridico – si fonda anche<br />

l’impianto ideologico della legge n.54 dell’8 febbraio del 2006, altrimenti detta legge sull’affidamento condiviso. La “famiglia”<br />

qui concepita è quella che colloca in primo piano i diritti degli individui, i diritti delle persone e in cui la condizione giuridica dei<br />

figli è tutelata come valore indipendente dal matrimonio dei genitori. Il fatto in sé della procreazione rende i genitori responsabili<br />

nei confronti dei figli alla luce di un preminente interesse di questi ultimi a crescere in maniera indipendente con l’uno e l’altro<br />

genitore. In forza della legge citata la regola è l’affidamento condiviso, mentre l’eccezione è quello esclusivo. Gli artt. 155 co.2,<br />

155-bis co.2, 155-ter, 155-quater, 155-sexies, co. 1 e 2, hanno come finalità quella di tutelare l’interesse del minore. L’esercizio<br />

della potestà importa una forma di compartecipazione alle scelte nelle quali si indirizza la formazione del minore o in quelle che<br />

comportino scelte eccedenti l’ordinaria amministrazione dei suoi beni. Viene, in questo modo, sottratto al giudice il potere di<br />

effettuare una valutazione prognostica sulle idoneità di ciascun genitore all’adempimento dei doveri imposti ai genitori, poiché<br />

entrambi sono chiamati all’esercizio del loro ruolo. Certo non si nasconde il fatto che la novella legislativa poteva essere più<br />

incisiva e fare un balzo in avanti anche sul piano dell’equiparazione dello status giuridico tra i figli legittimi e i figli naturali. Le<br />

preoccupazioni del Legislatore sembrano più quelle di garantire il valore istituzionale della famiglia piuttosto che di tutelare i<br />

diritti dei figli. È tuttavia evidente che il passaggio da una concezione del minore inteso come oggetto dei diritti degli adulti, ed in<br />

particolare dei genitori, ad una visione in cui lo stesso sia portatore e titolare di una serie di diritti è quasi del tutto compiuto. E<br />

comunque si attende ancora un ulteriore passaggio dettato dalla volontà di sostituire il concetto vetusto di potestà parentale a<br />

quello più corretto di responsabilità genitoriale. Al di là dell’aspetto prettamente linguistico vi è una ragione giuridica che ne<br />

impone il passaggio, poiché ciò consentirebbe la rappresentazione degli interessi morali e materiali dei figli minori come valori<br />

eteronomi rispetto a quelli dei genitori, il cui limite all’esercizio dei propri diritti e doveri trova un limite nel diritto dei propri figli.<br />

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SONDAGGIO SCHEDA 48 | I GIOVANI, LA POLITICA E I PARTITI<br />

I giovani e la politica: tra astensionismo e nuova partecipazione. Diverse indagini sul rapporto tra giovani e politica<br />

hanno spesso posto l’accento sull’eclissi della partecipazione alla vita politica che caratterizzerebbe le nuove<br />

generazioni. La crescente sfiducia nelle Istituzioni e nei partiti, l’alto tasso di astensionismo giovanile, sarebbero i<br />

segnali evidenti di una generalizzata apatia politica. Per molto tempo, infatti, le categorie del rifugio nel privato, lo<br />

spiccato individualismo, il consumismo, il disinteresse a temi di interesse collettivo, hanno connotato le analisi sulle<br />

nuove culture giovanili. Allo stesso tempo, il forte impegno nelle associazioni di volontariato, le nuove forme di<br />

partecipazione attraverso i Social Network e la riscoperta della piazza, hanno rappresentato segnali di tendenza opposta<br />

a quelli del disinteresse. Dobbiamo chiederci, allora, se il dato della sfiducia nelle Istituzioni e l’astensionismo elettorale<br />

delle giovani generazioni siano frutto del disinteresse per la politica, come sostiene una diffusa corrente di pensiero, o<br />

piuttosto, la manifestazione di una scelta, motivata dal mancato riconoscimento delle proprie istanze da parte della<br />

politica e dei partiti.<br />

La (s)fiducia dei giovani nelle Istituzioni. Commentare i dati del tradizionale sondaggio dell’<strong>Eurispes</strong> su “Cittadini e<br />

Istituzioni”, prendendo come variabile di riferimento le risposte dei cittadini dai 18 ai 34 anni significa analizzare gli<br />

atteggiamenti dei giovani italiani nei confronti delle Istituzioni del nostro Paese.<br />

Si conferma il trend negativo registrato lo scorso anno, anche se si segnala un aumento della fiducia, sopra la media, per<br />

i giovani da 18 a 24 anni (5,4%), mentre i cittadini da 25 a 34 anni esprimono la percentuale più alta di diminuzione della<br />

fiducia (74,6%).Nel 2010 la fiducia aumentò, tra 18- 34enni, sino al 37,2% rispetto all’anno precedente, mentre ebbe un<br />

brusco calo nel 2011 (1,1%), confermato – seppur con una leggera ripresa – nel 2012 (4,5%). La percentuale dei giovani<br />

che dichiarano una diminuzione della fiducia nelle Istituzioni è cresciuta negli anni, dal 43,9% del 2010 al 72,7% di<br />

quest’anno. Il Presidente della Repubblica, anche tra i giovani, resta la figura istituzionale che ispira maggiore fiducia<br />

(65%). Rispetto all’insieme degli intervistati si registra un +7% tra chi ha sfiducia in questa Istituzione. L’opinione dei<br />

giovani sulla Magistratura con il 58,9% dei non fiduciosi è sostanzialmente uniforme all’intero campione osservato;<br />

stessa cosa per il Parlamento. Più alta è la quota di giovani (79,2%), rispetto all’intero campione (76,4%) che sono,<br />

invece, non fiduciosi nei confronti del Governo.<br />

L’astensionismo giovanile. Tra i giovani coloro che dichiarano di votare sempre, varia dal 72,8% del 2008, al 76,9% del<br />

2011, al 76,5% del 2012. Cresce rispetto allo scorso anno la quota di chi dichiara di votare qualche volta, il 17,3%<br />

rispetto al 15,5% dell’anno scorso. Resta stabile la quota di chi indica di votare quasi mai o mai (3,1%). Rispetto al dato<br />

generale dell’84% di chi dichiara di votare sempre, i giovani con il 76,5% si posizionano 7,5 punti percentuali sotto la<br />

media. Il 73,7% dei giovani andrà a votare alle prossime elezioni, percentuale più alta rispetto al dato generale (72,1%),<br />

anche se gli indecisi si attestano al 14,5% e coloro che non intendono andare a votare rappresentano il 18,5%. Sono il<br />

78,7% le femmine che dichiarano di votare alle prossime elezioni, rispetto al 68,1% dei maschi.<br />

I giovani e i partiti. Negli ultimi tre anni la sfiducia da parte dei giovani nei partiti è costante, passando dal 10,4% di<br />

fiducia nel 2010, al 7,2% nel 2011 e all’8,3% di quest’anno. Un trend negativo si riscontra anche nei sindacati passati dal<br />

27,3% dello scorso anno al 22,5% del 2012.<br />

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SCHEDA 49 | DALL’AGRICOLTURA ITALIANA “GIOVANI” OPPORTUNITÀ PER IL PAESE<br />

Giovani e agricoltura: nuove energie competitive. Stando all’analisi effettuata da Coldiretti basandosi<br />

sull’elaborazione di fonti diverse, l’agricoltura italiana conta più di 65mila imprese under 35: il 10%<br />

dell’imprenditorialità giovane del Paese – collocandosi al terzo posto dopo i settori del commercio e delle costruzioni –<br />

ed il 6% di quella europea (Ue-27).<br />

L’incidenza dei giovani in agricoltura – se pur in crescita negli ultimi dieci anni – resta inferiore a quella media europea<br />

(il peso dei giovani in agricoltura si attesta per l’<strong>Italia</strong> al 3% e per la media Ue al 6,2%), con un deficit di ricambio più<br />

accentuato di quello, già grave, dell’economia nazionale complessiva. In valore assoluto tuttavia, l’<strong>Italia</strong> presenta,<br />

assieme a Germania (58mila) e Spagna (54mila), una delle presenze più elevate di giovani agricoltori (51.470).<br />

Il difficile passaggio generazionale non ha inoltre impedito ai giovani di essere pionieri o motori essenziali delle<br />

trasformazioni che negli ultimi anni hanno dato o restituito all’agricoltura rinnovato appeal economico e sociale.<br />

Evidenziando, nello stesso tempo, l’opportunità di politiche più decise e lungimiranti per dare centralità ai giovani nelle<br />

strategie di sviluppo e di crescita occupazionale del Paese. Politiche mirate e settoriali di sostegno ma anche azioni<br />

“strutturali” per rimuovere alcuni ostacoli che in <strong>Italia</strong> continuano a “molestare” nuove idee e forze imprenditoriali: le<br />

condizioni ancora poco agevoli di accesso al credito; una burocrazia troppo lenta; un sistema della formazione e della<br />

ricerca spesso lontano dall’impresa e dai suoi reali fabbisogni.<br />

Le trasformazioni spinte dalle giovani imprese agricole sono segnate da elevata capacità competitiva e dall’innovazione,<br />

accompagnate – ma senza esserne condizionate – da una crescita dimensionale più sostenuta. Dal “genitore al figlio”<br />

cresce infatti: la voglia di investire e di innovare: la metà dei giovani cerca di espandere la sua attività, il 78% dei giovani<br />

investe – anche in periodi di crisi – sul miglioramento dei prodotti aziendali. La diffusa capacità di innovazione si<br />

concentra sulla qualità e sulla sicurezza dei prodotti (più del 60% dei giovani agricoltori realizza certificazioni di qualità<br />

o ambientali), ma si esprime sempre più anche nella diversificazione in altri settori e nelle reti con il territorio. (Coldiretti<br />

su dati Swg e OIGA-Mipaaf); la capacità di presidiare il mercato attraverso nuove formule commerciali come la vendita<br />

diretta: un orientamento imprenditoriale che coinvolge l’80% dei giovani, una leva di competitività che i giovani<br />

dimostrano di saper sfruttare pienamente nei suoi benefici in termini di aumento del fatturato e della clientela e di<br />

stabilità dei prezzi di vendita (il 30% della rete di vendita diretta promossa da Coldiretti - Rete di Campagna Amica è<br />

gestita dai giovani); la dimensione e la redditività. Diversi studi hanno evidenziato come il peso dei giovani cresce<br />

progressivamente al crescere delle classi di dimensione aziendale ed economica, con redditività anche doppia rispetto<br />

alla media del settore.<br />

Secondo i dati Eurostat sulla ripartizione delle imprese agricole nei diversi paesi per età e classi di ampiezza (ettari) si<br />

passa da un’incidenza percentuale degli under 35 dell’8% nella classe di dimensione inferiore ai 10 ettari (per l’Ue-27<br />

raggiunge invece il 18%) ad un peso del 19% per quella con almeno 50 ettari, con un totale allineamento o superamento<br />

(nella classe da 50 a 100 ettari) della media europea. Da una recente analisi sui dati del Centro Assistenza Agricola di<br />

Coldiretti emerge un volume di affari medio delle giovani imprese individuali di quasi 30,5mila euro a fronte di una<br />

media nazionale per la stessa tipologia aziendale di 16mila euro di fatturato.<br />

A sostenere lo sviluppo imprenditoriale dei giovani è anche una maggiore attenzione verso la formazione: cresce la<br />

“domanda” di agricoltura negli Atenei universitari – che hanno registrato nel 2010 un balzo degli iscritti in tutte le<br />

Facoltà Agrarie – con punte per la formazione nel settore del vino (20 corsi di laurea e 449 corsi post laurea a cui si<br />

aggiungono circa 5.000 corsi di specializzazione promossi da altri enti del settore).<br />

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Scheda 50 | La chirurgia estetica ovvero il mito della bellezza<br />

Bisturi power. L’industria mediatica trasmette, quasi imponendoli, modelli sociali, stili di vita e comportamenti che<br />

sposano ideali estetici a tutto vantaggio dell’apparenza. La situazione attuale di crisi, di dubbio, lascia spazio a poche<br />

sicurezze entro le quali rifugiarsi e confortarsi. Sentirsi belli ed in armonia con il proprio corpo è un sogno tanto diffuso<br />

quanto non facile da raggiungere. La nostra epoca si caratterizza come sempre più legata al benessere e all’aspetto fisico.<br />

Recepiti i benefici derivanti dagli enormi progressi in campo medico, che hanno avuto un condizionamento diretto<br />

sull’allungamento della durata media della vita umana, ci si concentra oggi sempre più su quelle cure che mirano al<br />

perfezionamento estetico. Chirurgia, bisturi e sale operatorie si trasformano sempre più in templi nei quali cercare di<br />

raggiungere la perfezione.<br />

La chirurgia plastica ha visto negli anni affinare le tecniche di intervento, senza per questo riuscire ad evitare “incidenti”,<br />

l’ultimo dei quali riguarda le protesi mammarie della società francese PIP, il cui silicone non corrisponde agli standard<br />

internazionali per le protesi al seno. La pratica di sottoporsi ad un intervento chirurgico trova sempre più proseliti, nel<br />

nostro continente come in America. Diventati ormai una consuetudine il botulino, la liposuzione, l’epilazione laser, il<br />

lifting, le nuove frontiere della chirurgia plastica sfidano in maniera sempre più ardita la natura. Ma non sono solamente<br />

le donne a lasciarsi ammaliare dall’intervento del chirurgo estetico per essere più belle; è in crescita infatti il numero di<br />

uomini che si sottopone alla pratica del bisturi per ridimensionare le ghiandole mammarie (soprattutto dopo una certa<br />

età) o per rinvigorire addominali flaccidi. Da uno studio pubblicato da Eurisko nel maggio dello scorso anno, su un<br />

campione di circa diecimila persone di età compresa tra i 18 e i 55 anni in <strong>Italia</strong>, Germania, Stati Uniti, Cina e Corea del<br />

Sud, emerge come circa il 50% degli intervistati si sottoporrebbe ad interventi di chirurgia estetica per sentirsi più a<br />

proprio agio con il corpo. Per gli italiani non esiste una fascia d’età migliore di altre per rivolgersi al chirurgo estetico<br />

(dai 15 ai 44 anni non fa differenza). Per rendere più attraente il proprio aspetto fisico, strettamente connesso al<br />

miglioramento del benessere in generale, più della metà prenderebbe in considerazione l’ipotesi di rivolgersi ad un<br />

chirurgo, scegliendo come zona d’intervento soprattutto il viso e non disdegnando l’idea di intervenire su più zone del<br />

corpo.<br />

A rendere il fenomeno del “ritocchino” sempre più degno di attenzione non è soltanto il suo capillare allargamento,<br />

indipendentemente dal sesso e dal ceto sociale di appartenenza, ma è l’attrazione che esercita verso una popolazione<br />

sempre più giovane.<br />

Piercing, tatuaggi e chirurgia estetica: una nuova antropologia dell’estetica si fa spazio tra i giovani. La pratica del<br />

piercing e del tatuaggio è entrata prepotentemente nel mondo del glamour e della moda, svuotandosi in un certo senso di<br />

quei contenuti che ne hanno caratterizzato nella storia dell’uomo il significato più profondo e arcano, per diventare puro<br />

elemento estetico. Anche il ricorso alla chirurgia a fini estetici è stato ormai sdoganato ed è diventato nel corso degli<br />

ultimi trent’anni un aspetto non trascurabile della deriva edonistica dei nostri tempi. Si sono moltiplicati i centri medici,<br />

per lo più privati, nei quali è possibile scegliere un “nuovo aspetto”. L’accessibilità dei costi, il moltiplicarsi dei centri e<br />

soprattutto il miglioramento e la standardizzazione delle tecniche hanno portato alla diffusione della chirurgia estetica e<br />

ne hanno fatto, se non un fenomeno di massa, almeno un’opzione accessibile pressoché a tutti. Inoltre, è ormai diffusa<br />

l’idea che la chirurgia possa essere a disposizione non solo dei “forever young”, degli adulti che non vogliono<br />

invecchiare, ma anche di coloro che vivono l’imperativo della bellezza come un must, compresi gli adolescenti. La<br />

diffusione delle pratiche di modificazione e manipolazione del corpo comporta, oltre ad una riflessione di tipo culturale<br />

sui cambiamenti sociali, anche la necessità di sottolineare i possibili rischi sia per la salute, sia a livello psicologico.<br />

Controlli più incisivi e sanzioni certe sarebbero invece necessari per intervenire sui pericoli che la mancata adesione alle<br />

norme igienico-sanitarie o la poca professionalità degli studi dove si effettuano piercing e tatuaggi comportano. Molti<br />

non sono consapevoli oppure sottovalutano il fatto che adornarsi con un tatuaggio o applicare un piercing potrebbe<br />

comportare infezioni, l’insorgenza di allergie o addirittura malattie gravi come le epatiti. Ciò accade forse anche per la<br />

carenza di informazione diffusa in questo senso.<br />

Dall’indagine condotta da Telefono Azzurro e <strong>Eurispes</strong>, giunta nel 2011 alla sua 12esima edizione, emerge che il 20%<br />

dei ragazzi ha un piercing, vale a dire 1 adolescente su 5. Un minor numero di ragazzi ha invece deciso di disegnare sul<br />

proprio corpo almeno un tatuaggio (7,5%).<br />

Il 2,3% degli adolescenti ha fatto ricorso alla chirurgia estetica per migliorare il proprio aspetto o modificare qualche<br />

particolare fisico. Sebbene queste possano sembrare percentuali minoritarie, occorre sempre tener presente la<br />

giovanissima età degli intervistati. Rispetto all’indagine realizzata l’anno precedente (2010), è importante evidenziare<br />

che gli adolescenti che hanno un piercing sono aumentati di quasi 5 punti percentuali (dal 15,5% al 20%); quelli che<br />

invece hanno almeno un tatuaggio sono passati dal 6,5% al 7,5%. Stiamo assistendo quindi ad una tendenza di diffusione<br />

di queste pratiche, accompagnata da un’accettazione sociale del fenomeno, considerato come tipico dei giovanissimi.<br />

83


CAPITOLO 6<br />

SOSTENIBILITÀ/INSOSTENIBILITÀ<br />

IL XXI SECOLO SARÀ IL “SECOLO VERDE”?, QUELLO DELLA SOSTENIBILITÀ OPPURE UN “SECOLO<br />

BOLLENTE”CON UN AUMENTO DI TEMPERATURE DA CATASTROFE AMBIENTALE?<br />

Sviluppo Sostenibile. Termine vecchio o attuale? Sostenibilità ed insostenibilità ambientale sono ormai divenute<br />

espressioni di uso corrente ed hanno certamente delle percezioni soggettive legate alla sensibilità individuale, al livello di<br />

istruzione ma anche al vissuto personale e familiare in rapporto a emergenze o comunque problematiche ambientali.<br />

L’attenzione alla tutela dell'ambiente è cresciuta come esigenza locale e globale: il concetto di sviluppo sostenibile è<br />

ormai una definizione consolidata. Il pensiero corre immediatamente alla sostenibilità ambientale, ma questo nuovo<br />

modello di sviluppo non riguarda solo l'ambiente in senso stretto, ovvero gli habitat naturali, ma affronta la sostenibilità<br />

come tema complessivo di qualità della vita degli essere umani sulla Terra.<br />

Si parla di quattro dimensioni di sostenibilità dello sviluppo: economica, intesa come capacità di generare reddito e<br />

lavoro per il sostentamento della popolazione; sociale, intesa come capacità di garantire condizioni di benessere umano<br />

(sicurezza, salute, istruzione) equamente distribuite per classi e genere; ambientale, intesa come capacità di mantenere<br />

qualità e riproducibilità delle risorse naturali; istituzionale, intesa come capacità di assicurare condizioni di stabilità,<br />

democrazia, partecipazione, giustizia. Oggi tutti gli indicatori economici, sociali, statistici convergono nel rilevare<br />

l'urgenza di una svolta verso un obbligo assoluto alla conversione “green” delle società e delle economie del Pianeta. E si<br />

sta diffondendo anche la teoria che una decrescita felice e guidata possa essere la strada giusta di un nuovo e diverso<br />

benessere economico e sociale.<br />

L’insostenibilità in scena. Sono tanti i settori in cui la scelta della sostenibilità oggi può fungere da catalizzatore<br />

per un circuito economico virtuoso. Anche in un paese come l'<strong>Italia</strong>, dove il rispetto dei beni comuni non è certo<br />

particolarmente sviluppato, gli stili di vita “verdi” si estendono in modo sorprendente, toccando perfino le aree<br />

geografiche e le fasce sociali meno sensibili: si assiste progressivamente alla crescita di consapevolezza ecologica<br />

seppure con una chiara preponderanza dei giovani e delle donne quali veri motori di questo "cambiamento di gusto" in<br />

atto. Siamo sempre più consapevoli di quanto possiamo danneggiare, ma anche salvaguardare, l'ecosistema: i risultati<br />

positivi ottenuti nel ridurre il famoso "buco" nella fascia di ozono ha dimostrato le potenzialità di una decisione<br />

internazionale, combinata ad azioni imprenditoriali e individuali consapevoli.<br />

Sarà ben più difficile ed impegnativo, tuttavia, ridurre le emissioni di CO2 collegate allo sviluppo globale dei giorni<br />

nostri, basato sul petrolio e sui combustibili fossili: queste risorse vanno progressivamente esaurendosi, e l'insostenibilità<br />

ambientale di un'economia basata su di esse risulta evidente, non solo per l'impatto drammatico sul clima, ma anche per<br />

le conseguenze ambientali che incidenti e incuria umana possono provocare. La svolta verso la produzione diffusa da<br />

fonti rinnovabili è diventata una necessità economica oltre che ambientale.<br />

Natura e biodiversità. Si sta diffondendo la consapevolezza che la perdita di biodiversità animale e vegetale sia un<br />

delitto contro “Madre Terra”. L'umanità acquisisce sempre più coscienza del fatto che la sua sfida a “dominare” le forze<br />

naturali per garantire la sopravvivenza ed il benessere della specie “homo sapiens” si sta trasformando in uno<br />

sfruttamento indiscriminato delle risorse del Pianeta, e che queste scelte scellerate ci espongono al rischio di un<br />

drammatico peggioramento della qualità della vita.<br />

Smart & Green Cities. Le città sono il luogo della rivoluzione industriale e della maggiore concentrazione di emissione<br />

di CO2, è quindi intuitivo che la cosiddetta impronta ecologica degli abitanti delle città è enormemente superiore a quella<br />

delle campagne. Occorre capire quanto rapidamente gli italiani saranno in grado di svoltare verso la sostenibilità<br />

ambientale e sociale dello sviluppo e specialmente quando saranno in grado di farlo i paesi di vecchia e nuova<br />

industrializzazione.<br />

Abbiamo tutti gli strumenti culturali, politici, economici e anche spirituali per contrastare l'insostenibilità e realizzare<br />

uno sviluppo sociale ed economico in armonia con la natura e con la vivibilità futura della Terra, uno sviluppo più giusto<br />

ed equo senza rinunciare al benessere ma evitando sprechi e scempi.<br />

Certamente proprio le popolazioni urbane, le città si devono trasformare da luogo di ricchezza ma anche di degrado<br />

ambientale e sociale in un luogo di rigenerazione ecologica. Nelle città vi sono le risorse economiche per la più grande<br />

trasformazione del patrimonio edilizio e del sistema di trasporto da “sanguisughe” energetiche in nuovi piccoli<br />

produttori-consumatori di energia rinnovabile.<br />

I cinque pilastri della terza rivoluzione industriale. Per invertire una tendenza inarrestabile occorre puntare su energie<br />

rinnovabili ed efficienza energetica, su green building e trasporto elettrico o a idrogeno, e poi agire per la protezione<br />

internazionale dei grandi assorbitori di Co2, foreste e oceani ed infine promuovere la diffusione di un’agricoltura<br />

sostenibile. Azioni difficili ma perseguibili solo se i paesi più ricchi decideranno di trasferire le tecnologie innovative,<br />

già disponibili, ai paesi in via di sviluppo e a quelli poveri.<br />

In questo modo si potranno ridurre le emissioni in modo equilibrato, aiutando chi ora cerca il benessere a evitare gli<br />

“errori” europei ed americani facendo passare subito quei paesi a un modello di sviluppo sostenibile scavalcando la fase<br />

dei modelli di trasporto, di industrie ed edifici insostenibili.<br />

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Ecco i cinque pilastri, ormai in fase di costruzione non solo in Europa ma anche in altre aree, che rispondono proprio a<br />

quelle riforme necessarie per un’economia mondiale sostenibile: energie rinnovabili, edifici che producono energia,<br />

accumulazione dell’energia con idrogeno ed altre tecnologie, nuova infrastruttura di reti elettriche intelligenti, trasporto<br />

elettrico o ad idrogeno.<br />

Le rinnovabili saranno l'energia del futuro, occorre pertanto procedere con determinazione verso il loro sviluppo e la loro<br />

diffusione: oggi la sfida vera è quella di produrre energia da fonti rinnovabili in modo sostenibile, ovvero tramite piccole<br />

produzioni diffuse, scambio su reti intelligenti (smart grid) e soprattutto integrate a sistemi di uso efficiente dell'energia.<br />

Il concetto fondamentale è quindi che le energie rinnovabili devono essere prodotte e consumate in modo sostenibile ma<br />

senza prescindere da un'educazione ambientale che insegni l'uso razionale e sobrio delle risorse. Inutile costruire case<br />

verdi, produrre energie verdi se poi non si ha una coscienza e un modus vivendi verde.<br />

Le case verdi, trasporti elettrici, le reti intelligenti: la sostenibilità genera una democrazia energetica. Sempre più<br />

la bioedilizia, la bioarchitettura ovvero il green building stanno diventando l'occasione di rilancio di un settore edilizio<br />

sotto shock dopo il crollo delle bolle immobiliari e lo scandalo dei mutui subprime.<br />

Trasformare il grande patrimonio edilizio in tante piccole centrali di produzione di energia rinnovabile è un'opportunità<br />

incentivata dalle normative.<br />

L'obbligo di ridurre sempre più le emissioni di CO2 dei veicoli, le politiche urbane di incentivo al trasporto elettrico<br />

stanno spingendo i produttori ed i consumatori verso la scelta elettrica.<br />

Se a questa svolta nell'edilizia e dei trasporti colleghiamo anche la decisione dell'Unione europea di promuovere la<br />

modifica delle reti elettriche in “Smart grids”, ovvero reti intelligenti bidirezionali in cui scambiare energia tra tanti<br />

piccoli produttori-consumatori con un investimento pubblico-privato, allora capiamo quale svolta di “green economy” è<br />

alle porte.<br />

In pratica il sistema dell'energia seguirebbe l'evoluzione del sistema delle comunicazioni: una rete energetica distribuita e<br />

bidirezionale romperebbe la centralizzazione energetica creando una sorta di democrazia energetica.<br />

Questa sarebbe vera Sostenibilità. Prodursi da soli l'energia necessaria e magari i propri carburanti e consumarli secondo<br />

i princìpi della filiera corta.<br />

Il XXl Secolo sarà il “Secolo verde”? Quanto scritto finora delinea un “XXI secolo verde” che sarà tale nonostante la<br />

paralisi di molte Istituzioni centrali, soprattutto grazie alla diffusa mobilitazione delle coscienze: ciò che sta accadendo<br />

nel mondo e anche in <strong>Italia</strong>, induce a trovare ragioni di speranza in questa capacità del genere umano di “generare degli<br />

anticorpi” resistenti rispetto alla crescente capacità e tendenza distruttrice verso il nostro habitat mostrate negli ultimi<br />

decenni.<br />

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SCHEDA 51 | THE DAY AFTER. LA STAMPA QUOTIDIANA ITALIANA<br />

DI FRONTE ALL’INCIDENTE NUCLEARE DI FUKUSHIMA<br />

Per comprendere il ruolo giocato dalla stampa quotidiana italiana all’indomani dell’incidente che ha colpito i quattro<br />

reattori nucleari di Fukushima e valutarne l’impatto sulla formazione dell’opinione pubblica alla luce anche del<br />

referendum del 12/13 giugno dello scorso anno, sono stati presi in considerazione i due principali quotidiani italiani: la<br />

Repubblica e il Corriere della Sera. Il periodo di rilevazione ha riguardato il mese successivo al primo incidente e<br />

dunque dal 12 marzo del 2011 al 13 aprile. Le dimensioni di analisi per ciascun articolo analizzato sono: a)<br />

caratteristiche morfologiche; b) modalità di presentazione; c) modalità comunicative; d) ambito territoriale. In totale<br />

sono stati rilevati 168 articoli: 78 in la Repubblica e 90 nel Corriere della Sera. Non ci sono state grandi differenze tra le<br />

due testate sulla modalità di affrontare la tematizzazione e la cornice interpretativa dell’evento: una forte enfasi e<br />

sensazionalismo iniziale, seguita a breve distanza di tempo da uno slittamento nella priorità delle notizie, fino a<br />

scomparire del tutto, dopo appena una settimana, dalle prime pagine. Un dato da evidenziare riguarda la priorità<br />

inversamente proporzionale data alle news rispetto il livello di gravità della situazione che si andava progressivamente<br />

configurando. Quando il 12 aprile, il governo di Tokyo ha ammesso che l ’incidente in realtà aveva raggiunto il livello di<br />

Chernobyl, il tema aveva perso ormai completamente rilevanza. A concorrere a questo scivolamento nell’ordine delle<br />

priorità hanno contribuito eventi quali: il fortissimo terremoto e conseguente Tsunami in Giappone e l’inizio della guerra<br />

in Libia il 18 marzo, l’emergenza profughi a Lampedusa. Questi eventi hanno messo in secondo piano le tragiche notizie<br />

provenienti dal Giappone allargando il solco tra la percezione pubblica dell’incidente ed i fatti che avvenivano a<br />

Fukushima. È rilevante la bassa presenza di articoli di inchiesta o di fondo (8%) in merito ai fatti che avvenivano<br />

all’interno delle diverse centrali. Tra questi sono del tutto assenti quegli articoli miranti ad approfondire la reale<br />

situazione all’interno ed attorno al complesso degli impianti nucleari di Fukushima Daiichi e la conoscenza degli impatti<br />

e degli effetti sociali ed ecologici derivati da tali incidenti.<br />

Se si considerano le fonti almeno la metà degli articoli proviene da fonti di natura istituzionale. Nel 43% dei casi si è<br />

fatto riferimento a fonti istituzionali giapponesi quali: il governo, l’Agenzia di sicurezza nucleare e la Tepco (Tokyo<br />

Electric Power Corporation), tutte accusate dall’opinione pubblica internazionale e dalle principali agenzie scientifiche<br />

di tenere nascosta la gravità del disastro.<br />

Gli esperti e gli scienziati come Veronesi, Rubbia o altri professionisti del settore sono stati coinvolti per sostenere o<br />

meno i punti di vista dei politici sull’utilità o meno dell’energia nucleare nella politica energetica. Quest’utilizzo<br />

“bipartisan” dell’esperto, unito alla fine del mito dell’imparzialità del tecnico, fanno sì che il mondo scientifico riscuota<br />

meno credibilità e fiducia nell’opinione pubblica.<br />

Le evidenze mostrate sottolineano la progressiva perdita di indipendenza e libertà di operato da parte dei giornalisti<br />

nell’investigare fatti, approfondire le notizie date e scoprire quelle non riportate o tenute nascoste. I giornalisti appaiono<br />

ingaggiati alle dipendenze dei loro editori (spesso controllati da azionisti bancari o industriali oppure da partiti) in forme<br />

embedded come in guerra. Così, la prima vittima è sempre la verità.<br />

Nel totale degli articoli analizzati, solamente il 10% ha fatto riferimento ad un punto di vista scientifico per affrontare<br />

l’evento. Negli articoli ai quali è stata data una prospettiva scientifica, la natura del contesto disciplinare di<br />

approfondimento non è stata rilevabile nell’86% dei casi. Gli editoriali e le interviste hanno rappresentato l’unica<br />

occasione nella quale la materia è stata trattata da un punto di vista scientifico. La principale disciplina nella quale la<br />

materia ha avuto un approfondimento è stata l’economia.<br />

Gli articoli non hanno aiutato i lettori a comprendere ciò che stava avvenendo nella centrale. Il livello di educazione e di<br />

conoscenza tecnica richiesta per la comprensione dei pezzi è stato alto per il 52% (molto alto: 10%; alto: 19%; medioalto:<br />

23%) mentre per il 48% è stato basso. Certo, occorre ricordare la differenza di obiettivi tra l’informazione<br />

scientifica e l’informazione giornalistica, la prima tendente alla complessità della narrazione e la seconda alla<br />

semplificazione del format.<br />

Dall’analisi dell’ambito territoriale degli articoli, si vede come la stampa italiana abbia focalizzato l’attenzione<br />

principalmente sul Giappone. L’incidente alla centrale nucleare di Fukushima è stato presentato come un problema<br />

principalmente giapponese, le cui ripercussioni sulla salute umana potranno interessare al massimo Tokyo. Mentre gli<br />

effetti sull’ambiente e sull’uomo su scala locale riguardano il 15% degli articoli; quelli su scala globale sono citati nel<br />

6% di essi.<br />

Si può affermare che l’incidente di Fukushima, per le modalità con le quali è stato comunicato, non ha avuto<br />

alcun effetto sociale? Per rispondere a questa domanda, si devono considerare i risultati del referendum sul nucleare.<br />

Certamente il ruolo giocato dai nuovi media e dalle nuove forme non convenzionali di comunicazione politica dei<br />

movimenti e comitati hanno avuto un forte impatto nel favorire le ragioni del “Sì”.<br />

Fukushima dimostra come oggi il rapporto tra opinione pubblica e media mainstream, comprese le principali testate<br />

quotidiane, è più debole rispetto agli anni passati. Oggi i quotidiani non possono più essere considerati come il solo<br />

indice di comprensione degli atteggiamenti dell’opinione pubblica e pertanto il loro impatto ne risulta mitigato.<br />

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SCHEDA 52 | CONTRASTO AI CAMBIAMENTI CLIMATICI: L’ADATTAMENTO<br />

Gli impatti dei cambiamenti climatici in Europa. L’aumento delle temperature, la modifica del regime delle precipitazioni,<br />

l’innalzamento del livello del mare, fenomeni meteorologici estremi più intensi e frequenti, lo scioglimento dei ghiacciai,<br />

calotte polari e dei ghiacci marini artici, sono i segnali del cambiamento climatico e costituiscono le sfide che l’Europa deve<br />

vincere. Le recenti osservazioni sul territorio europeo mostrano che la temperatura è aumentata più della media mondiale; le<br />

precipitazione sono aumentate nel Nord Europa, mentre sono diminuite in alcune zone del Sud Europa; le ondate di caldo sono<br />

diventate più frequenti e più acute, mentre episodi di freddo intenso sono diminuiti nel corso degli ultimi 50 anni. Le proiezioni<br />

indicano un aumento della temperatura media per la fine di questo secolo tra 1,0 e 5,5°C. Gli scenari futuri indicano che i<br />

cambiamenti climatici influiranno su tutti i settori dell’economia, tra cui l’agricoltura, la fertilità del suolo, lo stato e la<br />

produttività delle foreste, gli ecosistemi marini, la biodiversità, la fornitura e la domanda di energia, infrastrutture, risorse<br />

idriche e salute umana. Secondo l’EEA (European Environment Agency), nei paesi dell’Unione europea la mortalità è stimata<br />

in aumento di 1-4% per ogni aumento di un grado della temperatura, il che significa che la mortalità correlata al calore<br />

potrebbe aumentare di 30.000 decessi l’anno entro il 2030 e da 50.000 a 110.000 decessi all’anno dal 2080 (progetto<br />

PESETA). A causa della variabilità regionale e della gravità dell’impatto dei cambiamenti climatici, la maggior parte delle<br />

misure di adattamento si studieranno e si applicheranno a livello nazionale, regionale o locale. Tuttavia, l’adattamento può<br />

essere sostenuto e rafforzato da un approccio integrato a livello europeo. Il progetto di ricerca PESETA “Climate change<br />

impacts in Europe” delinea come l’Unione europea si troverebbe a perdere tra i 20 e 65 miliardi di euro se oggi dovessero<br />

verificarsi le condizioni climatiche previste per il 2080, ossia con un incremento della temperatura tra i 2,5 e i 5,4°C.<br />

Da un punto di vista regionale, l’Europa meridionale – in particolare Bulgaria, Grecia, <strong>Italia</strong>, Portogallo e Spagna –<br />

conoscerebbe il tasso di perdita di benessere più alto tra lo 0,3 e l’1,6% l’anno ed un 25% di riduzione della produzione<br />

agricola. Il settore del turismo in questa regione potrebbe perdere fino a 5 miliardi di euro ogni anno.<br />

La situazione in <strong>Italia</strong>. Il nostro Paese è ancora fortemente carente di ricerche sugli impatti e sull’adattamento ai mutamenti<br />

del clima. Secondo il CNR-ISAC, le temperature medie annuali in <strong>Italia</strong> sono cresciute negli ultimi due secoli di 1,7°C (pari a<br />

oltre 0,8°C per secolo), ma il contributo più rilevante a questo aumento è avvenuto in questi ultimi 50 anni, per i quali<br />

l’incremento è stato di circa 1,4°C. Le maggiori criticità in <strong>Italia</strong>, a seguito dei prevedibili cambiamenti climatici, riguardano<br />

soprattutto le conseguenze sull’ambiente marino costiero in relazione all’innalzamento del livello del mare; le conseguenze su<br />

suolo, ecosistemi e agricoltura in relazione alle variazioni di temperatura, precipitazioni ed umidità e gli eventuali potenziali<br />

rischi aggiuntivi in relazione all’acutizzarsi di eventi estremi. I ghiacciai alpini sono diminuiti del 55% a partire dal 1850 e alla<br />

fine di questo secolo si prevede che quelli sotto quota 3.500 metri saranno estinti. La conseguenza sarà che i nostri fiumi<br />

avranno una portata d’acqua dimezzata, come già sta accadendo per il Po (-10%) e altri fiumi meridionali, come il Tevere o<br />

l’Arno, (in media -20%), una diminuzione dell’umidità dei suoli, un aumento della salinizzazione nei mari e un deficit di<br />

acqua. Relativamente al rischio di desertificazione, il CRA (Consiglio per la Ricerca e la Sperimentazione in Agricoltura),<br />

stima che circa il 50% dell’intero territorio nazionale presenti potenzialmente tale rischio a causa di fattori climatici e<br />

pedologici, in particolare in zone quali la Sardegna, la Puglia, la Sicilia, la Calabria, la Basilicata e la Campania. Altra criticità<br />

rilevata è quella relativa al rischio idrogeologico: oggi nel nostro Paese si contano 13.000 aree a rischio idrogeologico elevato e<br />

molto elevato (pari a 29.000 kmq), aree dove i processi naturali interagiscono con il sistema antropizzato. Sono numeri<br />

piuttosto importanti, come lo sono le cifre che riguardano il denaro pubblico utilizzato per sopperire a queste calamità. Gli<br />

scenari futuri prevedono: un probabile innalzamento del livello del mare tra i 28 e i 43 centimetri, entro il 2100; un rischio di<br />

allagamento di 4.500 chilometri quadrati di aree costiere e pianure (25,4%, nel Nord; 5,4%, al Centro; 62,6%, al Sud; 6,6%, in<br />

Sardegna); aree a rischio, come la Laguna di Venezia e le coste dell’Alto Adriatico, come le aree delle foci di alcuni fiumi, le<br />

aree a carattere lagunare come la Laguna di Orbetello e le coste particolarmente basse. Per quanto riguarda le risorse idriche, la<br />

situazione attuale si presenta con una diminuzione dei ghiacciai e una riduzione di quantità/durata di innevamento. Rispetto al<br />

cinquantennio precedente, dal 1990 è stato rilevato un anticipo della fusione primaverile di 15 giorni, attorno a quota 2.500<br />

metri. Tale dato ha una notevole rilevanza sulla portata del Po che, nel luglio 2007, è stata pari a 391 m3/s, a fronte di un valore<br />

storico medio di 1.156 m3/s. Gli scenari futuri indicano: una riduzione dei ghiacciai più ampi, entro il 2100, dal 30% al 70%;<br />

una scomparsa, entro il 2050, dei ghiacciai minori posti al di sotto dei 3.500 metri; una riduzione/scioglimento anticipato delle<br />

nevi; un aumento della frequenza di eventi siccitosi (da un evento ogni 100 anni a uno ogni 50 anni, o meno, entro il 2070);<br />

una riduzione, entro il 2070, della portata dei corsi d’acqua alpini fino all’80% nei mesi estivi. A causa di queste problematiche<br />

appare fondamentale per l’<strong>Italia</strong> avviare un Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici collegato alla strategia di<br />

mitigazione.<br />

I costi dei cambiamenti climatici in <strong>Italia</strong>. Il mancato adattamento ai cambiamenti climatici secondo le previsioni, potrebbe<br />

costare, nel 2050, al sistema economico italiano una perdita di Pil compresa tra lo 0,12 e lo 0,20%. Connessa al rischio di<br />

desertificazione, è prevista una diminuzione di resa agricola che, in completa assenza di politiche e strategie di adattamento,<br />

potrebbe essere calcolata tra gli 11,5 (nel caso di terreni adibiti a pascolo) e i 412,5 milioni di dollari l’anno (nel caso di terreni<br />

irrigati). L’innalzamento della temperatura potrebbe costare nel 2030 una diminuzione del turismo straniero sulle nostre Alpi<br />

del 21,2%, mentre nel 2080 i danni dei cambiamenti climatici sulle aree costiere della Penisola sarebbero pari a 108 milioni di<br />

dollari in assenza di politiche e strategie di adattamento, costo che, invece, scenderebbe a circa 17 milioni se si adottassero<br />

azioni di protezione delle coste.<br />

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SCHEDA 53 | ENERGIA DA FONTE EOLICA E PIANO D’AZIONE NAZIONALE: SITUAZIONE E PROSPETTIVE<br />

Nel mondo la produzione di energia elettrica da fonte eolica ha avuto un trend estremamente positivo negli ultimi anni<br />

raggiungendo a fine 2010 un valore di potenza installata di 194.390 MW: Europa, Asia e Nord America, rispettivamente con<br />

86.075, 58.641 e 44.189 MW installati, rappresentano le aree con il maggior contributo. La Germania, con 27.214 MW, è il primo<br />

Paese europeo, alle spalle di Cina e Stati Uniti.<br />

Le prospettive di sviluppo. Per i prossimi anni sono ancora più promettenti le prospettive, sia secondo l’Unione europea che le<br />

grandi Associazioni mondiali ed europee del settore. Si prevede più del raddoppio della potenza installata nel mondo al 2015 (450<br />

GW) e, secondo la Ue, la copertura da fonte eolica al 2020 sarà di circa il 12% del consumo totale dell’energia elettrica in Europa.<br />

Tali grandi opportunità hanno determinato un importante coinvolgimento industriale nel settore: ad esempio, Siemens, General<br />

Electric, Alstom ed altri grandi gruppi internazionali sono pienamente impegnati nella produzione delle macchine eoliche.<br />

La tecnologia. Il continuo sviluppo tecnologico delle macchine sta portando ad aerogeneratori di taglia sempre maggiore con<br />

un’ulteriore riduzione dei costi di impianto e dell’energia prodotta. Attualmente la potenza nominale per gli aerogeneratori<br />

commerciali di grande taglia va da 1.5 a 3 MW con diametri rotorici sino a 110 m e le più importanti imprese costruttrici hanno<br />

sviluppato le prime macchine da 5-6 MW (sino a 130 m di diametro rotorico) destinate anche al mercato offshore.<br />

Le attuali ricerche internazionali si stanno indirizzando verso macchine della potenza unitaria di 10 MW (per abbattere<br />

ulteriormente i costi dell’energia prodotta) e verso le grandi applicazioni offshore. L’industria europea, insieme alle istituzioni di<br />

ricerca dei vari paesi, anche nell’ambito delle iniziative lanciate dalla Commissione Europea, è impegnata su questi obiettivi.<br />

Il mercato in <strong>Italia</strong>. Si è avuta una notevole diffusione degli impianti eolici, con circa 5.800 MW a fine 2010 (terza in Europa,<br />

sesta nel mondo). La diffusione dell’eolico, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, ha portato l’<strong>Italia</strong>, con 5.797 MW<br />

installati a fine 2010, ad essere il terzo paese europeo in termini di potenza installata, dopo Germania e Spagna. L’energia elettrica<br />

da fonte eolica prodotta nel 2010 è stata di 8.374 GWh, corrispondente al 2,6% della domanda complessiva. L’incremento di<br />

potenza installata nel corso del 2010 è stato di 948 MW, principalmente nelle regioni meridionali, in particolare Sicilia, Puglia,<br />

Campania e Sardegna. In <strong>Italia</strong> sono installate attualmente 4.852 turbine eoliche, con potenza media unitaria di 1.195 kW. Di<br />

queste 615 sono state installate nel corso del 2010 (potenza media unitaria di 1.541 kW). Tutti gli impianti sono del tipo “onshore”,<br />

situati per la maggior parte in zone collinari o montane. Il 2010 è stato il primo anno nella storia dell’eolico italiano nel<br />

quale si è registrata una flessione della potenza installata rispetto all’anno precedente: 948 MW contro 1.114 MW del 2009. Ciò<br />

appare connesso alla revisione del meccanismo delle incentivazioni, annunciata nella primavera del 2010 e approvata con la<br />

riforma del marzo scorso. Analogamente potrebbe spiegarsi il calo di nuove installazioni nel corso dei primi sei mesi del 2011, per<br />

complessivi 414 MW rispetto ai circa 500 MW degli ultimi anni nello stesso periodo. Le installazioni sono localizzate<br />

essenzialmente nelle regioni centro-meridionali e nelle Isole, dove vi sono vaste aree caratterizzate da un buon regime eolico.<br />

L’impatto economico ed occupazionale. Il fatturato del comparto eolico italiano nel 2010, nonostante la battuta di arresto<br />

registrata rispetto al 2009 (615 macchine installate contro 652), si è attestato intorno a 1,7 miliardi di euro.<br />

Sebbene solo una ridotta percentuale delle macchine installate sia costruita in <strong>Italia</strong>, l’impatto occupazionale è significativo, in<br />

particolare nel Meridione, dove minori sono le opportunità di lavoro. Le cinque regioni con maggior potenza installata a fine 2010<br />

sono nell’ordine: Sicilia (1.450 MW), Puglia (1.286 MW), Campania (814 MW), Sardegna (674 MW) e Calabria (587).<br />

Circa 8.200 unità lavorative sono direttamente impiegate nel settore eolico alla fine del 2010, e questa cifra sale a più di 28.000<br />

considerando l’intero indotto del settore. È stato stimato che, se il potenziale eolico stimato di 16.200 MW fosse interamente<br />

sfruttato, i posti di lavoro, compreso l’indotto, raggiungerebbero le 67.000 unità entro il 2020.<br />

L’industria. Nonostante l’elevata diffusione degli impianti, il coinvolgimento dell’industria nazionale (in particolare medie e<br />

grandi imprese) è stato scarso e anche le attività di ricerca e sviluppo nel settore sono risultate modeste. I costruttori delle turbine<br />

eoliche installate in <strong>Italia</strong> sono prevalentemente stranieri. Quasi il 43% del mercato è detenuto dall’industria danese, mentre<br />

l’industria tedesca pesa per quasi il 27%, seguita da quella spagnola con una quota del 22%. Per quanto riguarda le sole<br />

installazioni del 2010, su un totale di 948 MW, 328 MW sono stati installati con turbine tedesche, 313 MW con turbine danesi,<br />

272 MW con macchine spagnole. Nonostante il notevole sviluppo del settore eolico italiano, l’industria nazionale è inserita nel<br />

settore essenzialmente per la fornitura di componenti e sottosistemi, mancando di fatto, una manifattura nazionale per le turbine di<br />

grande taglia. Per ciò che concerne il mercato della produzione di energia elettrica da fonte eolica, nel 2010 i primi dieci produttori<br />

in <strong>Italia</strong> detengono oltre il 60% del mercato, calcolato come percentuale della potenza totale installata.<br />

Criticità. Il costo d’investimento delle centrali eoliche in <strong>Italia</strong> è generalmente più alto che in altri paesi poichè la maggioranza<br />

degli impianti sono stati installati in aree collinari o montane non sempre facilmente accessibili, con un conseguente aumento dei<br />

costi di trasporto, installazione, connessione alla rete elettrica, operatività e manutenzione. I costi dell’impianto eolico possono<br />

essere così suddivisi: il 10%-20% per lo sviluppo progettuale); 60%-70% per gli aerogeneratori, compreso il trasporto,<br />

installazione, ed avvio operativo; 20%-25% per le opere civili ed elettriche, linee di connessione alla rete elettrica, ed altre<br />

infrastrutture.In linea con le stime del Gestore del Sistema Elettrico, il costo medio per una configurazione tipica di impianto<br />

eolico installato a terra con una potenza complessiva media di 20 MW, in un sito di media complessità, in <strong>Italia</strong> può essere<br />

valutato in 1.740 euro/kW, con un intervallo che va da 1.550 euro/kW per grandi impianti installati in aree a bassa complessità ad<br />

un massimo di 2.000 euro/kW per piccoli impianti installati in siti ad orografia complessa. Sempre secondo le stime GSE,<br />

nell’ipotesi di un andamento dei costi di manutenzione crescente in funzione della vita dell’impianto (20 anni) dall’1 al 4% del<br />

costo capitale, e con 1.800 ore equivalenti annue di funzionamento delle macchine, il costo del kWh prodotto è di 127.5 e 138.5<br />

euro/MWh per tassi di attualizzazione rispettivamente del 5 e 7%.<br />

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SCHEDA 54 | BIODIVERSITÀ, SOSTENIBILITÀ E SVILUPPO ECONOMICO<br />

La Convenzione delle Nazioni Unite sulla Diversità Biologica è stata firmata dall’<strong>Italia</strong> e da molti altri paesi, nel 1992 al<br />

Summit di Rio de Janeiro, e poi debitamente ratificata.<br />

La biodiversità in cifre. L’Europa non è, di per sè, da considerarsi come un’area particolarmente ricca di biodiversità,<br />

se paragonata a regioni equivalenti in Asia e in America. Da un punto di vista ecosistemico, una superficie pari al 33%<br />

dell’Europa dei 25 (più la Norvegia e la Svizzera) è costituita da aree coltivate, il 30% da aree forestali e il 16 % da<br />

pascoli. Le aree urbane coprono una superficie pari a circa il 2% (Eea, 2007).<br />

La maggior parte delle specie di piante ed animali che vivono in Europa è concentrata nell’area mediterranea, che<br />

rappresenta, a livello mondiale, uno dei 33 punti nevralgici per la Biodiversità.<br />

Rispetto alla situazione europea, il patrimonio italiano di biodiversità è da considerarsi assolutamente cospicuo, in<br />

quanto caratterizzato da un numero di specie animali e vegetali molto elevato (in rapporto al numero totale di specie<br />

presenti in Europa) e da un altrettanto elevato numero di endemismi.<br />

Le attività che impattano la Biodiversità. Attualmente in Europa l’uso del suolo continua a cambiare. La maggior<br />

parte dei cittadini europei vive nelle aree urbane. L’abbandono di alcune aree prima dedicate all’agricoltura, il ricorso<br />

all’afforestazione in seguito ad alcune politiche dell’Ue, il ricorso al set-aside, ha fatto in modo che si registrasse un<br />

aumento delle aree forestali. Ad un aumento della superficie forestale, però, non corrisponde un recupero della<br />

biodiversità, in quanto questi nuovi habitat non hanno le caratteristiche qualitative necessarie per sostenere in modo<br />

adeguato una biodiversità di qualità.<br />

Nel continente europeo sono oggi minacciati il 42% dei mammiferi, il 15% degli uccelli e il 52% dei pesci d’acqua<br />

dolce; inoltre, sono gravemente minacciate oppure in via di estinzione quasi 1.000 specie vegetali.<br />

La conservazione in Europa ed in <strong>Italia</strong>. Per proteggere l’ambiente e contrastare l’estinzione delle specie animali e<br />

vegetali, gli Stati si sono primariamente dotati di aree protette, dove la biodiversità e l’uomo interagiscono in maniera<br />

differenziata a seconda delle necessità legate alla conservazione.<br />

Il sistema italiano è da stimarsi in 772 Aree protette, per un totale pari ad una superficie di circa il 10% della superficie<br />

totale del nostro Paese (Elenco Ufficiale delle Aree Naturali protette, 5° aggiornamento 2003, Supplemento ordinario<br />

n.144 alla Gazzetta Ufficiale n.205 del 4.9.2003 e successive integrazioni).<br />

L’Europa e le politiche in favore della biodiversità. Nel maggio 2006 la Commissione Europea ha adottato una<br />

comunicazione su “Arrestare la perdita di biodiversità entro il 2010 - e oltre: Sostenere i servizi ecosistemici per il<br />

benessere umano” (European Commission, 2006), nel quale ha evidenziato l’importanza della tutela della biodiversità<br />

come prerequisito per lo sviluppo sostenibile.<br />

Si stima che le opportunità di business globale per investimenti che riguardano la biodiversità potrebbero valere, al 2050,<br />

intorno ai 2-6 trilioni di dollari. Tuttavia, finora in Europa gli obiettivi della conservazione della biodiversità hanno<br />

prevalso sugli “usi sostenibili”. Infatti la designazione dei “Siti Natura 2000” ha quasi raggiunto la copertura del 18% del<br />

territorio europeo, raggiungendo e superando, così, l’obiettivo fissato a livello mondiale del 17% di ecosistemi terrestri e<br />

d’acqua dolce protetti entro il 2020. Tuttavia, se l’Ue vuole raggiungere l’obiettivo globale di proteggere almeno il 10%<br />

delle zone costiere e marine, saranno necessari ulteriori sforzi, in quanto quella tipologia ambientale risulta ancora sottoprotetta.<br />

Allo stato attuale, infatti, poco più del 4% delle aree marine dell’Ue fanno parte della rete “Natura 2000”.<br />

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SCHEDA 55 | AGRICOLTURA, PER UN NUOVO “PATTO CON LA SOCIETÀ”<br />

Si prefigura anche per il settore agricolo la necessità di attuare con la società un “nuovo patto”, nel quale, oltre alla<br />

produzione di beni alimentari, questo comparto si impegna a svolgere azioni di tutela e di conservazione dello spazio<br />

rurale e dell’ambiente. Occorre avere la consapevolezza che la tutela del settore agricolo assume ed assumerà sempre più<br />

importanza, in relazione alle esternalità positive che sarà in grado di fornire alla nostra società (presidio e manutenzione<br />

del territorio, conservazione del paesaggio, tutela della flora e della fauna, conservazione della biodiversità, creazione di<br />

spazi ad uso ricreazionale, conservazione degli aspetti culturali tradizionali del territorio rurale, mitigazione degli effetti<br />

ambientali negativi prodotti da altre attività produttive o di consumo, tutela e conservazione dei prodotti tipici, ecc.).<br />

La competizione agro-alimentare avviata a livello mondiale con gli accordi del WTO, in mancanza di regole uguali per<br />

tutti, non potrà mai essere vinta dal nostro Paese sulla base dei bassi costi di produzione. Essa potrà essere affrontata<br />

offrendo sul mercato globale prodotti di eccellenza, che potranno soddisfare quel segmento di mercato disposto a pagare<br />

di più pur di avere un prodotto di elevata qualità, sicuro da un punto di vista nutrizionale e tracciabile.<br />

Anche le nuove norme in tema di etichettatura, fortemente volute dai consumatori al fine di operare acquisti consapevoli,<br />

hanno contribuito a migliorare gli approvvigionamenti alimentari. In particolare, il 90% dei consumatori dichiara di<br />

leggere le etichette prima di operare i propri acquisti.<br />

Secondo l’indagine effettuata dalla Fondazione UniVerde con IPR Marketing, alla domanda “I prodotti agricoli in <strong>Italia</strong>,<br />

rispetto a quelli provenienti da altri paesi…”, è risultato che i nostri prodotti, a giudizio degli intervistati, vantano sempre<br />

caratteristiche migliori, sia da un punto di vista della “genuinità” (66% degli intervistati), sia per i “controlli” (ancora<br />

66%), sia, infine per i “sapori” (72%)<br />

L’agricoltura, attraverso pratiche agronomiche “soffici”, contribuisce anche al mantenimento degli equilibri ecologici.<br />

Dell’importanza dell’agricoltura per lo sviluppo sostenibile della nostra società è consapevole anche il consumatore, che<br />

alla domanda qual è “l’attenzione per l’agricoltura in <strong>Italia</strong>” risponde per il 59% dei casi che all’agricoltura viene data<br />

poca importanza. Nello stesso tempo gli intervistati hanno riconosciuto per il 72% delle risposte “un ruolo positivo”<br />

all’agricoltura per quanto riguarda la tutela ambientale.<br />

In particolare, “gli effetti positivi del lavoro degli agricoltori sull’ambiente”, a giudizio degli intervistati farebbero<br />

riferimento soprattutto alla “conservazione della tradizione agricola” (32%), “impediscono la cementificazione” (23%),<br />

“fanno manutenzione del territorio” (12%). Pertanto, obiettivo della Politica Agraria dovrebbe essere quello di<br />

promuovere un nuovo “patto sociale”, affinché il settore agricolo sia messo nelle condizioni di poter attuare quella<br />

multifunzionalità da tutti auspicata, in grado di determinare un reale “sviluppo sostenibile” del territorio. Gli obiettivi di<br />

carattere generale che occorre raggiungere sono molteplici e molto spesso strettamente collegati tra loro. Tra i principali<br />

si ricordano quelli di: contrastare l’esodo agricolo; evitare la produzione di eccedenze; minimizzare gli sprechi e le<br />

perdite di produzione e di distribuzione; evitare la diffusione di tecniche di produzione agricola che possano comportare<br />

la degradazione dell’ambiente.<br />

Si va diffondendo sempre più l’agricoltura biologica, intendendo con questo termine un tipo di agricoltura che non fa uso<br />

di prodotti chimici di sintesi, siano essi fertilizzanti o antiparassitari o altro ancora, e che adotta tecniche di produzione<br />

compatibili con l’ambiente in cui si inserisce. Nel nostro Paese il fatturato dell’agricoltura biologica è stato stimato per il<br />

2011 in 1,6 miliardi di euro ed i relativi prodotti sono per la gran parte esportati nei paesi del Nord Europa, con prezzi<br />

decisamente elevati. Un altro esempio di tecnica agricola rispettosa dell’ambiente è la cosiddetta “agricoltura<br />

conservativa”, costituita da un insieme di pratiche agricole che comportano: un’alterazione minima del suolo (tramite la<br />

semina su sodo o la minima lavorazione del terreno) al fine di preservare la struttura e la sostanza organica del suolo; la<br />

copertura permanente del suolo con residui colturali e/o coltivazioni specifiche, al fine di proteggere il terreno e<br />

contribuire all’eliminazione delle erbe infestanti; associazioni e rotazioni colturali diversificate, al fine di favorire i<br />

microrganismi del suolo e la lotta alle erbe infestanti, ai parassiti e alle malattie delle piante.<br />

Decisamente contrapposta all’agricoltura biologica e a quella conservativa è quella che utilizza Organismi geneticamente<br />

modificati (OGM) nelle coltivazioni e quella che in un prossimo futuro potrebbe utilizzare animali transgenici clonati per<br />

l’allevamento. Anche in questo caso, sempre secondo l’indagine della Fondazione UniVerde e IPR Marketing,<br />

l’intervistato si è dichiarato decisamente contrario, sia all’utilizzazione di Ogm (73%), sia all’utilizzazione di animali<br />

clonati (74%).<br />

L’agricoltura sostenibile rappresenta un traguardo ineluttabile per la nostra società. Chiunque deve essere conscio del<br />

fatto che in un futuro ormai prossimo l’agricoltura è chiamata a produrre alimenti in abbondanza, con migliori<br />

caratteristiche organolettiche, per un maggior numero di persone.<br />

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SCHEDA 56 | BIOEDILIZIA, BUONE PRASSI PER IL RISPARMIO ENERGETICO<br />

La bioedilizia può rappresentare un valido contributo al problema del risparmio energetico. Il <strong>Rapporto</strong> Onre 2011<br />

evidenzia come l’attenzione dei Comuni italiani verso queste tematiche stia crescendo rapidamente negli ultimi anni. I<br />

Comuni che nel 2011 hanno adottato criteri e obiettivi energetico-ambientali sostenibili sono 837, oltre il 10% in più<br />

rispetto ai 705 del 2010, su un totale di 8.092 unità amministrative. In base alle direttive europee, dalla 2002/91, fino alla<br />

recente direttiva 31/2010, entro il primo gennaio 2019 tutti i nuovi edifici pubblici, costruiti nei paesi dell’Unione<br />

europea, dovranno essere neutrali dal punto di vista energetico e dal primo gennaio 2021 anche tutti i nuovi edifici<br />

privati. Il recente <strong>Rapporto</strong> Cresme (<strong>Rapporto</strong> Congiunturale e Previsionale “Il mercato delle costruzioni 2012”) indica<br />

le detrazioni fiscali del 55%, avviate nel 2007 e in scadenza al 31 dicembre del 2011, come lo strumento più efficace per<br />

sostenere il mercato dell’edilizia di qualità. Nel testo definitivo della “Manovra Salva <strong>Italia</strong>”, appena firmato dal<br />

Presidente della Repubblica, c’è la proroga della detrazione del 55% fino al 31 dicembre 2012 alle attuali condizioni. Dal<br />

1° gennaio 2013 la detrazione scenderà al 36%. Il Piano d’azione italiano per l’efficienza energetica 2011 mostra risultati<br />

molto positivi; relativamente al solo periodo 2007-2010, si stima, infatti: - un numero totale di interventi<br />

complessivamente eseguiti pari a circa 1.000.000; - un investimento complessivo di oltre 11 miliardi di euro; - un valore<br />

totale delle detrazioni di circa 6 miliardi di euro, da ripartire nel periodo 2008-15. A fronte di tali costi, l’Enea ha stimato<br />

un risparmio energetico di circa 6.500 GWh/anno. Sulla quasi totalità del patrimonio edilizio nazionale sono necessari<br />

interventi sull’involucro (isolamento di pareti, tetto) e sugli infissi, con cui si possono già ottenere notevoli risultati di<br />

comfort e considerevoli risparmi. Infatti, riducendo le dispersioni, si può ottenere sino al 70/80% di risparmio sulle spese<br />

per il riscaldamento e per il raffreddamento con notevoli vantaggi per il bilancio familiare e per l’ambiente.<br />

Secondo alcune simulazioni, un cittadino che risiede in un appartamento condominiale di circa 100 mq a Roma, potrebbe<br />

risparmiare, a seguito di un intervento di riqualificazione energetica del proprio appartamento, circa il 55% dei consumi<br />

e delle emissioni di CO2. In ben 458 Comuni si obbliga l’installazione di pannelli solari termici, mentre in 481 diventa<br />

obbligatorio per i nuovi edifici allacciare pannelli fotovoltaici. Il GSE (<strong>Rapporto</strong> Statistico, 2010-GSE e Terna) rileva<br />

che nel periodo compreso tra il 2000 e il 2010 la potenza installata in <strong>Italia</strong> da fonti energetiche rinnovabili è passata da<br />

18.335 MW a 30.284 MW, registrando un incremento del 65%. La crescita ha riguardato soprattutto gli impianti<br />

fotovoltaici: nel 2010, rispetto all’anno precedente, si è registrato un incremento di numero (+118,8%) e potenza<br />

(+203,3%) degli impianti fotovoltaici generalizzato in tutte le Regioni. Il valore percentuale della crescita degli impianti<br />

varia da un minimo del 81,4% in Toscana ad un massimo del 327,1% in Valle d’Aosta; in termini di potenza invece da<br />

un +69,9% della Basilicata a un +360,3% della Valle d’Aosta. In termini assoluti la Lombardia possiede il maggior<br />

numero degli impianti con 23.274, seguita dal Veneto con 20.336. La Puglia si conferma la regione italiana con la<br />

maggior potenza installata arrivando a raggiungere 683,4 MW, seguita a distanza dalla Lombardia con 372,0 MW.<br />

Gli interventi di installazione di pannelli solari per la produzione di acqua calda sanitaria hanno rappresentato nel corso<br />

dell’anno fiscale 2009 circa il 15% del totale delle pratiche per il beneficio fiscale (17% nel 2008).<br />

Efficienza energetica in edilizia. Gli interventi di sostituzione degli impianti termici rappresentano nel 2009 il 30% del<br />

totale degli interventi realizzati per l’ottenimento delle detrazioni fiscali del 55%, dei quali circa l’88% riguarda un<br />

generatore termico di piccola taglia (Enea, 2010). Agendo sul posizionamento e sull’orientamento dell’edificio si può<br />

ottenere una riduzione del fabbisogno medio annuo del 2-3% per l’energia elettrica e del 5-7% per l’energia termica.<br />

Risparmio idrico e recupero acque meteoriche. Le risorse idriche sono un altro punto di importanza fondamentale. Il<br />

recupero delle acque piovane, principalmente per l’irrigamento dei giardini, ed il risparmio idrico, sono resi obbligatori<br />

in 463 Comuni. Molto frequentemente viene promosso l’utilizzo di contatori per l’acqua potabile, riduttori di flusso<br />

all’interno delle abitazioni e di cisterne per la raccolta delle acque meteoriche. Secondo l’Istat, il prelievo d’acqua a uso<br />

potabile ammontava nel 2008 a 9,1 miliardi di metri cubi, l’1,7% in più rispetto al 2005 e il 2,6% in più dal 1999.<br />

L’acqua prelevata pro capite ammonta a circa 152 metri cubi per abitante. Sempre nel 2008 si registra una perdita del<br />

47% di acqua potabile a causa della necessità di garantire la continuità d'afflusso nelle condutture o per effettive perdite<br />

delle condutture stesse. A questo “spreco” generalizzato corrisponde comunque un uso più attento della risorsa acqua<br />

fatto dai cittadini. In tutti i capoluogo di provincia con una popolazione superiore a 250mila abitanti, infatti, c’è stata una<br />

diminuzione del consumo per uso domestico rispetto all'anno precedente. Il consumo pro capite di acqua per uso<br />

domestico ne 2010 è pari a 66,7 m per abitante, in diminuzione dell’1,9% rispetto al 2009. Prosegue, dunque, la<br />

contrazione dei consumi di acqua che ha caratterizzato gli ultimi nove anni.<br />

Isolamento acustico e permeabilità dei suoli. Il tema dell’inquinamento acustico riscontra attualmente un notevole<br />

interesse presso l’opinione pubblica soprattutto all’interno dei contesti metropolitani. Un tentativo di stabilire i princìpi<br />

fondamentali in materia di tutela dal rumore prodotto dall’ambiente esterno e dall’ambiente abitativo è stato fatto con<br />

l’entrata in vigore della legge quadro sull’inquinamento acustico (legge 447/1995). Secondo l’Istat (2010), nonostante la<br />

legge vigente, a fine 2009 sono solo 71 i capoluoghi di provincia che hanno approvato la zonizzazione acustica del<br />

territorio. Considerando i 12 grandi Comuni (quelli con popolazione residente superiore a 250mila abitanti) sono quattro<br />

quelli che non hanno approvato la zonizzazione acustica del territorio (Bari, Catania, Milano e Palermo).<br />

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SCHEDA 57 | RAEE, RIFIUTI DA APPARECCHIATURE ELETTRICHE ED ELETTRONICHE:<br />

UN’OPPORTUNITÀ PER IL RECUPERO DI MATERIE PRIME ED ENERGIA<br />

Per i Rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche, il D.Lgs n.151/2005 rappresenta la normativa di riferimento in<br />

<strong>Italia</strong>, in recepimento della direttiva comunitaria Weee (Waste from Electrical and Electronic Equipment) 2002/96/CE, e<br />

della direttiva comunitaria RoHS - Restriction of Hazardous Substances 2002/95/CE, entrambe risalenti al 2003 ed<br />

emesse con la finalità di prevenire la produzione di Raee e promuoverne il riutilizzo ed il riciclaggio.<br />

Il Dm 185 del 25 settembre 2007 ha definito i Raggruppamenti di Raee che dovranno essere effettuati nei centri di<br />

raccolta e in base ai quali verranno calcolate le quote di raccolta di competenza di ciascun produttore. Presso i centri di<br />

raccolta ogni tipologia di Raee è raccolta separatamente sulla base di una suddivisione di 5 raggruppamenti: R1,<br />

apparecchiature refrigeranti; R2, grandi bianchi; R3, Tv e monitor; R4, piccoli elettrodomestici, elettronica di consumo,<br />

dispositivi medici, distributori automatici, apparecchi illuminanti ed altro; R5, sorgenti luminose.<br />

Situazione italiana e confronto con altri paesi europei. In <strong>Italia</strong> negli ultimi anni si è verificato un incremento nella<br />

raccolta dei Raee sia della quantità totale che di tutti i singoli raggruppamenti. In <strong>Italia</strong> nell’ultimo anno si è verificato il<br />

maggior incremento nella raccolta effettuata a partire dal 2008 dimostrando una crescente attenzione al recupero dei<br />

Raee; tuttavia, sebbene l’<strong>Italia</strong> abbia incrementato più degli altri paesi la quantità totale di Raee raccolti, il contenuto pro<br />

capite risulta tra i più bassi in Europa, ad eccezione della Lituania, della Polonia e della Spagna.<br />

Problematica dell’approvvigionamento di materie prime (“raw materials”). Negli ultimi anni è emersa a livello<br />

europeo la problematica dell’approvvigionamento di raw materials, ovvero materie prime di interesse non energetico e<br />

non provenienti da attività agricole, che comprendono minerali e materiali da costruzione, minerali metallici, minerali<br />

industriali e metalli di alta tecnologia. Nel caso dell’<strong>Italia</strong>, paese che non dispone di importanti giacimenti minerari, il<br />

recupero ed il riciclaggio di materie prime/seconde possono portare un contributo determinante, rispondendo nel<br />

contempo anche alla necessità di ridurre la quantità di rifiuti da conferire in discarica e di salvaguardare le risorse<br />

naturali. Le materie prime sono elementi essenziali sia dei prodotti ad alta tecnologia sia dei prodotti di consumo di uso<br />

quotidiano. Tuttavia, la loro disponibilità appare sempre più problematica come risulta da una recente relazione<br />

pubblicata da un gruppo di esperti, presieduto dalla Commissione Europea, sono state individuate 14 materie prime di<br />

importanza prioritaria e strategica, in parte recuperabili dai Raee: antimonio, berillio, cobalto, fluoro, gallio, germanio,<br />

grafite, indio, magnesio, niobio, platinoidi (PGM = Platinum Group Metals), terre rare, tantalio e tungsteno.<br />

Entro il 2030 la domanda di alcune materie prime fondamentali potrebbe anche triplicare rispetto a quella del 2006.<br />

Infatti, la crescente domanda di materie prime è stimolata dalla crescita delle economie in via di sviluppo e dalle nuove<br />

tecnologie emergenti, mentre la disponibilità di materie prime sul mercato è notevolmente influenzata dal fatto che una<br />

quota elevata della produzione mondiale proviene da un numero ristretto di paesi. A questa concentrazione della<br />

produzione si aggiungono in molti casi altri fattori aggravanti come ad esempio il basso grado di sostituibilità e i tassi<br />

ridotti di riciclaggio.<br />

Alla ricerca dell’oro perduto ovvero i rifiuti come risorsa. Il grande sviluppo tecnologico che ha caratterizzato gli<br />

ultimi decenni e che ha contribuito a migliorare notevolmente il nostro vivere quotidiano, ha avuto come conseguenza<br />

un’elevata produzione di rifiuti. Si stima che in <strong>Italia</strong>, la produzione annuale pro capite di rifiuti hi-tech sia nell’ordine di<br />

14 kg/abitante per un totale di circa 800.000 ton distribuite sull’intero territorio nazionale e del quale solo il 15-20%<br />

viene gestito correttamente. I rifiuti elettronici contengono schede elettroniche, circuiti elettrici ed elettronici, memorie,<br />

ecc. che a loro volta contengono molti materiali recuperabili quali plastiche, il cui contenuto può raggiungere anche il<br />

30% in peso, e metalli, quali oro, argento, rame, vanadio e terre rare, che possono essere recuperati con rese molto<br />

elevate. Una moderna apparecchiatura elettronica può contenere oltre 60 elementi.<br />

Il progetto Ecoinnovazione Sicilia. In questo ambito l’Unità Tecnica per le Tecnologie Ambientali dell’Enea ha<br />

predisposto il Progetto strategico denominato “Ecoinnovazione. Il Progetto prevede la realizzazione di studi,<br />

progettazione e sviluppo di metodologie e tecnologie per la ecoinnovazione di alcuni processi produttivi, con una<br />

applicazione al settore dei Rifiuti da Apparecchiature Elettriche ed elettroniche (Raee) e della plastica e al settore del<br />

turismo nell’arcipelago delle isole Egadi (Trapani). Le attività comprendono lo sviluppo e l’implementazione di tecniche<br />

di separazione selettiva di tipo idrometallurgico per il recupero di metalli ad elevato valore aggiunto contenuti nei Raee e<br />

di tecnologie di termovalorizzazione delle componenti plastiche dei Raee e di altre plastiche miste. Le attività includono<br />

inoltre lo sviluppo e l’implementazione di una piattaforma regionale di simbiosi industriale e la sua applicazione ai<br />

settori dei Raee e della plastica. Le tecnologie sviluppate saranno poi implementate nella progettazione e realizzazione di<br />

un impianto pilota ubicato in territorio siciliano. Sono inoltre previsti lo sviluppo e l’ottimizzazione di tecnologie per la<br />

termovalorizzazione delle plastiche miste da rifiuti elettronici per la produzione di syngas; le prove sperimentali saranno<br />

allargate anche ad altri rifiuti di materie plastiche oltre i Raee. I risultati ottenuti saranno utilizzati per la progettazione di<br />

un impianto pilota da essere utilizzato in Sicilia.<br />

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SCHEDA 58 | IL TURISMO SOSTENIBILE: UN CASO STUDIO PER LE ISOLE MINORI<br />

Il turismo come elemento di sviluppo territoriale e sociale. Il settore del turismo in <strong>Italia</strong> rappresenta, in termini<br />

economici, circa il 9,5% del Pil nazionale, con una occupazione pari a circa 2,5 milioni di addetti. Mentre il rapporto<br />

Pil(turismo)/Pil(nazionale) è in lento diminuire nell’ultimo decennio, a livello mondiale la quota di turismo che interessa<br />

l’<strong>Italia</strong> è scesa dal 5,6% del 1990 al 4,1% del 2010, con una tendenza ad un’ulteriore decrescita fino ad una stima del<br />

3,7% nel 2020, in assenza di interventi strategici e strutturali per un serio rilancio del settore. Questa tendenza è comune<br />

a molte aree geografiche del nostro Continente, mète tradizionali del turismo. Tuttavia, il potenziale italiano di offerta<br />

turistica rimane assai elevato in virtù degli aspetti ambientali, naturalistici, paesaggistici, culturali, economici del nostro<br />

Paese. Alcune linee d’intervento prioritarie potrebbero raddoppiare l’incidenza del turismo sul Pil nazionale da circa un<br />

10% attuale al 18%, con un raddoppio degli addetti attualmente impegnati.<br />

Il turismo come elemento di “pressione” sul territorio e sull’ambiente. Un maggior sviluppo del settore turistico<br />

comporta per contro l’acuirsi a livello locale di problematiche sociali, economiche, culturali, ma anche ambientali,<br />

energetiche, dei sistemi di trasporto e più in generale di una gestione del territorio e delle risorse naturali ed energetiche,<br />

fino ad avere un impatto negativo sui cambiamenti climatici: si stima ad esempio che il settore turistico contribuisca, a<br />

livello globale, per circa il 5% delle emissioni totali di gas ad effetto serra (Ghg) a causa dell’utilizzo estensivo di mezzi<br />

di trasporto energy intensive. Altre sfide includono l’eccessivo e non sostenibile uso della risorsa idrica nelle località<br />

durante le stagioni turistiche lo scarico di acque reflue non trattate o trattate insufficientemente, la produzione di rifiuti<br />

soprattutto di origine urbana, i danni al territorio e alla biodiversità terrestre e marina. Lo sviluppo del turismo può<br />

inoltre comportare un uso del territorio e delle risorse economiche pubbliche e private disponibili che va a discapito dello<br />

sviluppo di altre attività produttive che, soprattutto in piccole aree geografiche come sono in <strong>Italia</strong> le isole minori. Da qui<br />

la necessità di avviare un processo metodologico quali-quantitativo partendo da un’analisi della realtà locale, attraverso<br />

la identificazione dei fattori di “pressione” e del relativo “impatto”, identifichi le migliori strategie ed i possibili<br />

interventi e che ne valuti con un analisi, ex-ante ed ex-post, gli effetti.<br />

Turismo “sostenibile”: un intervento pilota nell’arcipelago delle Isole Egadi (Favignana, Marettimo, Levanzo).<br />

L’Enea ha predisposto la realizzazione di un intervento Pilota, che è parte di un più ampio Progetto, denominato<br />

“Ecoinnovazione Sicilia”, , che permettesse di sviluppare ed applicare metodologie e tecnologie innovative in una ottica<br />

di smart island esportabili in realtà similari nazionali e, più in generale, del Mediterraneo.L’arcipelago delle Isole Egadi,<br />

con le tre isole di Favignana, Marettimo e Levanzo, rappresenta per caratteristiche ambientali, socio-economiche e<br />

turistiche una “palestra” ideale per sviluppare un progetto di turismo sostenibile, esportabile in molte altre realtà<br />

mediterranee analoghe. A rendere l’area ancor più interessante contribuisce il fatto che le tre isole costituiscono nel loro<br />

insieme l’Area Marina Protetta delle Egadi (Amp Egadi), la più grande area marina protetta del Mediterraneo.<br />

I numeri del turismo, in particolare per l’Isola di Favignana, registrano nell’estate 2011, in estrema sintesi, fino a 60.000<br />

presenze giornaliere, con una forte componente giornaliera, a fronte di una popolazione residente di circa 4.300 persone,<br />

su una superficie di 37 km2. La vicinanza con la terraferma e con centri importanti come Trapani e Marsala (circa 11<br />

miglia marine) favorisce inoltre un turismo giornaliero con ritorni economici poco significativi ma con forti impatti<br />

ambientali, soprattutto per le isole di Favignana e Levanzo. Tra le principali priorità per le tre isole, seppur con diverse<br />

modalità, si possono elencare l’approvvigionamento idrico, la gestione dei rifiuti urbani, la gestione dell’area marinocostiera<br />

e delle risorse naturali più in generale. L’approvvigionamento idrico è assicurato principalmente da una condotta<br />

sottomarina che immette in rete acqua proveniente dal dissalatore di Trapani e da altre fonti.<br />

A questa si aggiunge l’acqua emunta dai numerosissimi pozzi a Favignana: con caratteristiche organolettiche dell’acqua<br />

di qualità compatibile con l’uso potabile. Nel periodo estivo, la falda e l’acquedotto di Trapani non bastano a coprire le<br />

richieste, e si ricorre all’utilizzo di navi cisterna, mentre molti cittadini sono costretti a far ricorso ad autobotti private.<br />

L’isola di Marettimo è caratterizzata da alcune sorgenti di acqua che viene convogliata in cisterne, mentre l’isola di<br />

Levanzo dipende completamente da una condotta sottomarina che porta l’acqua da Favignana.<br />

I rifiuti dell’isola vengono conferiti interamente, previa selezione e smistamento nel centro di raccolta di Favignana,<br />

presso la discarica e l’impianto di trattamento del Comune di Trapani, con costi molto elevati tra trasporto verso la<br />

terraferma. Il turismo giornaliero inoltre, essendo meno sensibile alla problematica e meno controllabile nella produzione<br />

di rifiuti, influisce in maniera ancor più negativa sull’intero ciclo dei rifiuti.<br />

Orientativamente ogni anno vengono prodotte circa 3.400 tonnellate di rifiuti, con il massimo delle quantità prodotte nei<br />

mesi estivi. L’area marino-costiera è, come in moltissime altre realtà nazionali, estremamente fragile e nel contempo<br />

sottoposta a forte pressione antropica. L’erosione delle poche spiagge esistenti, soprattutto nell’isola di Favignana, ed il<br />

rischio di instabilità dei versanti costieri in roccia, soprattutto nell’isola di Marettimo, sono delle priorità sia di natura<br />

ambientale che per la fruibilità turistica delle coste e per la sicurezza dei bagnanti. L’area marina sotto costa è interessata<br />

da un forte sfruttamento turistico dovuto alla nautica da diporto nei periodi estivi e dalla pesca durante tutto l’anno che<br />

provoca l’“aratura” dei fondali provocata dalle ancore delle barche e dalla pesca a strascico abusiva.<br />

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SCHEDA 59 | LA MOBILITÀ SOSTENIBILE IN ITALIA<br />

Lo scenario attuale della mobilità. In <strong>Italia</strong> purtroppo si è ancora ben lontani dal raggiungere, nel settore trasporti, gli obiettivi<br />

per il 2020, già fissati nel 2007 dal Consiglio Europeo. Difatti, salvo le eccezioni rappresentate da città come Venezia, Parma,<br />

Torino, Brescia e Milano che rappresentano per il 2010 le cinque città esemplari per la mobilità sostenibile, la maggior parte delle<br />

città caratterizzate da popolazione superiore ai 100mila abitanti, si distinguono o per l’aumento di emissioni inquinanti o per<br />

riduzioni poco apprezzabili. Pertanto, il risultato complessivo che si registra in <strong>Italia</strong>, in termini di inquinamento atmosferico<br />

determinato dal settore trasporti, è in controtendenza con ciò che accade in Europa. I livelli complessivi delle emissioni di quasi<br />

tutte la sostanze nocive derivanti dai mezzi di trasporto nel 2009 sono diminuiti e tale riduzione è da mettere in relazione con il<br />

calo della domanda determinata dalla recessione economica. Il valore delle emissioni complessive registrate nell’Ue nel corso del<br />

2009 si è attestato al 24%. In <strong>Italia</strong> le emissioni del settore dei trasporti rappresentano complessivamente il 26%, mentre secondo<br />

le stime dell’Ispra, l’industria è responsabile del 28% delle emissioni, la produzione di energia 22% ed il riscaldamento degli<br />

ambienti 14%. Sempre secondo le stime ufficiali dell’Ispra, il trasporto stradale è responsabile negli ultimi anni di circa il 27%<br />

delle emissioni di PM10 primario e di circa il 45% delle emissioni di ossidi di azoto; l’industria pesa circa il 26% per le emissioni<br />

di PM10 e circa il 18% per le emissioni di ossidi di azoto; il riscaldamento degli ambienti pesa circa il 13% per le emissioni di<br />

PM10 e circa il 9% per le emissioni di ossidi di azoto. Inoltre, dall’analisi storica si rileva che, escluso il traffico aereo, rispetto al<br />

1990 il settore trasporti ha registrato un incremento del 20% di emissioni dannose per l’atmosfera. Osservando in dettaglio i dati<br />

rilevati da Euromobility in termini di emissioni di PM10, si nota che le 50 città prese a campione sono caratterizzate da un trend di<br />

miglioramento in quanto diminuiscono i giorni di superamento dei limiti consentiti in un anno pari a 35. La città migliore risulta<br />

essere Bolzano con 7 giorni di superamento ed una media di 20 μg/m3 di emissioni, la peggiore Siracusa con 309 giorni e<br />

caratterizzata da una media di 84 μg/m3. Comunque, soltanto 16 città registrano un numero di superamenti al di sotto di 35 giorni<br />

e ben 36 comuni hanno registrato una media annuale inferiore al limite dei 40 μg/m3. I trasporti detengono un alto primato di<br />

pressione sull’ambiente, basta osservare il valore del tasso di motorizzazione che caratterizza il nostro Paese rispetto gli altri Stati<br />

membri dell’Ue: al 2008 l’<strong>Italia</strong> contava 60,81 autovetture ogni 100 abitanti. Nel 2009 tale valore, anche se di poco, è cresciuto al<br />

61,32% per diminuire nel 2010 al 60,84% contro una media europea del 46%. Inoltre, se si osserva la composizione del parco di<br />

autovetture in termini di emissioni, emerge che nonostante il 36,2% delle autovetture sia costituito da Euro4, è formato da Euro<br />

0/1/2 ben il 39%, di cui le auto Euro0 costituiscono circa un terzo. A parte l’esempio di poche città virtuose, la questione del<br />

trasporto pubblico costituisce per il maggior numero delle municipalità un problema che è ben lontano dall’essere risolto<br />

definitivamente. Oltre a ciò, servizi pubblici come il car-sharing e il bike-sharing solo di recente cominciano a destare maggiore<br />

interesse tra la popolazione e per di più nel 2010 hanno registrato degli arresti di crescita. In particolare, sul fronte degli utenti del<br />

car-sharing lo scorso anno si è rilevato un incremento complessivo pari solo allo 0,7% contro il 15,14% del 2009 ed il 18,15% del<br />

2008. Il bike-sharing ha avuto un incremento del 51,14%, ma siamo ben lontani dal 206,5% di incremento registrato nel 2009. A<br />

costituire l’eccezione è il Comune di Roma che, nonostante abbia una flotta di 150 biciclette, è passato da 8.700 iscritti del 2009 a<br />

16.800 nel 2010. Nel 2010, infatti, su un totale parco veicolare costituito da 48.662.401 unità, ben 36.751.311 sono autovetture<br />

che complessivamente ne costituiscono il 75,52%. Tale consistente percentuale appartiene, comunque, ad un trend in discesa:<br />

analizzato l’ultimo decennio si rileva che, rispetto al 2000 caratterizzato da 79,97 punti percentuali (32.583.815 autovetture su<br />

40.743.777 veicoli), vi è stata una contrazione pari al 4,46%. Il dato che appare più confortante riguarda l’incremento delle<br />

immatricolazioni di autovetture ecologiche registrato negli ultimi anni. Nonostante la netta superiorità numerica dei veicoli<br />

alimentati a benzina o gasolio, che costituiscono il 93% del totale, le auto a doppia alimentazione con GPL o gas metano e le auto<br />

elettriche, nel 2010 costituiscono il 6,5% del parco vetture circolanti Il dato riferito alla mobilità elettrica è infinitesimale (0,01%)<br />

rispetto agli altri tipi di alimentazione, contro una media europea che oscilla intorno allo 0,1% e per la quale gli analisti del<br />

mercato prevedono una crescita al 2020 fino al 10%. La maggiore diffusione dei veicoli alimentati con carburanti alternativi (GPL<br />

e metano) è dovuta principalmente agli incentivi (circa 500 euro) che il Ministero dello Sviluppo Economico ha stanziato per<br />

avviare i processi di trasformazione, ovvero per la riconversione di vetture già circolanti ed al notevole risparmio che si ottiene<br />

nell’utilizzo quotidiano grazie al costo inferiore del carburante. In termini di emissioni di CO2, il metano assicura emissioni<br />

inferiori rispetto all’equivalente alimentazione a benzina: se si considera un’utilitaria di piccola cilindrata la quantità di CO2 non<br />

emessa è pari al 14,3%.<br />

Le strategie da attuare. L’impegno verso una mobilità sostenibile richiede la programmazione attenta di attività integrate, il cui<br />

focus è rappresentato dall’utente in relazione al contesto in cui esso si muove e relaziona. Per ottenere riscontri significativi<br />

occorre che le politiche di Mobility Management siano più largamente diffuse ed efficaci. Le scelte più significative dovranno<br />

riguardare in primo luogo la promozione e l’implementazione di sistemi di trasporto urbano più efficienti e sostenibili che<br />

inducano a radicali cambiamenti negli stili di vita degli utenti. Oltre agli incentivi e alle facilitazioni che hanno permesso il<br />

diffondersi dei carburanti eco-compatibili quali GPL e metano, dovrebbero essere attuate politiche incentivanti l’acquisto dei<br />

veicoli elettrici e dei veicoli alimentati con miscele di idro-metano (H2-CH4). Per ciò che attiene la mobilità elettrica, secondo le<br />

previsioni condotte dall’Unione Petrolifera, in <strong>Italia</strong> al 2020 il parco elettrico sarà pari ad un valore che potrà variare tra l’1 ed il<br />

5% del parco circolante previsto di 33,5 milioni di autovetture, mentre si stima che le auto elettriche in Europa costituiranno<br />

mediamente il 10% del totale. Affinché si possano per lo meno raggiungere i valori di diffusione previsti in <strong>Italia</strong>, oltre agli<br />

incentivi di ordine fiscale (esenzione della tassa di proprietà) ed il contributo all’acquisto (5.000€ per acquisti entro il 2012, 3.000€<br />

nel 2013, 2.000€ nel 2012 fino a ridursi a 1.000€ nel 2015), di rilevanza fondamentale risulta essere la questione legata alla<br />

diffusione delle infrastrutture di ricarica.<br />

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SCHEDA 60 | LE AREE PROTETTE, CULLA DELLA BIODIVERSITÀ<br />

A vent’anni dall’approvazione della legge quadro sulle Aree Protette (394/1991), nonostante la crescente sensibilità degli<br />

italiani per l’ambiente e per tutto ciò che è “eco”, la mancanza di strategie e di politiche ambientali di medio e lungo<br />

periodo sta gravemente compromettendo la sopravvivenza del sistema delle aree naturali protette. Volendo descrivere<br />

attraverso delle cifre la situazione economica in cui versa attualmente l’ambiente in <strong>Italia</strong> basta considerare innanzitutto<br />

che dal 2008 al 2011 il bilancio del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare è passato da una<br />

dotazione economica di 1 miliardo e 649 milioni di euro a circa la metà.<br />

Come se non bastasse, da un’analisi del WWF <strong>Italia</strong> sulla Legge di Stabilità approvata nel novembre 2011, è emerso che<br />

solo lo 0,7% del totale della manovra (da 5.653 miliardi di euro nel 2012) pari a 43.697 milioni di euro sarà destinato a<br />

interventi in campo ambientale (per sostenere le opere in difesa del mare, sulle aree protette, sulla Cites convenzione<br />

internazionale per le specie in via di estinzione e le attività dell’Ispra, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca<br />

Ambientale del Ministero dell’Ambiente) con il grave rischio di far chiudere 10 delle 30 aree marine protette esistenti e<br />

di compromettere la sopravvivenza dei parchi terrestri poiché i fondi ad essi destinati risultano essere a stento sufficienti<br />

a garantirne la gestione ordinaria e assolutamente non sufficienti per consentire interventi ad opera degli Enti Parco.<br />

Nello specifico, dall’analisi WWF <strong>Italia</strong> è emerso che i fondi destinati alle aree marine protette, che dalla Legge di<br />

Stabilità del 2011 ammontavano a 5,5 milioni, saranno decurtati di 1/3 nel 2012 e i fondi destinati ai Parchi Nazionali<br />

passeranno da 7 milioni a 3,5 nel 2012.<br />

Le risorse del Ministero dell’Ambiente per il 2011 per i Parchi Nazionali sono state di circa 70.000.000 euro e le Regioni<br />

hanno messo in bilancio per i propri sistemi di aree protette circa 180 milioni di euro. In totale alle risorse complessive<br />

per il sistema delle AAPP italiane sono stati destinati 250 milioni di euro (fonte: Federparchi).<br />

Aree naturali protette. La legge quadro sulle Aree Protette (394/1991) è stata il caposaldo per la realizzazione in <strong>Italia</strong><br />

di uno dei più efficienti, condivisi e partecipati sistemi diffusi di aree per la tutela della biodiversità, un sistema che ha<br />

permesso di passare dal 3% a quasi l’11% del territorio nazionale tutelato del 2011 (il dato si riferisce alle sole terre<br />

emerse), coinvolgendo più di 2.000 Comuni.<br />

Grazie a questo sistema, l’<strong>Italia</strong>, negli ultimi dieci anni, è stata un modello di riferimento per lo sviluppo di una rete di<br />

aree protette in Europa ma purtroppo, senza un adeguato sostegno, il rischio è di compromettere, oltre al meritato<br />

primato, anche i tesori naturali del Bel Paese, di lasciarli in balìa del degrado, degli incendi boschivi, delle calamità<br />

naturali (come tristemente accaduto nelle Cinque Terre nell’inverno 2011) e di non raggiungere entro il 2020 gli obiettivi<br />

sottoscritti in sede internazionale (17% del territorio tutelato a terra e il 10% di mare e coste).<br />

Turismo nei parchi naturali. Le stime dicono che ogni anno le aree protette italiane attirano circa 37 milioni di<br />

visitatori con un numero di presenze alberghiere che sfiora i 100 milioni e un giro d’affari complessivo che supera il<br />

miliardo di euro.<br />

I parchi, strumenti di conservazione della biodiversità. Stando a un <strong>Rapporto</strong> dell’Iunc (International Union for<br />

Conservation of Nature) la biodiversità è essenziale per la sicurezza alimentare globale e la nutrizione e serve come rete<br />

di protezione per le famiglie povere durante i periodi di crisi. Inoltre, una maggiore diversità di geni e quindi la varietà di<br />

specie rappresentata dalle numerose razze animali e varietà di piante, riduce il rischio di malattie e aumenta il potenziale<br />

di adattamento al clima che cambia. Sempre secondo l’Iunc più di 70.000 specie di piante sono utilizzate nella medicina<br />

tradizionale e moderna e il valore dei servizi globali legati all’Ecosistema è stimato tra 16 e 64 trilioni di dollari.<br />

In <strong>Italia</strong>, esiste una delle maggiori concentrazioni di biodiversità in Europa con oltre 57mila specie animali segnalate, più<br />

di un terzo dell’intera fauna europea e circa il 9% ovvero oltre 4.700 specie di queste specie è endemico: si trova, cioè,<br />

solo sul nostro territorio nazionale. La fauna italiana include 56.213 specie di Invertebrati che rappresentano il 97,8%<br />

sulla ricchezza totale delle specie e di questi, 37.303 specie (circa il 65%) sono insetti. I Vertebrati costituiscono invece<br />

solo il 2,2% (1.259 specie) con 118 specie di Mammiferi, 473 di Uccelli, 58 di Rettili, 38 di Anfibi e 568 di Pesci. Va<br />

ricordato che l’86% della fauna italiana è terrestre e il 14% acquatico. Per quanto riguarda il patrimonio vegetale, invece,<br />

in <strong>Italia</strong> è presente una notevole diversità di specie botaniche, circa 9mila, che rappresentano almeno il 50% della flora<br />

europea, e di cui il 13% è costituito da specie endemiche, ovvero esclusive del nostro Paese.<br />

In base ai dati forniti dalla checklist finanziata dal Ministero dell’Ambiente (aggiornata al 2003), la fauna italiana<br />

comprende circa 57.468 specie – includendo anche 1.812 specie di Protozoi che, per la vicinanza filogenetica al regno<br />

Animale, vengono considerati parte integrante della fauna.<br />

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