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GiUliANO AGRESti, UN vEScOvO AttENtO Ai SEGNi dEi tEMPi

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chiamati «fratelli e amici», ai religiosi e alle religiose configurati<br />

come «segno visibile dell’espansione della carità della Chiesa», si dirige ai laici<br />

della sua diocesi, dichiarandosi uno di loro, «eguale riguardo alla dignità e all’azione<br />

comune a tutti i fedeli nell’edificare il corpo di Cristo». Linguaggio inusuale<br />

per quel tempo che lasciava trasparire l’audacia di una ecclesiologia convinta,<br />

mostrando nel contempo quale consapevole intelligenza aveva del suo incipiente<br />

ministero episcopale che lo rendeva insieme fratello, pastore e padre. Comprensione<br />

spirituale e umana che gli derivava dall’ispirazione, per lui abituale, del<br />

tempo liturgico che viveva e dalle precise indicazioni conciliari da lui fatte proprie.<br />

Il Vaticano II, infatti, era divenuto un punto di non ritorno della sua vicenda spirituale,<br />

il crocevia della storia che obbligava ogni coscienza credente a un necessario<br />

e salutare confronto critico per giudicare secondo verità convenzioni religiose<br />

e abitudini devote che avevano ormai esaurito la loro carica innovativa.<br />

Come vescovo si sente mandato da Dio ad annunciare misericordia e salvezza<br />

«perché Lui è soprattutto misericordia e salvezza». Il tema dell’amore di Dio è antico<br />

e ricorrente per l’Agresti e soprattutto sperimentato ed è questa certezza che<br />

lo spinge a richiedere per sé «un cuore di fratello, una tenerezza di padre, un’anima<br />

di Pastore»; solo così può venire fruttuosamente in mezzo al popolo di Dio con<br />

quell’apertura spirituale indicata dagli stessi eloquenti e impegnativi segni biblici<br />

della liturgia della Natività che per lui sono:<br />

il silenzio in cui si rivela il mistero del Verbo incarnato, il nascondimento<br />

che lo caratterizza, la<br />

povertà da cui è circondato e la carità che ne è la radice.<br />

Conviene ad un Vescovo il silenzio che non è il semplice tacere, ma<br />

il pregare, il contemplare,<br />

l’ascoltare la Parola di Dio e le vostre parole di uomini.<br />

Se io non contemplo il volto di Dio, sono come il fico sterile del Vangelo<br />

che non può essere che maledetto. Se io non ascolto la parola di<br />

Dio, sono come un errante senza consiglio e come una canna agitata<br />

da ogni vento. Se non ascolterò voi, sarò come uno che batte l’aria,<br />

impoverito di sapienza e di esperienza. Per non essere così il<br />

grande Salomone domandò a Dio, come la cosa più stupenda, un<br />

«cuore che ascolta», un ascolto cioè di amore nell’impegno di tutto<br />

l’essere.<br />

Io sento ancora di dover venire a voi con la vera povertà dei servi<br />

del Signore, dei fanciulli, dei disarmati, con la povertà del Verbo<br />

che diviene «uno che non parla». Ma soprattutto voi avete il diritto<br />

di esigere da me una grande carità con gli stupendi attributi che le<br />

dà San Paolo, il quale la chiama, fra l’altro, paziente, benigna, longanime,<br />

distaccata, umile, che tutto crede, tutto spera e tutto soffre.<br />

Quattro segni, silenzio, nascondimento, povertà e carità apostolica, che hanno<br />

una loro sorgiva freschezza e tuttavia vengono da lontano e portano in qualche modo<br />

l’impronta della spiritualità cristiana dell’Ottocento, come si è detto, giunta alle<br />

soglie del concilio Vaticano II, filtrata e arricchita per l’Agresti dalla lezione di<br />

alcune eminenti personalità della Chiesa fiorentina. Un’apertura convenzionale ai<br />

“segni dei tempi”, sostenuta da una spiritualità di stampo ascetico e volontaristico,<br />

ma che già porta i segni della sua personale rielaborazione, mostrando di muo-<br />

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