Il senso del tragico - Matematicamente.it
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<strong>Il</strong> <strong>senso</strong> <strong>del</strong> <strong>tragico</strong><br />
Matteo Maculotti
<strong>Il</strong> <strong>senso</strong> <strong>del</strong> <strong>tragico</strong><br />
Matteo Maculotti<br />
“ Πολλὰ τὰ δεινὰ κοὐδὲν ἀν‐<br />
θρώπου δεινότερον πέλει. ”<br />
“ Molte sono le cose mirabili, ma nessuna<br />
è più mirabile <strong>del</strong>l'uomo ”<br />
Antigone, vv. 332/333<br />
traduzione di R. Cantarella<br />
In questi due versi, tratti dal primo stasimo <strong>del</strong>l'Antigone di Sofocle, risiede tutta la<br />
compless<strong>it</strong>à <strong>del</strong>la tragedia greca. L'uomo è cantato come la creatura più meravigliosa<br />
<strong>del</strong>l'intero mondo e, nello stesso tempo, come la più terribile. Generazioni di studiosi si<br />
sono interrogate su come tradurre quell'aggettivo δεινός che contiene in sé una vasta<br />
gamma di significati che vanno dal “mirabile” al “mostruoso”, senza mai riuscirci<br />
completamente. Geniale l'interpretazione che diede Holderlin, traducendolo come<br />
“smisurato” e cogliendo nella tragedia quella componente contradd<strong>it</strong>toria che le è propria:<br />
rappresenta il destino <strong>tragico</strong> <strong>del</strong>l'uomo ma anche la sua coscienza, la sua piccolezza e la<br />
sua grandezza, contemporaneamente.<br />
Forse è proprio questo che affascina <strong>del</strong>la tragedia: la sua compless<strong>it</strong>à e, di conseguenza,<br />
l'impossibil<strong>it</strong>à di capirla fino a fondo. Dalle origini oscure alla prematura fine: la tragedia<br />
attica sembra essere stata un miracolo durato circa un secolo e mai ripetutosi, nella sua<br />
grandezza, nel corso <strong>del</strong>la storia. Un miracolo su cui molti si sono interrogati: leggiamo<br />
decine e decine di interpretazioni diverse, sulle singole tragedie e perfino sullo stesso<br />
genere teatrale. Schopenhauer esaltò la tragedia come la forma poetica più superba e ne<br />
indagò il vero significato, Nietzsche si domandò dove nacque lo spir<strong>it</strong>o dionisiaco<br />
<strong>del</strong>l'uomo greco e come ebbe modo di manifestarsi tram<strong>it</strong>e il teatro; parecchi altri studiosi<br />
si chiesero, e si chiedono ancora adesso, se lo spir<strong>it</strong>o <strong>tragico</strong> sia presente anche al giorno<br />
d'oggi. Certo che sì, la riflessione tragica è comune ad ogni uomo, di qualsiasi epoca<br />
storica. La grandezza degli antichi greci, rispetto a noi, fu quella di esprimere<br />
magnificamente, tram<strong>it</strong>e il teatro, la loro interpretazione <strong>del</strong> <strong>senso</strong> <strong>del</strong> <strong>tragico</strong>.<br />
La tragedia, una <strong>del</strong>le più antiche forme di teatro, nacque nella Grecia classica <strong>del</strong> V secolo<br />
a.C. Analizzare le caratteristiche <strong>del</strong> genere è un comp<strong>it</strong>o molto arduo: da una parte per<br />
l'esiguo numero di testi pervenutoci, dall'altra per le differenze strutturali che esistono tra<br />
le tragedie che possiamo leggere oggi. Ciò che mi interessa indagare maggiormente non è<br />
comunque la “forma” <strong>del</strong>la tragedia (struttura <strong>del</strong>le opere, caratteristiche <strong>del</strong> teatro ecc.),<br />
bensì il suo contenuto ed il suo significato. Esaminerò quindi i temi che affrontava e il<br />
modo in cui li affrontava, il significato <strong>del</strong>la rappresentazione tragica e, di conseguenza, il<br />
ruolo che assumeva per il pubblico di quell'epoca.
Sappiamo che la funzione <strong>del</strong>la tragedia attica non era semplicemente quella di uno<br />
spettacolo di intrattenimento, ma piuttosto quella di un r<strong>it</strong>o collettivo <strong>del</strong>la pòlis. Si<br />
svolgeva durante un periodo sacro e cost<strong>it</strong>uiva un momento di notevole importanza per le<br />
idee, i problemi e la v<strong>it</strong>a pol<strong>it</strong>ica e culturale <strong>del</strong>l'Atene democratica. C. Meier, nel suo<br />
saggio “L'arte pol<strong>it</strong>ica <strong>del</strong>la tragedia greca”, sostiene che la tragedia, in un periodo di<br />
enormi responsabil<strong>it</strong>à pol<strong>it</strong>iche e sconvolgimenti sociali come il V secolo a.C., serviva ai<br />
c<strong>it</strong>tadini ateniesi come legame con una tradizione ormai destabilizzata. La tragedia narrava<br />
di un passato m<strong>it</strong>ico, ma il m<strong>it</strong>o diventava immediatamente metafora <strong>del</strong>le problematiche<br />
più profonde <strong>del</strong>la società ateniese.<br />
L'idea <strong>del</strong> <strong>tragico</strong><br />
La tragedia greca nacque grazie a due fondamentali nov<strong>it</strong>à: la narrazione di una vicenda<br />
m<strong>it</strong>ica per mezzo <strong>del</strong>la voce diretta dei protagonisti e la rappresentazione <strong>del</strong>l'azione m<strong>it</strong>ica<br />
come se si svolgesse nel presente. La tragedia attinge, per le sue storie, dal grande<br />
serbatoio dei racconti m<strong>it</strong>ici. La nov<strong>it</strong>à è però l'attualizzazione <strong>del</strong>le vicende nel presente<br />
<strong>del</strong>la dimensione teatrale: avviene così il passaggio dal racconto all'azione, dalla narrazione<br />
alla drammatizzazione. Per questo Aristotele, nella Poetica, afferma che la tragedia è<br />
im<strong>it</strong>azione di un'azione nel suo stesso svolgersi.<br />
Ai tragediografi greci non interessava raccontare l'intera vicenda m<strong>it</strong>ica di un personaggio,<br />
bensì collocarlo direttamente in un particolare momento <strong>del</strong>la sua v<strong>it</strong>a. Questo momento,<br />
rappresentato sulla scena, diventava attuale per lo spettatore e, contemporaneamente, per<br />
l'attore che indossava la maschera <strong>del</strong> personaggio. Ciò era possibile grazie alla narrazione<br />
per mezzo di dialoghi tra i personaggi che parlavano direttamente <strong>del</strong>la loro s<strong>it</strong>uazione, dei<br />
loro sentimenti, <strong>del</strong>le loro paure o <strong>del</strong>le loro speranze. La voce narrante, che nei racconti<br />
m<strong>it</strong>ici e nella lirica corale era affidata ad un narratore esterno, con il teatro greco diventa<br />
quella dei personaggi, che vivono nel presente <strong>del</strong>lo spettacolo i momenti cruciali <strong>del</strong>la loro<br />
storia appartenente alla cultura m<strong>it</strong>ica.<br />
“ L'invenzione <strong>del</strong>la tragedia si ha quando per la prima volta un uomo che espone una<br />
storia esce dalla propria ident<strong>it</strong>à anagrafica e riveste quella di un personaggio <strong>del</strong><br />
passato, storico o m<strong>it</strong>ico che sia. Nella nuova condizione, che è quella <strong>del</strong>l'attore, egli si<br />
contrappone al coro, attraendo anche questo entro la sfera <strong>del</strong> proprio racconto. Accade<br />
così che, in una dimensione temporale che fa coincidere il passato con il presente, l'attore<br />
e il coro si propongano come protagonisti di una nuova realtà, la cui forza mimetica<br />
attira pure il pubblico in una partecipazione totale e immediata. [...] La tragedia nasce<br />
quando l'uomo scopre che nell'azione teatrale gli è dato di vivere un'altra realtà, e che in<br />
questa realtà egli può manifestare la grande, terribile ver<strong>it</strong>à che gli si è rivelata: cha la<br />
v<strong>it</strong>a umana è un inespiabile dolore. ”<br />
D. Del Corno, La letteratura greca (vol. II)<br />
La tragedia nasce da una sorta di interpretazione, ad opera <strong>del</strong> poeta, <strong>del</strong> m<strong>it</strong>o, in modo<br />
che esso assuma un valore universale e possa rappresentare al meglio la tragic<strong>it</strong>à <strong>del</strong>la v<strong>it</strong>a<br />
di ogni uomo. <strong>Il</strong> m<strong>it</strong>o diventa così paradigma <strong>del</strong>la condizione umana e, parallelamente,<br />
l'eroe m<strong>it</strong>ico, che prima era statico e fisso nella sua dimensione eroica, ora diventa<br />
poliedrico, ambiguo, in preda a passioni che lo sconvolgono e soggetto a forze superiori che<br />
ne tracciano il destino. Tale destino, per ogni eroe, è già fissato nel m<strong>it</strong>o. Lo spettatore<br />
conosce già le sue azioni e partecipa <strong>del</strong>la paradossal<strong>it</strong>à <strong>del</strong>la sua condizione: libero di<br />
scegliere, ma destinato ad una fine già scr<strong>it</strong>ta.
“ Ogni tragic<strong>it</strong>à è fondata su un confl<strong>it</strong>to inconciliabile. Se interviene o diviene possibile<br />
una conciliazione, il <strong>tragico</strong> scompare. ”<br />
J. W. Goethe, Colloqui con Eckermann<br />
La tragedia, dice giustamente Goethe, ha origine da un confl<strong>it</strong>to inconciliabile. Se si<br />
presentasse una soluzione a questo confl<strong>it</strong>to, perderebbe il suo carattere tipico. <strong>Il</strong> <strong>tragico</strong>,<br />
indipendentemente dalla forma che assunse nel teatro greco, si esprime prima di tutto<br />
come contrasto tra volontà e destino, tra libertà e necess<strong>it</strong>à: è questo il confl<strong>it</strong>to maggiore,<br />
quello che opprime anche ogni protagonista <strong>del</strong>la tragedia greca.<br />
La presa di coscienza di questo confl<strong>it</strong>to è alla base <strong>del</strong>la nasc<strong>it</strong>a <strong>del</strong>la tragedia. Nella<br />
gloriosa Atene <strong>del</strong> V secolo l'intensa dinamica <strong>del</strong>la v<strong>it</strong>a sociale, culturale e pol<strong>it</strong>ica fece<br />
sorgere nella mente <strong>del</strong>l'uomo problematiche riguardanti la confl<strong>it</strong>tual<strong>it</strong>à e ambigu<strong>it</strong>à <strong>del</strong>la<br />
realtà. L'uomo iniziò ad interrogarsi su quanto effettivamente le sue azioni fossero<br />
significative e su quanto egli riuscisse ad avere potere sul corso degli eventi. Giunse alla<br />
conclusione che non gli è concessa un'assoluta certezza <strong>del</strong> futuro poiché le sue azioni,<br />
nonostante possano essere compiute in vista di un fine, non necessariamente lo ottengono<br />
e, talvolta, giungono perfino a conseguenze opposte a quelle desiderate.<br />
L'eroe <strong>tragico</strong> vive questa condizione che l'uomo scopre progressivamente: ogni sua azione<br />
è una scommessa sull'ignoto, e questo ignoto assume la forma <strong>del</strong>le divin<strong>it</strong>à. L'eroe <strong>tragico</strong><br />
è uno, ma il suo dolore è quello di tutta l'uman<strong>it</strong>à, la sua sofferenza è quella che tutti<br />
possono provare, il suo destino è quello di ogni uomo. Questo carattere di universal<strong>it</strong>à è<br />
strettamente legato alla natura di finzione che riveste il teatro: una sorta di realtà a sé<br />
stante ma che rivela continuamente le ver<strong>it</strong>à più profonde <strong>del</strong>l'esperienza umana allo<br />
spettatore. La maschera è il simbolo di questa finzione rivelatrice. Essa, secondo quanto<br />
dice C. Segal nel saggio “L'ud<strong>it</strong>ore e lo spettatore”, è il segno <strong>del</strong>la volontà <strong>del</strong> pubblico di<br />
sottomettersi all'illusione e di profondere energie emotive in qualcosa che viene connotato<br />
come f<strong>it</strong>tizio. Lo spettatore ha quindi un ruolo attivo nella rappresentazione tragica: non<br />
considerava il momento teatrale come una finzione a scopo di intrattenimento, bensì come<br />
una realtà alternativa, fondata su leggi proprie, nella quale immedesimarsi e scaricare le<br />
proprie emozioni.<br />
“ L'incantesimo <strong>del</strong>la maschera dionisiaca libera, in dosi controllate, le paure, l'ansia,<br />
l'irrazional<strong>it</strong>à che covano sotto la patina di splendore <strong>del</strong>l'Atene di Pericle. ”<br />
C. Segal, L'ud<strong>it</strong>ore e lo spettatore<br />
La tragedia non ricercava più il piacere <strong>del</strong>lo spettatore, tipico <strong>del</strong>la rec<strong>it</strong>azione epica o<br />
<strong>del</strong>la rappresentazione corale. <strong>Il</strong> pubblico era invece coinvolto emotivamente in una<br />
tensione continua tra due poli: quello <strong>del</strong> piacere, proprio di uno spettacolo di alta qual<strong>it</strong>à,<br />
e quello <strong>del</strong> dolore, provocato dai contenuti <strong>del</strong>la tragedia. <strong>Il</strong> coinvolgimento <strong>del</strong> pubblico<br />
era totale, tanto che sappiamo che un tragediografo, Frinico, venne perfino multato per<br />
aver terrorizzato gli spettatori inserendo riferimenti di attual<strong>it</strong>à in una sua tragedia.<br />
Nella Poetica Aristotele, che riconosce nella tragedia attica <strong>del</strong> quinto secolo l’espressione<br />
più alta di tutta la poesia greca, utilizza a questo propos<strong>it</strong>o il termine καθάρσις<br />
(depurazione).<br />
“ Tragedia è dunque im<strong>it</strong>azione di un azione seria e compiuta, avente una propria<br />
grandezza, distintamente per ciascun elemento <strong>del</strong>le sue parti, di persone che agiscono e<br />
non tram<strong>it</strong>e una narrazione, la quale per mezzo di pietà e paura porta a compimento la<br />
depurazione di siffatte emozioni. ”<br />
Aristotele, Poetica, 6
La tragedia, secondo Aristotele, più che un’im<strong>it</strong>azione <strong>del</strong>la natura come l’arte o la poesia, è<br />
rappresentazione e ricostruzione <strong>del</strong>le vicende umane non come effettivamente si sono<br />
svolte, poiché questo è comp<strong>it</strong>o <strong>del</strong>la storia, ma secondo cr<strong>it</strong>eri di verosimiglianza e<br />
necess<strong>it</strong>à. La rappresentazione tragica, in particolare, cost<strong>it</strong>uisce un momento in cui ogni<br />
spettatore libera le proprie passioni, scarica la propria tensione emotiva e giunge alla<br />
cosiddetta "catarsi", una sorta di "purificazione" che permette all'uomo di sfogare i suoi<br />
istinti più irrazionali (matricidio, incesto, suicidio, cannibalismo, infanticidio...) vedendoli<br />
rappresentati sulla scena.<br />
L'effetto <strong>del</strong>la tragedia era quindi immenso: attori e spettatori erano un<strong>it</strong>i emotivamente<br />
nella dimensione teatrale e questo era possibile anche e soprattutto per la presenza <strong>del</strong><br />
coro, che sanciva idealmente il confine di questa realtà parallela. In un saggio int<strong>it</strong>olato<br />
“Sull'uso <strong>del</strong> coro nella tragedia”, F. Schiller si interroga sulla funzione che il coro<br />
assumeva nella tragedia attica e sostiene che esso fosse una sorta di muro di cinta che<br />
divideva la dimensione teatrale dalla realtà circostante: una sorta di barriera tra il mondo<br />
reale e il mondo ideale creato dalla poesia. Nella sua opera “La nasc<strong>it</strong>a <strong>del</strong>la tragedia”, F.<br />
Nietzsche afferma che ogni greco si sentì come annullato davanti al coro <strong>del</strong>la tragedia.<br />
L'effetto di questa rappresentazione sarebbe stato devastante: lo stato, la società e il<br />
divario tra uomo e uomo scomparivano sotto la prepotenza di un sentimento di un<strong>it</strong>à che<br />
riconduceva ogni cosa nel seno <strong>del</strong>la natura.
I tragediografi<br />
I grandi tragediografi greci <strong>del</strong> V secolo a.C. furono, in ordine cronologico, Eschilo, Sofocle<br />
ed Euripide.<br />
La loro interpretazione <strong>del</strong>la tragedia è differente: le opere di Eschilo sono incentrate sul<br />
ruolo <strong>del</strong>la giustizia divina e sull'indagine <strong>del</strong>la colpa umana, Sofocle mette in scena invece<br />
uomini incolpevoli sottomessi per loro natura ad un destino cieco, Euripide si sofferma<br />
maggiormente sull'individual<strong>it</strong>à <strong>del</strong>l'uomo e ne individua i contrasti tra ragione e passione,<br />
relegando alle divin<strong>it</strong>à un ruolo di secondo piano.<br />
Io ho deciso di trattare solo i primi due, da una parte perché Euripide, grande<br />
sperimentatore, ha operato una sorta di rivoluzione <strong>del</strong> genere <strong>tragico</strong> ed è quindi, in un<br />
certo <strong>senso</strong>, meno indicativo di esso; dall'altra perché dal confronto tra l'Edipo di Eschilo e<br />
l'Edipo re di Sofocle è possibile trarre interessanti conclusioni riguardo alla diversa<br />
interpretazione <strong>del</strong>la tragedia dei due poeti tragici.<br />
Eschilo e Sofocle<br />
Eschilo e Sofocle furono probabilmente i più amati<br />
tragediografi nell'antica Grecia. Non furono contemporanei<br />
e le loro tragedie sono necessariamente segnate dalle<br />
differenze culturali e religiose che esistevano tra i due.<br />
La tragedia di Eschilo è fortemente imperniata sul contrasto<br />
tra uomini e dei, in particolare sulla responsabil<strong>it</strong>à dei primi<br />
nei confronti <strong>del</strong>le loro azioni e sulla loro sottomissione alla<br />
legge divina, una giustizia suprema che ne punisce le colpe e<br />
i comportamenti sbagliati. Esemplare in questo <strong>senso</strong> è il<br />
personaggio di Prometeo, a cui Eschilo dedica una celebre<br />
trilogia di tragedie.<br />
<strong>Il</strong> mondo <strong>tragico</strong> di Eschilo è spietatamente giusto e non<br />
lascia scampo a chi si è macchiato di una colpa o a chi<br />
ered<strong>it</strong>a una colpa commessa dai propri antenati. Attraverso il dolore, che ogni uomo è<br />
destinato a soffrire, egli matura la propria conoscenza (πάθει µάθος). L'uomo si rende<br />
conto, scontando la sua pena, <strong>del</strong>l'esistenza di un ordine perfetto e immutabile che regge il<br />
suo mondo: la giustizia divina.<br />
“ Zeus, quale mai sia il tuo nome, se con questo ti piace esser chiamato, con questo ti<br />
invoco. Né certo ad altri posso pensare, nessun altro all'infuori di te riconoscere, se<br />
veramente questo peso vano dall'anima voglio scacciare. Tale fu grande un giorno e<br />
fiorente di ogni audacia guerriera, e di costui nemmen più si dirà che esistette; poi venne<br />
un secondo, e anche questi scomparve trovato un terzo più forte. Chi con cuore devoto<br />
canta epinici a Zeus, questo soltanto avrà colto suprema saggezza. La via <strong>del</strong>la saggezza<br />
Zeus apre ai mortali, facendo valere la legge che sapere è patire. Geme anche nel sonno,
dinanzi al memore cuore, rimorso di colpe, e così agli uomini anche loro malgrado<br />
giunge saggezza; e questo è beneficio dei numi che saldamente seggono al sacro timone<br />
<strong>del</strong> mondo. ”<br />
Eschilo, Agamennone, vv. 168/183<br />
<strong>Il</strong> contrasto tra uomini e dei appare anche in Sofocle come<br />
il confl<strong>it</strong>to principale che alimenta le sue tragedie, tuttavia<br />
è opportuno considerarne la differenza. <strong>Il</strong> distacco tra<br />
questi due mondi, contrariamente a Eschilo, porta Sofocle<br />
a soffermarsi principalmente sul dolore umano, provocato<br />
dall'incomprensibil<strong>it</strong>à <strong>del</strong> volere divino che si abbatte<br />
sulla sua esistenza.<br />
Sofocle accentua l'uman<strong>it</strong>à dei personaggi e li pone tutti<br />
sullo stesso livello: poveri o ricchi, tutti sono comunque<br />
accomunati da qualche difetto fisico o psichico e da un<br />
destino ignoto a cui sottostare. L'uomo soffre senza essere<br />
colpevole <strong>del</strong>le sue azioni e <strong>del</strong>le sue sciagure.<br />
Gli eroi tragici di Sofocle sono v<strong>it</strong>time di confl<strong>it</strong>ti<br />
insanabili e di contraddizioni inev<strong>it</strong>abili, propri <strong>del</strong>la<br />
condizione umana, senza saper dare ad essi una spiegazione. La tragic<strong>it</strong>à in Sofocle risiede<br />
proprio nell'ambigu<strong>it</strong>à che ogni personaggio trova nel mondo e in se stesso: la tragedia<br />
sofoclea è un enigma senza soluzione.<br />
E' dunque evidente la diversa concezione <strong>del</strong>le azioni umane. Eschilo crede fortemente nel<br />
libero arb<strong>it</strong>rio: la giustizia divina giudica le azioni che ogni uomo compie<br />
consapevolmente, punisce i colpevoli e premia i valorosi. Sofocle ha una visione più<br />
pessimistica <strong>del</strong> rapporto tra volontà e necess<strong>it</strong>à: le azioni <strong>del</strong>l'uomo sono guidate da una<br />
serie di forze sconosciute e i personaggi sofoclei sono come dei burattini in balia <strong>del</strong><br />
destino che li manovra.<br />
L'armoniosa coincidenza <strong>del</strong> destino individuale con la volontà degli dei, tipica di Eschilo,<br />
si trasforma in rapporto enigmatico: se in Eschilo ognuno soffre per una precisa colpa, in<br />
Sofocle la colpa non è connaturata all'azione <strong>del</strong>l'uomo, ma a qualcosa che lo trascende. Di<br />
conseguenza, mentre Eschilo esalta spesso lo spir<strong>it</strong>o costruttivo <strong>del</strong>la c<strong>it</strong>tà, in Sofocle<br />
l’individuo è perlopiù solo, alla ricerca di se stesso. L'uomo cerca in tutti i modi di capire, e<br />
il risultato <strong>del</strong>la sua ricerca è l'angoscia, il desolato sentimento <strong>del</strong> nulla e <strong>del</strong>la morte.<br />
Sia Eschilo che Sofocle dedicarono alcune <strong>del</strong>le loro tragedie alla figura di Edipo.<br />
Esemplare è proprio il confronto di un particolare episodio presente in entrambe le<br />
tragedie: il responso <strong>del</strong>l'oracolo che Laio consulta prima di generare Edipo. Dal testo dei<br />
Sette a Tebe si deduce che nell’Edipo di Eschilo, tragedia perduta, l’eroe nasceva da una<br />
colpa di Laio: l’oracolo aveva avvert<strong>it</strong>o il re di Tebe di non mettere al mondo figli perchè<br />
sarebbero stati la rovina sua e <strong>del</strong>l’intera Tebe. Nonostante questo, Laio, in una notte di<br />
passione, generò Edipo e la sua colpa si trasmise al figlio e ai suoi successori. <strong>Il</strong> responso<br />
<strong>del</strong>l’oracolo in Sofocle è completamente diverso: l’oracolo avverte Laio che suo figlio lo<br />
ucciderà e sposerà sua madre. Laio e Giocasta, dunque, decidono di uccidere il figlio; per<br />
loro non esiste alcuna libertà di scelta. La colpa è imposta come colpa oggettiva.<br />
Ne consegue un <strong>senso</strong> <strong>del</strong> <strong>tragico</strong> differente: se Eschilo si sofferma sulla scelta che i suoi<br />
personaggi compiono in una s<strong>it</strong>uazione cruciale (esemplare il dissidio interiore di Oreste,<br />
incerto se compiere o meno l'omicidio <strong>del</strong>la madre), sottolineandone la tragic<strong>it</strong>à, Sofocle
appresenta questa scelta come una conseguenza necessaria e si concentra non tanto sulle<br />
singole azioni dei personaggi, quanto sulle loro reazioni ad esse. I personaggi di Sofocle<br />
non hanno una possibil<strong>it</strong>à di scelta per le loro azioni: il loro dilemma non è più quale<br />
strada scegliere, ma come comportarsi di fronte all'evidenza di un percorso già segnato.<br />
Sofocle: Edipo Re<br />
L'Edipo Re, secondo Aristotele, è la tragedia greca per eccellenza. Composta da Sofocle in<br />
data ignota (si presume intorno al 430 a.C.), ha affascinato nel corso dei secoli decine di<br />
generazioni e coinvolto parecchi studiosi su dibatt<strong>it</strong>i riguardo la sua interpretazione.<br />
Trama<br />
La tragedia narra di Edipo, sovrano di Tebe, che viene invocato dal suo popolo per placare<br />
la terribile pestilenza che opprime la c<strong>it</strong>tà. Consultato l'oracolo di Delfi, il responso dice<br />
che la c<strong>it</strong>tà è contaminata dall'uccisione impun<strong>it</strong>a <strong>del</strong> precedente re Laio: una volta<br />
identificato e cacciato il colpevole, tornerà la seren<strong>it</strong>à.<br />
Viene interpellato Creonte, fratello <strong>del</strong>la regina Giocasta, moglie di Edipo. Creonte<br />
racconta che Laio venne assassinato, quando la c<strong>it</strong>tà viveva l'incubo <strong>del</strong>la Sfinge, da alcuni<br />
briganti mentre stava andando a Delfi. <strong>Il</strong> caso venne a poco a poco dimenticato e non si<br />
scoprì mai il colpevole. Viene anche chiamato al cospetto di Edipo l'indovino Tiresia, che<br />
inizialmente rifiuta di parlare per ev<strong>it</strong>are altre sciagure. Costretto dal re, l'indovino lo<br />
accusa personalmente <strong>del</strong>l'omicidio di Laio, oltre che <strong>del</strong>la sua v<strong>it</strong>a scandalosa ed<br />
incestuosa. Edipo, infuriato, inizia così ad incriminare Tiresia e Creonte. Creonte dice di<br />
consultare lui stesso l'oracolo a Delfi, ma Giocasta lo esorta a non farlo: allo stesso Laio<br />
venne profetizzata una morte per mano <strong>del</strong> figlio, e ciò non si avverò. L'unico suo figlio,<br />
infatti, venne fatto morire appena nato, esposto sul monte C<strong>it</strong>erone. Laio venne invece<br />
ucciso da dei band<strong>it</strong>i, in un punto dove si incontrano tre strade. Edipo chiede a Giocasta di<br />
chiamare sub<strong>it</strong>o a Tebe il testimone <strong>del</strong>l'omicidio. Giocasta accetta ma domanda ad Edipo<br />
il motivo <strong>del</strong> suo turbamento. Edipo racconta così il suo passato come principe di Corinto,<br />
dove visse fino al giorno in cui l'oracolo di Delfi non gli profetizzò che avrebbe ucciso il<br />
padre e sposato la madre. Edipo racconta poi che, sulla strada tra Delfi e Tebe, incontrò un<br />
uomo ad un crocevia dove si uniscono tre strade e che, dopo un acceso dibatt<strong>it</strong>o, lo uccise.<br />
Se quell'uomo fosse stato proprio Laio? Se fosse proprio Edipo l'essere impuro? Giocasta lo<br />
rassicura: i racconti parlano di briganti, mentre lui era da solo.<br />
Uno straniero giunge nel cortile <strong>del</strong> palazzo, annunciando la morte di Polibo, sovrano di<br />
Corinto: ora il trono spetta ad Edipo. <strong>Il</strong> re, risollevatosi dalla notizia, chiede notizie anche<br />
<strong>del</strong>la madre, dopo aver raccontato al messaggero la sua storia. Lo straniero lo rassicura:<br />
Polibo e Merope non erano i suoi gen<strong>it</strong>ori naturali, ma era stato adottato. Giocasta<br />
indietreggia con gli occhi sbarrati, lo straniero continua dicendo che Edipo gli era stato<br />
consegnato da un pastore che aveva ricevuto l'ordine di abbandonare il piccolo sulla<br />
montagna. Edipo chiede chi fosse il pastore e scopre che è il testimone che stanno<br />
aspettando. Giocasta gli intima di non continuare la sua affannosa ricerca nel passato, ma<br />
Edipo insiste. Arriva finalmente l'uomo tanto atteso e Edipo gli chiede di raccontare che<br />
fine fece il bambino che gli era stato affidato. <strong>Il</strong> pastore risponde di aver disobbed<strong>it</strong>o agli<br />
ordini e di non avere abbandonato il figlio di Laio e di Giocasta.<br />
Edipo, disperato, corre nel palazzo, mentre il silenzio gela tutti i presenti. All'improvviso,<br />
un grido: un'ancella, pallida di terrore, annuncia che Edipo si è traf<strong>it</strong>to gli occhi con due
fibbie, mentre Giocasta si è strangolata con un laccio. Appare di nuovo Edipo, barcollante,<br />
quasi a cercare di divincolarsi nelle f<strong>it</strong>te tenebre in cui è sprofondato. Tutti fuggono, solo il<br />
capo degli anziani si avvicina e lo conforta: Edipo si commuove.<br />
Arriva poi Creonte, straziato dal suicidio <strong>del</strong>la sorella Giocasta, che chiede alle guardie di<br />
riportare il re nel palazzo, quasi a voler oscurare al mondo il dramma che lì si è consumato.<br />
Edipo chiede a Creonte il permesso di lasciare la c<strong>it</strong>tà, lo prega di rendere a Giocasta le<br />
giuste onoranze funebri e lo supplica di vegliare sulle figlie Antigone e Ismene. Edipo viene<br />
ricondotto nel palazzo. Creonte, ora re di Tebe, lo segue. Gli anziani, immobili, guardano<br />
chiudersi le porte <strong>del</strong> palazzo.<br />
Analisi<br />
M. Maculotti, Oedipus Rex<br />
Aristotele, nella Poetica, scrive che il genere <strong>tragico</strong> si basa essenzialmente, oltre che sulla<br />
componente patetica, su due elementi cardine <strong>del</strong>la trama narrativa: l'agnizione<br />
( ναγνώρισις) e la peripezia (περιπετε α). L'agnizione consiste nell'improvviso ed<br />
inaspettato riconoscimento <strong>del</strong>l'ident<strong>it</strong>à di un personaggio, che determina una svolta<br />
decisiva nella vicenda. La peripezia è il capovolgimento improvviso dei fatti, un colpo di<br />
scena che sconvolge l'animo di uno o più protagonisti.<br />
“ La peripezia è il rivolgimento dei fatti verso il loro contrario e questo, come stiamo<br />
dicendo, secondo il verosimile e il necessario, come ad esempio nell’Edipo il messo,<br />
venendo come per rallegrare Edipo e liberarlo dal terrore nei riguardi <strong>del</strong>la madre,<br />
rivelandogli chi era, ottiene l’effetto contrario; e nel Linceo, mentre il protagonista vien<br />
condotto a morire e Danao lo segue per ucciderlo, in forza <strong>del</strong>lo svolgimento dei fatti<br />
accade che Danao muoia e Linceo si salvi. <strong>Il</strong> riconoscimento poi, come già indica la<br />
parola stessa, è il rivolgimento dall’ignoranza alla conoscenza, e quindi o all’amicizia o<br />
all’inimicizia, di persone destinate alla fortuna o alla sfortuna; il riconoscimento più bello<br />
poi è quando si compie assieme alla peripezia, quale è ad esempio quello <strong>del</strong>l’Edipo. [...]<br />
Due parti <strong>del</strong>la tragedia sono dunque queste, peripezia e riconoscimento, mentre una
terza è il fatto orrendo. Di queste tre dunque, di peripezia e riconoscimento si è detto,<br />
quanto al fatto orrendo, esso è un’azione che reca rovina o dolore, come ad esempio le<br />
morti che avvengono sulla scena, le sofferenze, le fer<strong>it</strong>e e cose simili. ”<br />
Aristotele, Poetica, 11<br />
Aristotele individua nell'Edipo re di Sofocle la tragedia più riusc<strong>it</strong>a, in quanto la peripezia e<br />
il riconoscimento avvengono contemporaneamente ed entrambi hanno come oggetto lo<br />
stesso personaggio: Edipo. La tragedia si fonda infatti sul capovolgimento di una<br />
s<strong>it</strong>uazione iniziale: Edipo, re di Tebe, dopo aver risolto l'enigma <strong>del</strong>la Sfinge ed aver così<br />
assunto agli occhi degli uomini la figura di un semi-dio, promette al suo popolo di liberarlo<br />
dalla nuova piaga: una pestilenza. Edipo riconosce sub<strong>it</strong>o in sé stesso colui che potrà<br />
risolvere il nuovo enigma, e dopo aver consultato l'oracolo annuncia di voler trovare a tutti<br />
i costi l'uccisore di Laio, responsabile <strong>del</strong>lo stato in cui la c<strong>it</strong>tà riversa.<br />
La ricerca affannosa di Edipo per trovare il colpevole lo porterà però alla sciagura,<br />
capovolgendo la sua s<strong>it</strong>uazione iniziale: da sovrano si r<strong>it</strong>roverà esiliato, da ricco povero, da<br />
abile risolutore di enigmi impotente v<strong>it</strong>tima di un enigma divino che coincide proprio col<br />
suo essere. Per mezzo <strong>del</strong>l'espediente <strong>del</strong>l'indagine condotta da lui stesso, la peripezia<br />
coincide poi col suo riconoscimento quale colpevole <strong>del</strong>l'uccisione <strong>del</strong> padre Laio e<br />
<strong>del</strong>l'unione con sua madre Giocasta.<br />
Edipo sembra essere pun<strong>it</strong>o per una sorta di βρις, e la sua tracotanza sta nel suo voler<br />
conoscere ad ogni costo la ver<strong>it</strong>à. In questo percorso verso la ver<strong>it</strong>à viene a scontrarsi<br />
coll'indovino Tiresia, cieco e dotato dagli dei di una conoscenza assoluta <strong>del</strong> futuro. <strong>Il</strong><br />
confronto tra questi due personaggi è una <strong>del</strong>le chiavi di interpretazione <strong>del</strong>la tragedia ed è<br />
un confronto giocato su un campo chiamato conoscenza. La condizione dei due personaggi<br />
è opposta fin dall'inizio: Edipo non sa ma desidera ardentemente conoscere, Tiresia<br />
conosce tutto ma chiede al re di non farlo parlare. Edipo riesce poi a strappargli qualche<br />
parola e, sentendosi chiamato in causa, lo accusa come calunniatore e sottolinea la sua<br />
cec<strong>it</strong>à in modo spregiativo:<br />
Edipo re, versi 374/375 (Tiresia)<br />
“ Tu vivi sempre nella notte, sì che non potresti mai nuocere né a me né a nessun altro<br />
che vede la luce ”.<br />
traduzione di R. Cantarella<br />
Edipo è colui che guarda il sole, simbolo <strong>del</strong>la sapienza terrena. Per gli uomini, Edipo è il<br />
genio che risolse l'enigma <strong>del</strong>la Sfinge ed è per questo il “migliore tra i mortali”. E.R.<br />
Dodds, in un saggio int<strong>it</strong>olato “On misunderstanding the Oedipus rex”, afferma che Edipo<br />
è simbolo <strong>del</strong>l'intelligenza umana che non può fermarsi fino a che non ha risolto tutti gli<br />
enigmi. La tragedia però non sembra esaltare, in ultima analisi, la forza e la sopportazione<br />
di Edipo, ma piuttosto rovesciare le strutture intellettuali con le quali lui ricerca la<br />
conoscenza. Questo rovesciamento inizia proprio a partire dal dialogo con Tiresia.<br />
Tiresia è il cieco che non può guardare il sole, ma ha ricevuto il dono divino di penetrare<br />
negli abissi <strong>del</strong>la ver<strong>it</strong>à ultraterrena, di prevedere il destino di ogni uomo: la sua è una<br />
conoscenza più profonda, universale. Ed è proprio per questo che Edipo appare ottimista e<br />
sicuro di risolvere l'enigma, mentre Tiresia è inorrid<strong>it</strong>o e rassegnato alla sua soluzione.<br />
Tiresia riesce però a smuovere qualcosa nell'animo di Edipo, facendo riaffiorare in lui quel<br />
sentimento di paura che successivamente Edipo rivelerà essere presente nel profondo <strong>del</strong><br />
suo animo da quando l'oracolo gli aveva predetto il parricidio e l'incesto.<br />
E' a partire da questo punto che Edipo entra in uno stato di turbamento che ag<strong>it</strong>a la sua
psiche e associa alla sua ricerca <strong>del</strong>la ver<strong>it</strong>à una disperata ansia di salvezza. Edipo, che<br />
aveva iniziato la sua ricerca assolvendo alle funzioni proprie <strong>del</strong> sovrano che cura gli<br />
interessi <strong>del</strong>lo stato, ora cerca la ver<strong>it</strong>à prima di tutto per se stesso. E' emblematico anche il<br />
fatto che Edipo non sappia cogliere il significato <strong>del</strong>l'affermazione di Tiresia al termine <strong>del</strong><br />
primo episodio, che si chiude senza alcuna risposta da parte <strong>del</strong> sovrano di Tebe. Sembra<br />
che Sofocle abbia voluto rappresentare Edipo in uno stato di “blocco mentale”, tanto che<br />
lui, abile solutore <strong>del</strong>l'enigma <strong>del</strong>la Sfinge, non riesce a decifrare nemmeno un discorso che<br />
ha tutte le caratteristiche specifiche <strong>del</strong>l'indovinello. Come sottolinea Vincenzo Di<br />
Benedetto nel cap<strong>it</strong>olo “Edipo: La crisi <strong>del</strong>le strutture intellettuali” contenuto in “Sofocle”,<br />
il principio di un autonomo ricercare e apprendere da parte <strong>del</strong>l'uomo appare<br />
costantemente messo in crisi nel corso <strong>del</strong>la tragedia.<br />
Solo alla fine di essa Edipo giunge alla ver<strong>it</strong>à, o meglio coglie l'evidenza di tutti i segnali che<br />
gli sono stati dati. Rassegnato, alla vista di Giocasta impiccata decide di compiere l'atto<br />
estremo: con la spilla aurea <strong>del</strong>la madre si infilza entrambi gli occhi, diventando cieco. Dice<br />
che non avrebbe potuto sopportare la vista dei suoi gen<strong>it</strong>ori nell'Ade una volta morto né<br />
ora quella di alcun uomo vivente. Edipo, alla fine <strong>del</strong>la tragedia, è solo, esiliato dal suo<br />
popolo e in balia di una sorte avversa che da sovrano l'ha reso esule. Edipo non ha più<br />
contatti col mondo esterno: la cec<strong>it</strong>à lo proietta nell'oscur<strong>it</strong>à <strong>del</strong>la sua dimensione<br />
interiore. Ora Edipo può scorgere all'interno di sé e la profond<strong>it</strong>à <strong>del</strong>la sua visione ricorda<br />
quella <strong>del</strong> cieco Tiresia (Sofocle usa per la prima volta, riferendosi ad Edipo, i verbi chiave<br />
λήθειν e γιγνώσκειν, che prima erano rifer<strong>it</strong>i a Tiresia). Edipo è giunto alla comprensione<br />
<strong>del</strong> suo enigma estremo, ha scoperto la tragica condizione in cui ogni uomo è collocato: un<br />
mondo in balia di forze divine che agiscono senza una logica precisa e che impediscono<br />
all'uomo di capire il <strong>senso</strong> ultimo <strong>del</strong>le sue azioni.<br />
Chi più alto si eleva tra i mortali, più basso appare agli dei: Edipo, venerato dal popolo<br />
tebano come “il migliore tra gli uomini”, scoprirà a sue spese che è, esattamente come ogni<br />
uomo, solo una pedina <strong>del</strong>lo scacchiere divino. Significativo è il coro finale che, attraverso<br />
un'esortazione a Zeus, riflette sulla misera s<strong>it</strong>uazione di Edipo e, contemporaneamente, su<br />
quella di ogni uomo:<br />
Edipo re, quarto stasimo, versi 1186/1196<br />
“ Ahi, generazioni di mortali,<br />
come pari al nulla la vostra<br />
v<strong>it</strong>a io calcolo!<br />
Quale uomo, quale,<br />
riporta felic<strong>it</strong>à maggiore<br />
che sembrare beato,<br />
e con quest'apparenza scomparire?<br />
Avendo a esempio la tua,<br />
la tua sorte, la tua,<br />
o misero Edipo, nessuna condizione<br />
mortale stimo felice. ”<br />
traduzione di R. Cantarella<br />
La sorte di Edipo è quella di tutti gli uomini. La sua sciagura nasce infatti da azioni, il<br />
parricidio e l'incesto, che aveva compiuto ignaro <strong>del</strong> loro vero significato. La visione<br />
sofoclea <strong>del</strong>l'uomo è decisamente pessimistica: ognuno è destinato, prima o poi, a<br />
compiere un errore, in quanto non ha il pieno controllo <strong>del</strong>le sue azioni né tanto meno una<br />
conoscenza precisa <strong>del</strong> domani. L'errore è quindi una condizione con cui ogni uomo deve<br />
misurarsi prima o poi e che può portarlo alla sciagura. Edipo, mo<strong>del</strong>lo di tutti gli uomini, è<br />
colui che ha sperimentato la sorte più triste. Chi dei mortali si può dunque considerare
felice, avendola ad esempio?<br />
La tragedia a Roma: Seneca<br />
Le tragedie cothurnatae (ovvero di mo<strong>del</strong>lo greco) di Seneca sono le uniche tragedie latine<br />
ad esserci pervenute in forma non frammentaria. Sono particolarmente indicative come<br />
documento <strong>del</strong>la ripresa <strong>del</strong> teatro antico <strong>tragico</strong> nel mondo latino, rappresentano infatti il<br />
punto di arrivo <strong>del</strong>la cosiddetta "tragedia retorica".<br />
Dopo i tentativi inutili di promuovere questo genere in età augustea, nella successiva età<br />
giulio-claudia (27 a.C./68 d.C.) e nella prima età flavia (69 d.C./96 d.C.) gli intellettuali<br />
ricorsero alla tragedia per esprimere la propria opposizione al regime (la preferenza <strong>del</strong>la<br />
democrazia rispetto alla tirannide è argomento comune di molte tragedie greche).<br />
Le tragedie di Seneca sembra fossero destinate soprattutto alla lettura, anche se ciò non<br />
escludeva una possibile, seppur molto macchinosa, rappresentazione scenica. La lettura in<br />
pubblico presupponeva una maggiore importanza data alla narrazione dei sentimenti dei<br />
personaggi e ai dialoghi sofistici: la tragedia assumeva così forti toni di espressionismo<br />
verbale a discap<strong>it</strong>o <strong>del</strong>le azioni vere e proprie.<br />
<strong>Il</strong> teatro <strong>tragico</strong> di Seneca è un completo capovolgimento dei valori <strong>del</strong>le sue opere<br />
filosofiche: in esso ogni uomo appare vinto dalle passioni, anche quelle più basse, quasi<br />
come se fosse spinto in un incessante turbine verso il male più profondo. La filosofia e la<br />
dottrina stoica alimentano in questo modo le tragedie, mostrando sotto forma di exempla i<br />
confl<strong>it</strong>ti interiori <strong>del</strong>l'uomo tra passione, vista come forza invincibile che porta<br />
irrimediabilmente al male, e ragione, incapace di frenare gli istinti <strong>del</strong>l'uomo. <strong>Il</strong> confl<strong>it</strong>to<br />
tra bene e male, dall'interno <strong>del</strong>la psiche umana, assume una forma universale, diventando<br />
paradigma <strong>del</strong>l'intera condizione umana. Seneca, che nelle altre sue opere adoperava il<br />
linguaggio razionale per consigliare all'uomo quali valori seguire, ora sembra volerlo<br />
ammonire mostrandogli a che livello di degenerazione possa arrivare.<br />
Appaiono spesso scene macabre, raccontate con minuzios<strong>it</strong>à maniacale. I toni sono il più<br />
<strong>del</strong>le volte cupi e le s<strong>it</strong>uazioni atroci, al lim<strong>it</strong>e <strong>del</strong>l'orrore. Assume anche parecchia<br />
importanza la retorica, volta ad esaltare il pathos di ogni s<strong>it</strong>uazione con sentenze isolate e<br />
di grande rilievo. La tensione drammatica è ottenuta infine tram<strong>it</strong>e lunghe digressioni che<br />
sembrano isolare le singole scene come quadri a sé stanti.<br />
L'Edipo di Seneca<br />
Proviamo a fare un confronto tra l'Edipo di Seneca e il suo mo<strong>del</strong>lo, ovvero l'Edipo re di<br />
Sofocle.<br />
Innanz<strong>it</strong>utto Seneca mantiene, con poche modifiche, la struttura ad intreccio presente<br />
anche in Sofocle, che conduce Edipo a conoscere la ver<strong>it</strong>à dopo una lunga inchiesta. La<br />
storia narrata è la stessa, però Seneca ne modifica qualche episodio, soffermandosi più su<br />
alcune s<strong>it</strong>uazioni e meno su altre, e ne aggiunge di nuovi.
La tragedia si apre con un ampio monologo nel quale Edipo descrive la pestilenza con voce<br />
angosciata e si lamenta <strong>del</strong>la sua condizione di regnante. Segue, dopo uno scambio di<br />
battute tra Edipo e Giocasta, la lugubre e tremenda descrizione <strong>del</strong>la pestilenza ad opera<br />
<strong>del</strong> coro. Interviene poi Creonte, che riferisce il responso <strong>del</strong>l'oracolo di Delfi. Edipo<br />
chiama allora Tiresia ad interpretare le viscere di due bovini sacrificati in modo da trovare<br />
il colpevole. <strong>Il</strong> vaticinio mostra sinistri presagi che alludono al crimine commesso e alle<br />
disgrazie future, ma non riesce a suggerire a Tiresia la risposta per il re: si <strong>del</strong>ibera allora di<br />
evocare l'ombra di Laio, che verrà interrogata da Creonte. Dopo un invocazione <strong>del</strong> coro a<br />
Dioniso, Creonte comunica al re il responso, che lo indica inequivocabilmente come<br />
parricida e mar<strong>it</strong>o incestuoso.<br />
<strong>Il</strong> tiranno protesta la sua innocenza e ipotizza una congiura <strong>del</strong> cognato per impossessarsi<br />
<strong>del</strong> trono. Interviene di nuovo il coro a rammentare le colpe dei Labdacidi, ma le speranze<br />
di salvezza di Edipo sono sub<strong>it</strong>o troncate dall'arrivo di un messaggero corinzio che, insieme<br />
ad un pastore, gli svelerà il suo passato. Mentre il coro elogia il giusto mezzo, Edipo, come<br />
riferisce un messaggero, si acceca disperato e sceglie l'esilio. <strong>Il</strong> dramma si conclude con un<br />
coro sull'ineluttabil<strong>it</strong>à <strong>del</strong> destino e con l'ultimo dialogo tra Edipo e Giocasta, al termine<br />
<strong>del</strong> quale assistiamo al suicidio <strong>del</strong>la regina di Tebe.<br />
L'Edipo di Seneca è profondamente diverso da quello di Sofocle. In Sofocle il tema <strong>del</strong>la<br />
regal<strong>it</strong>à è solo un punto di partenza per la riflessione sulla condizione umana, svolta<br />
attraverso l'inchiesta di Edipo; in Seneca fulcro di tutta la vicenda è la figura <strong>del</strong> tiranno e il<br />
suo tormento. Confrontando le due tragedie appare centrale il tema <strong>del</strong>la paura. L'Edipo di<br />
Seneca è turbato fin dall'inizio, è angosciato dalla pestilenza e sembra non avere nessuna<br />
speranza nel futuro. Sofocle, all'inizio <strong>del</strong>la tragedia, ce lo mostra invece dall'alto <strong>del</strong> suo<br />
trono, invocato dal popolo e magnanimo con esso: promette di risolvere il nuovo enigma<br />
ed è fiducioso nelle sue capac<strong>it</strong>à. Anche nel progressivo riconoscimento <strong>del</strong> colpevole con<br />
se stesso l'Edipo di Sofocle appare più ottimista: fino alla fine coltiva la speranza, seppure<br />
sempre più remota, di un lieto fine.<br />
In Seneca non c'è spazio per nessuna speranza, il mondo appare inev<strong>it</strong>abilmente<br />
degenerato e lo stesso Edipo sembra già presumere la sorte che gli è stata assegnata. La<br />
tragedia di Seneca sembra essere la celebrazione di un disordine totale, che dall'inizio alla<br />
fine <strong>del</strong>la narrazione coinvolge in particolar modo Edipo. Se in Sofocle la drammatic<strong>it</strong>à si<br />
concentra nel riconoscimento finale, in Seneca pervade l'intera opera. Tutto il mondo<br />
sembra sottosopra, e così anche le voci dei morti riecheggiano dall'oltretomba per unirsi a<br />
questo dramma globale.<br />
Lo spettro di Laio è una <strong>del</strong>le innovazioni più evidenti che Seneca apporta alla tragedia: la<br />
sua apparizione, anticipata da una lugubre e agghiacciante descrizione <strong>del</strong> mondo degli<br />
inferi, è raccontata da Creonte ma non per questo risulta meno incisiva: Laio pronuncia<br />
una terribile invettiva contro Edipo e la sua stirpe impura e maledetta. Non è l'unico<br />
episodio in cui appare il gusto <strong>del</strong> macabro tipico <strong>del</strong> teatro di Seneca: basti pensare alla<br />
descrizione <strong>del</strong>la peste cantata dal coro all'inizio e al minuzioso resoconto <strong>del</strong> vaticinio<br />
sulle viscere dei bovini ad opera di Tiresia.<br />
L'introduzione di queste lunghe digressioni, caratterizzate da toni alti ed espressionistici,<br />
spezza il r<strong>it</strong>mo perfetto <strong>del</strong>la tragedia sofoclea, esaltando il pathos di alcuni momenti a<br />
discap<strong>it</strong>o <strong>del</strong>la visione d'insieme dalla vicenda. Le caratteristiche stilistiche sono le stesse<br />
<strong>del</strong> Seneca filosofo. La sobrietà <strong>del</strong>la sintassi, concentrata all'eccesso, enfatizza la parola<br />
con l'incessante ricorso a figure di suono e di <strong>senso</strong>, ad interrogative retoriche, ad<br />
esclamative e ad ogni altro espediente declamatorio. Seneca si appella spesso a sententiae<br />
isolate, che intervengono a salvare la parte più debole <strong>del</strong>la tragedia: il dialogo. Più
illante appare l'uso dei monologhi, che appaiono come ampie effusioni sentimentali,<br />
lunghe confessioni, interminabili dialoghi interiori caratterizzati spesso da una intensa<br />
liric<strong>it</strong>à.<br />
L'enigma Edipo<br />
L'interpretazione più famosa <strong>del</strong>la tragedia sofoclea, seppure molto cr<strong>it</strong>icata, è quella<br />
psicoanal<strong>it</strong>ica di Freud. Freud fece derivare da Edipo il nome <strong>del</strong> complesso maschile per<br />
cui ogni bambino, fin dalla tenera età, viene portato ad odiare il padre e ad attaccarsi<br />
morbosamente alla madre. Così in ogni bambino maschio si svilupperebbe un desiderio di<br />
sbarazzarsi <strong>del</strong> padre per unirsi sessualmente alla madre.<br />
Freud riconobbe nel personaggio sofocleo di Edipo questo complesso e assunse la tragedia<br />
come paradigma di questo fenomeno psicologico. Non solo: formulò anche <strong>del</strong>le teorie<br />
riguardo l'efficacia <strong>del</strong>la rappresentazione di questa tragedia nell'antica Grecia.<br />
“ <strong>Il</strong> suo (di Edipo) destino ci commuove soltanto perché sarebbe potuto diventare anche il<br />
nostro, perché prima <strong>del</strong>la nostra nasc<strong>it</strong>a l'oracolo ha decretato la medesima maledizione<br />
per noi e per lui. Forse a noi tutti era dato in sorte di rivolgere il nostro primo impulso<br />
sessuale alla madre, il primo odio e il primo desiderio di violenza contro il padre: i nostri<br />
sogni ce ne danno convinzione. [...] Davanti alla persona in cui si è adempiuto quel<br />
desiderio primordiale <strong>del</strong>l'infanzia indietreggiamo inorrid<strong>it</strong>i, con tutta la forza <strong>del</strong>la<br />
rimozione che questi desideri hanno sub<strong>it</strong>o da allora nel nostro intimo. Portando alla luce<br />
<strong>del</strong>la sua analisi la colpa di Edipo, il poeta ci costringe a prendere conoscenza <strong>del</strong> nostro<br />
intimo, nel quale quegli impulsi, anche se repressi, sono pur sempre presenti. ”<br />
S. Freud, Interpretazione dei sogni<br />
Freud afferma che il successo <strong>del</strong>la tragedia sofoclea risiede principalmente nei sentimenti<br />
che susc<strong>it</strong>a allo spettatore. Egli infatti riconoscerebbe i suoi istinti infantili nel personaggio<br />
di Edipo e troverebbe nelle azioni di questo personaggio la realizzazione degli impulsi che<br />
ha represso.<br />
Tra le molte contestazioni all'interpretazione freudiana, appare molto interessante quella<br />
<strong>del</strong>lo studioso francese Jean Pierre Vernant. Vernant cr<strong>it</strong>ica innanz<strong>it</strong>utto l'interpretazione<br />
di Freud perché si propone in forma assiomatica pur non seguendo un'analisi corretta e<br />
rigorosa <strong>del</strong>l'opera. Vernant afferma che Freud inizia la sua indagine senza analizzare la<br />
storic<strong>it</strong>à <strong>del</strong> pubblico che fruisce <strong>del</strong>l'opera. Freud conferisce infatti all'opera un valore<br />
universale, senza considerare il contesto storico in cui è nata e a cui era destinata.<br />
“ Come può un'opera letteraria che appartiene alla civiltà ateniese <strong>del</strong> V sec. a C. e che<br />
traspone essa stessa in maniera molto libera una leggenda tebana molto più antica,<br />
anteriore al regime <strong>del</strong>la polis, confermare le osservazioni di un medico degli inizi <strong>del</strong> XX<br />
secolo sulla clientela di malati che frequentano il suo studio? ”<br />
Vernant contesta anche l'ipotesi che Freud avanza circa l'efficacia <strong>del</strong>la tragedia. Freud<br />
aveva affermato che ogni tragedia, per ottenere l'effetto <strong>tragico</strong>, debba susc<strong>it</strong>are nello<br />
spettatore i sentimenti edipici che aveva da bambino. L'affermazione sembra oltremodo<br />
azzardata: come può Freud non considerare che la maggior parte <strong>del</strong>le tragedie greche<br />
pervenuteci non presenta in alcun modo richiami di tipo edipico?<br />
Vernant nega poi l'esistenza, nell'Edipo sofocleo, <strong>del</strong> complesso omonimo. In un suo saggio<br />
int<strong>it</strong>olato “Edipo sans complexe” spiega che innanz<strong>it</strong>utto Edipo compie il parricidio e
l'incesto senza sapere in realtà il significato <strong>del</strong>le sue azioni: non conosce l'ident<strong>it</strong>à<br />
<strong>del</strong>l'uomo che uccide e non può nemmeno immaginare che Giocasta sia sua madre.<br />
I sosten<strong>it</strong>ori <strong>del</strong>la teoria di Freud rispondono a questa cr<strong>it</strong>ica sostenendo che Sofocle abbia<br />
voluto rappresentare proprio il lato inconscio <strong>del</strong>le azioni di Edipo, portato fatalmente al<br />
compimento dei suoi istinti. Vernant non accetta questa ipotesi, in quanto anche<br />
presupponendo che l'intento di Sofocle fosse quello, nell'opera non compare alcun<br />
riferimento esplic<strong>it</strong>o che faccia pensare a ciò: seguendo questa logica potremmo<br />
interpretare ogni azione presente nel dramma in modo totalmente arb<strong>it</strong>rario.<br />
Freud, in effetti, c<strong>it</strong>a un particolare passo <strong>del</strong>la tragedia in cui Giocasta afferma che tutti<br />
hanno sognato di unirsi con la propria madre:<br />
Edipo re, versi 977/983 (Giocasta)<br />
“ E che cosa dovrebbe temere un uomo in balia <strong>del</strong> caso, senza chiara previsione di nulla?<br />
Meglio vivere alla ventura, come si può. Tu non temere le nozze con tua madre: già molti<br />
mortali si giacquero in sogno con la propria madre; ma chi non dà nessun valore a<br />
queste cose, vive più facilmente. ”<br />
traduzione di R. Cantarella<br />
Tuttavia, gli studiosi non hanno mai considerato questo passo indicativo <strong>del</strong>le tesi di<br />
Freud: Giocasta sta semplicemente alludendo ai precedenti casi in cui gli oracoli (quindi la<br />
dimensione onirica) sono stati male interpretati.<br />
<strong>Il</strong> mer<strong>it</strong>o di Freud sta comunque nell'aver colto il carattere universale <strong>del</strong>la drammatic<strong>it</strong>à<br />
presente nella tragedia di Sofocle. Freud interpreta giustamente il fatto che il destino di<br />
Edipo è esattamente quello di ogni uomo. Edipo infatti non ha colpe: le sue azioni sono<br />
causate da forze indecifrabili. Freud interpreta queste forze come interne alla psiche di<br />
ogni uomo: trasforma il fato divino nell'inconscio umano.<br />
G. De Chirico, Edipo e la Sfinge
Schopenhauer e la tragedia<br />
Schopenhauer dedica una parte <strong>del</strong>la sua opera principale, “<strong>Il</strong> mondo come volontà e<br />
rappresentazione”, alla tragedia. Ne analizza il messaggio e la funzione, in relazione al<br />
rapporto tra l'uomo e la volontà.<br />
Per capire meglio, facciamo un passo indietro: il filosofo tedesco afferma che la realtà non<br />
ci si presenta come realmente è. Possiamo infatti percepire solo la dimensione <strong>del</strong><br />
fenomeno (ovvero la realtà empirica), ma mai quella noumenica (ovvero l'essenza <strong>del</strong>le<br />
cose) chiamata da Schopenhauer “Volontà”. Schopenhauer parla di volontà come essenza<br />
cost<strong>it</strong>utiva di ogni essere vivente, impulso alla sopravvivenza: è una forza cieca, irrazionale,<br />
inconscia, unica ed eterna.<br />
Solo l'uomo, tuttavia, può averne consapevolezza, e da ciò nasce la sua condizione di<br />
sofferenza. La v<strong>it</strong>a <strong>del</strong>l'uomo, secondo Schopenhauer, è un continuo alternarsi di dolore e<br />
noia. L'uomo desidera infatti sempre qualcosa che gli manca: da ciò deriva il suo dolore.<br />
Una volta soddisfatto il desiderio, sopraggiunge invece la noia. E' un ciclo infin<strong>it</strong>o in<br />
quanto ad ogni desiderio esaud<strong>it</strong>o ne subentra sempre uno nuovo.<br />
L'uomo è quindi infelice poiché guidato da una volontà cieca ed irrazionale, eppure può<br />
liberarsi, momentaneamente o defin<strong>it</strong>ivamente, dal suo controllo. L'arte, per<br />
Schopenhauer, è una <strong>del</strong>le vie che l'uomo può seguire per annientare momentaneamente la<br />
forza <strong>del</strong>la volontà. La tragedia assume di conseguenza un ruolo particolarmente<br />
importante: è una <strong>del</strong>le forme artistiche che meglio aiuta l'uomo in questo distacco dalla<br />
volontà. Non solo: Schopenhauer afferma che la tragedia è il più elevato genere poetico a<br />
causa <strong>del</strong>la difficoltà di esecuzione e <strong>del</strong>l'effetto che riesce a ottenere.<br />
“ Come opera suprema <strong>del</strong> genio poetico, la tragedia mostra il lato terribile <strong>del</strong>la v<strong>it</strong>a, i<br />
dolori e le angosce <strong>del</strong>l'uman<strong>it</strong>à, il trionfo dei malvagi e la sconf<strong>it</strong>ta degli innocenti ”<br />
A. Schopenhauer, <strong>Il</strong> mondo come volontà e rappresentazione<br />
La tragedia mette in scena la volontà in una lotta contro se stessa che, attraverso i terribili<br />
confl<strong>it</strong>ti interni dei personaggi, la porta ad un'autodistruzione. La tragedia mostra la v<strong>it</strong>a<br />
nel suo aspetto terribile. Ci presenta il dolore senza nome, l'affanno <strong>del</strong>l'uman<strong>it</strong>à, il trionfo<br />
<strong>del</strong>la perfidia, la schernevole signoria <strong>del</strong> caso e il fatale precipizio dei giusti e degli<br />
innocenti. E' proprio nel dolore <strong>del</strong>l'uman<strong>it</strong>à che si fa visibile, in tutta la sua pienezza, il<br />
contrasto <strong>del</strong>la volontà con se stessa. E' un'unica volontà, ma ha molteplici manifestazioni<br />
che si scontrano e dilaniano a vicenda: il dolore umano può essere prodotto in parte dal<br />
caso o in parte dall'errore, parte dagli dei e parte dall'uomo. Questa lotta continua provoca,<br />
in alcuni individui maggiormente e in altri meno, la rivelazione <strong>del</strong>la volontà stessa e di<br />
conseguenza, il suo annientamento: viene squarciato il cosiddetto “velo di Maya”, ovvero il<br />
fenomeno. L'accecamento di Edipo è un chiaro esempio. Edipo, accecandosi, si libera da<br />
ogni legame col mondo terreno e da ogni impulso irrazionale: era stata proprio la cieca<br />
volontà a guidarlo verso l'omicidio <strong>del</strong> padre e l'incesto con la madre. Edipo, diventato<br />
cieco, guarda la volontà per come davvero è e, proprio per questo, ne annulla l'effetto.<br />
La tragedia, poi, trasmette un preciso messaggio: mostrando le sofferenze degli uomini e<br />
l'insensatezza <strong>del</strong>la v<strong>it</strong>a, suggerisce all'uomo che essa non mer<strong>it</strong>a il nostro interesse e<br />
quindi produce in lui rassegnazione. <strong>Il</strong> <strong>senso</strong> <strong>del</strong> <strong>tragico</strong> promuove quindi la consapevole<br />
rinuncia <strong>del</strong>la felic<strong>it</strong>à: l'uomo, riconoscendo il significato più profondo <strong>del</strong>la v<strong>it</strong>a, spezza
momentaneamente le catene <strong>del</strong>la volontà con il suo rifiuto di vivere.<br />
Nietzsche: La nasc<strong>it</strong>a <strong>del</strong>la tragedia<br />
Nietzsche si occupa <strong>del</strong>la tragedia greca nel suo primo libro pubblicato, “La nasc<strong>it</strong>a <strong>del</strong>la<br />
tragedia”. La sua ricerca parte dall'individuazione <strong>del</strong>le due componenti tipiche di ogni<br />
arte: apollineo e dionisiaco. Apollo è il dio <strong>del</strong>l'equilibrio, <strong>del</strong>la misura; Dioniso è il dio<br />
<strong>del</strong>la sfrenatezza, <strong>del</strong>l'estasi. L'apollineo è di conseguenza la parte razionale, il dionisiaco<br />
quella istintiva ed emotiva, di ogni opera d'arte. L'arte apollinea per eccellenza è la<br />
scultura, quella dionisiaca la musica. La tragedia è la perfetta sintesi di entrambe.<br />
Nietzsche si sofferma sulla tragedia attica per questo: crede che dall'equilibrio <strong>del</strong>la<br />
componente apollinea e dionisiaca nasca per l'uomo una s<strong>it</strong>uazione di seren<strong>it</strong>à e di<br />
armonia. Nietzsche r<strong>it</strong>rova questa armonia negli antichi greci e non nell'uomo moderno,<br />
per questo si interroga su come ebbe origine la tragedia e sul perché essa cessò il suo<br />
splendore nell'arco di circa un secolo.<br />
Si domanda innanz<strong>it</strong>utto a che scopo gli antichi greci crearono gli Dei olimpici, e afferma<br />
che in essi ogni uomo vedeva rispecchiato il mondo perfetto, quello a cui aspirava ma che<br />
non poteva vivere, oppresso dalla tragic<strong>it</strong>à <strong>del</strong>l'esistenza che avvertiva sempre più<br />
concretamente. Gli Dei permettevano all'uomo di vivere e di sopportare la sua esistenza,<br />
coprendo con il loro gusto <strong>del</strong>la misura ogni suo accenno di eccesso e sfrenatezza. Era<br />
l'epoca <strong>del</strong>l'apollineo, l'epoca Omerica, che sarebbe stata superata dall'arrivo di Dioniso.<br />
Dalla lirica di Archiloco si sviluppa il gusto <strong>del</strong> dionisiaco e prende forma la tragedia attica,<br />
che trae la sua origine dalle schiere invasate dei cultori di Dioniso, mossi da impulsi<br />
ancestrali, che, con le loro danze e i loro canti, si riconciliano con la natura in festa. La<br />
tragedia nasce dai cori d<strong>it</strong>irambici: coloro che li intonavano distruggevano la propria<br />
soggettiv<strong>it</strong>à e sprofondavano nella natura universale, di cui la musica è specchio. Quando<br />
l'uomo sprofonda defin<strong>it</strong>ivamente in questa dimensione dionisiaca interviene Apollo, la<br />
componente razionale.<br />
“ Dapprima egli è divenuto, come artista dionisiaco, assolutamente una cosa sola con<br />
l’uno originario, col suo dolore e la sua contraddizione, e genera l’esemplare di questo<br />
come musica […], ma in segu<strong>it</strong>o, sotto l’influsso apollineo <strong>del</strong> sogno, questa musica gli<br />
ridiventa visibile come in un’ immagine di sogno simbolica. ”<br />
F. Nietzsche, La nasc<strong>it</strong>a <strong>del</strong>la tragedia<br />
L’uomo ha perso se stesso ed il terrore che ne deriva è troppo forte per essere tollerato:<br />
interviene allora la visione apollinea, che permette alla soggettiv<strong>it</strong>à di riapparire come<br />
illusione. La visione apollinea è una visione salvifica senza la quale l’uomo non potrebbe<br />
tollerare d'esistere.<br />
“ Proprio in questo, nel cogliere l'essenza <strong>del</strong>la v<strong>it</strong>a, la tragedia e l'arte in generale<br />
divengono la giustificazione estetica <strong>del</strong>la v<strong>it</strong>a. In altre parole l'esperienza che lo<br />
spettatore vive durante la tragedia rende la v<strong>it</strong>a possibile e degna di essere vissuta.<br />
L'uomo attraverso la tragedia si riappropria <strong>del</strong>le sue passioni contrastanti e realizza<br />
che gioia e dolore sono entrambi necessari, sono entrambi presenti nella v<strong>it</strong>a. Impara a<br />
godere tanto <strong>del</strong>l'uno quanto <strong>del</strong>l'altra. Egli apprende la natura tragica <strong>del</strong>la v<strong>it</strong>a. ”<br />
F. Nietzsche, La nasc<strong>it</strong>a <strong>del</strong>la tragedia<br />
La tragedia greca è la perfetta sintesi di apollineo e dionisiaco. <strong>Il</strong> coro, formato da una
massa di invasati, cost<strong>it</strong>uisce la componente dionisiaca. Lo spettatore, però, vede questa<br />
dimensione irrazionale sotto forma di “sogni” <strong>del</strong> coro: è come se il coro immaginasse la<br />
vicenda e gli spettatori assistessero a questa illusione apollinea, che è una sorta di specchio<br />
in cui si riflette l'ebrezza dionisiaca <strong>del</strong> coro. Nella tragedia greca i personaggi appaiono<br />
come una visione plasticamente reale, n<strong>it</strong>idamente disegnata, ma che nasconde il panico<br />
profondo <strong>del</strong>l’ebbrezza di Dioniso, il flusso continuo <strong>del</strong>la v<strong>it</strong>a che si impone con potenza<br />
irresistibile. La serena natura apollinea si riflette quindi nella visione plastica realizzata<br />
dalle arti figurative e l’esperienza dionisiaca, al contrario, trova la sua esaltazione<br />
nell’ebbrezza <strong>del</strong>la musica.<br />
“ Oh come diversamente mi parlò Dioniso? Oh come mi era lontano allora proprio tutto<br />
questo rassegnazionismo!”<br />
F. Nietzsche, La nasc<strong>it</strong>a <strong>del</strong>la tragedia<br />
Nietzsche supera il rassegnazionismo schopenhaueriano: l'uomo non deve fuggire dal<br />
mondo, non deve isolarsi e soprattutto non deve cercare di annientare i suoi istinti, ovvero<br />
la “volontà”. L'uomo deve piuttosto vivere secondo la sua natura, assecondando questi<br />
istinti proprio come fa con la ragione. L'uomo, per sopportare la v<strong>it</strong>a, non deve allontanarsi<br />
da essa, ma avvicinarsi a quello che davvero è per sua natura. Lo seppero fare gli antichi<br />
greci, con la creazione <strong>del</strong> teatro e <strong>del</strong>la tragedia greca; non ci riesce l'uomo moderno,<br />
ingabbiato dalla razional<strong>it</strong>à che ebbe il sopravvento dall'età socratica in poi.<br />
<strong>Il</strong> <strong>tragico</strong> ieri e oggi<br />
Quanto <strong>del</strong> pensiero <strong>tragico</strong> che si sviluppò nell'antica Grecia rimane al giorno d'oggi?<br />
Proviamo a tracciare un quadro d'insieme partendo dai pensatori a noi più vicini e<br />
confrontando le loro idee con quelle dei grandi tragediografi greci.<br />
Nietzsche, Schopenhauer e altri filosofi tra cui Kierkegaard considerano pessimisticamente<br />
la condizione umana: l’esistenza in sé è tragica, l’angoscia è la punizione <strong>del</strong>l’uomo per la<br />
sua consapevolezza. La coscienza che l'uomo ha <strong>del</strong>la v<strong>it</strong>a, la sua vista più acuta di quella di<br />
ogni altro essere vivente, è la fonte <strong>del</strong>la sua infelic<strong>it</strong>à: impossibile non c<strong>it</strong>are ancora una<br />
volta il personaggio di Edipo. La tragedia è considerata dai più la conseguenza di una<br />
terribile scoperta: l'insensatezza <strong>del</strong>la v<strong>it</strong>a.<br />
“ Se l'uomo percepisce la ver<strong>it</strong>à in uno stato di coscienza, vedrà ovunque solo la miseria e<br />
l'assurd<strong>it</strong>à <strong>del</strong>la v<strong>it</strong>a... e un grande disgusto lo assalirà. ”<br />
F. Nietzsche, Anticristo<br />
"Teorie ingegnose, pessimistiche, ma sbagliate", afferma in “Tragedy” W. M. Dixon. Dixon<br />
r<strong>it</strong>iene che lo scopo <strong>del</strong>la tragedia non sia di mettere in scena l'impotenza <strong>del</strong>la condizione<br />
di ogni uomo, ma di mostrare quanto sia "grande e straordinario" il mondo di cui egli fa<br />
parte. La tragedia ci inv<strong>it</strong>a ad estendere la nostra immaginazione verso l’infin<strong>it</strong>o, verso<br />
intelligenze più grandi e verso obiettivi più ampi dei nostri. Questa visione, rafforzata<br />
<strong>del</strong>l’espressiv<strong>it</strong>à tipica <strong>del</strong>la poesia, rende gioiosa l’esperienza <strong>del</strong>la tragedia. Dixon trova le<br />
cause <strong>del</strong> declino <strong>del</strong>la tragedia nell'età moderna proprio nel rifiuto di estendere la nostra<br />
immaginazione, spostandoci da interessi cosmici a questioni sociali e psicologiche.<br />
La tragedia attica, in effetti, fu tutto fuorché una disillusa rappresentazione <strong>del</strong>l'impotenza<br />
<strong>del</strong>l'uomo. Dixon ha ragione quando dice che la forza <strong>del</strong>la tragedia attica era la tensione<br />
verso qualcosa di sublime, di superiore. La catarsi <strong>del</strong>lo spettatore era provocata
sicuramente dalla proiezione <strong>del</strong>le sue emozioni verso una realtà eterna, rappresentata dal<br />
teatro. Tuttavia mi sembra che la tragedia attica non si risolva, in ultima analisi, in una<br />
tensione verso l'infin<strong>it</strong>o. E' semmai il <strong>tragico</strong> che ha il suo culmine, in molte tragedie, nella<br />
lotta <strong>del</strong>l'uomo con il divino, ma non è questo il messaggio finale <strong>del</strong>la tragedia. Credo che<br />
vada analizzato soprattutto l'insegnamento che essa trasmetteva, e sono convinto che fosse<br />
strettamente legato alla natura umana.<br />
Sofocle descrisse l'uomo come “la più meravigliosa creatura esistente”: nelle sue tragedie<br />
emergono sempre i sentimenti di uomini grandi, valorosi, in lotta contro una sorte avversa<br />
ma mai rassegnati ad essa, mai davvero vinti. Edipo non si piega alla sorte che man mano<br />
gli si prospetta sempre più infelice, affronta a viso aperto la sua condizione (nell'Edipo re)<br />
e, alla fine, riesce a camminare incontro alla morte serenamente e a testa alta (nell'Edipo a<br />
Colono). Edipo arriva a riconoscere che “tutto è bene” e a dire, alle sue due figlie, che “tanti<br />
affanni può sciogliere una parola: io vi ho amato”. Edipo, così come Prometeo e altri eroi<br />
tragici, impara un'importante lezione: è impossibile per l'uomo elevarsi al di sopra <strong>del</strong>la<br />
sua fin<strong>it</strong>ezza e negare l'ordine che regola il mondo. E' un ordine giusto in Eschilo e<br />
incomprensibile in Sofocle, ma è lo stesso ordine a cui ogni greco sentiva di appartenere.<br />
Edipo, una volta cap<strong>it</strong>o questo, r<strong>it</strong>rova tutta la sua uman<strong>it</strong>à nell'amore per le figlie.<br />
“ L'opera umana più bella è di essere utile al prossimo ” dice a questo propos<strong>it</strong>o Sofocle.<br />
La tragedia spinge, in defin<strong>it</strong>iva, l'uomo ad un r<strong>it</strong>orno verso se stesso, più che ad un<br />
allontanamento dalla sua condizione. Albert Camus sottolinea, nel suo saggio<br />
“Sull'avvenire <strong>del</strong>la tragedia”, che le due epoche in cui questa forma teatrale si è espressa<br />
con più vigore sono state quella classica in Grecia e quella <strong>del</strong> teatro elisabettiano, francese<br />
e spagnolo dei secoli XVI e XVII. Rileva tra di esse un'importante analogia: entrambe<br />
segnano un cambio di direzione <strong>del</strong> pensiero <strong>del</strong>l'uomo, in particolare il passaggio dalle<br />
“forme di un pensiero cosmico” ad altre “forme animate dalla riflessione individuale e<br />
razionalista”. <strong>Il</strong> passaggio da Eschilo a Euripide e da Shakespeare a Corneille è esattamente<br />
questo: un distacco graduale dalla concezione di un mondo sorretto da forze superiori per<br />
approdare al trionfo <strong>del</strong>la ragione, che nell'antica Grecia come nell'Europa <strong>del</strong> XVII secolo<br />
mise fine alla tragedia.<br />
La tragedia, secondo Camus, nasce proprio da questo spinta “evolutiva” <strong>del</strong>l'uomo. La<br />
tragedia non esiste quando nell'uomo non c'è contrasto, la tragedia nasce tra la luce e<br />
l'ombra e dalla loro opposizione. E' proprio questo contrasto, rappresentato sulla scena, la<br />
differenzia dal dramma: le forze in gioco nella tragedia non prevalgono l'una sull'altra, ma<br />
si annientano a vicenda perché sono ugualmente leg<strong>it</strong>time. L'ambizione di Prometeo, la<br />
voglia di conoscere di Edipo, la fierezza di Antigone sono tutti propos<strong>it</strong>i di per sé giusti, ma<br />
a cui si oppongono altrettante valide ragioni: la giustizia divina, la sorte degli oracoli, la<br />
legge di stato di Creonte.<br />
Proprio questa incessante opposizione confl<strong>it</strong>tuale è il fulcro <strong>del</strong>la tragedia. La<br />
purificazione <strong>del</strong>la tragedia, di cui parlava Aristotele, consisteva anche in un importante<br />
insegnamento: accettare il mistero <strong>del</strong>l'esistenza nella sua compless<strong>it</strong>à. L'eroe <strong>tragico</strong>,<br />
inev<strong>it</strong>abilmente, arriva a questo insegnamento tram<strong>it</strong>e il dolore.<br />
Schopenhauer riprende il tema <strong>del</strong> dolore, tuttavia con una significativa differenza. <strong>Il</strong><br />
messaggio che egli intuisce nella tragedia, che tram<strong>it</strong>e la rappresentazione <strong>del</strong> dolore<br />
umano ci libera momentaneamente dalla volontà, è un insegnamento passivo di<br />
rassegnazione: vedendo l'insensatezza <strong>del</strong>la v<strong>it</strong>a, l'uomo è inv<strong>it</strong>ato ad allontanarsene.<br />
L'insegnamento <strong>del</strong> πάθει µάθος, tipico dei tragediografi greci, è di tutt'altra natura:
l'uomo attraverso il dolore capisce la sua fin<strong>it</strong>ezza, l'impossibil<strong>it</strong>à di raggiungere il divino,<br />
ciò che gli è superiore. Ma non per questo deve rinunciare a vivere. L'insegnamento <strong>tragico</strong><br />
non è di rinuncia, ma di consapevolezza. La grandezza degli eroi tragici risiede dapprima<br />
nella loro tensione verso qualcosa di superiore; poi, e soprattutto, nel riconoscimento <strong>del</strong>la<br />
propria µηχανία, che corrisponde alla loro v<strong>it</strong>toria nel momento in cui, accantonati<br />
propos<strong>it</strong>i irrealizzabili, si riappropriano di tutto ciò che è loro: <strong>del</strong>la loro v<strong>it</strong>a, <strong>del</strong>la loro<br />
volontà, <strong>del</strong> loro destino.<br />
<strong>Il</strong> già c<strong>it</strong>ato Camus, nella celebre opera “<strong>Il</strong> m<strong>it</strong>o di Sisifo”, analizza il momento in cui Sisifo,<br />
costretto a portare in eterno un masso in cima ad una montagna per poi andarlo a<br />
riprendere una volta caduto, compie la sua discesa dal monte. E' il momento chiave in cui<br />
Sisifo prende consapevolezza <strong>del</strong> suo destino e si rende conto che il suo sforzo non lo<br />
condurrà a nulla. Ma è, nello stesso tempo, l'istante in cui Sisifo è più forte <strong>del</strong> proprio<br />
destino, perché ne è cosciente.<br />
“ Vedo quell'uomo ridiscendere con passo pesante, ma uguale, verso il tormento, <strong>del</strong><br />
quale non conoscerà la fine. Quest'ora, che è come un respiro, e che ricorre con la stessa<br />
sicurezza <strong>del</strong>la sua sciagura, quest'ora è quella <strong>del</strong>la coscienza. In ciascun istante,<br />
durante il quale egli lascia la cima e si immerge a poco a poco nelle spelonche degli dei,<br />
egli è superiore al proprio destino. E' più forte <strong>del</strong> suo macigno. [...] <strong>Il</strong> destino gli<br />
appartiene, il macigno è cosa sua. [...] Se vi è un destino personale, non esiste un fato<br />
superiore. [...] Egli sa di essere il padrone dei propri giorni. [...] Ogni granello di quella<br />
pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli,<br />
un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna<br />
immaginare Sisifo felice. ”<br />
A. Camus, <strong>Il</strong> m<strong>it</strong>o di Sisifo<br />
E' possibile che la dign<strong>it</strong>à umana stia nella consapevolezza che egli matura <strong>del</strong>la propria<br />
condizione tragica? Per gli antichi greci sì. Forse è proprio la diversa concezione maturata<br />
in età moderna che rende impossibile alla tragedia esprimere quella potenza che si<br />
manifestò nella grande Grecia <strong>del</strong>l'età classica.
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