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L'Uomo e il Cibo - Istituto Nautico Siracusa

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<strong>L'Uomo</strong> e <strong>il</strong> <strong>Cibo</strong><br />

L’uomo soddisfa l’universale biologico della nutrizione in modo non dissim<strong>il</strong>e dagli<br />

altri mammiferi. Nella ricerca come nella selezione, nella preparazione come nel consumo dei<br />

cibi, egli attiva un’attrezzatura sensoriale capace di regolare <strong>il</strong> rapporto tra l’interno e l’esterno<br />

del corpo, adattandolo ai ritmi fisiologici e stagionali, facendo leva su apparati percettivi<br />

(olfatto, gusto, tatto) condivisi con <strong>il</strong> resto del mondo animale. Soltanto l’uomo possiede<br />

però quel dispositivo simbolico che lo obbliga a trasformare i cibi in cose “ buone da<br />

pensare ” oltre che da mangiare. L’uomo è cioè qualche cosa di più di ciò che mangia, dal<br />

momento che dà ai cibi forma e valore.<br />

Di questo “carattere bi-planare dei cibi” <strong>il</strong> pane è senza dubbio, nelle culture cerealicole<br />

europee, <strong>il</strong> prodotto più emblematico: “alimento” quotidiano ma anche “segno”, come<br />

testimonia <strong>il</strong> fatto che in molti luoghi non lo si possa rovesciare sulla tavola (sarebbe come<br />

mettere a testa in giù una persona) o come testimoniano le variazioni che ai pani festivi fanno<br />

subire le massaie soprattutto nella forma e nella decorazione. A questo proposito, i pani sardi,<br />

quelli pasquali in Sic<strong>il</strong>ia o quelli di San Giuseppe in Puglia costituiscono in Italia un repertorio<br />

tra i più significativi.<br />

I “fatti alimentari” sono parte integrante di quell’universo simbolico che non soltanto<br />

ci fa unici tra gli altri animali, ma è anche all’origine della varietà culturale che ci<br />

caratterizza come specie. Ciascun gruppo etnico definisce la propria identità in<br />

rapporto ai cibi che costituiscono la sua base alimentare primaria (nelle culture<br />

mediterranee, dunque, i prodotti del grano), ma anche in rapporto a cibi speciali che<br />

ribadiscono i rapporti sociali e i ritmi del vivere quotidiano interrompendoli periodicamente in<br />

modo rituale. In quest’ultimo caso, si tratta essenzialmente di cibi cerimoniali poveri o, al<br />

contrario, particolarmente elaborati e abbondanti fino allo spreco, oppure di modalità di<br />

consumo inusuali, tra cui forme complesse di digiuno e persino di astensione. Segni tangib<strong>il</strong>i di<br />

diversità culturale, che si esprime primariamente a livello delle qualità sensib<strong>il</strong>i (la percezione<br />

visiva, i profumi, i sapori )i sistemi alimentari costituiscono altrettante frontiere tra le diverse<br />

epoche storiche, un criterio ut<strong>il</strong>e a distinguere le comunità che vivono di caccia e raccolta da<br />

quelle che praticano l’agricoltura, tra pitta e campagna, tra gruppi sociali. La stessa<br />

separazione (ma anche <strong>il</strong> rapporto) tra <strong>il</strong> mondo dei vivi e quello dei morti è quasi sempre<br />

garantito dalla circolazione di cibi: quelli consumati nei giorni del lutto, quelli offerti<br />

periodicamente dai vivi o deposti nelle tombe per accompagnare <strong>il</strong> viaggio dei morti, ma anche<br />

i cibi donati da questi ultimi ai vivi, soprattutto ai bambini.


Da un altro punto di vista i cibi invece accomunano più di quanto non separino. Se è<br />

vero infatti che essi riflettono modi di essere originali e identificanti dei vari gruppi umani,<br />

sottolineandone la dipendenza dalla varietà degli ambienti geografici e dalla diversità delle<br />

materie prime, è vero anche che soprattutto la loro preparazione mostra dovunque e in<br />

ogni tempo l’azione delle stesse regole logiche. Un esempio emblematico è rappresentato<br />

dai “menu”. A dispetto delle diverse tradizioni nazionali, essi si fondano tutti sulla<br />

combinazione di un duplice asse: “orizzontale” (in Italia, per esempio, la scelta all’interno dei<br />

primi piatti e dei secondi con l’aggiunta dei contorni) e “verticale” (la successione delle<br />

pietanze); altri possib<strong>il</strong>i esempi sono quelli della “opposizione dolce/salato” o del “piatto<br />

unico”: benché diano luogo nelle diverse culture alle combinazioni più varie, quest’opposizione<br />

e questa modalità di consumo marcano in modo riconoscib<strong>il</strong>e tutti i sistemi culinari; la grande<br />

varietà delle preparazioni carnee può essere infine ricondotta, da un punto di vista logico,<br />

soltanto a tre categorie universali: crudo, cotto, putrido, cui corrispondono le tre modalità di<br />

cottura più diffuse: l’arrosto, l’affumicato (sostituito in alcune culture dall’essiccato), <strong>il</strong> bollito.<br />

Ad esse è possib<strong>il</strong>e aggiungere soltanto due altre modalità: la frittura e la marinatura, che<br />

risultano rispettivamente dall’uso di grassi (vegetali come l’olio o animali come <strong>il</strong> burro) o di<br />

acidi (come <strong>il</strong> limone o l’aceto).<br />

È dall’analisi del rapporto tra queste categorie universali e la dimensione locale del<br />

cibo che gli uomini potranno imparare non soltanto a riconoscere, nello “spazio”<br />

come nel “tempo”, la diversità alimentare, ma anche a rispettarla e persino ad<br />

integrarla nel proprio orizzonte culturale.<br />

Lamelle di falcetto. Montate su manici di legno.<br />

3600 a.C. Collezione privata.


COSÌ SI NUTRIVANO GLI UOMINI PREISTORICI<br />

L'uomo del paleolitico visse di caccia e di raccolta adeguandosi alla fauna e alla flora.<br />

Vivevano in caverne: la caccia era un modo di procurarsi <strong>il</strong> cibo.<br />

La sopravvivenza della comunità era assicurata dalla raccolta d'erbe, tuberi e<br />

frutti , e dalla caccia di piccoli roditori, una funzione importante assolta dalle donne<br />

del gruppo.<br />

Un altro alimento delle popolazioni paleolitiche doveva essere costituito dai molluschi, sia<br />

terrestri sia marini, di cui si rinvengono numerosi gusci nelle campagne di scavo, compito<br />

della donna era quello di raccogliere tutti gli animali piccoli in cui si imbatteva.<br />

Le donne preistoriche sapevano distinguere una specie vegetale dall'altra e conoscevano le<br />

proprietà d'ogni arbusto.<br />

Anzi, nel corso delle loro "battute", le donne curavano le piante commestib<strong>il</strong>i, eliminando le<br />

erbacce .<br />

Non è escluso che durante <strong>il</strong> loro passaggio, abbiano anche piantato dei semi, per ritrovare<br />

l'anno successivo una quantità superiore di piante commestib<strong>il</strong>i.<br />

In seguito gli uomini primitivi divennero cacciatori e la nutrizione era basata esclusivamente<br />

sulla caccia e sulla pesca .<br />

Accanto alla carne si ut<strong>il</strong>izzava, probab<strong>il</strong>mente già nel Neolitico, anche <strong>il</strong> latte della capra, le<br />

corna (per cucchiai, manici, guarnizioni ecc.) ed <strong>il</strong> vello (cuoio).<br />

Dopo la scoperta del fuoco scoprirono la cottura dei cibi che diventarono più saporiti e digerib<strong>il</strong>i.


Alimentazione in Grecia<br />

Dallo studio della cultura greca emerge con grande evidenza l’importanza della commensalità e<br />

dei rituali connessi con <strong>il</strong> mangiare e bere; la commensalità, presso i Greci si configura<br />

come una delle più importanti forme di socializzazione che fa parte integrante<br />

dell’organizzazione politico-sociale della polis.<br />

Le attività connesse al concetto di commensalità, presso i Greci, hanno tutte una<br />

grande valenza sociale, e sono: <strong>il</strong> banchetto, <strong>il</strong> simposio, i rituali dell’ospitalità, le<br />

feste sia civ<strong>il</strong>i che religiose.<br />

Fin dall’età arcaica le pratiche del banchetto e del simposio vengono ritualizzate, tanto che la<br />

partecipazione ad esse manifesta <strong>il</strong> senso di appartenenza del gruppo ad una stessa comunità,<br />

appunto accomunata in un’esperienza di piacere e di festa che include sia gli uomini che gli dei.<br />

Nei poemi omerici tutto <strong>il</strong> mondo greco è strutturato secondo i riti della commensalità, e<br />

l’Iliade è incentrata sull’ira di Ach<strong>il</strong>le che si manifesta soprattutto nel rifiuto di partecipare al<br />

pasto comune. Nella Grecia, ma anche nella Magna Grecia di V sec. a C. <strong>il</strong> rituale della<br />

commensalità si esprime attraverso la separazione delle attività connesse con <strong>il</strong> cibo cioè <strong>il</strong><br />

banchetto (deipnon), e quelle connesse alle bevande, <strong>il</strong> simposio (sympósion), secondo<br />

precise abitudini rimaste immutate nel tempo. Era diffusa la pratica di mangiare sdraiati<br />

secondo un’usanza mutuata probab<strong>il</strong>mente dal mondo fenicio; i commensali mangiavano<br />

semisdraiati su letti conviviali (klinai), appoggiati al braccio sinistro, sostenuto da alcuni<br />

cuscini. I servi disponevano davanti ai letti piccoli e bassi tavolini (trápezai) su cui erano<br />

collocati i piatti con le vivande. Durante <strong>il</strong> vero e proprio pasto non si beveva vino; non si<br />

usavano né tovaglie, né tovaglioli e nemmeno posate, ma i cibi già tagliati venivano serviti su<br />

piatti di vario genere, e presi con le mani. Al banchetto seguiva <strong>il</strong> simposio, in questa fase<br />

venivano tolte le prime mense e portate le seconde e si servivano cibi stuzzicanti, dolci e vino<br />

in abbondanza. Il vino veniva servito sempre annacquato, con acqua fredda o tiepida ed<br />

era compito del simposiarca deciderne le proporzioni. Quindi veniva preparata in un cratere<br />

centrale la miscela di acqua e vino dalla quale i coppieri attingevano con i mestoli la bevanda<br />

da versare nei calici dei convitati.<br />

Bere vino puro era ritenuto uso barbaro, degno di popoli rozzi e inciv<strong>il</strong>i. A Locri, in Magna<br />

Grecia, le leggi di Zaleuco prevedevano addirittura la pena di morte per chi avesse bevuto vino<br />

puro senza prescrizione medica.<br />

Durante <strong>il</strong> “simposio” i convitati si cingevano la testa con bende, fiori e corone,<br />

offrivano libagioni in onore delle divinitá, si davano ai divertimenti ed assistevano a<br />

spettacoli musicali o di altro genere.


I Musici, quasi sempre donne, le etere, al suono del doppio flauto o dell'arpa<br />

accompagnavano le esibizioni delle danzatrici che spesso in abiti discinti erano anche<br />

pronte per altre prestazioni; esse erano per lo più schiave e sembra che potessero acquisire<br />

uno speciale status se si legavano ad uno o più uomini, mentre le donne libere non<br />

partecipavano mai né ai banchetti né ai simposi; a questi intervenivano anche giocolieri e<br />

acrobati e uno dei divertimenti piú diffusi era <strong>il</strong> Kóttabos, come tramandano Anacreonte e<br />

Pindaro, che consisteva nel lanciare un getto di vino in un recipiente posto in b<strong>il</strong>ico su un<br />

sostegno; comuni erano pure <strong>il</strong> gioco dei dadi e degli astragali per <strong>il</strong> quale venivano ut<strong>il</strong>izzati le<br />

ossa delle zampe di ovini, caprini e suini.<br />

Il vino greco fu considerato <strong>il</strong> migliore nel mondo antico e molti scrittori (Varrone,<br />

Columella, Catone) ne descrissero le modalità di produzione; noto era <strong>il</strong> vino prodotto a<br />

Myndo, a Coos e ad Alicarnasso, ma i migliori erano quelli di Chio, Thasio, Lesbo e quello<br />

prodotto a Nasso che Arch<strong>il</strong>oco paragona al nettare. Grande fu anche la produzione dell’olio<br />

che ebbe vasto impiego in tutto <strong>il</strong> mondo mediterraneo.


I greci e <strong>il</strong> pane<br />

Ma l’alimento base del mondo greco fu sicuramente <strong>il</strong> “pane “che era prodotto in diverse<br />

forme (fiori o animali) e con vari tipi di farina di cereali, quali <strong>il</strong> frumento e l’orzo; molto diffuso<br />

era l’uso di cospargere <strong>il</strong> pane con semi di papavero, ma anche con cumino, semi di lino e<br />

sesamo, come tramanda Alcmane. Gli antichi greci conoscevano e producevano moltissime<br />

qualità di pane, pensate ben 72 tipi diversi.<br />

Eccone alcuni:<br />

pane di orzo<br />

baraton ( pane senza lievito)<br />

phaios (pane scuro)<br />

semidelites ( pane fatto con fior di grano)<br />

caibanites ( pane con vari tipi di farina)<br />

pani con olive<br />

pani con uva passa<br />

pani con fichi secchi<br />

Non c’era che l’imbarazzo della scelta e buon appetito.<br />

Oltreché per <strong>il</strong> pane, i cereali, soprattutto <strong>il</strong> farro e l’orzo, venivano ut<strong>il</strong>izzati per preparare<br />

pietanze sim<strong>il</strong>i alla polenta che venivano servite piuttosto liquide.


La gastronomia greca si distingueva per l’uso dei vegetali, del pesce e dei dolci, più<br />

che per la carne, che era ut<strong>il</strong>izzata soprattutto nelle cerimonie religiose, già dall’età<br />

arcaica. Citate dagli autori antichi sono le zuppe di lenticchie e zuppe di ceci che secondo<br />

Ateneo erano stati introdotti dal dio Poseidone; molto diffusa presso i Greci era la consuetudine<br />

di cucinare i vegetali anche quelli che crescevano spontanei nei campi e venivano raccolti a<br />

primavera: cipolle, rape, cardi, asparagi, lattuga; pare che si mangiassero anche i funghi,<br />

nonostante fosse nota la tossicità di alcune specie; diffuso in cucina era anche l’uso dei pinoli.<br />

Grande era la varietà dei pesci conosciuti: seppie, gamberi, polipi, angu<strong>il</strong>le, tonni, solo per<br />

citarne alcuni, cui si aggiungeva anche un gran numero di molluschi, frutti di mare e crostacei:<br />

cozze, ostriche, aragoste, e vari generi di conchiglie tra le quali note erano i “chichiballi” a noi<br />

sconosciuti; famose erano i crostacei di Smirne e le aragoste di Alessandria.<br />

Il pescato veniva cucinato in vari modi; si spaziava dal grigliato, al rosolato, allo stufato e<br />

negli autori antichi è citato l’uso di avvolgere alcuni tipi di pesce nelle foglie di fico e poi<br />

passarli alla brace; ma spesso veniva mangiato anche crudo.<br />

Si consumava grande varietà di frutta sia fresca (mele, pere, uva, melegrane, fichi ecc.)<br />

che secca (mandorle, nocciole, noci); molto apprezzate e note erano le “mandorle di<br />

Nasso”; ed è tramandato l’uso di fare bollire a lungo fichi e mele cotogne nel mosto molto<br />

concentrato, tanto da ottenerne uno sciroppo che poteva essere usato anche come<br />

dolcificante.<br />

Nel periodo ellenistico, cioè intorno al IV sec. a.C. <strong>il</strong> banchetto greco divenne sfarzoso ma<br />

anche più raffinato per influsso di abitudini provenienti dal mondo orientale che esercitò<br />

sempre un grande fascino sul popolo greco.<br />

Pinax * relativa alla raccolta della frutta sacra (melograni o mele cotogne) da parte di una<br />

giovane alla presenza di Persefonte seduta.


Alimentazione in Magna Grecia<br />

E’ noto che una delle cause principali della colonizzazione della Magna Grecia, da parte dei<br />

Greci, fu <strong>il</strong> reperimento di terre fert<strong>il</strong>i che scarseggiavano nell’Ellade; pertanto l’economia delle<br />

poleis magno-greche era basata principalmente, sulla produzione agricola che determinò<br />

anche l’alimentazione di questa regione. La ricostruzione del paesaggio agrario, e dei tipi<br />

di colture praticate in Magna Grecia è quindi, fondamentale per affrontare i problemi<br />

di “storia dell’alimentazione “nell’ età antica.<br />

La grande diffusione dei culti agrari come quelli di Demetra e Kore, di Atena e Dioniso,<br />

confermano l’importanza dell’agricoltura ed in particolare della coltivazione del grano,<br />

dell’olivo e della vite. Vino ed olio, in effetti, sono i prodotti dell’antichità ai quali erano legati<br />

<strong>il</strong> nome ed <strong>il</strong> concetto di Magna Grecia;” Italìa” o “Enòtria” (da oinos=vino) era denominata<br />

la zona a sud di Metaponto, considerata dai Greci terra eccellente per la produzione del<br />

vino; e se la viticoltura fu importata con i primi insediamenti coloniali, è stato dimostrato che<br />

la coltura dell’ulivo introdotta in Magna Grecia dai Calcidesi d’Occidente, fu successiva di<br />

almeno un secolo all’arrivo delle popolazioni greche.<br />

Diffuse in tutta la Magna Grecia, sia provenienti dalle aree sacre che dalle necropoli, sono<br />

alcune “terracotte votive” configurate a forma di grappolo d’uva, trovate nelle necropoli<br />

campane e lucane e nei santuari di Policoro, Rossano e Locri.<br />

Persefone in trono e Dioniso con <strong>il</strong> tralcio di vite. Pinax in terracotta. Locri, V sec.a.C. Museo<br />

Archeologico Nazionale, Reggio Calabria.


Importanti, per la ricostruzione del paesaggio agrario magno- greco sono alcune<br />

fonti epigrafiche note col nome di “Tavole di Eraclea”; si tratta di due epigrafi greche, in<br />

bronzo che per <strong>il</strong> periodo compreso tra <strong>il</strong> IV e III sec. a.C., permettono di ricostruire un<br />

paesaggio agrario ampiamente coltivato con l’eccezione delle pendici dei monti e delle colline<br />

occupate dai boschi e dalla macchia. La zona coltivata, divisa in piccole proprietà, si estendeva<br />

dalla pianura alla costa o alle rive dei fiumi a fondovalle. Le coltivazioni documentate sono<br />

i cereali, tra cui una posizione dominante assume “l’orzo” (<strong>il</strong> fitto dei terreni di proprietà<br />

dei santuari era pagato, infatti, con tale prodotto); la vite, l’olivo, sono considerati le<br />

coltivazioni più redditizie; e, sempre nelle Tavole di Eraclea, è documentata la presenza di<br />

boschi e querceti come risorsa fondamentale per l’economia, e anche quella<br />

dell’allevamento del bestiame e di caseifici nella zona collinare.<br />

Le Tavole di Eraclea<br />

Gli scavi di Eraclea<br />

Questi dati desumib<strong>il</strong>i dalle fonti scritte, sono stati integrati da studi comparati di<br />

archeologia, geologia, bioarcheologia, paleobotanica ecc., che hanno consentito la<br />

ricostruzione del modello insediativo e produttivo, in particolare del territorio<br />

metapontino.<br />

Sono state individuate più di un migliaio di” fattorie” diffuse su circa 4.200 ettari di<br />

terreno, tra l’altro sono state identificate 14 tipi di piante coltivate ed una dozzina di quelle<br />

selvatiche o infestanti, cinque qualità di legumi e tre diverse piante di foraggio che non sono<br />

menzionate nelle “tavole di Eraclea”.


Fattoria Magno-Greca del III secolo a.C.<br />

Una situazione analoga a quella di Metaponto è stata segnalata anche per <strong>il</strong> territorio di<br />

Crotone dove si sono riscontrate forti analogie insediative soprattutto in relazione alla presenza<br />

diffusa di fattorie, con precisa vocazione agricola.<br />

Lo studio dell’ alimentazione greca e magno-greca si basa anche su molti testi di Autori che<br />

hanno scritto sui cibi ut<strong>il</strong>izzati nel mondo antico e sul modo di cucinarli; tra essi <strong>il</strong> trattato più<br />

importante, purtroppo andato perso è la Gastronomia di Archestrato di Gela, di cui però<br />

abbiamo notizie indirette nell’altra grande opera scritta da Ateneo, che nel suo trattato<br />

denominato i Deipnosofisti, cioè “I sapienti in gastronomia”, ci informa non solo sulla cucina<br />

greca ma anche su quella in uso presso quasi tutti i popoli del Mediterraneo.<br />

Apprendiamo dagli scrittori antichi che i Popoli italioti al contrario dei Greci erano noti per la<br />

loro opulenza, tanto che a Taranto e Crotone erano rinomati alcuni specialisti esperti in diete,<br />

che dettavano le norme igieniche per la scelta e la qualità dei cibi; ad esempio si tramandano<br />

alcuni precetti di Herakleidas di Taranto sulla digerib<strong>il</strong>ità di alcuni cibi e sugli effetti afrodisiaci<br />

di altri. Altrettanto noti erano i cuochi magno greci, che spesso gareggiavano tra loro,<br />

scrivevano trattati di arte culinaria ed erano tenuti in gran conto nella scala sociale della polis.<br />

Per quanto riguarda i cibi quelli più diffusi erano i cereali, le verdure, la frutta che ben<br />

si adattavano alle popolazioni magno greche che come abbiamo visto erano principalmente<br />

contadine che basavano la loro economia sull’agricoltura. Non stupisce infatti la scarsa<br />

diffusione delle carni per <strong>il</strong> pasto quotidiano, mentre esse venivano ut<strong>il</strong>izzate soprattutto<br />

durante le cerimonie religiose ed erano riservate agli eroi. Già in età arcaica è documentato <strong>il</strong><br />

consumo di maiali, montoni, capre e tori, mentre quello dei cavalli e degli asini risale ad epoca<br />

più recente. E’ noto che <strong>il</strong> culto degli dei, nella religiosità greca, si basava sull’offerta di<br />

animali domestici che venivano sacrificati sugli altari nelle aree sacre, e poi consumati dopo<br />

la cottura.


I sacrifici agli Dei si svolgevano secondo una ritualità complessa che si articolava in più fasi<br />

che si succedevano sempre nello stesso ordine: l’uccisione della vittima si svolgeva tra canti, e<br />

offerte di profumi; l’animale veniva sgozzato con una scure, liberato del sangue e quindi fatto<br />

a pezzi mediante l’uso di coltelli; agli Dei erano riservati <strong>il</strong> fumo delle ossa calcinate e l’odore<br />

degli aromi che venivano bruciati per l’occasione; mentre agli uomini toccavano le parti<br />

carnose dell’animale; queste venivano poi cotte mediante operazioni culinarie distinte: le<br />

viscere che sono puntualmente elencate da Aristotele nel trattato sulle parti degli animali,<br />

sono: fegato, polmoni, m<strong>il</strong>za, reni, e cuore (stomaco, esofago ed intestini non ne fanno parte);<br />

esse rappresentano quello che c’è di più vivo e più prezioso nella vittima offerta, venivano<br />

consumate per prime e obbligatoriamente dovevano essere arrostite allo spiedo, mangiate sul<br />

posto, senza sale e bollenti; mentre <strong>il</strong> resto delle carni bollite poteva essere mangiato anche<br />

più tardi, sia sul posto che in qualche locale vicino, che nelle abitazioni private di coloro che,<br />

per avere partecipato al sacrificio, avevano beneficiato della loro distribuzione.<br />

Più diffuso nella società magno greca <strong>il</strong> consumo del pesce che in alcune città, come<br />

Taranto era la base principale dell’alimentazione; Ennio ne celebrava soprattutto i<br />

molluschi, mentre Archestrato decantava le angu<strong>il</strong>le magno greche e Aeliano i tonni di Taranto<br />

e di Hipponion (attuale Vibo Valentia).<br />

In tutta la Magna Grecia si consumavano grandi quantità di dolci che venivano<br />

preparati ed offerti durante le festività religiose e le cerimonie sacre; di alcuni di essi sono<br />

tramandati i nomi e le ricette, come ad esempio la “piramìs”, dalla particolare forma a<br />

piramide era costituita da frumento arrostito e sesamo impastati con miele; o <strong>il</strong> “plakùs”, di<br />

forma bassa e tonda era fatto di farina, noci, pistacchi e datteri; molto rari ma pure presenti e<br />

di recenti identificati a Locri, in una scena raffigurata sui pinakes, sono i “dolci a forma<br />

antropomorfa”, cioè raffiguranti <strong>il</strong> corpo umano st<strong>il</strong>izzato; essi, diffusi in Egitto e in Oriente,<br />

sono stati connessi al culto della Grande Dea e di Afrodite, e nel caso di Locri soprattutto a<br />

quello di Persefone.


.<br />

Scena di banchetto con offerta di frutta e dolci. Particolare del Cratere a campana, seconda<br />

metà del IV sec.a.C. Museo Archeologico Nazionale, Napoli.<br />

Alimentazione in Etruria<br />

La vicenda storica della civ<strong>il</strong>tà etrusca si sv<strong>il</strong>uppa lungo tutto <strong>il</strong> m<strong>il</strong>lennio che precede la nascita<br />

di Cristo e si estende in un vasto territorio dalla Pianura Padana alla Campania. E’ perciò<br />

diffic<strong>il</strong>e tracciare un quadro unitario delle abitudini alimentari, che variano a seconda delle<br />

epoche e delle latitudini.Qualche aiuto ci può venire dalle fonti antiche, che, benché si<br />

riferiscano prevalentemente all’ età romana, danno anche informazioni relative al territorio dell’<br />

antica Etruria, specie dal punto di vista delle produzioni agricole e dell’allevamento.<br />

I principali elementi per la ricostruzione dell’alimentazione etrusca ci vengono dai<br />

dati archeologici.<br />

Abbiamo a disposizione soprattutto le analisi dei reperti ossei animali provenienti dagli scarichi<br />

degli abitati, veri e propri rifiuti dei pasti antichi, e, più raramente, resti vegetali ancora<br />

conservati (noccioli, frutti, legumi e cereali carbonizzati); anche l’analisi dei pollini rinvenuti<br />

nelle campionature delle stratigrafie ci consente la ricostruzione del paesaggio vegetale ed<br />

agricolo in una determinata epoca. Ci possiamo poi avvalere delle rappresentazioni figurate, in<br />

particolare delle pitture funerarie, e possiamo trarre informazioni dal vasellame o dagli<br />

strumenti da cucina rinvenuti negli scavi.


Nel periodo più antico l’alimentazione base della maggioranza della popolazione era costituita<br />

da cereali, principalmente frumento, farro, panico ed orzo, che venivano consumati anche<br />

sotto forma di farinata e di una sorta di polenta (la puls dei latini), nonchè da legumi (piselli,<br />

ceci, lenticchie), cucinati in zuppe oppure, semplicemente, bolliti. Questa dieta, di per sé<br />

ricca di carboidrati e proteine vegetali, veniva integrata con frutta, verdura, latticini, e con<br />

carne prevalentemente di pecora e capra. La caccia di animali non allevati era invece poco<br />

diffusa, se non nei gruppi gent<strong>il</strong>izi appartenenti alle aristocrazie emergenti: qualche<br />

raffigurazione, specialmente sulle armi o su strumenti masch<strong>il</strong>i come <strong>il</strong> rasoio, ci mostra <strong>il</strong> capo<br />

guerriero intento alla caccia di animali “nob<strong>il</strong>i”, come ad esempio <strong>il</strong> cervo.<br />

Già nel VII secolo tuttavia la differenziazione tra lo st<strong>il</strong>e di vita dell’ aristocrazia e dei capi<br />

rispetto al resto della popolazione è ben visib<strong>il</strong>e in tutto <strong>il</strong> territorio etrusco, nei corredi funerari<br />

così come nei resti dei “palazzi”, le sedi delle piccole corti che dominavano alcune delle città-<br />

stato etrusche.<br />

Anche nel modo di mangiare i principi etruschi dell’ epoca tendono a rappresentarsi come<br />

sovrani orientali, modello di riferimento per tutti i comportamenti della vita sociale: seduto su<br />

un trono dall’ alta spalliera <strong>il</strong> signore, rivestito delle insegne del potere, mangia ad una mensa<br />

rotonda servito e accudito da servi; a lui è concesso bere <strong>il</strong> vino all’ usanza greca, mescolato<br />

con acqua e temperato con spezie e formaggio grattugiato.<br />

Proprio nel VII secolo <strong>il</strong> vino inizia ad essere prodotto e commercializzato dagli stessi Etruschi,<br />

come dimostrano i rinvenimenti in tutto <strong>il</strong> Mediterraneo delle anfore prodotte a Vulci. Ma oltre<br />

alla vite viene coltivato - nell’Etruria propria e in quella campana - anche l’olivo; così l’olio<br />

entra nell’ uso comune, mentre la mensa degli Etruschi nel frattempo si arricchisce anche di<br />

frutti di origine orientale, come <strong>il</strong> melograno.


La specializzazione dell’ allevamento portò ad un maggiore consumo di carne, specie<br />

quella di suino; e ciò non soltanto nella Pianura Padana, ma anche in Toscana, dove si narra<br />

che i maiali venissero allevati al suono di strumenti musicali. La carne bovina resta invece<br />

riservata soprattutto ai nob<strong>il</strong>i, mentre tra le carni consumate abitualmente erano certo quelle<br />

dei volat<strong>il</strong>i (ad esempio le anatre), e del pollame, introdotto almeno dal VII secolo; proprio da<br />

questo periodo, tra l’altro, le uova figurano spesso tra le offerte funerarie di cibo.<br />

Comunque nel VI e V secolo a.C. la dieta-base della maggior parte della popolazione<br />

resta ancora affidata principalmente al consumo di legumi e soprattutto di cereali,<br />

della cui produzione gli Etruschi erano maestri, grazie ai sistemi di coltivazione avanzati basati<br />

sulla “rotazione delle colture” che avevano introdotto. Le due pianure che dominavano all’<br />

epoca, quella padana e quella campana, garantivano secondo Plinio la ricchezza di questo<br />

popolo, e, in momenti di difficoltà Roma importava cereali dall’ Etruria, così come Atene nel V<br />

secolo si approvvigionava a Spina dei prodotti dell’ Etruria padana, che oltre ai cereali<br />

esportava certo anche carne di maiale.<br />

Le classi colte in questo periodo hanno come modello <strong>il</strong> banchetto greco, con l’unica<br />

differenza che a quello etrusco partecipavano anche le donne: si banchettava sdraiati<br />

su lettini (le klinai) e si ut<strong>il</strong>izzava sempre più spesso ceramica importata dalla Grecia (prima da<br />

Corinto e dalla Grecia Orientale, poi da Atene). Numerose sono le rappresentazioni di<br />

banchetti, presenti soprattutto nelle pitture funerarie, ma quanto questo evento sociale fosse<br />

considerato rappresentativo di uno “status” (e delle capacità economiche sottese alla sua<br />

organizzazione) è testimoniato anche dalle statue funerarie e dai sarcofagi con banchettanti,<br />

nonché dai ricchi corredi con strumenti da banchetto, ceramica e vasellame in bronzo, spiedi<br />

per arrostire le carni e calderoni per bollirle.<br />

Nei secoli che precedono la romanizzazione, e in particolare <strong>il</strong> IV ed <strong>il</strong> III, nonostante i chiari<br />

segni di una crisi politica, non sembrano corrispondere ad una reale fase di recessione


economica: ancora al tempo di Scipione le città etrusche sono infatti in grado di fornire la<br />

maggior parte delle risorse alimentari, specie cereali, per la campagna d’ Africa.<br />

Nella tomba Golini I di Volsinii-Orvieto, della metà del IV secolo la rappresentazione delle<br />

diverse fasi di preparazione dei cibi e <strong>il</strong> ricco apparato di musici e servitori, danno una chiara<br />

idea del livello di potenza e di autoreferenzialità dei ceti dominanti.<br />

Proprio in quest’ epoca scrittori greci come Teopompo censurano <strong>il</strong> lusso delle tavole dei ricchi<br />

etruschi, resi molli e privi di virtù m<strong>il</strong>itari dal loro st<strong>il</strong>e di vita. Si tratti o meno di esercitazioni<br />

retoriche, non pare comunque priva di significato la generalizzata diffusione dell’ usanza di<br />

questa moda culturale anche presso le classi medie emergenti, che tentano di imitare nei<br />

corredi funerari l’apparato conviviale. La moltiplicazione del vasellame deposto è un<br />

trasparente tentativo di supplire con la quantità allo scarso pregio qualitativo e al modesto<br />

valore intrinseco dei pezzi, ma allo stesso tempo di rimarcare un nuovo ruolo ricoperto<br />

all’interno della società, come nel celebre caso di Volsinii. In questa città, uno degli ultimi<br />

baluardi dell’ indipendenza etrusca, gli aristocratici dovranno chiamare in soccorso la potenza<br />

romana nel 265 a.C. per fronteggiare una rivolta dei ceti serv<strong>il</strong>i che li aveva scacciati dal<br />

potere.


Storia dell'alimentazione Romana<br />

Che cosa era Roma, nei suoi primi anni di vita, se non un borgo di agricoltori austeri e timorati<br />

degli dèi?<br />

E' nota la distinzione che certa storiografia ha imposto tra i “re agrari” e i “re commercianti”: i<br />

primi probab<strong>il</strong>mente di origine sabina, i secondi di ceppo etrusco.<br />

La Roma di Romolo e Remo (VIII sec. a.C.) e delle cento famiglie che si erano prodigate per<br />

innalzarla agli altari di una fama ancora lungi dall'essere consolidata, associò ben presto ai suoi<br />

interessi eminentemente agricoli quelli squisitamente commerciali.<br />

Niente di più comprensib<strong>il</strong>e, vista la necessità di fare assorbire dal mercato la produzione<br />

agricola in eccedenza. Da un'economia prevalentemente domestica si passava dunque ad un<br />

sistema aperto agli scambi commerciali con i popoli limitrofi, senza per questo compromettere<br />

le tradizionali abitudini frugali di un popolo dai gusti sobri.<br />

Gli etruschi emigrati nella città capitolina, insieme ad altre popolazioni italiche, non sembra<br />

avessero nel minimo modo scalfito o corrotto gli usi alimentari dei romani, limitandosi invece a<br />

trasmettere le loro conoscenze in materia tecnica ed idraulica.<br />

La dieta base dei romani nel periodo monarchico e nei primi anni della Repubblica (V<br />

sec. a.C.) si incentrava su poche pietanze, come legumi, verdura, e focacce di farro o<br />

di orzo. Il pane di farina e la carne erano poco usati, e di vino non era presente.


Il romano lavorava tutto <strong>il</strong> giorno nei campi o faceva la guerra e non aveva tempo per<br />

sv<strong>il</strong>uppare una raffinata cucina, della quale del resto non possedeva alcun modello da imitare.<br />

La Grecia era lontana, ed <strong>il</strong> richiamo rappresentato dal classicismo non aveva ancora sortito i<br />

suoi effetti ammaliatori su un popolo misurato e parco come quello romano.<br />

L'aria di austerità che ancora si respirava nella città capitolina al momento dell'instaurazione<br />

della Repubblica (509 a.C.) era in parte determinata dalla volontà di mantenere la cosiddetta<br />

“pax deorum”, che qualsiasi comportamento dissoluto avrebbe irrimediab<strong>il</strong>mente<br />

compromesso.<br />

La base dell'alimentazione degli inizi di questa civ<strong>il</strong>tà era rappresentato dalla "polta"<br />

o puls, semplice farina di farro cotta in acqua salata, paragonab<strong>il</strong>e come consistenza<br />

alla polenta.<br />

La polta era un alimento popolare molto povero. Per questo, per migliorarne <strong>il</strong> gusto, si<br />

aggiungeva un po' di tutto: fave, lenticchie, cavoli, cipolle.<br />

Ai primi posti nei consumi dell'epoca troviamo aglio, cipolla, carote, funghi, rape e cavoli.<br />

Anche asparagi e porri, proprio perché abbondanti allo stato selvatico, erano in cima alle<br />

preferenze del popolo. Nella classifica degli alimenti più mangiati non poteva di certo mancare<br />

<strong>il</strong> cavolo, consumato, come suggerisce Catone, persino crudo.<br />

I romani, però, non erano soltanto grandi "mangiatori di erbe", come affermava Plauto. Nei<br />

loro pollai allevavano le galline per produrre le uova necessarie a integrare una dieta<br />

altrimenti povera di proteine. Erano le donne ad occuparsi dell'allevamento di animali da cort<strong>il</strong>e<br />

ma questi, più che per essere mangiati, servivano per la produzione delle uova. Dalla loro<br />

forma cercavano di stab<strong>il</strong>ire <strong>il</strong> sesso del nascituro: quelle di forma allungata erano ritenute<br />

futuri maschi, quelle più tonde avrebbero fatto nascere pulcini di sesso femmin<strong>il</strong>e.<br />

Se la carne era ancora un lusso destinato a pochi, <strong>il</strong> latte era sicuramente uno degli<br />

alimenti più importanti nella dieta di base: bevuto fresco, cagliato, o trasformato in<br />

formaggi. Era consumato soprattutto <strong>il</strong> latte di pecora e di capra. Quello di mucca era poco<br />

conosciuto nell'Italia centrale e meridionale.<br />

I romani d’epoca repubblicana traevano sostegno alimentare dalla coltivazione di un piccolo<br />

appezzamento di terreno: l'orto.<br />

Durante la stagione invernale, nelle case dei romani, si attingeva a provviste messe insieme<br />

con radici, carne di maiale salata e affumicata, lardo, formaggi e miele. Gli alimenti venivano<br />

conservati in salamoia, nel miele o in aceto: <strong>il</strong> sale aveva un'enorme importanza e <strong>il</strong> primo<br />

lusso che ogni famiglia si concedeva era proprio una saliera d'argento.<br />

Il secolo cruciale che segna la svolta nelle abitudini alimentari romane è <strong>il</strong> II a.C..<br />

Roma in precedenza si era impadronita dell'Italia e ne aveva monopolizzato le reti commerciali<br />

e quelle di transito. Con la vittoria nelle guerre puniche l'avversario storico di Roma, Cartagine,<br />

viene a cadere lasciando <strong>il</strong> bacino del Mediterraneo e tutti i territori annessi, alla sua mercè.<br />

Il dominio incontrastato di Roma sulla principale rotta commerciale del mondo fino ad allora<br />

conosciuto, è la prova più chiara del suo assurgere al rango di prima potenza del globo<br />

terrestre. L'affluire di immense quantità di prodotti sui mercati romani, provenienti<br />

dalle zone conquistate, creò le premesse per un cambiamento epocale in termini di<br />

preferenze alimentari.<br />

Ad affinare i gusti dei romani provvidero le migliaia di greci che in qualità di cuochi o di fornai<br />

si misero al servi delle famiglie più in vista della città. I greci portarono a Roma <strong>il</strong> pane, o<br />

meglio tutte le varietà di pane che erano in grado di impastare con dovizia artistica.<br />

Prima di quell'epoca i romani non conoscevano <strong>il</strong> lievito, elaborando forme alquanto<br />

rudimentali di pane al quale preferivano le pittoresche pappe di cereali. L'esimio<br />

rappresentante del senato romano, Catone, si lamentava che i suoi concittadini avevano<br />

abbandonato in massa la dieta a base di pappa di farro per adottare <strong>il</strong> gusto greco del pane. In<br />

ciò egli vedeva un allontanamento dal "costume degli antenati". Fu nel 171 a.C. che a Roma,<br />

con l'istituzione del primo forno commerciale, s'inizio ad attribuire valenza simbolica a questo<br />

alimento


Cibi e sapori nella società romana<br />

Nel ripercorrere le consuetudini alimentari dei Romani viene subito alla mente un noto passo di<br />

Seneca, in cui l’austero f<strong>il</strong>osofo lamenta come la civ<strong>il</strong>tà del suo tempo avesse indebolito delle<br />

proprie qualità morali dei suoi contemporanei, dediti com’erano alla sregolatezza dei costumi<br />

(Cons. ad Helviam, X,1-7).<br />

La nostalgia della “parsimonia veterum”, la tanto ostentata frugalità degli antichi,<br />

vagheggiata al punto tale da essere considerata come una felice età dell’oro, trova riscontro<br />

nel considerare che l’alimentazione primitiva dei popoli latini era costituita prevalentemente da<br />

puls, come ricorda Plauto (pulte, non pane, vixisse longo tempore Romanos manifestum).<br />

Questa era una sorta di polenta di farina di farro, piuttosto insipida, cotta in acqua e sale, che<br />

veniva accompagnata prevalentemente da legumi, piccoli pesci salati (gerres o maenae),<br />

frutta, formaggi e, raramente, dalla carne.<br />

D’altro canto una dieta prevalentemente vegetale era propria anche della società etrusca<br />

come ricordano le fonti quando esaltano la fert<strong>il</strong>ità dei campi della Tuscia, né si può<br />

dimenticare che fu questo popolo a rifornire Roma di grano nei momenti di grave carestia,<br />

trasportandolo attraverso quella magnifica via di comunicazione che fu <strong>il</strong> Tevere (Liv., Hist. II,<br />

34: “ex Tuscis frumentum Tiberi uenit”).<br />

Proprio gli Etruschi, con la loro economia opulenta, cominciarono a presentare sulle mense,<br />

nella fattispecie quelle dei ceti più agiati, ai quali “le possib<strong>il</strong>ità economiche e le necessità del<br />

decoro gent<strong>il</strong>izio lo consentivano” (M. Pallottino) una maggiore varietà di cibi, tra cui le carni di<br />

caccia, di selvaggina o di allevamento, decisamente più gustose e più ricche di proteine e di<br />

grassi rispetto ai vegetali.<br />

Riguardo ai Greci sappiamo che essi, in fatto di alimentazione, ebbero invece gusti piuttosto<br />

semplici almeno fino all’età ellenistica, allorquando la stessa Roma, entrata in contatto con le<br />

città della Magna Grecia, cominciò ad apprezzare appieno i prodotti di alcune colture fino ad<br />

allora usate per lo più a scopo rituale, come l’olivo e la vite.<br />

Nella penisola italica l’agricoltura e la pastorizia, almeno fino all’età imperiale, vennero<br />

condotte da “piccoli proprietari terrieri, soldati agricoltori che si erano venuti sostituendo agli


antichi proprietari locali e che si erano stanziati con le loro famiglie negli appezzamenti loro<br />

assegnati come paga” (P. Qu<strong>il</strong>ici).<br />

Tale circostanza trova riscontro nei trattati di eminenti scrittori, tra cui celebre <strong>il</strong> “De agri<br />

cultura” di Catone <strong>il</strong> Censore (234-149 a.C.) ove compaiono preziose informazioni sulla<br />

conduzione dei possedimenti agrari. Anche Varrone (116-27 a.C.) nel “De re rustica”, opera<br />

suddivisa in tre libri, tratta della coltivazione dei campi, delle vigne e degli oliveti,<br />

soffermandosi in particolar modo sui vari tipi di allevamento propri delle v<strong>il</strong>lae, a testimoniare <strong>il</strong><br />

diffondersi di un nuovo, raffinato consumismo nella Capitale.<br />

Fu proprio con la fine della Repubblica e l’inizio dell’Impero, infatti, che la condizione<br />

alimentare dei Romani cambiò radicalmente. In particolare la battaglia di Azio (31 a.C.)<br />

segnò l’avvio dei contatti commerciali con l’Egitto, e quindi con l’Oriente e l’Asia così che, a<br />

partire dall’età augustea, iniziarono ad arrivare nell’Urbe prodotti provenienti da ogni paese e<br />

si può dire a ragione, insieme a Plinio, che Roma conobbe “tutto quanto la terra produce di<br />

bello e di buono”.<br />

E’ questo <strong>il</strong> momento in cui abbandonata ormai l’esigenza puramente fisiologica di<br />

soddisfare un desiderio primario quale quello di nutrirsi, si passò a scoprire, anche<br />

con l’introduzione delle spezie e dei profumi, l’aspetto “culturale” dell’alimentazione,<br />

passando, in altre parole, dai cibi ai sapori.<br />

Così l’usanza di investire ingenti capitali nella preparazione di fastosi banchetti in cui facevano<br />

bella mostra di sé prodotti esotici ed elaborate pietanze rappresentò, da questo periodo, una<br />

tra le più elevate forme di ostentazione del lusso fra le classi benestanti romane, come riferisce<br />

lo stesso Marziale (Ep., XII,41) quando sottolinea la moda del suo tempo di mostrarsi e far<br />

parlare di sé tramite <strong>il</strong> gusto di mangiare: “non è sufficiente, per te, Tucca, essere goloso: vuoi<br />

che così si dica di te, e così apparire…”.<br />

Anche l’allestimento della mensa divenne, ben presto, parte indispensab<strong>il</strong>e al<br />

godimento quanto <strong>il</strong> gusto: durante un convito offerto da Nerone, come riferisce Svetonio,<br />

vennero infatti spesi oltre quattro m<strong>il</strong>ioni di sesterzi per la sola decorazione floreale (Nero,<br />

XXVII).<br />

Un esempio della fastosità dei banchetti dell’epoca ci è dato anche dal racconto della cena del<br />

ricco Trimalcione, descritta con raffinata ironia da Petronio, nel Satyricon. Interessante, nella<br />

narrazione della stravagante serata, è senza dubbio l’elogio rivolto dal padrone di casa al suo<br />

cuoco, capace, come egli dice, di “ trasformare un lardo in un piccione, un prosciutto in una<br />

tortora, uno zampone di maiale in una gallina”.


Questa affermazione ci dà un importante indizio sul concetto di cucina presso i Romani, i quali<br />

sostanzialmente tendevano ad apprezzare i cibi quanto più venivano elaborati.<br />

E’ evidente che tali preparazioni dovevano essere particolarmente impegnative per la<br />

digestione dei commensali, e di questo ci fornisce ancora una prova lo stesso Trimalcione<br />

quando si scusa con i propri ospiti di una improvvisa assenza dalla tavola, perché confessa di<br />

avere, da più giorni, disturbi di ventre a cui i medici non erano riusciti a porre rimedio, se non<br />

con la prescrizione di una scorza di pomo granato lasciata macerare nell’aceto.<br />

Gli eccessi alimentari e le follie gastronomiche descritte da vari autori latini riguardo<br />

a celebri banchetti e fastose cene, come quella appena ricordata, favorirono ben<br />

presto, specie presso i ceti più abbienti ed elevati della società, l’insorgere di<br />

malattie di origine alimentare, legate nella fattispecie all’abuso di cibo.<br />

I medici romani, per la verità, avevano sempre sostenuto la moderazione nel nutrirsi e<br />

consigliato, in casi estremi, la pratica del digiuno. Con tali prescrizioni e osservando una<br />

corretta igiene alimentare, allo scopo di limitare <strong>il</strong> consumo disordinato dei cibi, si sarebbe<br />

potuto raggiungere un adeguato equ<strong>il</strong>ibrio dietetico, ma <strong>il</strong> confluire nella Capitale di<br />

molteplici ricchezze comportò, oltre all’ampliamento del numero di derrate, anche<br />

l’introduzione sul mercato di nuovi e sempre più accattivanti prodotti alimentari.<br />

Pertanto le patologie gastrointestinali e quelle legate alle alterazioni del metabolismo o alla<br />

sedentarietà, quali obesità, calcolosi e gotta, aumentarono proporzionalmente all’accresciuto<br />

benessere. Ma ancor più che per gli eccessi alimentari queste affezioni derivarono dalla natura<br />

stessa delle sostanze, dalla mescolanza di cibi talvolta “incompatib<strong>il</strong>i “ tra loro o dall’eccessiva<br />

elaborazione dei piatti, sorprendenti da un punto di vista scenografico, ma dannosi per la<br />

salute. Si pensi ad esempio agli ingredienti che costituivano una delle pietanze pred<strong>il</strong>ette<br />

dall’imperatore Vitellio: un complicato trionfo gastronomico composto da cervelli di pavoni,<br />

lingue di fenicotteri e lattigini di murene, o ai quadrupedi preparati interi con elaborate<br />

farciture (Ap., De re coq., VIII). Così Orazio, in una delle sue Satire, descrive un’ indigestione<br />

come conseguenza di un surplus alimentare: “ a che punto la varietà dei cibi sia nociva per<br />

l’uomo puoi capirlo se ripensi a come hai fac<strong>il</strong>mente digerito quella pietanza semplice che hai<br />

mangiato un giorno, mentre invece non appena gli avrai mescolato <strong>il</strong> bollito e l’arrosto, i<br />

molluschi e i tordi… si genererà lo scompiglio nel tuo stomaco” ( Sat. II, 2,71-75).<br />

Ancora Plinio afferma che <strong>il</strong> miglior alimento per gli uomini è quello meno artefatto, mentre<br />

Galeno, al riguardo, sostiene che neppure <strong>il</strong> medico dovrebbe essere del tutto ignaro delle arti<br />

di cucina, poiché molte volte <strong>il</strong> successo di una dieta dipende proprio da una buona<br />

preparazione del cibo.


“Apicio, <strong>il</strong> più grande tra gli scialacquatori”<br />

Parlando di ars culinaria non si può fare a meno di ricordare la figura del più famoso<br />

buongustaio dell’età imperiale: Marco Gavio Apicio. Vissuto sotto Tiberio (14-37 d.C.) questo<br />

personaggio rappresentò un simbolo del suo tempo, allorchè mitigatasi la corrente<br />

moralizzatrice del periodo augusteo, la ricerca dei piaceri della vita divenne per i Romani<br />

fondamentale punto di riferimento.<br />

Avvezzo alla “dissolutezza più raffinata”, egli intratteneva i suoi aristocratici ospiti offrendo loro<br />

elaborate pietanze quali <strong>il</strong> pappagallo arrosto, l’utero di scrofa ripieno o i ghiri farciti, di cui,<br />

secondo la tradizione, avrebbe lasciato le ricette in un corpus di cucina dal titolo “De re<br />

coquinaria”, opera redatta, con buona probab<strong>il</strong>ità, solo nel IV secolo d.C.<br />

Se vogliamo dar credito a Plinio, (N.H., VIII, 209) è proprio a questo stravagante personaggio,<br />

da lui definito “<strong>il</strong> più grande tra tutti gli scialacquatori”, che andrebbe attribuita l’invenzione del<br />

foie gras, <strong>il</strong> fegato ingrassato coi fichi, da cui <strong>il</strong> termine ficatum che passò poi genericamente<br />

ad indicare l’organo epatico. Relativamente alla cottura dei cibi, alcune delle “prelibatezze”<br />

apiciane erano realizzate cuocendo e ricuocendo più volte le carni, in acqua, nel latte, in olio ed<br />

infine in una salsa arricchita di spezie (De re coq., VIII,6). E se è vero, come proclamava<br />

Galeno che “ i cibi ben cucinati stimolano l’appetito e risparmiano molto lavoro allo stomaco “ è<br />

altrettanto vero che la prolungata cottura degli alimenti doveva comportare <strong>il</strong> depauperamento<br />

dei principi nutritivi più nob<strong>il</strong>i. Una insigne critica alla figura di Apicio fu mossa da Seneca,<br />

quando, descrivendolo corruttore del suo tempo, lo ritrasse come un “cattivo esempio” per i<br />

giovani, (Cons. ad Helviam, X ,8) mentre Marziale lo ricorda affermando : “avevi profuso,<br />

Apicio, per la tua golosità sessanta m<strong>il</strong>ioni di sesterzi e ti rimaneva ancora un bel margine di<br />

dieci m<strong>il</strong>ioni. Ma tu hai rifiutato di sopportare quella che per te era fame e sete e hai bevuto,<br />

come ultima bevanda, <strong>il</strong> veleno: non avevi mai agito, Apicio, più golosamente” (Ep. III,22).<br />

Furono questi “dissipati” insegnamenti che condussero la società di allora a passare, in pochi<br />

anni, dal panis secundarius, realizzato con la farina integrale e pred<strong>il</strong>etto dall’austero Augusto,<br />

a manifestazioni di lusso smodato come quella dell’imperatore Caligola, che ingeriva preziose<br />

perle sciolte nell’ aceto, fino all’elaborato tetrafarmaco di Adriano, un composto di pasta dolce<br />

ripieno di diversi tipi di caggiagione, molto apprezzato, secondo quanto riferito dal biografo Elio<br />

Sparziano, dall’imperatore che, probab<strong>il</strong>mente, se lo fece più volte servire nei raffinati ambienti<br />

della sua celebre residenza tiburtina.


Dalle “coppe degli scheletri” alle invettive di Ennodio<br />

Il diffondersi del gusto per <strong>il</strong> cibo fece sì che anche la tavola, <strong>il</strong> luogo ove i pasti venivano<br />

consumati, assumesse, progressivamente, un significato simbolico e culturale.<br />

Rappresentazione del passaggio tra <strong>il</strong> piacere della vita e <strong>il</strong> sopraggiungere della fine<br />

dell’esistenza, <strong>il</strong> momento del banchetto vide, sempre di più, <strong>il</strong> propagarsi della inquietante<br />

presenza della Morte, intesa apotropaicamente come invito a lasciarsi andare alle lusinghe del<br />

presente. Al proposito giova ricordare come questo tema, spesso effigiato nei mosaici dei<br />

triclini, si ritrovi anche nel prezioso vasellame argenteo del tesoro di Boscoreale, ove in<br />

particolare due coppe rappresentano gruppi di scheletri di scrittori e f<strong>il</strong>osofi greci affiancati da<br />

scritte del tipo: “Godi, finchè sei in vita, <strong>il</strong> domani è incerto”, e ancora “La vita è un teatro”,<br />

oppure “Il piacere è <strong>il</strong> bene supremo”.<br />

Uno scheletro d’argento compare, tra l’altro, anche fra le mani del già ricordato Trimalcione,<br />

(Satyr., VI) che al termine della memorab<strong>il</strong>e cena giungerà al punto di leggere ai malcapitati<br />

ospiti, tra i singhiozzi della servitù, una copia del proprio testamento, parodiando poi una<br />

celebrazione funebre. (Satyr., XIV-XV).<br />

E senza dubbio dovette essere <strong>il</strong> vino <strong>il</strong> principale ispiratore di tante profonde riflessioni sulla<br />

caducità della vita, forse perché <strong>il</strong> godimento è lo stato dell’animo più prossimo alla perdita<br />

della ragione, <strong>il</strong> più vicino al senso di distruzione e di annullamento così bene rappresentato<br />

dalla “misteriosa” e tremenda figura di Dioniso, dio della sfrenatezza e dell’estasi.<br />

Così se i primi vini dei Romani dovettero essere non molto diversi da un mosto fermentato di<br />

incerto gusto, già durante la fine della Repubblica, con la coltivazione di più qualità di uve, si<br />

iniziò a migliorare “<strong>il</strong> palato” e ad apprezzare le innegab<strong>il</strong>i doti di questa bevanda. Fu<br />

comunque con l’età imperiale che cominciarono ad affluire sulle tavole dei Romani i migliori<br />

vini allora conosciuti, molti dei quali importati dalla Grecia. Trattati con l’acqua del mare o<br />

anche con l’arg<strong>il</strong>la o con <strong>il</strong> sale, per ravvivarne la mitezza del gusto, i vini realizzati alla<br />

“maniera greca” avevano <strong>il</strong> pregio di mantenersi più a lungo, ma al contempo, come riferisce<br />

Plinio, erano controindicati alla salute dello stomaco e della vescica (N.H., XXIII,46). Sempre<br />

Plinio, poi, ricorda che niente altro è più dannoso al benessere fisico, del vino usato oltre<br />

misura ( Plinio, N. H. XIV, 7) r<strong>il</strong>evando come <strong>il</strong> giorno dopo un’ubriacatura “ l’alito sa di botte …<br />

e la memoria è come morta”, poichè, aggiunge, “mentre coloro che bevono pensano di<br />

prendere in pugno la vita, ogni giorno, come tutti , perdono <strong>il</strong> giorno precedente, ma ancor più<br />

quello successivo…” (Plinio, N. H. XIV, 28)


Contrariamente all’uso moderno, che prevede di assumerlo assoluto, gli antichi erano soliti<br />

bere <strong>il</strong> vino miscelandolo con acqua fredda o con neve in estate, mentre in inverno lo d<strong>il</strong>uivano<br />

in acqua calda. Tale uso deriverebbe dall’ antica consapevolezza secondo cui, mentre bere vino<br />

puro costringe gli uomini a camminare curvi sulle gambe, <strong>il</strong> vino d<strong>il</strong>uito consente loro di<br />

mantenere un’andatura “diritta”. Questa consuetudine, peraltro documentata da Ateneo<br />

(Deipn., X, 427,a-b e II, 38,c ) in alcuni versi del poeta greco Anacreonte (VI sec. a.C.) ed in<br />

F<strong>il</strong>ocoro ( (IV sec. a.C.), si ritrova ancora nella prima metà del secolo IV dopo Cristo in una<br />

vivace scena di banchetto nelle catacombe romane dei SS. Marcellino e Pietro ove,<br />

nell’arcosolio detto di Sabina, oltre alle anfore ed al piatto di portata, compare anche uno<br />

scaldabevande. Insieme con <strong>il</strong> pane ed i pesci, simboli di fede, <strong>il</strong> vino divenne allora elemento<br />

fondamentale dell’agape cristiana.<br />

La morale del tempo, tuttavia, prevedeva di avvicinarsi a questa bevanda con estrema<br />

moderazione, per evitare situazioni sconvenienti.<br />

Anche nella scelta dei pasti vi fu un ritorno all’ originaria frugalitas preferendo, per motivi di<br />

sobrietà, cibi poveri come i legumi, le verdure, <strong>il</strong> latte e i formaggi, mentre le carni ed i piatti<br />

elaborati vennero deliberatamente allontanati dalle mense, rinunciando così, per un precetto<br />

religioso, ai piaceri del palato; a tale proposito ammoniva infatti S. Ambrogio: “chi indulge in<br />

cibi e bevande, non crede nell’ald<strong>il</strong>à” (Hel. 3,4; 4,7; Ep- 63,19).<br />

A queste severe prescrizioni fa comunque riscontro un interessante fenomeno sociale che si<br />

diffuse in special modo a partire dalla pace della Chiesa (313 d.C.), vale a dire <strong>il</strong> moltiplicarsi<br />

dei banchetti funebri consumati sulle tombe venerate dei martiri nel giorno della<br />

commemorazione del loro dies natalis (data della deposizione). Questi refrigeria, che<br />

consistevano in una libagione di vini o in un vero e proprio pasto comunitario, venivano<br />

condotti in un clima di tale festosa celebrazione, che divenne quasi una regola, per i fedeli,<br />

trascorrere intere giornate in “abundantia epularum et ebrietate”, come ricorda con disappunto<br />

S. Agostino ( Ep., XXIX, 2).<br />

Già nel corso del V secolo, tuttavia, sotto la spinta moralizzatrice dell’autorità ecclesiastica, <strong>il</strong><br />

fenomeno degli abusi alimentari iniziò progressivamente a mitigarsi, tanto che nella prima<br />

metà del VI sec. Ennodio, vescovo di Pavia, poteva così esortare i suoi concittadini: “Pregate,<br />

miseri convitati, per i molti lutti: verranno tanti pranzi per quanti saranno i funerali”<br />

(Carm.,2,28).<br />

La stagione di Apicio e delle sue dissolutezze poteva dirsi definitivamente conclusa.

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