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continuità - Turin D@ms Review

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Claudio Longhi<br />

La nascita della regia e l’“opéra”<br />

il mercato, la direzione d’orchestra e la drammaturgia musicale<br />

(1831-1848)<br />

Quando nella seconda parte di Madame Bovary (1856), romanzo culto della letteratura europea del<br />

XIX secolo, Flaubert decide di condurre per la prima volta la sua eroina a teatro, tra le molteplici<br />

possibilità offerte dalla scena ottocentesca la sua scelta cade senza esitazione sul melodramma: lo<br />

spettacolo cui Emma assiste è infatti una rappresentazione della Lucia di Lammermoor di Donizetti:<br />

«On entendit trois coups sur la scène; un roulement de timbales commença, les instruments de<br />

cuivre plaquèrent des accords, et le rideau, se levant, découvrit un paysage…» Nonostante la<br />

relativa povertà della rappresentazione di provincia, profonda è l’impressione esercitata sulla<br />

“romantica” Emma dalla messa in scena: «Elle n’avait pas assez d’yeux pour contempler les<br />

costumes, les décors, les personnages, les arbres peints qui tremblaient quand on marchait, et les<br />

toques de velours, les manteaux, les épées, toutes ces imaginations qui s’agitaient dans l’harmonie<br />

comme dans l’atmosphère d’un autre monde» 1 . La citazione è forse un po’ abusata, ma trae la sua<br />

forza probante proprio dall’essere divenuta una sorta di luogo comune della cultura romanzesca<br />

contemporanea. Indiscutibilmente, infatti, come dimostra il celebre episodio del romanzo di<br />

Flaubert – e come potrebbero confermare decine di altre testimonianze del XIX secolo a cominciare<br />

dall’Anna Karenina tolstojana (1873-1877) –, la scena musicale è uno dei luoghi centrali<br />

dell’immaginario culturale ottocentesco, ma non solo. Al di là del fascino che esercita sul pubblico<br />

del XIX secolo a tutti i livelli, essa è pure un modello di organizzazione artistica e produttiva<br />

dell’esperienza teatrale che innerva della propria influenza anche la cosiddetta scena di prosa: a<br />

fronte delle varie mescidanze di canto e recitazione che si sperimentano su molte ribalte<br />

ottocentesche non possiamo non prendere atto del fatto che la radicale antitesi tra “opera” e “prosa”,<br />

sancita da certe legislazioni contemporanee condizionanti le più sclerotizzate prassi sceniche del<br />

nostro tempo, non ha certo grande valore per render conto della civiltà performativa dell’Ottocento.<br />

Considerati il prestigio e la pervasiva influenza della scena musicale del XIX secolo sull’articolarsi<br />

dell’esperienza teatrale tout court, nell’affrontare la spinosa questione dell’«avènement de la mise<br />

en scène moderne» anche in rapporto al tema della «crise du drame», potrebbe essere quindi<br />

opportuno concentrarsi proprio sull’esperienza dell’“opéra”. Ad ulteriore giustificazione<br />

dell’opportunità di una simile decisione, gioverà forse ricordare pure il ruolo determinante giocato<br />

dal paradigma musicale sull’evoluzione del linguaggio registico lungo tutta la parabola storica della<br />

regia: per non fare che un paio di esempi macroscopici se Wagner e Appia sono infatti<br />

imprescindibili termini di riferimento di certa teoresi registica del tardo XIX secolo, oggigiorno tra i<br />

più significativi interpreti della “regia dopo la regia” è difficile non ricordare creatori-compositori<br />

come Christoph Marthaler o Heiner Goebbels – ma in fondo anche un “maestro” à la page ancora<br />

tutto interno alle ragioni della regia come Eimuntas Nekrošius è totalmente permeato di cultura<br />

musicale.<br />

Nel quadro del dibattito oggi in corso intorno alla nascita della regia, entro la dialettica delineatasi<br />

negli ultimi anni tra ipotesi della “dis<strong>continuità</strong>” novecentesca – tutta protesa a far luce sul<br />

cosiddetto “salto” registico del XX secolo – e ipotesi della “<strong>continuità</strong>” professionale – volta a<br />

predatare la genesi non solo della prassi, ma anche della poetica registica rispetto alla tradizione<br />

storiografica in uso, collocandola all’altezza del primo emergere dell’industria dello spettacolo agli<br />

albori del XIX secolo –, l’adozione della prospettiva del teatro per musica induce a percorrere<br />

soprattutto la seconda via dell’antitesi (inaugurata per l’Italia dagli studi di Roberto Alonge e<br />

Franco Perrelli). La complessità dello spettacolo d’opera – specie nella variante del Grand Opéra,<br />

1<br />

Gustave Flaubert, Madame Bovary [I ed. in rivista 1856; I ed. in vol. 1857], in Id., Œuvres, vol. I, Paris, Gallimard,<br />

1951, pp. 494-495.<br />

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1


che da Parigi, autentica capitale teatrale del XIX secolo si impone come modello in positivo e in<br />

negativo di tanta parte del teatro musicale ottocentesco – comporta in effetti una precoce<br />

specializzazione dei mestieri teatrali e una non meno precoce “industrializzazione” del processo<br />

creativo che inevitabilmente finisce col catalizzare un altrettanto precoce nascita della regia, sia sul<br />

versante della pratica operatività che su quello della consapevolezza “teorica”.<br />

Volendo privilegiare il modello dell’opulenza spettacolare, non di rado smaccatamente<br />

commerciale, del Grand Opéra, nelle sue diverse e contraddittorie interpretazioni (ovviamente non<br />

necessariamente prive di rilevanza artistica, a prescindere dai giudizi espressi sul genere, non<br />

sempre lusinghieri, nel corso delle svariate querelle ottocentesche), l’indagine si potrebbe<br />

essenzialmente concentrare sul periodo 1831-1848, stagione di teatro musicale intimamente<br />

complessa, ma in sé relativamente coesa, che andando a sovrapporsi quasi completamente in<br />

Francia agli anni della monarchia “borghese” di luglio (e sappiamo quanto la realtà francese sia<br />

influente sugli assetti socioculturali di tutta Europa nel periodo considerato), è caratterizzata dal<br />

drastico imporsi (pure sul piano estetico) delle ragioni del mercato come imprescindibili termini di<br />

confronto di qualsivoglia esperienza artistica, anche se solo per prenderne le distanze<br />

polemicamente. A ridosso della salita al potere di Luigi Filippo d’Orléans (1830), il 1831, anno di<br />

debutto di Robert le Diable, vede l’affermarsi sulle scene musicali dell’egemonia del Grand Opéra<br />

di matrice meyerbeeriana. Ma sempre nel 1831 si inaugura pure la nuova direzione dell’Académie<br />

Royale de Musique targata Jules Véron, ed è noto quanto Véron fosse sensibile alla “domanda” del<br />

pubblico e quanto fosse propenso a testare le diverse soluzioni tecniche capaci di ammaliare la<br />

platea. Al lato opposto del sintagma cronologico individuato, in concomitanza alla caduta di Luigi<br />

Filippo e ai moti rivoluzionari che scuotono un po’ tutta l’Europa, il 1848, autentico spartiacque<br />

nella storia europea, si presta invece, probabilmente, ad essere assunto come termine post quem di<br />

sviluppo di un nuovo equilibrio organizzativo del teatro musicale del XIX secolo fondato sul primo<br />

imporsi di un predominio dell’editore e del sistema del repertorio: proprio nel 1848 Verdi decide di<br />

vendere i diritti di un suo nuovo lavoro (Il Corsaro) ad un editore (Lucca) e non a un teatro. Non<br />

potendo por mano ad una disamina sistematica della variegatissima realtà del teatro musicale<br />

europeo di quegli anni, per far luce sulla nascita della regia lirica in prospettiva di storicismo<br />

materialista conviene procedere attraverso l’analisi di esempi “sintomatici” desunti da alcune delle<br />

principali ribalte europee del tempo – la Scala di Milano, il Drury Lane di Londra e, naturalmente<br />

l’Académie Royale de Musique di Parigi – allo scopo di tentare un affresco per rapidi scorci della<br />

scena musicale ottocentesca, teso ad evidenziare motivi ricorrenti e peculiarità nazionali dei diversi<br />

sistemi produttivi. Dall’analisi comparativa delle differenti realtà teatrali studiate emergono tre<br />

complementari nuclei propulsivi artistico-organizzativi del linguaggio registico: la drammaturgia<br />

musicale, il mercato (nel suo vario rapportarsi alle istituzioni statali) e la direzione d’orchestra. Per<br />

muovere nell’indagine dalle scene nazionali ci si potrebbe in prima battuta concentrare sui “poetiallestitori”<br />

di tradizione asburgica operanti alla Scala, capitanati da Calisto Bassi.<br />

Entro le complesse coordinate del sistema produttivo operistico italiano primo ottocentesco<br />

tracciate da Rosselli 2 , se la si studia in prospettiva “registica” l’organizzazione della Scala, per il<br />

periodo considerato, rivela una doppia articolazione in piani operativi per lo più complementari, ma<br />

talvolta concorrenziali. Per un verso, all’interno di un sistema gestionale “a tre” – strutturato,<br />

secondo una tipica declinazione scenica dello statalismo asburgico, sulla compresenza di un ente<br />

governativo appaltatore, denominato Direzione dei Teatri, della Imperiale Regia Ispezione di<br />

Polizia e dell’Impresa privata –, sono evidenti ingerenze governative di natura chiaramente<br />

“registica” nella messinscena degli spettacoli; per l’altro è nevralgica alla Scala la presenza stabile<br />

di un librettista, in funzione di «poeta addetto» agli allestimenti per conto dell’Impresa. Sia per il<br />

suo ambito di competenze che per il suo taglio operativo è quest’ultima una figura che già inclina a<br />

superare l’approccio strettamente drammaturgico al fatto teatrale secondo logiche di tipo<br />

“registico”.<br />

2 Cfr. John Rosselli, L’impresario d’opera, Torino, EDT, 1985.<br />

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2


Concentrandoci, per ragioni di tempo, sull’analisi dei soli Capitolati – con particolare riferimento a<br />

quello del 1843 3 riguardante Bartolomeo Merelli, il potente impresario alla Scala tra il ’36 e il ’50 –<br />

, emerge come la Direzione dei Teatri si riservi di diritto un ruolo “registico” nel processo di<br />

allestimento, in rapporto dialettico con l’Impresa cui spetta di elaborare – secondo la propria<br />

autonoma prospettiva artistico-imprenditoriale – ogni proposta dell’ente appaltatore. Oltre<br />

all’approvazione preventiva, e in tempi stabiliti, del repertorio, dei poeti e dei musicisti, la<br />

Direzione interviene sulla scelta dei cantanti con occhio attento e alla qualità professionale e alla<br />

affidabilità degli interpreti. Per ogni opera l’Impresa è tenuta a presentare alla Direzione con un<br />

anno di preavviso i cast di titolari e sostituti per avere la regolare autorizzazione; la Direzione si<br />

riserva di decidere eventuali sostituzioni anche nel corso delle prove. L’ente appaltatore impone che<br />

siano scritturati cantanti di prestigio, adottando la fama come garanzia di qualità; un sistema<br />

contrattuale rigoroso impedisce però ogni libertà “divistica” agli interpreti, specie per quanto attiene<br />

la partecipazione alle prove (a pena di arresto). La Direzione valuta inoltre la «qualità» e la<br />

«convenienza» delle scenografie (che non possono essere di carta), in relazione «all’argomento che<br />

si rappresenta», e pretende la visione, «in tempo congruo», dei figurini per il vestiario, nonché degli<br />

oggetti di scena. In questo orizzonte complesso e standardizzato, si evince dalle lettere che i tempi<br />

di consegna dei figurini sono solitamente fissati in quindici giorni prima della rappresentazione 4 . La<br />

Direzione concorda infine con l’Impresa lo svolgimento delle prove generali nei due giorni<br />

precedenti ogni debutto; dette prove servivano alla Direzione stessa per le ultime possibili<br />

correzioni agli allestimenti che devono essere, a pena di ammenda, rigorosamente realizzate 5 . La<br />

vocazione “registica” della scansione organizzativa che si è appena sommariamente tratteggiata è<br />

tanto più evidente quando la si raffronti con il coevo sistema produttivo in uso nel teatro di prosa<br />

italiano. Aspetto rilevante delle modalità di ingerenza della Direzione nella messa in scena, come<br />

risulta dallo spoglio dei documenti, è che l’organo non opera sulla base di istanze puramente<br />

censorie (di squisita competenza della polizia), ma agisce per assicurare una raffinata<br />

“concertazione stilistica” del prodotto spettacolare, secondo una ben precisa “estetica”, prima<br />

ancora che “etica”, del “decoro”, tesa a garantire il “rispetto del pubblico” (essenzialmente<br />

l’aristocrazia dei palchettisti). Nel periodo considerato i complessi spettacoli scaligeri obbediscono<br />

quindi già ad una concertazione di tipo registico, frutto di un dialogo, non privo di tensioni, tra<br />

Impresa privata e Stato: gli spettacoli sono di responsabilità dell’impresario, ma egli deve<br />

rispondere delle proprie scelte a un ente regio, cui è legalmente riconosciuta la facoltà di imporre la<br />

sua estetica su alcuni rilevanti aspetti della messinscena.<br />

Come già si è accennato, oltre al costumista, al direttore della scenografia e al «direttore del<br />

macchinismo» (previsti anche dal citato Capitolato), l’Impresa può scritturare un «poeta addetto» o<br />

«direttore della messa in iscena». Nell’ambito di una tradizione asburgica che va da Da Ponte al<br />

Piave della stagione scaligera (indagata, tra gli altri, sul versante musicologico, letterario e<br />

teatrologico rispettivamente da Roccatagliati, dalla Gronda e da Guccini 6 ), si tratta di un librettista<br />

cui vengono attribuite specifiche funzioni, per noi sostanzialmente registiche, svarianti<br />

dall’istruzione dei cantanti, alla sorveglianza esercitata sulla sartoria o sull’allestimento delle scene<br />

3<br />

Capitolato per l’appalto degli II. RR. Teatri alla Scala e Canobbiana, in Archivio di Stato di Milano, Spettacoli<br />

Pubblici, Parte Moderna, Cart. 40.<br />

4<br />

Lettera della Direzione teatrale (rappresentante Crippa) all’Imperiale Regia Polizia e al Consulente della Direzione,<br />

Milano, 2 giugno 1840, con annessa descrizione dei figurini per l’opera I due Figaro (15 giugno 1840); Archivio<br />

Storico Civico di Milano, Biblioteca Trivulziana, Spettacoli Pubblici, Cart. 19, Fasc. 8. Lettera di B. Magni alla<br />

Direzione teatrale, Milano, 19 maggio 1838, con relativa risposta della Direzione (rappresentante Crippa) del medesimo<br />

giorno e foglio allegato con elenco correzioni conseguenti la presa in visione; Archivio Storico Civico di Milano,<br />

Biblioteca Trivulziana, Spettacoli Pubblici, Cart. 17, Fasc. 5.<br />

5<br />

Lettera della Direzione teatrale (rappresentante Crippa) all’Impresa, Milano, 19 maggio 1838, cit., n. 4.<br />

6<br />

Cfr.: Alessandro Roccatagliati, Felice Romani librettista, Lucca, Libreria Musicale Italiana, 1996; Giovanna Gronda,<br />

Il libretto d’opera fra letteratura e teatro, in Giovanna Gronda e Paolo Fabbri (a cura di), Libretti d’opera italiani dal<br />

Seicento al Novecento, Milano, Mondadori, 2007³ (collana «I Meridiani»), pp. IX-LIV; Gerardo Guccini, Direzione<br />

scenica e regia, in Lorenzo Bianconi e Giorgio Pestelli (a cura di), Storia dell’opera italiana, vol. V, La spettacolarità,<br />

Torino, EDT, 1988, pp. 123-174.<br />

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3


(a cominciare dalla pittura per finire col montaggio) 7 . In perfetta coerenza con certe poetiche<br />

melodrammatiche settecentesche fondate sulla preminenza della parola sul fatto musicale, alla Scala<br />

il librettista di un’opera può essere investito delle funzioni di “allestitore” per la messa in scena di<br />

melodrammi di cui egli stesso abbia steso il testo, ma tali compiti possono essere esercitati anche da<br />

un «poeta addetto» operante all’interno del teatro a prescindere dal fatto che egli sia direttamente<br />

“autore” del libretto dell’opera da rappresentare. I documenti in nostro possesso ci autorizzano a<br />

credere che, nel corso degli anni Trenta e Quaranta, questo ruolo sia stato ricoperto con <strong>continuità</strong><br />

da Calisto Bassi, librettista e traduttore di libretti, spesso appartenenti al repertorio del Grand Opéra<br />

francese 8 – repertorio ad alto tasso di spettacolarità (con quanto ne consegue sul piano del<br />

coordinamento del lavoro scenico) per il quale Merelli mostra una particolare predilezione, non<br />

sempre facilmente conciliabile con le necessità censorie della polizia e con gli standard imposti<br />

dalla Direzione 9 .<br />

Nato a Cremona agli inizi del secolo e morto nel 1860 vicino a Milano, Bassi, figlio di un cantante<br />

buffo napoletano, lavora per l’Impresa scaligera, dalla quale è pagato 10 e della quale è stato più<br />

volte rappresentante temporaneo negli anni della conduzione Merelli, come si evince dalla<br />

corrispondenza ufficiale 11 . In un suo poemetto autobiografico del ’48 12 è lo stesso Bassi a darci<br />

indirettamente notizie intorno alla sua presenza alle prove della Scala e al ruolo da lui svolto in<br />

questo contesto come figura di riferimento per l’orchestra, i cantanti e il personale tecnico; a<br />

rincalzo le lettere tra la Direzione teatrale e il librettista, nei periodi in cui questi sostituiva Merelli,<br />

mostrano come Bassi avesse la responsabilità delle questioni connesse alla “messa in scena” da<br />

discutere con la Direzione dei Teatri. Stando ai dati in nostro possesso, già all’altezza del 1829 si<br />

pensa al «poeta» Bassi per l’allestimento di un melodramma del cui libretto egli non è autore in<br />

prima persona. In una lettera del 20 gennaio 1829 di Villa, delegato milanese per il San Carlo di<br />

Napoli, al rappresentante della Direzione dei Teatri Visconti di Mondrone, si segnala infatti che, per<br />

la messinscena del melodramma La Straniera, su libretto di Romani, in assenza dello stesso<br />

librettista (già altre volte chiamato a curare alla Scala l’allestimento dei propri lavori 13 ), l’Impresa<br />

ha pensato di rivolgersi a Bassi, «poeta» egli pure stipendiato ad hoc 14 .<br />

7<br />

Cfr.: Lorenzo Da Ponte, Ordine necessarissimo in una Direzione teatrale, scelta ed approvata un’opera dalla<br />

Direzione Imperiale, ms. aut. riprodotto in Ulirch Müller e Oswald Panagl (a cura di), Don Giovanni in New York,<br />

Salzburg, Müller-Speiser, 1991, pp. 52-61; lettera di Francesco Maria Piave al Governatore di Milano Massimo<br />

D’Azzelio [sic], Milano, 17 marzo 1860, con annessa dichiarazione della Presidenza del Gran Teatro La Fenice di<br />

Venezia, Venezia, 8 marzo 1860; lettera di Francesco Maria Piave al Governatore di Milano Massimo D’Azzelio,<br />

Milano, 22 marzo 1860; lettera di Francesco Maria Piave al Governatore di Milano Massimo D’Azzelio, Milano 2<br />

giugno 1860, con allegato promemoria teso a render conto della sua attività di «Direttore della messa in iscena» degli<br />

spettacoli presso La Fenice dal 1844; in Archivio del Museo Teatro alla Scala, Corrispondenza.<br />

8<br />

A questo proposito si possono ricordare le versioni dei seguenti libretti: La favorita (1843) e La figlia del reggimento<br />

(1840), opere entrambe di Gaetano Donizetti; I guelfi e i ghibellini (1843), un rifacimento de Les Huguenots di<br />

Giacomo Meyeerbeer, mai andato in scena.<br />

9<br />

Si considerino, a questo proposito, le complesse vicende legate ai tentativi di importazione del Guillaume Tell di<br />

Rossini nel 1836 e de Les Huguenots di Meyeerbeer nel 1843 (cfr. in proposito Archivio Storico Civico di Milano,<br />

Biblioteca Trivulziana, rispettivamente Cart. 15 e Cart. 20). Se il Guillaume Tell riuscì ad essere rappresentato nella<br />

variante scozzese del Vallace, l’opera di Meyeerbeer, per quanto già andata in scena a Vienna in versione edulcorata,<br />

non passò mai la censura della messa in scena.<br />

10<br />

Informazione evinta da un documento presente presso l’Archivio Visconti di Mondrone, Istituto di Storia Economica,<br />

Università Cattolica di Milano, Cart. 285L, autografi letterari, già citato in Alessandro Roccatagliati, Felice Romani<br />

librettista, cit., p. 373n.<br />

11<br />

Si vedano le lettere di Calisto Bassi e Bartolomeo Merelli alla Direzione dei Teatri in Archivio Storico Civico di<br />

Milano, Biblioteca Trivulziana, Spettacoli Pubblici, Cart. 19, 20 e 95, riguardanti rispettivamente gli anni 1840, 1842 e<br />

1844.<br />

12<br />

Cfr. Calisto Bassi, Strane avventure occorse ad un poeta di teatro nelle cinque memorabili giornate del marzo 1848,<br />

Milano, Borroni e Scotti, 1848, pp. 11-13.<br />

13<br />

Lettera di Felice Romani a G. M. Franchetti (Delegato dell’Impresa), Milano, 18 settembre 1823, in Archivio di Stato<br />

di Milano, Spettacoli Pubblici, Gestione Governativa, Cart. 17, già citato in Alessandro Roccatagliati, Felice Romani<br />

librettista, cit., p. 323.<br />

14<br />

Lettera di G.B. Villa al Duca Visconti di Mondrone, Milano, 20 gennaio 1829, in Archivio Storico Civico di Milano,<br />

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4


Stante le documentate funzioni “pratiche” di cui Bassi è investito, sul fronte “estetico” è evidente<br />

come, nell’operato di questo «poeta», convivano e si compenetrino competenze drammaturgiche e<br />

di allestitore, con una tensione alla sintesi estetica già nettamente orientata in direzione registica.<br />

Numerose sono in effetti le tracce di uno sguardo registico che governa la drammaturgia di Bassi, o<br />

di una complementare tendenza della drammaturgia bassiana ad organizzare “registicamente” la<br />

rappresentazione. Si prenda il caso del Guillaume Tell di Rossini, opera spesso giudicata<br />

antesignana del Grand Opéra. Nel 1831 Bassi ne cura una fortunata traduzione rappresentata a<br />

Firenze. Nel 1836 Merelli, da poco impresario, vorrebbe rappresentare l’opera alla Scala,<br />

incontrando una ferma opposizione della Polizia lombarda 15 . Per venire incontro alle esigenze<br />

censorie, Bassi appresta allora un suo originale “travestimento”: quel Guglielmo Vallace che –<br />

caduto il progetto di una messa in scena del Tell – debutterà a Milano il 26 dicembre 1836. Dalla<br />

vicina Svizzera la vicenda è allontanata in una più rassicurante (perché remota) Scozia. Per il resto<br />

Bassi, operando sulla partitura rossiniana data, procede da un lato riproducendo a calco la sintassi<br />

drammaturgica dell’opera e reinventando dall’altro il soggetto (su evidenti e fedelissime basi<br />

mimetiche rispetto all’originale di de Jouy e Bis). In questa operazione di “tradimento” imitativo<br />

(imposto dalla “régia regìa”) il fuoco narrativo si sposta dal tema della rivolta potenzialmente<br />

patriottica (vistosamente edulcorato da Bassi pure nella sua nuova versione del ’45) all’analisi delle<br />

vicende intime e private di morte, vendetta e amore dei diversi personaggi, nettamente esaltate nella<br />

drammaturgia del Vallace. Dalla “collazione” tra i due libretti (1831, Tell; 1836, Vallace), emerge<br />

chiaramente come il riassetto drammaturgico tentato da Bassi obbedisca ad una acuta visione quasi<br />

“registica”. Nel quadro del generalizzato isomorfismo sintattico spiccano due clamorose<br />

macrovarianti coinvolgenti non solo il piano della scrittura stricto sensu, ma anche quello della<br />

realizzazione. Puntando sul valore patetico intimistico della relazione scenica a due, il terzo atto del<br />

Vallace si apre infatti con un duetto amoroso ambientato in un «ameno luogo» 16 , che Bassi aveva<br />

tagliato nella sua relativamente fedele versione ritmica “patriottarda” del 1831 e che reintroduce<br />

nell’appassionato Vallace (il duetto sarà nuovamente tagliato nel 1845). Ugualmente nel 1836 la<br />

nota scena della prova della mela del terzo atto viene fatta cadere; il climax patetico del dramma è<br />

così spostato nel Vallace sul finale dove viene introdotto un nuovo significativo scarto. Lo<br />

stratagemma, ideato da de Jouy e Bis, di Tell che, scortato sul lago in burrasca, causa la morte dei<br />

suoi carcerieri, è sostituito da Bassi con una più spettacolare scena di battaglia pittorescamente<br />

descritta in didascalia 17 . Con abile “regia” drammaturgica le modifiche, facendo direttamente leva<br />

sulla prassi spettacolare, tendono in questo caso a disinnescare l’apoteosi eroica del Tell<br />

“salvatore”, lasciando invadere il palcoscenico da una teatralissima azione di massa che annega<br />

l’eventuale messaggio politico in una piena di pura spettacolarità.<br />

Nello stesso torno di tempo un’ulteriore significativa presenza stabile alla Scala è quella del<br />

Direttore d’Orchestra, Eugenio Cavallini, salutato pure come l’«Habeneck italiano» 18 , noto per aver<br />

riformato la disposizione dell’orchestra scaligera. Muovendo da una posizione inizialmente defilata,<br />

Cavallini acquista negli anni un’incidenza sempre più forte nel regolare le questioni della messa in<br />

scena. Nel 1853, dunque poco oltre la nostra soglia cronologica, è proprio lui uno dei principali<br />

responsabili dello slittamento della prima scaligera del Rigoletto, stanti le difficoltà da lui previste<br />

Biblioteca Trivulziana, Spettacoli Pubblici, Cart. 3, Fasc. 8, già citato in Alessandro Roccatagliati, Felice Romani<br />

librettista, cit., p. 329.<br />

15 Si veda, a questo riguardo, la fitta corrispondenza ufficiale intrecciantesi tra l’Impresa, la Direzione dei Teatri e<br />

l’Imperiale Polizia nel corso del 1836, in Archivio Storico Civico di Milano, Biblioteca Trivulziana, Cart. 15.<br />

16 Calisto Bassi, Vallace. Melodramma tragico di Calisto Bassi, composto sulla musica del Guglielmo Tell del maestro<br />

cavaliere Rossini, da rappresentarsi nell’I.R. Teatro alla Scala il carnevale 1836-37, Milano, Pirola, 1836, p. 35.<br />

17 «La procella imperversa. Il segno della battaglia è dato. I soldati di Gre.[ssinga] son presso ad attraversare il ponte: ad<br />

un tratto uno squillo di tromba parte dalla selva, a cui vien risposto da lontano. In questo momento il ponte precipita e<br />

sommerge nell’onde gli Inglesi che sono ivi pure incalzati e tratti a mal termine dai Montanari scozzesi, alla cui testa<br />

per una parte vedonsi Val.[lace] ed Elv.[ino], e per l’altra Kirk.[patrick], che, con ardore lanciandosi nel fiume, cerca di<br />

Gre.[ssinga]. Che trova e lo fa spento»: Calisto Bassi, Vallace, cit., p. 50.<br />

18 Pompeo Cambiasi, Accademia della Società Filarmonica, in «Gazzetta musicale di Milano», V, 1846, p. 139.<br />

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5


nella gestione in prova delle «masse coriste» 19 . Ma sulla questione del direttore d’orchestra<br />

dovremo tornare più avanti.<br />

Se l’Italia ottocentesca è proverbialmente considerata il paese del melodramma, sempre nel primo<br />

Ottocento una non minore importanza alla scena musicale viene riconosciuta dalla società inglese:<br />

stante il monopolio assoluto sulla “prosa” assicurato ai patent theatres fino al Theatre Act del ’43 (a<br />

Londra il Drury Lane e il Covent Garden), ancora nei primi decenni del XIX secolo, nelle sue varie<br />

contaminazioni col parlato, il teatro musicale (agevole scappatoia per aggirare l’ostacolo del divieto<br />

di mettere in scena copioni solo di prosa) resta infatti, come è noto, la tipologia di esperienza<br />

scenica più diffusa del Regno Unito. Certo l’ibrido e popolare melodrama è la chiave di volta della<br />

drammaturgia musicale inglese di quegli anni, ma – non diversamente da quanto accade alla Scala –<br />

anche in Inghilterra il paradigma del Grand Opéra non manca di esercitare una profonda influenza.<br />

E fin qui le analogie. D’altra parte, però, contrariamente a quanto accade nella burocratizzata<br />

Milano asburgica, la scena londinese primo ottocentesca, dominata dai managers, è regno<br />

incontrastato del libero mercato: sia che appartengano a singoli individui, sia che siano gestiti da<br />

società, le sale teatrali sono in effetti di proprietà privata 20 e secondo il Licensing Act del 1737<br />

(ancora in vigore all’inizio dell’Ottocento), salvo sporadiche eccezioni, l’unico vero appannaggio<br />

del potere governativo in materia di spettacolo è la censura preventiva esercitata sulla scelta dei<br />

testi. Attivi sia nei patent theatres che nelle altre sale, in primo luogo i managers sono chiamati<br />

dalla proprietà, sulla base di contratti d’affitto, a gestire in ottica di libero mercato l’andamento<br />

economico dei teatri e a dirigerne le stagioni, ma di fatto, acquisiscono precocemente pure<br />

responsabilità di tipo registico sui singoli allestimenti 21 . Si consideri, per esempio, come nel nutrito<br />

staff di assistenti affiancanti i managers dei patent theatres – più ricchi e quindi dotati di<br />

organigrammi più sviluppati e complessi degli altri teatri, come rilevato dalla Cocco 22 – già nei<br />

primi decenni dell’Ottocento sia sostanzialmente istituzionalizzato lo stage manager, figura<br />

professionale di rilievo “registico” situantesi a metà strada tra gli odierni direttore di scena e<br />

assistente alla regia 23 . Come si è più volte rimarcato i managers con più spiccate connotazioni<br />

registiche sono, naturalmente, gli actor managers alla Edmund Kean o Robert William Elliston –<br />

non a caso è su di loro che per lo più si sono concentrate le attuali indagini storiografiche dedicate<br />

alla nascita della regia nel Regno Unito 24 – ma, sullo sfondo di questa schiera di attori-protoregisti,<br />

tra gli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento si staglia una figura nuova di estrazione ancora una<br />

volta “drammaturgica”: un manager non attore tanto potente dal punto di vista organizzativo,<br />

quanto determinato e attento alla creazione degli spettacoli: Alfred Bunn – personaggio forse oggi<br />

un po’ trascurato sul quale restano ancora fondamentali le lontane indagini di Urwin dei tardi anni<br />

Cinquanta 25 .<br />

19<br />

Cfr. lettera dell’Impresa, cofirmata dai Sig.ri Giacomo Panizza e Eugenio Cavallini, alla Direzione dei Teatri, Milano,<br />

3 gennaio 1853, in Archivio del Museo del Teatro alla Scala, Faldone R, Fasc. 66.<br />

20<br />

Preziose testimonianze sono rese in tal senso dalle autobiografie e biografie dei manager della prima metà del XIX<br />

secolo; cfr. ad esempio: Alfred Bunn, The Stage: Both Before and Behind the Curtain, London, Bentley, 1840, 3 voll. o<br />

Philadelphia, Lea & Blanchard, 1840, 2 voll. (per tutte le citazioni che seguono si è fatto riferimento all’ed. americana<br />

dell’opera); Thomas Dibdin, The Reminiscences of Thomas Dibdin, London, Colburn, 1827; George Raymond, The Life<br />

and Enterprises of Robert William Elliston, Comedian, London, G. Routledge, 1857.<br />

21<br />

Si vedano ancora, in proposito, le biografie ed autobiografie dei manager della prima metà del XIX secolo; in<br />

particolare: Alfred Bunn, The Stage: Both Before and Behind the Curtain, cit.; George Raymond, The Life and<br />

Enterprises of Robert William Elliston, Comedian, cit.<br />

22<br />

Cfr. Maria Rosaria Cocco, Arlecchino, Shakespeare e il marinaio: teatro popolare e melodramma in Inghilterra,<br />

1800-1850, Napoli, Istituto Universitario Orientale, Dipartimento di Studi Letterari e Linguistici dell’Occidente, 1990,<br />

pp. 75-87.<br />

23<br />

Si veda la definizione fornita da The Oxford English Dictionary, Oxford, Clarendon, 1989², lemma Stage, vol. XVI,<br />

p. 450.<br />

24<br />

Cfr. Giles Playfair, The flash of lightning: a portrait of Edmund Kean, London, W. Kimber, 1983; C. Douglas Abel,<br />

The Acting of Edmund Kean, Tragedian, Toronto, University of Toronto, 1985; Christopher Murray, Robert William<br />

Elliston, Manager, London, Society for Theatre Research, 1975 e Michael J. Wood, The Descendants of Robert William<br />

Elliston, Plympton, S.A., Adelaide Proformat, 1995.<br />

25<br />

Cfr. George Glencairn Urwin, Alfred Bunn 1796-1860: A Revaluation, in «Theatre Notebook», 1957, n. 11, pp. 96-<br />

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6


Nato nel 1796 e morto nel 1860, Bunn, formatosi come stage manager all’ombra di Elliston,<br />

concentra su di sé due ruoli: da un lato è un versatile e prolifico scrittore, tanto da essere chiamato<br />

«Poet Bunn» 26 , dall’altro è un manager finanziariamente e politicamente potente, l’unico ad avere<br />

ottenuto la gestione contemporanea dei due patent theatres di Londra nel 1833. Mentre la sua<br />

direzione del Covent Garden dura solo qualche anno, Bunn riuscirà invece a gestire il Drury Lane<br />

sino al 1840, quando è costretto ad abbandonare la sala per fallimento. Dopo un breve intervallo lo<br />

si ritrova ancora alla guida del Drury tra il 1843 e il 1847 e tra il ’51 e il ’52.<br />

Nello spietato star system londinese del primo Ottocento, Bunn si afferma non solo per il suo<br />

indubbio potere politico, ma anche, come testimoniano le sue memorie del 1840 27 e come<br />

puntualizza Urwin 28 , per la sua capacità, di fatto registica, di imporsi pure artisticamente su attori e<br />

cantanti; attraverso la sua direzione le star della scena inglese cessano di essere solisti e sono<br />

portate a farsi elementi di un più vasto ensemble 29 . Parallelamente, come osserva Biddlecombe 30 ,<br />

Bunn nella sua veste di librettista, si impegna nel rinnovamento della tradizione melodrammatica<br />

britannica, utilizzando come modello proprio il Grand Opéra parigino. Oltre all’intervento<br />

drammaturgico, cruciale – in questa operazione di riforma scenico-musicale – il lancio di nuovi<br />

cantanti inglesi, capaci di affrontare i nuovi ruoli, e, soprattutto, il sodalizio stabilito con Michael<br />

William Balfe (1808-1870), compositore irlandese di cultura fortemente continentale.<br />

Significative spie del fare registico di Bunn si colgono nell’allestimento di The Maid of Artois,<br />

primo libretto del manager. Andata in scena al Drury Lane il 27 maggio 1836, durante la direzione<br />

Bunn, The Maid of Artois è la seconda opera inglese di Balfe – che con questa partitura ottiene però<br />

la sua prima vera affermazione “teatrale” in patria –; celeberrima protagonista dell’atteso debutto il<br />

soprano Maria Malibran alla sua ultima storica interpretazione.<br />

Perfetto prototipo del melodrama “riformato” alla Bunn, nel corso dei suoi tre atti The Maid of<br />

Artois presenta un’alternanza di scene cantate e recitate, giocate sul doppio registro del “buffo” e<br />

del “patetico”, con ampie concessioni alle mode esoticheggianti dell’epoca. In linea con l’estetica di<br />

mercato di Bunn, l’allestimento architettato dal manager punta scopertamente a produrre un forte<br />

impatto spettacolare sul pubblico, sia attraverso i costumi, progettati ad hoc da Palmer e dalla<br />

Coombe 31 , sia attraverso l’impianto scenico, realizzato dalla nota famiglia di pittori Grieve, dotato<br />

di elementi praticabili ed impreziosito dagli affascinanti oggetti di scena realizzati dal responsabile<br />

del «machinery» Nall (le cronache ricordano, ad esempio, l’imponente l’orologio del campanile del<br />

secondo atto, progettato per battere le ore, e lo scalone ammirato al terzo atto ambientato nel<br />

deserto della Guiana francese). Per quanto improntata ad una leggibilissima cifra estetica unificante,<br />

la cura accordata al confezionamento del prodotto non è però il solo coefficiente “registico”<br />

rintracciabile nell’allestimento dell’opera. Non diversamente dal «poeta addetto» Bassi, il manager<br />

Bunn, direttamente investito dei compiti di messa in scena proprio per la sua funzione direttiva<br />

(economica ed organizzativa), tesse infatti le linee guida del suo progetto registico – improntato alla<br />

poetica “commerciale” dell’effetto – già annodandole alla trama del proprio intreccio<br />

drammaturgico, secondo le cadenze di una “poesia” teatrale che di fatto ambisce scopertamente a<br />

ritmare in modo unitario la composizione scenica. Prima ancora che dagli echi delle recensioni a<br />

102.<br />

26<br />

Il soprannome «Poet Bunn», spesso usato ironicamente, ritorna di frequente in varie riviste degli anni Quaranta come<br />

«Littell’s Living Age» (Boston, 1844-1853), o, specialmente, «Punch» (London, 1841-) e «Sportsman’s Magazine of<br />

Life in London and the Country» (London, 1845-1846). Cfr. a tal proposito pure Alfred Bunn, A Word with Punch,<br />

London, Johnson, 1847.<br />

27<br />

Cfr. Alfred Bunn, The Stage: Both Before and Behind the Curtain, cit.<br />

28<br />

Cfr. George Glencairn Urwin, Alfred Bunn 1796-1860: A Revaluation, cit., p. 97.<br />

29<br />

Si vedano le memorie di Bunn: Alfred Bunn, The Stage: Both Before and Behind the Curtain, cit., vol. I, pp. 65-66.<br />

30<br />

Cfr. George Biddlecombe, English Opera from 1834 to 1864 with Particular Reference to the Works of Michael<br />

Balfe, London, Garland Pub, 1994, p. 7.<br />

31<br />

Si veda sia la locandina dello spettacolo, posseduta dal Theatre Museum di Londra che il frontespizio della stampa di:<br />

Alfred Bunn, Programme of the Songs, Duets, Trios, Chorusses, in the New Grand Serious Opera, Entitled The Maid of<br />

Artois, London, Wright, 1836.<br />

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7


stampa, i principali costrutti della sintassi registica di Bunn possono essere dedotti dalla collazione<br />

dei testimoni “drammaturgici” in nostro possesso: il manoscritto destinato alla censura e datato<br />

maggio 1836 (precedente il debutto e presumibilmente risalente alla prima fase delle prove) 32 , la<br />

stampa del 1836 del testo per le sole scene cantante 33 e la prima stampa completa del libretto, con<br />

alcune varianti, specie aggiuntive, disposta in occasione della ripresa dell’opera al Lane nel 1846 34<br />

(entrambe testimonianze, queste ultime, seriori alla prima messa in scena).<br />

Di particolare interesse, ovviamente, l’analisi comparata delle didascalie. Più ancora della<br />

precisione quasi maniacale con cui Bunn attende a definire le intenzioni enunciative sottese alle<br />

“battute”, colpisce la sua evidente inclinazione a riprodurre “en abîme” il movimento diegetico<br />

della fabula del melodrama (inquieto rincorrersi di due amanti perpetuamente ostacolati destinato a<br />

risolversi in “lieta” riunificazione soltanto sul finale) nella minuziosa coreografia prossemica<br />

concepita dal librettista e da lui affidata ai paratesti didascalici secondo un sistema notazionale che<br />

viene precisandosi mano a mano che dal già analitico progetto coreutico del manoscritto, passando<br />

attraverso il vaglio della scena, si giunge nelle stampe seriori ad un libretto ormai attestatosi in<br />

definitivo consuntivo drammaturgico di una rappresentazione. In altri termini, la relazione base<br />

drammaturgica tra i due innamorati protagonisti di The Maid of Artois, Isoline e Jules – sceneggiata<br />

nel libretto in una dialettica incessantemente interrotta e ossessivamente riproposta di tentativi di<br />

riunificazione e insuperabili separazioni generate dagli ostacoli frapposti al lieto fine dal perfido<br />

Marquis – trova la sua perfetta “mise en scène” nella ponderatissima danza di posizioni sceniche<br />

pre-vista dal testo di Bunn. Consideriamo, a titolo d’esempio, alcune sequenze (si tenga presente<br />

che, stanti le variazioni che si registrano tra i tre testimoni nelle scansioni strutturali dell’opera, per i<br />

rimandi macrodiegetici si è scelto di fare riferimento alla stampa del ’46). Atto primo, scena terza:<br />

Jules irrompe nella stanza dell’innamorata che suppone essere una traditrice. Sorpresa alla finestra,<br />

di spalle, Isoline si volta e, trovandosi per la prima volta di fronte al suo amato può solo mostrarsi<br />

«alarmed» 35 . In capo ad un lungo fronteggiarsi (a parole e a fatti), al termine della sequenza,<br />

essendosi i due riconciliati, mentre Jules cade stanco a sedere, Isoline, che ha appena riempito un<br />

«goblet», in «the most joyous manner» 36 secondo quanto precisato dalla stampa del ’46, gli si<br />

avvicina, accomodandoglisi dolcemente accanto 37 . Atto secondo, scena prima (e unica). Dopo una<br />

parentesi di allontanamento, i due amanti si ritrovano, uno di fronte all’altro, ma lontani in scena,<br />

sulla piazza del forte di Sinamari. Isoline e Jules si corrono incontro, ma vengono bloccati e<br />

nuovamente allontanati, prima di potersi fisicamente ricongiungere, dall’irrompere delle milizie<br />

capitanate da Synnelet 38 , carceriere di Jules. Solo quando Synnelet, in virtù di un tranello, viene<br />

spinto nella cella di Jules, che a sua volta veloce scappa, il giovane innamorato «rushes in to the<br />

arms of Isoline» 39 , «exlaiming» alla ritrovata amata – prescrive/riferisce la stampa del ’46,<br />

travolgendo ogni possibilità di introspettivo intimismo in una piena di retorica spettacolare 40 –:<br />

«Thou art saved!» 41 Ancora, al sollevarsi della tela nel terzo atto, esoticamente ambientato<br />

nell’arido deserto della Guiana francese, dopo l’ennesima separazione, troviamo, finalmente soli, i<br />

ricongiunti Isoline e Jules a disegnare una pietà tutta profana, con l’amato steso davanti alla sua<br />

bella assisa, la testa reclinata sul ginocchio di Isoline 42 . Una posa “funebre”, finalmente statica, che<br />

32<br />

Alfred Bunn, The Maid of Artois, ms. presso British Library, Lord Chamberlain’s plays, vol. LXXII, May 1836, ff.<br />

627-643.<br />

33<br />

Id., Programme of the Songs, Duets, Trios, Chorusses, cit.<br />

34<br />

Michael William Balfe e Alfred Bunn, The Grand Serious Opera, Entitled The Maid of Artois, London, Johnson,<br />

1846.<br />

35<br />

1836ms, f. 634r / 1846s, p. 12.<br />

36<br />

1846s, p. 13.<br />

37<br />

1836ms, f. 634v / 1846s, p. 13.<br />

38<br />

1836ms, f. 636v / 1846s, p. 20.<br />

39<br />

1836s, p. 20 / 1846s, p. 25.<br />

40<br />

1846s, p. 25.<br />

41<br />

1836ms, f. 638r / 1836s, p. 20 / 1846s, p. 25.<br />

42<br />

1836ms, f. 642r / 1846s, p. 29.<br />

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8


cela, nel racconto di primo livello della disperazione di una morte annunciata, la più riposta profezia<br />

dell’imminente e definitivo lieto ricongiungimento finale degli amanti, foriero dell’estenuata morte<br />

dell’eros.<br />

Purtroppo, per problemi di salute, in occasione della prima messa in scena Bunn può assistere solo<br />

agli ultimi sei giorni di prova 43 , ma sappiamo che la Malibran era già operativa a Londra, per<br />

lavorare all’allestimento, fin dai primi di maggio 44 . Sul piano delle relazioni artistiche ed<br />

organizzative con la cantante, il manager si trova ad affrontare un’interprete dotata del fascino e<br />

dell’autorevolezza di una vera e propria diva. Duro fu lo scontro fra i due, come ricorda lo stesso<br />

librettista nelle sue memorie lamentando le difficoltà incontrate in prova nello sviluppo armonico –<br />

in ensemble – della messinscena. A testimonianza dell’approccio dirigistico di Bunn, si consideri<br />

come la decisione della mezzo soprano di saltare buona parte della penultima prova per tenere un<br />

concerto mattutino determina una risentita reazione del manager 45 , che non esita a rinfacciare alla<br />

star di pagarla profumatamente. Il poeta è ugualmente sgomento e meravigliato quando, la sera<br />

della prima, la Malibran, esausta, nell’intervallo tra il secondo e terzo atto gli chiede di farle<br />

scivolare in palco una pinta di birra durante il sottofinale: soltanto se potrà bere in scena la cantante<br />

troverà la forza di affrontare la fine della rappresentazione. Se una simile richiesta gli fosse arrivata<br />

da parte di qualunque altro attore o cantante, il dittatore del Drury Lane avrebbe opposto un<br />

categorico diniego, ma davanti alla Malibran, consapevole del fascino da lei esercitato sul pubblico,<br />

in ossequio alle leggi del mercato 46 , il manager, pur se malvolentieri, finisce per accondiscendere 47 .<br />

Per valutare appieno il significato di questi episodi si consideri che negli stessi giorni della prima di<br />

The Maid of Artois, per la precisione il giorno 11 maggio 1836, il celebre attore shakespeariano<br />

Macready, non tollerando le imposizioni di Bunn e non riuscendo a far breccia nel suo regime<br />

dirigistico, al termine di una replica del Macbeth si abbandona in palcoscenico ad una pubblica<br />

invettiva contro Bunn e contro le sue strategie di gestione del Drury Lane – specie nel rapporto con<br />

gli attori – e conseguentemente lascia il teatro 48 . Per concludere questa rapida ricognizione<br />

dell’allestimento di The Maid of Artois, si consideri come Bunn si assicuri anche legalmente una<br />

potestà “registica” sulla rappresentazione dell’opera: in data 16 maggio 1836 (una decina di giorni<br />

prima del debutto) viene stipulato a Londra un importante atto notarile, articolato in doppio<br />

negozio, tra Bunn e Balfe. Con il primo contratto si stabilisce che Bunn ceda a Balfe i diritti sul<br />

libretto di The Maid of Artois, contro il versamento di un corrispettivo di 100 sterline, per assicurare<br />

al compositore i diritti esclusivi di stampa della partitura nel suo complesso di musica e parole.<br />

Parallelamente, col secondo contratto, Balfe cede a Bunn, contro il versamento di 5 sterline e 5<br />

scellini a replica con obbligo di cinquanta recite pagate, l’esclusiva dei diritti di produzione e messa<br />

in scena dell’opera:<br />

That the said Michael William Balfe shall and will permit and suffer the said music of the said Opera to be<br />

brought out and pubblickly performed at the Theatre Royal in Drury Lane†and or at any other theatre for public<br />

amusement under the direction and control of the said Alfred Bunn 49 .<br />

E veniamo ora alla Francia, vera patria del Grand Opéra. Con l’ascesa al potere di Luigi Filippo e<br />

l’instaurarsi della monarchia borghese, la scena parigina, pur conservando un assetto<br />

profondamente diverso da quello britannico, si avvicina al mercato. L’Opéra, all’epoca Académie<br />

43<br />

Cfr. Alfred Bunn, The Stage: Both Before and Behind the Curtain, cit., vol. I, p. 223.<br />

44<br />

Cfr. Patrick Barbier, La Malibran, Reine de l’opéra romantique, Paris, Pygmalion, 2005, p. 223.<br />

45<br />

Cfr. Alfred Bunn, The Stage: Both Before and Behind the Curtain, cit., vol. I, p. 229.<br />

46<br />

Nelle sue memorie Bunn riporta puntualmente i risultati ottenuti al botteghino con le numerose repliche dell’opera; le<br />

recite di The Maid of Artois si protrassero per tutto il mese di giugno fino al primo di luglio. Cfr. Alfred Bunn, The<br />

Stage: Both Before and Behind the Curtain, cit., vol. I, pp. 230-232.<br />

47<br />

Ibid., p. 229.<br />

48<br />

Ibid., pp. 213-214.<br />

49<br />

Contratto tra Alfred Bunn e Micheal William Balfe, London, 16 maggio 1836; British Library, Additional<br />

Manuscripts 29498, f. 1r.<br />

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9


Royale de Musique, è ente che fa capo allo Stato e che dallo Stato è finanziato – pur non subendo<br />

così forti ingerenze governative nella propria programmazione come quelle patite dall’Impresa alla<br />

Scala –; d’altra parte, però, sotto la direzione di Jules Véron, alla guida dell’Opéra tra il 1831 e il<br />

1835, proprio all’Académie, sull’onda di un montante interesse per il mercato e per le ragioni della<br />

spettacolarità 50 , si pongono in essere i primi tentativi di superamento delle rigide codificazioni<br />

napoleoniche 51 . È in questo clima produttivo volto al cambiamento che a cavallo tra anni Venti e<br />

Trenta a Parigi si afferma e si isituzionalizza il paradigma del Grand Opéra, fastoso concentrato di<br />

meraviglie sceniche, tecnica e virtuosismo, che proprio in ragione di questa sua natura<br />

spettacolarmente complessa si candida ad essere uno dei primi luoghi deputati alla sperimentazione<br />

delle aurorali pratiche “registiche”. Nel vasto e variegato campo del Grand Opéra, la regia in statu<br />

nascendi come «arte della fabbrica», per dirla con Alonge 52 , trova infatti un fertile terreno in cui<br />

affondare le proprie radici. A dispetto delle note antipatie di Wagner 53 e delle numerose critiche che<br />

il Grand Opéra incassa lungo tutto il corso del XIX secolo per la sua tendenza a risolversi in puro<br />

intrattenimento, è un incontrovertibile dato di fatto, non privo di interesse in prospettiva di lettura<br />

registica della storiografia teatrale, che, come rileva giustamente Casini 54 , avendo contribuito a<br />

traghettare il melodramma romantico da un orizzonte produttivo “povero” ad uno più complesso in<br />

cui scenografia, scenotecnica e costumi acquistano un ruolo di rilievo nel processo di allestimento,<br />

proprio il Grand Opéra ha dato un notevole contributo, per quanto indiretto, sia sul piano teorico<br />

che su quello della progettualità tecnica, alla genesi del Gesamtkunstwerk wagneriano, termine di<br />

riferimento ideale per molte poetiche registiche tardo ottocentesche. Imponendo forme spettacolari<br />

vieppiù complesse il Grand Opéra francese incide per esempio sulla scansione dei tempi di prova,<br />

soggetti progressivamente, a ridosso degli anni Trenta, ad ampie dilatazioni in virtù delle maggiori<br />

difficoltà tecniche della messa in scena (e notoriamente proprio l’allungamento del periodo di prove<br />

è uno dei primi coefficienti registici degli allestimenti oggettivamente valutabili). Poco oltre la<br />

soglia cronologica da noi fissata, ossia già a cominciare dal ’49, Verdi elogerà l’abitudine parigina<br />

di provare per mesi gli allestimenti, pur lamentando, a quell’altezza cronologica, l’assenza di una<br />

forte figura artistica di riferimento capace di coordinare realmente il lavoro, uscendo dagli schemi<br />

fissi e ripetitivi del Grand Opéra 55 . Effettivamente il compositore (regista in pectore) Verdi, sbarca<br />

nel tempio della lirica parigina in una stagione di vuoto di potere, ma per tutto il periodo da noi<br />

considerato la registica reductio ad unum della sfaccettata e ipertrofica sintassi dell’Opéra – in<br />

assenza di un punto di vista unificante condannata a risolversi in slegata paratassi trivialmente<br />

spettacolare – ha invece un proprio potente garante in François-Antoine Habeneck (1781-1849),<br />

uno dei padri fondatori della direzione d’orchestra europea.<br />

La nascita della direzione orchestrale in Europa viene per lo più spiegata adducendo a cause<br />

50 «LE DIRECTUR DE L’OPERA FAIT FORTUNE. Une fois n’est pas costume. Eugène Véron, médicin, journaliste,<br />

fondateur de la première Revue de Paris, fut nommé en 1831. Il avait réussi à fournir l’important caution exigée du<br />

directeur dans la nouvelle formule de gestion instaurée par Louis-Philippe. Au système de Surintendance de Napoléon<br />

on avait substitué celui de la Régie Intéressée. L’Etat donnait une subvention et imposait un cahier des charges. Le<br />

Directeur encaissait les recettes: il profitait du bénéfice ou prenait en charges les partes. La chance du Docteur Véron<br />

tint en trois noms: Rossini, Auber, Meyerbeer. [...] Il se retira en 1835, à la tête d’un gros patrimoine. Quant à ses<br />

successeurs, ils devaient connaître sans tarder le goût amer des déficits»: Jean Gourret, Histoire de l’Opéra de Paris,<br />

1669-1971, Paris, Les Publications Universitaires, 1977, p. 63.<br />

51 Cfr. Louis-Henry Lecomte, Napoléon et le monde dramatique, Paris, H. Daragon, 1912.<br />

52 Cfr. Roberto Alonge, L’arte della fabbrica, in Id., Il teatro dei registi. Scopritori di enigmi e poeti della scena,<br />

Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 3-15 e Id., L’elogio della fabbrica e la macchina del testo, in Id., Teatro e spettacolo nel<br />

secondo Ottocento [1988], Roma-Bari, Laterza, 1994 3 , pp. 91-98.<br />

53 A questo proposito si ricordi che Wagner definisce il Grand Opéra come una serie di «effetti […] senza causa»; cfr.<br />

Richard Wagner, Oper und Drama [1851], Leipzig, Weber, 1852, p. 59 (traduzione di chi scrive). Cfr. anche Claudio<br />

Casini, L’Ottocento, in Guglielmo Barblam (a cura di), Storia dell’Opera, Torino, UTET, 1977, vol. II, t. I, p. 91.<br />

54 Cfr. Claudio Casini, Il grande Ottocento, in Alberto Basso (a cura di), Musica in scena: storia dello spettacolo<br />

musicale, vol. II, Gli italiani all’estero: l’opera in Italia e Francia, Torino, UTET, 1996, pp. 612-613.<br />

55 Cfr. Arrigo Quattrocchi, “L’Ermite”: Verdi entra alla “Grande Boutique”, in Stefano La Via, Pierlugi Petrobelli e<br />

Roger Parker (a cura di), Pensieri per un maestro: studi in onore di Pierluigi Petrobelli, Torino, EDT, 2002, pp. 289-<br />

298.<br />

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10


efficienti del fenomeno l’affermarsi della musica romantica, implicante un considerevole<br />

ampliamento degli organici strumentali, così come il profilarsi di un nuovo sistema “allargato” di<br />

fruizione della musica, estesa in età borghese oltre i circuiti delle sole corti 56 . Orbene, andando ad<br />

innestarsi sul tronco di queste esigenze tecnico-produttive, Habeneck – famoso già tra i<br />

contemporanei come interprete intelligente nonché puntiglioso concertatore di Beethoven, tanto da<br />

eccitare la curiosità dello stesso compositore 57 – testimonia con la propria prassi di come il<br />

complicarsi delle strutture tecniche e il parallelo “democratizzarsi” borghese della fruizione (e<br />

conseguentemente della produzione) tendano a riflettersi, sul piano estetico, nell’affermazione di un<br />

artista-ermeneuta capace di ricreare l’opera dell’autore attraverso la comprensione del suo “spirito”<br />

– secondo un principio di genesi interpretativa che non per nulla Wagner evidenzia nella prassi di<br />

Habeneck 58 . D’altronde è proprio agli albori dell’Ottocento che lo storicismo dialettico ed<br />

idealistico hegeliano, secondo una logica di poiesis riflessa, profetizza un inevitabile trapassare<br />

dell’arte alla filosofia (tappa successiva nel processo di autoappercezione dello Spirito). Già a capo<br />

dell’Académie tra il 1821 e il 1824 e in seguito, sino al ’48, suo stabile direttore d’orchestra (mentre<br />

parallelamente si trova a ricoprire pure il ruolo di Direttore della Società dei Concerti del<br />

Conservatorio), nell’ambito della produzione melodrammatica dell’Opéra, Habeneck, nella stagione<br />

da noi presa in esame, in grazia del suo potere personale, si trova di fatto ad esercitare una funzione<br />

registica fortemente accentratrice che, come rilevato dalla Bongrain e da Gérard, gli consente di<br />

affermare la propria volontà oltre lo steccato della semplice orchestra, selezionando e dirigendo, ad<br />

esempio, i cantanti solisti e il coro ed interferendo pesantemente nella gestione del corpo di ballo 59 .<br />

Nel quadro del rinnovamento degli assetti dell’economia e dell’organizzazione dello spettacolo<br />

tipico del primo Ottocento, il diverso rilievo che la nascita di una direzione d’orchestra forte alla<br />

maniera di Habeneck dà alle istanze dirigistiche di quell’estetica a vocazione ermeneutica di fatto<br />

“registica” che proprio in quel torno sta cominciando ad imporsi in Europa, può essere colto<br />

attraverso lo studio di un caso esemplare quale l’allestimento del Benvenuto Cellini di Hector<br />

Berlioz, diretto per l’appunto da Habeneck, andato in scena con pessimo esito all’Académie il 10<br />

settembre 1838 – sfortunata prima cui fecero seguito soltanto tre tormentate repliche. Col suo<br />

Cellini – ad un tempo eterodossa rivisitazione e superamento degli schemi del Grand Opéra –<br />

anticipando Wagner, e per certi aspetti pure la teoresi di Appia, Berlioz intenderebbe offrire il<br />

modello di una creazione di teatro musicale rigorosamente verticale ed ipotattica in cui le varie<br />

componenti dello spettacolo risultino desunte e regolate dalla “reggente” musica; nei voti del<br />

compositore la musica dovrebbe così essere riscattata da quella funzione ancillare di mero<br />

accompagnamento degli elementi visivi dello spettacolo cui certe esperienze del Grand Opéra<br />

l’avevano in parte relegata a cavallo tra anni Venti e Trenta 60 . Prima ancora di poter arrivare ad<br />

incidere sul confezionamento spettacolare del prodotto, proprio le innovazioni del linguaggio<br />

musicale concepite da Berlioz devono però confrontarsi con l’estetica di Habeneck, informata al<br />

gusto del più classico fraseggio musicale del Grand Opéra; in virtù del suo enorme potere avvezzo<br />

anche ad ingerire direttamente sul lavoro degli stessi compositori 61 , il famoso direttore d’orchestra,<br />

dimostrando una scarsissima elasticità, nel caso della messa in scena del Cellini tende infatti a<br />

piegare la voluntas di Berlioz al suo orizzonte d’attesa, improntato giustappunto al paradigma<br />

classico del Grand Opéra, da cui il compositore ambirebbe, come si è detto, a distaccarsi. Si<br />

56<br />

Cfr. Ivano Cavallini, Il direttore d’orchestra, genesi e storia di un’arte, Venezia, Marsilio, 1998, p. 164.<br />

57<br />

Cfr. Anne Bongrain e Yves Gérard (a cura di), Le Conservatoire de Paris, 1795-1995. Des Menus-Plaisirs à la Cité<br />

de la musique, Paris, Buchet & Chastel, 1996, p. 101. A proposito dell’interesse di Beethoven per Habeneck, si veda la<br />

lettera di Ludwig van Beethoven al Barone di Trémont, 1809, in Ludwig van Beethoven, Briefe und Gespräche, Zürich,<br />

Atlantis, 1944, p. 129.<br />

58<br />

Cfr. Richard Wagner, Über das Dirigieren, Leipzig, Kahnt, 1869, trad. it. L’interpretazione della musica, Napoli,<br />

Pagano, 2001, pp. 16-17.<br />

59<br />

Cfr. Anne Bongrain e Yves Gérard (a cura di), Le Conservatoire de Paris, cit., p. 103.<br />

60<br />

Cfr. Claudio Casini, Il grande Ottocento, in Alberto Basso (a cura di), Musica in scena, storia dello spettacolo<br />

musicale, cit., p. 619.<br />

61<br />

Cfr. Anne Bongrain e Yves Gérard (a cura di), Le Conservatoire de Paris, cit., p. 103.<br />

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consideri inoltre che, a complicare le relazioni tra i due “creatori” (l’autore e il suo interprete), nel<br />

segno di una rivalità squisitamente personale, Berlioz è portatore, sia sul piano della pratica che su<br />

quello della teoria, di una sua autonoma ed originale visione della direzione d’orchestra rispetto a<br />

quella di Habeneck: non pago di cimentarsi in questa prassi, proprio alla direzione d’orchestra<br />

Berlioz dedica nel 1855 un saggio, annoverato tra le prime sistematiche trattazioni dell’argomento,<br />

in cui il compositore riconosce a pieno titolo la rilevanza del lavoro interpretativo e di<br />

concertazione spettante ai direttori 62 . Con la messa in scena del Cellini i rapporti già in partenza non<br />

certo idillici tra Berlioz e Habeneck vanno precipitando; la crisi sfocerà poi in aperto conflitto negli<br />

anni Quaranta quando il compositore si troverà indirettamente a concorrere con Habeneck per la<br />

carica di direttore d’orchestra dell’Académie (1841), ma soprattutto quando Habeneck negherà ai<br />

musicisti della Società dei Concerti del Conservatorio l’autorizzazione a suonare con Berlioz<br />

(1845).<br />

Le vicende compositive del Benvenuto Cellini sono di per sé accidentate e complesse. Inizialmente<br />

concepita come opéra comique, il Cellini viene rifiutato dall’omonimo teatro; solo in seconda<br />

battuta, e dopo non poche incertezze, una volta tramontata l’era Véron l’opera viene accolta per<br />

l’allestimento dall’Académie. Come testimoniano le lettere di Berlioz, tra continue richieste di<br />

correzioni e rinvii della prima, i tempi di prove sono enormemente dilatati: a fronte di un debutto ai<br />

primi di settembre del 1838, la prima lettura del Cellini aveva infatti avuto luogo all’Académie nel<br />

marzo precedente 63 . A ben vedere, da subito il percorso di prove è particolarmente sofferto 64 , ma<br />

nei primi mesi le diverse turbolenze cui il lavoro è soggetto non compromettono la fiducia di<br />

Berlioz nell’esito felice dell’impresa. Dapprima le paure quindi la vera e propria disperazione del<br />

compositore esplodono in forme conclamate solamente nel momento in cui, a partire dal mese di<br />

luglio, con l’ingresso in prova dell’orchestra Habeneck inizia ad occuparsi della messa in scena<br />

dell’opera. Ragionando naturalmente dal suo personalissimo punto di vista, nei propri Mémoires 65<br />

Berlioz si attarda in resoconti dell’ostilità mostrata nei suoi confronti da Habeneck – un’ostilità che,<br />

vista l’influenza del direttore, a detta di Berlioz si propaga ben presto per contagio ai musicisti e<br />

agli altri esecutori. Senza alcuna esitazione il compositore arriva ad attribuire le ragioni del fiasco<br />

del Cellini proprio ad Habeneck e alla sua lettura poco attenta della partitura e del libretto<br />

dell’opera 66 . In una congiuntura creativa ormai già dichiaratamente “registica”, sia per i rapporti di<br />

forza che chiama in causa sia per i soggetti che coinvolge (non solo i musicisti, ma lo stesso corpo<br />

di ballo), decisamente significativa, ai fini delle nostre indagini, la lite scoppiata tra Berlioz e<br />

Habeneck durante la prova del “saltarello” danzato e cantato nel quadro del Cellini ambientato in<br />

Piazza Colonna. Mentre Habeneck si ostina a tenere un ritmo contenuto, Berlioz incalza il corpo di<br />

ballo e i musicisti perché procedano ad un passo più sostenuto. Racconta lo stesso Berlioz (e<br />

nell’ascoltare il passo dei Mémoires si tenga presente che, in omaggio ai costumi del primo violino<br />

settecentesco, Habeneck è solito dirigere con l’archetto):<br />

[Habeneck, n.d.a.] ne put jamais parvenir à prendre la vive allure du saltarello dansé et chanté sur la place<br />

Colonne au milieu du second acte. Les danseurs ne pouvant s’accomoder de son mouvement traînant, venaient se<br />

plaindre à moi et je lui répétais: “Plus vite! plus vite! animez donc!” Habeneck, irrité, frappait son pupitre et<br />

cassait son archet. Enfin, après l’avoir vu se livrer à quattre ou cinq accès de colère semblables, je finis par lui<br />

dire avec un sang-froid qui l’exaspéra: “Mon Dieu, monsieur, vous casseriez cinquante archets que cela<br />

n’empêcherait pas votre mouvement d’être de moitié trop lent. Il s’agit d’un saltarello”. Ce jour là Habeneck<br />

62<br />

Hector Berlioz, L’art du chef d’orchestre[1855], Paris, Lemoine, 1895 (il breve trattato di Berlioz viene dato per la<br />

prima volta alle stampe all’interno di Hector Berlioz, Grand traité d’instrumentation et d’orchestration modernes,<br />

Paris, Schonenberger, 1855).<br />

63<br />

Si vedano la lettera di Hector Berlioz al padre Louis, Paris, 19 marzo 1838 e la lettera del compositore a Edouard<br />

Rocher, Paris, 19 marzo 1838, entrambe in Hector Berlioz, Correspondance générale, vol. II, Paris, Flammarion, 1975,<br />

pp. 429-432.<br />

64<br />

Si veda ad esempio la lettera di Berlioz a Ernest Legouvé, Paris, 31 luglio 1838 in Hector Berlioz, Correspondance<br />

générale, cit., vol. II, pp. 449-450.<br />

65<br />

Cfr. Hector Berlioz, Mémoires [1870], 2 voll., Paris, Garnier-Flammarion, 1969, vol. II, pp. 23-29.<br />

66 Ibid.<br />

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s’arrêta, et se tournant vers l’orchestre: “Puisque je n’ai pas le bonheur de contenter M. Berlioz, dit-il, nous en<br />

resterons là pour aujourd’hui, vous pouvez vous retirer”. Et la répétition finit ainsi 67 .<br />

E in nota, con un laconico commento non privo di rilievo per il nostro approccio alla messa in<br />

scena, aprendo un’interessante finestra sulle consuetudini in uso nei teatri d’opera francesi<br />

dell’epoca, aggiunge: «Je ne pouvais conduire moi-même les répétitions de Cellini. En France dans<br />

le théâtre, les auteurs n’ont pas le droit de diriger leurs propres ouvrages» 68 . Come si evince<br />

chiaramente dal passo citato, problema capitale nella messa in scena del Cellini – di cui l’alterco or<br />

ora citato è soltanto uno dei sintomatici episodi – è che Habeneck, leggendo l’opera secondo la sua<br />

estetica musicale debitrice delle solenni clausole del Grand Opéra, sul piano della scelta dei tempi<br />

dà un’interpretazione “lenta” della partitura che ne fraintende il parossismo ritmico. La dilatazione<br />

dei tempi, innestandosi su una drammaturgia lasca, slabbra il risultato. È significativo che Lizst,<br />

convinto ammiratore di Berlioz, nel mettere mano a Weimar alla messa in scena del Cellini nel ’52,<br />

non si limiti a stringere i tempi, ma suggerisca pure a Berlioz di sintetizzare la drammaturgia: la<br />

“versione di Weimar” del Cellini prevede infatti un riassetto dell’opera dall’originaria articolazione<br />

in quattro quadri ad una più coesa architettura in tre atti.<br />

Al di là delle valutazioni estetiche, il fiasco del Cellini è una attestazione di straordinario rilievo<br />

della già matura affermazione sulle scene musicali parigine degli anni Trenta di una prassi di<br />

creazione ermeneutica (a vocazione per noi inequivocabilmente registica). Poco importa, ai sensi<br />

della nostra indagine, che l’esito della prova sia risultato negativo. Quello che ci interessa è che<br />

all’interno della scena musicale parigina primo ottocentesca – per certi versi influentissima<br />

sineddoche, già lo si è detto, della scena musicale europea tout court –, Habeneck, in veste di<br />

interprete e concertatore distinto dall’autore, dirigendo il Benvenuto Cellini dia una esplicita per<br />

quanto sfortunata dimostrazione, per dirla con Perrelli, di «seconda creazione» 69 . Sulla scia di<br />

un’estetica riflessa di stampo hegeliano, al novello creatore-direttore si chiede in prima istanza di<br />

sviscerare lo spirito dell’opera per poi farla vivere sulla scena in dialogo serrato e armonizzante con<br />

gli esecutori, secondo una prassi già analiticamente teorizzata da Wagner, ma prima ancora da<br />

Berlioz, nei loro scritti teorici sulla direzione risalenti rispettivamente al 1869 e addirittura al<br />

1855 70 . Non sarà allora un caso che Wagner (musa ispiratrice di certa regia tardo ottocentesca) non<br />

nasconda la profonda influenza che, nella sua giovinezza, esercitarono su di lui l’abilità e il rigore<br />

d’interprete e di concertatore di Habeneck 71 . E per dare un’ultima pennellata al ritratto di Habeneck<br />

in veste di regista, non si può trascurare il particolare che, proprio grazie al suo enorme prestigio,<br />

direttamente o indirettamente, negli anni della sua direzione dell’orchestra dell’Académie,<br />

Habeneck di fatto condiziona la progettazione e la gestione dell’intero complesso universo<br />

semiotico dello spettacolo lirico, finendo con l’incidere, anche se in forme non ufficializzate,<br />

pressoché su tutte le scelte della messa in scena 72 .<br />

Se si considera il valore modellizzante di cui la scena per musica ottocentesca, specie parigina,<br />

risulta indiscutibilmente investita, si può facilmente capire come l’aspetto realmente interessante<br />

dell’analisi storiografica e teatrologica del caso Habeneck non stia tanto, o per lo meno non stia<br />

solo, nella possibilità di fare di Habeneck un possibile precursore della pratica registica, quanto<br />

nella eventualità di individuare nella prassi della direzione – e quella di Habeneck è già quasi<br />

divenuta leggenda tra i suoi contemporanei – un significativo paradigma creativo di concertazione<br />

ermeneutica, capace di costituirsi a termine di riferimento per la tradizione di quelli che Alonge<br />

definisce, con acuta metafora poliziesco-teologica, i registi «scopritori di enigmi» 73 ben al di là del<br />

solo terreno del teatro musicale. Il successivo decorso storico dell’esperienza del teatro per musica<br />

67 Ibid., p. 26.<br />

68 Ibid.<br />

69 Franco Perrelli, La seconda creazione. Fondamenti della regia teatrale, Torino, UTET, 2005.<br />

70 Cfr. Hector Berlioz, L’art du chef d’orchestre, cit. e Richard Wagner, L’interpretazione della musica, cit.<br />

71 Cfr. Richard Wagner, L’interpretazione della musica, cit., pp. 15-16.<br />

72 Cfr. Anne Bongrain e Yves Gérard (a cura di), Le Conservatoire de Paris, cit., p. 103.<br />

73 Roberto Alonge, Il teatro dei registi. Scopritori di enigmi e poeti della scena, cit.<br />

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di fatto avalla una simile eventualità. Quando anche la figura del regista sarà “istituzionalizzata”<br />

all’interno della scena musicale, pure là dove non ci si trovi in presenza di direttori d’orchestra<br />

autoritari, carismatici e accentratori come, per venire a congiunture spettacolari a noi più prossime,<br />

von Karajan o Muti, l’equilibrio tra regista e direttore d’orchestra resta delicato proprio perché di<br />

fatto si tratta di figure con un mansionario per larga parte sovrapponibile.<br />

Per concludere dunque, mentre il «poeta addetto» Bassi, silente factotum dell’Impresa e abile<br />

interlocutore della Direzione dei Teatri, o lo spregiudicato poet e manager Bunn derivano la loro<br />

capacità di concertazione del prodotto spettacolare di impronta registica dal delicato equilibrio che<br />

riescono a realizzare nel loro operare scenico tra intelligenza drammaturgica e impegno diretto<br />

organizzativo, avallando di fatto il modello di una creazione unica e prima (e questione interessante<br />

sarebbe allora interrogare i loro rapporti con la tradizione di quelli che sempre Alonge definisce i<br />

registi/«poeti della scena» 74 , ma è tema che esorbita dai limiti del presente intervento), il direttore<br />

d’orchestra Habeneck riesce invece a imporre il suo punto di vista unificante sulla “messa in scena”<br />

dello spettacolo facendo essenzialmente leva sul suo ruolo istituzionale di “lettore”/interprete della<br />

partitura, ruolo di autonomo creatore alla seconda potenza che riesce a garantirgli assoluta<br />

supremazia tanto sull’ensemble teatrale quanto sulla organizzazione o sui compositori. Proprio<br />

Berlioz – tra i primi “autori” ad aver sperimentato sulla propria pelle gli effetti del nuovo potere<br />

esercitato dal “lettore” creativo – nel 1855 consegna alle pagine del suo trattato sulla direzione un<br />

inventario delle qualità e delle funzioni del direttore d’orchestra in cui sembrerebbe quasi di poter<br />

cogliere un primo significativo abbozzo di riflessione teorica sulla funzione e sulla estetica della<br />

“regia ermeneutica” tardo ottocentesca:<br />

Le chef d’orchestre doit voir et entendre, il doit être agile et vigoureux, connaître la composition, […] savoir lire<br />

la partition et posséder, en outre du talent spécial dont nous allons tâcher d’expliquer les qualités constitutives,<br />

d’autres dons presque indéfinissables, sans lesquels un lien invisible ne peut s’établir entre lui et ceux qu’il<br />

dirige, la faculté de leur transmettre son sentiment lui est refusée et, par suite, le pouvoir, l’empire, l’action<br />

directrice lui échappent complètement. Ce n’est plus alors un chef, un directeur, mais un simple batteur de<br />

mesure, en supposant qu’il sache la battre et la diviser régulièrement.<br />

[…] Il faut qu’on sente qu’il sent, qu’il comprend, qu’il est ému; alors son sentiment et son émotion se<br />

communiquent à ceux qu’il dirige, sa flemme intérieure les échauffe, son électricité les électrise, sa force<br />

d’impulsion les entraîne. […]<br />

Sa tâche est complexe. Il a non seulement à diriger, dans le sens des intentions de l’auteur, une œuvre dont la<br />

connaissance est déjà acquise aux exécutants, mais encore à donner à ceux-ci cette connaissance, quand il s’agit<br />

d’un ouvrage nouveau pour eux 75 .<br />

74 Ibid.<br />

75 Hector Berlioz, L’art du chef d’orchestre, cit., pp. 7-8.<br />

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