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Si ringraziano per il prezioso contributo<br />
Ermelinda Bertini, Amedeo Cottino, Enzo Cucco, Laura D’Amico, Sandro De Vecchis, Raffaella<br />
Fusco, Maurizio Laudi, Umberto Lucia, Franco Prina, Brunella Ruffa, Fausto Sorino, Giusi Territo,<br />
Maurizio Viroli, Alida Vitale
La lotta verso ogni forma di violenza contro le donne e lo sviluppo di adeguate forme di<br />
assistenza per le vittime, sono al centro dell’impegno dell’Assessorato alle Pari Opportunità<br />
della <strong>Regione</strong> <strong>Piemonte</strong>.<br />
Nella seconda metà del 2007 è iniziato il percorso che ha portato all’approvazione del<br />
primo “Piano regionale per la prevenzione della violenza contro le donne e l’assistenza alle<br />
vittime”: non un libro dei sogni ma obiettivi definiti e raggiungibili insieme a un concreto<br />
programma di azioni. L’iniziativa ha suscitato l’approvazione generale: le Istituzioni locali<br />
e, attraverso Forum provinciali e un Forum regionale, anche le Istituzioni di parità e il vasto<br />
mondo delle associazioni che operano nel settore hanno espresso il loro consenso.<br />
Per le azioni che hanno accompagnato il Piano e che ne realizzano gli obiettivi l’Assessorato<br />
ha investito più della metà delle risorse a sua disposizione. Un impegno mai assunto prima<br />
d’ora in <strong>Regione</strong>, che ha prodotto nuova sensibilità e iniziative concrete anche da parte<br />
di altri Assessorati, in particolare al Welfare, alla Casa ed alla Sicurezza.<br />
Una simile scelta non poteva non richiedere un corrispondente lavoro di riflessione e<br />
approfondimento, sia sui temi della sicurezza delle donne (in questa direzione va il Manuale<br />
“La città si*cura” prodotto in collaborazione con la Lega Autonomie Locali del <strong>Piemonte</strong>),<br />
sia sul significato della violenza contro le donne e sui contesti entro i quali essa nasce,<br />
cresce e si moltiplica.<br />
Queste riflessioni sono essenziali perché le nostre azioni di prevenzione e di promozione di<br />
una cultura del rispetto e della effettiva parità tra uomini e donne siano efficaci.<br />
In tale ambito si colloca anche la pubblicazione realizzata dall’Osservatorio Campagne<br />
di Comunicazione Sociale che qui presentiamo. Un lavoro interessante, ricco di spunti di<br />
riflessione su un tema che attraversa le culture e le società, che ci deve vedere sempre<br />
vigili rispetto ai suoi sviluppi, alla percezione che di esso ha l’intera società e agli strumenti<br />
più efficaci per contrastarne i crimini.<br />
Giuliana Manica<br />
Assessora alle Pari Opportunità della <strong>Regione</strong> <strong>Piemonte</strong>
Introduzione<br />
Nella storia dell’umanità, sono rare le<br />
questioni paragonabili al tema della violenza contro le donne. Si trovano,<br />
infatti, ben pochi crimini così universalmente condannati e al tempo<br />
stesso così costantemente praticati, da tutti gli Stati, in tutti gli angoli del<br />
mondo senza eccezione di cultura, religione, ricchezza e orientamento<br />
politico.<br />
Nel corso degli anni lo scenario della violenza si è ampliato a dismisura,<br />
con il moltiplicarsi delle forme assunte. Perfettamente al passo con lo<br />
sviluppo delle società nelle quali si manifesta e con il relativo proliferare<br />
dei luoghi e delle relazioni ove la violenza (quella contro le donne, ma<br />
anche qualsiasi altra forma di violenza tra persone) si esprime.<br />
La <strong>Regione</strong> <strong>Piemonte</strong>, alla fine del 2007, ha deciso di impostare una vera<br />
e propria strategia di contrasto, fondata sul “Piano regionale per la<br />
prevenzione della violenza contro le donne e per il sostegno alle vittime”,<br />
e sulle numerosissime attività che dal Piano sono scaturite o che ad esso<br />
si ispirano, anche con riferimento al tema della sicurezza in generale.
Da tutte queste considerazioni parte il lavoro che qui presentiamo e che<br />
si inserisce nell’ambito delle iniziative regionali, con l’obiettivo di offrire<br />
argomenti utili all’approfondimento ed alla riflessione che accompagnano<br />
costantemente l’impegno dell’Istituzione su questi temi.<br />
Il volume raccoglie i contributi di 12 personalità assai diverse per esperienza,<br />
estrazione istituzionale e impegno, che compongono un affresco molto<br />
vario dal punto di vista dei contenuti, ma che ben riflette la complessità<br />
dei temi che si devono affrontare quando si intende operare contro la<br />
violenza (in primis contro la violenza alle donne) in modo organico e non<br />
sporadico.<br />
Esperienze, opinioni e riflessioni offerte da magistrati, docenti, psicologi,<br />
educatori, avvocati, esperti nei vari campi, di cui tenere conto nella<br />
trasmissione di messaggi a contrasto della violenza, così come nella<br />
progettazione di campagne di comunicazione sociale, utili e anzi<br />
indispensabili, su questi temi, affinché gli interventi programmati siano<br />
sempre più efficaci per vincere la sfida che tutti e tutte abbiamo di fronte.<br />
Osservatorio Campagne di Comunicazione Sociale
6 Amedeo Cottino<br />
10 Maurizio Viroli<br />
14 Ermelinda Bertini<br />
18 Raffaella Fusco<br />
24 Franco Prina<br />
30 Umberto Lucia
Giusi Territo e Sandro De Vecchis 34<br />
Fausto Sorino 38<br />
Maurizio Laudi 44<br />
Brunella Ruffa 50<br />
Laura D’Amico 54<br />
Alida Vitale 60
Amedeo Cottino<br />
Professore ordinario di Sociologia del Diritto, Università di Torino<br />
Violenza,<br />
la “normalità”<br />
del male<br />
Gli studi da me condotti nell’ultimo decennio sono tutti,<br />
direttamente o indirettamente, riconducibili ad un unico<br />
interesse: la ricerca del Male e delle sue radici. Sono<br />
consapevole di usare una parola drammatica, forte,<br />
ma credo non ci sia altro termine se non questo per<br />
collocare le mie riflessioni all’interno di un quadro<br />
storico che comprende sia le violenze del secolo<br />
recentemente trascorso, le due Guerre Mondiali, i<br />
campi di sterminio e i Gulag (le cui vittime,<br />
complessivamente, si stima ammontino a 170 milioni),<br />
sia quelle del nuovo millennio (Rwanda, Bosnia-<br />
Erzegovina, Sudan, Darfour, Gaza…).<br />
Detto questo, la mia ricerca ha per oggetto la “normalità”<br />
del male. Aggiungo subito che la scelta del termine<br />
“normale” non è casuale, bensì frutto della mia lettura<br />
dell’aggettivo “banale”, così come coniato a suo tempo<br />
da Hannah Arendt per descrivere la personalità di<br />
Adolf Eichmann, il burocrate nazista responsabile della<br />
cosiddetta “soluzione finale”, lo sterminio di tutti i<br />
‘sottouomini’ (Untermenschen). Ma affermare che “il<br />
male è normale” significa, inevitabilmente, riconoscere<br />
che chiunque, in linea di principio, possa commettere
azioni violente anche estreme. Vorrei subito<br />
precisare che questa affermazione non va intesa<br />
come una provocazione. Esiste infatti, da molti<br />
decenni, una solida documentazione psichiatrica<br />
e psicologica che smentisce l’opinione diffusa<br />
secondo cui i carnefici sarebbero dei mostri, o<br />
comunque delle persone gravemente affette da<br />
turbe psichiche. Nella stragrande maggioranza dei<br />
casi, invece, si tratta di persone assolutamente<br />
normali secondo gli standard correnti, come<br />
rivelano, ad esempio, le perizie psichiatriche<br />
condotte sui criminali nazisti processati dal tribunale<br />
internazionale di Norimberga.<br />
Vorrei brevemente raccontare come il mio<br />
coinvolgimento nel tema del Male e della sua<br />
normalità ha preso piede.<br />
Una decina d’anni fa circa, ebbi l’opportunità di<br />
entrare, per la prima volta, in carcere. Fu la rottura<br />
del silenzio (o forse dell’indifferenza) che, come<br />
per molti altri, aveva regnato tra me e quel mondo.<br />
Lì vissi, per qualche anno, un’esperienza<br />
professionale che mi costrinse a mettere<br />
radicalmente in discussione quelle che erano, e<br />
sono tuttora, le correnti rappresentazioni del crimine<br />
e del criminale. E’ la storia dell’incontro con un<br />
collaboratore di giustizia, Nino, persona con un<br />
pesantissimo carico di omicidi, rapine e traffico di<br />
droga. Iniziammo un comune cammino dove lui fu<br />
la guida, moderno Virgilio, nell’inferno del Cuor di<br />
Tenebra. Quell’esperienza, oltre a mettere a nudo<br />
i miei pregiudizi, mi fece capire fino in fondo che<br />
tra me e lui, tra me ed i suoi compagni di carcere,<br />
non c’erano differenze significative. Ma mi fece<br />
soprattutto capire che io non ero significativamente<br />
diverso da loro. Ho a questo proposito la memoria,<br />
tuttora molto intensa, di un incontro nel corso del<br />
7<br />
quale Nino mi raccontò come<br />
giunse alla decisione di<br />
uccidere una persona.<br />
Costui, malgrado i ripetuti<br />
moniti diretti a lui e ai suoi<br />
familiari, continuava a spacciare<br />
droga per conto proprio, invadendo il mercato<br />
che era invece monopolio di Nino e della sua banda.<br />
“A mali estremi rimedi estremi”, fu il commento di<br />
Nino a margine della decisione di condannarlo a<br />
morte. Ed io risposi: “la capisco”. Soltanto<br />
successivamente, mi resi conto fino in fondo del<br />
significato di quella mia risposta. Io avevo inteso<br />
dirgli che anch’io, in quella situazione, in quelle<br />
circostanze, mi sarei comportato come lui!<br />
Ora, di là da questo episodio, il tema della normalità<br />
del male non può essere affrontato, a mio modo di<br />
vedere, disgiuntamente da quella che il sociologo<br />
norvegese Johan Galtung ha chiamato la violenza<br />
culturale, e cioè l’azione che la cultura egemone<br />
esercita su aspetti importanti del mondo reale. E’<br />
un’azione che si sviluppa in vario modo e che varia,<br />
ovviamente, sia nel tempo sia nello spazio. La realtà<br />
viene oscurata, talvolta fino a negarla; talaltra se<br />
ne cambia la definizione. Così, per un verso, si<br />
afferma che il genocidio degli Armeni non ha mai<br />
avuto luogo, o che le stragi di civili nel corso delle<br />
operazioni militari sono “effetti collaterali”, e i<br />
bombardamenti “operazioni chirurgiche”; oppure<br />
ancora che l’attacco alla striscia di Gaza non è<br />
un’aggressione ma un atto difensivo. Per altro<br />
verso, può essere necessario o utile riconoscere<br />
che una determinata violenza ha avuto luogo. E qui<br />
entrano in gioco, come strumenti di legittimazione<br />
e/o giustificazione, settori portanti della cultura, in<br />
uno spettro che va dalle scienze umane in senso
8<br />
lato alle scienze naturali. E' proprio<br />
all’interno di questi due campi che<br />
la violenza può trovare, per così dire,<br />
una copertura. Non si tratta più infatti<br />
di negare che qualcosa di violento<br />
ha avuto, o sta avendo luogo, bensì<br />
di indicare le ragioni che lo rendano accettabile.<br />
Ed ecco allora il rinvio alla legge e/o all’etica. Si<br />
pensi, rispetto alla prima, all’uso corrente del termine<br />
‘giustizia’ e a quello relativo del verbo ‘giustiziare’<br />
con riferimento alla condanna a morte da parte di<br />
uno Stato. Nel momento in cui si dice che “Tizio<br />
è stato giustiziato” e che dunque è stata fatta<br />
“giustizia”, l’uccisione di Tizio viene legittimata.<br />
Eppure, come osservava Camus oltre cinquanta<br />
anni fa nella sua denuncia della pena di morte, lo<br />
Stato uccide assai di più dei singoli assassini.<br />
Rispetto all’etica, sappiamo bene che uccidere in<br />
guerra non soltanto non è considerato un<br />
comportamento illegittimo, ma può essere visto<br />
come un atto virtuoso, moralmente giustificato,<br />
soprattutto se è frutto del coraggio; e il coraggio<br />
è una virtù.<br />
Per ciò che riguarda poi il coinvolgimento delle<br />
discipline mediche, è sufficiente pensare alle<br />
sperimentazioni condotte sugli umani: da quelle<br />
sugli ammalati di sifilide negli Stati Uniti, ai<br />
programmi di eugenetica attuati per anni in Svezia.<br />
In questi casi è il “superiore” valore del sapere<br />
scientifico, l’autorevolezza della scienza, che<br />
giustificano la violenza (nel primo dei due esempi,<br />
anche una buona dose di razzismo). Infine va detto<br />
- ma non è un rilievo marginale - che la violenza<br />
culturale ha spesso dei “complici”, e questi siamo<br />
tutti noi, gli spettatori. A mio parere, infatti, un’analisi<br />
corretta della violenza non può esaurirsi nel rapporto<br />
tra il carnefice e la vittima. Questo è il<br />
rispettabilissimo punto di vista del diritto, ma è<br />
soltanto uno dei possibili. A mio modo di vedere,<br />
e fino a prova contraria, c’è un Terzo, non<br />
necessariamente presente fisicamente, che non<br />
possiamo scagionare. Un Terzo che, assai più<br />
spesso di quanto siamo disposti ad ammettere,<br />
siamo appunto noi. E’ il Terzo che non vuole vedere.<br />
E’ il Terzo cioè che ha guardato da un’altra parte<br />
quando gli sono sfilati davanti milioni di esseri umani<br />
avviati ai campi di sterminio. Tornando ora al tema<br />
della legittimazione e della giustificazione, le violenze<br />
più drammatiche rispetto alle quali mi pare si<br />
invochino le ragioni del diritto e dell’etica sono la<br />
guerra e il carcere. La prima, forte anche di un<br />
linguaggio che - come ricordavo più sopra - spesso<br />
cerca di nascondere le atrocità che comporta, è<br />
celebrata oggi, messianicamente, come la lotta<br />
contro il Male. Naturalmente non si tratta né del<br />
Male di cui parlavo all’inizio e neppure del Male<br />
soprannaturale, quello legato alle streghe e ai<br />
demoni medioevali. Semmai, ciò che qui colpisce<br />
è il riprodursi di un modello di giustificazione di<br />
origine antica: un tempo l’applicazione della legge<br />
del taglione trovava conforto nei testi sacri, oggi la<br />
violenza della guerra viene giustificata invocando<br />
il mandato ricevuto da un Dio.<br />
Il carcere dal canto suo è il luogo dove si infliggono<br />
legittimamente e giustificatamente sofferenze. Fino<br />
ad epoca recentissima infatti, la società, di là dalle<br />
proclamate ideologie rieducative, ha punito in nome<br />
di una metafisica bilancia (è anche qui, nuovamente,<br />
la legge del taglione) grazie alla quale le sofferenze<br />
della vittima vengono compensate (e in qualche<br />
modo sanate) da quelle inflitte al carnefice. Oggi<br />
sempre meno si invoca quel principio. Oggi il
carcere si legittima come mera risposta alla<br />
domanda di sicurezza che proviene dalla società<br />
civile, ampiamente e consapevolmente alimentata<br />
dai principali media. Anche qui, come nel caso<br />
della guerra, si recupera un modello che pareva<br />
desueto: quello della difesa sociale. A fronte di<br />
individui e gruppi vissuti come pericolosi, in primo<br />
luogo i tossici e gli stranieri clandestini, il carcere<br />
si mostra finalmente per quello che è: un luogo di<br />
mero contenimento del diverso, dell’altro. Fece<br />
scandalo un amico e collega norvegese, Nils<br />
Christie, quando in un suo libro sul carcere, uscito<br />
alla fine del secolo scorso, parlò di Gulag. Temo<br />
sia stato profetico!<br />
Ho parlato finora di violenza e non di crimine e<br />
neppure di devianza. C’è una ragione per questa<br />
scelta. Infatti se è vero che i termini che si scelgono<br />
per sviluppare un pensiero o una teoria non sono<br />
mai buoni o giusti di per sé, ma lo sono<br />
esclusivamente per il loro valore euristico, allora il<br />
termine ‘violenza’ è da preferire agli altri due. A<br />
mio modo di vedere, infatti, e proprio per quanto<br />
ho detto in precedenza sulla violenza culturale,<br />
l’adozione di questo concetto consente di far<br />
emergere quell’universo di comportamenti<br />
inequivocabilmente dannosi che non sono né<br />
sanzionati penalmente (e quindi considerati crimini),<br />
né stigmatizzati socialmente (e pertanto trattati<br />
come devianti). Ora, non è un segreto che le norme<br />
giuridiche in genere, e quelle penali in specie,<br />
riflettono in larga misura i valori dei ceti dominanti.<br />
Ne è un esempio quella che possiamo chiamare,<br />
eufemisticamente, la scarsa attenzione che il<br />
legislatore in genere e, in particolare, quello italiano,<br />
dimostra per i danni che provoca il sistema<br />
produttivo (fondamentalmente, l’insieme delle<br />
9<br />
imprese, delle banche e delle<br />
compagnie di assicurazione),<br />
sia in termini di costi strettamente<br />
economici, sia in<br />
termini di danni alla salute.<br />
Eppure siamo di fronte a<br />
comportamenti la cui nocività è del tutto comparabile<br />
a quella della criminalità organizzata. Ma anche la<br />
nozione di devianza mi pare inadeguata in quanto<br />
si limita, come quella di crimine, a prendere atto di<br />
ciò che, esplicitamente e visibilmente, non viene<br />
considerato conforme al vigente sistema di regole.<br />
In ultimo vorrei sottolineare il nesso tra violenza e<br />
linguaggio, pur con la dovuta attenzione per le varie<br />
modalità attraverso le quali il secondo diventa lo<br />
strumento di diffusione della prima. In generale, mi<br />
pare che gli incitamenti espliciti alla violenza siano<br />
l’eccezione. Probabilmente li possiamo trovare in<br />
contesti che già di per sé sono violenti, come nel<br />
caso delle campagne di pulizia etnica. Un esempio<br />
recente è quello del Rwanda. Qui la radio è stata<br />
uno degli strumenti di terrore e di incitamento al<br />
massacro dei Tutsi. Naturalmente, in forme molto<br />
più blande, ne possiamo trovare tracce nei filmati<br />
televisivi sul crimine dove, di regola, si applaude<br />
alla morte del criminale, dipinto nei suoi aspetti più<br />
orrendi, per mano delle forze dell’ordine o del<br />
giustiziere (buon esempio, quest’ultimo, di violenza<br />
culturale). Senza dimenticare la violenza del<br />
linguaggio maschile riferito alle donne, violenza che<br />
viene mascherata, ma neppure tanto bene, da veli,<br />
talvolta goliardici talaltra rozzamente ironici. Ancora<br />
un esempio di occultamento da parte della violenza<br />
culturale.
Maurizio Viroli<br />
Docente di Teoria Politica, Department of Politics dell’Università<br />
di Princeton, Stati Uniti<br />
Membro del Comitato Scientifico di Ethica*<br />
Etica e diritto:<br />
la forza intelligente per<br />
sconfiggere la violenza<br />
Nel corso delle ricerche condotte per Ethica abbiamo<br />
spesso esaminato la diffusione e la crescita della<br />
violenza nelle società contemporanee, in particolare<br />
nella società italiana. Tra i vari aspetti analizzati, ci<br />
siamo soffermati soprattutto su quello internazionale,<br />
che prende la forma della guerra e dell'attacco<br />
terroristico, e su quello nazionale, che prende la forma<br />
della criminalità organizzata.<br />
Nella storia, la violenza fra gli Stati ha sempre, o quasi,<br />
preso la forma della guerra in senso classico, ovvero<br />
del conflitto fra Stati combattuto da eserciti regolari o<br />
da truppe mercenarie. Nel mondo contemporaneo, le<br />
guerre vedono una presenza sempre più consistente<br />
di truppe a tutti gli effetti “private”, cioè composte da<br />
persone assoldate dall’una o dall’altra fazione per<br />
combattere al di fuori delle regole della guerra stabilite<br />
dal diritto internazionale. Come mercenari dell’età<br />
moderna, le truppe private sono disponibili a compiere<br />
le forme più crudeli di repressione e di sterminio sia<br />
nei confronti di altri combattenti, sia di civili, giudicati,<br />
* Ethica è un forum di ricerca e formazione sull’etica nella vita pubblica. Ha sede ad Asti.
più o meno arbitrariamente, sostenitori del gruppo<br />
nemico.<br />
L’altro aspetto particolarmente inquietante della<br />
violenza nel mondo contemporaneo è il ricorso<br />
all’arma del terrorismo da parte di gruppi che<br />
invocano il riconoscimento di diritti politici e<br />
l’emancipazione nazionale, o da parte di gruppi<br />
che combattono per l’instaurazione di regimi<br />
teocratici in cui il potere politico è al servizio di una<br />
dottrina religiosa rivelata ed interpretata da una<br />
casta di sacerdoti. Il terrorismo usato da popoli o<br />
minoranze oppresse del passato, o da militanti che<br />
proclamavano di agire in nome di quel popolo o di<br />
quella minoranza, cercava di colpire obiettivi molto<br />
precisi e delimitati; il terrorismo contemporaneo,<br />
al contrario, colpisce i suoi obiettivi a caso, purché<br />
siano persone appartenenti ad un determinato<br />
gruppo etnico o religioso. Mentre i terroristi<br />
dell’Ottocento miravano a colpire un re, un tiranno,<br />
un imperatore o personaggi particolarmente<br />
rappresentativi del regime dominante, cercando,<br />
per quanto possibile, di non uccidere o ferire vittime<br />
innocenti, i terroristi contemporanei mirano ad<br />
uccidere o a ferire il maggior numero possibile di<br />
vittime innocenti che appartengono al popolo o al<br />
gruppo religioso che essi identificano come nemico.<br />
Altra differenza fondamentale fra il terrorismo<br />
contemporaneo e quello classico è che, mentre il<br />
primo mira a generare paura nel gruppo nemico e<br />
a galvanizzare il proprio, il secondo mirava<br />
esclusivamente a galvanizzare il gruppo oppresso,<br />
dimostrando che il tiranno non era affatto invincibile.<br />
Da queste considerazioni si potrebbe a rigore<br />
concludere che mentre il “terrorismo” classico era<br />
piuttosto una sopravvivenza o una rinascita del<br />
tirannicidio o della congiura antichi, solo quello<br />
11<br />
contemporaneo merita di<br />
essere definito “terrorismo”<br />
in senso proprio.<br />
Per quanto riguarda la<br />
criminalità organizzata, essa<br />
ha assunto, in Italia, forme<br />
particolarmente odiose e pericolose. È odiosa<br />
perché si svolge in contesti di indescrivibile<br />
abbrutimento ed è praticata da individui che hanno<br />
perso ogni senso della dignità umana; è pericolosa<br />
perché distrugge le basi fondamentali della<br />
convivenza civile sostituendo in ampi territori il<br />
governo degli uomini al governo delle leggi, i poteri<br />
privati a quelli pubblici. Benché l’opinione pubblica<br />
non ne sia consapevole, ogni atto di criminalità<br />
organizzata, anche se non si traduce in omicidi o<br />
in violenze, è un attacco mortale alla Repubblica.<br />
Da sempre la violenza internazionale e quella<br />
nazionale sono profondamente legate al denaro e<br />
al potere, quasi sempre in un rapporto strumentale:<br />
l’esercizio della violenza è il mezzo per ottenere<br />
denaro e potere. Grazie alla violenza i principi del<br />
Rinascimento potevano ottenere grandi somme di<br />
denaro, che poi usavano per rafforzare il loro potere<br />
politico. Ma è vera anche la relazione inversa, nel<br />
senso che il denaro è un mezzo essenziale per<br />
poter esercitare la violenza, sia nel contesto<br />
internazionale sia in quello domestico. Grazie alla<br />
disponibilità di grandi somme di denaro, i gruppi<br />
terroristici e i signori della guerra possono arruolare<br />
e formare militanti, acquistare armi, dotarsi di mezzi<br />
di comunicazione sofisticati. Inoltre, chi già dispone<br />
di potere politico, come ha insegnato Max Weber<br />
con la sua celebre definizione dello Stato, è in<br />
grado di praticare il monopolio della violenza legittima<br />
e, si può aggiungere, praticare la violenza illegittima
12<br />
o privata.<br />
Di fronte alla violenza delle<br />
guerre condotte con<br />
eserciti privati e di fronte<br />
alla violenza organizzata,<br />
l’etica e le convinzioni<br />
morali non bastano. Per vincere contro i signori<br />
della guerra, i terroristi e la criminalità mafiosa<br />
occorrono armi, indagini sofisticate e rischiose,<br />
corpi scelti, leggi e Stati seri. Nessun movimento<br />
pacifista, per quanto bene intenzionato, e nessuna<br />
iniziativa civica contro la mafia potranno mai<br />
convincere chi vive di violenza e per la violenza ad<br />
abbassarsi ad obbedire alle leggi, come tutti gli<br />
altri. Nella mentalità del terrorista o del mafioso c’è<br />
la percezione di essere superiore agli altri esseri<br />
umani, e quindi di essere superiore alle leggi.<br />
Contro persone che hanno queste convinzioni,<br />
l’unica arma efficace è la legge, imposta da uomini<br />
che sanno usare la forza come e meglio dei signori<br />
della guerra, dei terroristi e dei mafiosi.<br />
Al tempo stesso è vero anche che la lotta contro<br />
la violenza internazionale ed interna non si può in<br />
alcun modo vincere senza una vera e propria<br />
rinascita etica. Nel caso specifico della lotta al<br />
terrorismo, uno degli errori più gravi che gli Stati<br />
Uniti hanno commesso durante l’amministrazione<br />
Bush è stato quello di impiegare mezzi, quali la<br />
tortura e la detenzione arbitraria, che violano<br />
esplicitamente le norme etiche e i diritti umani.<br />
Anziché indebolire il terrorismo, questi metodi lo<br />
hanno rafforzato. Le informazioni ottenute con la<br />
tortura e con la detenzione arbitraria sono state di<br />
poco valore, mentre i militanti delle organizzazioni<br />
terroristiche hanno esteso il loro prestigio mostrando<br />
che la potenza che si ergeva a paladina dei diritti<br />
umani in realtà li calpestava senza scrupoli. La<br />
politica della forza si è rivelata, alla prova dei fatti,<br />
una politica di debolezza. La vera politica della<br />
forza, come l’Amministrazione Obama sta indicando,<br />
è soltanto quella che sottomette l’uso della forza<br />
all’etica e al diritto.<br />
Considerazioni analoghe valgono anche per la<br />
difficile lotta contro la criminalità organizzata. Posto<br />
che l’uso della forza è assolutamente indispensabile,<br />
altrettanto necessario è il rispetto delle regole etiche<br />
e della legge. Lo Stato deve infatti dimostrare nel<br />
modo più chiaro che la sua violenza non ha nulla<br />
in comune con la violenza dei criminali. Oltre al<br />
rispetto della legalità e dei principi etici da parte<br />
delle forze di sicurezza, è necessario un forte<br />
impegno educativo inteso a fare crescere fra i<br />
cittadini un sentimento di totale repulsione nei<br />
confronti dei metodi impiegati dalla criminalità<br />
organizzata. È ormai opinione comune che la<br />
criminalità organizzata riesca a reclutare adepti in<br />
zone segnate da un profondo degrado morale e<br />
civile, e dunque l’opera di bonifica morale è tanto<br />
necessaria e difficile quanto quella di repressione<br />
vera e propria.<br />
In conclusione, in un mondo sempre più segnato<br />
dalla violenza incontrollata e incontrollabile, sia nel<br />
contesto internazionale sia in quello domestico, le<br />
sole risposte efficaci sono l’uso intelligente della<br />
forza guidata dai principi etici e dal diritto, e<br />
l’impegno serio verso l’educazione civile.
Sono 6 milioni e 743 mila<br />
le donne tra 16 e 70 anni<br />
che dichiarano di essere state vittime<br />
di violenza fisica o sessuale<br />
nel corso della vita.<br />
La quasi totalità dei casi di violenza<br />
non è denunciata (96% dei casi di violenza da non<br />
partner e 93% dei casi di violenza da partner).<br />
ISTAT,<br />
"La violenza e i maltrattamenti<br />
contro le donne dentro e fuori la famiglia", 2007<br />
15
Ermelinda Bertini<br />
Psicologa. Giudice Onorario presso il Tribunale dei Minori di Torino<br />
Passato e presente delle<br />
dinamiche familiari,<br />
tra capacità di mediare<br />
e risposte violente<br />
Sono psicologa dell’infanzia. Per 35 anni mi sono<br />
occupata dello stesso territorio, cioè l’ampia area di<br />
Porta Palazzo, centro fra i più antichi della nostra città,<br />
da sempre caratterizzato da forte deprivazione sociale,<br />
e ne ho seguito i cambiamenti.<br />
Oggi, come Giudice Onorario presso il Tribunale dei<br />
minori di Torino, ho la possibilità di una visione molto<br />
più ampia dei fenomeni involutivi o evolutivi della società<br />
odierna.<br />
Le violenze che si consumano nei contesti familiari,<br />
oggi, sono diverse rispetto al passato?<br />
Prima di tutto è cambiata la famiglia, a livello sia<br />
concettuale, sia dei ruoli e dei rapporti all’interno.<br />
Quando ho cominciato la mia attività, Porta Palazzo<br />
era abitata per lo più da emigranti dal Sud Italia. Il<br />
modello di famiglia era quello patriarcale, i matrimoni
erano per così dire “combinati”; gli uomini, infatti,<br />
consolidata la posizione lavorativa, tornavano al<br />
Sud a prendere moglie; i bambini erano cura<br />
esclusiva della madre, mentre il padre, “esterno”<br />
alla famiglia, era addetto al mantenimento dei vari<br />
componenti; le violenze non mancavano, ma erano<br />
assorbite dal contesto familiare.<br />
E ricordo bene i volti delle donne sui quali si leggeva<br />
la fatica, spesso il trauma, del passaggio dai loro<br />
quieti paesini calabresi, siciliani o sardi ove i cortili<br />
erano protettivi, la pratica del comarato e l’esistenza<br />
di una solida rete familiare offrivano solidarietà e<br />
sicurezza, alla grande città con le sue profonde<br />
differenze di cultura, di relazioni..., ove non si<br />
sentivano accolte, ma si ritrovavano isolate.<br />
Le rivedo, quelle mamme, all’uscita della scuola<br />
(era il Parini e i bambini facevano la prima elementare)<br />
in cerca di discorsi comuni, catapultate<br />
in uno spazio privo di parrocchie, di oratori, di<br />
giardini, che non poteva offrire occasioni di incontro,<br />
di relazioni interpersonali. In questa realtà difficile<br />
i bambini, pur favoriti dal rapporto con compagni<br />
di scuola e insegnanti, a casa captano la fragilità<br />
delle figure parentali e a loro volta sono indeboliti<br />
nel processo di crescita culturale.<br />
Nell’arco di 35 anni avvengono grandi trasformazioni;<br />
alla famiglia patriarcale si sostituisce<br />
un modello molto più spezzettato e la rete, con il<br />
suo importantissimo compito di assorbire e<br />
stemperare le tensioni familiari, si disintegra<br />
accentuando le difficoltà: ciò che rimane è il senso<br />
di deprivazione.<br />
Nelle realtà familiari deprivate, tra difficoltà di<br />
comunicazione, frustrazioni e fallimenti, dove<br />
15<br />
vengono meno il sostentamento<br />
e la sicurezza economica,<br />
è quasi automatico<br />
l’aumento delle violenze, da<br />
quelle ad altissimo rischio, ai<br />
casi più lievi di violenze assistite.<br />
E a pagarne il prezzo sono i più piccoli.<br />
I bambini che ho osservato sono stati molti e spesso,<br />
approfondendo l’anamnesi, ho visto chiaramente<br />
che tensioni, dinamiche di violenza, maltrattamenti<br />
sono fattori persistenti nel tempo, si perpetuano<br />
nelle varie generazioni. Prima, però, erano assorbiti<br />
dalla famiglia, ora, invece, venute meno le protezioni<br />
della rete, più facilmente esplodono all’esterno.<br />
Senza arrivare a concetti estremi di violenze gravi<br />
o abusi, se un bambino cresce in ambienti ove la<br />
violenza è una costante, se la subisce regolarmente<br />
dai genitori, con i quali ha comunque una relazione<br />
improntata ad aggressività, cresce in lui un<br />
attaccamento primario (la psicologia ne elenca<br />
varie forme) insicuro, che lo renderà un adulto non<br />
abbastanza consapevole ed equilibrato. Del resto,<br />
proprio la carenza di equilibrio, di gratificazioni<br />
affettive, professionali,…deteriora progressivamente<br />
la crescita degli individui nel succedersi delle<br />
generazioni familiari.<br />
Se continuiamo il ragionamento e cerchiamo di<br />
risalire alle cause principali delle attuali manifestazioni<br />
di violenza, ci colpisce un fatto.<br />
I contesti nei quali viviamo, in tutti gli ambienti<br />
sociali, indipendentemente dalle condizioni culturali<br />
ed economiche, oggi offrono modelli di comportamento<br />
caratterizzati da comunicazione aggressiva,<br />
da azioni e reazioni violente.
16<br />
Questo perché nelle<br />
relazioni umane è venuta<br />
a mancare la mediazione:<br />
nessuno ce la insegna e<br />
all’interno delle famiglie<br />
non ci sono più figure<br />
carismatiche in grado di farlo.<br />
Del resto, nelle società caratterizzate da isolamento<br />
comunicativo, tutte le gratificazioni alla base della<br />
crescita come individui finiscono per concentrarsi<br />
in una sola o in pochissime persone, perciò è su<br />
di esse che tutto si scarica.<br />
Oggi, di fronte a relazioni che non funzionano,<br />
nessuno sa affrontare il problema attraverso<br />
comportamenti fondati sulle regole della<br />
conciliazione, della ricerca di altre strade possibili,<br />
del rispetto dell’altro, dell’attesa.<br />
E senza considerare le patologie!<br />
La vita delle relazioni affettive è diventata assai più<br />
ardua; è faticoso costruirle e tutto si complica<br />
se consideriamo i ritmi di vita e di lavoro; il tempo<br />
libero, così difficile da avere e, se c’è, da rendere<br />
appagante attraverso esperienze affettive condivise.<br />
L’affettività ha perso significato e anche qui i più<br />
colpiti sono bambini e anziani, gli anelli deboli della<br />
catena.<br />
Quanto all’immigrazione, sia antica sia dei giorni<br />
nostri, sicuramente può generare violenza per tutto<br />
ciò che i migranti subiscono in termini di<br />
sradicamento, di sensazione di appartenere a nulla.<br />
In proposito, avendo molto viaggiato e frequentato,<br />
libera da pregiudizi politici e religiosi, ho maturato<br />
una convinzione circa il rapporto fra le donne arabe<br />
e il velo: quando arrivano in Europa per viverci, il<br />
loro fortissimo attaccamento al velo, secondo me,<br />
è dovuto al senso di protezione che offre loro, ma<br />
soprattutto al fatto che l’oggetto diventa simbolo<br />
forte di appartenenza.<br />
Leggendo i giornali e seguendo l’informazione<br />
radiotelevisiva, sorge spontaneo un altro<br />
interrogativo: le violenze estreme, come l’abuso,<br />
sono aumentate anche in famiglia?<br />
Posso rispondere affermativamente proprio grazie<br />
all’attuale esperienza di giudice al tribunale dei<br />
minori.<br />
Immaginiamo comunicazione e relazioni affettive<br />
interfamiliari come un iceberg: sollevandosi la cima,<br />
l’intera massa dilaga liberamente. Per esempio,<br />
sono in aumento i delitti familiari (soprattutto al<br />
Nord); scheletri nell’armadio, “segreti di famiglia”<br />
sono sempre esistiti, ma tutto era custodito e attutito<br />
dalla rete, che moderava i conflitti, dava solidità<br />
all’istituzione familiare e una formazione più<br />
equilibrata ai vari componenti.<br />
Oggi si evidenzia un andamento “frenetico” della<br />
società: sempre più numerose sono le famiglie che<br />
si spezzano; i coniugi mettono al mondo figli con<br />
nuovi compagni, a loro volta già genitori, poi anche<br />
queste convivenze finiscono ed ecco che si<br />
ricomincia: nuove relazioni, nuovi figli...<br />
Il concetto è quello di “famiglia allargata”, ma le<br />
basi non sono più quelle del modello classico: oggi<br />
si ritiene che sia indispensabile fare un figlio, per<br />
puntellare una relazione, senza considerare le<br />
conseguenze. Soprattutto senza mettere in conto<br />
la fatica che richiede la tenuta di una vera famiglia<br />
allargata in termini affettivi, di mediazione, di rispetto<br />
delle differenze, eccetera.<br />
Le differenze si rifiutano e sono poche le coppie
che le considerano una ricchezza e come tale<br />
sanno usarle, capacità importantissima soprattutto<br />
nelle famiglie miste, che si stanno moltiplicando.<br />
Penso che sulla qualità di futuro che ci attende<br />
incideranno notevolmente sia la capacità degli<br />
individui di accettarsi con le rispettive diversità, sia<br />
il grado di consapevolezza dell’importanza di<br />
recuperare il rispetto interpersonale, gli strumenti<br />
conciliativi e di mediazione.<br />
Quale il prezzo sociale della violen<br />
Quali che siano le origini e le cause, la violenza ha<br />
sempre un prezzo sociale alto, soprattutto per le<br />
generazioni future.<br />
In una società, quale è la nostra, in rapido<br />
deterioramento dal punto di vista dei valori, chi vive<br />
esperienze di violenza, se non viene assistito e non<br />
riesce a trovare una strada per elaborare la sua<br />
storia, tende a riproporla nei modi più vari.<br />
Purtroppo oggi, a fronte dei bisogni evidenti di<br />
appoggio psicoterapico, sia dei giovani che usano<br />
sostanze (cocaina in testa) in funzione compensativa,<br />
quasi farmacologica, per placare angosce, ansie<br />
da prestazione, sia dei bambini, gli investimenti<br />
programmati sono quasi inesistenti.<br />
Le cure della mente e dell’anima possono<br />
concedersele solo le persone libere da problemi<br />
economici, che purtroppo non costituiscono la fetta<br />
più grande della nostra società.<br />
Tanti progetti, tante belle parole, ma non si investe.<br />
Forse questi settori non sono considerati strategici,<br />
eppure sono veramente numerose le situazioni di<br />
“disturbo lieve”, nelle quali una psicoterapia<br />
potrebbe ridurre notevolmente il danno.<br />
17<br />
Gli psicologi attendono da 15<br />
anni un concorso per regolari<br />
assunzioni nel servizio<br />
pubblico che, invece, utilizza<br />
per lo più convenzioni; da<br />
oltre 20 anni, poi, si attende<br />
una legge istitutiva dello psicologo scolastico, che<br />
già esiste negli Stati europei, dalla Francia<br />
all’Inghilterra. Eppure si tratta di pura prevenzione,<br />
della possibilità di individuare precocemente<br />
situazioni in grado di aggravarsi: un livello di cura<br />
molto semplice, che però rappresenterebbe uno<br />
strumento di grande utilità per prevenire problemi<br />
futuri di ben diversa gravità.
Raffaella Fusco<br />
Ispettore Capo Polizia di Stato<br />
Responsabile dell'Ufficio Minori, Questura di Novara<br />
Formare, interagire<br />
e prevenire:<br />
così si contrasta la<br />
violenza domestica<br />
L'Ufficio Minori è stato istituito nel 1996 dal Ministero<br />
dell'Interno ed opera in tutte le Questure d'Italia<br />
nell'ambito della Divisione Anticrimine, per occuparsi<br />
della violenza agita, subita e assistita dai minori.<br />
Opera in un campo nuovo, come sportello aperto al<br />
pubblico per segnalare, chiedere consigli o denunciare,<br />
ma anche come ufficio di mediazione nei casi di disagio<br />
e conflittualità familiare, con compiti di prevenzione e<br />
di intervento (richiesto dalle volanti, dai servizi sociali,<br />
cittadini o scuole) soprattutto quando i minori sono<br />
vittime o autori di reati o si trovano in condizione di<br />
disagio, tutto in sintonia con l’ampio progetto di vicinanza<br />
ai cittadini che va sotto il nome di “polizia di prossimità.<br />
Collabora con l’altra “sezione minori” esistente, che<br />
ha ruolo investigativo; insieme alla Squadra Mobile e<br />
alle volanti, forma il team incaricato di trattare i casi di
violenza, per ammortizzare l'impatto dell'intervento<br />
della polizia sui bambini coinvolti.<br />
Strategia e tecniche hanno subito una radicale<br />
trasformazione nel 2006 quando ho partecipato,<br />
con i responsabili degli Uffici Minori di tutte le<br />
Questure italiane, ad un corso di formazione sul<br />
tema dei maltrattamenti familiari.<br />
Il corso, organizzato a Roma dalla Polizia di Stato<br />
all'interno del Progetto Europeo Daphne, era curato<br />
dalla professoressa Anna Baldry, grande esperta<br />
del settore, e aveva come obiettivo quello di<br />
prepararci all’adozione di un nuovo metodo<br />
sperimentato con successo in Canada.<br />
La differenza sta nell’approccio al tema della violenza<br />
domestica, trattato finalmente da un punto di vista<br />
non solo giuridico, ma multidisciplinare, con il triplice<br />
obiettivo di far emergere la realtà (solo il 10%<br />
denuncia il proprio aguzzino), di migliorare<br />
l’accoglienza della vittima e, infine, di valutare con<br />
precisione il rischio di recidiva del partner violento<br />
secondo una procedura definita S.A.R.A. (Spousal<br />
Assault Risk Assessment), che utilizza strumenti<br />
mutuati dalla criminologia e dalla psicologia forense,<br />
per prevenire i casi di uxoricidio.<br />
Nel passato anche recente, in Questura i colleghi<br />
accoglievano le donne maltrattate dicendo: “signora,<br />
è suo marito, cerchi di fare pace..”, in nome della<br />
tutela di un principio comunque sacrosanto, vale<br />
a dire la tutela dell’unità familiare. L’emersione del<br />
fenomeno e le successive esperienze hanno fatto<br />
ritenere che, probabilmente, in molti casi era venuto<br />
meno l’oggetto stesso della tutela: non esisteva<br />
più l’unità familiare, frantumata da quotidiane o<br />
comunque frequenti violenze domestiche.<br />
Il metodo si basa sull’attento ascolto di chi ha subito<br />
19<br />
violenza, al fine di comprenderne<br />
le caratteristiche<br />
psicologiche, rispettandone<br />
le pause e le espressioni.<br />
L’attenzione e l’interesse<br />
dimostrati all’ascolto del<br />
racconto migliorano indubbiamente<br />
la percezione di accoglienza della vittima.<br />
Dopo alcuni anni di esperienza, posso affermare<br />
che è proprio la formazione a fare la differenza.<br />
Novara è una realtà avanzata per quanto riguarda<br />
il contrasto ai maltrattamenti familiari.<br />
E’ stato stipulato, su iniziativa della Provincia, un<br />
“Protocollo di intesa per la prevenzione delle violenze<br />
domestiche” con la creazione di una “rete” di servizi<br />
integrati formata da Enti istituzionali, con l’obiettivo<br />
di affrontare il fenomeno secondo la specificità del<br />
contributo offerto da ogni singolo servizio.<br />
La violenza domestica, infatti, richiede una pluralità<br />
di risposte, poiché molte sono le esigenze che la<br />
vittima esprime: dall'incolumità personale alla<br />
sicurezza per i propri figli, dal supporto psicologico<br />
alla tutela legale, dalla necessità di trovare un lavoro<br />
a quella di rifugiarsi in un luogo sicuro.<br />
Il primo problema che ci siamo trovati ad affrontare<br />
in Questura è stato quello di far emergere il<br />
fenomeno nella nostra Provincia, poiché i dati a<br />
disposizione non erano sufficienti. Gli interventi<br />
delle volanti per liti in famiglia erano tanti, ma la<br />
maggior parte delle informazioni raccolte erano<br />
piuttosto scarne. La formazione ricevuta e<br />
l’esperienza progressivamente acquisita hanno<br />
insegnato che dietro una richiesta di aiuto alla<br />
Polizia, si cela quasi sempre un vissuto di<br />
maltrattamenti di almeno 3-5 anni. Per questo, ogni
20<br />
intervento doveva essere<br />
necessariamente approfondito.<br />
Polizia sono stati dunque<br />
opportuna-mente formati<br />
e sensibi-lizzati ed è<br />
cresciuto il loro coinvolgimento e anche la<br />
soddisfazione sia professionale, sia personale.<br />
Per migliorare il sistema di raccolta dei dati, abbiamo<br />
creato un modulo informativo che gli operatori delle<br />
volanti devono compilare nei casi di intervento per<br />
violenza domestica. Il modulo, basato sulle linee<br />
guida della procedura S.A.R.A., è assai schematico<br />
e permette la valutazione dei 10 fattori di rischio di<br />
recidiva previsti dalla procedura stessa. Gli elementi<br />
da rilevare, sui quali si fonda la valutazione del<br />
rischio, sono numerosi: l'operatore indica il presunto<br />
reato per il quale si procede (scegliendo tra un<br />
elenco prestampato), riporta i dati di chi ha richiesto<br />
l'intervento, della vittima e del maltrattante e la<br />
relazione tra vittima e sospettato; specifica se è<br />
stato necessario il ricorso all'intervento di un medico,<br />
se la donna ha figli e se essi erano presenti al<br />
momento della violenza, se eventi simili si sono già<br />
verificati e con quale frequenza e se c'è già stato<br />
un intervento della polizia; verifica, infine, se la<br />
donna ha già denunciato il partner, se quest'ultimo<br />
fa uso di psicofarmaci, sostanze alcoliche o<br />
stupefacenti o possiede armi da fuoco (in tal caso<br />
può esserne disposto il sequestro). Il modulo lascia<br />
spazio anche ad annotazioni integrative utili.<br />
E sono proprio la ricchezza del rapporto elaborato,<br />
le lunghe e dettagliatissime note aggiunte nello<br />
spazio dedicato, la dimostrazione dell’accresciuta<br />
sensibilità degli operatori. Il rigore con il quale si<br />
compila il modulo costituisce per il maltrattante un<br />
elemento di forte apprensione, poiché ingenera in<br />
costui la consapevolezza che esso è documento<br />
certo di una situazione di fatto constatata.<br />
Il modulo viene protocollato e registrato in un data<br />
base, nonché conservato nell'archivio cartaceo<br />
della Questura. Oltre a fornire i dati sul numero e<br />
le caratteristiche degli interventi, è considerato<br />
dalla Procura un atto di elevata rilevanza ai fini della<br />
formazione della prova nell’eventuale futuro giudizio.<br />
Se la situazione appare rischiosa già dal primo<br />
impatto, la vittima viene invitata a presentarsi in<br />
ufficio per un colloquio informale teso a rassicurarla<br />
e ad accrescere il senso di fiducia verso le Istituzioni<br />
e gli Enti preposti alla trattazione del problema.<br />
Durante il colloquio non vengono esercitate pressioni<br />
per indurla a denunciare formalmente l'accaduto<br />
e la vittima raramente si mostra reticente. Le<br />
vengono quindi illustrati i possibili percorsi di uscita,<br />
ciò che il territorio offre, cosa potrebbe fare<br />
personalmente e cosa possono fare le Istituzioni.<br />
Di solito, al termine del colloquio, appare rincuorata.<br />
Sono momenti nei quali ci si rende conto<br />
dell'importanza e dell'efficacia degli strumenti e<br />
delle tecniche appresi durante la formazione: sin<br />
dalle prime battute dell'incontro, infatti, si riescono<br />
ad intuire e quindi a prevedere le dinamiche dei<br />
maltrattamenti, che saranno descritte poi dalla<br />
stessa vittima. E quando la vittima avverte che<br />
qualcuno comprende il dramma vissuto ha la<br />
sensazione di essere ascoltata con interesse e<br />
rispetto, di non essere più sola. Capisce di avere<br />
un rifugio e si convince della possibilità di allontanare<br />
davvero il maltrattante. E allora, tranquilla, comincia<br />
il racconto.
Viene informata che, per sottrarsi alla violenza,<br />
esistono vie alternative a quella giudiziaria, come,<br />
ad esempio, i centri anti-violenza e i servizi sociali.<br />
La Provincia di Novara, inoltre, previo stanziamento<br />
finanziario da parte della <strong>Regione</strong>, ha stipulato una<br />
convenzione con un albergo dove la vittima può<br />
rifugiarsi in situazioni di urgenza per un massimo<br />
di 4 giorni, al termine dei quali viene presa in carico<br />
dai servizi sociali del territorio, anche in un luogo<br />
protetto se la situazione è particolarmente difficile.<br />
Vi sono vicende che vengono arginate con un<br />
semplice esposto presentato in Questura: in tali<br />
circostanze, la Polizia si incarica di vigilare ed<br />
eventualmente di esercitare una funzione di<br />
mediazione.<br />
In taluni casi, quando il comportamento violento<br />
(percosse, lesioni, violenza sessuale, maltrattamenti<br />
economici, come la negazione dell'accesso al<br />
reddito o al patrimonio familiare, ma anche<br />
maltrattamenti psicologici) si ripete, può configurare<br />
il reato di “maltrattamenti in famiglia” (articolo 572<br />
del Codice Penale) e allora, d'intesa con la Procura<br />
della Repubblica, si decide di procedere d'ufficio<br />
contro il maltrattante. Tutti i gesti elencati, infatti,<br />
concorrono alla valutazione del rischio di recidiva<br />
e, se ripetuti, consentono di agire anche se le<br />
vittime si rifiutano di sporgere denuncia,<br />
specialmente se alle violenze assistono minori.<br />
Assistere ad una violenza, particolarmente per un<br />
minore, equivale a subirla.<br />
Nei casi descritti, si ritiene necessario agire anche<br />
per non dare sfogo al fenomeno.<br />
Fino a qualche tempo fa il partner violento sapeva<br />
che la donna non lo avrebbe mai denunciato.<br />
La preparazione non ancora completa delle forze<br />
21<br />
dell'ordine e la scarsa<br />
riprovazione sociale del<br />
fenomeno, ridotto a fatto<br />
privato, davano al maltrattante<br />
un senso di impunità quasi<br />
totale. L'onere della prova,<br />
inoltre, gravava di fatto sulla vittima.<br />
L'attività istituzionale ha raggiunto, oggi, uno scopo<br />
preventivo: il partner violento sa che non resterà<br />
impunito.<br />
Dai racconti delle vittime emergono storie molto<br />
simili. I maltrattatori sono tutti uguali: nelle<br />
espressioni, nei modi di colpire e di rappresentare<br />
se stessi. E la violenza domestica è un fenomeno<br />
trasversale ai ceti sociali. Una volta presi in esame<br />
due coppie. La prima era mista: lei italiana laureata<br />
in legge, lui egiziano, diplomatico; la seconda era<br />
di Novara, del ceto medio. Coprendo i loro dati<br />
anagrafici, mostrai i due casi ad un collega: le storie<br />
erano talmente simili che era impossibile capire chi<br />
era lo straniero e chi l'italiano, chi aveva la laurea<br />
e chi no, chi era il diplomatico e chi l'operaio. Le<br />
espressioni della violenza domestica sono<br />
globalizzate e non c'è religione, cultura o ceto<br />
sociale che intervenga a modificarle. Non solo la<br />
violenza colpisce tutti gli ambienti, ma lo fa con le<br />
stesse modalità, con lo stesso linguaggio. Se quella<br />
che si consuma nelle famiglie appartenenti al ceto<br />
medio - alto è meno raggiungibile, più sommersa,<br />
secondo me la ragione sta nella necessità di<br />
salvaguardare più cose, la donna ha un'immagine<br />
da tutelare e perde di più, anche in termini economici<br />
se si allontana dal partner.<br />
Il numero delle denunce per maltrattamenti nella
22<br />
Provincia di Novara, tra<br />
il 2005 e il 2008, è<br />
cresciuto del 40%,<br />
variazione che pensiamo<br />
sia legata ad un aumento<br />
non tanto delle violenze,<br />
quanto del numero di donne che hanno il coraggio<br />
di denunciarle, e non è un caso che ciò sia avvenuto<br />
proprio con l’inizio del nuovo programma.<br />
Abbiamo fatto grandi campagne informative e<br />
pubblicitarie, una delle quali curata direttamente<br />
dalla Questura, abbiamo organizzato un convegno<br />
nazionale, che ha avuto un forte risalto mediatico<br />
e altre iniziative sono in programma, così come<br />
proseguiremo la formazione degli agenti di Polizia.<br />
Del resto posso dire che l'emersione delle violenze<br />
ha un picco ogni volta che un evento pubblico o<br />
un articolo di giornale presentano la nostra attività.<br />
La maggior parte delle donne, tuttavia, non<br />
denuncia. Dopo i primi maltrattamenti, non vuole<br />
perdere il padre dei propri figli, l'uomo che ha<br />
scelto per sé, e tenta di ricucire il rapporto. Quelle<br />
che si rivolgono a noi hanno superato questa fase<br />
e del proprio partner hanno solo paura, per<br />
l’incolumità loro e dei figli, ma anche dell'ignoto,<br />
perché magari sono senza lavoro, o lavorano e<br />
sono private dei loro risparmi, o ancora perché<br />
sono state isolate dalla famiglia di origine.<br />
Si litiga soprattutto fra coniugi o partner, e i momenti<br />
tipici di esplosione della violenza sono le sere e i<br />
fine settimana, quando si trascorre insieme più<br />
tempo. Negli ultimi quattro anni, fortunatamente,<br />
in Provincia di Novara non si sono registrati uxoricidi,<br />
ricordo alcuni interventi per liti tra genitori e figli<br />
adulti, che scoppiano quando ci sono problemi<br />
relazionali gravi o il consumo di sostanze alcoliche<br />
o stupefacenti, e 4 interventi per violenza su minori.<br />
Si tratta di pochi e sporadici casi, che non ci hanno<br />
mai allarmato. Occorre ricordare, tuttavia, che nella<br />
maggior parte dei casi alle violenze che coinvolgono<br />
gli adulti sono presenti i minori.<br />
Per le donne straniere mi piacerebbe lanciare una<br />
proposta. Si dice che soprattutto le arabe si<br />
rassegnino più facilmente al dolore e alla violenza;<br />
io non lo credo, penso al contrario che la loro<br />
sensibilità sia del tutto simile a quella delle italiane,<br />
e lo conferma anche l'aumento di denunce registrato<br />
negli ultimi anni. Certamente, poiché il loro permesso<br />
di soggiorno è vincolato a quello del marito con il<br />
quale si sono ricongiunte, subiscono in maniera<br />
più forte il ricatto del maltrattante. Se si separano,<br />
hanno sei mesi di tempo per trovare un lavoro ed<br />
ottenere un permesso di soggiorno; se si rivolgono<br />
al nostro Ufficio per denunciare i maltrattamenti<br />
subiti, ricevono un permesso temporaneo, che<br />
scade al termine della procedura giudiziaria.<br />
Sarebbe dunque logico che l'articolo 18 del Testo<br />
Unico sull'immigrazione, che già fornisce un<br />
permesso stabile alle vittime della tratta e della<br />
riduzione in schiavitù, fosse esteso alle donne<br />
straniere vittime di maltrattamenti familiari.<br />
Se ciò avvenisse, saremmo pronti a procedere con<br />
le azioni che costituiscono l'essenza del nostro<br />
lavoro, vale a dire allargare lo spazio di tutela offerto<br />
alle vittime e contestualmente privare il maltrattante<br />
di una parte dei suoi strumenti di ricatto e di<br />
prevaricazione.
Le percentuali di donne che in <strong>Piemonte</strong><br />
si sono dichiarate vittime di violenza sessuale o fisica<br />
e di donne<br />
che non hanno denunciato tali violenze<br />
sono più alte della media nazionale.<br />
ISTAT,<br />
"La violenza e i maltrattamenti<br />
contro le donne dentro e fuori la famiglia", 2007
Franco Prina<br />
Professore Associato di Sociologia della Devianza, Università di Torino<br />
Violenze antiche,<br />
violenze<br />
contemporanee:<br />
a cambiare sono<br />
percezione e strumenti<br />
Parlare di violenza nella società contemporanea è assai<br />
complesso, così come non è semplice analizzare le<br />
trasformazioni nel tempo delle sue varie forme. Anzitutto<br />
è necessario definire il quadro di riferimento: il concetto<br />
di “società contemporanea” implica un orizzonte spaziale<br />
molto ampio, pertanto vorrei limitare le mie osservazioni<br />
al contesto locale e nazionale, considerandole valide<br />
anche per Paesi simili al nostro, senza spingermi verso<br />
contesti lontani.<br />
Fatta questa premessa, non credo si possa parlare di<br />
forme nuove in assoluto poiché la violenza nelle sue<br />
diverse dimensioni si riproduce. Certamente, se<br />
pensiamo al bullismo condotto attraverso i telefonini<br />
e tramite la riproduzione di scene che possono costituire<br />
una violenza psicologica, è chiaro che si tratta di<br />
manifestazioni inedite, ma la novità è legata semplicemente<br />
agli strumenti impiegati, che prima non<br />
esistevano. Se parliamo invece delle classiche distinzioni<br />
tra violenza strutturale, violenza simbolica*, violenza<br />
diretta, fisica o psicologica nelle relazioni interpersonali,<br />
* La violenza simbolica è esercitata dal sistema culturale dominante, che induce le persone a<br />
ragionare e a comportarsi in maniera massificata; è una violenza di cui i soggetti non si rendono<br />
conto. La violenza strutturale, invece, è rappresentata dalle costrizioni che il sistema sociale e<br />
quello economico pongono sugli individui, costrizioni che in genere sono accettate come normali.
si può senza dubbio affermare che si tratta di forme<br />
presenti da sempre, anche se, nelle loro<br />
esplicitazioni, si articolano in maniera più radicata<br />
nel contesto culturale e relazionale contemporaneo.<br />
Alcuni riterrebbero interessante misurare “la<br />
quantità” di violenza presente nella società attuale<br />
e cercare di compararla a quella esistita nelle varie<br />
epoche. A mio avviso si tratta di un’operazione<br />
piuttosto difficile e che, in ogni caso, richiederebbe<br />
grande cautela. Esistono, infatti, seri problemi<br />
metodologici nelle comparazioni di carattere<br />
diacronico, cioè tra periodi, a cominciare dalla<br />
disponibilità di dati e dai fattori che influenzano la<br />
raccolta dei dati stessi, come ad esempio il grado<br />
di sensibilità sociale rispetto alla violenza e la<br />
conseguente percezione del fenomeno. Se, per<br />
esempio, leggiamo i romanzi che raccontano la vita<br />
delle metropoli tra la fine dell’Ottocento e l’inizio<br />
del Novecento, vediamo bene quanta violenza e<br />
insicurezza vi fossero. Eppure tutti, oggi, tendono<br />
a vivere le città contemporanee come luoghi<br />
particolarmente insicuri e violenti. Analogamente,<br />
pensando alla violenza intrafamiliare, sembra che<br />
oggi la propensione sia maggiore rispetto al passato.<br />
Sono tutte valutazioni non confortate dalla<br />
disponibilità di dati certi; abbiamo solo di indizi da<br />
interpretare con cautela.<br />
In generale, non direi che esistono ragioni per<br />
parlare di un aumento della violenza. Le città sono<br />
senza dubbio più sicure rispetto a qualche decennio<br />
fa. Per quanto riguarda invece la violenza in famiglia,<br />
è vero che vi sono circostanze che possono far<br />
pensare a forme di reazione oppure a difficoltà<br />
degli adulti nel rapporto con i bambini, tali da indurli<br />
a comportamenti di prevaricazione o di abuso.<br />
25<br />
Tuttavia, molti altri indizi ci<br />
fanno dire che quel tipo di<br />
violenza si è perpetrata in<br />
modo analogo in altri contesti<br />
e in altre epoche.<br />
Analoghe considerazioni<br />
valgono per le prevaricazioni e per la violenza che<br />
si esplicitano nell'ambito scolastico tra coetanei,<br />
oppure da parte degli insegnanti e degli adulti nei<br />
confronti dei minori. Quest’ultima, anzi, un tempo<br />
era tollerata mentre oggi non lo è più.<br />
Come pure, se volessimo andare in aree dove la<br />
criminalità organizzata è presente, non possiamo<br />
certo dire che si tratta di una situazione che si sta<br />
risolvendo, ma è assolutamente corretto affermare<br />
che ci sono molti segnali di rivendicazione del diritto<br />
a non vivere in un contesto segnato dalla violenza<br />
o da altre forme di prevaricazione.<br />
Non parlerei quindi di un peggioramento generale,<br />
ma direi che è difficile comparare situazioni di<br />
questo tipo, quando i metodi con cui oggi studiamo<br />
i fenomeni non erano diffusi in altre epoche.<br />
Sono convinto che la nostra percezione di aumento<br />
della violenza è alimentata dal fatto che oggi vi è<br />
una diversa concezione dei diritti delle persone.<br />
Quelle che ieri venivano assunte come normali e<br />
accettabili forme di rapporti tra individui, oggi non<br />
sono più ammesse, e questo condiziona la<br />
percezione collettiva.<br />
Mi soffermo sulla violenza di genere, tema che<br />
secondo me è emblematico. Fino a pochi anni fa,<br />
in una società a forte dominanza maschile, il<br />
fenomeno era tollerato; inoltre era assai difficile<br />
per le donne denunciare le violenze subite sia
26<br />
nell’ambito familiare da<br />
parte di partner o mariti,<br />
sia in quello sociale più<br />
ampio. A tale proposito<br />
basti pensare che fino<br />
al 1996 lo stupro era<br />
considerato un reato contro la morale e non contro<br />
la persona. Oggi il numero di denunce è<br />
notevolmente più alto e, quindi, il fenomeno ha un<br />
maggior grado di visibilità.<br />
L’esistenza di un diverso equilibrio nel rapporto di<br />
forza tra i generi mi spinge a dire che il fenomeno<br />
della violenza contro le donne ha subito un ridimensionamento<br />
piuttosto che un aumento. Detto<br />
ciò, vi sono elementi che possono per qualche<br />
verso bilanciare questa riduzione; mi riferisco sia<br />
all'immagine della donna che oggi viene rappresentata,<br />
sia alle difficoltà di relazione con l'altro<br />
genere presenti in alcuni contesti sociali, non solo<br />
di immigrazione, nei quali il confronto culturale con<br />
un modello di donna diverso qualche volta può<br />
spingere a ritenere legittimo un comportamento di<br />
prevaricazione, cosa che in altre situazioni non<br />
avverrebbe.<br />
Fenomeni notevolmente più caratteristici della<br />
società contemporanea, investita dai processi di<br />
globalizzazione e da un grande afflusso di persone<br />
e di merci, sono il traffico e la tratta degli esseri<br />
umani, con le nuove forme di schiavitù ad essi<br />
legate. Si distingue tra traffico e tratta (in inglese,<br />
rispettivamente, smuggling e trafficking), in quanto<br />
il primo rappresenta il favoreggiamento dell'immigrazione<br />
clandestina di persone che lo desiderano,<br />
mentre la seconda è l'importazione di persone in<br />
un altro Paese con l'inganno o contro la volontà<br />
individuale, e il loro sfruttamento. Il traffico è un<br />
reato contro lo Stato, mentre la tratta è un reato<br />
contro la persona.<br />
Traffico e tratta possono rappresentare un elemento<br />
di novità che le nostre società non hanno conosciuto<br />
in passato, benché siano esistite forme di schiavitù<br />
e subordinazione in contesti a noi prossimi.<br />
Il fenomeno della tratta di esseri umani, in particolare,<br />
è stato studiato dall'Osservatorio sulla Tratta del<br />
Dipartimento di Scienze Sociali, al quale ho dato<br />
il mio contributo. E’ stato analizzato nella sua varia<br />
articolazione, dalla tratta di giovani donne e in parte<br />
di uomini a fini di sfruttamento sessuale, alla tratta<br />
di uomini o minori a fini di sfruttamento lavorativo,<br />
per arrivare alla tratta di minori a scopo di impegno<br />
in attività illegali, dal traffico della droga alle altre<br />
forme di illecito, nell'accattonaggio e nelle altre<br />
forme di economia informale, al confine con<br />
l'illegalità. Tutto questo è possibile perché, insieme<br />
a quello delle droghe, il traffico degli esseri umani<br />
è uno dei più lucrosi su scala internazionale.<br />
La tratta degli esseri umani non riguarda solo l'Italia,<br />
ma tutti i Paesi ricchi, nei quali la domanda è<br />
evidentemente forte. Nel caso italiano, tuttavia, il<br />
fenomeno ha una particolare rilevanza per la<br />
presenza di settori dell'economia caratterizzati dal<br />
mancato rispetto delle regole, dall'illegalità,<br />
dall'evasione e da forme di sfruttamento.<br />
Nel nostro Paese, molta attenzione è stata dedicata<br />
alla tratta con obiettivi di sfruttamento sessuale,<br />
attraverso interventi normativi e attività di sostegno<br />
alle vittime, ma solo da poco, e in pochi ambiti, si<br />
è iniziato a lavorare per le vittime di sfruttamento<br />
lavorativo, o di riduzione in schiavitù, in agricoltura,<br />
in edilizia e in altri settori nei quali è diffuso il lavoro<br />
nero. Nel 2003, una normativa specifica ha
ipristinato il concetto di riduzione in schiavitù e ha<br />
messo in campo strumenti per consentire alle<br />
persone di uscire da questa situazione. Lo<br />
sfruttamento lavorativo vede alcune differenze tra<br />
Nord e Sud, legate ai contesti e alle caratteristiche<br />
delle produzioni.<br />
Occorre tenere presente che le differenze tra la<br />
riduzione in schiavitù, il lavoro para-schiavistico e<br />
lo sfruttamento lavorativo, devono essere collocate<br />
in un continuum, dato che non vi sono distinzioni<br />
nette. Se è vero, ad esempio, che si può certamente<br />
parlare di riduzione in schiavitù quando la vittima,<br />
magari giovane e debole, viene portata in Italia con<br />
l'inganno e con la violenza e poi ridotta in una<br />
condizione dalla quale non può uscire né ricava<br />
nulla per sé, nell'ambito del lavoro il discorso si<br />
complica poiché vi è sempre un piccolo ritorno per<br />
la vittima. La persona, infatti, anche se è costretta<br />
con la violenza, accetta almeno in parte la sua<br />
condizione e si trova in una situazione più fluida.<br />
Il confine tra le varie forme di sfruttamento è stato<br />
inoltre reso più labile dai mutamenti normativi; ad<br />
esempio, da quando l'art. 18 della legge<br />
sull'immigrazione e l'art. 36 della legge del 2003<br />
hanno fornito risorse ad Associazioni e Comuni<br />
per la creazione di comunità o luoghi di accoglienza,<br />
esistono strumenti di aiuto concreto per le vittime<br />
dello sfruttamento sessuale. Da allora, gli sfruttatori<br />
hanno iniziato a far partecipare la vittima ad una<br />
parte dei guadagni. Ciò ha avviato una<br />
trasformazione nel rapporto di sfruttamento poiché,<br />
coinvolgendo la vittima, la si rende interessata a<br />
mantenere il ruolo per ricavarne profitto.<br />
La situazione piemontese non si discosta dal resto<br />
del Nord: traffico e tratta seguono i flussi delle<br />
27<br />
migrazioni, che a loro volta<br />
sono caratterizzati dalle<br />
cosiddette catene migratorie.<br />
Nell'area torinese c'è una<br />
certa presenza di donne<br />
nigeriane nella prostituzione;<br />
vi sono poi donne provenienti dall'Europa dell'Est,<br />
mentre il flusso dall'Albania si è in pratica fermato.<br />
E’ molto probabile che esistano, ma non ne ho<br />
conoscenza diretta, forme di sfruttamento intensivo<br />
di persone di nazionalità italiana, ad esempio nella<br />
pastorizia e nell'agricoltura. Io mi sono occupato<br />
molto della prostituzione minorile italiana, che si<br />
manifesta soprattutto nelle aree economicamente<br />
e culturalmente depresse, con minori messi a<br />
disposizione dalle loro stesse famiglie. Anche a<br />
questo proposito, tuttavia, non parlerei di un<br />
fenomeno nuovo. Nuovi, piuttosto, sono i viaggi di<br />
cittadini italiani verso i Paesi più poveri dove esiste<br />
la possibilità di accedere più facilmente ad<br />
adolescenti, maschi e femmine; è un ulteriore frutto<br />
della globalizzazione, legato anche ad una certa<br />
rappresentazione della giovinezza e della sessualità.<br />
Un'ultima questione che vorrei trattare è la violenza<br />
nella scuola, espressione più ampia del semplice<br />
“bullismo” e che dunque preferisco.<br />
In Italia si è iniziato a studiare la violenza e la<br />
prevaricazione tra coetanei a metà degli anni<br />
Novanta, mentre nei Paesi nordici se ne parlava<br />
già tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni<br />
Ottanta. Nei Paesi scandinavi i primi interessi degli<br />
studiosi sono stati rivolti al fenomeno del “bulling”,<br />
forma di prevaricazione e violenza che un gruppo<br />
esercita con continuità su un singolo all'interno di<br />
un contesto scolastico, caratterizzata da uno
28<br />
squilibrio di forze e di<br />
potere tra le parti.<br />
Pertanto non sono stati<br />
presi in considerazione<br />
i singoli atti violenti, ma<br />
i casi in cui tali forme di<br />
violenza reiterata avevano assunto tratti particolarmente<br />
gravi, dando luogo a suicidi di minori.<br />
I ricercatori francesi hanno poi ampliato il concetto<br />
di bulling e introdotto quello di violenza nella scuola.<br />
L'approccio è interessante perché guarda non solo<br />
alla violenza tra pari e non solo quando è continuata,<br />
ma anche quando si verificano casi episodici o<br />
saltuari, e perché considera anche la violenza degli<br />
studenti sugli adulti e degli adulti nei confronti dei<br />
minori. In Francia, in particolare, è stata molto<br />
studiata la violenza degli studenti nei confronti degli<br />
insegnanti, dato che si sono verificati molti casi di<br />
questo tipo, soprattutto nelle banlieu dove, con<br />
l'obiettivo dichiarato di creare “scuole ad educazione<br />
rinforzata”, sono stati concentrati tutti i problemi.<br />
Parlare in termini generali di violenza nella scuola,<br />
infine, significa includere il tema assai rilevante<br />
della violenza simbolica. Se la scuola è<br />
particolarmente discriminatoria nei confronti di<br />
alcune persone, magari perché vengono da ambienti<br />
diversi o perché non sanno rendere come gli altri,<br />
si mettono in moto processi di espulsione: i ragazzini<br />
più problematici si sentono presi di mira dagli<br />
insegnanti, non si sentono valorizzati né accolti;<br />
questi processi possono portare a forme di reazione<br />
violenta o a casi di abbandono scolastico. E'<br />
necessario tener conto di questo complesso di<br />
fenomeni, mentre l'enfasi posta di solito sulla<br />
violenza tra pari tende a non vedere la complessità<br />
della violenza nell’Istituzione scolastica. Molte analisi,<br />
infatti, correlano i dati di aggressività e di violenza<br />
tra coetanei al clima scolastico, ai criteri per cui si<br />
valorizzano o si stigmatizzano le persone, a quanto<br />
le regole siano condivise o imposte.<br />
Altra questione da affrontare è il grado di<br />
legittimazione sociale che la violenza riceve: la<br />
violenza tra i coetanei, così come altre forme di<br />
violenza (basti pensare a quanto avveniva nelle<br />
caserme col nonnismo), sono sempre state<br />
insopportabili, ma un tempo erano legittimate. Lo<br />
erano ad un punto tale che se ne parlava in maniera<br />
un po’ scherzosa, e apparivano naturali tanto che<br />
si riproducevano: chi era stato vittima del nonnismo,<br />
ad esempio, ne diventava a sua volta protagonista,<br />
in una dimensione ritualizzata. E' stato così solo<br />
fino ad un certo punto. Un altro esempio è quello<br />
della violenza nei confronti dei cosiddetti primini<br />
nella scuola superiore: in un primo momento non<br />
se ne parlava, poi il fenomeno è stato tematizzato,<br />
ora è stata messa in atto una serie di iniziative per<br />
evitarlo; addirittura si coinvolgono i più grandi<br />
nell’accoglienza dei più giovani nella scuola.<br />
In una logica non violenta, qualsiasi forma di conflitto<br />
deve essere limitato e contrastato; vi sono tuttavia<br />
opinioni opposte, anche tra gli stessi psicologi:<br />
alcuni dicono che un certo tasso di aggressività<br />
debba potersi esprimere e che, per le vittime, ciò<br />
rappresenta un’occasione di crescita.<br />
Per quanto poi riguarda l'origine dei comportamenti<br />
violenti, esistono studi e ricerche che dimostrano<br />
che chi ha subito forme di violenza durante il<br />
processo di sviluppo o è stato in qualche modo<br />
esposto a modelli in cui la violenza era molto<br />
presente, tenda a riprodurli. In altri casi, tuttavia,
ambini sottomessi a violenza, crescendo,<br />
sviluppano sensibilità maggiori. Insomma, dal mio<br />
punto di vista non è possibile offrire una soluzione<br />
certa, anche perché questo è un compito specifico<br />
della psicologia, più che della sociologia.<br />
Certamente posso affermare che in alcuni casi,<br />
come abbiamo visto, la riproduzione della violenza<br />
tende ad essere legittimata e quasi ritualizzata.<br />
Altre ricerche individuano un nesso tra violenza<br />
agita ed esposizione alla violenza rappresentata,<br />
vale a dire che quanto più si vede violenza sui<br />
mezzi di comunicazione, tanto più si tenderà ad<br />
essere violenti nella società. Non esiste alcuna<br />
prova certa che ciò avvenga, e a mio avviso<br />
l’esposizione non può da sola spiegare i comportamenti<br />
violenti. Alcuni tuttavia hanno sottolineato<br />
che il fatto di avere un rapporto con la realtà molto<br />
mediato da rappresentazioni virtuali (televisione,<br />
videogiochi, ecc.), nelle quali non si ha la percezione<br />
della sofferenza vera dell’altro, possa aver indotto<br />
nelle persone una mancanza di sensibilità riguardo<br />
alle conseguenze della violenza agita, come se la<br />
vittima non fosse simile a te.<br />
Credo alla fondatezza di questo approccio, tanto<br />
che sono convinto della bontà di risposte della<br />
giustizia minorile che prevedano il tentativo di far<br />
incontrare l’aggressore e la vittima. Sono infatti<br />
sicuro che, negli adolescenti e anche negli adulti<br />
che si rendono responsabili di violenze, soprattutto<br />
nei confronti di soggetti deboli, vi è incapacità o<br />
indisponibilità mentale ad identificarsi nella vittima.<br />
Quella di cui parlo è una giustizia al tempo stesso<br />
di mediazione e riparatrice che, ad esempio, obbliga<br />
il ragazzino che ha aggredito il senza tetto ad<br />
impegnarsi in attività di utilità sociale come andare<br />
29<br />
per un certo periodo a fare<br />
servizio in una mensa<br />
destinata ai poveri senza<br />
dimora, perché possa<br />
comprendere l'umanità e i<br />
bisogni di chi è stato sua<br />
vittima. Questa è senza dubbio una risposta più<br />
efficace di quelle sanzionatorie classiche che lo<br />
terrebbero in carcere con una “condanna del non<br />
fare” il cui rischio è far crescere l’identità deviante.<br />
E' chiaro che ciascuna delle forme di violenza che<br />
ho descritto ha innumerevoli costi sociali, che sono<br />
anche economici.<br />
A mio avviso la questione centrale è la grande<br />
incapacità di concepire sia una società senza<br />
violenza, sia un orientamento generale fra popoli<br />
e Stati che non contempli la guerra come soluzione<br />
possibile per i conflitti. Sono infatti posizioni che<br />
arrecano costi economici e sociali straordinari e<br />
producono vittime innocenti.<br />
Lo stesso vale per la violenza simbolica, che ha<br />
però costi sociali difficilmente quantificabili:<br />
pensiamo, ad esempio agli stili di vita e ai modelli<br />
di consumo imposti a persone che hanno pochi<br />
strumenti culturali per difendersi e sviluppare un<br />
atteggiamento critico, e che proprio per questo<br />
finiscono per indebitarsi oltre le proprie possibilità;<br />
tutto ciò incarna una dinamica sociale violenta.<br />
Il modello di sviluppo nel quale viviamo è inimmaginabile<br />
senza tutto questo, ma forse la crisi che<br />
stiamo vivendo potrà rivelarsi positiva se porterà<br />
ad una riflessione critica più profonda sulla possibilità<br />
di continuare così.
Umberto Lucia<br />
Docente Scuola secondaria superiore<br />
Osservatorio Anti-bullismo, Ufficio Scolastico Regionale<br />
del <strong>Piemonte</strong><br />
Educare alla<br />
responsabilità<br />
per non crescere<br />
nella paura<br />
Il bullismo è sempre esistito, in ogni epoca storica ed<br />
in ogni struttura sociale. Tuttavia i ragazzi sono figli<br />
della comunità nella quale vivono, e quindi anche il<br />
bullismo muta nel tempo, seguendo l’evoluzione dei<br />
comportamenti sociali. Insieme al fenomeno cambiano<br />
anche le sue origini, che sono molteplici. Spesso si<br />
sostiene che il bullo abbia subito a sua volta violenza:<br />
a mio avviso non è necessariamente così. Al contrario,<br />
è frequente che i bulli provengano da contesti protetti.<br />
La società contemporanea fornisce modelli di<br />
comportamento nei quali non ha valore la persona in<br />
quanto tale, ma ciò che di essa appare a prima vista.<br />
Chi esercita funzioni di educatore, spesso, non insegna
a rispettare le regole, concede troppo senza<br />
insegnare a meritare ciò che si ottiene, non<br />
responsabilizza bambini e ragazzi e questo induce<br />
a non riflettere sulle proprie azioni. Ne seguono<br />
talvolta atteggiamenti di oltraggio del più debole.<br />
Non più solo lo scherzo, ma l’oltraggio. Ecco la<br />
connotazione del bullismo dei nostri tempi.<br />
Le vittime designate sono coloro che manifestano<br />
una maggiore fragilità psicologica o fisica, magari<br />
coloro che vanno bene a scuola o hanno un<br />
atteggiamento remissivo. I bulli, in genere, sono<br />
ragazzi che hanno necessità di essere considerati:<br />
un insieme di noia, arroganza e mancanza di<br />
responsabilità connota la loro personalità.<br />
Ciò che oggi consideriamo bullismo è una forma<br />
di prevaricazione che presenta, tutte insieme, tre<br />
caratteristiche precise<br />
- intenzionalità, il comportamento aggressivo viene<br />
messo in atto volontariamente e in modo del tutto<br />
consapevole;<br />
- reiterazione e sistematicità, il comportamento<br />
viene messo in atto più volte e si ripete nel tempo;<br />
- lo squilibrio di potere, tra le parti coinvolte c'è<br />
sempre differenza di potere, dovuta alla forza fisica,<br />
all'età o al numero (quando le aggressioni sono di<br />
gruppo). La vittima, in ogni caso, ha difficoltà a<br />
difendersi e sperimenta un forte senso di impotenza.<br />
Sono quattro le forme assunte dal bullismo nella<br />
società attuale:<br />
- diretto fisico, quando si utilizza la forza fisica per<br />
nuocere all'altro. In questa categoria sono presenti<br />
comportamenti come picchiare, spingere, fare<br />
cadere e altri atti diretti non soltanto alla vittima,<br />
ma anche ad oggetti di sua proprietà;<br />
- diretto verbale, se si usa la parola per arrecare<br />
31<br />
danno alla vittima. Ad<br />
esempio insulti, minacce<br />
prese in giro insistenti e<br />
reiterate;<br />
- indiretto/relazionale, quando<br />
i comportamenti non si rivolgono<br />
direttamente alla vittima, ma la danneggiano<br />
nella relazione con gli altri; spesso sono poco<br />
visibili, ma portano all'esclusione e all'isolamento<br />
attraverso la diffusione di pettegolezzi e dicerie,<br />
l'ostracismo e il rifiuto di esaudire le sue richieste;<br />
- cyberbullismo, infine, sono le forme di prevaricazione<br />
attuate tramite il telefono cellulare (sms<br />
minacciosi o derisori, riprese di immagini imbarazzanti<br />
successivamente diffuse su internet), la posta<br />
elettronica, i servizi di messaggeria istantanea e le<br />
varie risorse che il web mette a disposizione.<br />
Dal 2007 ad oggi l’amministrazione scolastica è<br />
stata indotta ad intervenire in modo netto, soprattutto<br />
per la nuova connotazione di oltraggio alla dignità<br />
della persona che ha assunto il fenomeno del<br />
bullismo. Insegnanti, dirigenti, studenti e genitori<br />
sono stati parte di questo processo, anche se,<br />
com’è ovvio, hanno rilevato il problema in modo e<br />
con sensibilità differenti.<br />
Gli studenti hanno iniziato a confidarsi a scuola e<br />
in famiglia, e successivamente anche a denunciare<br />
esplicitamente il fenomeno a genitori e docenti.<br />
I genitori delle vittime normalmente denunciano ai<br />
dirigenti scolastici e ai docenti il fenomeno, mentre<br />
i genitori dei bulli hanno comportamenti contrastanti:<br />
alcuni intervengono cercando di correggere il<br />
comportamento dei figli, altri lo minimizzano , altri<br />
ancora accusano le scuole di un eccesso di rigore<br />
disciplinare.
32<br />
I docenti in genere sono<br />
responsabili durante il loro<br />
operato, altrimenti avremmo<br />
una scuola in condizioni<br />
molto precarie, mentre<br />
a mio avviso è ancora<br />
dignitosa.<br />
Tuttavia, anche gli insegnanti hanno comportamenti<br />
difformi non solo da scuola a scuola, ma anche da<br />
consiglio di classe a consiglio di classe. Questi<br />
ultimi, infatti, quando si trovano in presenza di<br />
aggressioni fisiche, in genere tendono a comminare<br />
sanzioni solo dopo aver tentato un periodo di<br />
rieducazione comportamentale, che coinvolge anche<br />
psicologi e famiglie; quando invece non ci sono<br />
aggressioni fisiche, l'intervento è quasi sempre di<br />
natura educativo-psicologica, senza sanzioni. Esiste<br />
anche una parte di docenti che ridimensionano il<br />
fenomeno, riconducendo gli atti di bullismo all’ambito<br />
delle cosiddette "ragazzate".<br />
Infine, ci sono i dirigenti, che hanno comportamenti<br />
molto difformi. Chi si sente ancora "preside" (in<br />
senso positivo, in quanto “presente” in ogni azione<br />
della scuola che dirige) ha un atteggiamento di<br />
intervento diretto nel consiglio di classe, nella<br />
relazione con lo studente e con la famiglia. Chi non<br />
si ritiene più "preside", invece, spesso delega<br />
l'intervento al consiglio di classe.<br />
Queste che ho elencato, naturalmente, sono opinioni<br />
personali, maturate nel corso della mia esperienza.<br />
Quel che è certo è che le attività del Ministero e<br />
della Direzione Regionale sono indirizzate a<br />
responsabilizzare sia il personale della scuola<br />
(dirigenti, docenti e tutto il personale tecnico,<br />
amministrativo e ausiliario), sia i genitori, perché<br />
tutti insieme partecipino all'educazione dei ragazzi.<br />
Da un punto di vista normativo, poi, una sostanziale<br />
innovazione è stata determinata dal “D.P.R. 24<br />
giugno 1998, n. 249, concernente lo Statuto delle<br />
studentesse e degli studenti della scuola<br />
secondaria” che sostituiva quanto previsto dal<br />
“Regio Decreto 4 maggio 1925, n. 653”.<br />
L’innovazione dello Statuto delle studentesse e<br />
degli studenti consiste nell'introduzione del principio<br />
di responsabilità dell’azione da parte dello studente<br />
a fronte della sua punibilità insita nel Regio Decreto.<br />
Il principio di responsabilità è fondamento e<br />
contemporaneamente conseguenza della funzione<br />
educativa della scuola. L’applicazione di questo<br />
fondamentale principio generale si è però rivelata<br />
un limite operativo per le scuole. Il risultato è stata<br />
una recrudescenza degli episodi di bullismo con<br />
una nuova connotazione, l’oltraggio alla persona,<br />
legata all’individualismo della nostra società. In<br />
questo contesto il Ministero è intervenuto con una<br />
correzione allo Statuto delle studentesse e degli<br />
studenti, il “D.P.R. n. 235 del 21 novembre 2007<br />
- Regolamento recante modifiche ed integrazioni<br />
al D.P.R. 24 giugno 1998, n. 249, concernente lo<br />
Statuto delle studentesse e degli studenti della<br />
scuola secondaria” che mantiene il principio<br />
fondamentale della responsabilità dell’azione e<br />
dell’educazione alla responsabilità, affiancandogli<br />
però la possibilità di maggiori interventi da parte<br />
delle istituzioni scolastiche.<br />
L’Osservatorio sul Bullismo effettua un monitoraggio<br />
costante del fenomeno, con il supporto del<br />
funzionario statistico dell’Ufficio Scolastico<br />
Regionale per il <strong>Piemonte</strong>. L'Osservatorio svolge<br />
anche altre importanti funzioni: valorizza le buone<br />
pratiche promosse dalle singole istituzioni, ascolta
i bisogni e fornisce un'informazione diffusa,<br />
garantisce una formazione a studenti, dirigenti<br />
scolastici e operatori scolastici, svolge un compito<br />
di raccordo con gli operatori dell'associazionismo<br />
e del volontariato sul territorio e coordina l'attività<br />
dei gruppi locali degli Uffici Scolastici Provinciali.<br />
I risultati del monitoraggio, pubblicati nelle differenti<br />
circolari e consultabili sul sito dell’Ufficio Scolastico<br />
Regionale per il <strong>Piemonte</strong>, mostrano che su 527<br />
scuole (circa il 90% delle scuole del <strong>Piemonte</strong>)<br />
che hanno risposto al questionario nell’anno<br />
scolastico 2006/2007, il 38,7% ha rilevato<br />
manifestazioni di bullismo e che nell’anno successivo<br />
questa percentuale è aumentata al 43,6% (rilevato<br />
a fine febbraio 2008).<br />
Emerge che circa il 50% dei dirigenti scolastici (di<br />
251 scuole) ha dichiarato di avere avuto almeno<br />
un caso di bullismo. La maggiore frequenza si è<br />
registrata nella scuola secondaria di I grado (51%),<br />
seguita dalla primaria (27,1%) e dalla secondaria<br />
di II grado (21,1%).<br />
Tra i principali atti di bullismo, quelli che si<br />
manifestano più spesso sono il diretto verbale<br />
(37,7%), l’indiretto/relazionale (29,5%) e il diretto<br />
fisico (26,5%). Dai dati si può rilevare che vi è una<br />
significativa relazione tra l’ordine di scuola e i luoghi<br />
in cui si manifestano le prepotenze. Infatti, nella<br />
scuola primaria il luogo preferito dai bambini è il<br />
cortile (25,0%), nella secondaria di I grado i corridoi<br />
(23,2%) e il cortile (21,1%), nelle superiori i corridoi<br />
e le aule (24,0%).<br />
Le istituzioni hanno avviato un intenso monitoraggio<br />
per contrastare il bullismo nelle scuole. Il fenomeno,<br />
infatti, ha un notevole prezzo sociale, che si paga<br />
negli anni. I ragazzi che subiscono violenza crescono<br />
33<br />
nella paura, mentre chi fa il<br />
bullo e non viene fermato<br />
diventa adulto con la convinzione<br />
di poter imporre le<br />
proprie idee anche con la<br />
violenza.<br />
La società, invece, dovrebbe essere fondata sulla<br />
relazione tra persone responsabili e mature, che<br />
abbiano seguito una crescita personale adeguata.
Giusi Territo e Sandro De Vecchis<br />
Giusi Territo, Dirigente Compartimento Polizia delle Comunicazioni, <strong>Piemonte</strong> e Valle d’Aosta<br />
Sandro De Vecchis, Coordinatore Squadra Crimini Informatici<br />
Cybercrimes:<br />
quando la violenza<br />
corre sul web<br />
La Polizia Postale e delle Comunicazioni, nata nel<br />
1981, è strutturata in 20 Compartimenti, situati nei<br />
capoluoghi di <strong>Regione</strong>, che fanno riferimento al Servizio<br />
Centrale di Polizia delle Comunicazioni presso il<br />
Ministero degli Interni.<br />
Nei principali capoluoghi di provincia sono presenti<br />
Sezioni di Polizia Postale e in <strong>Piemonte</strong> troviamo le<br />
Sezioni di Aosta, Alessandria, Asti, Cuneo, Novara e<br />
Vercelli.<br />
Le origini di Internet risalgono agli anni 70, quando,<br />
nell’ambito militare americano, nacque l’esigenza di<br />
collegare telefonicamente diversi computer sparsi in<br />
varie sedi, in modo da poter far condividere informazioni<br />
senza dover apportare sostanziali modifiche hardware<br />
e software ai vari p.c.<br />
Il primo collegamento telefonico da computer a
computer avvenne nel 1969 tra l’Università della<br />
California di Los Angeles e lo Stanford Research<br />
Institute che furono così i primi due nodi di Internet.<br />
L’uso domestico, invece, risale agli anni ’80 dando<br />
inizio alla rivoluzione mondiale delle comunicazioni,<br />
nonostante il materiale multimediale disponibile<br />
fosse piuttosto scarso e le connessioni molto più<br />
lente dei tempi successivi. Oggi Internet ci consente<br />
di aprire la finestra e ricevere tutto il mondo in casa:<br />
è una realtà che racchiude enormi opportunità di<br />
comunicazione finora inimmaginabili, ma anche<br />
nuovi reati da individuare, prevenire e reprimere.<br />
Nel 1998, il legislatore individuò nella Polizia Postale<br />
la struttura in grado di assolvere al delicato compito<br />
di contrastare i crimini informatici, riconoscendole<br />
anche la facoltà di condurre attività sotto copertura<br />
nel contrasto alla pedopornografia on line.<br />
Da allora, lungo un cammino di formazione e crescita<br />
continua, ci siamo posti come punto di riferimento<br />
sia per l’Autorità Giudiziaria che per le altre forze<br />
di Polizia nel campo dei reati informatici.<br />
Il nostro Compartimento è organizzato in squadre<br />
operative, composte da Ufficiali ed Agenti di P.G.,<br />
molti dei quali in possesso di laurea in Ingegneria<br />
Informatica; a ciascuna di esse è assegnato il<br />
compito di contrastare determinati tipi di reati<br />
commessi su Internet, i cosiddetti “cybercrimes”,<br />
e, contemporaneamente, di effettuare costanti<br />
monitoraggi alla rete, visitando le pagine web, i<br />
social network, i portali per il commercio elettronico<br />
e quant’altro possa servire ad effettuare un’efficace<br />
attività preventiva.<br />
Gli strumenti di cui disponiamo sono il costante<br />
aggiornamento professionale voluto dal nostro<br />
Ministero: infatti frequentiamo corsi di perfezionamento<br />
specialistici sia all’Università, sia presso<br />
35<br />
altre polizie internazionali.<br />
Ciò non va disgiunto dalle<br />
personali doti di intuito<br />
dell’operatore, dalla capacità<br />
di calarsi nel ruolo del cyber<br />
criminal, fingendo di condividerne<br />
interessi e linguaggio, doti particolarmente<br />
necessarie per il lavoro sotto copertura.<br />
Vi è un notevole scambio di esperienze e di<br />
informazioni con le altre polizie europee, soprattutto<br />
nel campo della pedopornografia minorile: la<br />
veicolazione delle notizie avviene anche attraverso<br />
la redazione delle black list dei siti su cui è presente<br />
materiale pedopornografico e la diffusione dei dati<br />
dei soggetti stranieri dediti allo scambio di tale<br />
materiale.<br />
E, ovviamente, ci sono le norme. Anche se non<br />
sempre il legislatore riesce a prevedere il formarsi<br />
di nuove figure di illeciti, provvede poi rapidamente<br />
a fornire le regole per combatterle; tra le ultime e<br />
più significative vi è la legge 48 del 2008 che ha<br />
stabilito i principi per la conservazione e l’inalterabilità<br />
dei dati originali durante l’ispezione o la perquisizione<br />
ai supporti informatici.<br />
Ci sono poi utili e moderne forme di collaborazione,<br />
come la convenzione con il Dipartimento di<br />
Informatica dell’Università di Alessandria stipulata<br />
dal nostro Servizio Centrale, che ha siglato la<br />
nascita di un Organismo del quale questo<br />
Compartimento di Polizia Postale fa parte, per<br />
promuovere e coordinare la ricerca, sia delle nuove<br />
forme di crimini informatici, sia degli strumenti<br />
informatici necessari a combatterli.<br />
Internet è un’invenzione umana di portata straordinaria,<br />
fonte inesauribile di aggregazione, di scambi
36<br />
culturali, di stimoli alla<br />
creatività, e molto altro<br />
ancora. Tuttavia può<br />
diventare pericolosa e<br />
generare violenza a<br />
causa delle devianze<br />
umane, per l’abitudine<br />
e l’assuefazione a<br />
immagini e linguaggi di cui si subisce il fascino,<br />
adeguandosi sempre più velocemente fino a usarla<br />
come veicolo per la diffusione di bravate o gesti<br />
scellerati.<br />
Quando parliamo di violenza in rete dobbiamo<br />
intenderla non solamente come atto di sopruso<br />
fisico o verbale, ma anche come prepotenza,<br />
coercizione, sopraffazione psicologica, subite anche<br />
da soggetti che, spesso, non sono nemmeno<br />
frequentatori della rete.<br />
Appartengono alla prima specie la diffusione su<br />
internet di immagini pedopornografiche, di frasi<br />
fanatiche inneggianti all’odio razziale, religioso,<br />
politico, di insulti, e altro ancora.<br />
E’ violenza psicologica, invece, ricevere e mail<br />
usate come lettere anonime, vedere divulgate notizie<br />
o immagini private, associate a dati reali (indirizzi,<br />
numeri di telefono, email, ...) con conseguenze<br />
immaginabili.<br />
Oggi molti, all’interno di una storia sentimentale,<br />
anche in accordo col partner, registrano o filmano<br />
i rapporti sessuali: spesso però, concluso il rapporto<br />
in modo burrascoso, capita che uno dei due diffonda<br />
queste immagini per dispetto.<br />
Altrettanto frequenti sono i casi di stolking, cioè<br />
molestie continue, inflitte ai malcapitati non solo<br />
attraverso internet, ma anche per telefono, cellulare,<br />
citofono... dando luogo a vere e proprie<br />
persecuzioni.<br />
Il settore più indagato, è certamente quello della<br />
pedopornografia, crimine terribile, che ogni volta<br />
sorprende anche noi con rinnovato orrore. E le<br />
devianze sono di vari tipi, dagli individui interessati<br />
a guardare e collazionare atroci immagini in un<br />
album virtuale, a quelli che abusano dei minori, fino<br />
ad una specie ancora più disgustosa, persone che<br />
con questa devianza non hanno nulla a che fare,<br />
ma che producono tali materiali solo per vendere,<br />
per farne commercio.<br />
Tutti i “cybercrimes” sono oggi in continuo aumento<br />
e, soprattutto per quelli che hanno come protagonisti<br />
i giovani, è necessaria una riflessione.<br />
Nella società attuale alcuni valori di base hanno<br />
perso incisività nell’ambito scolastico, familiare e<br />
sociale. Di conseguenza, soprattutto i ragazzi se<br />
ne costruiscono di alternativi, che per lo più<br />
conducono a comportamenti finalizzati all’affermazione<br />
violenta di sé nei confronti degli altri.<br />
Comportamenti che, diffusi sul web, catalizzano il<br />
popolo giovanile spingendo all’emulazione.<br />
E c’è un dato ancora: internet dà a chi lo utilizza<br />
una sensazione di anonimato, di sicurezza e dunque<br />
di impunità. Ma fortunatamente, fino ad ora all’uso<br />
spesso non si accompagna una profonda cultura<br />
informatica di massa.<br />
Le segnalazioni di reati commessi attraverso la rete<br />
sono numerose, tenendo conto che solo l’interessato<br />
può denunciare le violenze subite, e ci riferiamo<br />
all’accesso abusivo alla posta elettronica, al furto<br />
dell’identità virtuale, fino alla clonazione delle carte
di credito per il commercio on line.<br />
In particolare per la pedopornografia, le denunce<br />
sono motivate prima di tutto dall’orrore provato<br />
nell’imbattersi per caso (il che è molto difficile) in<br />
immagini del genere, ma anche dal desiderio di<br />
cautelarsi con una sorta di auto denuncia.<br />
Sono poco frequenti, invece, le segnalazioni<br />
riguardanti i reati che coinvolgono i giovani, troppo<br />
solidali con i coetanei. Tuttavia spesso il loro aiuto<br />
è stato indispensabile per la soluzione di casi,<br />
anche molto noti, riguardanti la diffusione di filmati<br />
violenti attraverso you-tube e altre incresciose<br />
vicende avvenute nelle scuole. Vivendo nel gruppo<br />
(qualche volta “branco”) i ragazzi non sempre<br />
riescono a separare il giusto da ciò che non lo è<br />
ma, una volta chiamati a rendere conto davanti a<br />
se stessi, rispondono in modo soddisfacente.<br />
Certo, c’è da essere ottimisti. Naturalmente il nostro<br />
impegno darà buoni frutti se potrà contare sull’aiuto<br />
generale. Insegnanti, genitori, operatori sociali...sono<br />
fondamentali per far capire ai giovani che internet<br />
è strumento di crescita culturale e non deve essere<br />
usato per delinquere o creare violenza.<br />
I genitori, in particolare, non devono usare il<br />
computer come la baby sitter cui affidare i figli in<br />
loro assenza, ma aiutarli a capire che in campo<br />
virtuale valgono gli stessi principi della vita reale e<br />
che delinquere in ambiente web non garantisce<br />
affatto l’impunità.<br />
Per quanto ci riguarda, da tempo siamo impegnati<br />
nelle scuole, anche private e religiose, con un<br />
programma di incontri nei quali illustriamo ai ragazzi,<br />
agli insegnanti e ai genitori i pericoli in agguato<br />
nella rete e gli strumenti da usare affinché le<br />
tecnologie digitali siano alla portata di tutti come<br />
mezzo di crescita.<br />
37
Fausto Sorino<br />
Responsabile Assistenza Sociale Ufficio Minori Stranieri Città di Torino<br />
Una rete di impegno<br />
e competenze<br />
al servizio<br />
dei piccoli stranieri<br />
Il Comune di Torino si occupa degli emigranti più<br />
giovani ed in particolare stranieri non accompagnati,<br />
attraverso il Settore Minori di cui fa parte l’Ufficio Minori<br />
Stranieri.<br />
Il fenomeno dell’emigrazione giovanile in <strong>Piemonte</strong> ha<br />
avuto fasi diverse.<br />
Agli inizi degli anni ’90, in Italia e per quanto ci riguarda<br />
a Torino, ci fu un’ondata di immigrati adulti e ragazzi<br />
soli in età compresa fra 14 e 18 anni; erano soprattutto<br />
migranti economici che arrivavano dall’Albania e dal<br />
Marocco per fare fortuna e le loro modalità di approccio<br />
al servizio erano chiare: chiedevano documenti, casa,<br />
corsi professionali per imparare un mestiere e lavoro.<br />
I numeri di questa immigrazione giovanile erano molto<br />
alti, le risorse istituzionali dedicate non erano faraoniche<br />
e perciò furono attivati, in collaborazione con le<br />
associazioni di volontariato, servizi di accoglienza in<br />
emergenza.<br />
Oggi questo tipo di emergenza è finito. I numeri si
sono stabilizzati; ci sono ormai le seconde<br />
generazioni, che vivono in famiglia e fanno riferimento<br />
ai servizi sociali delle varie Circoscrizioni.<br />
Gli attuali minori non accompagnati, se da un lato<br />
sempre più spesso hanno riferimenti adulti familiari<br />
o simili (parenti, amici di famiglia,...), dall’altro hanno<br />
problemi diversi, più comportamentali, psicologici<br />
e sociali.<br />
Oggi, quelli di cui ci occupiamo, cosiddetti “a<br />
cartella attiva”, cioè con documentazione completa,<br />
storica, anamnestica, clinica e quant’altro, sono<br />
881, una cifra assolutamente precisa.<br />
I servizi sociali della Città di Torino, infatti, hanno<br />
costituito una rete interistituzionale talmente<br />
ramificata che, se sul territorio di Torino arriva un<br />
minore, per esempio marocchino, entro 20 giorni<br />
o al massimo due mesi, sarà intercettato dalle forze<br />
dell’ordine o da cittadini che lo sorprendono a<br />
vendere fazzolettini…<br />
E’ una realtà complessa in continuo movimento<br />
che però noi conosciamo in profondità, ben oltre<br />
gli scoop dei media. Parliamo dei baby pusher che<br />
si nascondono nelle fogne? Ormai è più un<br />
tormentone giornalistico che una realtà vera. Anche<br />
questo, come tutti i percorsi sociali, storici ecc.,<br />
ha avuto un inizio, un’evoluzione e una fine. Al<br />
tempo delle Olimpiadi, effettivamente una banda<br />
di criminali marocchini aveva raccolto un gruppo<br />
di ragazzini fra 10 e 14 anni per lo spaccio, con<br />
tutte le vicende ampiamente raccontate dai giornali.<br />
Sulla situazione, però, è immediatamente intervenuta<br />
la Direzione distrettuale antimafia con una vasta<br />
azione che ha condotto a più di 30 arresti,<br />
eliminando l’attività. Il nostro Servizio, affiancato<br />
dai Carabinieri, ha levato dalla strada tutti i piccolini<br />
39<br />
e dal 2007 ai Murazzi non ci<br />
sono più ragazzi con meno di<br />
14 anni.<br />
Naturalmente la buona<br />
riuscita di questa operazione<br />
è stata possibile perché<br />
Torino è una città ancora circoscritta: a Milano o<br />
a Roma, con numeri tanto elevati, sarebbe stato<br />
molto più difficile.<br />
Riguardo alle “moderne” schiavitù, sappiamo<br />
dell’esistenza di ragazzine straniere segregate e<br />
mandate a prostituirsi con la violenza sulle strade<br />
della città. Fra le diverse etnie, le rumene e le<br />
albanesi sono più frequentemente identificate sia<br />
nel corso di operazioni dei carabinieri, sia per la<br />
loro stessa decisione di denunciare gli sfruttatori.<br />
Ultimamente, però, il rapporto sfruttatore/vittima si<br />
sta trasformando radicalmente, addirittura in alleanza<br />
per l’efficace “cogestione dell’affare”, ed ecco il<br />
protettore diventare socio di un business che rende<br />
molto denaro da mandare a casa, per fare la bella<br />
vita o altro.<br />
Il sommerso vero, quello difficile da indagare, è<br />
rappresentato dalle ragazze nigeriane schiavizzate,<br />
destinatarie di violenze spaventose, e comunque<br />
troppo spaventate per tentare la minima<br />
collaborazione. Delle cinesi è inutile parlare, del<br />
resto è l’intera comunità a rappresentare un mondo<br />
a sé.<br />
Secondo me, comunque, si fa ancora troppo poco;<br />
occorrerebbe avviare un’azione di contrasto simile<br />
a quella realizzata per i baby pusher, che veda il<br />
coinvolgimento diretto della Magistratura ordinaria.<br />
Bisogna distinguere fra la violenza che si può
40<br />
denunciare, magari con<br />
un esposto per sfruttamento<br />
del minore, e<br />
quella indimostrabile.<br />
Purtroppo il primo caso<br />
rappresenta solo la<br />
punta di un iceberg, diciamo l’l, al massimo il 2%<br />
di ciò che avviene nella realtà.<br />
Provo a raccontare. Un giovanissimo marocchino<br />
decide di fuggire dalla bidonville di Casablanca<br />
dove non ha casa, servizi igienici, luce e gas, e<br />
tanto meno lavoro. Non può fare altro che tentare<br />
di imbarcarsi clandestino su una nave diretta in<br />
Italia; da questo momento vive al porto cercando<br />
l’occasione giusta ed è già immerso in una situazione<br />
molto brutale, deve rubare qualcosa da mangiare<br />
e da bere, viene picchiato dalla polizia o dagli agenti<br />
privati a guardia del porto. Finalmente arriva a<br />
Torino, la tappa successiva è Porta Palazzo, dove<br />
incontra subito la strada e quel clima di violenza<br />
(risse, inseguimenti, notti all’addiaccio...) che segna<br />
anche se non si subisce nulla. Se non è crudeltà<br />
fisica, è comunque violenza psicologica quella<br />
originata dall’assenza di qualsiasi diritto che ti fa<br />
sentire nessuno, senza identità, dignità, educazione.<br />
Alle ragazzine nigeriane e di altre zone dell’Africa<br />
il destino non riserva sorte migliore: devono entrare<br />
in Libia, superare parecchi avamposti, dove vengono<br />
regolarmente violentate (loro lo raccontano con<br />
una naturalezza che in realtà è rassegnazione),<br />
come prezzo per proseguire in viaggio.<br />
Esiste poi una realtà sommersa che riguarda le<br />
prestazioni sessuali dei minori (soprattutto<br />
magrebini), che rappresentano le prede perfette<br />
per i pedofili. Noi ce ne accorgiamo purtroppo solo<br />
successivamente, osservando i comportamenti dei<br />
ragazzi, che sono irritabili, reiterano la violenza,…<br />
Esattamente come capitava negli anni ’50 in Italia,<br />
nei quartieri popolari.<br />
Se poi parliamo di adolescenti, è difficile distinguere<br />
un italiano da uno straniero con famiglia. Sono<br />
molto simili, al massimo può succedere che le<br />
ragazze marocchine abbiano maggiori contrasti in<br />
famiglia per ottenere più libertà e questo a volte<br />
porta i genitori ad atti di violenza. Sono sempre più<br />
numerose le donne che, avendo figli ed essendo<br />
state maltrattate dal marito, chiedono protezione<br />
e ricovero, anche se a volte la loro storia di<br />
emancipa-zione si interrompe e tornano dal marito<br />
maltrattante che spesso è anche l’unica fonte di<br />
reddito per la famiglia. Un altro elemento importante<br />
è che spesso queste donne sono isolate da un<br />
contesto di famiglia allargata che permetterebbe<br />
mediazioni dei conflitti intrafamiliari (esempio<br />
l’intervento del fratello della<br />
donna sul marito per “farlo ragionare”,…)<br />
Oggi, fra le comunità marocchina, albanese e<br />
rumena, per esempio, l’uso di violenze inflitte o<br />
subite è una modalità più o meno frequente, e<br />
spesso assolutamente sommersa.<br />
E’ invece alla luce del sole la situazione dei campi<br />
nomadi sia dei rom rumeni sia degli slavi (bosniaci,<br />
ecc.) che in teoria sono più radicati sul territorio in<br />
tutta Italia, ma dove negli ultimi 10 anni si è<br />
consumato un abbrutimento delle condizioni di vita<br />
e della moralità a causa dell’uso massiccio e<br />
devastante delle sostanze stupefacenti, cocaina in<br />
primo luogo, che prima erano un tabù.<br />
Il risultato eclatante sono i maltrattamenti in famiglia<br />
e i gravi problemi psichici sempre più diffusi, il tutto<br />
con molte sofferenze soprattutto dei bambini.<br />
Il nostro Servizio è attivo dalle 8 alle 20, dispone
di un’équipe di pronto intervento e di un numero<br />
per la reperibilità nel fine settimana.<br />
Nel 2007 i minori non accompagnati segnalati<br />
attraverso il pronto intervento e quindi da noi accolti<br />
e inseriti in Comunità, sono stati 164. Di questi<br />
sono 70, soprattutto marocchini, quelli che avevano<br />
compiuto reati (un po’ meno di 1/3 del totale) che<br />
sono spaccio di stupefacenti, furti e rapine, per lo<br />
più scippi, recentemente accorpati, appunto alla<br />
rapina.<br />
Un progetto di integrazione sociale è un progetto<br />
educativo che, se ben fatto, è capace di costruire,<br />
intorno a sé la collaborazione di altre figure<br />
professionali di servizi pubblici e privati, cioè di<br />
creare una rete attorno al soggetto. Una cornice<br />
entro la quale le persone vittime di violenza o che<br />
l’hanno compiuta, si sentono “contenute” e possono<br />
trovare delle risposte per la loro vita.<br />
Gli strumenti con cui lavoriamo sono:<br />
- innanzitutto il progetto educativo<br />
- quindi la collaborazione con la neuropsichiatria,<br />
i Sert, i Centri specializzati di Psicologia transculturale,<br />
ad esempio MAMRE e FANON che si<br />
occupano anche di vittime di tortura e di donne<br />
che subiscono violenza, e con i Centri sanitari<br />
(consultori...);<br />
- infine, molto importante, lo strumento giudiziario.<br />
Le minori vittime della tratta, ad esempio, sono<br />
accompagnate e protette oltre che nel progetto di<br />
integrazione sociale, lungo tutto il percorso<br />
processuale, fino alla testimonianza contro i loro<br />
aguzzini.<br />
La realtà torinese in questo campo è molto positiva,<br />
siamo infatti riusciti a creare un tessuto a maglie<br />
41<br />
strette al quale è molto difficile<br />
sottrarsi.<br />
Nel nostro lavoro, naturalmente,<br />
non mancano alcune<br />
criticità, che affiorano soprattutto<br />
nei rapporti con i Servizi<br />
psichiatrici e i Sert.<br />
Non è raro che si debba ricoverare con urgenza<br />
un minore in Comunità terapeutica o addirittura in<br />
un Repartino Psichiatrico. Prendiamo per esempio<br />
un sedicenne alto e corpulento che assume ogni<br />
tipo di stupefacente, dall’erba alla cocaina, fino al<br />
più recente Rivotril, un farmaco per l’epilessia,<br />
utilizzato dai ragazzi di strada stranieri; spesso ha<br />
crisi psichiatriche, durante le quali sfascia tutto,<br />
che richiederebbero il ricovero immediato in un<br />
repartino psichiatrico o comunità terapeutica.<br />
A questo punto dobbiamo fare i conti con la<br />
neuropsichiatria italiana, che sembra non prevedere<br />
la presa in carico degli adolescenti fra i 14 e i 18<br />
anni, quasi non avesse conoscenze e capacità<br />
tecniche adeguate.<br />
Il nostro sedicenne grande e grosso con problemi<br />
di droga e di comportamento non può essere<br />
ricoverato al Regina Margherita, dove ci sono i<br />
bambini, perché può essere pericoloso; peraltro è<br />
difficile avere una diagnosi (è straniero, c’è il fattore<br />
culturale, la diagnosi si fa solo sugli adulti, per i<br />
ragazzi è etichettante…), ma noi senza diagnosi<br />
siamo bloccati sul piano amministrativo.<br />
Per fare un lavoro come il nostro, ci vorrebbero<br />
medici che capiscano le situazioni al volo e impostino<br />
adeguate strategia di sostegno. Invece dobbiamo<br />
ricorrere alle conoscenze, far intervenire le istituzioni,<br />
ma intanto restano comunità danneggiate e tempi<br />
troppo lunghi.
42<br />
Le stesse difficoltà le<br />
viviamo con i Sert, che<br />
operando con adulti e<br />
con assuntori storici di<br />
sostanze, a volte non<br />
sono comprensivi con<br />
ragazzi che magari arrivano in ritardo al primo<br />
appuntamento o non si presentano affatto. Eppure<br />
sono comportamenti tipici degli adolescenti; se poi<br />
sono centro africani possono arrivare “lietamente”<br />
anche 3 giorni dopo, ma non per questo li<br />
respingiamo! Non si può pensare che un adolescente<br />
aderisca spontaneamente ad un progetto<br />
terapeutico come se fosse un adulto che ha preso<br />
coscienza della sua situazione, bisogna fare tutto<br />
un lavoro preliminare di aggancio e convincimento<br />
che precede la presa in carico.<br />
Secondo me i Servizi sociali, che si occupano di<br />
persone, oltre alla preparazione professionale<br />
tecnica e scientifica, all’aggiornamento continuo,<br />
devono uscire e stare sul territorio. Il nostro<br />
personale è costituito anche da operatori di strada<br />
che stanno fuori molto più che in ufficio. Solo così<br />
si conoscono davvero i ragazzi per i quali operiamo<br />
ed i loro contesti di vita. Ragazzi che vorremmo<br />
aiutare sempre più concretamente ed efficacemente.<br />
Il prezzo sociale è quello umano, tante storie che<br />
hanno come protagonisti le vittime e gli autori delle<br />
violenze (che spesso, a loro volta le hanno subite<br />
in precedenza), condannati a vivere in solitudine la<br />
scissione che dentro di loro si crea.<br />
Alla città, la violenza sottrae enormi energie, umane<br />
ed economiche: pensiamo ai costi di un processo,<br />
di un SERT, a quelli della violenza negli stadi e<br />
simili.<br />
Bisogna anche ricordare che i costi sociali sono<br />
molto più elevati quando si interviene per curare<br />
piuttosto che per prevenire. A Torino sulla<br />
prevenzione si è lavorato tanto e con efficacia. Gli<br />
educatori dispongono di una rete formata dalle<br />
istituzioni, ma anche da conoscenze personali: tutti<br />
insieme contribuiscono alla massima diffusione<br />
delle informazioni favorendo, se necessario il rapido<br />
intervento.<br />
Un altro prezzo sociale è dato dal senso di<br />
insicurezza diffuso, alimentato anche dal comportamento<br />
degli organi di informazione, carta stampata<br />
e audiovisivi.<br />
Fra i minori di cui ci occupiamo, infatti, quelli che<br />
delinquono, spacciano, si drogano, sono circa il<br />
20%. Il restante 80% è formato da “migranti<br />
economici”, ragazzi come eravamo noi negli anni<br />
Venti, che già a 12 anni andavano in America per<br />
fare fortuna.<br />
Noi questi giovani normali li accogliamo, loro<br />
studiano, poi cominciano a lavorare; è la realtà<br />
buona e vera che nessuno racconta perché non<br />
impressiona.<br />
Mi ha molto colpito una recentissima osservazione<br />
di Tito Boeri, economista che apprezzo, il quale<br />
rilevava come gran parte dei contributi pensionistici<br />
derivano proprio dal lavoro degli immigrati regolari,<br />
che in Italia sono ormai 4 milioni cioè il 6-7% della<br />
popolazione totale.<br />
Forse bisognerebbe divulgare più informazioni di<br />
questo e non solo quelle negative e impressionanti.
Sono obiettivi generali<br />
del Piano regionale:<br />
- Far emergere la parte sommersa del fenomeno della violenza<br />
e delle altre forme di maltrattamenti (fisici e psicologici,<br />
compresi le mutilazioni, i matrimoni forzati, la violenza<br />
assistita, le forme di violenza basate sul diverso<br />
orientamento sessuale, ecc.)<br />
- Accogliere, accompagnare e sostenere le donne e le altre<br />
vittime di violenza<br />
- Prevenire il perpetuarsi della violenza, dei soprusi e dei<br />
maltrattamenti attraverso azioni di sensibilizzazione,<br />
privilegiando le nuove generazioni<br />
- Promuovere il cambiamento culturale e l'atteggiamento di<br />
donne e uomini di fronte alla violenza nei confronti delle<br />
donne<br />
(con particolare attenzione al coinvolgimento di associazioni<br />
di uomini)<br />
- Educare al rispetto delle persone<br />
Piano regionale per la prevenzione della violenza contro le donne<br />
e per il sostegno alle vittime". D.G.R. n. 2-9099 del 7-7-08
Maurizio Laudi<br />
Procuratore della Repubblica di Asti<br />
La violenza,<br />
autentica patologia<br />
del calcio italiano<br />
A Sir Wiston Churchill viene attribuita una lapidaria<br />
definizione su di noi: gli Italiani vincono una partita di<br />
calcio come fosse una guerra, e perdono una guerra<br />
come fosse una partita di calcio.<br />
Ignoro se la citazione sia autentica. Come ogni<br />
paradosso, è eccessivo e forzato, ma certamente<br />
coglie un aspetto reale del nostro modo di vivere<br />
questo sport, come protagonisti attivi o come<br />
appassionati. Le caratteristiche che ci rendono<br />
comunque riconoscibili sono l'essere molto sovente<br />
sopra le righe; dimenticare che la vittoria e la sconfitta<br />
sono le facce di una stessa medaglia; investire in una<br />
partita una somma di aspettative, di energie, di
esaltazioni e delusioni che ragionevolmente<br />
dovrebbero essere indirizzate verso obiettivi più<br />
importanti per la convivenza sociale.<br />
All'inizio di gennaio 2009 il Dipartimento della<br />
Pubblica Sicurezza ha reso noti i dati relativi agli<br />
incidenti nelle gare di campionato di calcio<br />
professionistico tra fine agosto e fine dicembre.<br />
28 sono state le partite segnate dal ferimento di<br />
persone; 61 gli agenti della forza pubblica che<br />
hanno riportato lesioni, il triplo rispetto ai civili. 217<br />
le persone denunciate per reati caratterizzati da<br />
condotte violente; 60 gli arrestati per identico<br />
motivo.<br />
Pur registrando un trend in diminuzione rispetto<br />
all'identico periodo del campionato precedente,<br />
questi dati fotografano impietosamente una patologia<br />
gravissima dello sport italiano, più precisamente<br />
del suo gioco più popolare e più praticato.<br />
Il mondo del calcio come reagisce? Tende ad<br />
allontanare da sé queste degenerazioni: quei<br />
soggetti sono delinquenti e non tifosi, e quindi non<br />
ci appartengono.<br />
Una risposta furba ma non intelligente perché lascia<br />
ad altri l'onere di analizzare cause e forme della<br />
violenza, rivendicando una propria immagine<br />
immacolata che tale è solo di facciata.<br />
E, come ogni furbizia, contribuisce a lasciar irrisolti<br />
i problemi.<br />
Nel frattempo l'Italia continua ad occupare i<br />
primissimi posti nella non virtuosa classifica dei<br />
Club più indisciplinati d'Europa. I nostri stadi sono<br />
considerati così poco sicuri che per lungo tempo<br />
l'Italia è stata esclusa come sede per le finali delle<br />
più importanti competizioni. L’ultima umiliazione è<br />
recentissima: sul piano<br />
dell'ordine pubblico, Polonia<br />
ed Ucraina sono state preferite<br />
all’Italia come organizzatori<br />
dei prossimi campionati<br />
Europei di calcio del 2012.<br />
45<br />
Per fortuna i limiti di questo approccio superficiale<br />
cominciano ad essere avvertiti e negli ultimi tempi<br />
la risposta è più organica e sistematica rispetto al<br />
recente passato.<br />
Può sembrare una formula di stile, ma è la verità:<br />
la violenza nel calcio ed attorno ad esso è fenomeno<br />
complesso e sbaglia chi pensa a soluzioni immediate<br />
e miracolose, ad esempio usando solo la leva di<br />
una maggiore severità repressiva, che pure è<br />
indispensabile.<br />
La violenza si manifesta in varie forme.<br />
C'è la violenza organizzata dei gruppi "ultras", la<br />
più pericolosa per evidenti ragioni.<br />
Ma c'è anche la violenza singola dell'individuo<br />
isolato, persona normale durante la settimana,<br />
trasgressore incontrollato la domenica allo stadio.<br />
Una violenza che non conosce rigidi limiti di<br />
anagrafe. Il più delle volte ne sono autori giovani<br />
anche minorenni. Ma non è infrequente notare nei<br />
filmati sugli scontri, o leggere nei verbali di polizia,<br />
fisionomie e nomi di ultratrentenni e quarantenni.<br />
Così come nei campi di periferia dove si cimentano<br />
squadre dilettanti e giovanili, non è raro assistere<br />
allo spettacolo indecoroso di padri e madri di<br />
famiglia (nel senso letterale del termine) che incitano<br />
i figli a spaccare le gambe all'avversario o che<br />
danno vita a risse da saloon con i genitori dell'altra
46<br />
squadra.<br />
Anche questa è<br />
violenza, immediata e<br />
istigatrice di altra<br />
violenza, altrettanto<br />
pericolosa. E' rimasta<br />
storica la scena di due squadre di bambini che, ad<br />
un certo momento, in un campetto della Toscana<br />
smisero di giocare e tornarono negli spogliatoi per<br />
protesta contro i propri genitori che si stavano<br />
scazzottando in tribuna.<br />
La violenza si traduce in atti di diversa gravità a<br />
seconda del contesto specifico.<br />
Tutti abbiamo ancora negli occhi le immagini terribili<br />
dell'aggressione armata di tifosi del Catania contro<br />
i poliziotti, culminata con l'uccisione dell'Ispettore<br />
Raciti.<br />
E non possiamo dimenticare l'omicidio di tifosi<br />
uccisi dentro lo stadio da un razzo lanciato dalla<br />
curva opposta, o accoltellati fuori del campo prima<br />
dell'inizio della partita.<br />
La violenza organizzata delle tifoserie in Italia ha<br />
avuto, negli ultimi anni, come bersaglio principale<br />
le forze dell'ordine, secondo uno schema ideologico<br />
e operativo fortemente mutuato dalle azioni di<br />
guerriglia urbana tipiche dell'antagonismo politico<br />
sovversivo.<br />
Poliziotti e carabinieri sono al primo posto nell'elenco<br />
dei "nemici" dei gruppi organizzati di tifosi ultras.<br />
Nello slogan ACAB (all the cops are bastard) tutti<br />
costoro si riconoscono, senza differenza di tifo per<br />
una squadra o un'altra, senza distinzione politica<br />
tra destra e sinistra.<br />
A me, quale Giudice Sportivo della Federazione<br />
Calcio, è capitato di sanzionare cori e striscioni<br />
che inneggiavano alla strage di Nassirya in stadi<br />
diversi, notoriamente monopolizzati da tifoserie di<br />
opposte tendenze politiche.<br />
Non è scomparso l'odio che, storicamente, divide<br />
i tifosi violenti di una squadra da quelli di un'altra:<br />
Brescia e Bergamo; Milan e Genoa; Torino e<br />
Juventus; Lazio e Roma, solo per fare qualche<br />
esempio.<br />
E il copione è sostanzialmente immutato: aggressioni<br />
reciproche tra gruppi fuori dello stadio, prima e<br />
dopo la gara, con mazze, bastoni, bombe-carta e<br />
simili.<br />
Ma neppure mancano forme di violenza organizzata<br />
"domestica", rivolta cioè contro la propria società,<br />
i suoi dirigenti o giocatori, colpevoli di scarsi risultati<br />
o di qualche rifiuto ad assecondare richieste di<br />
questi tifosi.<br />
Più di una volta il campo è stato invaso, o l'impianto<br />
sportivo è stato devastato non per protesta contro<br />
arbitro o giocatori avversari, ma con premeditata<br />
intenzione di danneggiare la propria dirigenza.<br />
Ed è passata agli annali l'aggressione contro un<br />
calciatore reo di non aver esultato dopo un gol<br />
sotto la curva degli ultras, disconoscendo, con tale<br />
comportamento, l'autorità di quel gruppo come<br />
unico e legittimo depositario del tifo di quella<br />
squadra!<br />
Le cifre del Ministero degli Interni, prima ricordate,<br />
danno adeguato conto anche di un'altra forma di<br />
violenza organizzata.<br />
E' la violenza contro le cose, che si traduce in<br />
distruzione di vagoni ferroviari, saccheggio di bar<br />
e autogrill, danneggiamento degli arredi urbani<br />
oltreché degli impianti sportivi.<br />
La situazione - come si è visto - è da ultimo<br />
leggermente migliorata, anche grazie ai divieti, per
tifosi ospiti, di assistere a partite considerate "a<br />
rischio" dalle Autorità di Pubblica Sicurezza.<br />
Ma il pericolo è ancora attuale, tanto che i quartieri<br />
attorno allo stadio, in occasione di determinate<br />
gare, assomigliano più a zone di coprifuoco che a<br />
cornici di un evento sportivo.<br />
E' facile comprendere, allora, quali siano gli aspetti<br />
perversi di questa violenza, organizzata e non, sulla<br />
manifestazione sportiva.<br />
E' profondamente mutato il clima complessivo di<br />
una partita di calcio.<br />
Non è una frase fatta; non è un nostalgico rimpianto<br />
del bel tempo che fu, ma purtroppo la realtà di<br />
una negativa involuzione.<br />
I ragazzi di quaranta anni fa andavano anche da<br />
soli allo stadio perché non era un luogo pericoloso.<br />
I tifosi delle due squadre erano seduti o in piedi gli<br />
uni vicino agli altri. La tradizione, nelle famiglie<br />
tifose, era recarsi tutti insieme alla partita, come al<br />
cinema o a un qualunque altro divertimento.<br />
Oggi non è più così.<br />
La partita è diventata oggetto di riunioni nelle<br />
Prefetture e al Viminale come accade per le<br />
manifestazioni che possono degenerare in violenza<br />
collettiva. I protocolli operativi di sicurezza<br />
assomigliano a piani di intervento militare.<br />
Dentro gli stadi e nelle vie di accesso, è fisicamente<br />
percepibile - certo non sempre, ma molto spesso<br />
- una tensione che dovrebbe essere inconcepibile<br />
per un appuntamento destinato allo svago e al<br />
tempo libero.<br />
Personalmente ho la fortuna di assistere, con una<br />
certa frequenza, a partite di calcio all'estero.<br />
A parte qualche rara eccezione, sembra di vivere<br />
in un altro mondo rispetto all'Italia.<br />
47<br />
Gli stadi sono pieni di gente<br />
che urla, incita, protesta,<br />
gioisce e si dispera per un<br />
gol segnato o subito, come<br />
è giusto che sia per chi è<br />
tifoso. Ma tutto finisce lì; non<br />
ci sono cariche di polizia. Non ci sono lanci di razzi<br />
o di seggiolini divelti; non ci sono assalti contro i<br />
sostenitori avversari.<br />
Il tifo occupa il suo spazio naturale; è un protagonista<br />
positivo della gara.<br />
In Italia il danno prodotto dalla violenza nel calcio<br />
è enorme.<br />
Gli stadi oggi sono semivuoti, complice certo anche<br />
la comodità della Pay-Tv, che però esiste anche<br />
negli altri Paesi e non provoca un simile effetto.<br />
Talora, addirittura, le partite si disputano a porte<br />
chiuse o senza la presenza di tifosi ospiti per<br />
ragioni di ordine pubblico. Decisioni assolutamente<br />
opportune, anzi necessarie, che suonano però<br />
come una dichiarazione di fallimento rispetto<br />
all'essenza dello sport.<br />
Molti, da tanti punti di vista, si sono interrogati sul<br />
che fare. E qualche passo avanti si è compiuto<br />
negli ultimi anni.<br />
Credo si debba partire dall'origine della degenerazione<br />
del tifo organizzato, che nasce da molte<br />
cause.<br />
Non sono né uno psicologo né un sociologo. La<br />
mia analisi non pretende di avere fondamenti<br />
scientifici, ma è frutto dell’esperienza concreta<br />
maturata come Magistrato e Dirigente Sportivo.<br />
Alla base del tifo violento organizzato vi è un cemento<br />
unitario costituito dall’idea del tutto distorta "dell'ap-
48<br />
partenenza" di sé ad<br />
una squadra, e<br />
reciprocamente della<br />
squadra a sé. Un'idea<br />
che si concretizza nella<br />
creazione di un mondo<br />
chiuso, che si rapporta agli "avversari” - poliziotti<br />
e altri - solo in termini di ostilità, di guerra, e che<br />
comporta il riconoscimento di propri capi; l'adozione<br />
di modi di comportamento militare; l'accettazione<br />
come assolute delle proprie regole interne e la<br />
violazione altrettanto assoluta di tutte le altre regole<br />
che in qualche modo contrastano o si frappongono<br />
alle prime.<br />
Poi, certo, c'è anche dell'altro.<br />
C'è la contaminazione tra estremismo sportivo ed<br />
estremismo politico. C'è la deriva di delinquenza<br />
comune, per cui certe curve negli stadi sono luoghi<br />
di spaccio di droga. C'è il profilo affaristico, per<br />
cui i leader di certe frange ultras fanno di mestiere<br />
il capo tifoso che specula sulla rivendita dei biglietti<br />
o l'organizzazione delle trasferte.<br />
Ma il punto fondamentale rimane, a mio parere,<br />
quello che ho detto prima: la concezione "talebana"<br />
dell'appartenenza ad una squadra.<br />
Il che fare esige risposte diverse ma coordinate.<br />
Le manifestazioni di violenza vanno represse con<br />
severità, senza concedere attenuanti giustificate<br />
sbrigativamente con l'argomento che, in fondo, si<br />
tratta solo di sport.<br />
Quando si uccide, si ferisce, si devasta le indulgenze<br />
o le sottovalutazioni sono del tutto fuori luogo. La<br />
prevenzione della violenza deve essere appannaggio<br />
di strutture e uomini professionalmente qualificati.<br />
Su questo terreno, per fortuna, l'Italia è molto<br />
progredita negli ultimi anni.<br />
I protagonisti dello sport - atleti, allenatori, dirigenti<br />
- devono considerare prioritario l'impegno contro<br />
la violenza. Questo sia per evidenti ragioni etiche,<br />
sia per una lungimirante strategia di contrasto a<br />
condotte che potrebbero portare alla decadenza<br />
definitiva di questo mondo.<br />
Al fondo, meglio all'inizio, ci deve essere l'impegno<br />
di tutti - la politica nazionale, gli enti territoriali, le<br />
istituzioni scolastiche, le famiglie - per un'educazione<br />
alla correttezza, al rifiuto delle scorciatoie (il doping<br />
in primo luogo), al rispetto degli altri.<br />
Al termine di questo percorso, aspro e non breve,<br />
potremo di nuovo considerare il tifo calcistico per<br />
una squadra come la sola cosa alla quale ciascuno<br />
rimane fedele per tutta la vita, come ebbe a scrivere<br />
un grande poeta e romanziere Sud Americano.
19.656 sono le denunce di violenza sulle donne<br />
presentate presso le Questure e i Comandi Carabinieri<br />
del <strong>Piemonte</strong> tra il 2005 e il 2007<br />
Di cui:<br />
1.042 sono violenze e tentate violenze sessuali<br />
439 molestie<br />
779 maltrattamenti<br />
5.726 lesioni<br />
6.614 minacce<br />
4.958 ingiurie<br />
66 tentati omicidi<br />
32 omicidi<br />
Indagine sulla violenza alle donne in <strong>Piemonte</strong><br />
realizzata dalla<br />
Consulta delle Elette del <strong>Piemonte</strong>, 2009
Brunella Ruffa<br />
Psicologa, consulente Dipartimento Patologia delle Dipendenze,<br />
ASL TO3<br />
Dipendenze e<br />
violenza:<br />
una relazione<br />
complessa<br />
La mia riflessione sul tema della violenza parte dalla<br />
personale esperienza di lavoro con persone afflitte da<br />
problemi di dipendenza. Volutamente non ho usato il<br />
termine “tossicodipendenti” che evoca principalmente<br />
l'immagine stereotipata dell'eroinomane, così come lo<br />
si incontrava nei decenni passati. L'intento è quello di<br />
chiarire i nessi tra l'uso di sostanze e i fenomeni di<br />
violenza.<br />
E' inevitabile affrontare l’argomento per linee generali,<br />
mentre la quotidianità ci comunica lo stupore di fronte<br />
a storie, persone, sostanze, rapporti, emozioni, ogni<br />
volta differenti e particolari.<br />
Argomento di dibattito può essere la pericolosità<br />
dell'eroinomane, data la quantità di reati che lo vedono<br />
colpevole. Si tratta di reati ripetuti contro il patrimonio,<br />
dovuti per lo più all'urgenza di procacciarsi il denaro
per l'eroina, per placarne i sintomi d'astinenza. In<br />
altri casi l'azione delinquenziale e violenta può<br />
essere connessa anche alla personalità sociopatica<br />
di alcuni tossicodipendenti, ma non è conseguenza<br />
diretta degli effetti biochimici di questa droga sul<br />
cervello, a differenza di come avviene con la cocaina.<br />
L'incapacità di controllare la propria aggressività<br />
e lo stato di eccitazione indotti, come vedremo,<br />
dalla cocaina, rendono notevolmente più pericolosi<br />
gli atti delinquenziali, che possono trasformarsi in<br />
azioni molto violente. Non è infrequente che l'uso<br />
combinato di sostanze dagli effetti tra loro diversi,<br />
quali eroina e cocaina, possa indurre chi le consuma<br />
a compiere crimini anche efferati.<br />
Un altro motivo per cui forse siamo portati ad<br />
associare la violenza, e la paura che ne deriva, alla<br />
persona del tossicodipendente, deriva dalla modalità<br />
d'uso di sostanze per via endovenosa, che rappresenta<br />
un primo gesto violento.<br />
Il “bucarsi”, infatti, può rappresentare una forma<br />
di aggressività autodiretta; dove il rituale dei gesti<br />
di assunzione acquisisce priorità rispetto<br />
all'assunzione stessa, agli effetti specifici dello<br />
stupefacente. Talvolta invece la modalità iniettiva<br />
non ha il significato di violenza verso se stessi ma,<br />
in personalità dall'identità particolarmente fragile,<br />
è possibile che il sentire l'ago che la sfiora e affonda<br />
nella pelle, paradossalmente, sia una delle poche<br />
risposte positive alla ricerca del contatto con sé,<br />
che confermi la propria esistenza.<br />
Assolta parzialmente l'eroina dalla genesi di violenza,<br />
va ricordato che tra le sostanze alcuni psicostimolanti<br />
(cocaina, anfetamine...), specie se associati<br />
51<br />
all'alcol, tendenzialmente<br />
hanno la capacità di accrescere<br />
i comportamenti violenti<br />
in personalità predisposte.<br />
Inoltre la cocaina può indurre<br />
pensieri a carattere persecutorio,<br />
i quali possono giocare come ulteriore<br />
fattore scatenante l'aggressività; analoghi effetti<br />
possono essere prodotti anche da episodi di abuso<br />
o di intossicazione.<br />
Il fatto che non sia necessario aver strutturato una<br />
dipendenza da sostanze, oltre tutto di largo consumo<br />
e delle quali non si conoscono a fondo le implicazioni,<br />
rende forse più imprevedibili gli eccessi<br />
aggressivi; il soggetto e i familiari non si aspettano<br />
certi scatti d'ira improvvisi, un comportamento<br />
minaccioso, aggressività aperta.<br />
E’ il caso degli etilisti: quando la violenza si manifesta<br />
nell'ambito domestico, ha le conseguenze più<br />
devastanti, verso tutti, il coniuge, i figli e il loro<br />
sviluppo psicologico, i genitori increduli.<br />
Spesso i familiari, emotivamente molto coinvolti,<br />
non sono in grado di capire la portata del problema,<br />
le possibili cause e valutare adeguatamente le<br />
contromisure da attuare. Così la violenza<br />
intrafamiliare perdura e si ripete per molto tempo,<br />
le relazioni tendono a strutturarsi con dinamiche in<br />
corto circuito segnate dal senso di colpa, dalla<br />
frustrazione, dall'insicurezza che altro non fanno<br />
che acuire i sentimenti di rabbia reciproca.<br />
Ne consegue un tardivo riconoscimento del<br />
problema e quindi interventi meno tempestivi e<br />
incisivi.<br />
Un altro motivo per cui le persone che abusano o<br />
diventano dipendenti dalla cocaina non accedono
52<br />
facilmente ai servizi<br />
deputati alla cura delle<br />
patologie da dipendenza<br />
(mi riferisco ai servizi<br />
pubblici) è la connotazione<br />
negativa che li<br />
contraddistingue. Sicuramente è compito dei servizi<br />
stessi fare cultura e politica in questo senso, così<br />
da migliorare la propria immagine. Dovrebbero<br />
aprirsi di più al confronto con la società e a loro<br />
volta agire con meno violenza nei confronti dei<br />
propri pazienti. Anche in questo caso è voluto l’uso<br />
di un termine forte associato a chi lavora per la<br />
cura, perché penso che gli operatori dovrebbero<br />
essere tra i primi a lottare contro lo stigma sociale<br />
che offende le persone con problemi di dipendenza.<br />
Dovrebbero tenere a mente, tra gli obiettivi principali<br />
delle terapie, anche la dignità da restituire ai pazienti,<br />
anziché solo banalmente “accoglierli” in ambienti<br />
per lo più squallidi, marginali, disadorni, trascurati,<br />
che spesso richiamano a immagini violente.<br />
Pensiamo a quei servizi che occupano strutture in<br />
precedenza destinate ad altri scopi: scantinati,<br />
camere mortuarie, ospedali psichiatrici...<br />
Appurato che la dipendenza da sostanze o da<br />
comportamenti additivi è una patologia, al pari del<br />
diabete o dell'anoressia, ne consegue per il paziente<br />
il diritto a luoghi adeguati e, soprattutto, a tempi di<br />
cura efficaci, armonici con la propria vita sociale<br />
e lavorativa, il più delle volte da ricostruire. Invece<br />
proprio questi ultimi spesso si scontrano con la<br />
rigidità delle istituzioni che impongono orari limitati<br />
e luoghi scomodi per l'assunzione dei farmaci<br />
indispensabili, frutto di una cultura che li classifica<br />
come malati, un po' meno malati degli altri (perché<br />
“se la sono andati a cercare”) e dottori che li<br />
sentono come pazienti, più impazienti degli altri,<br />
mentre è proprio questo tipo di discriminazione, di<br />
violenza subita, che genera l’impazienza.<br />
Premesso dunque che non tutte le sostanze hanno<br />
la stessa capacità di generare o scatenare reazioni<br />
aggressive, focalizzerei l'attenzione ora, non tanto<br />
sulla sostanza, quanto piuttosto sulla psiche del<br />
soggetto, come già si è potuto leggere tra le righe<br />
precedenti.<br />
E' frequente che persone con disturbi di personalità<br />
tra le cui caratteristiche distintive si riconoscono<br />
impulsività, aggressività, scarso controllo della<br />
rabbia (ad esempio organizzazione di personalità<br />
di tipo borderline o disturbi di personalità narcisistici<br />
o antisociali), presentino un quadro complicato<br />
dall'uso di sostanze stupefacenti. L'intreccio diventa<br />
ancor più complesso quando questi soggetti sono<br />
poliassuntori e cioè fanno uso di molti tipi di sostanze<br />
diverse, i cui effetti non solo si sommano, ma si<br />
amplificano reciprocamente. Questi tratti psicopatologici<br />
sono molto frequenti anche in altre<br />
personalità, per esempio con problemi di addiction<br />
o di dipendenza non da sostanze, come i giocatori<br />
d'azzardo patologici.<br />
E' oggetto di studi quanta parte abbiano i traumi,<br />
l'essere stati vittime di violenza o l'essere stati<br />
esposti a scene di violenza in età infantile, nello<br />
sviluppo dei suddetti disturbi di personalità. Le<br />
teorie convergono comunque nel ritenere importante<br />
il fattore violenza nell'eziopatogenesi, soprattutto<br />
quando ad essa si associa una cattiva, se non nulla<br />
capacità di elaborazione dell'esperienza. Oltre alla<br />
violenza subita nell'infanzia, quale fattore di rischio,<br />
dobbiamo pensare all'assenza o all'instabilità di
figure adulte di riferimento in grado di fornire al<br />
bambino un valido contenimento affettivo e una<br />
solida base per lo sviluppo della capacità di<br />
mentalizzare gli stati emotivi. E' su questo secondo<br />
fattore che dovrebbero insistere tutte le agenzie<br />
sociali: cogliendo tempestivamente i segnali di<br />
fragilità dei nuclei familiari, fornendo adeguato<br />
supporto alle figure genitoriali esistenti, oppure, se<br />
questo non è possibile, individuando validi sostituti.<br />
Constatato che alcune sostanze scatenano reazioni<br />
aggressive e che l'essere stati vittime di violenza<br />
in età precoce, in assenza di un ambiente protettivo,<br />
sono fattori di rischio nello sviluppo di alcune<br />
psicopatologie su cui si innesta agevolmente l'uso<br />
e l'abuso di sostanze psicoattive, è evidente che<br />
siamo di fronte ad un circolo vizioso che è<br />
responsabilità civile interrompere senza pregiudizi.<br />
Vorrei dedicare un'ultima riflessione alle giovani<br />
generazioni, spesso ritratte dai media come<br />
“drogate” e violente. Sicuramente tra i ragazzi c'è<br />
larga diffusione di sostanze, per la ricerca della<br />
novità e della trasgressione, oppure del piacere,<br />
della prestazione, per trovare distrazione, forse<br />
anche per la ricerca di un senso al tutto. E’ anche<br />
vero che troppo spesso ci troviamo di fronte a gesti<br />
di violenza inaudita e sconcertante. Non penso<br />
però che tra i due fenomeni esista sempre un<br />
rapporto lineare di causa-effetto. Piuttosto<br />
potrebbero essere entrambi frutto di una società<br />
tendenzialmente nichilista, intrinsecamente violenta,<br />
arrivista e individualista.<br />
Potrebbero essere il frutto dell'incapacità sia di<br />
gestire i conflitti, sia di mediare tra il sentire e<br />
l'agire, laddove la droga o l'impulsività sono due<br />
modalità del corpo per esprimere ciò che la mente<br />
53<br />
non è riuscita a leggere e<br />
decifrare. Potrebbero essere<br />
entrambi conseguenza<br />
dell'analfabetismo emotivo<br />
che incontriamo in molti<br />
giovani, in contrasto con la<br />
ricchezza di stimoli, lezioni e cibi con cui abbiamo<br />
avuto cura di farli crescere: responsabilità delle<br />
famiglie e responsabilità della scuola.<br />
Mi domando se invece la società attuale degli adulti<br />
sia in grado di operare questa mediazione, di<br />
pensare prima di agire, di riconoscere, valorizzare<br />
e dare un significato e una collocazione ai sentimenti,<br />
oppure se non abbia la tendenza ad escluderli, a<br />
relegarli nell'area degli inutili accessori se non<br />
addirittura a quella degli impedimenti. E gli adulti<br />
siamo noi.
Laura D’Amico<br />
Avvocata penalista specializzata in diritto del lavoro<br />
Mobbing<br />
e diritto penale<br />
Come avvocato penalista mi sono specializzata nel<br />
diritto del lavoro, sia penale, sia civile. Nel secondo<br />
ambito, tuttavia, mi sono occupata soltanto di aspetti<br />
legati ai danni da lavoro, quindi il risarcimento dei danni<br />
derivanti da malattie professionali o da infortuni sul<br />
lavoro.<br />
Nel corso di queste esperienze, negli ultimi anni, ho<br />
incontrato vari casi di cosiddetto “mobbing”. Con<br />
questo termine si indicano le vessazioni subite nei<br />
luoghi di lavoro, situazioni che distinguiamo tra “mobbing<br />
verticale”, cioè operato da superiori nei confronti di<br />
inferiori, e “mobbing orizzontale”, creato da lavoratori<br />
in danno di altri lavoratori.<br />
Le esperienze sono piuttosto recenti. Parlando del<br />
caso torinese, l'autorità giudiziaria penale, in particolare<br />
la Procura della Repubblica presso il Tribunale di<br />
Torino, tra gli altri vari danni da lavoro, ha posto<br />
attenzione al mobbing da circa 10-12 anni, non di più.<br />
Ciò è avvenuto con parecchie difficoltà giacché nella<br />
legislazione italiana non esiste una fattispecie criminosa<br />
di mobbing già prevista e disciplinata, e dunque si<br />
deve operare con gli strumenti di lavoro esistenti, cioè<br />
gli articoli del Codice Penale e le fattispecie già previste<br />
dal Codice.
Solo una minima parte dei fatti, in genere quelli più<br />
eclatanti, arriva all’autorità giudiziaria; i fatti, cioè,<br />
che presentano nell'aspetto fenomenologico i<br />
requisiti richiesti dall'autorità giudiziaria per<br />
individuare un'ipotesi di reato la quale, per l'esperienza<br />
torinese, è normalmente quella di maltrattamenti<br />
(reato di cui all'articolo 572 del codice<br />
penale, che presuppone una reiterazione nel tempo<br />
dei comportamenti illeciti, in danno di un sottoposto,<br />
ad esempio persona di cui si ha la cura per motivi<br />
di professione o di arte). Occorre sottolineare che<br />
questa ipotesi, nata col Codice Rocco del 1930 in<br />
un momento in cui non si parlava certo di mobbing,<br />
sconta il momento storico in cui è stata formulata.<br />
Detto questo, solo una minima parte dei fatti arriva<br />
ai nostri studi legali che fungono più che altro da<br />
punto di ascolto, sfogo e consulenza; tra questi<br />
ancora meno arrivano di fronte all’autorità giudiziaria.<br />
Sappiamo poi che di mobbing si parla anche nelle<br />
sedi giudiziarie civili, nei casi in cui il lavoratore<br />
chiede al giudice civile del lavoro tutela per tutti i<br />
danni che possono essere derivati dalla situazione<br />
definita di mobbing. Di solito si tratta di persone<br />
che, nonostante psicologicamente prostrate, hanno<br />
ancora volontà e forze morale per avviare un azione<br />
di difesa.<br />
Vi sono poi le difficoltà che l'autorità giudiziaria<br />
incontra nell'accertamento della verità, che possono<br />
essere distinte in un doppio profilo: di merito e di<br />
tecnica giuridica.<br />
Per quanto riguarda il profilo di merito, cioè<br />
l'accertamento della verità attraverso la raccolta<br />
delle prove, la difficoltà maggiore deriva dalla scarsa<br />
55<br />
disponibilità dei compagni di<br />
lavoro del mobbizzato a<br />
confermare le circostanze da<br />
lui denunciate. Questo avviene<br />
perché, da un lato vi è scarsa<br />
sensibilità e scarso spirito di<br />
solidarietà tra i lavoratori, dall'altro perché di solito<br />
il datore di lavoro interviene in modo pressante<br />
sugli altri compagni di lavoro per indurli a non<br />
testimoniare. Insomma, nei luoghi di lavoro nei quali<br />
si verifica un caso di mobbing c'è sempre un datore<br />
di lavoro che imposta le relazioni sulla base della<br />
prepotenza e della prevaricazione, creando un<br />
ambiente poco ispirato a principi di rispetto e<br />
democrazia anche nei rapporti interpersonali.<br />
Sotto il profilo del merito, vi è poi anche una difficoltà<br />
legata all'accertamento delle conseguenze che<br />
l’attività di mobbing può aver provocato sul soggetto<br />
mobbizzato. Anche la cultura medica, infatti, che<br />
pure per quanto riguarda il mobbing è più avanzata<br />
di quella giuridica, sconta ancora una serie di ritardi<br />
e di complicanze nell'accertamento.<br />
Esiste infine una difficoltà, più squisitamente di<br />
tecnica giuridica, vale a dire riuscire a trovare delle<br />
vie percorribili, dal punto di vista del diritto penale,<br />
che consentano di dare tutela a coloro che hanno<br />
subito mobbing.<br />
Svolta questa necessaria premessa, passerò a<br />
descrivere le forme concrete assunte dagli interventi<br />
di mobbing: anzitutto si comincia con una serie di<br />
contestazioni di addebiti, prima solo informali e<br />
verbali, poi formali attraverso comunicazioni scritte,<br />
anche se i destinatari sono soggetti che presentano<br />
obiettivamente un buon livello di qualificazione
56<br />
professionale. Le<br />
contestazioni iniziano<br />
per motivi futili, quando<br />
non infondati, spesso<br />
pretestuosi e anche<br />
provocatori.<br />
Successivamente si assiste ad una forma di<br />
denigrazione vera e propria, diffamazione che il<br />
datore di lavoro, in assenza del lavoratore, promuove<br />
presso i suoi colleghi: il passo successivo è<br />
l'isolamento all'interno dell'ambiente di lavoro.<br />
Sintetizzando, in un primo momento il datore di<br />
lavoro ufficializza il momento di scontento, a seguire<br />
manifesta quello di palese sfiducia, poi procede<br />
con l’isolamento. Gli interventi successivi includono<br />
minacce più o meno larvate rivolte ai compagni di<br />
lavoro, ai quali si intima di isolare costantemente<br />
il lavoratore. In molte situazioni e in molti giudizi<br />
penali, quando qualche persona ha avuto il coraggio<br />
di riferircelo, abbiamo rilevato che ai colleghi veniva<br />
detto che con quel lavoratore non si doveva più<br />
parlare, che non bisognava più salutarlo, nemmeno<br />
durante i momenti di pausa, e che il datore di lavoro<br />
avrebbe tenuto in considerazione il comportamento<br />
di ciascuno.<br />
In seguito il soggetto mobbizzante cerca di<br />
intervenire più o meno istintivamente sulla psiche<br />
del lavoratore già oggetto di mobbing, per cercare<br />
di piegarne la forza, quando non la fierezza, nel<br />
tentativo di indurlo a dubitare nelle proprie capacità<br />
professionali e relazionali. La cosa che, in base<br />
alla mia esperienza, ferisce di più è proprio<br />
l'isolamento dei compagni, la mancata solidarietà.<br />
Se infatti è possibile resistere e reagire quando si<br />
ha un datore di lavoro che attua comportamenti<br />
palesemente ingiusti ma si ha la solidarietà dei<br />
compagni di lavoro, l’isolamento colpisce molto<br />
duramente. E’ una situazione che può essere<br />
abbastanza frequente nei luoghi di lavoro, specie<br />
se di dimensioni medio-piccole, dove il ricatto del<br />
posto di lavoro è molto sentito.<br />
In base alle situazioni analizzate, posso affermare,<br />
in termini generali, che mobbing e la possibilità di<br />
mobbizzare sono inversamente proporzionali alla<br />
forza contrattuale delle maestranze e alla presenza<br />
delle organizzazioni sindacali. Tanto più è presente<br />
un'organizzazione sindacale, tanto più forte e<br />
costante è la sua presenza, altrettanto difficile è<br />
per un datore di lavoro perpetrare disegni di<br />
mobbing, posto che il lavoratore sappia di avere<br />
al proprio fianco dei rappresentanti sindacali sensibili<br />
al tema.<br />
Un pronto intervento delle organizzazioni sindacali<br />
normalmente è il primo momento di efficacissima<br />
prevenzione; al contrario, nelle realtà lavorative<br />
dove le organizzazioni sindacali non ci sono, oppure<br />
sono poco presenti o deboli, il potere contrattuale<br />
e di resistenza del lavoratore diminuisce fortemente.<br />
Ciò avviene soprattutto di fronte a rapporti di lavoro<br />
fragili per la loro precarietà; è proprio il precariato<br />
che il lavoratore vive da anni che lo costringe a<br />
subire, pena la perdita del posto di lavoro e il<br />
mancato rinnovo dei contratti atipici o a tempo.<br />
Tenendo presente che il mobbing ha la finalità<br />
ultima di allontanare il lavoratore dall’ambiente di<br />
lavoro, un’ulteriore osservazione che voglio fare è<br />
relativa alle tipologie di soggetti che in prevalenza<br />
lamentano i comportamenti mobbizzanti e alla<br />
relazione, sicuramente esistente, tra mobbing,<br />
discriminazione e violenza in un'accezione molto<br />
ampia del termine, intendendo per violenza non
solo quella fisica, che ricorre meno, quanto piuttosto<br />
quella psicologica, assai più frequente.<br />
Anzitutto, oggetto di mobbing sono mediamente<br />
più le donne che gli uomini; il perché non è semplice<br />
da determinare. Si presume che nell'ambiente di<br />
lavoro le donne siano viste, e in parte siano<br />
realmente, un soggetto debole tra le maestranze;<br />
sono anche coloro che conoscono maggiormente<br />
il precariato nei rapporti di lavoro; sono quelle,<br />
infine, che subiscono di più il rapporto gerarchico,<br />
anche perché, normalmente, le posizioni intermedie<br />
nel panorama apicale non sono rivestite da donne,<br />
ma da uomini: si ripete nei rapporti di lavoro una<br />
condizione che, ahimè, si trova anche all'esterno.<br />
Tutto questo non significa che non vi siano donne<br />
manager che mobbizzano uomini: anche questo è<br />
arrivato alle cronache (forse un po' meno giudiziarie<br />
e un po' più di costume), ma normalmente, per la<br />
mia esperienza, le maestranze femminili, quelle che<br />
tra l'altro occupano i primi gradini nei livelli di<br />
responsabilità rispetto alle mansioni lavorative, sono<br />
coloro che sicuramente subiscono di più. Inoltre,<br />
le donne sono allontanate dai luoghi di lavoro<br />
quando è subentrata un'infermità o quando<br />
diventano meno produttive. Anziché tener conto,<br />
in ossequio alla legislazione penale del lavoro, della<br />
diminuita capacità di produrre redditi da lavoro,<br />
magari per malattie contratte a causa del lavoro<br />
stesso, si cerca di indurle ad andarsene. Con ciò<br />
si evita un contenzioso in ambito lavorativo, dato<br />
che è molto più rischioso e costoso licenziare in<br />
modo illegittimo.<br />
Ci sono infine situazioni in cui le donne sono oggetto<br />
di mobbing da parte dei superiori quando non<br />
aderiscono a inviti non graditi in ambito sessuale<br />
(non ne sono a conoscenza, ma può darsi che<br />
57<br />
questo avvenga anche per gli<br />
uomini); allora ecco che,<br />
quando le molestie sessuali<br />
trovano una donna reattiva,<br />
si sfocia nel mobbing, perché<br />
a quel punto il molestatore,<br />
se ha una posizione apicale, deve fargliela pagare<br />
e allontanarla.<br />
Oltre a ciò, altre categorie di soggetti che possono<br />
essere destinatari di interventi di mobbing sono i<br />
sindacalizzati, che possono dare fastidio perché<br />
magari rivendicano qualcosa e, di fronte a soprusi<br />
e a diritti non riconosciuti o calpestati, reagiscono.<br />
Anche lavoratori che intendono scriversi ad<br />
un'organizzazione sindacale o vogliono essere più<br />
presenti nei momenti di dibattito interno, sono<br />
soggetti a rischio.<br />
A volte le discriminazioni passano attraverso la<br />
divulgazione, tra i compagni di lavoro, di notizie<br />
ansiogene. Per esempio quelle per cui se il datore<br />
di lavoro dovesse subire le richieste che i soggetti<br />
mobbizzati portano avanti, l’azienda chiuderebbe.<br />
Far nascere tra i lavoratori il timore per la stabilità<br />
del loro posto di lavoro, li induce a non sostenere<br />
le rivendicazioni sindacali.<br />
Altri soggetti che possono essere vittime di mobbing<br />
sono le persone “indesiderate”. Tra i vari indesiderati<br />
ci sono, ad esempio, le persone con disabilità che,<br />
per legge, i datori di lavoro sono vincolati ad<br />
assumere. Nei casi in cui tali soggetti, a causa<br />
della loro condizione personale, dimostrino di non<br />
riuscire ad assolvere pienamente le proprie<br />
mansioni, capita che il datore di lavoro cerchi di<br />
indurli alle dimissioni. Per arrivare all’obiettivo,<br />
talvolta si passa, in modo vergognoso, attraverso
58<br />
il dileggio della sua<br />
infermità, nel tentativo<br />
ultimo di isolare il<br />
lavoratore dai compagni<br />
di lavoro, ai quali si fa<br />
credere, ad esempio, di<br />
doversi sobbarcare una parte del lavoro che la<br />
persona disabile non riesce a svolgere. I datori<br />
hanno terreno fertile in compagni di lavoro sempre<br />
meno sensibili; la mancanza di solidarietà nei<br />
luoghi di lavoro non è un fatto isolato, è al contrario<br />
un fenomeno legato all'imbarbarimento dei costumi<br />
e delle sensibilità che, a mio avviso, sta attraversando<br />
tutta la società creando terreno fertile per<br />
soprusi, tanto più ingiusti nel caso delle persone<br />
con disabilità perché coinvolgono difficoltà oggettive.<br />
Anche per gli stranieri esiste senza dubbio un<br />
rapporto tra violenza, mobbing e discriminazione:<br />
direi che ciò vale più per i migranti che provengono<br />
dal Sud del mondo, che per quelli che vengono<br />
dall'Europa dell'Est. Questo perchè all'interno delle<br />
maestranze, sono i più docili, quelli più disposti ad<br />
accettare qualsiasi forma di lavoro, anche il più<br />
disagiato e illecito pur di trovare un minimo di<br />
sostentamento, subiscono maggiormente il ricatto<br />
del posto di lavoro, poiché vengono da condizioni<br />
familiari e sociali di particolare disagio, come<br />
succedeva agli italiani all'inizio del Novecento. I<br />
lavoratori stranieri subiscono anche forme odiose<br />
di razzismo, poste in essere soprattutto dai superiori<br />
gerarchici, ma che trovano terreno fertile anche tra<br />
i compagni di lavoro. Per questo sono oggetto di<br />
discriminazione e possono esserlo di mobbing.<br />
Direi, in particolare, che sono vittime del fenomeno<br />
coloro che hanno instaurato un rapporto di lavoro<br />
nell'illegalità, perché privi di permesso di soggiorno.<br />
Nei luoghi di lavoro sono presenti anche altre forme<br />
di violenza, in particolare la violenza verbale, le<br />
ingiurie, le minacce. Si tratta di situazioni che<br />
coinvolgono da un lato le posizioni apicali, quando<br />
nascono contrasti e non vi è la capacità di confrontarsi<br />
in modo democratico con i lavoratori o quando<br />
si è in presenza di fenomeni che riempiono di<br />
contenuto il mobbing. Dall'altro, i casi di violenza<br />
riguardano i rapporti orizzontali, quando scadono<br />
le relazioni interpersonali tra soggetti collocati sullo<br />
stesso livello e in particolare quando sono esplicitate<br />
le difficoltà ad accettare qualsiasi forma di diversità<br />
(di genere, di origine nazionale o etnico-razziale,<br />
di condizione di disabilità, ecc.).
19.656 sono le denunce di violenza sulle donne presentate<br />
presso le Questure e i Comandi Carabinieri del <strong>Piemonte</strong><br />
tra il 2005 e il 2007.<br />
Di cui:<br />
36,2 % delle violenze avviene in casa<br />
33,1 % delle violenze avviene tra conoscenti<br />
81,3 % delle violenze, tentate violenze, molestie e maltrattamenti<br />
è commessa da italiani<br />
41,3 % delle denunce è presentato da donne con più di 40 anni<br />
30,3 % delle denunce per stupro o tentata violenza è presentata<br />
da ragazze tra i 20 e i 30 anni<br />
Indagine sulla violenza alle donne in <strong>Piemonte</strong><br />
realizzata dalla<br />
Consulta delle Elette del <strong>Piemonte</strong>, 2009
Alida Vitale<br />
Avvocata specializzata nel diritto del lavoro<br />
Consigliera Regionale di Parità del <strong>Piemonte</strong><br />
Mobbing<br />
e diritto civile<br />
La mia esperienza di avvocata specializzata nel diritto<br />
del lavoro e di Consigliera regionale di Parità del<br />
<strong>Piemonte</strong> mi ha fornito e continua a fornirmi un<br />
osservatorio privilegiato sui fenomeni di violenze e<br />
mobbing nei luoghi di lavoro.<br />
Da diversi anni ormai si è individuata questa fattispecie<br />
(la prima sentenza che ha fatto scalpore sul tema del<br />
mobbing è del 1999, proprio del Tribunale di Torino)<br />
la quale non essendo stata definita da una legge che<br />
ne fornisca i precisi contorni, si può riassumere nei<br />
fenomeni di “rapporto conflittuale sul posto di lavoro<br />
tra colleghi o tra superiori e dipendenti, nel quale la<br />
persona attaccata viene posta in una posizione di<br />
debolezza e aggredita direttamente o indirettamente<br />
da una o più persone in modo sistematico, frequen-
temente con lo scopo o la conseguenza della sua<br />
estromissione dal mondo del lavoro” (così lo<br />
psicologo tedesco Hanz Leyman ha descritto il<br />
mobbing).<br />
Sostanzialmente si individuano quattro fasi di questo<br />
processo, che si conclude con l’espulsione delle<br />
persone dal luogo di lavoro:<br />
- il conflitto quotidiano, ovvero un contesto lavorativo<br />
che diventa difficile per la persona determinata;<br />
- l’inizio di vere e proprie vessazioni psicologiche,<br />
con attacchi diretti alla persona;<br />
- il verificarsi di mutamenti delle condizioni lavorative,<br />
magari di per sé legittimi (come i trasferimenti o il<br />
cambiamento di mansioni), ma che diventano<br />
vessatori in quanto indirizzati alla persona;<br />
- la comparsa di malattie psicosomatiche e di sintomi<br />
ossessivi nella persona, con conseguenti periodi<br />
di assenza per malattia, che spesso si concludono<br />
con il licenziamento o con le dimissioni.<br />
E’ indispensabile ricordare che, come già detto,<br />
pur non essendoci nel nostro ordinamento una<br />
legge che definisca il mobbing, esiste tuttavia una<br />
norma generalissima come l’art. 2087 del Codice<br />
Civile, che così dispone: “L’imprenditore è tenuto<br />
ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure<br />
che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza<br />
e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità<br />
fisica e la personalità morale del prestatore di<br />
lavoro”. Si tratta dunque di una norma che obbliga<br />
il datore di lavoro a vigilare affinché nella propria<br />
impresa non si verifichino situazioni che minino<br />
l’integrità fisica e psichica dei propri dipendenti.<br />
Utile per comprendere la tematica è l’iter di una<br />
fattispecie di mobbing sfociata in una recentissima<br />
sentenza della Corte di Cassazione (n.22858/ 08).<br />
Essa ha statuito che “lo spazio del mobbing,<br />
61<br />
presupponendo necessariamente<br />
la protrazione d’una<br />
volontà lesiva, è pertanto più<br />
ristretto di quello (nel quale<br />
tuttavia si inquadra) delineato<br />
dall’art.2087 del Codice<br />
Civile, comprensivo di ogni comportamento<br />
datoriale, che può essere istantaneo e fondato sulla<br />
colpa (...)”. La Suprema Corte ha inoltre stabilito<br />
che: “Se è vero, infatti, che il mobbing non può<br />
realizzarsi attraverso una condotta istantanea, è<br />
anche vero che un periodo di sei mesi è più che<br />
sufficiente per integrare l’idoneità lesiva della<br />
condotta nel tempo”.<br />
La responsabilità del datore di lavoro per mobbing<br />
non sussiste solo quando vi è un suo specifico<br />
intento lesivo, ma anche nel caso in cui il<br />
comportamento mobbizzante sia attuato da un altro<br />
dipendente e il datore di lavoro non abbia fatto<br />
abbastanza per reprimerlo; inoltre, se il mobbing<br />
proviene da un dipendente posto in posizione di<br />
supremazia gerarchica rispetto alla vittima, un mero<br />
tardivo intervento "pacificatore" del datore di lavoro,<br />
non seguito da concrete misure e da vigilanza, non<br />
è sufficiente ad escludere le responsabilità datoriali.<br />
Secondo la decisione della Corte, infatti, “integra<br />
la nozione di mobbing la condotta del datore di<br />
lavoro protratta nel tempo e consistente nel<br />
compimento di una pluralità di atti (giuridici o<br />
meramente materiali, ed eventualmente anche leciti)<br />
diretti alla persecuzione o all'emarginazione del<br />
dipendente, di cui viene lesa - in violazione<br />
dell'obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso<br />
datore dall'art. 2087 cod. civ. - la sfera professionale<br />
o personale, intesa nella pluralità delle sue<br />
espressioni (sessuale, morale, psicologica o fisica).
62<br />
Né la circostanza che la<br />
condotta di "mobbing"<br />
provenga da un altro<br />
dipendente posto in<br />
posizione di supremazia<br />
gerarchica rispetto alla<br />
vittima vale ad escludere la responsabilità del datore<br />
di lavoro - su cui incombono gli obblighi ex art.<br />
2049 cod. civ. - ove questi sia rimasto colpevolmente<br />
inerte nella rimozione del fatto lesivo,<br />
dovendosi escludere la sufficienza di un mero (e<br />
tardivo) intervento pacificatore, non seguito da<br />
concrete misure e da vigilanza”.<br />
Nel caso specifico la Suprema Corte, nel cassare<br />
la sentenza impugnata, ha rilevato che il giudice di<br />
merito aveva valutato le condotte in termini non<br />
solo incompleti, ma anche con un approccio<br />
meramente atomistico e non in una prospettiva<br />
unitaria, sottovalutando la persistenza del<br />
comportamento mobbizzante, durato per un periodo<br />
di sei mesi, “più che sufficiente ad integrare l'idoneità<br />
lesiva della condotta nel tempo”. La condotta<br />
mobbizzante, nella sostanziale inerzia del datore di<br />
lavoro, era consistita nel trasferimento, da parte di<br />
un altro dipendente gerarchicamente sovraordinato,<br />
di una dipendente (incaricata della trattazione di<br />
un progetto aziendale di rilevanza europea) dal<br />
proprio ufficio in un'area "open", senza che venisse<br />
munita di una propria scrivania, di un proprio<br />
armadio e delle risorse utili allo svolgimento<br />
dell'attività. La dipendente aveva dovuto affrontare<br />
più volte situazioni di disagio professionale e<br />
personale, per aver dovuto trattare in un luogo<br />
aperto al passaggio di chiunque attività che<br />
presupponevano riservatezza e per essere stata,<br />
in più occasioni, insultata con espressioni<br />
grossolane.<br />
Sempre con riferimento al mobbing orizzontale (tra<br />
pari), la Cassazione si era pronunciata<br />
precedentemente con la sentenza del 20 luglio<br />
2007, n. 16148. Si trattava del caso di un ex<br />
dipendente dell’Enel che, per molti anni, era stato<br />
sottoposto dai colleghi a continue vessazioni,<br />
aggressioni e minacce. L'uomo aveva riportato una<br />
forte debilitazione psico-fisica, seguita poi da un<br />
infarto, e aveva chiesto i danni per mobbing solo<br />
all’esito di un procedimento penale.<br />
Con tale sentenza la giurisprudenza più recente<br />
ha confermato il fatto che viene sanzionata la<br />
colpevole inerzia del datore di lavoro nel rimuovere<br />
un fatto lesivo nei confronti del/della dipendente e<br />
che un periodo piuttosto breve del comportamento<br />
lesivo è idoneo ad integrare la fattispecie di mobbing.<br />
Non è semplice tipizzare le condotte mobbizzanti<br />
ma, analizzando ciò che comunemente accade,<br />
esse si possono così sintetizzare: demansionamento<br />
ed inattività della persona determinata; trasferimento<br />
punitivo o discriminatorio; deprivazione di mezzi<br />
tecnici o di un luogo dove svolgere il proprio lavoro;<br />
molestie sessuali; discriminazioni sulla base di<br />
sesso, etnia, orientamento religioso e sessuale;<br />
diniego continuativo di ferie e permessi; messa in<br />
ferie forzata; licenziamento per superamento del<br />
periodo di “comporto”; maltrattamenti verbali; atti<br />
umilianti, offensivi, persecutori; isolamento ed<br />
emarginazione; ripetute visite di controllo medico;<br />
apertura di posta personale; irrogazione di reiterate<br />
sanzioni disciplinari, spesso immotivate o in<br />
violazione della procedura prevista dallo Statuto<br />
dei Lavoratori; licenziamento ingiurioso ovvero<br />
quello che per forma e modalità, per le espressioni<br />
contenute nell’atto di recesso, lede la personalità
morale della persona determinata.<br />
Occorre ora chiedersi chi siano le vittime<br />
predestinate di questo tipo di comportamenti<br />
vessatori e violenti sui luoghi di lavoro. Anche in<br />
questo caso l’esperienza personale conferma<br />
pienamente quanto già la Commissione Europea,<br />
con la Raccomandazione 93/131, aveva<br />
sottolineato. Sono le donne ad essere le vittime<br />
più esposte al mobbing, specie per quello che si<br />
sostanzia in condotte sessuali; esiste un nesso<br />
inscindibile tra il rischio di molestie a sfondo sessuale<br />
e la fragilità di chi le subisce, che si trova in una<br />
posizione di soggezione, sia per forza fisica che<br />
per condizioni di lavoro. Nella grande maggioranza<br />
dei casi seguiti, le donne vittime di comportamenti<br />
mobbizzanti, a connotazione sessuale o meno,<br />
rientrano dalla maternità obbligatoria o facoltativa,<br />
oppure sono sole, separate o divorziate con vissuti<br />
di sofferenza, giovani e neoassunte, lavoratrici<br />
precarie o disabili o straniere.<br />
Per dare conto di come il mobbing comprenda le<br />
molestie e le molestie sessuali sul luogo di lavoro,<br />
dobbiamo tenere presente che detti comportamenti<br />
sono considerati atti discriminatori in ragione<br />
dell’appartenenza al genere.<br />
In particolare il Codice delle Pari Opportunità (D.<br />
Lgs. 198/06) così le definisce: “Sono considerate<br />
come discriminazioni anche le molestie, ovvero<br />
quei comportamenti indesiderati, posti in essere<br />
per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o<br />
l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di<br />
un lavoratore e di creare un clima intimidatorio,<br />
ostile, degradante, umiliante o offensivo. Sono<br />
altresì considerate come discriminazioni le molestie<br />
sessuali, ovvero quei comportamenti indesiderati<br />
a connotazione sessuale, espressi in forma fisica,<br />
63<br />
verbale o non verbale, aventi<br />
lo scopo o l’effetto di violare<br />
la dignità di una lavoratrice<br />
o di un lavoratore e di creare<br />
un clima intimidatorio, ostile,<br />
degradante, umiliante o<br />
offensivo”.<br />
E’ importante sottolineare che, contro questi<br />
comportamenti illeciti dal punto di vista civilistico,<br />
esiste anche una tutela penale. Di recente una<br />
sentenza della Corte di Cassazione (Sez. Penale<br />
n. 27469/08) ha stabilito che: “Gli atti vessatori,<br />
che possono anche essere costituiti da molestie o<br />
abusi sessuali nell’ambiente di lavoro, oltre al<br />
cosiddetto fenomeno del mobbing, risarcibile in<br />
sede civile, nei casi più gravi, possono configurare<br />
anche il delitto di maltrattamenti”. In questi casi,<br />
tuttavia, è necessario che la vittima si attivi<br />
denunciando penalmente i comportamenti subiti.<br />
Le molestie connesse al sesso possono<br />
naturalmente essere di vari tipi: richieste esplicite<br />
o implicite di prestazioni sessuali o attenzioni a<br />
sfondo sessuale non gradite e ritenute sconvenienti<br />
o offensive per chi ne è oggetto; promesse, implicite<br />
o esplicite, di agevolazioni e privilegi o avanzamenti<br />
di carriera in cambio di prestazioni sessuali e<br />
ritorsioni o minacce per avere negato tali prestazioni;<br />
contatti fisici indesiderati e inopportuni; apprezzamenti<br />
verbali sul corpo e sulla sessualità; espressioni<br />
verbali o scritti denigratori rivolti alla persona in<br />
ragione dell’appartenenza ad un determinato sesso<br />
o di diverso orientamento sessuale; esposizione<br />
sui luoghi di lavoro di materiale pornografico. Le<br />
molestie connesse al sesso, inoltre, si distinguono<br />
dalle molestie sessuali, nelle quali il comportamento<br />
indesiderato ha sempre specifica connotazione
64<br />
sessuale. Per la specificità<br />
di tali comportamenti<br />
violenti e persecutori<br />
a sfondo sessuale,<br />
rispetto a quelli mobbizzanti<br />
per altre ragioni,<br />
nel corso degli anni sono stati presentati diversi<br />
disegni di legge (anche a livello regionale) aventi<br />
ad oggetto le molestie sessuali sui luoghi di lavoro,<br />
nessuno dei quali, per ora, si è tradotto in legge.<br />
Tuttavia, nell’attesa, occorre ricordare che esistono<br />
diversi strumenti di prevenzione e di tutela delle<br />
lavoratrici e dei lavoratori, come i codici di<br />
comportamento assunti dalle Pubbliche<br />
Amministrazioni ed i Comitati Pari Opportunità,<br />
spesso previsti dalla contrattazione collettiva.<br />
Anche la figura della Consulente di Fiducia, che<br />
deve essere una persona esterna all’Ente e che<br />
viene incaricata di ascoltare i vissuti di<br />
discriminazione e di molestie, con la finalità di<br />
rimuovere le situazioni lesive della dignità e della<br />
personalità delle lavoratrici e dei lavoratori, è una<br />
figura di prevenzione e di tutela che lentamente sta<br />
facendosi strada nei luoghi di lavoro.<br />
Infine occorre ricordare la disciplina sulla sicurezza<br />
nei luoghi di lavoro, dettata dal decreto legislativo<br />
9. 4. 2008, n. 81, che non riguarda il mobbing<br />
direttamente, ma contiene varie norme comunque<br />
utili. Basti pensare alla stessa definizione di salute<br />
del lavoratore (quale stato di completo benessere<br />
fisico, mentale e sociale, non consistente solo in<br />
un'assenza di malattia o d'infermità) o al contenuto<br />
ampio e generale della «valutazione dei rischi» cui<br />
obbligatoriamente, e con compito e responsabilità<br />
non delegabile (art. 16), è chiamato il datore di<br />
lavoro (che deve effettuare una valutazione globale<br />
e documentata di tutti i rischi per la salute e la<br />
sicurezza dei lavoratori presenti nell'ambito<br />
dell'organizzazione in cui essi prestano la propria<br />
attività, finalizzata ad individuare le adeguate misure<br />
di prevenzione e di protezione e ad elaborare il<br />
programma delle misure atte a garantire il<br />
miglioramento nel tempo dei livelli di salute e<br />
sicurezza), o infine all’ambito di applicazione della<br />
disciplina sulla sicurezza (che riguarda tutte le<br />
tipologie di rischio, in ogni attività). Pertanto figure<br />
come i Responsabili per la Sicurezza ed i<br />
Responsabili Sindacali assumono una veste di<br />
tutela assai importante anche contro questi<br />
fenomeni.
Centro di coordinamento regionale<br />
contro la violenza alle donne<br />
Il Centro di coordinamento regionale si inserisce<br />
nel quadro delle azioni previste dal “Piano regionale<br />
per la prevenzione della violenza contro le donne e per il<br />
sostegno alle vittime” con la funzione di monitorare il<br />
fenomeno e coordinare le varie realtà già operanti<br />
su questo fronte.<br />
Creato negli ultimi mesi del 2008, il Centro ha sede presso<br />
l’Ires <strong>Piemonte</strong> e si propone come centro rete e di coordinamento<br />
dei soggetti e delle attività proposte sul territorio piemontese<br />
(non svolgerà attività diretta di supporto verso le donne<br />
vittime di violenza).<br />
Dal punto di vista operativo, il Centro ha il compito di<br />
costruire un sistema di monitoraggio del fenomeno, di creare<br />
una rete effettiva fra le realtà che operano sul territorio<br />
e di ottimizzare le azioni di informazione, sensibilizzazione<br />
e formazione.<br />
Esercita infine una funzione di monitoraggio e valutazione<br />
del Piano regionale nell’ambito del quale vengono man mano<br />
individuate nuove attività da svolgere, modalità di miglioramento<br />
e nuovi obiettivi da condividere.
Pubblicazione a cura di<br />
Rosaria Pagani e Maura Pasquali<br />
con il contributo di Antonio Soggia<br />
in collaborazione con<br />
Direzione Comunicazione Istituzionale <strong>Regione</strong> <strong>Piemonte</strong> e Assessorato Regionale Pari Opportunità
a cura di<br />
www.regione.piemonte.it/pariopportunita<br />
www.ires.piemonte.it - www.meltinglab.it - www.occs.it<br />
iniziativa di comunicazione<br />
Piano regionale per la prevenzione della violenza contro le donne e per il sostegno alle vittime