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VITA Clifford Geertz è nato a San Francisco il 23 agosto 1926. Si ...

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<strong>VITA</strong><br />

<strong>Clifford</strong> <strong>Geertz</strong> <strong>è</strong> <strong>nato</strong> a <strong>San</strong> <strong>Francisco</strong> <strong>il</strong> <strong>23</strong> <strong>agosto</strong> <strong>1926.</strong> <strong>Si</strong> laurea in f<strong>il</strong>osofia nel 1950 e sostiene la tesi di<br />

dottorato in antropologia nel 1956, presso la Harvard University. E' assistente presso <strong>il</strong> Massachusetts Institute<br />

of Technology (1952-58), fellow del Center for Advanced Study in the Behavioral Sciences di Stanford-California<br />

(1958-1960), professore associato dell'Università di Chicago (1960-70). Dal l970 insegna Scienze Sociali<br />

all'Institute for Advanced Study di Princeton. Ha compiuto numerose ricerche etnologiche sul campo in<br />

Indonesia, nelle isole di Java, Bali e Sumatra e nel Marocco. Dal l966 <strong>è</strong> membro dell'American Academy of Arts<br />

and Sciences, dal l972 della American Ph<strong>il</strong>osophical Society, dal l973 della National Academy of Sciences e, dal<br />

l99l, socio corrispondente della British Academy. Ha ottenuto numerosi riconoscimenti e ha tenuto conferenze e<br />

lezioni in molte università nordamericane.<br />

OPERE<br />

The Social Context of Economic Change: an Indonesian Case Study, Cambridge, Center for International<br />

Studies, Massachusetts Institute of Technology, 1956; The Development of the Javanese Economy: A Sociocultural<br />

Approach, Cambridge, Center for International Studies, Massachusetts Institute of Technology, 1956;<br />

The Religion of Java, Glencoe, Ill., Free Press,1960; Agricoltural Involution, the Processes of Ecological Change<br />

in Indonesia, Berkeley, 1963; Peddlers and Princes, Chicago,1963; Person, Time and Conduct in Bali. An Essay<br />

in Cultural Analysis, Yale, 1966; Islam Observed: Religious Development in Morocco and Indonesia, New Haven,<br />

Yale University Press, 1968; The Interpretation of Cultures, Selected Essays, New York, Basic Books, 1973;<br />

Myth, Symbol, and Culture, Essays by <strong>Clifford</strong> <strong>Geertz</strong> and others, New York, Norton, 1974; The Social History of<br />

an Indonesian Town, Westport, Conn., Greenwood Press, 1975; The Interpretation of Cultures, London,<br />

Hutchinson, 1975; Negara: the Theatre State in Nineteenth Century Bali, Princeton University Press, Princeton,<br />

N.J., 1980; Local Knowledge: Further Essays in Interpretive Anthropology, Basic Books, New York, 1983; Works<br />

and Lives: The Antropologist as Author, Stanford,1988; The Strange Estrangement: Charles Taylor and the<br />

Natural Sciences, in The Ph<strong>il</strong>osophy of Charles Taylor: Critical Prospective, Cambridge, 1993. Di <strong>Clifford</strong> <strong>Geertz</strong><br />

sono tradotti in italiano: Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna, 1987; Antropologia interpretativa, Il<br />

Mulino, Bologna, 1988; Antropologia interpretativa, Il Mulino, Bologna, 1988; Opere e vite : l'antropologo come<br />

autore, Il Mulino, Bologna, 1990; Oltre i fatti: due paesi, quattro decenni, un antropologo, Il Mulino, Bologna,<br />

1995.<br />

PENSIERO<br />

Nelle sue ricerche etno-antropologiche sul campo <strong>Geertz</strong> ha studiato comparativamente l'organizzazione sociale<br />

di alcune culture asiatiche ed africane e <strong>il</strong> comportamento religioso e le produzioni mitologiche e simboliche di<br />

alcune popolazioni cosiddette "primitive". In particolare ha indagato l'islamismo del Marocco, i riti religiosi a Bali<br />

e Java e le trasformazioni economiche dell'Indonesia.<br />

L'Interpretazione delle culture<br />

Professor <strong>Geertz</strong>, da circa quarant'anni Lei si occupa di interpretazione delle culture. Nel suo saggio, "Blood<br />

Genres", Lei appare convinto che l'antropologo sia un essere anfibio, una creatura a metà tra lo studioso di<br />

scienze sociali e l'umanista. Perché l'antropologo non può essere semplicemente l'uno o l'altro?<br />

Non sono mai stato particolarmente entusiasta della netta divisione tra le scienze umanistiche e le scienze<br />

propriamente dette, comprese quelle sociali, quasi si trattasse di due vasti continenti da mettere in relazione<br />

l'uno con l'altro. Io le vedo piuttosto come isole raccolte in un arcipelago, che debbono essere unite da<br />

collegamenti multipli. In ogni caso mi interessa di più riflettere sul genere di lavoro che svolgo, domandandomi<br />

non tanto se esso appartenga alle scienze sociali, a quelle umanistiche o alla scienza propriamente detta,<br />

quanto piuttosto se e in che modo esso possa servire a migliorare la comprensione dei fenomeni sociali in<br />

generale e a rendere le persone più sensib<strong>il</strong>i nei rapporti con gli altri e con se stesse.<br />

Lei vede quindi l'antropologia più vicino al f<strong>il</strong>osofo? Intendendo per f<strong>il</strong>osofo colui che vuole applicare gli<br />

strumenti della scelta razionale all'interpretazione delle culture.<br />

Non ho molto da dire sulla teoria della scelta razionale: a mio avviso, i tentativi di costruire dei modelli di scelta<br />

razionale eliminano tutte le questioni interessanti ancor prima di cominciare - anche in campi come quello<br />

dell'economia, dove forse <strong>è</strong> più fac<strong>il</strong>e ut<strong>il</strong>izzarli. Io tendo a occuparmi di più del retroterra strutturale, sia<br />

culturale che sociale, che determina situazioni che si prestano poi a considerazioni sulla scelta razionale.<br />

Sebbene io non sia un f<strong>il</strong>osofo, né cerchi di diventarlo, sono stato fortemente influenzato dai f<strong>il</strong>osofi. Non tanto<br />

dai f<strong>il</strong>osofi analitici quanto da figure come Wittgenstein, Gadamer e Ricoeur: ovvero dalla corrente ermeneutica<br />

del pensiero sociale e f<strong>il</strong>osofico moderno. Ho cercato di applicare queste idee - piuttosto generali - ai problemi di<br />

ordine pratico che ho incontrato quando mi applico ad analizzare la vita delle persone. Come <strong>è</strong> avvenuto nel<br />

Sud-Est asiatico e nel Nord Africa, dove ho svolto quasi tutta la mia attività.


Perché <strong>il</strong> metodo della scelta razionale non <strong>è</strong> ut<strong>il</strong>e nell'interpretazione delle culture e dei fenomeni culturali?<br />

Come ho detto, <strong>il</strong> problema consiste nel fatto che, per poter mettere a punto un modello di scelta razionale,<br />

bisogna sapere quasi tutto quello che l'antropologo cerca di scoprire in primo luogo. Se vado a Bali e vedo le<br />

persone fare determinate scelte, applicando determinati modelli di scelta razionale, non sono assolutamente in<br />

condizione di comprendere su quali basi le facciano e, una volta che abbia capito quale sia la loro<br />

interpretazione di ciò che stanno facendo e cosa significhino i loro simboli, a questo punto <strong>il</strong> lavoro <strong>è</strong><br />

praticamente compiuto. E' a questo punto infatti che si possono applicare i modelli di scelta razionale, ma ciò<br />

diventa comunque possib<strong>il</strong>e, per lo meno per quanto mi riguarda, soltanto dopo che sia stato fissato l'intero<br />

contesto. Una volta fatto questo, le persone risulteranno razionali rispetto alla loro conoscenza di base - ma<br />

penso che questa non sia certo una novità. Quello che io cerco di fare <strong>è</strong> proprio scoprire in cosa consista questa<br />

conoscenza di base, in cosa consistano questi taciti accordi.<br />

Lei ha definito <strong>il</strong> Suo tipo di ricerca antropologica "interpretazione delle culture", e ha scritto: "I fenomeni<br />

culturali dovrebbero essere considerati dei sistemi di significato che sollevano delle questioni interpretative".<br />

Può spiegarci questo concetto?<br />

Questo concetto - che <strong>è</strong> proprio del metodo interpretativo o ermeneutico e che per un antropologo <strong>è</strong> sempre<br />

valido - equivale a dire che i fatti con cui si ha a che fare non sono chiari. Non si sa perché le persone agiscano<br />

in determinati modi, né quale significato attribuiscano alle loro azioni. L'applicazione di sistemi di significato,<br />

come avviene nell'ermeneutica, rappresenta un tentativo di affermare che <strong>il</strong> nostro compito <strong>è</strong> soprattutto<br />

esplicativo, al fine di scoprire quali sono le intenzioni delle persone. <strong>Si</strong> ha comunque a disposizione un modello<br />

testuale, o un'azione da ut<strong>il</strong>izzare come un'analogia testuale seguendo le ricorrenze. Esso dev'essere compreso<br />

per quello che le persone, a livello conscio o inconscio - ma per lo più a livello inconscio - pensano che sia. Il<br />

problema quindi <strong>è</strong> cercare di scoprire non tanto come funzioni una macchina quanto come si debba leggere un<br />

testo. Come ho detto <strong>è</strong> un modello che parte dal concetto secondo cui le cose, quando vengono affrontate per la<br />

prima volta, non sono molto chiare, appaiono confuse e indefinite. Quando i balinesi, i marocchini o i giapponesi<br />

dicono o fanno qualcosa, non sappiamo da quali motivi siano spinti, cosa ci sia all'origine del loro rituale. Allora<br />

si cerca di ridurre <strong>il</strong> senso di confusione, di mancanza di chiarezza, sforzandosi di capire cosa sta succedendo in<br />

termini di significato e di azione simbolica. L'unico modo in cui si può fare questo <strong>è</strong> quello interpretativo,<br />

ascoltando quel che la gente dice, osservando quello che fa e cercando di abbinarlo a una sorta di analogia<br />

testuale, come se fosse un gioco o una recita. Se si assiste a una partita di baseball o di calcio, e se non si <strong>è</strong><br />

americani, nel caso del baseball, o italiani nel caso del calcio, questi sport risultano molto diffic<strong>il</strong>i da capire. Per<br />

cercare di scoprire come funziona uno di tali giochi, non soltanto si devono scoprire quali sono le regole, ma<br />

quali sono i significati e l'importanza di determinati tipi di comportamento: questo, in un certo senso, equivale a<br />

leggere la partita come un testo. Questo <strong>è</strong> ciò che cerco di fare, in senso più generale, per l'antropologia.<br />

Ciò significa che l'antropologo deve cercare di calarsi nel punto di vista delle varie popolazioni e accantonare,<br />

almeno temporaneamente, le proprie concezioni del mondo e le abitudini mentali?<br />

Capire cosa essi pensano, sentono e fanno in un dato momento <strong>è</strong> <strong>il</strong> vero oggetto dello studio. Perciò devo<br />

senz'altro tralasciare le mie idee su come reagirei in una determinata situazione. Per comprendere tutto questo<br />

non dispongo però unicamente delle loro spiegazioni coscienti, o addirittura inconsce, degli avvenimenti, poiché<br />

sono in grado di introdurre elementi presi altrove che forse possono aiutarmi a leggere questo testo. E' un<br />

tentativo di capire quale sia <strong>il</strong> punto di vista dei partecipanti e di trasferirlo in un contesto più ampio, cosa che<br />

loro non farebbero. Perciò bisogna, in un certo senso, fare avanti e indietro, capire le cose dal loro punto di vista<br />

e allo stesso tempo collocarle in un contesto logico che non sia necessariamente <strong>il</strong> loro, altrimenti ci si imbatte<br />

in difficoltà insormontab<strong>il</strong>i. Non ci si può, per esempio, limitare a descrivere la stregoneria dal punto di vista<br />

delle streghe, e bisogna anche prendere in considerazione altri aspetti.<br />

Professor <strong>Geertz</strong> potrebbe, per concludere, darci un'esempio del suo lavoro come l'analisi dei combattimenti dei<br />

galli a Bali ?<br />

In un certo senso <strong>il</strong> combattimento dei galli <strong>è</strong> interessante proprio a causa della sua apparente frivolezza.<br />

Quando ero a Bali rimasi colpito dal fatto che, a dispetto di tutta la loro probab<strong>il</strong>e frivolezza e sebbene io non ci<br />

trovassi nulla d'interessante - gli incontri sono velocissimi e non c'<strong>è</strong> praticamente nulla da vedere - i<br />

combattimenti dei galli venivano organizzati due o tre volte alla settimana e la gente ne era completamente<br />

entusiasta. Così mi misi al lavoro, e osservai innanzi tutto che <strong>il</strong> combattimento dei galli <strong>è</strong> accompag<strong>nato</strong> da<br />

scommesse: in particolare, c'<strong>è</strong> una scommessa centrale tra i due proprietari dei galli. <strong>Si</strong> tratta di una<br />

scommessa ingente, nella quale le due puntate sono sempre identiche (per esempio cinquanta contro<br />

cinquanta). Vi sono poi persone che fanno scommesse collaterali e che si scambiano cenni, dando luogo a un<br />

notevole trambusto. Queste ultime scommesse sono sempre impari, e quindi, secondo la teoria delle probab<strong>il</strong>ità,<br />

qualcuno sbagliava. Secondo la teoria della azione razionale c'era qualcuno che non agiva in modo corretto: o<br />

erano insensate le persone al centro, perché scommettevano somme pari su una situazione impari, oppure lo<br />

erano le persone all'esterno, perché scommettevano somme impari su una situazione pari. Mi divenne sempre


più chiaro che le quote venivano fissate seguendo determinate linee di condotta proprie della struttura e dei<br />

gruppi sociali. <strong>Si</strong> scommetteva sul gallo del proprio gruppo, anche se i galli arrivati da fuori erano sempre<br />

favoriti, perché si pensava che - se qualcuno li aveva portati - dovevano essere fortissimi. Alla fine, <strong>il</strong> tutto<br />

cominciò a delinearsi come una lotta tra diversi gruppi per lo status e <strong>il</strong> prestigio sociale - e allora le scommesse<br />

acquistavano un senso. Non avevano senso, cio<strong>è</strong>, in termini di teoria delle probab<strong>il</strong>ità o di teoria dell'azione<br />

razionale, ma ne avevano in base al modo in cui, a Bali, i gruppi parentali, gli individui, le caste e le classi<br />

priv<strong>il</strong>egiate competono tra loro. E questo, di fatto, un aspetto importantissimo di quella cultura. Emerse quindi<br />

che i combattimenti dei galli, anziché essere avvenimenti frivoli, erano in realtà molto vicini al cuore degli<br />

interessi principali dei balinesi. E questo non perché lo status venga determi<strong>nato</strong> dai combattimenti dei galli<br />

(esso viene infatti determi<strong>nato</strong>, come al solito, dalla nascita e da altri fattori, come per esempio la ricchezza),<br />

ma perché in questa occasione esso viene messo in risalto, viene drammatizzato, trasformandosi così in un<br />

testo. E come tale si offre alla lettura dell'antropologo. Con questo non intendo tuttavia affermare che<br />

necessariamente i balinesi darebbero questa interpretazione dei combattimenti dei galli, ed anzi impossib<strong>il</strong>e che<br />

lo facciano, perché essi si limitano a vivere tali avvenimenti.<br />

Il Metodo dell'Antropologia<br />

DOMANDA: Professor <strong>Geertz</strong>, Lei, nel suo libro Opere e vite, ha parlato di due tipi diversi di ansia. Da una parte<br />

c'<strong>è</strong> <strong>il</strong> timore dello scienziato di non essere sufficientemente distaccato; dall'altra c'<strong>è</strong> <strong>il</strong> timore dell'umanista di<br />

esserlo troppo. Lei crede che la differenza fra scienziato e umanista sia <strong>il</strong> vero discrimine oggi in antropologia?<br />

No, non credo che la catturi del tutto. Il mio scopo principale era quello di indicare questa ambiguità. Secondo la<br />

vecchia concezione l'antropologia va considerata alla stregua di una scienza naturale; di conseguenza gli<br />

studiosi di tale disciplina dovevano mantenere un certo distacco dall'oggetto di studio.<br />

D'altro canto <strong>è</strong> evidente - e lo <strong>è</strong> sempre stato - che non si può capire la gente senza interagire con essa dal<br />

punto di vista umano. Non credo che lo schema che ne deriva debba essere necessariamente "scienze naturali<br />

contro scienze umane"; ma senza dubbio si tratta di un problema e di una preoccupazione molto diffusa.<br />

Esistono certamente molte altre posizioni contrastanti al riguardo, ma in questo caso <strong>il</strong> mio interesse era quello<br />

di cogliere questo aspetto, che negli anni <strong>è</strong> diventato sempre più acuto: la sensazione di essere talmente<br />

"obiettivo" nei confronti delle persone da trattarle come oggetti e, di conseguenza, non essere in grado di<br />

comprendere in maniera adeguata le loro emozioni, i sentimenti, le attitudini e la loro visione del mondo.<br />

Allo stesso tempo, <strong>è</strong> anche vero che gli antropologi cercano di non essere esclusivamente "soggettivi": non<br />

vogliono comunicare solo la loro impressione, o l'idea che si sono fatti al riguardo, non vogliono parlare di<br />

intuizioni. C'<strong>è</strong>, quindi - e diventa sempre più seria - una certa preoccupazione su entrambi i punti.<br />

Parte del problema sta nel fatto che l'antropologia non possiede una forte tradizione teorica autonoma. Certo le<br />

teorie esistono, così come esistono alcuni studiosi di antropologia che si occupano solo di teoria, ma non basta.<br />

<strong>Si</strong> tratta di un campo molto diffic<strong>il</strong>e da definire e, di conseguenza, caratterizzato da una serie di preoccupazioni<br />

che riguardano l'immagine che l'antropologia ha di sé, la sua natura stessa, in che cosa essa consista<br />

realmente. Una delle domande che gli antropologi si sono sempre posti <strong>è</strong> la seguente: che differenza c'<strong>è</strong> fra<br />

l'antropologia e la sociologia? E' una domanda a cui non si <strong>è</strong> trovata risposta, a parte forse <strong>il</strong> dire che<br />

"l'antropologia <strong>è</strong> meglio": ma certo non sono andati oltre.<br />

Non c'<strong>è</strong> una teoria suprema, né un metodo generale. C'<strong>è</strong> <strong>il</strong> metodo empirico, quello usato "sul campo"; ma in<br />

fondo non significa nulla, perché alcuni eseguono lo studio in modo più oggettivo possib<strong>il</strong>e, limitandosi a<br />

prendere nota di tutto quello che vedono, mentre altri svolgono lunghe e approfondite interviste. Sempre di<br />

antropologia si tratta.<br />

Per questo oggi si cerca da più parti di circoscrivere <strong>il</strong> tutto attraverso una specie di definizione ideologica di<br />

questa disciplina. <strong>Si</strong> assiste quasi a uno scontro fra coloro che hanno concezioni diverse su quello che facciamo<br />

e quello che invece dovremmo fare.<br />

Secondo me la distinzione fondamentale va fatta fra quelli che insistono per una teoria generale della società,<br />

da cui poi trarre conseguenze pratiche da applicare ai casi specifici, e quelli - fra cui mi metto anch'io - che<br />

desiderano comprendere società diverse per poter interagire con esse in modo intelligente negli anni a venire.<br />

Credo che questa sia una differenza molto più profonda - che tende ad esprimersi in termini del modello di<br />

impegno o disimpegno - rispetto a quella tra scienza naturale e scienza umana, o a un'altra analoga.<br />

Il Concetto di carisma<br />

Il concetto di carisma <strong>è</strong> andato degenerando col tempo. Oggi indica in genere "fascino" o "'popolarità". La sua<br />

origine cristiana, in realtà, indicava una straordinaria forza personale di origine trascendente. Ho cercato di


icostruire <strong>il</strong> significato profondo di questo concetto piuttosto che accettarlo solo nella sua odierna accezione,<br />

secondo la quale chiunque può essere carismatico...anche Madonna <strong>è</strong> carismatica. Ho preso ad esempio i re di<br />

Giava del XIV secolo, la regina Elisabetta I d'Ingh<strong>il</strong>terra e i re del Marocco del XIX secolo, e ho cercato di<br />

dimostrare come <strong>il</strong> carisma fosse costruito attraverso determinati rituali che riguardavano la regalità,<br />

soprattutto i viaggi dimostrativi che i sovrani compivano all'interno del loro regno. Ognuno dei tre ricorreva<br />

spesso a questa forma rituale ma in maniera molto diversa, <strong>il</strong> re di Giava creava <strong>il</strong> proprio carisma<br />

attraversando tutto <strong>il</strong> territorio del regno mettendosi in mostra come fosse un dio e imponendo la propria<br />

immagine alla società. Quando Elisabetta I salì al trono, la sua legittimità non era solide a causa di tutti i<br />

conflitti dinastici che si erano verificati fino ad allora. La sua soluzione, quindi, fu quella di viaggiare per tutto <strong>il</strong><br />

paese e organizzare una sorta di spettacolo teatrale itinerante incentrato sulla sua figura. Nel XIX secolo, i re<br />

del Marocco compivano vere e proprie incursioni in varie parti del paese per dimostrare forza, autorità, vigore e<br />

vitalità.<br />

Abbiamo, dunque, tre modi diversi di stab<strong>il</strong>ire cosa significa essere un re. Il primo <strong>è</strong>, in un certo senso, di tipo<br />

estetico, la monarchia di Giava come centro di irradiazione di incanto e magia, <strong>il</strong> secondo <strong>è</strong> di tipo morale, la<br />

regina come erede della tradizione morale inglese e, infine, <strong>il</strong> terzo che <strong>è</strong> una sorta di esercizio di forza del<br />

potere. In tutti e tre i casi re e regina si rivelano figure carismatiche <strong>il</strong> cui carisma veniva costruito in modi<br />

diversi: non erano semplicemente affascinanti o popolari per nascita, si erano costruiti intorno una storia che<br />

attribuiva loro un'importanza sovrumana. Credo che sia proprio grazie alla loro diversità che si riesca a capire<br />

tutto questo. Se ne fosse esistito solo uno, <strong>il</strong> tutto non sarebbe stato altrettanto chiaro. Se però li mettiamo a<br />

confronto l'uno con l'altro ci rendiamo conto di come <strong>il</strong> carisma venisse creato in modo diverso in ciascuno dei<br />

tre casi presi in esame.<br />

Temi e problemi dell'antropologia contemporanea<br />

<strong>Clifford</strong> <strong>Geertz</strong> incomincia coll'individuare <strong>il</strong> cambiamento di prospettiva intervenuto nell'antropologia<br />

contemporanea, che ha spostato l'attenzione dalle isole sperdute alle società complesse, per comprendere le<br />

quali sono necessarie altre discipline e nuovi metodi, oltre agli studi prodotti dagli appartenenti alle società<br />

oggetto di indagine. Le opere più riuscite sono quelle che comunicano la sensazione di potersi immergere nelle<br />

società presentate, come avviene negli studi di Leach, Fortes, che vissero a lungo con le popolazioni studiate .<br />

L'antropologia <strong>è</strong> un campo di assai diffic<strong>il</strong>e definizione, soprattutto se la si vuole etichettare secondo<br />

l'alternativa: scienze naturali o scienze umane; non c'<strong>è</strong> una base teorica solida che la distingua, per esempio,<br />

dalla sociologia; la distinzione fondamentale sarebbe invece tra lo scopo operativo di una teoria della società e<br />

l'intento di comprensione del diverso per una futura interazione. <strong>Geertz</strong> sottolinea l'importanza dell'aspetto<br />

creativo della scrittura, riferendosi a Lévi-Strauss e a Evans-Pritchard e distinguendo, sulla base di numerosi<br />

esempi, tra gli autori di metodi innovativi e coloro che applicano un certo st<strong>il</strong>e di lavoro. L'accentuazione della<br />

funzione dell'antropologo come autore che interpreta una cultura esprimendo una propria opinione discutib<strong>il</strong>e,<br />

contraddice l'idea di un lavoro che si svolgerebbe in maniera affatto obiettiva. <strong>Geertz</strong> presenta quindi Tristi<br />

Tropici di Lévi-Strauss come un testo a molti livelli in cui si esprime <strong>il</strong> mito della ricerca e <strong>il</strong> tentativo di<br />

comprensione dell'«altro». Non esiste un modello di antropologo, ma modelli diversi, <strong>Geertz</strong> presenta a questo<br />

proposito la figura di Evans-Pritchard e <strong>il</strong> suo studio su I Nuer, del tutto antitetico rispetto all'impostazione di<br />

Lévi-Strauss. Malinowski <strong>è</strong> sempre presente nel testo che scrive come un osservatore situato, che reagisce e<br />

interagisce con l'altra cultura. Attraverso questi vari st<strong>il</strong>i ci si <strong>è</strong> allontanati dal realismo etnografico della<br />

monografia classica, tentando altri modelli di scrittura, come <strong>il</strong> saggio o <strong>il</strong> diario. <strong>Geertz</strong> presenta quindi la figura<br />

della Benedict e i suoi studi sul Giappone, con <strong>il</strong> loro risvolto di critica sociale ai pregiudizi nel contesto di guerra<br />

in cui si colloca tale lavoro. Ormai esistono molti antropologi giapponesi o di origine giapponese e pertanto si <strong>è</strong><br />

instaurato un dialogo che ha spostato <strong>il</strong> centro della prospettiva, facendo dell'antropologia una scienza non solo<br />

occidentale, ma un patrimonio di tutta l'umanità. La cooperazione <strong>è</strong> necessaria anche in seguito alla fine dei<br />

rapporti coloniali, per concludere <strong>Geertz</strong> riflette sull'incertezza che caratterizza l'antropologia contemporanea e<br />

sul persistente bisogno di comprendere che la caratterizza .<br />

Il paradigma ermeneutico nell'antropologia contemporanea<br />

Non si può distinguere nettamente per <strong>Clifford</strong> <strong>Geertz</strong> tra scienze della natura e scienze dello spirito, occorre<br />

cercare invece i molteplici collegamenti tra le discipline, soprattutto per quanto riguarda le scienze sociali .<br />

<strong>Geertz</strong> riconosce di essere stato influenzato in particolare dall'ermeneutica contemporanea, le cui idee generali<br />

ha cercato di applicare a problemi di ordine pratico, mentre mettere a punto modelli di scelta razionale, secondo<br />

l'antropologo americano non ha molto senso, poiché <strong>è</strong> più importante conoscere i contesti delle scelte, come per<br />

esempio le informazioni. E' inoltre semplicistico - secondo <strong>Geertz</strong> - incorporare i simboli in una teoria della scelta<br />

razionale, giacché in essi si ha l'interpretazione profonda della rete culturale . L'estensione all'antropologia della<br />

pratica ermeneutica nasce dalla necessità di interpretare eventi altrimenti confusi, come se si trattasse della<br />

lettura di testi. <strong>Geertz</strong> riflette quindi su un episodio di fallimento di un funerale giavanese a causa di un dissidio<br />

religioso e culturale, che presto sarebbe sfociato nello scontro aperto. In un caso del genere l'analogia testuale <strong>è</strong><br />

efficace, perché si tratta di capire <strong>il</strong> punto di vista di un certo contesto collocandolo in un contesto più ampio . A<br />

partire da casi specifici si tende poi a generalizzare, a questo proposito si riferiscono osservazioni fatte in<br />

Marocco sull'insediamento in città di gruppi rurali a tendenza progressista e sulle reazioni dei gruppi tradizionali


anche riguardo ad aspetti marginali della convivenza, come la decorazione delle abitazioni. L'ermeneutica <strong>è</strong><br />

usata per fini pratici di interpretazione e considerata una "forma mentis". Non esiste un fondamento<br />

metodologico definitivo per l'antropologia o per le scienze umane, perché ogni caso particolare presenta<br />

problema diverso, di cui si deve cogliere la specificità. La formulazione di una teoria antropologica<br />

onnicomprensiva non rientra affatto nelle aspirazioni scientifiche di <strong>Geertz</strong> ed anche st<strong>il</strong>isticamente, più che la<br />

monografia classica egli ama <strong>il</strong> saggio, anche se questo non significa non mirare a conclusioni generali . Nel<br />

confronto con Tr<strong>il</strong>ling e con <strong>il</strong> tema delle implicazioni morali in letteratura, <strong>Geertz</strong> pone <strong>il</strong> problema del<br />

contenuto morale delle varie culture, affrontando di nuovo le usanze funebri nell'isola di Bali e riferendosi anche<br />

ai fenomeni letterari dei dopoguerra europei . Riflettendo sulla traduzione, non solo tra lingue, ma anche tra<br />

culture diverse, <strong>Geertz</strong> sostiene poi la necessità che l'antropologo scriva per un pubblico diversificato e non solo<br />

per gli specialisti . Per concludere <strong>Geertz</strong> ricorda i suoi studi sul concetto di carisma e l'uso dell'espressione<br />

rituale e carismatica del potere da parte dei re di Bali, del Marocco e dell'Ingh<strong>il</strong>terra .

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