Ordine aprile 2000 - Ordine dei Giornalisti

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17.06.2013 Views

Milano rende omaggio con una mostra al grande maestro della fotografia Mario De Biasi di Gino Banterla Ha fotografato con la stessa passione le scene di guerra e una goccia di rugiada appesa a un filo d’erba, la disperazione dei terremotati del Belice e i riflessi di una pozzanghera dopo la pioggia, le trasformazioni metropolitane e i malinconici paesaggi agresti, i potenti della terra e i volti anonimi che incontriamo nella vita quotidiana. Il suo segreto: un’eccezionale professionalità costruita giorno dopo giorno e un’inesauribile curiosità. Lui minimizza: “Mi piace girare, scoprire qualche cosa che la gente normalmente non vede e raccontarla con le immagini”. Mario De Biasi, classe 1923, è uno dei grandi maestri della fotografia mondiale del nostro secolo. Le sue fotografie sono impresse nella memoria di milioni di persone, non soltanto in Italia. E oggi, nell’era televisiva e di Internet, rimangono a testimonianza di un giornalismo che sapeva conquistare i lettori non a colpi di gadget ma con la qualità dei suoi servizi. De Biasi ora non viaggia più come una volta. Ma non si concede riposo. Anzi, la sua attività è febbrile, gli impegni si susseguono intensi: workshop, incontri con i giovani, impaginazione di nuovi libri, che vanno ad aggiungersi ai cinquanta sinora pubblicati. Naturalmente, a scandire i tempi delle sue giornate, sono i “clic” della macchina lo sguardo sulla vita Epoca, le 130 copertine dell’“italiano pazzo” fotografica. Ora usa il piccolo formato, più versatile: “L’ultima volta che ho fotografato con una 6x6 è stata all’Expo di Osaka nel 1970”, spiega. Nella tranquillità della sua casa di Milano De Biasi riesce anche a trovare il tempo per coltivare un’altra antica passione, quella grafica e pittorica. Continua infatti a produrre acquerelli, tempere, chine, acrilici. O disegni multicolori tracciati più semplicemente con la biro e il pennarello. Un’immensa produzione sconosciuta al grande pubblico. I suoi temi preferiti: alberi, foglie, volti, uccelli, farfalle, animali fantastici. Ogni anno sceglie un tema nuovo, ma ce n’è uno che lo ha accompagnato per tutta la vita: il sole. Ne ha disegnati più di tremila. Sono queste le “pause di De Biasi”, secondo la definizione che diede Bruno Munari presentando una sua mostra. Lui dice: “Disegnare mi tiene sveglia la fantasia”. Milano, la “sua” Milano raccontata in numerosi libri, gli rende ora omaggio con una mostra all’Arengario aperta fino al 30 aprile. Duecento fotografie, scelte tra le centinaia di migliaia scattate a partire dagli anni Quaranta, diventano altrettante tessere dell’immenso mosaico cosmopolita composto in oltre mezzo secolo di militanza dietro la macchina fotografica. Bellunese d’origine, montanaro nel fisico e soprattutto nello spirito, Mario De Biasi Alla fine del 1952 il grande salto. De Biasi presenta i suoi lavori a Sergio Polillo, Renzo Segala ed Enzo Biagi, che guidano la nuova rivista di Arnoldo Mondadori, “Epoca”. Pochi giorni dopo viene assunto come fotografo di redazione. Da quel momento, e per trent’anni, la storia di De Biasi e del settimanale sono un tutt’uno. Realizzerà 130 copertine. Un record. “Epoca”, il cui primo numero era uscito il 14 ottobre 1950, direttore Alberto Mondadori, sull’onda del successo dell’americana “Life”, è diretta a partire dal 1953 dal trentatreenne Enzo Biagi. Dopo faticosi tentativi il giornale decolla. Grazie alla piena valorizzazione della fotografia, diventa lo specchio dell’Italia che cambia dopo gli orrori della guerra e in breve tempo si mette alla pari con le grandi riviste illustrate del mondo: “Paris Match”, “Stern”, “Geographic Magazine”, oltre naturalmente a “Life”. Nascono i primi grandi reportage di De Biasi dall’estero: l’alluvione del 1953 in Olanda, nel 1954 gli scoop su Nasser privato in Egitto e su Onassis a New York, le strazianti testimonianze sulla rivolta ungherese nel 1956. Superata con sangue freddo una serie infinita di pericoli torna dall’inferno di Budapest con un reportage che nessun altro è riuscito a realizzare. “L’italiano pazzo”, lo chiamano i suoi colleghi stranieri per la freddezza con la quale affronta i pericoli del mestiere in situazioni così difficili. “Epoca” dedica alla tragedia ungherese uno speciale di 30 pagine. Il servizio viene venduto da Mondadori Press in tutto il mondo. Fornito di sempre più sofisticate macchine, affermatosi con un suo personalissimo stile che unisce obiettività e sensibilità, rigore formale e spessore documentario, De Biasi corre negli epicentri degli avvenimenti: la rivoluzione in Venezuela, l’intervento americano in Libano, l’intervento inglese in Giordania, il terrorismo alto-atesino. Nel 1958 escono due grandi inchieste su Argentina e Brasile, che anticipano la tradizione degli inserti speciali degli anni Sessanta. Scorrono i ricordi di quel periodo. “Nel dicembre 1959 venni incaricato di seguire il matrimonio dello scià di Persia”, racconta. “La Mondadori Press aveva venduto il servizio a sette-otto paesi ancor prima che io lo realizzassi. Arrivai a Teheran, ed ecco la sorpresa: ai fotografi accreditati era vive nel capoluogo lombardo da oltre sessant’anni. Vi era approdato nel 1938. La sua vita ha momenti leggendari, come sempre accade per gli uomini di successo che si sono fatti da soli. Dopo essersi diplomato a un corso serale dell’Istituto Radiotecnico trova lavoro alla Magneti Marelli di Sesto San Giovanni. Una sera del 1944, di ritorno dalla fabbrica, viene bloc- cato in piazzale Loreto dalle squadre dell’organizzazione tedesca Todt e deportato a Norimberga, dove è costretto ai lavori forzati per un anno. Nel 1945, tra le macerie di Norimberga bombardata, trova un manuale di fotografia. Nasce lì la sua passione. Armato di una Welta 6x6 a soffietto e senza telemetro inizia in Germania le prime riprese: le distruzioni della permesso riprendere una sola immagine ufficiale al palazzo reale dopo il matrimonio. Avvisai la redazione: era impossibile realizzare il servizio. Per risposta Biagi mi telegrafò: “Per te niente è impossibile. Buon lavoro”. Riuscii a superare lo sbarramento di poliziotti e a intrufolarmi nel corteo. Potei scattare tutte le foto che volevo”. De Biasi ha sempre pubblicato le sue fotografie così come le ha fissate sulla pellicola, con la stessa inquadratura. Unica eccezione, il famoso ritratto di Marlene Dietrich, forse in assoluto il più bello. Spiega: “Quella è l’unica fotografia tagliata. L’ho scattata nel 1956 con la Rolleiflex a Montecarlo. Allora non avevo il teleobiettivo, lei era su uno yacht e non potevo avvicinarmi. Dopo vent’anni ho ripreso in mano il negativo e ho tirato fuori il volto. È l’unica fotografia reinquadrata a posteriori”. La magnifica squadra di Sampietro il terribile Con la direzione di Nando Sampietro, dal 1960 al 1969, “Epoca” si afferma come enciclopedia contemporanea dell’Italia e del mondo. Il mitico direttore potenzia la squadra fotografica, composta, oltre che da De Biasi che la guiderà, da Sergio Del Grande, Giorgio Lotti, Walter Mori, Walter Bonatti, Vittoriano Rastelli, Mauro Galligani, Nino Leo. E le tirature del settimanale, che dà voce alla borghesia più colta, ai professionisti, ai docenti, al mondo politico e imprenditoriale, aumentano fino a raggiungere punte di 600 mila copie. È il periodo più felice per De Biasi e per il giornale. Il fotografo percorre le strade del mondo: dalle brughiere della Scozia agli alveari umani di Hong Kong, dalla guerriglia in Guatemala ai giacimenti di diamanti in Sudafrica, dalla guerra-lampo di Israele ai trionfi degli astronauti americani di ritorno dalla Luna, dal gelo della Siberia al caldo infuocato delle piste sahariane. Sempre in compagnia di uno o più giornalisti. “Con loro avevo rapporti buoni”, dice. “Anche se a volte pensavano soprattutto al loro pezzo e ignorava- Mario De Biasi guerra e soprattutto la gente che incontra per le strade. Milano 1946: ritorno alla normalità e al lavoro alla Magneti Marelli. Ma l’interesse di De Biasi è tutto rivolto alla fotografia, alla quale dedica ogni momento del suo tempo libero e ogni energia. La Brianza, la Valsassina e naturalmente Milano: in bicicletta percorre in lungo e in “Milano 1954. Gli italiani si voltano”, la foto-simbolo degli anni Cinquanta. La mostra “Mario De Biasi. Fotografia e passione” (Palazzo dell’Arengario, piazza Duomo, Milano) è aperta fino al 30 aprile. Orario; 9,30-18,30. Lunedì feriale chiuso. Catalogo Motta Editore a cura di Attilio Colombo. largo campagne, paesi e città, alla ricerca di volti, di paesaggi, di architetture. Nel 1948 espone le prime immagini al Circolo fotografico milanese; nel 1952 il quinto Salone internazionale della fotografia alla Triennale di Milano gli dedica una mostra personale. Sono gli anni in cui la poetica neorealista esaltata dal cinema pervade anche la fotografia. no le necessità del fotografo. Ho realizzato alcuni servizi con Livio Caputo, giornalista straordinario. In Iran, per esempio, mi è capitato di fare alcune fotografie di un pastore circondato dalle sue pecore. Poi vedevo un altro pastore con altre pecore e mi fermavo a fotografarlo. Livio mi diceva: “ma queste immagini le hai già”. Io gli rispondevo: “no, perché se io oggi vedo un pastore con venti pecore, lo fotografo; se domani ne vedo un altro con quaranta pecore, fotografo anche lui; se dopodomani trovo altri pastori, non rinuncio a fotografare anche loro. Nessuna immagine è uguale a un’altra”. Era accaduto altre volte che De Biasi riprendesse in modo apparentemente ossessivo uno stesso soggetto. Per esempio quando, nei pressi dell’abbazia di Chiaravalle, aveva scorto in un campo alcuni inconsueti spaventapasseri che stimolarono la sua fantasia. Si trattava di vecchie bambole rotte issate su pali. Tornò in quel campo più volte per ritrarle con la pioggia, col sole, con la neve. Un’altra volta, sulla collinetta di San Siro ricavata dalle macerie dei bombardamenti, si imbatté in una statua femminile forse proveniente da una Triennale milanese. Per quindici anni tornò a fotografare quella figura, per seguirne i segni del decadimento. Nulla è ripetizione. E mentre nei ritagli di tempo libero De Biasi si dedicava a queste milanesissime escursioni segrete, alla ricerca di significati arcani, “Epoca” pubblicava i suoi speciali a colori (L’Italia meravigliosa, L’Europa meravigliosa, I grandi musicisti, Le città più belle del mondo e tanti altri), che venivano raccolti e accuratamente conservati da migliaia di famiglie italiane. Venne venduto in tutto il mondo lo splendido servizio che raccontava per immagini le prime ore di vita di un bambino. “Il direttore mi disse: le do tutto il tempo che vuole”, ricorda De Biasi. “Andai alla clinica Mangiagalli di Milano, mi diedero un camice e cominciai ad assistere ai primi parti. Ma uscivano soltanto mostriciattoli. Non era facile realizzare questo servizio. Al cinquantaseiesimo parto finalmente trovai le immagini giuste. Il servizio uscì su 20 pagine, accompagnato da un testo di Vittorio G. Rossi, sul numero di Natale 1966”. Un altro episodio, un’altra copertina famosa di “Epoca” del maggio 1964 dedicata a una spettacolare eruzione dell’Etna. “Era andato sul posto un 26 (34) ORDINE 4 2000

Scuola di Rocca Imperiale, Calabria, 1954. Viadotto di Maddaloni, Campania, 1955. nostro fotografo, ma tornò senza un’immagine”, ricorda De Biasi. “Sampietro allora mandò me. Salii sul vulcano di sera, da solo. Le guide non volevano accompagnarmi perché dicevano che era troppo pericoloso. Riuscii a riprendere una serie di eccezionali fotografie. Ma per realizzare quel servizio ho rischiato di essere inghiottito dal fiume di lava. In copertina uscì il titolo: “Il nostro fotografo ha rischiato la vita per scattare le immagini più drammatiche dell’anno”. È uscito un inserto di 20 pagine a colori che poi è circolato anche nelle scuole”. Sampietro aveva idee geniali, che riuscivano a instaurare tra rivista e lettori un legame strettissimo. Ricorda De Biasi: “Durante la preparazione di uno speciale sull’Africa fu riprodotta su una cartolina la mia fotografia di un gattopardo. Poi firmammo sul retro tutti noi, fotografi e giornalisti inviati in Africa. La cartolina venne stampata a regola d’arte in migliaia di copie dalle Officine Grafiche Mondadori di Verona con le nostre firme in fac-simile. Sembravano proprio originali. Durante il reportage spedimmo quelle cartoline agli “Amici di Epoca”. Quando vado in giro a fare fotografie qualcuno mi dice: “conservo ancora la cartolina che lei mi ha spedito dall’Africa””. Al timone della Mondadori c’era il vecchio Arnoldo. “Quando vedeva un mio servizio importante su “Epoca”, si complimentava personalmente”, ricorda De Biasi. “E se ero all’estero mi mandava un telegramma. Allora non soltanto gli editori, ma anche i giornali erano diversi. I servizi uscivano puliti, non disturbati dalla pubblicità come accade oggi”. Erano tempi d’oro. Sampietro ripeteva ai suoi collaboratori: “Ricordate che un giornalista di “Epoca” alloggia in alberghi di prima categoria”. Il giornale non badava a spese quando sguinzagliava in giro per l’Italia e per il mondo i suoi inviati e i suoi fotografi. Sampietro era in pari misura amato e temuto dalla redazione. Severo con se stesso e con gli altri. L’incappucciato, Legnano,1950. ORDINE 4 2000 “ Testimone da oltre mezzo secolo dei fatti che hanno sconvolto il mondo e delle trasformazioni della società italiana. La straordinaria avventura di “Epoca” e quella di uno spericolato fotoreporter ” Tramballi, Lami, Stampa: “Con lui in giro per il mondo” Racconta Gualtiero Tramballi, diciotto anni di “Epoca” a partire dal 1968: “Aveva la fama di far riscrivere un pezzo anche seisette volte. E quando partivamo per un reportage, ci consegnava un fogliettino giallo con sopra scritto di suo pugno il titolo del servizio che dovevamo preparare. Guai a sgarrare da quella direttiva”. Nei viaggi era inevitabilmente De Biasi a dettare le condizioni al collega giornalista che l’accompagnava. Le sue esigenze fotografiche venivano prima di tutto. “Era capace di farmi aspettare due ore per cogliere i venti secondi in cui il sole al tramonto dava una certa luce”, ricorda Tramballi. “Nascevano così le sue straordinarie immagini. Io ammiravo quella tenacia, ma a volte non ne potevo più”. Lavorare con lui era comunque un’esperienza indimenticabile. “Il suo coraggio arrivava al limite della follia”, aggiunge Tramballi rievocando un episodio lontano. “Il direttore aveva mandato noi due a Montreal per un servizio sui preparativi per le Olimpiadi. Dovevamo documentare a che punto fossero i lavori di realizzazione degli impianti sportivi. Rimanemmo in Canada due settimane. Un giorno, per riprendere alcune immagini significative dello stadio olimpico, Mario si arrampicò sulla gru di un palazzo in costruzione e percorse tutto il braccio lungo. Appollaiato lassù, finalmente soddisfatto, incominciò le riprese”. Il diretto interessato aggiunge un particolare di quell’episodio: “Eravamo regolarmente accreditati, ma alcuni cantieri erano inaccessibili. Avevo chiesto di salire sulla gru, ma mi risposero che era troppo pericoloso. Tuttavia non volevo rinunciare alla possibilità di scattare quella foto. Così, elusa la sorveglianza dei custodi, sono salito ugualmente. Quando sono sceso, c’erano le guardie ad aspettarmi. Ho risposto loro che ero stato autorizzato da un un tale col casco. Mi hanno creduto e tutto è filato liscio. Nel mio mestiere, per superare certi ostacoli, bisogna essere convincenti”. “Mario aveva un coraggio fuori dal comune”, conferma un altro giornalista della storica redazione di “Epoca”, Lucio Lami, autore del polemico pamphlet “Giornalismo all’Italiana” (Edizioni Ares, Milano 1997) nel quale ricostruisce, tra l’altro, gli splendori e l’ingloriosa fine del settimanale. Ecco affiorare altri ricordi. “Mario durante i viaggi aveva l’abitudine di disegnare con i pennarelli su piccoli cartoncini dei bellissimi soli. Era quasi un’ossessione e io lo prendevo in giro. Ogni volta che partiva metteva nella borsa centinaia di cartoncini”. E ancora: “Una volta siamo stati mandati insieme a Windsor per un servizio sull’antica fiera dei cavalli che vede ogni anno il raduno di centinaia di carrozze storiche: diligenze, corrieri postali, carri delle birrerie eccetera. C’erano decine di fotografi, ma a nessuno venne in mente di fare una rassegna generale dei vari tipi di carrozze presenti. Per tre giorni e tre notti”, continua Lami, “Mario non fece altro che fotografare. “Epoca” pubblicò un servizio speciale di dodici pagine che suscitò l’invidia degli inglesi”. Il nucleo di punta della squadra fotografica era formato dal trio De Biasi, Del Grande e Lotti. “Del Grande si occupava soprattutto di cronaca”, ricorda ancora Lami, “mentre Lotti faceva servizi di carattere per così dire sociologico. Ma quando c’era da esprimere qualche cosa che dovesse dare un significato generale, andava Mario”. “Viaggiare con lui era un’esperienza estremamente interessante”, osserva un’altra firma storica di “Epoca”, Carla Stampa, quasi trent’anni trascorsi al settimanale mondadoriano. “Seguivo sempre con attenzione il suo occhio costantemente attento a dettagli che io non notavo. A volte faceva fermare l’automobile, osservava a lungo un albero, lo fotografava. Quell’albero era una cosa viva, era persona, racconto. Nel rivedere o nel vedere per la prima volta le foto esposte a Milano ho Sagrato di piazza Duomo con la neve, Milano, 1951. Spazzacamini, Milano, 1949. scoperto una sensibilità ancora maggiore, che non conoscevo”. “Quando fece il famoso servizio sull’Ungheria”, aggiunge Carla Stampa, “gli scrissi un biglietto per complimentarmi con lui. Noi non ci somigliamo né per idee politiche né per carattere, però ci stimiamo molto. A proposito del carattere: Mario è ipersensibile, il suo ego è straripante. Lui è contento di essere così. Le emozioni che prova nell’interessarsi della vita che lo circonda le trasmette tutte nelle sue fotografie”. Quanto appare lontana oggi la grande stagione di “Epoca”. Quell’esperienza fa parte ormai della storia del giornalismo o, per chi l’ha vissuta in prima persona, dei ricordi. Finita nel 1969 la direzione Sampietro, negli anni Settanta la storica testata iniziò un lungo periodo di lento ma costante declino. De Biasi vi lavorò fino al 1983 e la rivista morì, dopo un’agonia consumata tra le polemiche, nel gennaio 1997. La crisi senza precedenti che sta attraversando il mondo dell’informazione oggi sembra non lasciare più spazio al giornalismo d’inchiesta e tantomeno al fotogiornalismo. “La televisione ha avuto un impatto fortissimo su esperienze come quella di “Epoca””, tenta di spiegare Carla Stampa. “Di fronte all’immediatezza delle immagini in diretta le fotografie, sia pure bellissime, hanno perso importanza. Ma ci sono altri motivi, primo fra tutti quello economico, la necessità di risparmiare. I giornalisti non si muovono più, fanno le interviste al telefono, si sono impigriti mentalmente. Nelle redazioni trionfa la mediocrità. Poi c’è la grande follia di Internet...”. Lucio Lami non ha dubbi. “Macché colpa della televisione! Oggi non c’è più il vero giornalismo perché è stato ucciso dagli editori. In realtà non ci sono più editori, ma prestanome dello Stato, siano essi pubblici o privati. Di conseguenza l’editoria di regime non produce più giornali, ma insaccato, senza il minimo rispetto per il lettore”. Mario De Biasi, intanto, continua fedele a se stesso il suo lavoro di testimone del tempo e di poeta dell’immagine. E trasmette il suo insegnamento ai giovani. “Ciò che conta nella fotografia è saper vedere”, dice. “Occorre cogliere i particolari. Il consiglio che do ai giovani è questo: imparare bene la tecnica; studiare quello che hanno fatto i grandi maestri; scegliere, senza copiare, un tema; documentarsi sempre e fotografare, fotografare, fotografare”. 27 (35)

Scuola di Rocca Imperiale,<br />

Calabria, 1954.<br />

Viadotto di Maddaloni, Campania, 1955.<br />

nostro fotografo, ma tornò senza un’immagine”, ricorda De<br />

Biasi. “Sampietro allora mandò me. Salii sul vulcano di sera,<br />

da solo. Le guide non volevano accompagnarmi perché dicevano<br />

che era troppo pericoloso. Riuscii a riprendere una serie<br />

di eccezionali fotografie. Ma per realizzare quel servizio ho<br />

rischiato di essere inghiottito dal fiume di lava. In copertina<br />

uscì il titolo: “Il nostro fotografo ha rischiato la vita per scattare<br />

le immagini più drammatiche dell’anno”. È uscito un inserto di<br />

20 pagine a colori che poi è circolato anche nelle scuole”.<br />

Sampietro aveva idee geniali, che riuscivano a instaurare tra<br />

rivista e lettori un legame strettissimo. Ricorda De Biasi:<br />

“Durante la preparazione di uno speciale sull’Africa fu riprodotta<br />

su una cartolina la mia fotografia di un gattopardo. Poi<br />

firmammo sul retro tutti noi, fotografi e giornalisti inviati in<br />

Africa. La cartolina venne stampata a regola d’arte in migliaia<br />

di copie dalle Officine Grafiche Mondadori di Verona con le<br />

nostre firme in fac-simile. Sembravano proprio originali.<br />

Durante il reportage spedimmo quelle cartoline agli “Amici di<br />

Epoca”. Quando vado in giro a fare fotografie qualcuno mi<br />

dice: “conservo ancora la cartolina che lei mi ha spedito<br />

dall’Africa””. Al timone della Mondadori c’era il vecchio Arnoldo.<br />

“Quando vedeva un mio servizio importante su “Epoca”,<br />

si complimentava personalmente”, ricorda De Biasi. “E se<br />

ero all’estero mi mandava un telegramma. Allora non soltanto<br />

gli editori, ma anche i giornali erano diversi. I servizi uscivano<br />

puliti, non disturbati dalla pubblicità come accade oggi”.<br />

Erano tempi d’oro. Sampietro ripeteva ai suoi collaboratori:<br />

“Ricordate che un giornalista di “Epoca” alloggia in alberghi<br />

di prima categoria”. Il giornale non badava a spese quando<br />

sguinzagliava in giro per l’Italia e per il mondo i suoi inviati e i<br />

suoi fotografi. Sampietro era in pari misura amato e temuto<br />

dalla redazione. Severo con se stesso e con gli altri.<br />

L’incappucciato, Legnano,1950.<br />

ORDINE 4 <strong>2000</strong><br />

“<br />

Testimone<br />

da oltre mezzo secolo<br />

<strong>dei</strong> fatti<br />

che hanno sconvolto<br />

il mondo<br />

e delle trasformazioni<br />

della società italiana.<br />

La straordinaria avventura<br />

di “Epoca”<br />

e quella di uno spericolato<br />

fotoreporter<br />

”<br />

Tramballi, Lami, Stampa:<br />

“Con lui in giro per il mondo”<br />

Racconta Gualtiero Tramballi, diciotto anni di “Epoca” a partire<br />

dal 1968: “Aveva la fama di far riscrivere un pezzo anche seisette<br />

volte. E quando partivamo per un reportage, ci consegnava<br />

un fogliettino giallo con sopra scritto di suo pugno il titolo<br />

del servizio che dovevamo preparare. Guai a sgarrare da<br />

quella direttiva”.<br />

Nei viaggi era inevitabilmente De Biasi a dettare le condizioni<br />

al collega giornalista che l’accompagnava. Le sue esigenze<br />

fotografiche venivano prima di tutto. “Era capace di farmi aspettare<br />

due ore per cogliere i venti secondi in cui il sole al tramonto<br />

dava una certa luce”, ricorda Tramballi. “Nascevano così le<br />

sue straordinarie immagini. Io ammiravo quella tenacia, ma a<br />

volte non ne potevo più”.<br />

Lavorare con lui era comunque un’esperienza indimenticabile.<br />

“Il suo coraggio arrivava al limite della follia”, aggiunge Tramballi<br />

rievocando un episodio lontano. “Il direttore aveva mandato<br />

noi due a Montreal per un servizio sui preparativi per le<br />

Olimpiadi. Dovevamo documentare a che punto fossero i lavori<br />

di realizzazione degli impianti sportivi. Rimanemmo in Canada<br />

due settimane. Un giorno, per riprendere alcune immagini<br />

significative dello stadio olimpico, Mario si arrampicò sulla gru<br />

di un palazzo in costruzione e percorse tutto il braccio lungo.<br />

Appollaiato lassù, finalmente soddisfatto, incominciò le riprese”.<br />

Il diretto interessato aggiunge un particolare di quell’episodio:<br />

“Eravamo regolarmente accreditati, ma alcuni cantieri<br />

erano inaccessibili. Avevo chiesto di salire sulla gru, ma mi<br />

risposero che era troppo pericoloso. Tuttavia non volevo rinunciare<br />

alla possibilità di scattare quella foto. Così, elusa la sorveglianza<br />

<strong>dei</strong> custodi, sono salito ugualmente. Quando sono<br />

sceso, c’erano le guardie ad aspettarmi. Ho risposto loro che<br />

ero stato autorizzato da un un tale col casco. Mi hanno creduto<br />

e tutto è filato liscio. Nel mio mestiere, per superare certi<br />

ostacoli, bisogna essere convincenti”.<br />

“Mario aveva un coraggio fuori dal comune”, conferma un altro<br />

giornalista della storica redazione di “Epoca”, Lucio Lami, autore<br />

del polemico pamphlet “Giornalismo all’Italiana” (Edizioni<br />

Ares, Milano 1997) nel quale ricostruisce, tra l’altro, gli splendori<br />

e l’ingloriosa fine del settimanale. Ecco affiorare altri ricordi.<br />

“Mario durante i viaggi aveva l’abitudine di disegnare con i<br />

pennarelli su piccoli cartoncini <strong>dei</strong> bellissimi soli. Era quasi<br />

un’ossessione e io lo prendevo in giro. Ogni volta che partiva<br />

metteva nella borsa centinaia di cartoncini”.<br />

E ancora: “Una volta siamo stati mandati insieme a Windsor<br />

per un servizio sull’antica fiera <strong>dei</strong> cavalli che vede ogni anno il<br />

raduno di centinaia di carrozze storiche: diligenze, corrieri<br />

postali, carri delle birrerie eccetera. C’erano decine di fotografi,<br />

ma a nessuno venne in mente di fare una rassegna generale<br />

<strong>dei</strong> vari tipi di carrozze presenti. Per tre giorni e tre notti”, continua<br />

Lami, “Mario non fece altro che fotografare. “Epoca”<br />

pubblicò un servizio speciale di dodici pagine che suscitò l’invidia<br />

degli inglesi”.<br />

Il nucleo di punta della squadra fotografica era formato dal trio<br />

De Biasi, Del Grande e Lotti. “Del Grande si occupava soprattutto<br />

di cronaca”, ricorda ancora Lami, “mentre Lotti faceva<br />

servizi di carattere per così dire sociologico. Ma quando c’era<br />

da esprimere qualche cosa che dovesse dare un significato<br />

generale, andava Mario”.<br />

“Viaggiare con lui era un’esperienza estremamente interessante”,<br />

osserva un’altra firma storica di “Epoca”, Carla Stampa,<br />

quasi trent’anni trascorsi al settimanale mondadoriano.<br />

“Seguivo sempre con attenzione il suo occhio costantemente<br />

attento a dettagli che io non notavo. A volte faceva fermare<br />

l’automobile, osservava a lungo un albero, lo fotografava. Quell’albero<br />

era una cosa viva, era persona, racconto. Nel rivedere<br />

o nel vedere per la prima volta le foto esposte a Milano ho<br />

Sagrato di piazza Duomo con la neve, Milano, 1951.<br />

Spazzacamini, Milano, 1949.<br />

scoperto una sensibilità ancora maggiore, che non conoscevo”.<br />

“Quando fece il famoso servizio sull’Ungheria”, aggiunge<br />

Carla Stampa, “gli scrissi un biglietto per complimentarmi con<br />

lui. Noi non ci somigliamo né per idee politiche né per carattere,<br />

però ci stimiamo molto. A proposito del carattere: Mario è<br />

ipersensibile, il suo ego è straripante. Lui è contento di essere<br />

così. Le emozioni che prova nell’interessarsi della vita che lo<br />

circonda le trasmette tutte nelle sue fotografie”.<br />

Quanto appare lontana oggi la grande stagione di “Epoca”.<br />

Quell’esperienza fa parte ormai della storia del giornalismo o,<br />

per chi l’ha vissuta in prima persona, <strong>dei</strong> ricordi. Finita nel 1969<br />

la direzione Sampietro, negli anni Settanta la storica testata<br />

iniziò un lungo periodo di lento ma costante declino. De Biasi<br />

vi lavorò fino al 1983 e la rivista morì, dopo un’agonia consumata<br />

tra le polemiche, nel gennaio 1997.<br />

La crisi senza precedenti che sta attraversando il mondo<br />

dell’informazione oggi sembra non lasciare più spazio al giornalismo<br />

d’inchiesta e tantomeno al fotogiornalismo. “La televisione<br />

ha avuto un impatto fortissimo su esperienze come quella<br />

di “Epoca””, tenta di spiegare Carla Stampa. “Di fronte all’immediatezza<br />

delle immagini in diretta le fotografie, sia pure<br />

bellissime, hanno perso importanza. Ma ci sono altri motivi,<br />

primo fra tutti quello economico, la necessità di risparmiare. I<br />

giornalisti non si muovono più, fanno le interviste al telefono, si<br />

sono impigriti mentalmente. Nelle redazioni trionfa la mediocrità.<br />

Poi c’è la grande follia di Internet...”.<br />

Lucio Lami non ha dubbi. “Macché colpa della televisione!<br />

Oggi non c’è più il vero giornalismo perché è stato ucciso dagli<br />

editori. In realtà non ci sono più editori, ma prestanome dello<br />

Stato, siano essi pubblici o privati. Di conseguenza l’editoria di<br />

regime non produce più giornali, ma insaccato, senza il minimo<br />

rispetto per il lettore”.<br />

Mario De Biasi, intanto, continua fedele a se stesso il suo lavoro<br />

di testimone del tempo e di poeta dell’immagine. E trasmette<br />

il suo insegnamento ai giovani. “Ciò che conta nella fotografia<br />

è saper vedere”, dice. “Occorre cogliere i particolari. Il consiglio<br />

che do ai giovani è questo: imparare bene la tecnica;<br />

studiare quello che hanno fatto i grandi maestri; scegliere,<br />

senza copiare, un tema; documentarsi sempre e fotografare,<br />

fotografare, fotografare”.<br />

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