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GiUliANO AGRESti, UN vEScOvO AttENtO Ai SEGNi dEi tEMPi

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20° ANNIVERSARIO DELLA MORTE DI<br />

Mons. GIULIANO AGRESTI<br />

19-20 settembre 2010<br />

Nell’ambito delle iniziative per ricordare la morte di mons Giuliano<br />

Agresti, lunedi 20 settembre nel salone dell’arcivescovato si è tenuto<br />

un incontro in cui, dopo l’introduzione dell’arcivescovo Italo, sono intervenuti<br />

don Giuseppe Bellia e don Piero Ciardella. Don Bellia, che fu accolto<br />

in diocesi da mons. Agresti e per molti anni è stato presente in diocesi,<br />

ha parlato di Agresti come vescovo attento e pienamente inserito nel tempo<br />

in cui ha vissuto mentre d. Ciardella ha introdotto il tema del libro Elogio<br />

della gratuità che è stato ristampato in questa occasione e ha presentato le<br />

altre iniziative in corso. Riportiamo i testi dei due interventi.<br />

Giuliano Agresti,<br />

un vescovo attento ai segni dei tempi<br />

don Giuseppe Bellia<br />

Descrivere un’esistenza significa sempre racchiudere dentro il recinto di una<br />

narrazione, per quanto onesta e misurata, il fluire incontenibile di una vita. Se poi<br />

si deve comprendere il senso di un’esistenza teologica, com’è necessariamente<br />

quella di un vescovo, allora l’impegno diviene ancora più oneroso e ardito.<br />

Per evitare di scivolare, anche inconsapevolmente nell’agiografia, vanificando<br />

la reale e autonoma confluenza di umanità e grazia, s’impone una premessa di metodo<br />

per aiutare chi ascolta a orientarsi sui motivi che presiedono alla mia dimessa<br />

interpretazione. Si richiede, infatti, oltre alla conoscenza critica del contesto<br />

personale e sociale in cui s’iscrive la vita di un uomo, e di un uomo di chiesa, anche<br />

una comprensione adeguata del percorso misterioso che la grazia compie in un<br />

discepolo di Cristo. Fermarsi a un solo aspetto, enfatizzare visioni parziali o non<br />

avvertire le zone d’ombra che accompagnano inevitabilmente il tessuto di un’esistenza<br />

umana, non produce conoscenza, ma abbagli che non aiutano certo a cogliere<br />

i modi in cui si coniuga in concreto il dischiudersi progressivo di un’anima<br />

al rivelarsi paziente e inafferrabile della grazia. Dono accolto che svela la «stupenda<br />

gratuità divina» e dispone all’alterità, aprendo finalmente il cuore della<br />

creatura all’assoluto di Dio, accettandosi come «donati» per donarsi agli altri.<br />

Un percorso di progressive rivelazioni e conseguenti aperture che disegnano le<br />

tappe, o meglio le stazioni, di un cammino di chi, aprendosi alla Parola ne è diventato<br />

uditore, «servo» e «testimone» (cf. Lc 1,2). È in questa prospettiva che si<br />

può collocare la figura del vescovo Giuliano, pastore aperto ai «segni dei tempi»,<br />

sviluppando così il tema richiestomi.<br />

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Del vescovo Giuliano si farà dunque una lettura mirata, infratestuale, della<br />

sua scrittura, per leggerlo cioè a partire dalle sue opere, ma anche esperienziale<br />

della sua testimonianza per cogliere l’intentio profonda della sua sequela di discepolo.<br />

Si richiede quindi un duplice impegno d’indagine, distinto ma non disgiunto,<br />

antropologico e spirituale insieme. Da una parte è doveroso esplorare con cura il<br />

vissuto di relazione di chi si pone come chi ascolta, accoglie e si adegua ponendosi<br />

come persona viva, libera, unitaria. Si deve esplorare, con simpatia e rispetto, il<br />

suo conversare interiore e fraterno perché, come amava ripetere l’Agresti, l’uomo<br />

è essere «relazionale, interpersonale, “parlante”, in cerca della “rivelazione del volto”».<br />

Dall’altra, si deve scrutare con discrezione il senso e il tracciato di un’esistenza<br />

religiosa orientata dall’azione dello Spirito, per ricomporre un itinerario<br />

spirituale, spesso inevidente e a volte perfino confuso, dove possa trovare spazio<br />

anche ciò di cui lo stesso discepolo ha consapevolezza e sa dire dell’opera dello Spirito<br />

nella sua esistenza. È una comprensione “nello Spirito” e tuttavia oggettiva e<br />

perciò comunicabile, che non agisce però sul terreno sdrucciolo dello Zeitgeist, dello<br />

spirito del tempo e nemmeno sul piano angusto e inaffidabile delle interpretazioni<br />

soggettive dettate dall’immaginazione o dalla speculazione intellettuale.<br />

La mia ricostruzione farà perciò riferimento a un atteggiamento strutturale<br />

della condizione umana che vede nell’ascolto accogliente della fede la libera risposta<br />

all’agire gratuito dello Spirito. Più esattamente, quando il credente si lascia<br />

condurre dal dinamismo del testo ispirato si produce in lui una metánoia, una metamorfosi<br />

constatabile del suo vissuto che modifica radicalmente pensieri, parole<br />

e costumi, configurando così un successivo e più coerente sentire teologico. Solo<br />

con questa dichiarata visione, d’impianto lonerganiano, si può accostare con scrupolo<br />

e passione la ricca e polimorfa produzione letteraria del vescovo Giuliano. La<br />

mia non sarà quindi un’indagine a tutto campo ma cercherà d’investigare, in modo<br />

infratestuale, le costanti e le svolte di un percorso di apertura di mente e cuore<br />

a Dio, ai fratelli e al mondo che ha segnato la vita dell’Agresti, senza imprigionare<br />

la sua ricca figura in una statica posa da foto ricordo.<br />

C’è ancora un’altra premessa da fare a questo mio modesto impegno di rievocazione<br />

della sua statura di uomo e di pastore. Chi parla è necessariamente influenzato<br />

dalla somma di ricordi personali che hanno caratterizzato un rapporto,<br />

un discepolato, un’amicizia di oltre dieci anni che, accanto a importanti affinità riguardo<br />

alla testimonianza da rendere a Cristo e al Vangelo, ha registrato consolanti<br />

convergenze sul misterioso cammino della Parola dentro il brutto fosso della<br />

storia; ma anche alcune comprensibili lontananze generazionali insieme a discordi<br />

valutazioni pastorali. Il mio sarà quindi un dire franco e necessariamente un po’<br />

di parte, ma la parresia evangelica non teme di ibridare o contaminare la realtà,<br />

perché la memoria che si crede equa e pura non rappresenta il passato, lo recita.<br />

Chi non ha subito il fascino della sua prosa evocativa e cadenzata, l’attrazione pacata<br />

per quel suo periodare ampio e solenne, il richiamo radioso del suo parlare tosco<br />

e sonoro che gustavi non solo spiritualmente? Di ciò ci sarà eco in questo mio<br />

rievocare, lasciandomi ammaliare e quasi contagiare dal suo eloquio caldo e appassionato.<br />

Mi sembrava onesto dire del mio coinvolgimento, per invitarvi ad avere<br />

fraterna indulgenza, oltre che per le inevitabili negligenze e smemoratezze, per<br />

una ricostruzione che attingerà, accanto alle svariate pubblicazioni in mio possesso,<br />

anche a quel lascito vivo di memorie, di ricordi, di reminiscenze di chi è stato,<br />

non soltanto per me, maestro, modello e padre. Dietro la scorza del ruvido compa-<br />

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gno di viaggio, abbiamo imparato a scorgere il volto del condiscepolo fedele, del fratello<br />

premuroso e sincero. A queste fonti attingerò a conforto.<br />

Da dove cominciare? Ricongiungendo gli scritti del nostro vescovo alla sua memoria,<br />

una prima notazione affiora pronta e lampante: in lui non s’incontra quel<br />

penoso distacco del sapere teologico dalla santità della vita o della dottrina dalla<br />

testimonianza, separando il ministero ordinato dalla vita secondo lo Spirito. Pur<br />

con tutte le debolezze e le contraddizioni della nostra natura, la ferrea disciplina<br />

dell’ascolto praticata dall’Agresti lo immetteva in un’esperienza dinamica e sempre<br />

in atto che gli richiedeva un costante impegno di discernimento per rinnovarsi<br />

nello Spirito e vivere, da povero e non da primo, ciò che leggeva per comunicare<br />

con sapienza ciò che viveva. Di questo percorso spirituale che coniuga storia e grazia<br />

si possono delineare tre tappe.<br />

Il Dio che si rivela e che continua a rivelarsi, «gestis verbisque», nel tempo degli<br />

uomini, è una delle novità teologiche più dirompenti e significative arrecate dal<br />

Vaticano II e, come vedremo, quanto mai presenti nell’esistenza teologica dell’Agresti.<br />

Come non ricordare la sua sana curiosità riguardo al senso scritturistico<br />

dell’esegesi colta, che mostrava, accanto allo stupore per la ricchezza inarrivabile<br />

della Scrittura, quel suo scrupoloso incanto per le profondità dispiegate da un sapere<br />

biblico condito di silenzio e di preghiera. Ma anche la sua burbera e divertita<br />

ironia verso quell’esegesi maldestra, piegata al vento di ogni moda, che cominciava<br />

erudita e finiva buia e pedante. Ripensando e rileggendo quanto da lui proclamato<br />

e insegnato nelle sue omelie, nei suoi interventi e nei suoi scritti, si riconosce<br />

il frutto di un’assimilazione creativa inesausta di chi per primo ascoltava la parola<br />

che proclamava. Disciplina austera che gli permetteva di mettere le ali anche<br />

a pagine bibliche più volte commentate e che per consuetudine e inerzia rischiavano<br />

di essere logore e ripetitive. E amava ascoltare e far ascoltare chiunque fosse<br />

attento e innamorato della Parola. Non posso dimenticare di essere stato invitato,<br />

ancora da laico, a tenere incontri di lectio divina nella sua amata chiesa di<br />

Lucca, per favorire un approccio diretto al testo sacro.<br />

Torniamo a ricongiungere memoria e scrittura per scrutarne il senso e il verso.<br />

In un’esistenza teologica, gli antichi maestri ci hanno insegnato che c’è sempre<br />

un filo rosso che sembra collegare, come in una sorta d’inclusione provvidenziale,<br />

il dipanarsi spesso indecifrabile di opere e giorni, di fatti e parole, di attese e delusioni<br />

che solo alla fine si mostrano come integro e benevolo disegno di salvezza.<br />

Non è un espediente narrativo rinvenire l’ordito sotteso al vissuto cristiano, ma<br />

un’esigenza della fede il poter discernere i segni di una presenza provvidenziale<br />

che tesse una trama di continuità nella discontinuità di vita di un discepolo di Cristo.<br />

Per il nostro vescovo le fonti ci permettono un’agevole collazione. Cominciando<br />

dai primi scritti accessibili, dalla vigilia della sua ordinazione presbiterale, fino<br />

al suo testamento spirituale sono riscontrabili i motivi dominanti della sua spiritualità<br />

che, come vedremo, da un canovaccio sperimentato d’impianto convenzionale<br />

si trasformeranno in fulgidi e ancora attuali punti di luce che non cessano<br />

d’interpellarci. Possediamo a riguardo un documento eccezionale che permette di<br />

cogliere questo passaggio aurorale della sua storia, come amava dire, dove l’eredità<br />

del suo patrimonio preconciliare, è ripresa, in forma adulta e programmatica<br />

e proiettata in un futuro che governava il suo presente di cristiano e di pastore: si<br />

tratta della sua prima lettera pastorale all’inizio del suo ministero episcopale a<br />

Spoleto, nel Natale del 1969. Dopo essersi rivolto con casto eloquio ai sacerdoti,<br />

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chiamati «fratelli e amici», ai religiosi e alle religiose configurati<br />

come «segno visibile dell’espansione della carità della Chiesa», si dirige ai laici<br />

della sua diocesi, dichiarandosi uno di loro, «eguale riguardo alla dignità e all’azione<br />

comune a tutti i fedeli nell’edificare il corpo di Cristo». Linguaggio inusuale<br />

per quel tempo che lasciava trasparire l’audacia di una ecclesiologia convinta,<br />

mostrando nel contempo quale consapevole intelligenza aveva del suo incipiente<br />

ministero episcopale che lo rendeva insieme fratello, pastore e padre. Comprensione<br />

spirituale e umana che gli derivava dall’ispirazione, per lui abituale, del<br />

tempo liturgico che viveva e dalle precise indicazioni conciliari da lui fatte proprie.<br />

Il Vaticano II, infatti, era divenuto un punto di non ritorno della sua vicenda spirituale,<br />

il crocevia della storia che obbligava ogni coscienza credente a un necessario<br />

e salutare confronto critico per giudicare secondo verità convenzioni religiose<br />

e abitudini devote che avevano ormai esaurito la loro carica innovativa.<br />

Come vescovo si sente mandato da Dio ad annunciare misericordia e salvezza<br />

«perché Lui è soprattutto misericordia e salvezza». Il tema dell’amore di Dio è antico<br />

e ricorrente per l’Agresti e soprattutto sperimentato ed è questa certezza che<br />

lo spinge a richiedere per sé «un cuore di fratello, una tenerezza di padre, un’anima<br />

di Pastore»; solo così può venire fruttuosamente in mezzo al popolo di Dio con<br />

quell’apertura spirituale indicata dagli stessi eloquenti e impegnativi segni biblici<br />

della liturgia della Natività che per lui sono:<br />

il silenzio in cui si rivela il mistero del Verbo incarnato, il nascondimento<br />

che lo caratterizza, la<br />

povertà da cui è circondato e la carità che ne è la radice.<br />

Conviene ad un Vescovo il silenzio che non è il semplice tacere, ma<br />

il pregare, il contemplare,<br />

l’ascoltare la Parola di Dio e le vostre parole di uomini.<br />

Se io non contemplo il volto di Dio, sono come il fico sterile del Vangelo<br />

che non può essere che maledetto. Se io non ascolto la parola di<br />

Dio, sono come un errante senza consiglio e come una canna agitata<br />

da ogni vento. Se non ascolterò voi, sarò come uno che batte l’aria,<br />

impoverito di sapienza e di esperienza. Per non essere così il<br />

grande Salomone domandò a Dio, come la cosa più stupenda, un<br />

«cuore che ascolta», un ascolto cioè di amore nell’impegno di tutto<br />

l’essere.<br />

Io sento ancora di dover venire a voi con la vera povertà dei servi<br />

del Signore, dei fanciulli, dei disarmati, con la povertà del Verbo<br />

che diviene «uno che non parla». Ma soprattutto voi avete il diritto<br />

di esigere da me una grande carità con gli stupendi attributi che le<br />

dà San Paolo, il quale la chiama, fra l’altro, paziente, benigna, longanime,<br />

distaccata, umile, che tutto crede, tutto spera e tutto soffre.<br />

Quattro segni, silenzio, nascondimento, povertà e carità apostolica, che hanno<br />

una loro sorgiva freschezza e tuttavia vengono da lontano e portano in qualche modo<br />

l’impronta della spiritualità cristiana dell’Ottocento, come si è detto, giunta alle<br />

soglie del concilio Vaticano II, filtrata e arricchita per l’Agresti dalla lezione di<br />

alcune eminenti personalità della Chiesa fiorentina. Un’apertura convenzionale ai<br />

“segni dei tempi”, sostenuta da una spiritualità di stampo ascetico e volontaristico,<br />

ma che già porta i segni della sua personale rielaborazione, mostrando di muo-<br />

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versi a suo agio dentro l’ecclesiologia di comunione del Concilio che scoraggiava il<br />

trionfalismo e il clericalismo delle stagioni antecedenti. Promuovendo una visione<br />

innovativa della Chiesa il vescovo si doveva impegnare in un’opera di assimilazione<br />

e di revisione per adattare l’eredità spirituale della precedente stagione ecclesiale<br />

ai mutati contesti socio-culturali.<br />

Nella chiesa italiana i cardini essenziali della vita spirituale, d’impronta tradizionale,<br />

attorno a cui girava, fino alla metà del secolo XX, la spiritualità del ministero<br />

apostolico, erano: l’operosità della carità apostolica, l’ordinarietà di una<br />

santità vissuta nel quotidiano, la dimensione comunitaria del cammino di santità<br />

e infine il forte legame che questi valori avevano con una diffusa e radicata religiosità<br />

popolare. L’irrompere inatteso del Vaticano II, obbligherà a una revisione<br />

critica del patrimonio ottocentesco e chiederà adattamenti e ricomprensioni non<br />

sempre avvertiti e attuati in tutte le chiese. I vescovi del Concilio si sentiranno impegnati<br />

in quest’opera di revisione, privilegiando però solo due fronti. Da una parte<br />

sapevano di dover compiere un’opera di purificazione del devozionalismo popolare,<br />

assai diffuso e degenere che contagiava in senso idolatrico le giuste pratiche<br />

devozionali della tradizione e la stessa prassi sacramentale; dall’altra avevano<br />

compreso che si doveva guardare al mondo con occhio meno sospettoso e avverso,<br />

con più serena fiducia, ritenendolo oggetto dell’infinita degnazione del Padre e non<br />

più come luogo di forze ostili alla Chiesa da condannare e lottare.<br />

Il testo segnala dunque quella svolta che ha trasformato il convinto docente di<br />

apologetica in cantore delle meraviglie inesauste dello Spirito. L’Agresti affermerà<br />

ripetutamente che il tempo del Vaticano II è stato per lui l’occasione, il kairos che<br />

ha determinato l’inizio della sua conversione e della sua apertura fraterna al mondo.<br />

Apertura come conversione di mentalità, di sensibilità più che di fede o di costumi,<br />

ma che nondimeno operava in profondità, dovendo accettare e fare proprio<br />

l’insegnamento teologico e non moralistico del Vaticano II, insieme alla grande lezione<br />

di santità, più evangelica che ascetica, consegnata al nuovo secolo da Teresa<br />

di Lisieux o da Charles de Foucauld. Si può vedere questo cambiamento d’impianto<br />

spirituale dall’abbondante ricorso alla Scrittura, negli scritti precedenti in<br />

verità molto sobrio, e dal costante e convinto appello ai testi conciliari. Veramente<br />

il Concilio è stato per lui un punto apicale della sua storia spirituale, un dono,<br />

una grazia esigente, come lo definirà più volte, che gli aveva richiesto però un’opera<br />

di radicale e incessante rinnovamento, di sincera metanoia, un deciso cambiamento<br />

di testa e di cuore che tuttavia non reputava mai sufficientemente assunto<br />

e compiuto.<br />

Le indicazioni e i mezzi suggeriti dal Concilio erano considerati dal nostro vescovo<br />

strumenti di grazia che potevano «sgretolare le montagne dell’indifferenza<br />

religiosa» e divenire motivi di attrazione per i lontani. Si poteva dilatare la carità<br />

«nel modo più evangelico, intelligente e adeguato», soprattutto «verso i poveri, gli<br />

umili e i diseredati», rivelando così «la manifestazione della potenza di Dio che<br />

rende liberi davanti a tutte le umane contraddizioni», sapendo annunciare in Cristo<br />

una liberazione possibile da ogni male, da ogni forma d’ignoranza e da ogni<br />

schiavitù.<br />

Di questa creativa operosità pastorale aperta ai lontani è stato un segno vivace<br />

il suo solerte e contagioso zelo missionario. In molti modi è stato capace di trasmettere<br />

alla sua chiesa, e soprattutto ai giovani preti, un sentire apostolico veramente<br />

cattolico e universale, rafforzando con criterio e generosità la comunione<br />

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con le chiese del Brasile e del Ruanda come testimonia il fulgido esempio di don<br />

Giovanni Galli. Ma resta icona, ancora attuale, del suo spirito di solidarietà verso<br />

i perduti, verso i «nuovi dannati», l’invenzione delle comunità di recupero del Ceis<br />

che, nella formula poi diffusasi nell’intero paese, nascono più Lucca che a Roma.<br />

L’Agresti le aveva pensate in modo organico come terapia integrale incentrata in<br />

positivo sul valore della persona umana da reintegrare e non come piaga sociale<br />

da contenere e controllare. L’attuazione esemplare di questo progetto caritativo, di<br />

cui fino alla fine il vescovo Giuliano si volle occupare con impegno quasi settimanale,<br />

fu opera di don Bruno Frediani che certo sulla singolarità di questo impegno<br />

saprà dare più proficui e completi ragguagli.<br />

Si trattava di iniziative diverse che segnalavano in entrambi i casi un’apertura<br />

ai «segni dei tempi» per un’ecclesiologia di comunione che riteneva il compito<br />

missionario e caritativo un impegno delle singole chiese e non una funzione demandata<br />

a particolari specialisti religiosi. L’interesse verso tossicodipendenti e<br />

malati terminali mostrava l’ardore apostolico della spiritualità ottocentesca unito<br />

alle risorse della giovane ecclesiologia conciliare. La Chiesa si faceva presente non<br />

per condannare i «nuovi peccatori», ma per venire incontro in modo professionale<br />

e moderno alle richieste di aiuto di un mutato ambiente umano degradato di cui<br />

la società civile non sapeva farsi carico. Lo storiografo attento avrà modo di riscontrare<br />

i chiaroscuri di queste iniziative apostoliche e valutare se e come questa<br />

visione programmatica di “rinnovamento nella continuità” sia stata efficace. In<br />

ogni caso constaterà che anche davanti a comprensibili forme di adeguamento e di<br />

espansione e perfino nei momenti di stanchezza e di appesantimento, l’impegno<br />

apostolico dell’Agresti si manterrà costante negli anni successivi in tutta la sua<br />

opera scribale e ministeriale, componendosi alla fine in un sentire teologico sempre<br />

più coerente e riflesso, perché più partecipato e sofferto, come risulta dai suoi<br />

ultimi scritti.<br />

Apertura ai «segni dei tempi» sincera e produttiva quindi che dilatava il cuore<br />

del vescovo e dell’uomo di cultura sospingendolo a relazionarsi con pazienza e<br />

in modo attrezzato con il mondo e con i lontani, ma ancora bisognosa di ripensamenti<br />

e di purificazioni. Tra queste sue molteplici iniziative di apertura al nuovo<br />

come non ricordare il suo singolare contributo nel dialogo ecumenico e nel confronto<br />

interreligioso a livello locale e nazionale?<br />

Tra i suoi impegni di “rinnovamento nella continuità” non si può non fare memoria<br />

del ruolo attivo avuto per la restaurazione del diaconato nella chiesa italiana.<br />

Fu proprio l’Agresti il vescovo che ha curato la promozione e l’avvio del diaconato<br />

permanente nel nostro paese. Sotto la sua guida e con il suo accompagnamento<br />

le chiese di Torino, Napoli e Reggio Emilia poterono ordinare i primi diaconi<br />

sposati, condividendo la sua visione diaconale. Vedeva nella diaconia ordinata<br />

non una forma di promozione di laici per benemerenze pastorali, ma il segno sacramentale<br />

dei ministri dei poveri e dei lontani che rendevano credibile e testimoniale<br />

l’eucaristia del vescovo. Poteva una chiesa condividere il pane degli angeli se<br />

prima non imparava a condividere il pane terreno? Il diacono con il suo umile e disinteressato<br />

servizio poteva e doveva portare agli ultimi insieme alla consolazione<br />

dello spirito anche la carità della Chiesa. Inoltre, così pensava il vescovo Giuliano,<br />

con la trasparenza della sua peculiare conformazione a Cristo servo, il diacono poteva<br />

diventare, anche per gli altri due gradi dell’unico sacramento dell’ordine, una<br />

testimonianza evangelica per una sequela sempre più spoglia di ogni forma di carrierismo<br />

e di potere clericale.<br />

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Veramente l’Agresti è stato uomo e vescovo del dialogo e dell’apertura al nuovo<br />

e tuttavia porterà sempre una certa fatica ad accogliere subito e senza resistenze<br />

le voci profetiche più dirompenti che la Chiesa germinava dal suo stesso interno.<br />

Certo s’imponeva un’opera di leale discernimento per riconoscere l’opera<br />

della grazia nella tumultuosa vicenda dell’Isolotto e in alcuni scomposti atteggiamenti<br />

postconciliari. Era attento a cogliere la lezione esemplare di don Facibeni e<br />

del suo amato cardinale, come anche l’apporto spirituale di Barsotti, di Lazzati e<br />

di Giuseppe Dossetti, ma, come riconoscerà con umiltà in seguito, non aveva strumenti<br />

adeguati per accogliere con tempismo l’antipolitica di La Pira, la parresia<br />

sapienziale di don Mazzolari e, soprattutto, la dissonante voce profetica di don Milani.<br />

Più che di resistenze, dovute a ottusità e pregiudizi davanti a chi non aveva<br />

ritegno a uscire dagli schemi preordinati, si trattava per l’Agresti di riluttanze per<br />

una concezione idealizzata e schierata della Chiesa e del cristiano che ancora assegnava<br />

uno spirito di operosa conquista alla generosa azione pastorale del ministro,<br />

immaginando che le risorse umane poste al servizio dell’apostolato potessero<br />

generare frutti di conversione abbondanti e genuini. Concezione “interventista”<br />

dell’azione pastorale che vagheggiava di superare il ritardo epocale della chiesa<br />

con una rinnovata offerta di disponibilità del cristiano al servizio disinteressato.<br />

La lotta alle forze ostili del mondo si tramutava in una ricerca di consenso, in<br />

un’attesa di successo pastorale procurato da una dubbia voglia di piacere agli uomini<br />

oltre che a Dio: dov’è scritto che i preti si devono fare amare? Carità pelosa e<br />

ambigua che rischiava di offuscare la differenza cristiana e di rendere innocuo il<br />

Vangelo, come gridava inascoltato don Milani.<br />

In quest’ottica chiaroscurale si deve riconoscere la costanza con cui da pastore<br />

perseguirà questo disegno di benevola e fiduciosa apertura al mondo e ai fratelli,<br />

ma anche verso chi si dichiarava lontano o era nell’afflizione e nella prova.<br />

L’hanno sperimentata in molti la tenacia quasi infantile con cui non si rassegnava<br />

a perdere chi si diceva in crisi, specie tra i suoi preti. Ma anche la sua scorata<br />

e penosa rinuncia quando i ponti venivano spezzati e la sua eccessiva timidezza<br />

ostacolava la ripresa di un contatto. Vocazione al dialogo e attitudine alla riconciliazione<br />

quasi come imperativo pastorale, dovuto, più che a una comprensione ingenua<br />

della storia, alla innocenza della sua visione provvidenziale di bimbo povero<br />

che aveva conosciuto i rigori del freddo e i morsi della fame, come descriverà con<br />

schiettezza e pudore nell’Elogio della fatica. Una coscienza candida conservata in<br />

un cuore di fanciullo, sempre capace di meraviglia, che non finiva di stupirsi degli<br />

splendori del creato così come di crucciarsi delle ordinarie bugie dei suoi preti e<br />

dell’invincibile doppiezza del mondo clericale. La disciplina di severa ascesi volontaristica<br />

in cui era stato formato doveva stemperarsi un po’ per volta in un abbandono<br />

fidente e lo sforzo personale di sequela doveva lasciare sempre più spazio<br />

all’umile richiesta di aiuto. Il passaggio dalla conflittualità all’accordo, dalla distanza<br />

alla fiducia non era automatico e soprattutto non poteva ignorare o saltare<br />

lo scandalo della croce. C’era già qualcuno che a metà degli anni 50, ammoniva che<br />

la ricreazione era finita e che doveva cambiare il modo di vivere il ministero, anche<br />

se ancora oggi qualcuno, in alto e in basso, non se n’è accorto. Il ritardo nel capire<br />

la dissonanza della provocazione profetica era servito all’Agresti; lo aveva<br />

educato a riconoscere per tempo la mutazione epocale avvenuta nel tessuto sociale<br />

delle nostre Chiese, come si può vedere dalla lucida Lettera inviata in occasione<br />

della Visita pastorale del 1979.<br />

Uno scritto, indirizzato «al Popolo di Dio» della sua Chiesa che segna, a mio<br />

- 9 -


avviso, un’ulteriore tappa nel cammino spirituale di maturazione e di attenzione<br />

ai «segni dei tempi». Un documento in cui si parla con afflato ispirato e poetico di<br />

una Chiesa che è insieme comunione e comunità, sempre in religioso ascolto della<br />

Parola per una catechesi sapiente e testimoniale; una chiesa “tutta ministeriale”<br />

che prega e vive dei molteplici “doni” di Cristo, affidando alla carità evangelica vissuta<br />

la sua più qualificata presenza nel territorio. Una riflessione ecclesiologica alta<br />

e sicura che con garbo e fermezza sa prendere le distanze dalla deriva consumistica<br />

della religione civile che promuove una chiesa sottoposta alle leggi di mercato<br />

e condizionata dall’omaggio interessato dei potenti. Una chiesa amorfa e inerte<br />

che non sa più dire e ascoltare profezia. Di questa parresia forte e mite verso il<br />

potere e i potenti si perderà traccia nei decenni successivi. Non sono il solo a sapere<br />

del suo impaccio mai sciolto<br />

nel presenziare alle cerimonie ufficiali dove, come lamentava, «accanto a una<br />

fascia tricolore e a una divisa si doveva incontrare uno zucchetto rosso». Non era<br />

forse «accanto ai poveri e agli ultimi il posto evangelico più indicato e felice per un<br />

vescovo»? Un atteggiamento «poco collaborativo» verso il potere politico, economico<br />

e statale che fin dal suo ingresso a Spoleto gli procurerà più di un richiamo curiale<br />

e che lo vedrà una vigilia di Natale mettersi rispettosamente in fila per riverire,<br />

«in obbedienza ai superiori», le autorità civili, come spiegherà in seguito. Nell’arcivescovo<br />

rimase sempre il segno di quell’innata attitudine alla pronta sottomissione<br />

propria dei contadini del Mugello. Una chiusura discreta ai potenti che<br />

non intaccava la sua apertura all’opera della grazia sigillata fin nelle pietre della<br />

sua amata Chiesa del Volto Santo.<br />

Quando guardo le nostre incomparabili pievi, penso alle pietre vive<br />

di cui è temprato il cammino delle popolazioni lucchesi; quando<br />

contemplo i monumenti dell’arte, penso agli invisibili monumenti<br />

di virtù costruiti per Dio dai nostri padri; quando sosto nella nostra<br />

bellissima cattedrale vedo il tempio vivo che, nelle nostre terre, sono<br />

stati e sono i miei fratelli nella fede. E se sempre mi attrae l’albero<br />

sempreverde sulla Torre Guinigi, è perché vi scopro la immortale<br />

fioritura dei nostri santi, dei nostri cristiani e la speranza che<br />

non veniamo mai meno al nostro passato, ma lo sopravanziamo in<br />

fedeltà a Cristo e alla Chiesa.<br />

Ma, finalmente, cosa ha significato, in concreto, per il vescovo Giuliano essere<br />

attento ai «segni dei tempi»? La risposta, come si sta mostrando, non è scontata<br />

ma carica di travaglio perché segna il suo stesso percorso interiore di conversione,<br />

la sua crescita spirituale, la maturazione del suo sapere teologico.<br />

Nell’immaginario collettivo l’espressione è abitualmente intesa come vigile capacità<br />

di comprensione di quanto accade attorno a noi, per capire con intelligenza<br />

e tempestività il brusco divenire del mondo e il rapido evolversi dei contesti sociali<br />

e culturali in cui viviamo. Ma questo significato, ormai sigillato da un uso abitudinario<br />

nell’immaginario collettivo, non è aderente al senso evangelico e non deve<br />

sorprendere se è usato anche in luoghi autorevoli in modo inadeguato.<br />

L’espressione biblica evocata, sēmeia tēn kairēn, s’incontra solo in Matteo<br />

(16,8) e indica non tanto la capacità di riconoscere la congiuntura spazio-temporale<br />

in cui si vive, ma di comprenderla come kairos, come vera attività prudenziale<br />

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già conosciuta da Ben Sira (42,18) come precipua attitudine divina che sa scrutare<br />

la profondità dei luoghi e dei tempi che disegnano la storia e che in Paolo diviene<br />

la stessa attività svelatrice dello Spirito che conosce i segreti e le profondità<br />

di Dio (1Cor 2,11). Nella polemica di Gesù con i farisei e sadducei in cerca di segni<br />

per credere, riferita da Matteo, Gesù afferma che il kairos è l’irrompere velato di<br />

Dio nella sua persona che culminerà nell’oscuro segno profetico di Giona, come<br />

svelamento della gloria inevidente del crocifisso: è Cristo il segno del kairos di Dio.<br />

Il percorso che dalla immediatezza del capire secondo la carne va al comprendere<br />

mediato dallo Spirito, rivela nella kenosis del Figlio tutta l’onnipotenza di Dio. È<br />

un tracciato spirituale e umano che indica quell’apertura vera e sofferta del cuore<br />

che sa riconoscere la presenza nascosta di Dio nel mistero della croce e di quanti<br />

con Cristo sono crocifissi.<br />

Si può dire che per il nostro vescovo il lento progredire nella comprensione dell’espressione<br />

matteana, dal senso comune verso quello biblico, il passare insomma<br />

dall’apertura al mondo all’apertura al mistero dell’incarnazione e della croce, accompagna<br />

la sua vita, scandisce il suo viaggio verso la stessa kenosis di Cristo. A<br />

partire dalla sua prima omelia in occasione del suo ingresso a Lucca nel ‘73, ha già<br />

chiaro il suo ruolo di pastore.<br />

Vi saluto come in un abbraccio, forte e leale, pieno di carità, per tutti<br />

e per ognuno, semplice e disarmato, come conviene a chi vuol seguire<br />

Gesù. Chi è il Vescovo? È la vostra garanzia, perché è l’evangelizzatore<br />

e il maestro della fede. Egli, che porta la chiarezza e l’interezza<br />

della fede cattolica secondo la tradizione viva della Chiesa,<br />

si fa insieme chiarificatore per tutti voi dei segni dei tempi, perché<br />

la fede sia vissuta ora, come ora chiede a noi l’umanità.<br />

[…] Perché la mia potestà è servizio ed essendo così, è umiltà e povertà<br />

e soprattutto è espropriazione di un uomo da parte di Dio, perché<br />

Dio, attraverso la miseria dell’uomo, si possa un poco mostrare<br />

a ciascuno di voi. [...]<br />

Due parole sintetizzano il modo in cui vengo a voi e sono la sintesi<br />

di tutto il Nuovo Testamento: Kénosis e Koinonía – Umiliazione e<br />

Comunione. E viene subito chiara, non tormentosa, ma precisa la<br />

croce del Vescovo, la morte cristiana, per cui il Vescovo è tale. C’è<br />

un’epigrafe in questa gloriosa cattedrale che dice: «La morte è immortale.<br />

Tutto il resto è mortale». Morte come amore senza confini.<br />

A tutti. Morte come fatica senza risparmio. Per tutti. Morte come<br />

umiltà, senza chiedere nulla per sé. Oh Dio mio, la grandezza e la<br />

verità di un Vescovo che possa minimamente raggiungere i termini<br />

di non chiedere nulla per sé! Morte come sparire, perché Dio trasparisca<br />

nella Chiesa.<br />

[…] Io sono qui per questo, come il Ponte delle Catene sulla Lima.<br />

Qui Dio mi dà la grazia di sostenervi con quella forza e con quella<br />

gentilezza, di essere ponte per cui voi possiate passare a vostro piacimento<br />

per raggiungere il vostro destino.<br />

Ecco, siamo davanti a una visione della Chiesa e del ministero quanto mai solida,<br />

biblicamente sostenuta, ricca di corrispondenze patristiche che traspira il suo<br />

gusto per la bellezza. L’esemplarità martiriale e mistica del suo amato vescovo<br />

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Ignazio di Antiochia lo spingeva verso una riflessione teologica innamorata del<br />

bello, verso un’estetica teologica vivida, fervida d’immagini e ricca di simboli nuovi<br />

e coinvolgenti che tendevano a trasfigurare l’ordinarietà della testimonianza<br />

cristiana in un percorso di luce e di gloria, di cui fanno fede anche i suoi dipinti segnati<br />

da lievità e innocenza oltre che i suoi scritti agiografici. Dal Ritratto di un’espropriata<br />

della povera Gemma, alla Vita nuova di Francesco d’Assisi, dall’Eroismo<br />

della carità di don Pietro Bonilli alla vita di S. Antonino Arcivescovo dei ronzini,<br />

si possono trovare in queste opere dal valore discontinuo, come in altri scritti<br />

di più sicura presa come l’Elogio della gratuità e Le fragole sull’asfalto, i suoi<br />

sempre più pressanti e convinti riferimenti al mistero ricapitolativo di tutta l’esperienza<br />

cristiana: il perdersi a motivo di Cristo e della sua Parola, quello svuotamento<br />

progressivo del discepolo che consegna, scrive l’Agresti, il dilatarsi schivo<br />

della gloria di Cristo nell’uomo in proporzione dell’espropriazione umile e povera<br />

accolta per amore del Vangelo.<br />

Si diceva in principio di quel filo rosso che collega in sequenza unitaria gli atti<br />

scomposti e isolati di un’esistenza cristiana; una traccia toccante di questo percorso<br />

inclusivo resta nell’immaginetta ricordo della sua ordinazione sacerdotale<br />

del ’45, dove scrive che «il vero Prete […] tanto più grande più soffre»; pensiero ripreso,<br />

forse inavvertitamente, nelle parole del suo congedo terreno nella Lettera<br />

ai diocesani pochi mesi prima di morire: «quando il vescovo più soffre, tutta la sua<br />

Chiesa viene misteriosamente promossa». E a non pochi di noi confidava: «solo ora<br />

sto imparando a essere e a fare il vescovo». Chi ha potuto ascoltare o leggere le sue<br />

ultime omelie e i suoi ultimi scritti può valutare le tappe di questo percorso di<br />

svuotamento, di rimpicciolimento che lo ha preparato a vedere «quel volto di Dio<br />

che quaggiù ha cercato con entusiasmo». Apertura ai «segni dei tempi» non vuol<br />

dire adattarsi alla triste e garrula mondanità del mondo, ma un aprirsi con timore<br />

e tremore, e tuttavia con «invincibile gaudio», allo scandalo della croce, per giudicare<br />

tutto secondo l’ottica inquietante de la «folie de Dieu», della stoltezza sconvolgente<br />

di un Dio che a programmi, a piani, a progetti senza amore, come ricordava<br />

la piccola Teresa, continua a preferire un amore senza progetti.<br />

Apertura che si consoliderà nei meandri dell’opaca ferialità, scontrandosi con<br />

la pesantezza del quotidiano con cui anche i vescovi si devono misurare. Un percorso<br />

che qui non possiamo seguire nel suo sviluppo storico ma che ha forgiato la<br />

speranza del vescovo Giuliano preparandolo ad aprirsi a Cristo crocifisso e al mistero<br />

del «dolore a goccia a goccia» verso «il viaggio mortale». Come ci hanno insegnato<br />

i sapienti scribi d’Israele solo «alla morte di un uomo si svelano le sue<br />

opere» (Sir 11,27). E di questo suo incontro con sorella morte si deve adesso accennare.<br />

Chi ha trascorso con lui all’ospedale Niguarda le notti interminabili dell’agonia<br />

sa di quel suo inesorabile sprofondare nel terreno sabbioso della prova che sopraggiunse<br />

repentina dopo l’ultima devastante operazione. Da quel momento la<br />

sua sofferenza dapprima smaniosa divenne remissiva, rassegnata ma ancora avida<br />

di ascolto anche se sembrava un «muto cercare senza invenimento».<br />

«Beppe, com’era la storia dei tre deserti, dei tre abbandoni»?<br />

— Tre sono i deserti nel cammino della vita. Il primo lo incontri, scabro e tormentoso,<br />

quando hai lasciato la vergogna dell’Egitto ma hai voglia delle sue cipolle.<br />

Il secondo, infido e rancoroso, quando scopri che nel viaggio sei solo, perché ti<br />

hanno lasciato i sicuri compagni dell’esodo gioioso. E il terzo deserto arriva quan-<br />

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do ti lascia la speranza perché lì è Dio stesso che, infine, ti abbandona. Come fu<br />

per Abramo, come accadde al Figlio sulla croce.<br />

E ancora: «Che storia è quella dell’uomo di Cirene, che c’entra lui con la croce»?<br />

— Sì, francamente la sua vicenda è banale, la sua volontà irrisa, il disegno solo<br />

casuale; non per suo desiderio o per scelta intrepida condivise le sofferenze di<br />

Cristo e ne portò la croce; ma perché costretto, perché forzato, perché violato ci dicono<br />

i vangeli (Mc 15,21; Mt 27,32e Lc 23,26).<br />

Allora s’acquietava e dalla sua pudica mutezza traeva un mormorio litanico<br />

che diveniva quasi un canto che gli procurava luce e pace:<br />

«solo così, solo così», ripeteva,<br />

«solo perché forzati<br />

si porta la sua croce;<br />

solo così, solo così».<br />

Poi fu il buio e un attendere ansioso la luce del cuore più che il bruzzolo dell’alba<br />

fino a quel suo progressivo spegnersi e tacere dove ha conosciuto la prova finale<br />

che lo ha consacrato vescovo e discepolo. L’ardente cantore del dono che aveva<br />

scritto pagine elevate sulla “santa morte” come ultima risposta d’amore da offrire<br />

all’Amore crocifisso sperimentava adesso la sua afasia interiore davanti al silenzio<br />

della Parola che «tutto scopre e taglia» e chiedeva inesausto: «quanto manca<br />

al mattino, quanto ancora»?<br />

Quando parlava della fede, anzi della «fede terribile» che lo spingeva a descrivere<br />

anche la fredda estate dei morti come dolce e gaudiosa; quando si attardava<br />

a contestare il rifiuto della morte di certa cultura disegnando scenari di speranza<br />

dove pessimisti e apocalittici erano gentilmente congedati; quando invitava ad<br />

ascoltare i mistici illuminati della fede per cacciare ogni forma di turbamento e di<br />

malinconia che facevano precipitare l’incontro con la fine in tragedia, non aveva<br />

ancora fatto esperienza del morire come continuo finire. Ma quando sorella morte<br />

per lui si svestì di ogni orpello letterario, di ogni figurazione simbolica e di ogni enfasi<br />

spirituale e, spiccia e gelida, accennò a mostrare il nulla del suo volto, allora<br />

per lui fu subito la fine. Due svuotamenti progredivano in lui di pari passo raggiungendo<br />

vertici di “vanità” e di non senso tragici e opprimenti: quello del suo incessante<br />

sciogliersi ma, soprattutto, l’impressionante e reale svuotamento divino<br />

della sancta et individua trinitas. Il suo luogo teologico di riferimento era diventato<br />

il libro del Qohelet che accostava con estremo riserbo accompagnandolo con il<br />

sospiro dei Salmi.<br />

Nell’ultima settimana il suo parlare era divenuto sempre più fioco e indistinto<br />

e mormorava suoni, fonemi per noi incomprensibili e oscuri. E quando finalmente<br />

Marisa, la sorella tenerissima, riuscì a connettere le sillabe di quello che a<br />

noi sembrava un bofonchìo lento e svigorito e gli chiese: «o Giulianino, o che tu sei<br />

tentato»? La sua risposta, accompagnata da uno sguardo che invocava conforto e<br />

sostegno, fu nitida e implorante: «a la grande, a la grande»! Per molti giorni, nell’ora<br />

della morte, aveva di continuo borbogliato quella preghiera per noi lontana e<br />

impensabile sulle sue labbra: «non c’indurre in tentazione». Uscì da questo affannoso<br />

e cupo torpore d’improvviso una mattina della metà di settembre, quando sollevandosi<br />

da solo sul letto e fissando con occhi grandi la bianca e nuda parete, con<br />

voce inaspettatamente forte e chiara, carico di stupore ci gridò: «allora c’è; l’è vero,<br />

l’è vero», appena contrariato dal nostro smarrito non capire e non vedere nulla,<br />

continuando a dire «l’è vero, l’è vero»!<br />

Negli ultimi due giorni, fu un affiorare e uno sprofondare, accompagnato da<br />

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salmi e da silenzi; ringraziamenti per molti, benedizioni per i preti in missione e<br />

per quanti gli avevano obbedito e suppliche per tutti e fu un gioire d’incontri e soprattutto<br />

di ritorni attesi e insperati. Come nel caso di quel massiccio prete lucchese,<br />

per anni lontano e in contrasto con il suo vescovo, che mostrò in quelle ultime<br />

ore un’intesa affettuosa e antica con una competenza rara nell’accudire con<br />

delicatezza a un malato terminale che stupì tutti. Di lui il vescovo Giuliano disse:<br />

«Lo aspettavo, mi doveva tornare; ha il cuore buono». Qualcuno gli fece notare che<br />

fuori a visitarlo c’erano anche quelli che s’erano lamentati di lui fino a Roma; ma<br />

lui, fermo e sereno, a dire: «io sono il vescovo di tutti».<br />

Ecco il vescovo Giuliano: un uomo e un pastore, un discepolo che si era lasciato<br />

governare dal futuro di Dio percorrendo e insegnando «la lunga via delle cose<br />

penultime». Servo accorto e amico fedele è stato trovato vigilante quando nel cuore<br />

della notte si udì il grido: «ecco lo sposo, andategli incontro». Fu pronto a incontrare<br />

il suo Dio crocifisso con l’entusiasmo del suo venerato vescovo Ignazio,<br />

«carico di amore più che di catene» e con il delirio d’amore del suo diletto Francesco<br />

che, pochi giorni prima di morire, diceva ai frati che «tutto era ancora da ricominciare».<br />

E proprio al termine del giorno delle Stimmate di san Francesco il Signore<br />

volle la sua compagnia per sempre.<br />

Il francescano padre Agostino Lundin, psichiatra svedese convertito, fondatore<br />

del Centro Ecumenico Nordico di Assisi, per molti anni suo confessore e anziano<br />

nel dolore, nell’anniversario della sua nascita al cielo volle pubblicamente testimoniare<br />

che il nostro vescovo era uno di quei pochi che non aveva mai perduto<br />

la grazia battesimale.<br />

Un albero non potato fa solo foglie, aveva scritto il vescovo Giuliano, e se oggi,<br />

vent’anni dopo, la mia testimonianza in questo luogo è stata possibile è perché anche<br />

il mio disutile dire è un frutto del suo gaudioso amore di pastore e di padre.<br />

- 14 -


Elogio della gratuità,<br />

testo che esprime il cuore del pensiero di Agresti<br />

don Piero Ciardella<br />

Il mio intervento è una specie di “comunicazione di servizio” per presentare le<br />

iniziative con cui la Diocesi di Lucca ha inteso onorare la memoria di mons. Agresti<br />

a 20 anni dalla sua scomparsa e quelle che ha in mente di realizzare nel futuro.<br />

Nella piccola nota biografica che di solito viene scritta dall’autore, apposta nella<br />

II di copertina della I edizione dell’Elogio della gratuità, si legge: «Giuliano<br />

Agresti, nato… ecc.. Nella sua molteplice attività pastorale, esercitata in larga misura<br />

anche con lo scritto, presta ecc… ».<br />

È lui stesso, dunque, a riconoscere il fatto che in larga misura il suo magistero<br />

ha preso la forma della parola scritta. Agresti ha scritto molto e su moltissimi<br />

argomenti, ed in lui la scrittura non è stata un passatempo o un autocompiacimento,<br />

ma una vera e propria vocazione. Ed è attraverso questa che Agresti può<br />

continuare ad esercitare il suo magistero per noi che lo abbiamo conosciuto, ma anche<br />

per quelli che ne hanno solo sentito parlare.<br />

Proprio per questo motivo le iniziative intraprese dalla Diocesi in questo anniversario<br />

riguardano prevalentemente la “parola scritta” di mons. Agresti. Abbiamo<br />

inteso far conoscere questo lato di Agresti che sembra essere rimasto in ombra.<br />

Infatti mentre tutti abbiamo conosciuto e apprezzato la sua infaticabile opera<br />

pastorale a Lucca e in Italia, forse ancora pochi conoscono e hanno letto le sue<br />

le sue opere. Questo anche perché i libri che ha pubblicato sono ormai da molti anni<br />

fuori catalogo. Vogliamo dunque rendere tributo a questa importante aspetto<br />

della versatile personalità di Agresti, iniziando un’opera di riscoperta delle opere<br />

pubblicate e una conoscenza delle molte ancora inedite.<br />

Procederò molto schematicamente:<br />

1. Biblioteca diocesana «Giuliano Agresti»<br />

In questi giorni, con decreto di mons. Arcivescovo, la biblioteca diocesana del<br />

seminario è stata intitolata a mons. Agresti.<br />

La biblioteca del seminario è una delle più prestigiose istituzioni culturali della<br />

nostra diocesi. Essa custodisce un patrimonio di oltre 60.000 volumi, tra cui<br />

molte cinquecentine ed incunaboli. Inoltre possiede un fondo musicale tra i più importanti<br />

d’Europa.<br />

Nella biblioteca è custodito anche il fondo di mons. Agresti composto da 9000<br />

volumi. Il fondo Agresti è catalogato e conservato in una stanza della biblioteca ed<br />

è consultabile.<br />

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Questa intitolazione è un atto di gratitudine significativo e doveroso nei confronti<br />

di un pastore che ha lasciato, anche a livello culturale, un’ampia traccia nella<br />

nostra Chiesa.<br />

2. Elogio della gratuità<br />

Abbiamo pensato di ripubblicare il libro Elogio della gratuità. Sono personalmente<br />

felice che questo prezioso volume di Agresti sia di nuovo accessibile. Si realizza<br />

un mio personale sogno. Già in occasione del X anniversario chiesi alle edizioni<br />

Paoline di ripubblicare il volume che era uscito nella collana di spiritualità<br />

“Sul monte della presenza” (una felice collana che le Paoline ha pubblicato dal<br />

1980 al 1984 ma che dal 1989 era fuori catalogo). La direttrice delle edizioni Paoline<br />

mi aveva risposto di non essere interessate e mi aveva concesso i diritti per<br />

cercare altrove una casa editrice per la riedizione. Allora non fu possibile, quest’anno<br />

invece questo progetto si è potuto concretizzare grazie all’editore lucchese<br />

BdC, che voglio pubblicamente ringraziare – nella persona di Luciano Bertolozzi -<br />

per la cura con cui lo ha realizzato. Questo volume inaugura una collana “Scritti<br />

di mons. Agresti” nella quale vorremmo, nei prossimi anni, pubblicare gli scritti<br />

inediti più significativi del vescovo Giuliano conservati nell’Archivio arcivescovile.<br />

Tra l’altro, colgo l’occasione per dire che a novembre uscirà anche un romanzo<br />

inedito di Agresti dal titolo “Il nomade” grazie alla casa editrice della comunità<br />

di san Leonino.<br />

Perché ripubblicare un libro uscito 30 anni fa? Nella mia introduzione ho cercato<br />

di motivare la scelta, e chi avrà la pazienza di leggerla troverà maggiori dettagli.<br />

In questa occasione, nel breve tempo a disposizione, mi sembra importante<br />

rilevare tre motivi: a) Innanzitutto l’attualità del tema. Proprio ieri leggevo sul domenicale<br />

del sole 24 ore un articolo di Carlo Ossola dal titolo “Il dono, vero scambio<br />

di civiltà” in cui si ripropone il tema del dono in riferimento alla prossima<br />

edizione del festival Torino spiritualità che si apre domani e che avrà come tema<br />

“GRATIS. Il fascino delle nostre mani vuote”. È un segno, oltre ad un ampia<br />

bibliografia che troverete in parte nella mia introduzione, di come in questi anni<br />

il tema della gratuità stia diventando centrale e come la categoria del dono appaia<br />

sempre di più come la via privilegiata per liberare la società dall’asfissia del profitto<br />

e del potere dell’economico. Ma non solo. In alcuni importanti documenti del<br />

magistero si riscopre finalmente il tema della gratuità. Mi riferisco, ad esempio al<br />

documento CEI dal titolo “Con il dono della carità dentro la storia”, ma soprattutto<br />

all’ultima enciclica di benedetto XVI “Caritas in veritate” in cui il tema è largamente<br />

presente e dove si dice che i rapporti umani possono essere veramente tali<br />

solo a condizione di esercitare il “principio gratuità”.<br />

Queste sono solo pochi accenni per comprendere come il tema sia oggi in antropologia,<br />

filosofia, economia, sociologia e anche in teologia di assoluta centralità,<br />

ma anche per rilevare come in questo campo, come in molti altri, Agresti sia stato<br />

anticipatore.<br />

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Spero che la pubblicazione di questo volume «dia a cesare quello che è di cesare»,<br />

ovvero contribuisca a far riconoscere il carattere anticipatorio che esso ha<br />

avuto rispetto alla discussione odierna, ma che anche serva a evidenziare la particolarità<br />

con cui Agresti si è inserito nella riflessione sul dono che dagli anni 20<br />

dello scorso secolo (anno di uscita del saggio sul dono di Marcel Maus) ha interessato<br />

la cultura laica. Infatti rispetto alla riflessione laica quella di Agresti ha il<br />

merito di aver evidenziato la gratuità del dono, aspetto che invece è negato dai più.<br />

Ma soprattutto il merito di Agresti sta nel aver radicato il discorso della gratuità<br />

su ciò che solo può dargli consistenza e credibilità, ovvero l’amore gratuito di Dio.<br />

Vengo al secondo motivo di interesse del volume. Questo libro è una lunga meditazione,<br />

scritta interamente con il cuore in mano, quasi una confessione in forma<br />

di poesia, sull’amore gratuito di Dio. Quindi questo libro vuole farci conoscere<br />

chi è Dio. Agresti ci ricorda, con insistenza, che al di là delle immagini sfigurate<br />

che spesso anche noi cristiani abbiamo dipinto, c’è un solo Dio che merita la nostra<br />

fede, quello rivelato da Gesù sulla croce: è il Dio della misericordia, che perdona<br />

non sette ma settanta volte sette, colui che mentre eravamo peccatori, quindi nella<br />

più grande distanza da lui e in una situazione da non poter rivendicare dei meriti,<br />

è morto per noi. Oltre a rivelarci il vero volto di Dio, la meditazione di Agresti<br />

risponde alla domanda “Chi siamo noi”. Noi siamo, ripete fino allo sfinimento,<br />

perché amati follemente e gratuitamente da Dio! «Siamo tutto un dono!» Non c’è<br />

niente che ci appartenga e che possiamo dire che non sia donato. Qui sta il fondamento<br />

di una nuova umanità. La civiltà dell’amore, fondata sul dono gratuito che<br />

reciprocamente ci scambiamo: nessuno riceve il dono solo per sé, ma perché questo<br />

dono sia messo virtuosamente in circolo perché tutti ne beneficino.<br />

Ma c’è un ultimo motivo che rende unico questo libro. Esso tratta di un argomento,<br />

quello dell’amore gratuito di Dio, che non è uno dei temi ma il tema principale<br />

che Agresti in tutta la sua vita ha svolto e vissuto. Per questo ritengo che<br />

sia un libro necessario per conoscere chi è Agresti e quale sia il contenuto del suo<br />

magistero. Nella introduzione ho paragonato il tema della gratuità ad un fiume<br />

carsico che percorre sommerso tutte le opere del Vescovo Giuliano, e che emerge<br />

senza “argini” proprio in questo piccolo volume. (pensate che la prima volta che<br />

agresti utilizza quel motto, che diventerà poi presente in quasi tutti i suoi scritti,<br />

e in molte delle sue omelie, “Siamo tutto un dono”, è in un libro del 1963. Questo<br />

dice come fin dagli inizi degli anni 60 il tema della gratuità era già centrale nella<br />

mente di Agresti).<br />

“Il canto ostinato” come lo chiamava lui è stato quello di ripetere che Dio è<br />

amore e che gratuitamente ci ama. Spero che vogliate comprare questo volume.<br />

Che lo leggiate e lo facciate leggere a quante più persone possibili. A chi crede perché<br />

ne riceva il dono dell’incremento della fede, a chi non crede, magari perché gli<br />

è stato narrato un Dio che non ha niente a che vedere con la rivelazione che ne ha<br />

fatto Gesù, perché scopra la bellezza di sentirsi amato. (oltre a questo è un modo<br />

per permettere di poter continuare la pubblicazione degli altri scritti inediti).<br />

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3. Canto dell’anima. Poesie e concerto<br />

Abbiamo inoltre curato la stampa di un piccolo ma prezioso documento. Sono<br />

15 poesie scritte e lette dallo stesso Agresti. Ci sembrava doveroso ricordare la personalità<br />

poliedrica di mons Agresti anche con uno sguardo alla sua spiccata attitudine<br />

artistica. Questo sguardo all’amore di Agresti per l’arte ci fa conoscere un<br />

lato, forse meno noto, ma che è essenziale per cogliere il senso del suo magistero.<br />

Infatti è centrale nella vita di Agresti la ricerca del bello. Abbiamo per questo voluto<br />

iniziare il ricordo di Agresti con un concerto di musiche bachiane a lui dedicato.<br />

Al termine del concerto, ho raccolto la testimonianza – non richiesta ma<br />

spontanea – del maestro Herbert Handt il quale commosso mi ha voluto dire quanto<br />

avesse stimato Agresti, e quanto fosse stato colpito dalla sua musicalità. «Era<br />

un vero musicista, mi ha detto, con lui abbiamo parlato di Musica e quando si è<br />

trattato di aiutare e favorire la musica l’ha sempre trovato disponibile».<br />

A fronte di questa sua spiccata capacità artistica, testimoniata dalle sue poesie<br />

dai suoi quadri, colpisce il fatto che non abbia dedicato al tema della bellezza<br />

una particolare riflessione. Senza dubbio sono onnipresenti nelle sue opere e nelle<br />

sue omelie i riferimenti alla bellezza. Quello che intendo dire è che, a fronte della<br />

centralità che la bellezza ha avuto nella vita di Agresti, manca una approfondita<br />

considerazione teologica del tema. Ha scritto l’elogio della fatica, della gratuità,<br />

una teologia della gioia, ma non una teologia della bellezza, pur avendo tutta la<br />

competenza e la sensibilità per farlo. Se da una parte manca in Agresti una “teologia<br />

estetica”, si può dire che la sua sia stata una “estetica teologica”, dove il contenuto<br />

di ciò di cui di volta in volta parlava o scriveva fa tutt’uno con la bellezza<br />

della forma. Si perde la ricchezza del contenuto se si prescinde dalla sua forma.<br />

Oserei di più: non solo in Agresti forma e contenuto sono inscindibili, ma anche<br />

il suono della sua voce è parte integrante di forma e contenuto. In Agresti anche<br />

il tono della voce contribuisce a dare forza e a comunicare in maniera quasi<br />

performativa. Certo si può leggere e troviamo sempre incredibilmente bello, il suo<br />

modo di scrivere ma attraverso la sua voce le parole si caricano di profondità e di<br />

significati particolari. Leggevo sulle pagine di Avvenire di due domeniche fa questo<br />

giudizio riferito a Henry Newman:<br />

«La sua voce dal pulpito possedeva un fascino veramente speciale. Sono sicura<br />

che nulla di tale fascino sia andato perduto e anche che, col passar del tempo,<br />

esso sia ulteriormente cresciuto: infatti, se c’è un tratto comune che emerge dagli<br />

scritti, è che tutti hanno una “voce”, una voce che è sua e di nessun altro. E perlomeno<br />

per me, questa voce non manca mai di risuonare con eccezionale intensità<br />

dalle sue pagine, per quanto vecchio e ammuffito sia il libro che le contiene»<br />

Per non perdere questa «inconfondibile» voce, abbiamo corredato il fascicolo<br />

con la voce stessa di Agresti che recita le sue poesie. Ma non solo. In occasione di<br />

questo anniversario abbiamo fatto una ricerca presso le teche della RAI. Cercavamo<br />

la registrazione di quei colloqui mattutini che andarono in onda nell’estate del<br />

1987 che poi Cittadella ha pubblicato nel volume “Tempo pellegrino”. Abbiamo sco-<br />

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perto con meraviglia che la RAI conserva molte registrazioni audio e video di Agresti,<br />

a partire dal 1961. Stiamo aspettando che ce ne mandino una copia, così da<br />

avere questa ulteriore testimonianza che troveremo poi il modo di rendere usufruibile<br />

a quanto lo vorranno.<br />

Stiamo cercando anche di recuperare le registrazioni delle sue omelie. Ardelio<br />

Pracchia ha seguito fedelmente Agresti e registrando ogni sua omelia. Le registrazioni<br />

custodite dalla Figlia Maria Eletta (che ringrazio per aver concesso l’autorizzazione<br />

a duplicare quelle delle poesie) sono andate perse. Cogliamo l’occasione<br />

per chiedere a chi avesse notizie di dove sono andate a finire queste registrazioni<br />

a comunicarcelo. Come pure invitiamo tutti quelli che avessero registrazioni<br />

a darcene una copia così da poterle conservare nell’Archivio.<br />

4. Infine un auspicio per il futuro…<br />

Dopo 20 anni l’archivio dei manoscritti del vescovo Giuliano attende ancora di<br />

essere ordinato e reso fruibile, attraverso un catalogo on line, al pubblico degli studiosi<br />

1 . Il materiale è conservato nel nostro Archivio e comprende oltre che gli atti<br />

ufficiali del suo ministero, la sua corrispondenza e una grande quantità di carte<br />

in cui sono vergate conferenze, lezioni, omelie, libri, dispense del suo insegnamento,<br />

poesie…. Una quantità enorme di materiale (oltre cento faldoni) che dice, non<br />

solo la vastità degli argomenti che Agresti ha trattato, ma anche quanto per lui<br />

fosse importante la scrittura, una esigenza vitale. Ci auguriamo che nei prossimi<br />

anni si possa finalmente consultare, almeno, dandoci delle scadenze lunghe per<br />

non rimanere poi delusi, il 1 centenario della sua nascita che sarà nel 2021.<br />

È in corso la pubblicazione in CD delle omelie e altri interventi a voce<br />

del vescovo Agresti. Chi avesse nastri con la registrazione di suoi interventi<br />

è invitato a prestarli per poter trascrivere il maggior numero<br />

possibile di interventi. Contattare don Alberto Brugioni.<br />

1. In questi anni si è cominciato a studiare la figura e l’opera di Agresti. Tra gli studi a noi noti ricordiamo<br />

quattro tesi. Le prime due sono state discusse presso l’Università di Firenze negli anni<br />

2003-2004 e dirette dal prof. Domenico Maselli: La prima riguarda il periodo lucchese: CRI-<br />

STINA FERMANI, L’esperienza pastorale di mons. Agresti vescovo di Lucca. La seconda è di carattere<br />

più ampio e riguarda la vita e le opere di Agresti: MOIRA BARTOLI, Giuliano Agresti un profeta<br />

del XX secolo. Una tesi è stata discussa all’Università di Pisa. L’autore è GIOVANNI LEVAN-<br />

TINI che ha lavorato sulla riforma liturgica a Lucca guidato dal prof. Cesare Alzati. La tesi è stata<br />

successivamente pubblicata: La liturgia epifania della Chiesa. La riforma liturgica a Lucca<br />

durante gli episcopati di E. Bartoletti e G. Agresti, EDB, Bologna 2007. Infine, presso l’Istituto<br />

Interdiocesano di Scienze Religiose di Viareggio, PIERLUIGI MONTEMAGNI ha discusso nel 2001<br />

una tesi, diretta dal prof. Piero Ciardella, dal titolo: La profezia del dono. Aspetti antropologici<br />

della gratuità in Giuliano Agresti arcivescovo di Lucca.<br />

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