L'ARCO E LA LIRA - Rocco Li Volsi – Saggi
L'ARCO E LA LIRA - Rocco Li Volsi – Saggi
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L’ARCO E <strong>LA</strong> <strong>LIRA</strong><br />
Profilo di Eraclito di Efeso<br />
La saggezza professata pubblicamente, la saggezza scritta e giustificata, fa la sua prima comparsa in Grecia con Esiodo, legata al<br />
mito (Teogonia) o alla sacralità del lavoro e del tempo (Le opere e i giorni). Ma la saggezza pubblica era sempre esistita come<br />
ordinamento politico-sociale, del quale Omero rispecchia il cammino dell’areté aristocratica.<br />
Un tale ordinamento si perde nelle origini della stirpe greca e nel ceppo indoeuropeo da cui germoglia. Così, se noi vogliamo<br />
trovare delle testimonianze scritte, dopo Esiodo, dobbiamo ridiscendere fino a personaggi posti tra il mito e la storia, quali Dracone,<br />
<strong>Li</strong>curgo, Solone, del quale ci rimane un certo numero di frammenti e riferimenti posteriori.<br />
Con Solone ci troviamo già in un’età che potremmo dire di transizione: quel periodo nel quale pare determinarsi più<br />
esplicitamente un pensiero riflesso, grazie soprattutto alla presenza di forti personalità: i così detti ‘saggi’, che la tradizione ha fissato<br />
in numero di sette.<br />
Il pensiero ‘puro’ sta affacciandosi sull’agorá del mondo, facendosi strada tra la saggezza empirica della vita privata (ma legata a<br />
quella pubblica) e la saggezza religioso-politica della vita pubblica (ma legata a quella privata).<br />
Interessi teorici (di ordine matematico) o politici (di ordine costituzionale relativo al sorgere di colonie desiderose di determinarsi<br />
secondo modalità non del tutto conformi a quelle della patria d’origine), uniti certamente a quelli di coscienza, nati attorno ai responsi<br />
oracolari, hanno spinto l’uomo greco a temprare il pensiero umano nella brace infuocata della necessità delle cose.<br />
Platone dirà che la filosofia è figlia della meraviglia: quel non comprendere e voler comprendere che differenzia gli uomini dai<br />
bruti, ai quali nulla appare sproporzionato e incongruo al loro istinto.<br />
L’uomo arcaico, l’uomo anteriore a quel ‘miracolo ellenico’ che è la generazione del pensiero riflesso, ci appare vivere una<br />
condizione di fede nell’insieme delle norme della tradizione, che, nella sua oggettività sacrale, esclude ogni chiarimento e ricerca.<br />
Il suo ‘luogo’ è la memoria; e ad essa ancora si appella Esiodo per fondare la legittimità della propria sapienza; più tardi, Platone<br />
avanzerà il ‘mito della reminiscenza’.<br />
Per la mentalità arcaica tutto è già dato, tutto già compiuto in maniera definitiva: la giustizia consiste nel rimanere fedeli alle<br />
prescrizioni degli antenati, alle leggi degli Dei, all’atto della creazione e alla sua struttura.<br />
Dei due ambiti, del sacro e del profano, solo quest’ultimo è suscettibile di trasformazione, data la sua inessenzialità per la vita<br />
dell’uomo arcaico.<br />
Ed è in quest’ambito, com’è noto, che, ampliando la propria superficie a scapito del sacro, il ‘pensiero laico’ emergerà: il sacro,<br />
ridotto sempre più ai soli riti iniziatici, entrerà in aperta collisione con la razionalità, divenendo per molti incomprensibile e<br />
inaccettabile credenza, completamente sottratto alla possibilità dell’analisi della ragione.<br />
Per il sacro arcaico, il pensiero, incapace di salvezza, rimane una dimensione del contingente quotidiano, privo, come appare, di<br />
legami con l’archetipo che vive nella memoria.<br />
Il pensiero è un errare tra le cose, un connettere la realtà sensibile e l’uomo ad un livello di superficialità inessenziale che non<br />
riesce ad affondare le radici nell’ontologico.<br />
Il pensiero, inferiore persino all’immaginazione, almeno all’immaginazione poetica, non attinge il divino: il suo regno è solo di<br />
questo mondo.<br />
Eppure proprio Eraclito, l’iniziatore della tendenza laica occidentale, è un pensatore fortemente arcaico, e non scinde, non vuole<br />
scindere, il pensiero dal sacro, ma se mai stringerli insieme e farne un tutt’uno nel concetto del Logos divino.<br />
In realtà, proprio per l’impossibilità di poter pensare il Logos come qualcosa di più che un semplice ordinamento del mondo,<br />
disancorato com’è da un principio più profondo, Eraclito può a ragione essere considerato un pensatore laico; e Platone, che di lui<br />
prenderà gran parte del pensiero, sarà costretto ad un lavoro immane e complesso per poter mostrare che non v’è scollatura tra sacro e<br />
pensiero, e che il pensiero laico solo in quanto opinione è capace di distinguersi dalla vera conoscenza, e per ciò stesso costretta ad<br />
errare tra le cose, e a subire dalle cose il senso utilitaristico imposto ad esse dall’egoismo dell’uomo ormai da se stesso fuorviato.<br />
E tuttavia Eraclito è fortemente arcaico per la unitarietà della concezione di vita, poiché non è il suo un pensiero totalmente<br />
riflesso: esso esprime piuttosto il tentativo di strutturare la vita del singolo e della polis su quel Logos che struttura dell’intera,<br />
multiforme complessità delle cose.<br />
* * *<br />
Aristocratico di nascita, forse di stirpe regale, 1 coltivò un carattere che lo allontanò progressivamente non solo dalle tendenze<br />
democratiche che si andavano affermando ad Efeso, ma dall’intero consorzio umano, tanto che nei suoi ultimi anni si ritirò nella<br />
solitudine dei boschi della sua patria.<br />
Impossibilitato a vivere tra i suoi concittadini senza rompere l’intera coerenza razionale del suo carattere, la solitudine non gli si<br />
presentava come una rinuncia, o peggio, una sconfitta, quanto piuttosto come la liberazione da tutto quel complesso di irrazionalità<br />
che lo circondava e lo soffocava, poiché Efeso gli appariva sempre meno una polis: il luogo geometrico della giustizia e degli uomini,<br />
sebbene la giustificazione di tutti gli egoismi individuali.<br />
Aristocratico di nascita, egli si poneva a equidistanza tra la tirannide e la democrazia, vedendo in entrambe queste forme di<br />
governo nient’altro che lo sfrenato interesse di uno o di tutti, e per ciò un’evidente deviazione della razionalità: cecità umana,<br />
malvagia ignoranza.<br />
L’areté aristocratica implica il rispetto della disuguaglianza tra disuguali, e la ragione non fa che fondare questa discriminazione.<br />
Ma proprio questa differenziazione combattono e cercano di estirpare i suoi concittadini, contro i quali per tal motivo egli scaglia la<br />
sua veemente invettiva: “Bene farebbero gli Efesi ad impiccarsi tutti, quanti sono in età adulta, e a consegnare la città ai fanciulli<br />
imberbi, essi che hanno esiliato Ermodoro, il più capace di tutti loro, con queste parole: tra noi nessuno sia eccellente per capacità,<br />
ma, se vi è, vada altrove in mezzo ad altri.” 2<br />
1 Diogene Laerzio: Vite dei filosofi; IX 9. Editori Laterza.<br />
2 I Presocratici. Testimonianze e frammenti; 22 Eraclito B 121. Editori Laterza.
L’eguaglianza che bandisce i migliori non è certo giustizia; e con forza ribadisce: “Uno è per me diecimila, se è il migliore.” 3<br />
La brama di ricchezza sembra essere la causa del traviamento degli Efesi, se con amaro sarcasmo così si rivolge loro: “Che la<br />
ricchezza possa non abbandonarvi mai, o Efesi, affinché possiate dar prova di quale infelice condizione è la vostra.” 4<br />
Nata come colonia ateniese, Efeso dovette aprirsi al commercio mediterraneo o almeno egeo, raggiungendo certamente una<br />
floridezza elevata, data la sua posizione quanto mai favorevole alle rotte commerciali.<br />
Ma la ricchezza appare ad Eraclito il segno della decadenza dell’antica areté aristocratica: “Rispetto a tutte le altre una sola cosa<br />
preferiscono i migliori: la gloria eterna rispetto alle cose caduche; i più invece pensano soltanto a saziarsi come bestie.” 5<br />
L’antagonismo tra verità e opinione, tra ragione e sensazione, tra qualcosa di assoluto e ciò che è relativo, che caratterizza il<br />
pensiero di Eraclito, appare qui a livello sociale o individuale come contrasto tra aristocrazia e democrazia, tra ideali dello spirito e<br />
desideri materiali.<br />
La vera felicità non sta nel puro piacere, né nella soddisfazione del proprio tornaconto: “se la felicità si identifica con i piaceri del<br />
corpo, diremmo felici i buoi quando trovano cicerchie da mangiare”. 6 La tesi sofistica dell’identità tra felicità e piacere è<br />
l’espressione della inautenticità della vita vissuta dagli Efesi: vita puramente esteriore e dunque falsa e contradittoria, come è possibile<br />
notare nei loro stessi riti religiosi: “Si purificano contaminandosi con altro sangue, come se uno, immergendosi nel fango, si lavasse<br />
con il fango. Chi osservasse un uomo fare questo, lo riterrebbe pazzo. E si mettono a pregare siffatte immagini, come se uno si<br />
mettesse a chiacchierare con le mura delle case, ignorando chi sono gli dèi e gli eroi”. 7<br />
È evidente lo spirito critico di Senofane di Colofone, di cui certo conobbe il pensiero. E la critica non è rivolta soltanto ai suoi<br />
concittadini: essa investe il modo antropomorfico degli uomini di concepire il divino. “Infatti le iniziazioni ai misteri che sono in uso<br />
tra gli uomini sono empie”. 8<br />
Ne è prova il fatto che “Se non fosse per Dioniso che fanno le processioni ed intonano il canto del fallo, essi compirebbero le cose<br />
più indecenti; ma identici sono Ade e Dioniso, per il quale delirano e celebrano le Lenee”; 9 quasi a dire che un rito di vita diviene per<br />
loro un rito di morte.<br />
Il divario tra Eraclito e i suoi concittadini è totale: sul piano religioso, sulla concezione di vita, sugli ideali politici. E tuttavia essi<br />
gli chiesero di dare una costituzione alla città; 10 richiesta che ci sorprende, e che può forse essere spiegata con il supporre la grande<br />
fama di sapiente di cui probabilmente ormai godeva, e una sorta di loro ammirazione superstiziosa nei suoi confronti. Egli tuttavia<br />
“rifiutò, per la ragione che la città era ormai dominata da una cattiva costituzione”. 11<br />
La mentalità democratica, di cui Eraclito li aveva accusati, li faceva probabilmente insofferenti delle leggi, e nello stesso tempo<br />
bisognosi di esse: li rendeva un popolo incapace di quella fermezza di carattere a cui tutta la filosofia eraclitea tende. Essi avrebbero<br />
certo potuto difendere la loro città, ma non la loro costituzione; e invece “È necessario che il popolo combatta in difesa della legge<br />
come in difesa delle mura”. 12<br />
Disgustato dalla mentalità opportunistica dei suoi concittadini, si allontanò sempre più da loro: “Ritiratosi nel tempio di Artemide,<br />
si mise a giocare ai dadi con i fanciulli: agli Efesi che gli si facevano attorno disse: ‘Perché vi meravigliate, o malvagi? Non è forse<br />
meglio far questo che occuparsi della città in mezzo a voi?’” 13 E ancora: “Si dice che una volta, interrogato perché tacesse, rispose:<br />
‘Affinché voi possiate cianciare’.” 14<br />
E tuttavia egli non abbandonò la sua terra natia: “Demetrio negli ‘Omonimi’ dice che Eraclito dispregiò anche gli Ateniesi, presso<br />
i quali godeva di grande fama, e che, pur essendo dispregiato dagli Efesi, scelse piuttosto la sua patria”. 15<br />
Non solo presso i Greci era ritenuto uomo superiore: anche presso i ‘barbari’ il suo nome era famoso, tanto che “Anche Dario<br />
desiderò di attrarlo a sé, e gli scrisse la seguente lettera:<br />
Il re Dario, figlio di Istaspe, manda a salutare Eraclio il saggio di Efeso.<br />
Tu hai scritto un libro sulla natura che è difficile a intendersi e difficile a interpretarsi. Se sono interpretati alcuni luoghi<br />
rettamente in modo conforme alle tue parole, il significato consiste in una teoria di tutto il cosmo e di tutti i fenomeni che in esso si<br />
verificano, e che dipendono dal movimento del divino. Ma nella maggior parte dei casi non si perviene ad un sicuro giudizio, così che<br />
i più esperti letterati rimangono in dubbio sul retto significato della tua opera. Per ciò il re Dario, figlio di Istaspe, vuole essere reso<br />
partecipe del tuo insegnamento e della cultura greca. Vieni al più presto possibile al mio cospetto e la mio palazzo reale. Per lo più, i<br />
Greci non tengono in particolare distinzione i sapienti e trascurano gli eccellenti precetti che essi danno per una seria e nobile<br />
formazione culturale. Ma alla mia corte ti assicurato ogni privilegio ed una conversazione quotidiana bella e nobile ed un tenore di<br />
vita adeguato al merito dei tuoi consigli.<br />
La risposta di Eraclito fu questa:<br />
Eraclito di Efeso saluta il re Dario, figlio di Istaspe.<br />
Tutti coloro che vivono sulla terra rimangono molto lontani dalla verità e dalla giustizia e, a causa della loro miserabile follia,<br />
attendono intensamente a soddisfare la loro insaziabilità ed ambiscono la gloria popolare. Io che sono immemore di ogni malvagità e<br />
rifuggo dall’insolente sazietà di ogni aspirazione, che è congiunta con l’invidia, e disdegno la magnificenza, non posso venire alla<br />
terra dei Persiani, contento del poco, secondo le esigenze della mia mente.<br />
3 Ivi, B 49.<br />
4 Ivi, B 125 a.<br />
5 Ivi, B 29.<br />
6 Ivi, B 4.<br />
7 Ivi, B 5.<br />
8 Ivi, B 14.<br />
9 Ivi, B 15.<br />
10 Ivi, A 1.<br />
11 Ivi, A 1.<br />
12 Ivi, B 44.<br />
13 Ivi, A 1.<br />
14 Ivi, A 1.<br />
15 Ivi, A 1.<br />
2
Tale si mostrò l’uomo anche di fronte ad un re.” 16<br />
Non poteva essere certo il desiderio di potere ad attrarlo alla corte del Gran Re, lui che “rinunciò […] al potere regale in favore<br />
del fratello.” 17<br />
Da qui la fama di superbo che ebbe presso i contemporanei e i posteri. “Fu altero quant’altri mai e superbo, com’è chiaro anche<br />
dal suo scritto, nel quale dice: ‘Sapere molte cose non insegna ad avere intelligenza: l’avrebbe insegnato ad Esiodo, a Pitagora e poi<br />
a Senofane e a Ecateo.” 18<br />
* * *<br />
“Eraclito, filosofo della natura, fu chiamato l’oscuro”. 19 Egli scrisse un libro Sulla natura, ma né lo scrisse in forma facilmente<br />
comprensibile, né lo divulgò; infatti “Eraclito depose il suo libro nel tempio di Artemide, avendo deciso interiormente, secondo<br />
alcuni, di scriverlo in forma oscura, affinché ad esso si accostassero [solo] quelli che avevano la capacità e affinché non fosse<br />
dispregiato per il fatto di essere alla portata del volgo.” 20 Dedicato alla dea cacciatrice, doveva essere un abile cacciatore della verità<br />
colui che avrebbe dovuto impossessarsi del suo pensiero. E infatti, non senza rammarico per la perdita di una tale opera, udiamo il<br />
giudizio di Socrate su di esso: “Dicono che Euripide, dandogli il libro di Eraclito, chiedesse a Socrate: ‘Che te ne sembra?’ e<br />
Socrate: ‘Ciò che ho capito è eccellente, e penso che lo sia anche ciò che non ho capito; ma forse bisognerebbe essere un tuffatore<br />
delio.’” 21<br />
L’oscurità del suo pensiero rendeva persino dubbio l’argomento trattato, se il grammatico Diodoro, a detta di Diogene Laerzio,<br />
“nega che il libro trattasse della natura, e afferma che invece riguardasse la politica, essendovi le questioni naturali solo a mo’ di<br />
esempio.” 22 “Altri lo definiscono regola dei costumi, unico ordine della vita di tutti.” 23<br />
Del resto, “Talvolta nel suo scritto si esprime anche in modo evidente e chiaro, sì che anche la persona più ottusa può facilmente<br />
comprenderlo e ricavarne elevazione dell’anima; incomparabili sono la brevità e la profondità del suo modo di esprimersi.” 24 La sua<br />
parola la si può a volte avvicinare alla parola oracolare del dio: “Il signore, - afferma egli stesso <strong>–</strong> il cui oracolo è a Delfi, non dice né<br />
nasconde, ma indica.” 25 Eraclito, quasi in forma profetica, né tace la verità, né l’insegna: come Apollo, neppure lui intende<br />
semplicemente insegnare, ma piuttosto insegna ad apprendere.<br />
Egli stesso, “Non fu discepolo di alcun filosofo, ma tutto apprese da sé, grazie alla sua indole e al continuo studio.” 26 “Fin dalla<br />
fanciullezza suscitò stupore: da giovane diceva di non saper nulla; divenuto adulto, diceva di sapere tutto. Non ebbe alcun maestro,<br />
ma asseriva di aver indagato se stesso.” 27<br />
È questa la prima grande parola dell’Efesio: “Ho indagato me stesso”, 28 quasi risposta al ‘Conosci te stesso’ del tempio di Delfi.<br />
Ancora radicato saldamente nella cultura arcaica, egli concepisce il sapere come scoperta soggettiva della verità, o meglio, una<br />
scoperta di se stessi nella verità. Compito arduo dunque, sforzo immane, per quanto modesto possa apparire, agli occhi di coloro che<br />
non sanno riconoscere il valore della propria anima, il tesoro da trovare: “Coloro che cercano l’oro, scavano molta terra, ma ne<br />
trovano poco.” 29<br />
È una lotta contro l’insignificanza della vita, contro la superficialità delle opinioni comuni, ma anche contro le nostre sesse<br />
passioni, poiché “È difficile combattere contro il desiderio, ciò che vuole, infatti, lo compra pagandolo con l’anima.” 30<br />
Pure, così si forma l’uomo, così l’uomo diviene guida a se stesso, poiché “Per l’uomo il carattere è il suo demone.” 31 Occorre<br />
lottare e vigilare; vigilare come l’anima vigila sulla sua salda unione con il proprio corpo; vigilare come il ragno nel mezzo della sua<br />
tela: “Come il ragno <strong>–</strong> dice <strong>–</strong> stando nel mezzo della tela, immediatamente avverte quando una mosca spezza qualche suo filo e corre<br />
lì celermente, quasi provasse dolore per la rottura, così l’anima dell’uomo, ferita in qualche parte del corpo, vi corre celermente,<br />
quasi non riesca a sopportare la ferita del corpo, al quale è congiunta saldamente e secondo precisa proporzione.” 32<br />
Occorre lottare per generare in noi quella condizione particolare e preziosa che è la speranza, ché “Se non spera, non troverà<br />
l’insperabile, perché è introvabile e inaccessibile.” 33 Il raggiungimento di se stessi è un ritrovamento di noi stessi, è la nostra<br />
trasformazione, non una semplice acquisizione di dati. Essa non si può insegnare: è inesprimibile; non si può ricercare: è introvabile;<br />
non si può raggiungere: è inaccessibile. Non ha niente a che vedere con l’erudizione, con il sapere comune, con il molto sapere: “Il<br />
molto sapere, cattiva arte.” 34 E anche “Omero è degno di essere cacciato dagli agoni e di essere frustato, ed egualmente Archiloco.” 35<br />
Difficile è infatti la sapienza: facile invece fingerla; ma “Anche colui che alla prova è il più stimato conosce e conserva solo opinioni;<br />
16 Diog. Laert. IX 12-14<br />
17 I Presocratici; A 1.<br />
18 Ivi, B 40.<br />
19 Ivi, A 1 a.<br />
20 Ivi, A 1.<br />
21 Ivi, A 4.<br />
22 Ivi, A 1.<br />
23 Ivi, A 1.<br />
24 Ivi, A 1.<br />
25 Ivi, B 93.<br />
26 Ivi, A 1 a.<br />
27 Ivi, A 1.<br />
28 Ivi, B 101.<br />
29 Ivi, B 22.<br />
30 Ivi, B 85.<br />
31 Ivi, B 119.<br />
32 Ivi, B 67 a.<br />
33 Ivi, B 18.<br />
34 Ivi, B 77.<br />
35 Ivi, B 42.<br />
3
ma Dike coglierà sul fatto gli artefici e i testimoni di menzogne.” 36<br />
Eppure, fine dell’uomo è proprio questo identificarsi con la verità, questo crescere nella verità che è il conoscere se stessi: fine di<br />
ogni uomo, perché la vita umana di per sé ha per meta la sapienza: “Ad ogni uomo è concesso conoscere se stesso ed esser saggio.” 37<br />
E però, ai più manca la volontà di essere se stessi; né sanno neppure cosa essi siano e come il divino abiti in loro: logos ovunque<br />
presente, da cui essi si rendono assenti: “Da questo logos, con il quale soprattutto continuamente sono in rapporto e che governa tutte<br />
le cose, essi discordano e le cose in cui ogni giorno si imbattono essi le considerano estranee.” 38<br />
Gli uomini vivono la paradossale situazione di discordanza da ciò che è il loro profondo e divino essere, dal divino che è nelle<br />
cose: infatti “La maggior parte delle cose divine […] sfugge alla conoscenza per incredulità.” 39<br />
L’incapacità di figgere lo sguardo al di là dell’immediato sensibile è mancanza di fede, cecità della mente. Da qui la cesura tra<br />
umano e divino, tra l’uomo e se stesso, e infatti “Per la divinità tutte le cose sono belle, buone e giuste; gli uomini invece alcune cose<br />
ritengono ingiuste altre giuste.” 40 Fattisi criterio di giudizio a se stessi, essi perdono l’universalità e l’oggettività della norma, in sé<br />
assoluta perché divina. Così, finiscono per ingannare se stessi, snaturando il senso della vita, che del resto neppure conoscono; e<br />
questo smarrimento del senso dell’essere perpetuano di generazione in generazione: “Una volta nati desiderano vivere e avere il loro<br />
destino di morte <strong>–</strong> o piuttosto riposare <strong>–</strong> e lasciare figli, in modo che altri destini di morte si compiano.” 41<br />
Non era dunque di superbia questa sua parola tagliente rivolta agli uomini, lui che aveva detto: “Bisogna spegnere la superbia<br />
ancor più dell’incendio.” 42 Ma il suo sguardo non riesce più a sopportare il mondo degli interessi umani, quel mondo a cui sono<br />
rivolte le vane aspirazioni di tutti: “Che si avveri tutto quanto desiderano non è certo meglio per gli uomini.” 43 Essi hanno perso il<br />
punto di riferimento dei loro più profondi desideri, né sanno distinguere quali cose giovino, quali in realtà siano loro nocive. Si può<br />
dire che “La maggior parte degli uomini non intendano tali cose, quanti in esse s’imbattono, e neppure apprendendole le conoscono,<br />
pur se ad essi sembra.” 44<br />
Un profondo pessimismo affiora di continuo dalle parole di Eraclito: gli uomini non si accorgono di essersi allontanati dal logos:<br />
non ascoltano la sua voce, e anche ascoltandola non riescono più ad intenderla: “Assomigliano a sordi coloro che, anche dopo aver<br />
ascoltato, non comprendono; di loro il proverbio testimonia: ‘Presenti, essi sono assenti.’” 45 Proprio quell’essere che, a differenza<br />
degli altri, ha avuto in sorte una meta e un cammino per raggiungerla, proprio costui sembra errare nella vita, senza accorgersi che la<br />
vita stessa è la strada, così che possiamo parlare dell’uomo come “di colui che ha dimenticato dove porta la strada.” 46 Egli ha<br />
dimenticato che la vita è la sua anima e che “È proprio dell’anima un logos che accresce se stesso”: 47 “Per quanto tu possa<br />
camminare, e neppure percorrendo l’intera via, tu potrai mai trovare i confini dell’anima: così profondo è il suo logos.” 48<br />
Un compito arduo e semplice nello stesso tempo è stato dato all’uomo: egli deve imparare a conoscersi come razionalità; deve<br />
imparare a seguire quel divino logos che egli stesso è, di cui è parte, anche se un immenso abisso lo separa dalla divinità; infatti<br />
“L’uomo ha fama di fanciullo di fronte alla divinità, così il bambino di fronte all’uomo.” 49 Egli è simile all’ubriaco, incapace di<br />
guidare se stesso: “L’uomo, quando è ebbro, è condotto barcollante da un fanciullo imberbe, senza comprender dove va, dal momento<br />
che la sua anima è umida.” 50 E ancora: egli è simile al morto, perché “Morte è quanto vediamo stando svegli, sonno quanto vediamo<br />
dormendo.” 51 Così, per Eraclito, la vita umana, priva com’è di sapienza, è cieco errare di ubriaco, è visione illusoria di sogno, è il<br />
nulla della morte.<br />
Il ‘conosci te stesso’ diviene nel filosofo di Efeso introspezione ontologica: tentativo di fondare se stesso sulla ragione che<br />
struttura tutte le cose. Di essa possiamo cogliere il fluire e la sua direzione, ed inserirci in essa: tutta non è dato abbracciare: infinito è<br />
il logos.<br />
* * *<br />
L’indagine introspettiva di Eraclito non è disgiunta da quella rivolta alla realtà sensibile, anzi fa tutt’uno con essa. Con chiarezza<br />
egli afferma: “Preferisco quelle cose di cui c’è vista, udito ed esperienza.” 52 E tuttavia, fermarsi al primo contatto con il mondo<br />
sensibile è l’errore degli uomini, poiché “Occhi e orecchie sono cattivi testimoni per gli uomini che hanno anime barbare.” 53 Quanto<br />
nasce dalle sensazioni, nella sua immediatezza, non è che opinione, e “l’opinione è un male caduco.” 54 Ciò che l’uomo deve<br />
perseguire, al di là dell’ovvietà dell’esperienza sensibile, è la propria perfezione, la propria virtù; cioè, quel parametro razionale del<br />
conoscere e del fare che è il logos delle cose; infatti, “Massima virtù è esser saggi, e la sapienza consiste nel dire e nel fare cose vere,<br />
comprendendole secondo la loro natura.” 55<br />
36 Ivi, B 28.<br />
37 Ivi, B 116.<br />
38 Ivi, B 72.<br />
39 Ivi, B 86.<br />
40 Ivi, B 102.<br />
41 Ivi, B 20.<br />
42 Ivi, B 43.<br />
43 Ivi, B 110.<br />
44 Ivi, B 17.<br />
45 Ivi, B 43.<br />
46 Ivi, B 71.<br />
47 Ivi, B 115.<br />
48 Ivi, B 45.<br />
49 Ivi, B 79.<br />
50 Ivi, B 117.<br />
51 Ivi, B 21.<br />
52 Ivi, B 55.<br />
53 Ivi, B 107.<br />
54 Ivi, B 46.<br />
55 Ivi, B 112.<br />
4
Ora, “È necessario che coloro che parlano adoperando la mente si basino su ciò che è comune a tutti, come la città sulla legge, ed<br />
in modo ancora più saldo. Tutte le leggi umane infatti traggono alimento dall’unica legge divina: giacché essa domina tanto quanto<br />
vuole e basta per tutte le cose e avanza per di più.” 56 Tutto l’universo e gli esseri che in esso si trovano sono mossi e guidati da<br />
quell’“unica legge divina”: e ciò si può ripetere con maggior forza dicendo che “ogni animale è condotto al pascolo dalla frusta del<br />
dio.” 57<br />
Forte è il senso dell’unità del logos eracliteo: esso è una razionalità in sé unitaria, unica per tutte le cose. È una legge costante e<br />
organica, alla quale tutto sottostà e ubbidisce: “Legge è anche ubbidire alla volontà di un solo.” 58 La legge è per definizione comune a<br />
tutti: “Bisogna dunque seguire ciò che è comune. Ma pur essendo questo logos comune, la maggior parte degli uomini vivono come se<br />
avessero una loro propria e particolare saggezza.” 59<br />
È questa la seconda grande parola di Eraclito: “Il pensare è a tutti comune”; 60 non certo nel senso ovvio che tutti pensano, quanto<br />
piuttosto nel senso che quanto è pensato è unico e identico per tutti. L’oggettività del pensiero diviene la meta della speculazione di<br />
Eraclito, proprio perché essa unifica e identifica il nostro logos personale con quello degli altri e con quello delle cose. Da qui<br />
l’immagine della veglia e del sonno: luogo privato questo, luogo comune quello: ma “unico e comune è il mondo per coloro che sono<br />
desti.” 61 E proprio nell’essere ‘desti’, in questo destarsi alla razionalità, consiste la saggezza.<br />
Ma “Di questo logos che è sempre gli uomini non hanno intelligenza, sia prima di averlo conosciuto sia subito dopo averlo<br />
ascoltato; benché infatti tutte le cose accadano secondo questo logos, essi assomigliano a persone inesperte, pur provandosi in<br />
parole e in opere tali quali sono quelle che io spiego, distinguendo secondo natura ciascuna cosa e dicendo com’è. Ma agli altri<br />
uomini rimane celato ciò che fanno da svegli, allo stesso modo che non sono coscienti di ciò che fanno dormendo.” 62<br />
E ancora: “Questa ragione, dunque, comune, divina e per partecipazione della quale diventiamo razionali, Eraclito dice che è<br />
criterio di verità: onde ciò che appare a tutti in comune è degno di fede (poiché è appreso con la ragione che è comune e divina),<br />
mentre ciò che risulta ad uno soltanto non lo è, per la ragione contraria.” 63 In definitiva, “Eraclito […], poiché riteneva che l’uomo<br />
avesse due strumenti per la conoscenza della verità, e cioè la sensazione e la ragione, da un lato sosteneva che la sensazione non<br />
fosse attendibile […], e dall’altro faceva della ragione il criterio della verità.” 64<br />
Pur lontano dall’idealismo di Parmenide, che riduceva tutto a un unico essere inteso come pensiero, vanificando e i sensi e il<br />
mondo sensibile, anche Eraclito contrappone senso e pensiero, ma in modo non così radicale che non rimanga del primo un mondo<br />
reale, e sia pure da interpretare. Non sono tanto i sensi che ingannano, quanto gli uomini ad ingannarsi su di essi, rimanendo abbagliati<br />
dalla superficialità del fenomeno, e quindi impossibilitati a scendere in profondità nella comprensione del reale.<br />
Ci sono in definitiva due piani: quello strutturale del logos e quello del suo manifestarsi nel sensibile, o come sensibile. Entrambi<br />
razionali ed armonici, e armonizzati tra loro. Ma quel che vuol fare comprendere Eraclito è che “L’armonia nascosta vale più di<br />
quella che appare.” 65 E l’armonia è unioni di contrari: “Congiungimenti sono intero e non intero, concorde discorde, armonico<br />
disarmonico, e da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose.” 66 Questa è la conoscenza a cui dobbiamo giungere, questa è la vera<br />
saggezza, poiché “Unica cosa è la saggezza, comprendere la ragione per la quale tutto è governato attraverso tutto.” 67<br />
Ed è questa la terza grande parola di Eraclito: il logos non è il pensiero inteso, nella sua essenza, come principio d’identità, quale<br />
lo aveva concepito, o lo andava concependo Parmenide, in cui tutto si annulla perché nulla esiste fuori dell’uno che esso stesso è; ma<br />
piuttosto deve essere inteso come la totalità armonica di tutto: di tutti i contrari e di tutte le apparenti contradizioni.<br />
È non la ‘coincidentia oppositorum’, ma la ‘concordantia oppositorum’: “L’opposto concorde - come dice - e dai discordi<br />
bellissima armonia.” 68 Si salva in tal modo, da una parte, il principio unitario assoluto: il logos, e dall’altra, la realtà sensibile, che<br />
esiste e vive dello squadernarsi delle opposizioni proprie del logos.<br />
Ma gli uomini non comprendono la struttura dialettica del logos: “Non comprendono come, pur discordando in se stesso, è<br />
concorde: armonia contrastante, come quella dell’arco e della lira.” 69 E arco e lira già preannunciano simbolicamente la via all’in giù<br />
(della morte) e la via all’in su (della nascita); la lira, strumento creatore di armonia; l’arco, dal nome ambiguo (bìos: vita), portatore di<br />
morte: “L’arco ha dunque per nome vita e per opera morte.” 70 Apollo, citaredo e arciere, e la sorella Artemide, cacciatrice, sembrano<br />
simboleggiare, e a un tempo realizzare, la bivalente concezione eraclitea dell’armonia del tutto.<br />
E se Eraclito può essere definito il filosofo dell’armonia, non è la sua un’armonia priva di forza e intrinseca drammaticità: non è<br />
l’armonia delle Grazie, ma di Apollo delle lira e dell’arco, che crea e che distrugge; poiché tutto quanto viene all’essere, anche viene<br />
distrutto; e la stessa mano crea e annienta. “Bisogna però sapere che la guerra è comune (a tutte le cose), che la giustizia è contesa e<br />
che tutto accade secondo contesa e necessità.” 71 “Polemos [la guerra] è padre di tutte le cose, di tutti è re; e gli uni disvela come dèi e<br />
gli altri come uomini, gli uni fa schiavi gli altri liberi.” 72<br />
“Eraclito rimprovera chi compose il verso: ‘Che la contesa perisca tra gli dèi e gli uomini’ [Il. XVIII 107]. Non vi sarebbe infatti<br />
56 Ivi, B 114.<br />
57 Ivi, B 11.<br />
58 Ivi, B 33.<br />
59 Ivi, B 2.<br />
60 Ivi, B 113.<br />
61 Ivi, B 89.<br />
62 Ivi, B 1.<br />
63 Ivi, A 16.<br />
64 Ivi, A 16.<br />
65 Ivi, B 54.<br />
66 Ivi, B 10.<br />
67 Ivi, B 41.<br />
68 Ivi, B 8.<br />
69 Ivi, B 51.<br />
70 Ivi, B 48.<br />
71 Ivi, B 80.<br />
72 Ivi, B 53.<br />
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armonia, se non vi fosse l’acuto e il grave, né esseri viventi senza l’opposizione di maschio e femmina.” 73 E con l’audacia di chi sa<br />
andare oltre il mondo delle apparenze, Eraclito ha il coraggio di affermare che “La stessa cosa sono il vivente e il morto, lo sveglio e il<br />
dormiente, il giovane e il vecchio: questi infatti mutando son quelli e quelli di nuovo mutando son questi.” 74 E in forma oracolare:<br />
“Immortali mortali, mortali immortali, viventi la loro morte e morienti la loro vita.” 75<br />
Tutto si muta, si trasforma in una continua nascita-morte, poiché il logos non è che un avvicendarsi perpetuo di opposti: “Il dio è<br />
giorno e notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame, e muta come quando si mescolano ai profumi e prendono nome dall’aroma<br />
di ognuno di essi.” 76 Tutto è graduale passaggio da uno stato all’altro; ed ogni cosa è armonia, come armonia è il suo sorgere e il suo<br />
scomparire.<br />
La quarta grande parola di Eraclito è dunque questa: tutto muta; e trova la propria immagine nel fiume, le cui acque sempre<br />
scorrenti due volte non ci possono bagnare: “Nello stesso fiume non è possibile scendere due volte”; 77 oppure, ancora con parola<br />
oracolare: “Negli stessi fiumi scendiamo e non scendiamo, siamo e non siamo.” 78 E il sole è “nuovo ogni giorno”, 79 e nulla vi è che sia<br />
sempre se stesso, immobile, fosse pure per un istante, perché allora lo sarebbe per l’eternità.<br />
L’esistenza è un immenso fiume, in cui tutto appare e scompare, emerge ed è travolto; né le cose né le anime hanno requie, perché<br />
“Acque sempre diverse scorrono per coloro che s’immergono negli stesi fiumi, ma anche le anime evaporano dall’umido.” 80 Una<br />
forza avvicenda ciò che noi chiamiamo ‘esseri’, ma che esseri non sono, poiché “tutto scorre: nulla è.” 81 Un logos, eternamente<br />
fluente nel tempo, tutto genera, muove, trasforma, distrugge. Un logos unico, in sé uno e molteplice, è tutte le cose, e tutte le cose<br />
sono quell’unico logos: “Ascoltando non me ma il logos, è saggio convenire che tutto è uno.” 82 E uno è il moto ontologico stesso nella<br />
sua circolarità, nell’eterno farsi e disfarsi delle cose, in un processo che raffiguriamo nel cerchio: “Comune infatti è il principio e la<br />
fine nella circonferenza del cerchio.” 83<br />
E se per ciascuna cosa c’è una via della nascita e una via della morte, tuttavia “Unica e la stessa è la via all’in su e la via all’in<br />
giù”, 84 perché “Per le anime è morte diventare acqua, e per l’acqua è morte diventare terra, ma dalla terra nasce l’acqua e<br />
dall’acqua l’anima.” 85 E ancora in forma oracolare: “Viviamo la loro morte e vivono la nostra morte.” 86<br />
Punto cardinale di questa circolarità d’esistenze è il fuoco, concepito come ipostasi fisica del logos. Dal fuoco l’aria, dall’aria<br />
l’acqua, dall’acqua la terra: ecco la via all’in giù, quasi il venir meno della razionalità; ma dalla terra l’acqua, dall’acqua l’aria,<br />
dall’aria il fuoco nuovamente: e questa è la via all’in su, la via del ritorno all’unità, della nascita degli esseri che hanno in sé il soffio<br />
della vita.<br />
Come abbiamo sentito, la nascita dell’anima si colloca all’interno della via all’in su, in quanto evaporazione: passaggio dallo stato<br />
liquido a quello aeriforme. Ma sotto questo profilo, tutta l’evaporazione dell’universo non è altro che un’immensa fucina di anime e<br />
demoni: “Eraclito ritiene che l’anima del cosmo sia un’evaporazione dell’umido che è in esso, mentre quella che si trova negli esseri<br />
viventi proviene dall’evaporazione esterna e da quella, omogenea, che è in loro stessi.” 87 E più l’anima si avvicina al fuoco, più si<br />
rende perfetta e saggia: “Secco splendore è l’anima più saggia e migliore, o piuttosto: l’anima secca è la più saggia e la migliore”; 88<br />
mentre, allontanandosene, e per ciò avvicinandosi all’acqua, tende all’irrazionalità del piacere e della morte: “Per le anime è piacere o<br />
morte diventare umide.” 89<br />
Ma Eraclito afferma che l’anima è immortale, almeno quella che ha raggiunto la saggezza: “uscendo, infatti, verso l’anima<br />
dell’universo ritorna a ciò che le è omogeneo.” 90 Né gli uomini hanno idea di cosa li aspetti alla separazione dal corpo: “Per gli<br />
uomini che son morti son pronte cose che essi non sperano né immaginano.” 91 Sciolti dalla grevità della terra e dall’umidità<br />
dell’acqua, le anime entrano in una dimensione nuova, sensibile sempre, ma affinata, poiché “Le anime aspirano profumi nell’Ade.” 92<br />
Del resto, secondo il detto da lui stesso forgiato, “Se tutte le cose diventassero fumo, sarebbero i nasi a discernerle.” 93<br />
Un al di là, in cui la felicità è proporzionata al logos raggiunto in questa vita, ci attende dunque: “Maggiori destini di morte<br />
attendono infatti maggiori ricompense.” 94 “Tutte le cose risultano dal fuoco e nel fuoco si dissolvono: tutte le cose accadono secondo<br />
destino e realizzano la loro armonia mediante il loro mutamento nell’opposto; e tutte son piene di anime di dèmoni.” 95 Questo è<br />
l’ordine universale, destino che tutti sovrasta; e “Quest’ordine universale, che è lo stesso per tutti, non lo fece alcuno tra gli dèi o tra<br />
gli uomini, ma sempre era è e sarà fuoco sempre vivente, che si accende e si spegne secondo giusta misura.” 96<br />
In questa concezione, la molteplicità delle cose e l’unicità del logos sono un tutto inscindibile in una impossibile distinzione che,<br />
73 Ivi, A 22.<br />
74 Ivi, B 88.<br />
75 Ivi, B 62.<br />
76 Ivi, B 67.<br />
77 Ivi, B 91.<br />
78 Ivi, B 49 a.<br />
79 Ivi, B 6.<br />
80 Ivi, B 12.<br />
81<br />
82 Ivi, B 50.<br />
83 Ivi, B 103.<br />
84 Ivi, B 60.<br />
85 Ivi, B 36.<br />
86 Ivi, B 77.<br />
87 Ivi, A 15.<br />
88 Ivi, B 118.<br />
89 Ivi, B 77.<br />
90 Ivi, A 77.<br />
91 Ivi, B 27.<br />
92 Ivi, B 98.<br />
93 Ivi, B 7.<br />
94 Ivi, B 25.<br />
95 Ivi, A 1.<br />
96 Ivi, B 30.<br />
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appunto per non essere possibile, trova il proprio equilibrio in uno squilibrio continuamente e armonicamente cangiante,<br />
riproducentesi all’infinito, quasi un moto perpetuo di instabilità: eterno ritorno dell’uguale, in cui, in forma grandiosamente arcaica,<br />
Eraclito pensa di avere unificato ciò che non è così facilmente unificabile: l’identità e la diversità in se stesse.<br />
Da qui, per il filosofo di Efeso, l’apparente contradittorietà dell’esistenza, la sua ambiguità, la sua possibilità oracolare: tutto è il<br />
logos; esso è il signore, il tutto, l’ordine, il destino, il tempo, l’eterno, l’essere, il divenire: i nomi non sono che metafore: “L’unico, il<br />
solo saggio vuole e non vuole essere chiamato con il nome di Zeus.” 97 Ovunque presente, egli è tuttavia separato da tutto; e questa<br />
trascendenza immanente nessuno era riuscito a scoprire prima di lui: “Di tutti coloro di cui ho ascoltato i discorsi nessuno è arrivato<br />
al punto da riconoscere che il saggio è separato da tutti.” 98 Ma pur così separato, nessuno può celarsi a lui: “Come potrebbe uno<br />
nascondersi a ciò che non tramonta mai?” 99<br />
Il filosofo di Efeso, diradate le tenebre dei sensi, era stato colto da un’improvvisa luce abbagliante: nell’avvicendarsi cangiante<br />
degli opposti, al di là delle forme sensibili dell’apparenza, un fuoco vivo genera e regola il tutto: nella sua mano stanno tutte le cose,<br />
esso, immanente nel tutto, separato da tutto. Immanente e trascendente, in moto e in quiete, ragione di tutte le cose e al di là di ogni<br />
comprensione: tale è il logos di Eraclito.<br />
* * *<br />
Un tale pensiero, balzato alla mente come una fiamma, rendeva insignificante e meschino ogni orizzonte umano. Egli non poteva<br />
più condividere la vita degli uomini. “Alla fine, per insofferenza verso gli uomini, ritiratosi dalla vita civile, visse sui monti, cibandosi<br />
di erbe e di piante. Ma, in conseguenza di ciò, ammalatosi di idropisia, tornò in città e in forma di enigma, chiese ai medici se fossero<br />
capaci di far sì che dall’inondazione venisse siccità; e poiché quelli non comprendevano, si seppellì in una stalla sotto il calore dello<br />
sterco animale, sperando che l’umore evaporasse. Non avendone, neppure così, alcun giovamento, morì dopo aver vissuto<br />
sessant’anni […]. Ermippo dice ch’egli chiedesse ai medici se qualcuno fosse capace di essiccare l’umore vuotando gli intestini; alla<br />
loro risposta negativa, si distese al sole e ordinò ai ragazzi di coprirlo di sterco animale. Stando così disteso, il secondo giorno morì<br />
e fu seppellito nella piazza.” 100<br />
97 Ivi, B 32.<br />
98 Ivi, B 108.<br />
99 Ivi, B 16.<br />
100 Ivi, A 1.<br />
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