Corso monografico - Dispensa N° 7: Bachtìn-Bobòk ... - eSamizdat

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17.06.2013 Views

Corso monografico - Dispensa 7: Bachtìn-Bobòk-Ivànov Michaìl Michàjlovič Bachtìn (1895-1975). Affetto praticamente tutta la vita da osteomielite, cosa che lo porterà all'amputazione di una gamba nel 1938. Non emigrò mai ma fu sempre osteggiato dal regime, soprattutto per la sua partecipazione a riunioni di carattere religioso-ortodosse. Molte sue opere uscirono firmate da suoi amici. La sua opera principale, su Dostoèvskij, Problèmy poétiki Dostoèvskogo (Problemi di poetica di Dostoèvskij) uscì per la prima volta nel 1929. A emigrare fu invece suo fratello Nikolàj, a sua volta filologo, il quale, prima di andare definitivamente in Inghilterra, soggiornò dal 1924 al 1932 a Parigi e fu in particolare collaboratore della rivista Zvenò (anello di una catena), rivista frequentata anche da G. Ivànov che vi aveva pubblicato sia poesie che alcune parti delle sue Kitàjskie tèni (Ombre cinesi, tra il 1924 e il 1927). A Parigi sicuramente dunque Nikolàj Bachtìn frequentò Geòrgij Ivànov, ci sono, peraltro, documenti ufficiali che attestano la loro presenza alle stesse serate letterarie almeno nel 1926 e nel 1927 (cioè proprio negli anni di stesura degli Inverni di Pietroburgo di Ivànov che uscì in prima edizione a Parigi nel 1928). Non è escluso dunque che Ivànov abbia potuto conoscere dal fratello maggiore di Michaìl Bachtìn, Nikolàj, quanto stava elaborando a proposito della poetica di Dostoèvskij. Michaìl Bachtìn nel suo fondamentale saggio dal titolo Dostoèvskij. Poetica e stilistica indica nel romanzo polifonico il genere principale dei grandi capolavori di Dostoèvskij. Ma che cos'è un romanzo polifonico? In sostanza, secondo Bachtìn, gli eroi (e per eroi intendiamo ovviamente i personaggi dostoevskijani nel loro complesso), non sono schiavi silenziosi nelle mani del loro autore. Sono invece uomini liberi (e voci) che stanno accanto al loro creatore (e alla sua voce), senza gerarchie. In sostanza si tratta di un romanzo in cui si dà spazio alla pluralità delle voci e delle coscienze e nessuna di queste voci è portatrice del pensiero ultimo dello scrittore. I protagonisti principali sono non solo l'oggetto della parola dell'autore ma soprattutto soggetto della loro stessa parola, la quale è immediatamente significante. Questo genere romanzesco, sempre secondo Bachtìn, sarebbe il principale contributo e merito di Dostoèvskij: la creazione di un genere sostanzialmente nuovo. Ogni parola, ogni voce di ciascun personaggio, è costruita come la parola o la voce dell'autore nel romanzo di tipo ordinario. Ogni personaggio è costituito di una sua parola autonoma rivolta su sé stesso e sul mondo così come lo è di solito la parola dell'autore (portatore di una propria voce, un proprio messaggio) nel romanzo classico, sostanzialmente monologico e monofonico. E tutte queste voci, queste parole, compresa quella dell'autore, stanno una accanto all'altra in modo autonomo e, appunto, polifonico. Ovviamente tutto ciò non significa che Dostoèvskij abbia inventato tutto questo dal nulla senza che ci fossero, anche dal punto di vista storico e dei generi, dei predecessori. E infatti tra poco li vedremo proprio a proposito di Bobòk. Sempre secondo Bachtìn poi, dal punto di vista dell'intreccio, quello tipico del romanzo biografico, dove l'eroe e il mondo oggettivo che lo circonda, devono essere 1

<strong>Corso</strong> <strong>monografico</strong> - <strong>Dispensa</strong> <strong>N°</strong> 7: <strong>Bachtìn</strong>-<strong>Bobòk</strong>-Ivànov<br />

Michaìl Michàjlovič <strong>Bachtìn</strong> (1895-1975). Affetto praticamente tutta la vita da<br />

osteomielite, cosa che lo porterà all'amputazione di una gamba nel 1938. Non emigrò<br />

mai ma fu sempre osteggiato dal regime, soprattutto per la sua partecipazione a<br />

riunioni di carattere religioso-ortodosse. Molte sue opere uscirono firmate da suoi<br />

amici. La sua opera principale, su Dostoèvskij, Problèmy poétiki Dostoèvskogo<br />

(Problemi di poetica di Dostoèvskij) uscì per la prima volta nel 1929. A emigrare fu<br />

invece suo fratello Nikolàj, a sua volta filologo, il quale, prima di andare<br />

definitivamente in Inghilterra, soggiornò dal 1924 al 1932 a Parigi e fu in particolare<br />

collaboratore della rivista Zvenò (anello di una catena), rivista frequentata anche da<br />

G. Ivànov che vi aveva pubblicato sia poesie che alcune parti delle sue Kitàjskie tèni<br />

(Ombre cinesi, tra il 1924 e il 1927). A Parigi sicuramente dunque Nikolàj <strong>Bachtìn</strong><br />

frequentò Geòrgij Ivànov, ci sono, peraltro, documenti ufficiali che attestano la loro<br />

presenza alle stesse serate letterarie almeno nel 1926 e nel 1927 (cioè proprio negli<br />

anni di stesura degli Inverni di Pietroburgo di Ivànov che uscì in prima edizione a<br />

Parigi nel 1928). Non è escluso dunque che Ivànov abbia potuto conoscere dal<br />

fratello maggiore di Michaìl <strong>Bachtìn</strong>, Nikolàj, quanto stava elaborando a proposito<br />

della poetica di Dostoèvskij.<br />

Michaìl <strong>Bachtìn</strong> nel suo fondamentale saggio dal titolo Dostoèvskij. Poetica e<br />

stilistica indica nel romanzo polifonico il genere principale dei grandi capolavori di<br />

Dostoèvskij. Ma che cos'è un romanzo polifonico? In sostanza, secondo <strong>Bachtìn</strong>, gli<br />

eroi (e per eroi intendiamo ovviamente i personaggi dostoevskijani nel loro<br />

complesso), non sono schiavi silenziosi nelle mani del loro autore. Sono invece<br />

uomini liberi (e voci) che stanno accanto al loro creatore (e alla sua voce), senza<br />

gerarchie. In sostanza si tratta di un romanzo in cui si dà spazio alla pluralità delle<br />

voci e delle coscienze e nessuna di queste voci è portatrice del pensiero ultimo dello<br />

scrittore. I protagonisti principali sono non solo l'oggetto della parola dell'autore ma<br />

soprattutto soggetto della loro stessa parola, la quale è immediatamente significante.<br />

Questo genere romanzesco, sempre secondo <strong>Bachtìn</strong>, sarebbe il principale contributo<br />

e merito di Dostoèvskij: la creazione di un genere sostanzialmente nuovo. Ogni<br />

parola, ogni voce di ciascun personaggio, è costruita come la parola o la voce<br />

dell'autore nel romanzo di tipo ordinario. Ogni personaggio è costituito di una sua<br />

parola autonoma rivolta su sé stesso e sul mondo così come lo è di solito la parola<br />

dell'autore (portatore di una propria voce, un proprio messaggio) nel romanzo<br />

classico, sostanzialmente monologico e monofonico. E tutte queste voci, queste<br />

parole, compresa quella dell'autore, stanno una accanto all'altra in modo autonomo e,<br />

appunto, polifonico.<br />

Ovviamente tutto ciò non significa che Dostoèvskij abbia inventato tutto questo dal<br />

nulla senza che ci fossero, anche dal punto di vista storico e dei generi, dei<br />

predecessori. E infatti tra poco li vedremo proprio a proposito di <strong>Bobòk</strong>.<br />

Sempre secondo <strong>Bachtìn</strong> poi, dal punto di vista dell'intreccio, quello tipico del<br />

romanzo biografico, dove l'eroe e il mondo oggettivo che lo circonda, devono essere<br />

1


fatti di un solo pezzo, non si adatta al personaggio dostoevskijano. In Dostoèvskij il<br />

personaggio non può incarnarsi, non ha un normale intreccio biografico. Sono<br />

semmai, i suoi, tutti personaggi che bramano e sognano di incarnarsi in un normale<br />

intreccio di vita che sia organico al mondo circostante. E il tema dell'uomo che sogna<br />

di incarnarsi, a partire dall'uomo del sottosuolo, è una delle idee principali di<br />

Dostoèvskij.<br />

Tra i legami fondamentali tra il romanzo dostoevskijano e le tradizioni del romanzo<br />

europeo c'è quello profondo col romanzo d'avventure. Anche nel genere del romanzo<br />

d'avventure, infatti, non si può determinare chi veramente sia il personaggio; anche i<br />

legami che questo instaura con gli avvenimenti sono illimitati, imprevedibili e<br />

soprattutto non predeterminati da una qualche forma del loro carattere o dalle<br />

convenzioni del mondo sociale. E delle trame del romanzo d'avventure (con i suoi<br />

omicidi misteriosi, le sue catastrofi collettive, le soluzioni inattese degli eventi)<br />

Dostoèvskij se ne servì molto come abbozzi di partenza ed esemplari per la<br />

costruzione della sua opera narrativa.<br />

A questo punto <strong>Bachtìn</strong> si chiede come mai fosse così necessario, quali funzioni<br />

svolgesse il romanzo d'avventure all'interno del progetto del romanzo di Dostoèvskij.<br />

La risposta è che l'intreccio del romanzo d'avventure è un vestito che aderisce al<br />

personaggio, un vestito che egli può cambiare quando gli pare. Inoltre in Dostoèvskij<br />

l'intreccio del romanzo d'avventure è posto al servizio dell'idea: questo intreccio pone<br />

l'uomo dei romanzi in situazioni eccezionali, che lo scoprono e lo provocano, e lo fa<br />

incontrare e scontrare con altri uomini in circostanze insolite e inattese proprio per<br />

provare l'idea e l'uomo d'idea, cioè “l'uomo” nell'uomo. E questo permette di fondere<br />

con l'avventura generi come la confessione, l'agiografia ecc. che sembrerebbero<br />

estranei al genere avventuroso.<br />

A questo punto <strong>Bachtìn</strong> parla di Dostoèvskij come profondo rinnovatore di un genere<br />

e in questo senso va alla ricerca delle fonti europee classiche. In questa ricerca va<br />

indietro fino all'età ellenistica, cioè tra il IV e il I secolo a.C., un periodo in cui si<br />

formano numerosi generi che hanno come tratto comune quello di essere inseribili nel<br />

settore del “serio-comico”.<br />

A questo settore apparterrebbero, tra gli altri, IL DIALOGO SOCRATICO, la più antica<br />

memorialistica e la SATIRA MENIPPEA.<br />

I generi del serio comico hanno come tratto d'unione un profondo legame col folclore<br />

carnevalesco.<br />

La letteratura carnevalizzata è, secondo <strong>Bachtìn</strong>, quella letteratura che risente o ha<br />

risentito dell'influsso (diretto o indiretto) di certe forme del folclore carnevalesco,<br />

antico o medievale.<br />

Vediamo nel dettaglio le 3 fondmentali particolarità del settore serio-comico:<br />

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1- Nuovo rapporto verso la realtà: oggetto e punto di partenza per la comprensione<br />

della realtà è la stretta contemporaneità (con la quale instaura un contatto immediato<br />

e persino rozzo).<br />

2- I generi del serio comico si fondano coscientemente sull'esperienza e sulla libera<br />

invenzione; il rapporto con la tradizione, se c'è, è critico o cinico-smascheratorio.<br />

3- Pluralità ed eterogeneità di stili e di voci; mescolanza di sublime e infimo, serio e<br />

ridicolo; utilizzo di materiali eterogenei: lettere, manoscritti ritrovati, dialoghi riferiti,<br />

parodie di generi sublimi, citazioni parodisticamente interpretate.<br />

I due generi del serio-comico che maggiormente sono determinanti per la<br />

comprensione del romanzo di Dostoèvskij sono IL DIALOGO SOCRATICO e LA SATIRA<br />

MENIPPEA.<br />

A) IL DIALOGO SOCRATICO<br />

Il dialogo socratico, nella fase letteraria del suo sviluppo, così come lo conosciamo<br />

attraverso soprattutto i dialoghi di Platone e Senofonte, fu quasi un genere<br />

memorialistico: erano infatti i ricordi delle conversazioni effettivamente svolte da<br />

Socrate, oppure appunti delle conversazioni inquadrate in un breve racconto.<br />

Ma presto il genere si emancipa da questo aspetto “memorialistico” e subentra un<br />

rapporto liberamente creativo con il materiale. A conservarsi è solamente il metodo<br />

socratico di scoprimento dialogico della verità e la forma esteriore del dialogo.<br />

Secondo <strong>Bachtìn</strong>, poi, il dialogo socratico cresce su una base carnevalesca popolare.<br />

Gli elementi del dialogo socratico che maggiormente interessano <strong>Bachtìn</strong> sono<br />

CINQUE:<br />

1) La verità non è monologica e non esiste pretesa di possederla; al fondo dell'idea<br />

socratica c'è appunto la natura dialogica della verità e dell'umana riflessione su essa.<br />

2) Il dialogo socratico ha due procedimenti fondamentali:<br />

a) la SINCRÌSI (cioè il confronto di differenti punti di vista su una determinata<br />

materia);<br />

b) la ANÀCRISI (i metodi atti a suscitare e provocare le parole dell'interlocutore per<br />

costringerlo ad esprimere, e fino in fondo, il suo pensiero; è la provocazione della<br />

parola per tramite della parola).<br />

Insieme sincrisi e anacrisi dialogizzano il pensiero e lo portano all'esterno.<br />

3) Personaggi del dialogo socratico sono gli ideologi, nel senso di persone portatrici<br />

di idee. Socrate è portatore di un'idea, ma lo sono anche i suoi interlocutori.<br />

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4) Nel dialogo socratico comincia ad affacciarsi, spesso legato alla creazione di una<br />

situazione eccezionale, quel tipo particolare di dialogo che Bachtn chiama “Dialogo<br />

sull'estrema soglia” che poi si diffonderà nella letteratura ellenistica, romana, nel<br />

Medioevo, nel Rinascimento e in epoca della Riforma. L'estrema soglia è ovviamente<br />

la morte, imminente o appena avvenuta.<br />

5) L'idea del dialogo si lega con l'immagine dell'uomo che ne è il portatore;<br />

gradualmente si cominciano a incontrare, allontanandosi sempre più dalla base storica<br />

e memorialistica degli inizi, uomini e idee che nella realtà storica non si erano mai<br />

incontrati. Il passo che manca per arrivare al Dialogo dei morti, dove si incontrano,<br />

sul piano dialogico, uomini di diversi secoli, il dialogo socratico non lo fa, ma in<br />

qualche modo lo prepara.<br />

B) LA SATIRA MENIPPEA (O SEMPLICEMENTE MENIPPEA)<br />

Questo passaggio al Dialogo dei morti, dove si incontrano sul piano dialogico,<br />

uomini di diversi secoli, sarà compiuto appunto dalla satira menippea, considerata da<br />

<strong>Bachtìn</strong> uno dei rivoli in cui defluisce il dialogo socratico, dopo il suo processo di<br />

disgregazione.<br />

Il termine proviene da Menippo di Gadara, filosofo del III secolo a.C., che diede al<br />

genere una forma classica. Tra le satire menippee che <strong>Bachtìn</strong> cita ricordiamo quelle<br />

più famose come il Ludus de morte Claudii di Seneca, il Satyricon di Petronio, le<br />

Satire di Luciano, L'asino d'oro di Apuleio, il cosiddetto Romanzo di Ippocrate (le<br />

lettere apocrife di Ippocrate su Democrito, considerato il primo romanzo epistolare<br />

europeo) e La consolazione della filosofia di Boezio.<br />

La menippea ha inoltre esercitato una enorme influenza sulla letteratura<br />

paleocristiana e bizantina (e tramite quest'ultima anche sulla letteratura russa antica).<br />

Si è poi sviluppata lungo il medioevo e il Rinascimento e continuerebbe tuttora a<br />

svilupparsi (seppur non sempre in modo cosciente). La satira menippea è un genere<br />

carnevalizzato ed è da questo punto di vista uno dei principali portatori del<br />

sentimento carnevalesco nella letteratura fino ai nostri giorni.<br />

Vediamo le QUATTORDICI principali particolarità di questo genere secondo<br />

<strong>Bachtìn</strong>:<br />

1) Rispetto al dialogo socratico nella menippea aumenta il significato dell'elemento<br />

comico.<br />

2) È libera e svincolata da limitazioni storico-memorialistiche; c'è una eccezionale<br />

libertà di invenzione narrativa e filosofica.<br />

3) Caratteristica forse più importante: la fantasia più audace e sfrenata è sempre e<br />

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interamente motivata, giustificata, finalizzata a uno scopo puramente filosoficoideale,<br />

OVVERO creare situazioni eccezionali in grado di provocare e sperimentare<br />

l'idea-parola filosofica, la verità. Il tutto quindi è finalizzato alla ricerca,<br />

provocazione e sperimentazione della verità. È come se fossero l'idea o la verità, e<br />

non il personaggio in sé, a vivere un avventura.<br />

4) Organico combinarsi di libera fantasia, simbolismo (compreso l'elemento mistico<br />

religioso) con un naturalismo sordido, spesso anche triviale e grossolano. Questo in<br />

Dostoèvskij è evidente: strade, taverne, prigioni. L'idea non teme nessun luogo<br />

sordido e nessuna bruttura della vita.<br />

5) Combinazione di fantasia e universalismo filosofico. LA MENIPPEA È IL GENERE<br />

DELLE “QUESTIONI ULTIME”. La sincrisi, cioè il confronto come già visto per il dialogo<br />

socratico, è relativo alle nude “questioni ultime”, con una predilezione per gli aspetti<br />

etico-pratici.<br />

6) Questa relazione con l'universalismo filosofico si realizza, per così dire su tre<br />

piani, la Terra, gli Inferi e l'Olimpo. Nella menippea fondamentale importanza<br />

acquista soprattutto la rappresentazione degli INFERI: e DA QUESTA CARATTERISTICA<br />

TRAE ORIGINE QUEL GENERE SINGOLARE DEL “COLLOQUIO COI MORTI”, “DEL DIALOGO<br />

DEI MORTI” CHE EBBE LARGA DIFFUSIONE NELLA LETTERATURA EUROPEA DEL<br />

RINASCIMENTO E POI SOPRATTUTTO DEL XVII E XVIII SECOLO.<br />

7) Una sperimentazione fantastica tipica della menippea è l'osservazione dei<br />

fenomeni della vita da un punto di vista inconsueto, in modo tale che, osservati in<br />

questo modo gli stessi fenomeni mutano bruscamente.<br />

8) Della menippea è anche la sperimentazione psicologico-morale: la raffigurazione<br />

di stati psichici e morali inconsueti, tipo la follia, lo sdoppiamento, fantasticheria<br />

esagerata, sogni strani, passioni morbose e ai confini della pazzia, suicidi ecc.<br />

Peraltro questo sdoppiamento viene spesso presentato mantenendo sia l'aspetto<br />

tragico che quello comico (l'analogia con Dostoèvskij qui è evidentissima).<br />

9) Nella menippea abbondano scene di scandali, comportamenti eccentrici, discorsi e<br />

interventi inopportuni, cioè tutta una serie di violazioni dei codici di comportamento<br />

normalmente accettati.<br />

10) La menippea è inoltre luogo di bruschi contrasti, di mescolanze di alto e basso,<br />

lusso e miseria, di trasformazioni da ricco a povero, insomma di mutamenti repentini<br />

e totali.<br />

11) La menippea racchiude spesso in sé elementi di utopia sociale che sono introdotti<br />

in forma di visioni oniriche.<br />

5


12) Altra caratteristica è l'uso di generi inseriti: novelle, lettere, orazioni; mescolanza<br />

inoltre di poesia e prosa (e la poesia è spesso data con un certo grado di parodismo).<br />

13) La parola è la materia della letteratura e con la menippea, anche grazie agli<br />

inserimenti di cui sopra, si rafforza la pluralità di toni e stili.<br />

14) L'ultima caratteristica della menippea è il suo aspetto pubblicistico d'attualità; tra<br />

il giornalismo e l'enciclopedia della vita contemporanea. C'è presenza costante di<br />

figure di contemporanei o di personalità da poco trapassate; allusioni ad eventi grandi<br />

e piccoli del tempo.<br />

Nonostante le apparenze di eterogeneità, la menippea è un genere profondamente<br />

integro internamente.<br />

Come genere si andò formando, nelle caratteristiche elencate da <strong>Bachtìn</strong>, nell'epoca<br />

della dissoluzione della tradizione nazionale, della rottura di quelle forme etiche che<br />

costituivano l'ideale antico di “dignità” (bellezza-nobiltà), l'epoca in cui si preparava<br />

e si formava una nuova religione mondiale, il Cristianesimo.<br />

Un aspetto di quest'epoca è la svalutazione di tutte le posizioni esteriori dell'uomo<br />

nella vita, la loro trasformazione in ruoli, recitati sulle scene del teatro del mondo per<br />

volere di un destino cieco.<br />

Peraltro la menippea, così elastica ma così integra, accoglie in sé generi affini come<br />

la diatriba, il soliloquio, il simposio.<br />

6<br />

− La DIATRIBA è un genere retorico interiormente dialogizzato, costruito di solito<br />

in forma di colloquio con un interlocutore assente, il che porta alla<br />

dialogizzazione dello stesso processo del discorso e del pensiero. (L'abbiamo<br />

nominata a proposito di Raspàd àtoma).<br />

− Il SOLILOQUIO invece è proprio un dialogo con se stesso.<br />

− Il SIMPOSIO è un dialogo conviviale che presenta una particolare libertà,<br />

spregiudicatezza, familiarità, franchezza eccentricità, ambivalenza, cioè che dà<br />

molto spazio alla combinazione, nel discorso, di lode e di rampogna, di serio e<br />

di comico.<br />

Tutte le caratteristiche della menippea si ritrovano in Dostoèvskij, nei suoi romanzi,


ma questo ovviamente non significa che Dostoèvskij ne fosse consapevole.<br />

LA QUESTIONE DEL CARNEVALE<br />

Un aspetto su cui insiste molto <strong>Bachtìn</strong> è quello del carnevale, cioè dell'influenza del<br />

carnevale sulla letteratura, anzi sul suo aspetto di genere. Non ci soffermeremo su ciò<br />

che è risaputo, ovvero sul carattere rituale e sincretistico del carnevale. Ciò che ci<br />

interessa è la trasposizione del carnevale nel linguaggio della letteratura, ovvero nella<br />

resa carnevalizzata della letteratura.<br />

Nella sua essenza più profonda la vita carnevalesca è vita tolta dal suo binario solito e<br />

ribaltata, una specie di mondo alla rovescia. Abolita è la distanza, abolite sono le<br />

gerarchie, è abolita soprattutto la distanza tra le persone ed entra in vigore il libero<br />

contatto familiare tra gli uomini. Il carnevale avvicina, unisce, collega e combina<br />

sacro e profano, sublime e infimo, grandioso e meschino, saggio e stolto e via<br />

dicendo.<br />

Un'altra importante categoria del carnevale è la profanazione, ovvero il sacrilegio, la<br />

mondanizzazione, è il luogo dove le oscenità prendono regno.<br />

Una delle azioni del carnevale, la più importante, è l'incoronazione e la successiva<br />

scoronazione del re del carnevale.<br />

Al fondo di questa azione sta l'idea secondo la quale il carnevale è la festa del tempo<br />

che tutto distrugge e tutto rinnova. E una funzione particolarmente importante assume<br />

il riso carnevalesco, fondamentalmente dissacratoria. Tutto ha la sua parodia, cioè un<br />

suo aspetto comico, perché tutto rinasce e si rinnova attraverso la morte. A parte le<br />

grandi parodie d'epoca rinascimentale, come quelle dell'opera di Erasmo e di<br />

Rabelais, nel seno della parodia poté generarsi uno dei più grandi e insieme<br />

carnevaleschi romanzi della letteratura mondiale, il Don Chisciotte di Cervantes, che<br />

per Dostoèvskij è opera fondamentale.<br />

Il riso carnevalesco è ambivalente e brucia tutto ciò che è enfatico e irrigidito, ma non<br />

distrugge affatto il nucleo autenticamente eroico dell'immagine. In conclusione il<br />

carnevale e il senso carnevalesco del mondo sono ciò che ha legato tutti gli elementi<br />

così eterogenei e tipici della menippea.<br />

BOBÒK (1873)<br />

Poi <strong>Bachtìn</strong> si sofferma finalmente sull'analisi di due racconti brevi di Dostoèvskij,<br />

due racconti dell'ultimo periodo (Dostoèvskij muore nel 1881) che secondo lui<br />

possono essere definiti menippee quasi nel rigoroso senso artistico del termine<br />

(ovviamente secondo <strong>Bachtìn</strong> la menippea dà il tono a tutta l'opera di Dostoèvskij).<br />

Questi racconti sono Il sogno di un uomo ridicolo (del 1877) e <strong>Bobòk</strong> (1873). Noi ci<br />

soffermeremo solo su quest'ultimo.<br />

<strong>Bachtìn</strong> definisce addirittura <strong>Bobòk</strong>, per la sua profondità e arditezza, come una delle<br />

più grandi menippee di tutta la letteratura mondiale. Nel suo saggio si sofferma,<br />

tralasciando il contenuto, sulle particolarità di genere.<br />

7


La prima analisi è rivolta alla figura del narratore (il sottotitolo peraltro è RICORDI<br />

di una persona): uno scrittore fallito che si trova sulla soglia della pazzia, che tutto e<br />

tutti disprezza e da tutti è disprezzato (ennesima variante dell'uomo del sottosuolo).<br />

Il suo discorso è interiormente dialogizzato e pervaso dalla polemica.<br />

All'inizio del racconto c'è tutta una discussione, condotta dal narratore, tipica della<br />

menippea carnevalizzata, sulla relatività e ambivalenza di ragione e follia,<br />

intelligenza e stoltezza. Poi si passa alla descrizione del cimitero e subito troviamo un<br />

atteggiamento familiare e profanante verso il luogo, i defunti, lo stesso mistero della<br />

morte. Infatti l'autore comincia così: “Ero uscito per distrarmi e capitai a un funerale”<br />

e poi “il cimitero, quello sì che è un bel posticino. Di morti n'eran giunti una<br />

quindicina. Coltri funebri di vario prezzo [occhio all'importanza delle coltri, dei<br />

drappi funebri]; Molte facce meste, anche molta finta mestizia, e anche molta aperta<br />

allegria. Il clero non può lagnarsi: per lui son rendite. Ma l'odore, l'odore! Non<br />

vorrei fare il prete [gioco di parole tra duch (odore) e duchòvnoe licò (personalità<br />

spirituale)] qui”. Poi durante il servizio esce dal ristorante, vaga al limitare dei<br />

cancelli del cimitero e vede prima un ospizio e poi un ristorante dove va a mangiare:<br />

un ristorante niente male.<br />

Insomma, senza farla tanto lunga, qui è già tutta presente la profanazione, l'aspetto<br />

familiare, gli accostamenti stridenti, il trovarsi sulla soglia.<br />

Poi in seguito comincia lo sviluppo dell'intreccio fantastico (al quale non viene data<br />

nessuna spiegazione), intreccio che crea un'anacrisi di eccezionale valore (ricordate<br />

l'anacrisi: i metodi atti a suscitare e provocare le parole dell'interlocutore per<br />

costringerlo ad esprimere, e fino in fondo, il suo pensiero; in sostanza è la<br />

provocazione della parola per tramite della parola).<br />

Il narratore ascolta dunque il dialogo dei morti, perché come capirà in seguito, pare<br />

che una parte della loro vita (o meglio della loro coscienza) continui ancora (sotto<br />

forma di parola pronunciata) per un certo tempo (fino a quando questa parola non<br />

diventa che un suono indistinto: bobòk, appunto, favetta).<br />

E come si chiama il defunto che dà la spiegazione filosofica di questa temporanea<br />

continuazione della vita (di questa soglia tra la vita e la morte)? Si chiama Platòn<br />

Nikolàevič (con evidente allusione al dialogo socratico di Platone). Questa nuova e<br />

temporanea vita della coscienza è una vita ribaltata rispetto alla vita che conosciamo,<br />

è una vita fuori dalla vita, liberata da ogni condizionamento, posizione, obbligo,<br />

legge, morale. Si crea così, appunto, l'anacrisi che provoca le coscienze dei defunti a<br />

rivelare se stessi con piena libertà e senza pudore.<br />

Secondo <strong>Bachtìn</strong> poi, il “re” del carnevale dei morti è rappresentato dal barone<br />

Klinèvič (di nome Pëtr Petròvič, anche questo da ricordare), un uomo cinico e<br />

dissoluto (e tutta la scena tutto il dialogo dei morti è improntato alla più sfrenata e<br />

libidinosa dissolutezza, fino all'estremo, fino alla presenza conturbante della ninfetta<br />

Katiš Berestova, introdotta in questo modo da Klinèvič: "son già 5 giorni che è qui,<br />

se voi sapeste che razza di sporcaccioncella – мерзавочка – viene da una buona casa,<br />

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ha una buona educazione ed è un mostro, un mostro incredibile!". Descrizione che fa<br />

particolarmente gola a un vecchio, un consigliere segreto che decide di organizzare il<br />

tempo che rimane a tutti i defunti, fino al bobòk finale, raccontando ciascuno di sé,<br />

ma senza mentire (cosa impossibile nell'altra vita, perché sulla terra vivere e non<br />

mentire è impossibile, giacché vita e menzogna sono sinonimi), senza vergognarsi di<br />

nulla, vivere nella più svergognata verità, spogliandosi e denudandosi; e tutte le voci<br />

accolgono l'invito ripetendo esultanti “Denudiamoci, denudiamoci!”.<br />

Ma a questo punto il dialogo dei morti viene interrotto carnevalescamente, il<br />

narratore che sta ascoltando il dialogo dei morti STARNUTISCE. E l'effetto, come dice<br />

il narratore, e come scrive Dostoèvskij, “fu sbalorditivo, tutto si chetò, come in un<br />

cimitero”!<br />

E così questo racconto brevissimo, costituisce, secondo <strong>Bachtìn</strong>, il microcosmo di<br />

tutta l'opera di Dostoèvskij; quasi tutti i temi, le idee e le figure principali dei suoi<br />

romanzi maggiori sono presenti qui in forma precisa e chiara. A partire da una delle<br />

principali: quella che tutto è permesso se Dio non esiste e se non esiste l'immortalità<br />

dell'anima (ad esempio Ivàn nei Fratelli Karamàzov), per non parlare della<br />

confessione senza ritegno, a partire dalle memorie del sottosuolo. E poi si pensi a<br />

tutte le scene di scandali presenti lungo tutta l'opera di Dostoèvskij (prima fra tutte la<br />

scena dell'onomastico di Nastàs'ja Filìppovna, nell'Idiota, dove peraltro uno dei<br />

protagonisti propone anche il giochetto secondo il quale ognuno deve raccontare la<br />

propria azione più malvagia).<br />

In conclusione si può poi dire che tutti i partecipanti all'azione in Dostoèvskij stanno<br />

sulla soglia (sulla soglia della vita e della morte, della menzogna e della verità, del<br />

raziocinio e della follia), e sono tutti dati come voci, che risuonano, che parlano,<br />

come sospese, “al cospetto della terra e del cielo”.<br />

L'ultimo discorso che affrontiamo, giusto per completezza d'informazione, è quello<br />

delle fonti di genere della menippea in Dostoèvskij.<br />

Sicuramente Dostoevskij ebbe familiarità con la menippea filtrata da varie forme<br />

presenti nella letteratura paleocristiana (vangeli, apocalisse, agiografie ecc.).<br />

Probabilmente poi conosceva di Luciano di Samosata Il Menippo, il Viaggio agli<br />

inferi e i Dialoghi dei morti; ci sono buoni motivi per credere che conoscesse il Ludus<br />

de morte Claudii di Seneca; e poi sicuramente conosceva i già ricordati Satyricon di<br />

Petronio e Asino d'oro di Apuleio; poi Gli eroi del romanzo di Boileau il Gli dei, gli<br />

eroi e il Wieland di Goethe, i Dialoghi dei morti di Fénelon e Fontanelle, le Satire di<br />

9


Diderot, i Racconti filosofici di Voltaire, fino ad arrivare almeno agli elementi<br />

fantastici presenti in Hoffmann e Edgar Allan Poe.<br />

GEORGIJ IVANOV E BOBOK<br />

10<br />

È noto che Georgij Ivànov durante gli ultimi anni di vita stesse progettando un<br />

libro di memorie, dal titolo Žìzn’, kotòraja mne snìlas’ [La vita che ho sognato].<br />

Questa notizia cronologicamente viene per la prima volta da lui annunciata a Nìna<br />

Berbèrova in una lettera della fine di dicembre 1951<br />

Quando la salute e il tempo me lo permettono scrivo, da più di un anno, un libro. "Tiro le<br />

somme", ma non come ci si aspetterebbe da me, e neppure come riterrebbero naturale e legittimo gli<br />

altri [...]. Io "tiro le somme" con la gente e con me stesso senza splendore e senza malvagità,<br />

persino senza spirito di osservazione e senza vivacità e così via. Io scrivo, più precisamente<br />

trascrivo "a memoria" il mio vero atteggiamento verso le persone e gli avvenimenti, atteggiamento<br />

che è sempre stato diverso "nel fondo" rispetto a quello in superficie, e forse si è riflesso soltanto<br />

nelle poesie, ma non sempre. [...] Non sta a me giudicare, anche perché non so se finirò il libro, ma<br />

- ritengo - riuscirò a dire le cose più importanti, ciò che non riesco a esprimere nelle poesie: per<br />

questo devo finirlo. Ma è una parola! [...] "La vita che ho sognato" questo è il titolo eventuale.<br />

Viene poi ribadita più volte nel corso della corrispondenza avuta con Romàn<br />

Gul’ fra il 1953 e il 1958, anno della morte di Ivànov. Alla Berbèrova confidava di<br />

aver iniziato a scrivere da più di un anno (il che equivale più o meno alla metà del<br />

1950) e che sarebbe riuscito, se non a finire il libro, a passare in rassegna almeno le<br />

cose più importanti.<br />

La corrispondenza con Romàn Gul’ permette poi di far luce su alcuni aspetti<br />

specifici riguardanti quest’ultimo irrealizzato progetto di Geòrgij Ivànov. Il loro<br />

scambio epistolare ha inizio nel maggio del 1953 per iniziativa del poeta che sente il<br />

bisogno di ringraziare il critico per la positiva recensione relativa alla seconda<br />

edizione dei Peterbùrgskie zìmy (New York, 1952). Lo stesso Gul’, in risposta, aveva<br />

fatto presente al suo corrispondente di essere in realtà rimasto perplesso da alcune<br />

“inesattezze” contenute nel libro ma non sottolineate nella recensione. Nella<br />

successiva replica del maggio 1953 (presumibilmente scritta fra il 17 e il 25) Ivànov<br />

scrive a Gul’:<br />

non vorrebbe qualcosa sul tipo "Gli inverni di Parigi", cioè magari senza i precedenti


11<br />

"giochi di penna" ma in modo più serio e senza quella spensieratezza che rovina Gli<br />

Inverni di Pietroburgo?<br />

Ottenuto il consenso, in una lettera del 31 maggio 1953 Ivànov fornisce interessanti<br />

dettagli sulla genesi dell’opera:<br />

Sono molto contento della possibilità di mandarvi i frammenti di ciò che si chiamerà La<br />

vita che ho sognato. Non fosse stato per la sua condiscendenza, io certamente non avrei<br />

mai scritto questo libro che "da tempo" ho sognato. Ma ora, dall'altroieri ho già<br />

cominciato a scrivere per lei il primo frammento.<br />

Questo passaggio sembra peraltro smentire quanto Ivànov aveva affermato solo<br />

pochi anni prima alla Berbèrova circa lo stato di avanzamento del lavoro [nel '51<br />

aveva scritto a lei che aveva cominciato a scrivere da più di un anno]. In ogni caso,<br />

anche nella corrispondenza con Gul’, pian piano si perdono le tracce dell’impresa cui<br />

Ivànov afferma di dedicare le sue ultime energie. Da una lettera di Irina Odoevceva a<br />

Gul’ del 16 luglio 1953 sappiamo che “«Žizn’» dvigaetsja” [La vita, nel senso La vita<br />

che ho sognato, va avanti], dato confermato nella lettera successiva della poetessa del<br />

25 luglio (“«Žizn’» podvigàetsja”). Già il 13 agosto del 1953 la Odoeveceva<br />

manifesta un certo scetticismo:<br />

In effetti è andato tutto storto. In particolare per me. Difatti è a me che tocca trascrivere<br />

la Vita che Georgij Vladimirovič ha sognato<br />

Dopo questa indicazione, nella corrispondenza sparisce qualsiasi cenno<br />

all’opera. Nel corso degli anni successivi da parte di Ivànov compaiono riferimenti a<br />

nuovi testi in prosa, sempre vitali, imminenti e, soprattutto, sempre di natura<br />

memorialistica. Ad esempio in una lettera databile al gennaio-febbraio 1956 scrive:<br />

Io, parola d'onore, mi sono messo a scrivere un articoletto per Nòvyj žurnàl. Il titolo è<br />

Le illusioni e le leggende, narra di diverse personalità.<br />

La novità viene confermata poche settimane dopo, in una lettera del 2 aprile<br />

1956: “Le leggende e le illusioni le scriverò facilmente e velocemente”. Quando<br />

questo nuovo misterioso lavoro sembra in via di conclusione e l’invio a Gul’, che lo<br />

avrebbe dovuto pubblicare su “Nòvyj žurnàl”, imminente, ecco che ancora (10<br />

gennaio 1957) una volta lo stesso progetto scompare persino dalla corrispondenza:


12<br />

Se «Nòvyj žurnàl» uscirà [c'erano voci di una possibile chiusura per crisi] (cosa che<br />

spero ardentemente) io finalmente, dopo averlo finito, le invierei le mie Illusioni e<br />

leggende.<br />

Ma già il 23 settembre del 1957 Ivànov rilancia l’ennesima idea che avrebbe<br />

dovuto assumere la forma di un testo memorialistico:<br />

Sa che c'è? Vorrei scrivere un articolo sull'emigrazione. Ce l'ho già tutto in testa e ha un<br />

titolo splendido: <strong>Bobòk</strong>.<br />

Il primo marzo del 1958, probabilmente per la freddezza dimostrata nel<br />

frattempo da parte del suo corrispondente, Ivànov lascia nuovamente cadere, quasi<br />

casualmente, il discorso su questo progetto:<br />

Mi fa male la testa. Ho una forte sensazione di noia. <strong>Bobòk</strong>. <strong>Bobòk</strong>, a proposito, è il<br />

titolo di ciò che sto scrivendo ora.<br />

Di tutti questi materiali, cui Ivànov avrebbe lavorato negli ultimi anni della sua<br />

vita, come è noto, non è giunta fino a noi nemmeno una versione parziale 1 . Le carte<br />

su cui l’autore avrebbe scritto, se mai realmente esistite, furono custodite dalla<br />

vedova dopo la morte del poeta e poi, quasi sicuramente, passarono in mano di<br />

collezionisti privati dove tutt’ora risiederebbero. È infatti proprio la Odoevceva che,<br />

subito dopo la morte del marito, in una lettera del 15 settembre 1958 a Michaìl<br />

Karpòvič, direttore responsabile di “Nòvyj žurnàl”, fa un resoconto su quanto lasciato<br />

incompiuto da Georgij Ivànov:<br />

Ancora non riesco a costringermi a radunare tutto ciò che lui ha lasciato. Non solo le<br />

poesie, ma anche la prosa. Negli ultimi tempi stava scrivendo il suo "<strong>Bobòk</strong>",<br />

sull'emigrazione. Inoltre sono rimasti dei capitoli delle memorie della Vita che ho<br />

sognato e tutta una serie innumerevole di frammenti di vario genere.<br />

Prestando fede alla Odoeveceva, i progetti memorialistici annunciati nel 1951 alla<br />

Berberova e, a partire dal 1953, a Gul’, furono quindi davvero, non solo pensati da<br />

Ivànov, ma anche parzialmente realizzati.<br />

1 Fanno eccezione unicamente i due frammenti inviati a Gul’ nel 1956, noti sotto il nome di Dèlo<br />

počtàmtskoj ùlicy [Il caso di via Počtamtskaja]. A questo proposito, per la storia completa del<br />

racconto e soprattutto per i forti dubbi sulla sua attendibilità memorialistica, si veda S. Guagnelli,<br />

“Quel pasticciaccio brutto di via Počtamtskaja”, <strong>eSamizdat</strong>, 2005, 2/3, pp. 453-461.


13<br />

I legami tra la prosa di Ivànov e l’opera di Dostoèvskij, poco evidenziati dalla<br />

critica, se si eccettuano alcuni cenni nell’articolo della Barkòvskaja presente nella<br />

bibliografia del corso, non sono riscontrabili solo a un confronto dei testi, come<br />

vedremo. La centralità dell’arte del grande romanziere per il cantore della<br />

Pietroburgo morente risulta fondamentale e presente, seppure a volte con qualche<br />

perplessità, anche a una lettura attenta dell’epistolario degli ultimi anni di Ivànov.<br />

Alla Berbèrova, nel 1951, scrive infatti di aver sempre “considerato Dostoèvskij<br />

molto al di sopra di tutto ciò che è stato scritto di lui”, ma di aver cominciato, negli<br />

ultimi tempi, a dubitarne, avendolo “riletto tutto” e avendolo trovato “falso sia dove è<br />

grande sia dove sbaglia”. A Vladìmir Màrkov, in una lettera priva di data, scrive:<br />

A proposito voglio scrivere per mio piacere un articoletto dal titolo <strong>Bobòk</strong> che prenda lo<br />

spunto, adattandolo all'emigrazione (e a me stesso), dall'abietto raccontino del geniale<br />

Fëdor Michàjlovič. Sarebbe interessante conoscere il suo parere, se ritiene che nel<br />

<strong>Bobòk</strong> di Dostoèvskij ci siano elementi di genialità, oppure concorda, io concordo, con<br />

Bùnin considerandolo una porcheria.<br />

Sempre a Markov in una lettera del 24 febbraio 1958, parlando ancora una volta<br />

del suo desiderio di scrivere un articolo sull’emigrazione dal titolo “<strong>Bobòk</strong>”,<br />

confessa:<br />

Ho un bisogno infernale del <strong>Bobòk</strong> di Dostoèvskij ma si figuri che in tutta Parigi non<br />

riesco a trovarlo.<br />

A Romàn Gul’ infine in una lettera del 29 luglio 1955 scrive invece:<br />

Ho avuto sempre la percezione che l'universo sia stato creato da un Dostoèvskij privo di<br />

talento.<br />

Si può quindi affermare che l'apparente ravvedimento in età senile di Ivànov,<br />

confessato alle persone più sensibili e attente alla sua parola, il suo tentativo disperato<br />

di giustificare e testimoniare il proprio autentico rapporto con la realtà che ha vissuto,<br />

il progetto, ricostruito con brani inediti del suo epistolario, di una serie di testi<br />

riabilitativi non giunti mai a veder la luce, l’insistenza sulla centralità di Dostoèvskij


e del suo racconto “<strong>Bobòk</strong>”, sembrano in realtà poter offrire un’efficace chiave<br />

interpretativa alla sua controversa opera memorialistica su Pietroburgo.<br />

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