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l'eroe imperfetto - Wu Ming

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Graves ha collegato Atena alla dea pelasgica Anna, il cui culto è<br />

rintracciabile trasversalmente in molte regioni dell'Europa antica,<br />

dal Mediterraneo all'Irlanda (dove compare come Ana o Anan o<br />

ancora Anu, divinità dalla duplice natura). Anna significherebbe<br />

“signora” e sarebbe uno degli appellativi più antichi della Dea.<br />

Graves riscontra che Saffo usa ana per anassa, che in greco<br />

significa “regina” (R. Graves, La Dea Bianca, cap. 21). Guarda caso<br />

è precisamente l'appellativo con cui nella tragedia sofoclea Aiace si<br />

rivolge ad Atena, quando le indirizza le sue parole sprezzanti sul<br />

campo di battaglia (v. 774).<br />

Sarà Platone, in epoca tarda, a virilizzare l'etimologia del nome<br />

della dea. Nel Cratilo infatti fornisce un'etimologia basata sulla<br />

parola composta “A-theo-noa” o “Ethonòe”, cioè “la mente di Dio”,<br />

armonizzato in Athena. Del resto, come direbbe lo stesso Graves,<br />

Platone è stato uno dei più solerti cancellatori di ogni possibile<br />

traccia del divino femminile dalla cultura del suo tempo 10 .<br />

Quello che alla fine di questa ricostruzione etimologica preme<br />

sottolineare è che l'offesa di Aiace nei confronti di Atena può avere<br />

un duplice indirizzo. Da un lato è un affronto allo stesso Zeus,<br />

quindi al potere divino genericamente inteso; dall'altro lato rinnega<br />

un potere divino assai più specifico e profondo: quello della Dea.<br />

Una dea che non perdona. Invitandola a farsi gli affari propri, Aiace<br />

ha rifiutato il suo aiuto, nonché di porgerle il dovuto omaggio,<br />

procurandosi così la sua inimicizia.<br />

Odisseo invece si consacra alla Dea ed esce vincitore. Al contrario<br />

di Aiace, ha capito che c'è una anassa, una terribile regina, da<br />

tenersi buona. Non è un caso che l'intera Odissea sia scandita da<br />

incontri del protagonista con figure femminili (Circe, Calipso, la<br />

madre Anticlea, Nausicaa, Euriclea, Penelope). L'astuzia di Odisseo<br />

consiste anche in questo, nell'assumersi il rischio di flirtare con la<br />

Dea, sempre in bilico tra la vita e la morte, tra libertà e prigionia,<br />

circondato da madri, amanti, mogli, che altro non sono se non le<br />

molte facce della Dea con cui <strong>l'eroe</strong> deve confrontarsi. Perché<br />

soltanto “<strong>l'eroe</strong> in grado di prenderla per ciò che ella è, senza<br />

esagerato turbamento ma con la gentilezza e la sicurezza che ella<br />

esige, è potenzialmente il re, il dio incarnato, del suo mondo<br />

creato” (J. Campbell, L'eroe dai mille volti, 1949).<br />

Ecco quindi rintracciato un secondo, implicito, tema poetico della<br />

tragedia: la devozione alla Dea. Il ridicolo è il mezzo utilizzato da<br />

quest'ultima per annichilire <strong>l'eroe</strong> nella sua sicumera, visto che la<br />

peggiore sventura in cui possa incorrere un eroe virile è suscitare<br />

non già spavento, ammirazione, gratitudine, bensì il riso, che lo<br />

trasforma in un personaggio buffo e patetico. Qualcosa di<br />

inaccettabile ai suoi stessi occhi, a cui soltanto la morte può porre<br />

rimedio.<br />

Volendo seguire in maniera stringente lo schema gravesiano,<br />

potremmo risalire a una versione ancora più antica dello stesso<br />

tema. Aiace tiene la parte del “re dell'anno calante”, che dovrà<br />

essere sacrificato affinché possa sorgere l'astro del nuovo eroe

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