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Untitled - Regione Piemonte

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Si ringraziano per il prezioso contributo<br />

Ermelinda Bertini, Amedeo Cottino, Enzo Cucco, Laura D’Amico, Sandro De Vecchis, Raffaella<br />

Fusco, Maurizio Laudi, Umberto Lucia, Franco Prina, Brunella Ruffa, Fausto Sorino, Giusi Territo,<br />

Maurizio Viroli, Alida Vitale


La lotta verso ogni forma di violenza contro le donne e lo sviluppo di adeguate forme di<br />

assistenza per le vittime, sono al centro dell’impegno dell’Assessorato alle Pari Opportunità<br />

della <strong>Regione</strong> <strong>Piemonte</strong>.<br />

Nella seconda metà del 2007 è iniziato il percorso che ha portato all’approvazione del<br />

primo “Piano regionale per la prevenzione della violenza contro le donne e l’assistenza alle<br />

vittime”: non un libro dei sogni ma obiettivi definiti e raggiungibili insieme a un concreto<br />

programma di azioni. L’iniziativa ha suscitato l’approvazione generale: le Istituzioni locali<br />

e, attraverso Forum provinciali e un Forum regionale, anche le Istituzioni di parità e il vasto<br />

mondo delle associazioni che operano nel settore hanno espresso il loro consenso.<br />

Per le azioni che hanno accompagnato il Piano e che ne realizzano gli obiettivi l’Assessorato<br />

ha investito più della metà delle risorse a sua disposizione. Un impegno mai assunto prima<br />

d’ora in <strong>Regione</strong>, che ha prodotto nuova sensibilità e iniziative concrete anche da parte<br />

di altri Assessorati, in particolare al Welfare, alla Casa ed alla Sicurezza.<br />

Una simile scelta non poteva non richiedere un corrispondente lavoro di riflessione e<br />

approfondimento, sia sui temi della sicurezza delle donne (in questa direzione va il Manuale<br />

“La città si*cura” prodotto in collaborazione con la Lega Autonomie Locali del <strong>Piemonte</strong>),<br />

sia sul significato della violenza contro le donne e sui contesti entro i quali essa nasce,<br />

cresce e si moltiplica.<br />

Queste riflessioni sono essenziali perché le nostre azioni di prevenzione e di promozione di<br />

una cultura del rispetto e della effettiva parità tra uomini e donne siano efficaci.<br />

In tale ambito si colloca anche la pubblicazione realizzata dall’Osservatorio Campagne<br />

di Comunicazione Sociale che qui presentiamo. Un lavoro interessante, ricco di spunti di<br />

riflessione su un tema che attraversa le culture e le società, che ci deve vedere sempre<br />

vigili rispetto ai suoi sviluppi, alla percezione che di esso ha l’intera società e agli strumenti<br />

più efficaci per contrastarne i crimini.<br />

Giuliana Manica<br />

Assessora alle Pari Opportunità della <strong>Regione</strong> <strong>Piemonte</strong>


Introduzione<br />

Nella storia dell’umanità, sono rare le<br />

questioni paragonabili al tema della violenza contro le donne. Si trovano,<br />

infatti, ben pochi crimini così universalmente condannati e al tempo<br />

stesso così costantemente praticati, da tutti gli Stati, in tutti gli angoli del<br />

mondo senza eccezione di cultura, religione, ricchezza e orientamento<br />

politico.<br />

Nel corso degli anni lo scenario della violenza si è ampliato a dismisura,<br />

con il moltiplicarsi delle forme assunte. Perfettamente al passo con lo<br />

sviluppo delle società nelle quali si manifesta e con il relativo proliferare<br />

dei luoghi e delle relazioni ove la violenza (quella contro le donne, ma<br />

anche qualsiasi altra forma di violenza tra persone) si esprime.<br />

La <strong>Regione</strong> <strong>Piemonte</strong>, alla fine del 2007, ha deciso di impostare una vera<br />

e propria strategia di contrasto, fondata sul “Piano regionale per la<br />

prevenzione della violenza contro le donne e per il sostegno alle vittime”,<br />

e sulle numerosissime attività che dal Piano sono scaturite o che ad esso<br />

si ispirano, anche con riferimento al tema della sicurezza in generale.


Da tutte queste considerazioni parte il lavoro che qui presentiamo e che<br />

si inserisce nell’ambito delle iniziative regionali, con l’obiettivo di offrire<br />

argomenti utili all’approfondimento ed alla riflessione che accompagnano<br />

costantemente l’impegno dell’Istituzione su questi temi.<br />

Il volume raccoglie i contributi di 12 personalità assai diverse per esperienza,<br />

estrazione istituzionale e impegno, che compongono un affresco molto<br />

vario dal punto di vista dei contenuti, ma che ben riflette la complessità<br />

dei temi che si devono affrontare quando si intende operare contro la<br />

violenza (in primis contro la violenza alle donne) in modo organico e non<br />

sporadico.<br />

Esperienze, opinioni e riflessioni offerte da magistrati, docenti, psicologi,<br />

educatori, avvocati, esperti nei vari campi, di cui tenere conto nella<br />

trasmissione di messaggi a contrasto della violenza, così come nella<br />

progettazione di campagne di comunicazione sociale, utili e anzi<br />

indispensabili, su questi temi, affinché gli interventi programmati siano<br />

sempre più efficaci per vincere la sfida che tutti e tutte abbiamo di fronte.<br />

Osservatorio Campagne di Comunicazione Sociale


6 Amedeo Cottino<br />

10 Maurizio Viroli<br />

14 Ermelinda Bertini<br />

18 Raffaella Fusco<br />

24 Franco Prina<br />

30 Umberto Lucia


Giusi Territo e Sandro De Vecchis 34<br />

Fausto Sorino 38<br />

Maurizio Laudi 44<br />

Brunella Ruffa 50<br />

Laura D’Amico 54<br />

Alida Vitale 60


Amedeo Cottino<br />

Professore ordinario di Sociologia del Diritto, Università di Torino<br />

Violenza,<br />

la “normalità”<br />

del male<br />

Gli studi da me condotti nell’ultimo decennio sono tutti,<br />

direttamente o indirettamente, riconducibili ad un unico<br />

interesse: la ricerca del Male e delle sue radici. Sono<br />

consapevole di usare una parola drammatica, forte,<br />

ma credo non ci sia altro termine se non questo per<br />

collocare le mie riflessioni all’interno di un quadro<br />

storico che comprende sia le violenze del secolo<br />

recentemente trascorso, le due Guerre Mondiali, i<br />

campi di sterminio e i Gulag (le cui vittime,<br />

complessivamente, si stima ammontino a 170 milioni),<br />

sia quelle del nuovo millennio (Rwanda, Bosnia-<br />

Erzegovina, Sudan, Darfour, Gaza…).<br />

Detto questo, la mia ricerca ha per oggetto la “normalità”<br />

del male. Aggiungo subito che la scelta del termine<br />

“normale” non è casuale, bensì frutto della mia lettura<br />

dell’aggettivo “banale”, così come coniato a suo tempo<br />

da Hannah Arendt per descrivere la personalità di<br />

Adolf Eichmann, il burocrate nazista responsabile della<br />

cosiddetta “soluzione finale”, lo sterminio di tutti i<br />

‘sottouomini’ (Untermenschen). Ma affermare che “il<br />

male è normale” significa, inevitabilmente, riconoscere<br />

che chiunque, in linea di principio, possa commettere


azioni violente anche estreme. Vorrei subito<br />

precisare che questa affermazione non va intesa<br />

come una provocazione. Esiste infatti, da molti<br />

decenni, una solida documentazione psichiatrica<br />

e psicologica che smentisce l’opinione diffusa<br />

secondo cui i carnefici sarebbero dei mostri, o<br />

comunque delle persone gravemente affette da<br />

turbe psichiche. Nella stragrande maggioranza dei<br />

casi, invece, si tratta di persone assolutamente<br />

normali secondo gli standard correnti, come<br />

rivelano, ad esempio, le perizie psichiatriche<br />

condotte sui criminali nazisti processati dal tribunale<br />

internazionale di Norimberga.<br />

Vorrei brevemente raccontare come il mio<br />

coinvolgimento nel tema del Male e della sua<br />

normalità ha preso piede.<br />

Una decina d’anni fa circa, ebbi l’opportunità di<br />

entrare, per la prima volta, in carcere. Fu la rottura<br />

del silenzio (o forse dell’indifferenza) che, come<br />

per molti altri, aveva regnato tra me e quel mondo.<br />

Lì vissi, per qualche anno, un’esperienza<br />

professionale che mi costrinse a mettere<br />

radicalmente in discussione quelle che erano, e<br />

sono tuttora, le correnti rappresentazioni del crimine<br />

e del criminale. E’ la storia dell’incontro con un<br />

collaboratore di giustizia, Nino, persona con un<br />

pesantissimo carico di omicidi, rapine e traffico di<br />

droga. Iniziammo un comune cammino dove lui fu<br />

la guida, moderno Virgilio, nell’inferno del Cuor di<br />

Tenebra. Quell’esperienza, oltre a mettere a nudo<br />

i miei pregiudizi, mi fece capire fino in fondo che<br />

tra me e lui, tra me ed i suoi compagni di carcere,<br />

non c’erano differenze significative. Ma mi fece<br />

soprattutto capire che io non ero significativamente<br />

diverso da loro. Ho a questo proposito la memoria,<br />

tuttora molto intensa, di un incontro nel corso del<br />

7<br />

quale Nino mi raccontò come<br />

giunse alla decisione di<br />

uccidere una persona.<br />

Costui, malgrado i ripetuti<br />

moniti diretti a lui e ai suoi<br />

familiari, continuava a spacciare<br />

droga per conto proprio, invadendo il mercato<br />

che era invece monopolio di Nino e della sua banda.<br />

“A mali estremi rimedi estremi”, fu il commento di<br />

Nino a margine della decisione di condannarlo a<br />

morte. Ed io risposi: “la capisco”. Soltanto<br />

successivamente, mi resi conto fino in fondo del<br />

significato di quella mia risposta. Io avevo inteso<br />

dirgli che anch’io, in quella situazione, in quelle<br />

circostanze, mi sarei comportato come lui!<br />

Ora, di là da questo episodio, il tema della normalità<br />

del male non può essere affrontato, a mio modo di<br />

vedere, disgiuntamente da quella che il sociologo<br />

norvegese Johan Galtung ha chiamato la violenza<br />

culturale, e cioè l’azione che la cultura egemone<br />

esercita su aspetti importanti del mondo reale. E’<br />

un’azione che si sviluppa in vario modo e che varia,<br />

ovviamente, sia nel tempo sia nello spazio. La realtà<br />

viene oscurata, talvolta fino a negarla; talaltra se<br />

ne cambia la definizione. Così, per un verso, si<br />

afferma che il genocidio degli Armeni non ha mai<br />

avuto luogo, o che le stragi di civili nel corso delle<br />

operazioni militari sono “effetti collaterali”, e i<br />

bombardamenti “operazioni chirurgiche”; oppure<br />

ancora che l’attacco alla striscia di Gaza non è<br />

un’aggressione ma un atto difensivo. Per altro<br />

verso, può essere necessario o utile riconoscere<br />

che una determinata violenza ha avuto luogo. E qui<br />

entrano in gioco, come strumenti di legittimazione<br />

e/o giustificazione, settori portanti della cultura, in<br />

uno spettro che va dalle scienze umane in senso


8<br />

lato alle scienze naturali. E' proprio<br />

all’interno di questi due campi che<br />

la violenza può trovare, per così dire,<br />

una copertura. Non si tratta più infatti<br />

di negare che qualcosa di violento<br />

ha avuto, o sta avendo luogo, bensì<br />

di indicare le ragioni che lo rendano accettabile.<br />

Ed ecco allora il rinvio alla legge e/o all’etica. Si<br />

pensi, rispetto alla prima, all’uso corrente del termine<br />

‘giustizia’ e a quello relativo del verbo ‘giustiziare’<br />

con riferimento alla condanna a morte da parte di<br />

uno Stato. Nel momento in cui si dice che “Tizio<br />

è stato giustiziato” e che dunque è stata fatta<br />

“giustizia”, l’uccisione di Tizio viene legittimata.<br />

Eppure, come osservava Camus oltre cinquanta<br />

anni fa nella sua denuncia della pena di morte, lo<br />

Stato uccide assai di più dei singoli assassini.<br />

Rispetto all’etica, sappiamo bene che uccidere in<br />

guerra non soltanto non è considerato un<br />

comportamento illegittimo, ma può essere visto<br />

come un atto virtuoso, moralmente giustificato,<br />

soprattutto se è frutto del coraggio; e il coraggio<br />

è una virtù.<br />

Per ciò che riguarda poi il coinvolgimento delle<br />

discipline mediche, è sufficiente pensare alle<br />

sperimentazioni condotte sugli umani: da quelle<br />

sugli ammalati di sifilide negli Stati Uniti, ai<br />

programmi di eugenetica attuati per anni in Svezia.<br />

In questi casi è il “superiore” valore del sapere<br />

scientifico, l’autorevolezza della scienza, che<br />

giustificano la violenza (nel primo dei due esempi,<br />

anche una buona dose di razzismo). Infine va detto<br />

- ma non è un rilievo marginale - che la violenza<br />

culturale ha spesso dei “complici”, e questi siamo<br />

tutti noi, gli spettatori. A mio parere, infatti, un’analisi<br />

corretta della violenza non può esaurirsi nel rapporto<br />

tra il carnefice e la vittima. Questo è il<br />

rispettabilissimo punto di vista del diritto, ma è<br />

soltanto uno dei possibili. A mio modo di vedere,<br />

e fino a prova contraria, c’è un Terzo, non<br />

necessariamente presente fisicamente, che non<br />

possiamo scagionare. Un Terzo che, assai più<br />

spesso di quanto siamo disposti ad ammettere,<br />

siamo appunto noi. E’ il Terzo che non vuole vedere.<br />

E’ il Terzo cioè che ha guardato da un’altra parte<br />

quando gli sono sfilati davanti milioni di esseri umani<br />

avviati ai campi di sterminio. Tornando ora al tema<br />

della legittimazione e della giustificazione, le violenze<br />

più drammatiche rispetto alle quali mi pare si<br />

invochino le ragioni del diritto e dell’etica sono la<br />

guerra e il carcere. La prima, forte anche di un<br />

linguaggio che - come ricordavo più sopra - spesso<br />

cerca di nascondere le atrocità che comporta, è<br />

celebrata oggi, messianicamente, come la lotta<br />

contro il Male. Naturalmente non si tratta né del<br />

Male di cui parlavo all’inizio e neppure del Male<br />

soprannaturale, quello legato alle streghe e ai<br />

demoni medioevali. Semmai, ciò che qui colpisce<br />

è il riprodursi di un modello di giustificazione di<br />

origine antica: un tempo l’applicazione della legge<br />

del taglione trovava conforto nei testi sacri, oggi la<br />

violenza della guerra viene giustificata invocando<br />

il mandato ricevuto da un Dio.<br />

Il carcere dal canto suo è il luogo dove si infliggono<br />

legittimamente e giustificatamente sofferenze. Fino<br />

ad epoca recentissima infatti, la società, di là dalle<br />

proclamate ideologie rieducative, ha punito in nome<br />

di una metafisica bilancia (è anche qui, nuovamente,<br />

la legge del taglione) grazie alla quale le sofferenze<br />

della vittima vengono compensate (e in qualche<br />

modo sanate) da quelle inflitte al carnefice. Oggi<br />

sempre meno si invoca quel principio. Oggi il


carcere si legittima come mera risposta alla<br />

domanda di sicurezza che proviene dalla società<br />

civile, ampiamente e consapevolmente alimentata<br />

dai principali media. Anche qui, come nel caso<br />

della guerra, si recupera un modello che pareva<br />

desueto: quello della difesa sociale. A fronte di<br />

individui e gruppi vissuti come pericolosi, in primo<br />

luogo i tossici e gli stranieri clandestini, il carcere<br />

si mostra finalmente per quello che è: un luogo di<br />

mero contenimento del diverso, dell’altro. Fece<br />

scandalo un amico e collega norvegese, Nils<br />

Christie, quando in un suo libro sul carcere, uscito<br />

alla fine del secolo scorso, parlò di Gulag. Temo<br />

sia stato profetico!<br />

Ho parlato finora di violenza e non di crimine e<br />

neppure di devianza. C’è una ragione per questa<br />

scelta. Infatti se è vero che i termini che si scelgono<br />

per sviluppare un pensiero o una teoria non sono<br />

mai buoni o giusti di per sé, ma lo sono<br />

esclusivamente per il loro valore euristico, allora il<br />

termine ‘violenza’ è da preferire agli altri due. A<br />

mio modo di vedere, infatti, e proprio per quanto<br />

ho detto in precedenza sulla violenza culturale,<br />

l’adozione di questo concetto consente di far<br />

emergere quell’universo di comportamenti<br />

inequivocabilmente dannosi che non sono né<br />

sanzionati penalmente (e quindi considerati crimini),<br />

né stigmatizzati socialmente (e pertanto trattati<br />

come devianti). Ora, non è un segreto che le norme<br />

giuridiche in genere, e quelle penali in specie,<br />

riflettono in larga misura i valori dei ceti dominanti.<br />

Ne è un esempio quella che possiamo chiamare,<br />

eufemisticamente, la scarsa attenzione che il<br />

legislatore in genere e, in particolare, quello italiano,<br />

dimostra per i danni che provoca il sistema<br />

produttivo (fondamentalmente, l’insieme delle<br />

9<br />

imprese, delle banche e delle<br />

compagnie di assicurazione),<br />

sia in termini di costi strettamente<br />

economici, sia in<br />

termini di danni alla salute.<br />

Eppure siamo di fronte a<br />

comportamenti la cui nocività è del tutto comparabile<br />

a quella della criminalità organizzata. Ma anche la<br />

nozione di devianza mi pare inadeguata in quanto<br />

si limita, come quella di crimine, a prendere atto di<br />

ciò che, esplicitamente e visibilmente, non viene<br />

considerato conforme al vigente sistema di regole.<br />

In ultimo vorrei sottolineare il nesso tra violenza e<br />

linguaggio, pur con la dovuta attenzione per le varie<br />

modalità attraverso le quali il secondo diventa lo<br />

strumento di diffusione della prima. In generale, mi<br />

pare che gli incitamenti espliciti alla violenza siano<br />

l’eccezione. Probabilmente li possiamo trovare in<br />

contesti che già di per sé sono violenti, come nel<br />

caso delle campagne di pulizia etnica. Un esempio<br />

recente è quello del Rwanda. Qui la radio è stata<br />

uno degli strumenti di terrore e di incitamento al<br />

massacro dei Tutsi. Naturalmente, in forme molto<br />

più blande, ne possiamo trovare tracce nei filmati<br />

televisivi sul crimine dove, di regola, si applaude<br />

alla morte del criminale, dipinto nei suoi aspetti più<br />

orrendi, per mano delle forze dell’ordine o del<br />

giustiziere (buon esempio, quest’ultimo, di violenza<br />

culturale). Senza dimenticare la violenza del<br />

linguaggio maschile riferito alle donne, violenza che<br />

viene mascherata, ma neppure tanto bene, da veli,<br />

talvolta goliardici talaltra rozzamente ironici. Ancora<br />

un esempio di occultamento da parte della violenza<br />

culturale.


Maurizio Viroli<br />

Docente di Teoria Politica, Department of Politics dell’Università<br />

di Princeton, Stati Uniti<br />

Membro del Comitato Scientifico di Ethica*<br />

Etica e diritto:<br />

la forza intelligente per<br />

sconfiggere la violenza<br />

Nel corso delle ricerche condotte per Ethica abbiamo<br />

spesso esaminato la diffusione e la crescita della<br />

violenza nelle società contemporanee, in particolare<br />

nella società italiana. Tra i vari aspetti analizzati, ci<br />

siamo soffermati soprattutto su quello internazionale,<br />

che prende la forma della guerra e dell'attacco<br />

terroristico, e su quello nazionale, che prende la forma<br />

della criminalità organizzata.<br />

Nella storia, la violenza fra gli Stati ha sempre, o quasi,<br />

preso la forma della guerra in senso classico, ovvero<br />

del conflitto fra Stati combattuto da eserciti regolari o<br />

da truppe mercenarie. Nel mondo contemporaneo, le<br />

guerre vedono una presenza sempre più consistente<br />

di truppe a tutti gli effetti “private”, cioè composte da<br />

persone assoldate dall’una o dall’altra fazione per<br />

combattere al di fuori delle regole della guerra stabilite<br />

dal diritto internazionale. Come mercenari dell’età<br />

moderna, le truppe private sono disponibili a compiere<br />

le forme più crudeli di repressione e di sterminio sia<br />

nei confronti di altri combattenti, sia di civili, giudicati,<br />

* Ethica è un forum di ricerca e formazione sull’etica nella vita pubblica. Ha sede ad Asti.


più o meno arbitrariamente, sostenitori del gruppo<br />

nemico.<br />

L’altro aspetto particolarmente inquietante della<br />

violenza nel mondo contemporaneo è il ricorso<br />

all’arma del terrorismo da parte di gruppi che<br />

invocano il riconoscimento di diritti politici e<br />

l’emancipazione nazionale, o da parte di gruppi<br />

che combattono per l’instaurazione di regimi<br />

teocratici in cui il potere politico è al servizio di una<br />

dottrina religiosa rivelata ed interpretata da una<br />

casta di sacerdoti. Il terrorismo usato da popoli o<br />

minoranze oppresse del passato, o da militanti che<br />

proclamavano di agire in nome di quel popolo o di<br />

quella minoranza, cercava di colpire obiettivi molto<br />

precisi e delimitati; il terrorismo contemporaneo,<br />

al contrario, colpisce i suoi obiettivi a caso, purché<br />

siano persone appartenenti ad un determinato<br />

gruppo etnico o religioso. Mentre i terroristi<br />

dell’Ottocento miravano a colpire un re, un tiranno,<br />

un imperatore o personaggi particolarmente<br />

rappresentativi del regime dominante, cercando,<br />

per quanto possibile, di non uccidere o ferire vittime<br />

innocenti, i terroristi contemporanei mirano ad<br />

uccidere o a ferire il maggior numero possibile di<br />

vittime innocenti che appartengono al popolo o al<br />

gruppo religioso che essi identificano come nemico.<br />

Altra differenza fondamentale fra il terrorismo<br />

contemporaneo e quello classico è che, mentre il<br />

primo mira a generare paura nel gruppo nemico e<br />

a galvanizzare il proprio, il secondo mirava<br />

esclusivamente a galvanizzare il gruppo oppresso,<br />

dimostrando che il tiranno non era affatto invincibile.<br />

Da queste considerazioni si potrebbe a rigore<br />

concludere che mentre il “terrorismo” classico era<br />

piuttosto una sopravvivenza o una rinascita del<br />

tirannicidio o della congiura antichi, solo quello<br />

11<br />

contemporaneo merita di<br />

essere definito “terrorismo”<br />

in senso proprio.<br />

Per quanto riguarda la<br />

criminalità organizzata, essa<br />

ha assunto, in Italia, forme<br />

particolarmente odiose e pericolose. È odiosa<br />

perché si svolge in contesti di indescrivibile<br />

abbrutimento ed è praticata da individui che hanno<br />

perso ogni senso della dignità umana; è pericolosa<br />

perché distrugge le basi fondamentali della<br />

convivenza civile sostituendo in ampi territori il<br />

governo degli uomini al governo delle leggi, i poteri<br />

privati a quelli pubblici. Benché l’opinione pubblica<br />

non ne sia consapevole, ogni atto di criminalità<br />

organizzata, anche se non si traduce in omicidi o<br />

in violenze, è un attacco mortale alla Repubblica.<br />

Da sempre la violenza internazionale e quella<br />

nazionale sono profondamente legate al denaro e<br />

al potere, quasi sempre in un rapporto strumentale:<br />

l’esercizio della violenza è il mezzo per ottenere<br />

denaro e potere. Grazie alla violenza i principi del<br />

Rinascimento potevano ottenere grandi somme di<br />

denaro, che poi usavano per rafforzare il loro potere<br />

politico. Ma è vera anche la relazione inversa, nel<br />

senso che il denaro è un mezzo essenziale per<br />

poter esercitare la violenza, sia nel contesto<br />

internazionale sia in quello domestico. Grazie alla<br />

disponibilità di grandi somme di denaro, i gruppi<br />

terroristici e i signori della guerra possono arruolare<br />

e formare militanti, acquistare armi, dotarsi di mezzi<br />

di comunicazione sofisticati. Inoltre, chi già dispone<br />

di potere politico, come ha insegnato Max Weber<br />

con la sua celebre definizione dello Stato, è in<br />

grado di praticare il monopolio della violenza legittima<br />

e, si può aggiungere, praticare la violenza illegittima


12<br />

o privata.<br />

Di fronte alla violenza delle<br />

guerre condotte con<br />

eserciti privati e di fronte<br />

alla violenza organizzata,<br />

l’etica e le convinzioni<br />

morali non bastano. Per vincere contro i signori<br />

della guerra, i terroristi e la criminalità mafiosa<br />

occorrono armi, indagini sofisticate e rischiose,<br />

corpi scelti, leggi e Stati seri. Nessun movimento<br />

pacifista, per quanto bene intenzionato, e nessuna<br />

iniziativa civica contro la mafia potranno mai<br />

convincere chi vive di violenza e per la violenza ad<br />

abbassarsi ad obbedire alle leggi, come tutti gli<br />

altri. Nella mentalità del terrorista o del mafioso c’è<br />

la percezione di essere superiore agli altri esseri<br />

umani, e quindi di essere superiore alle leggi.<br />

Contro persone che hanno queste convinzioni,<br />

l’unica arma efficace è la legge, imposta da uomini<br />

che sanno usare la forza come e meglio dei signori<br />

della guerra, dei terroristi e dei mafiosi.<br />

Al tempo stesso è vero anche che la lotta contro<br />

la violenza internazionale ed interna non si può in<br />

alcun modo vincere senza una vera e propria<br />

rinascita etica. Nel caso specifico della lotta al<br />

terrorismo, uno degli errori più gravi che gli Stati<br />

Uniti hanno commesso durante l’amministrazione<br />

Bush è stato quello di impiegare mezzi, quali la<br />

tortura e la detenzione arbitraria, che violano<br />

esplicitamente le norme etiche e i diritti umani.<br />

Anziché indebolire il terrorismo, questi metodi lo<br />

hanno rafforzato. Le informazioni ottenute con la<br />

tortura e con la detenzione arbitraria sono state di<br />

poco valore, mentre i militanti delle organizzazioni<br />

terroristiche hanno esteso il loro prestigio mostrando<br />

che la potenza che si ergeva a paladina dei diritti<br />

umani in realtà li calpestava senza scrupoli. La<br />

politica della forza si è rivelata, alla prova dei fatti,<br />

una politica di debolezza. La vera politica della<br />

forza, come l’Amministrazione Obama sta indicando,<br />

è soltanto quella che sottomette l’uso della forza<br />

all’etica e al diritto.<br />

Considerazioni analoghe valgono anche per la<br />

difficile lotta contro la criminalità organizzata. Posto<br />

che l’uso della forza è assolutamente indispensabile,<br />

altrettanto necessario è il rispetto delle regole etiche<br />

e della legge. Lo Stato deve infatti dimostrare nel<br />

modo più chiaro che la sua violenza non ha nulla<br />

in comune con la violenza dei criminali. Oltre al<br />

rispetto della legalità e dei principi etici da parte<br />

delle forze di sicurezza, è necessario un forte<br />

impegno educativo inteso a fare crescere fra i<br />

cittadini un sentimento di totale repulsione nei<br />

confronti dei metodi impiegati dalla criminalità<br />

organizzata. È ormai opinione comune che la<br />

criminalità organizzata riesca a reclutare adepti in<br />

zone segnate da un profondo degrado morale e<br />

civile, e dunque l’opera di bonifica morale è tanto<br />

necessaria e difficile quanto quella di repressione<br />

vera e propria.<br />

In conclusione, in un mondo sempre più segnato<br />

dalla violenza incontrollata e incontrollabile, sia nel<br />

contesto internazionale sia in quello domestico, le<br />

sole risposte efficaci sono l’uso intelligente della<br />

forza guidata dai principi etici e dal diritto, e<br />

l’impegno serio verso l’educazione civile.


Sono 6 milioni e 743 mila<br />

le donne tra 16 e 70 anni<br />

che dichiarano di essere state vittime<br />

di violenza fisica o sessuale<br />

nel corso della vita.<br />

La quasi totalità dei casi di violenza<br />

non è denunciata (96% dei casi di violenza da non<br />

partner e 93% dei casi di violenza da partner).<br />

ISTAT,<br />

"La violenza e i maltrattamenti<br />

contro le donne dentro e fuori la famiglia", 2007<br />

15


Ermelinda Bertini<br />

Psicologa. Giudice Onorario presso il Tribunale dei Minori di Torino<br />

Passato e presente delle<br />

dinamiche familiari,<br />

tra capacità di mediare<br />

e risposte violente<br />

Sono psicologa dell’infanzia. Per 35 anni mi sono<br />

occupata dello stesso territorio, cioè l’ampia area di<br />

Porta Palazzo, centro fra i più antichi della nostra città,<br />

da sempre caratterizzato da forte deprivazione sociale,<br />

e ne ho seguito i cambiamenti.<br />

Oggi, come Giudice Onorario presso il Tribunale dei<br />

minori di Torino, ho la possibilità di una visione molto<br />

più ampia dei fenomeni involutivi o evolutivi della società<br />

odierna.<br />

Le violenze che si consumano nei contesti familiari,<br />

oggi, sono diverse rispetto al passato?<br />

Prima di tutto è cambiata la famiglia, a livello sia<br />

concettuale, sia dei ruoli e dei rapporti all’interno.<br />

Quando ho cominciato la mia attività, Porta Palazzo<br />

era abitata per lo più da emigranti dal Sud Italia. Il<br />

modello di famiglia era quello patriarcale, i matrimoni


erano per così dire “combinati”; gli uomini, infatti,<br />

consolidata la posizione lavorativa, tornavano al<br />

Sud a prendere moglie; i bambini erano cura<br />

esclusiva della madre, mentre il padre, “esterno”<br />

alla famiglia, era addetto al mantenimento dei vari<br />

componenti; le violenze non mancavano, ma erano<br />

assorbite dal contesto familiare.<br />

E ricordo bene i volti delle donne sui quali si leggeva<br />

la fatica, spesso il trauma, del passaggio dai loro<br />

quieti paesini calabresi, siciliani o sardi ove i cortili<br />

erano protettivi, la pratica del comarato e l’esistenza<br />

di una solida rete familiare offrivano solidarietà e<br />

sicurezza, alla grande città con le sue profonde<br />

differenze di cultura, di relazioni..., ove non si<br />

sentivano accolte, ma si ritrovavano isolate.<br />

Le rivedo, quelle mamme, all’uscita della scuola<br />

(era il Parini e i bambini facevano la prima elementare)<br />

in cerca di discorsi comuni, catapultate<br />

in uno spazio privo di parrocchie, di oratori, di<br />

giardini, che non poteva offrire occasioni di incontro,<br />

di relazioni interpersonali. In questa realtà difficile<br />

i bambini, pur favoriti dal rapporto con compagni<br />

di scuola e insegnanti, a casa captano la fragilità<br />

delle figure parentali e a loro volta sono indeboliti<br />

nel processo di crescita culturale.<br />

Nell’arco di 35 anni avvengono grandi trasformazioni;<br />

alla famiglia patriarcale si sostituisce<br />

un modello molto più spezzettato e la rete, con il<br />

suo importantissimo compito di assorbire e<br />

stemperare le tensioni familiari, si disintegra<br />

accentuando le difficoltà: ciò che rimane è il senso<br />

di deprivazione.<br />

Nelle realtà familiari deprivate, tra difficoltà di<br />

comunicazione, frustrazioni e fallimenti, dove<br />

15<br />

vengono meno il sostentamento<br />

e la sicurezza economica,<br />

è quasi automatico<br />

l’aumento delle violenze, da<br />

quelle ad altissimo rischio, ai<br />

casi più lievi di violenze assistite.<br />

E a pagarne il prezzo sono i più piccoli.<br />

I bambini che ho osservato sono stati molti e spesso,<br />

approfondendo l’anamnesi, ho visto chiaramente<br />

che tensioni, dinamiche di violenza, maltrattamenti<br />

sono fattori persistenti nel tempo, si perpetuano<br />

nelle varie generazioni. Prima, però, erano assorbiti<br />

dalla famiglia, ora, invece, venute meno le protezioni<br />

della rete, più facilmente esplodono all’esterno.<br />

Senza arrivare a concetti estremi di violenze gravi<br />

o abusi, se un bambino cresce in ambienti ove la<br />

violenza è una costante, se la subisce regolarmente<br />

dai genitori, con i quali ha comunque una relazione<br />

improntata ad aggressività, cresce in lui un<br />

attaccamento primario (la psicologia ne elenca<br />

varie forme) insicuro, che lo renderà un adulto non<br />

abbastanza consapevole ed equilibrato. Del resto,<br />

proprio la carenza di equilibrio, di gratificazioni<br />

affettive, professionali,…deteriora progressivamente<br />

la crescita degli individui nel succedersi delle<br />

generazioni familiari.<br />

Se continuiamo il ragionamento e cerchiamo di<br />

risalire alle cause principali delle attuali manifestazioni<br />

di violenza, ci colpisce un fatto.<br />

I contesti nei quali viviamo, in tutti gli ambienti<br />

sociali, indipendentemente dalle condizioni culturali<br />

ed economiche, oggi offrono modelli di comportamento<br />

caratterizzati da comunicazione aggressiva,<br />

da azioni e reazioni violente.


16<br />

Questo perché nelle<br />

relazioni umane è venuta<br />

a mancare la mediazione:<br />

nessuno ce la insegna e<br />

all’interno delle famiglie<br />

non ci sono più figure<br />

carismatiche in grado di farlo.<br />

Del resto, nelle società caratterizzate da isolamento<br />

comunicativo, tutte le gratificazioni alla base della<br />

crescita come individui finiscono per concentrarsi<br />

in una sola o in pochissime persone, perciò è su<br />

di esse che tutto si scarica.<br />

Oggi, di fronte a relazioni che non funzionano,<br />

nessuno sa affrontare il problema attraverso<br />

comportamenti fondati sulle regole della<br />

conciliazione, della ricerca di altre strade possibili,<br />

del rispetto dell’altro, dell’attesa.<br />

E senza considerare le patologie!<br />

La vita delle relazioni affettive è diventata assai più<br />

ardua; è faticoso costruirle e tutto si complica<br />

se consideriamo i ritmi di vita e di lavoro; il tempo<br />

libero, così difficile da avere e, se c’è, da rendere<br />

appagante attraverso esperienze affettive condivise.<br />

L’affettività ha perso significato e anche qui i più<br />

colpiti sono bambini e anziani, gli anelli deboli della<br />

catena.<br />

Quanto all’immigrazione, sia antica sia dei giorni<br />

nostri, sicuramente può generare violenza per tutto<br />

ciò che i migranti subiscono in termini di<br />

sradicamento, di sensazione di appartenere a nulla.<br />

In proposito, avendo molto viaggiato e frequentato,<br />

libera da pregiudizi politici e religiosi, ho maturato<br />

una convinzione circa il rapporto fra le donne arabe<br />

e il velo: quando arrivano in Europa per viverci, il<br />

loro fortissimo attaccamento al velo, secondo me,<br />

è dovuto al senso di protezione che offre loro, ma<br />

soprattutto al fatto che l’oggetto diventa simbolo<br />

forte di appartenenza.<br />

Leggendo i giornali e seguendo l’informazione<br />

radiotelevisiva, sorge spontaneo un altro<br />

interrogativo: le violenze estreme, come l’abuso,<br />

sono aumentate anche in famiglia?<br />

Posso rispondere affermativamente proprio grazie<br />

all’attuale esperienza di giudice al tribunale dei<br />

minori.<br />

Immaginiamo comunicazione e relazioni affettive<br />

interfamiliari come un iceberg: sollevandosi la cima,<br />

l’intera massa dilaga liberamente. Per esempio,<br />

sono in aumento i delitti familiari (soprattutto al<br />

Nord); scheletri nell’armadio, “segreti di famiglia”<br />

sono sempre esistiti, ma tutto era custodito e attutito<br />

dalla rete, che moderava i conflitti, dava solidità<br />

all’istituzione familiare e una formazione più<br />

equilibrata ai vari componenti.<br />

Oggi si evidenzia un andamento “frenetico” della<br />

società: sempre più numerose sono le famiglie che<br />

si spezzano; i coniugi mettono al mondo figli con<br />

nuovi compagni, a loro volta già genitori, poi anche<br />

queste convivenze finiscono ed ecco che si<br />

ricomincia: nuove relazioni, nuovi figli...<br />

Il concetto è quello di “famiglia allargata”, ma le<br />

basi non sono più quelle del modello classico: oggi<br />

si ritiene che sia indispensabile fare un figlio, per<br />

puntellare una relazione, senza considerare le<br />

conseguenze. Soprattutto senza mettere in conto<br />

la fatica che richiede la tenuta di una vera famiglia<br />

allargata in termini affettivi, di mediazione, di rispetto<br />

delle differenze, eccetera.<br />

Le differenze si rifiutano e sono poche le coppie


che le considerano una ricchezza e come tale<br />

sanno usarle, capacità importantissima soprattutto<br />

nelle famiglie miste, che si stanno moltiplicando.<br />

Penso che sulla qualità di futuro che ci attende<br />

incideranno notevolmente sia la capacità degli<br />

individui di accettarsi con le rispettive diversità, sia<br />

il grado di consapevolezza dell’importanza di<br />

recuperare il rispetto interpersonale, gli strumenti<br />

conciliativi e di mediazione.<br />

Quale il prezzo sociale della violen<br />

Quali che siano le origini e le cause, la violenza ha<br />

sempre un prezzo sociale alto, soprattutto per le<br />

generazioni future.<br />

In una società, quale è la nostra, in rapido<br />

deterioramento dal punto di vista dei valori, chi vive<br />

esperienze di violenza, se non viene assistito e non<br />

riesce a trovare una strada per elaborare la sua<br />

storia, tende a riproporla nei modi più vari.<br />

Purtroppo oggi, a fronte dei bisogni evidenti di<br />

appoggio psicoterapico, sia dei giovani che usano<br />

sostanze (cocaina in testa) in funzione compensativa,<br />

quasi farmacologica, per placare angosce, ansie<br />

da prestazione, sia dei bambini, gli investimenti<br />

programmati sono quasi inesistenti.<br />

Le cure della mente e dell’anima possono<br />

concedersele solo le persone libere da problemi<br />

economici, che purtroppo non costituiscono la fetta<br />

più grande della nostra società.<br />

Tanti progetti, tante belle parole, ma non si investe.<br />

Forse questi settori non sono considerati strategici,<br />

eppure sono veramente numerose le situazioni di<br />

“disturbo lieve”, nelle quali una psicoterapia<br />

potrebbe ridurre notevolmente il danno.<br />

17<br />

Gli psicologi attendono da 15<br />

anni un concorso per regolari<br />

assunzioni nel servizio<br />

pubblico che, invece, utilizza<br />

per lo più convenzioni; da<br />

oltre 20 anni, poi, si attende<br />

una legge istitutiva dello psicologo scolastico, che<br />

già esiste negli Stati europei, dalla Francia<br />

all’Inghilterra. Eppure si tratta di pura prevenzione,<br />

della possibilità di individuare precocemente<br />

situazioni in grado di aggravarsi: un livello di cura<br />

molto semplice, che però rappresenterebbe uno<br />

strumento di grande utilità per prevenire problemi<br />

futuri di ben diversa gravità.


Raffaella Fusco<br />

Ispettore Capo Polizia di Stato<br />

Responsabile dell'Ufficio Minori, Questura di Novara<br />

Formare, interagire<br />

e prevenire:<br />

così si contrasta la<br />

violenza domestica<br />

L'Ufficio Minori è stato istituito nel 1996 dal Ministero<br />

dell'Interno ed opera in tutte le Questure d'Italia<br />

nell'ambito della Divisione Anticrimine, per occuparsi<br />

della violenza agita, subita e assistita dai minori.<br />

Opera in un campo nuovo, come sportello aperto al<br />

pubblico per segnalare, chiedere consigli o denunciare,<br />

ma anche come ufficio di mediazione nei casi di disagio<br />

e conflittualità familiare, con compiti di prevenzione e<br />

di intervento (richiesto dalle volanti, dai servizi sociali,<br />

cittadini o scuole) soprattutto quando i minori sono<br />

vittime o autori di reati o si trovano in condizione di<br />

disagio, tutto in sintonia con l’ampio progetto di vicinanza<br />

ai cittadini che va sotto il nome di “polizia di prossimità.<br />

Collabora con l’altra “sezione minori” esistente, che<br />

ha ruolo investigativo; insieme alla Squadra Mobile e<br />

alle volanti, forma il team incaricato di trattare i casi di


violenza, per ammortizzare l'impatto dell'intervento<br />

della polizia sui bambini coinvolti.<br />

Strategia e tecniche hanno subito una radicale<br />

trasformazione nel 2006 quando ho partecipato,<br />

con i responsabili degli Uffici Minori di tutte le<br />

Questure italiane, ad un corso di formazione sul<br />

tema dei maltrattamenti familiari.<br />

Il corso, organizzato a Roma dalla Polizia di Stato<br />

all'interno del Progetto Europeo Daphne, era curato<br />

dalla professoressa Anna Baldry, grande esperta<br />

del settore, e aveva come obiettivo quello di<br />

prepararci all’adozione di un nuovo metodo<br />

sperimentato con successo in Canada.<br />

La differenza sta nell’approccio al tema della violenza<br />

domestica, trattato finalmente da un punto di vista<br />

non solo giuridico, ma multidisciplinare, con il triplice<br />

obiettivo di far emergere la realtà (solo il 10%<br />

denuncia il proprio aguzzino), di migliorare<br />

l’accoglienza della vittima e, infine, di valutare con<br />

precisione il rischio di recidiva del partner violento<br />

secondo una procedura definita S.A.R.A. (Spousal<br />

Assault Risk Assessment), che utilizza strumenti<br />

mutuati dalla criminologia e dalla psicologia forense,<br />

per prevenire i casi di uxoricidio.<br />

Nel passato anche recente, in Questura i colleghi<br />

accoglievano le donne maltrattate dicendo: “signora,<br />

è suo marito, cerchi di fare pace..”, in nome della<br />

tutela di un principio comunque sacrosanto, vale<br />

a dire la tutela dell’unità familiare. L’emersione del<br />

fenomeno e le successive esperienze hanno fatto<br />

ritenere che, probabilmente, in molti casi era venuto<br />

meno l’oggetto stesso della tutela: non esisteva<br />

più l’unità familiare, frantumata da quotidiane o<br />

comunque frequenti violenze domestiche.<br />

Il metodo si basa sull’attento ascolto di chi ha subito<br />

19<br />

violenza, al fine di comprenderne<br />

le caratteristiche<br />

psicologiche, rispettandone<br />

le pause e le espressioni.<br />

L’attenzione e l’interesse<br />

dimostrati all’ascolto del<br />

racconto migliorano indubbiamente<br />

la percezione di accoglienza della vittima.<br />

Dopo alcuni anni di esperienza, posso affermare<br />

che è proprio la formazione a fare la differenza.<br />

Novara è una realtà avanzata per quanto riguarda<br />

il contrasto ai maltrattamenti familiari.<br />

E’ stato stipulato, su iniziativa della Provincia, un<br />

“Protocollo di intesa per la prevenzione delle violenze<br />

domestiche” con la creazione di una “rete” di servizi<br />

integrati formata da Enti istituzionali, con l’obiettivo<br />

di affrontare il fenomeno secondo la specificità del<br />

contributo offerto da ogni singolo servizio.<br />

La violenza domestica, infatti, richiede una pluralità<br />

di risposte, poiché molte sono le esigenze che la<br />

vittima esprime: dall'incolumità personale alla<br />

sicurezza per i propri figli, dal supporto psicologico<br />

alla tutela legale, dalla necessità di trovare un lavoro<br />

a quella di rifugiarsi in un luogo sicuro.<br />

Il primo problema che ci siamo trovati ad affrontare<br />

in Questura è stato quello di far emergere il<br />

fenomeno nella nostra Provincia, poiché i dati a<br />

disposizione non erano sufficienti. Gli interventi<br />

delle volanti per liti in famiglia erano tanti, ma la<br />

maggior parte delle informazioni raccolte erano<br />

piuttosto scarne. La formazione ricevuta e<br />

l’esperienza progressivamente acquisita hanno<br />

insegnato che dietro una richiesta di aiuto alla<br />

Polizia, si cela quasi sempre un vissuto di<br />

maltrattamenti di almeno 3-5 anni. Per questo, ogni


20<br />

intervento doveva essere<br />

necessariamente approfondito.<br />

Polizia sono stati dunque<br />

opportuna-mente formati<br />

e sensibi-lizzati ed è<br />

cresciuto il loro coinvolgimento e anche la<br />

soddisfazione sia professionale, sia personale.<br />

Per migliorare il sistema di raccolta dei dati, abbiamo<br />

creato un modulo informativo che gli operatori delle<br />

volanti devono compilare nei casi di intervento per<br />

violenza domestica. Il modulo, basato sulle linee<br />

guida della procedura S.A.R.A., è assai schematico<br />

e permette la valutazione dei 10 fattori di rischio di<br />

recidiva previsti dalla procedura stessa. Gli elementi<br />

da rilevare, sui quali si fonda la valutazione del<br />

rischio, sono numerosi: l'operatore indica il presunto<br />

reato per il quale si procede (scegliendo tra un<br />

elenco prestampato), riporta i dati di chi ha richiesto<br />

l'intervento, della vittima e del maltrattante e la<br />

relazione tra vittima e sospettato; specifica se è<br />

stato necessario il ricorso all'intervento di un medico,<br />

se la donna ha figli e se essi erano presenti al<br />

momento della violenza, se eventi simili si sono già<br />

verificati e con quale frequenza e se c'è già stato<br />

un intervento della polizia; verifica, infine, se la<br />

donna ha già denunciato il partner, se quest'ultimo<br />

fa uso di psicofarmaci, sostanze alcoliche o<br />

stupefacenti o possiede armi da fuoco (in tal caso<br />

può esserne disposto il sequestro). Il modulo lascia<br />

spazio anche ad annotazioni integrative utili.<br />

E sono proprio la ricchezza del rapporto elaborato,<br />

le lunghe e dettagliatissime note aggiunte nello<br />

spazio dedicato, la dimostrazione dell’accresciuta<br />

sensibilità degli operatori. Il rigore con il quale si<br />

compila il modulo costituisce per il maltrattante un<br />

elemento di forte apprensione, poiché ingenera in<br />

costui la consapevolezza che esso è documento<br />

certo di una situazione di fatto constatata.<br />

Il modulo viene protocollato e registrato in un data<br />

base, nonché conservato nell'archivio cartaceo<br />

della Questura. Oltre a fornire i dati sul numero e<br />

le caratteristiche degli interventi, è considerato<br />

dalla Procura un atto di elevata rilevanza ai fini della<br />

formazione della prova nell’eventuale futuro giudizio.<br />

Se la situazione appare rischiosa già dal primo<br />

impatto, la vittima viene invitata a presentarsi in<br />

ufficio per un colloquio informale teso a rassicurarla<br />

e ad accrescere il senso di fiducia verso le Istituzioni<br />

e gli Enti preposti alla trattazione del problema.<br />

Durante il colloquio non vengono esercitate pressioni<br />

per indurla a denunciare formalmente l'accaduto<br />

e la vittima raramente si mostra reticente. Le<br />

vengono quindi illustrati i possibili percorsi di uscita,<br />

ciò che il territorio offre, cosa potrebbe fare<br />

personalmente e cosa possono fare le Istituzioni.<br />

Di solito, al termine del colloquio, appare rincuorata.<br />

Sono momenti nei quali ci si rende conto<br />

dell'importanza e dell'efficacia degli strumenti e<br />

delle tecniche appresi durante la formazione: sin<br />

dalle prime battute dell'incontro, infatti, si riescono<br />

ad intuire e quindi a prevedere le dinamiche dei<br />

maltrattamenti, che saranno descritte poi dalla<br />

stessa vittima. E quando la vittima avverte che<br />

qualcuno comprende il dramma vissuto ha la<br />

sensazione di essere ascoltata con interesse e<br />

rispetto, di non essere più sola. Capisce di avere<br />

un rifugio e si convince della possibilità di allontanare<br />

davvero il maltrattante. E allora, tranquilla, comincia<br />

il racconto.


Viene informata che, per sottrarsi alla violenza,<br />

esistono vie alternative a quella giudiziaria, come,<br />

ad esempio, i centri anti-violenza e i servizi sociali.<br />

La Provincia di Novara, inoltre, previo stanziamento<br />

finanziario da parte della <strong>Regione</strong>, ha stipulato una<br />

convenzione con un albergo dove la vittima può<br />

rifugiarsi in situazioni di urgenza per un massimo<br />

di 4 giorni, al termine dei quali viene presa in carico<br />

dai servizi sociali del territorio, anche in un luogo<br />

protetto se la situazione è particolarmente difficile.<br />

Vi sono vicende che vengono arginate con un<br />

semplice esposto presentato in Questura: in tali<br />

circostanze, la Polizia si incarica di vigilare ed<br />

eventualmente di esercitare una funzione di<br />

mediazione.<br />

In taluni casi, quando il comportamento violento<br />

(percosse, lesioni, violenza sessuale, maltrattamenti<br />

economici, come la negazione dell'accesso al<br />

reddito o al patrimonio familiare, ma anche<br />

maltrattamenti psicologici) si ripete, può configurare<br />

il reato di “maltrattamenti in famiglia” (articolo 572<br />

del Codice Penale) e allora, d'intesa con la Procura<br />

della Repubblica, si decide di procedere d'ufficio<br />

contro il maltrattante. Tutti i gesti elencati, infatti,<br />

concorrono alla valutazione del rischio di recidiva<br />

e, se ripetuti, consentono di agire anche se le<br />

vittime si rifiutano di sporgere denuncia,<br />

specialmente se alle violenze assistono minori.<br />

Assistere ad una violenza, particolarmente per un<br />

minore, equivale a subirla.<br />

Nei casi descritti, si ritiene necessario agire anche<br />

per non dare sfogo al fenomeno.<br />

Fino a qualche tempo fa il partner violento sapeva<br />

che la donna non lo avrebbe mai denunciato.<br />

La preparazione non ancora completa delle forze<br />

21<br />

dell'ordine e la scarsa<br />

riprovazione sociale del<br />

fenomeno, ridotto a fatto<br />

privato, davano al maltrattante<br />

un senso di impunità quasi<br />

totale. L'onere della prova,<br />

inoltre, gravava di fatto sulla vittima.<br />

L'attività istituzionale ha raggiunto, oggi, uno scopo<br />

preventivo: il partner violento sa che non resterà<br />

impunito.<br />

Dai racconti delle vittime emergono storie molto<br />

simili. I maltrattatori sono tutti uguali: nelle<br />

espressioni, nei modi di colpire e di rappresentare<br />

se stessi. E la violenza domestica è un fenomeno<br />

trasversale ai ceti sociali. Una volta presi in esame<br />

due coppie. La prima era mista: lei italiana laureata<br />

in legge, lui egiziano, diplomatico; la seconda era<br />

di Novara, del ceto medio. Coprendo i loro dati<br />

anagrafici, mostrai i due casi ad un collega: le storie<br />

erano talmente simili che era impossibile capire chi<br />

era lo straniero e chi l'italiano, chi aveva la laurea<br />

e chi no, chi era il diplomatico e chi l'operaio. Le<br />

espressioni della violenza domestica sono<br />

globalizzate e non c'è religione, cultura o ceto<br />

sociale che intervenga a modificarle. Non solo la<br />

violenza colpisce tutti gli ambienti, ma lo fa con le<br />

stesse modalità, con lo stesso linguaggio. Se quella<br />

che si consuma nelle famiglie appartenenti al ceto<br />

medio - alto è meno raggiungibile, più sommersa,<br />

secondo me la ragione sta nella necessità di<br />

salvaguardare più cose, la donna ha un'immagine<br />

da tutelare e perde di più, anche in termini economici<br />

se si allontana dal partner.<br />

Il numero delle denunce per maltrattamenti nella


22<br />

Provincia di Novara, tra<br />

il 2005 e il 2008, è<br />

cresciuto del 40%,<br />

variazione che pensiamo<br />

sia legata ad un aumento<br />

non tanto delle violenze,<br />

quanto del numero di donne che hanno il coraggio<br />

di denunciarle, e non è un caso che ciò sia avvenuto<br />

proprio con l’inizio del nuovo programma.<br />

Abbiamo fatto grandi campagne informative e<br />

pubblicitarie, una delle quali curata direttamente<br />

dalla Questura, abbiamo organizzato un convegno<br />

nazionale, che ha avuto un forte risalto mediatico<br />

e altre iniziative sono in programma, così come<br />

proseguiremo la formazione degli agenti di Polizia.<br />

Del resto posso dire che l'emersione delle violenze<br />

ha un picco ogni volta che un evento pubblico o<br />

un articolo di giornale presentano la nostra attività.<br />

La maggior parte delle donne, tuttavia, non<br />

denuncia. Dopo i primi maltrattamenti, non vuole<br />

perdere il padre dei propri figli, l'uomo che ha<br />

scelto per sé, e tenta di ricucire il rapporto. Quelle<br />

che si rivolgono a noi hanno superato questa fase<br />

e del proprio partner hanno solo paura, per<br />

l’incolumità loro e dei figli, ma anche dell'ignoto,<br />

perché magari sono senza lavoro, o lavorano e<br />

sono private dei loro risparmi, o ancora perché<br />

sono state isolate dalla famiglia di origine.<br />

Si litiga soprattutto fra coniugi o partner, e i momenti<br />

tipici di esplosione della violenza sono le sere e i<br />

fine settimana, quando si trascorre insieme più<br />

tempo. Negli ultimi quattro anni, fortunatamente,<br />

in Provincia di Novara non si sono registrati uxoricidi,<br />

ricordo alcuni interventi per liti tra genitori e figli<br />

adulti, che scoppiano quando ci sono problemi<br />

relazionali gravi o il consumo di sostanze alcoliche<br />

o stupefacenti, e 4 interventi per violenza su minori.<br />

Si tratta di pochi e sporadici casi, che non ci hanno<br />

mai allarmato. Occorre ricordare, tuttavia, che nella<br />

maggior parte dei casi alle violenze che coinvolgono<br />

gli adulti sono presenti i minori.<br />

Per le donne straniere mi piacerebbe lanciare una<br />

proposta. Si dice che soprattutto le arabe si<br />

rassegnino più facilmente al dolore e alla violenza;<br />

io non lo credo, penso al contrario che la loro<br />

sensibilità sia del tutto simile a quella delle italiane,<br />

e lo conferma anche l'aumento di denunce registrato<br />

negli ultimi anni. Certamente, poiché il loro permesso<br />

di soggiorno è vincolato a quello del marito con il<br />

quale si sono ricongiunte, subiscono in maniera<br />

più forte il ricatto del maltrattante. Se si separano,<br />

hanno sei mesi di tempo per trovare un lavoro ed<br />

ottenere un permesso di soggiorno; se si rivolgono<br />

al nostro Ufficio per denunciare i maltrattamenti<br />

subiti, ricevono un permesso temporaneo, che<br />

scade al termine della procedura giudiziaria.<br />

Sarebbe dunque logico che l'articolo 18 del Testo<br />

Unico sull'immigrazione, che già fornisce un<br />

permesso stabile alle vittime della tratta e della<br />

riduzione in schiavitù, fosse esteso alle donne<br />

straniere vittime di maltrattamenti familiari.<br />

Se ciò avvenisse, saremmo pronti a procedere con<br />

le azioni che costituiscono l'essenza del nostro<br />

lavoro, vale a dire allargare lo spazio di tutela offerto<br />

alle vittime e contestualmente privare il maltrattante<br />

di una parte dei suoi strumenti di ricatto e di<br />

prevaricazione.


Le percentuali di donne che in <strong>Piemonte</strong><br />

si sono dichiarate vittime di violenza sessuale o fisica<br />

e di donne<br />

che non hanno denunciato tali violenze<br />

sono più alte della media nazionale.<br />

ISTAT,<br />

"La violenza e i maltrattamenti<br />

contro le donne dentro e fuori la famiglia", 2007


Franco Prina<br />

Professore Associato di Sociologia della Devianza, Università di Torino<br />

Violenze antiche,<br />

violenze<br />

contemporanee:<br />

a cambiare sono<br />

percezione e strumenti<br />

Parlare di violenza nella società contemporanea è assai<br />

complesso, così come non è semplice analizzare le<br />

trasformazioni nel tempo delle sue varie forme. Anzitutto<br />

è necessario definire il quadro di riferimento: il concetto<br />

di “società contemporanea” implica un orizzonte spaziale<br />

molto ampio, pertanto vorrei limitare le mie osservazioni<br />

al contesto locale e nazionale, considerandole valide<br />

anche per Paesi simili al nostro, senza spingermi verso<br />

contesti lontani.<br />

Fatta questa premessa, non credo si possa parlare di<br />

forme nuove in assoluto poiché la violenza nelle sue<br />

diverse dimensioni si riproduce. Certamente, se<br />

pensiamo al bullismo condotto attraverso i telefonini<br />

e tramite la riproduzione di scene che possono costituire<br />

una violenza psicologica, è chiaro che si tratta di<br />

manifestazioni inedite, ma la novità è legata semplicemente<br />

agli strumenti impiegati, che prima non<br />

esistevano. Se parliamo invece delle classiche distinzioni<br />

tra violenza strutturale, violenza simbolica*, violenza<br />

diretta, fisica o psicologica nelle relazioni interpersonali,<br />

* La violenza simbolica è esercitata dal sistema culturale dominante, che induce le persone a<br />

ragionare e a comportarsi in maniera massificata; è una violenza di cui i soggetti non si rendono<br />

conto. La violenza strutturale, invece, è rappresentata dalle costrizioni che il sistema sociale e<br />

quello economico pongono sugli individui, costrizioni che in genere sono accettate come normali.


si può senza dubbio affermare che si tratta di forme<br />

presenti da sempre, anche se, nelle loro<br />

esplicitazioni, si articolano in maniera più radicata<br />

nel contesto culturale e relazionale contemporaneo.<br />

Alcuni riterrebbero interessante misurare “la<br />

quantità” di violenza presente nella società attuale<br />

e cercare di compararla a quella esistita nelle varie<br />

epoche. A mio avviso si tratta di un’operazione<br />

piuttosto difficile e che, in ogni caso, richiederebbe<br />

grande cautela. Esistono, infatti, seri problemi<br />

metodologici nelle comparazioni di carattere<br />

diacronico, cioè tra periodi, a cominciare dalla<br />

disponibilità di dati e dai fattori che influenzano la<br />

raccolta dei dati stessi, come ad esempio il grado<br />

di sensibilità sociale rispetto alla violenza e la<br />

conseguente percezione del fenomeno. Se, per<br />

esempio, leggiamo i romanzi che raccontano la vita<br />

delle metropoli tra la fine dell’Ottocento e l’inizio<br />

del Novecento, vediamo bene quanta violenza e<br />

insicurezza vi fossero. Eppure tutti, oggi, tendono<br />

a vivere le città contemporanee come luoghi<br />

particolarmente insicuri e violenti. Analogamente,<br />

pensando alla violenza intrafamiliare, sembra che<br />

oggi la propensione sia maggiore rispetto al passato.<br />

Sono tutte valutazioni non confortate dalla<br />

disponibilità di dati certi; abbiamo solo di indizi da<br />

interpretare con cautela.<br />

In generale, non direi che esistono ragioni per<br />

parlare di un aumento della violenza. Le città sono<br />

senza dubbio più sicure rispetto a qualche decennio<br />

fa. Per quanto riguarda invece la violenza in famiglia,<br />

è vero che vi sono circostanze che possono far<br />

pensare a forme di reazione oppure a difficoltà<br />

degli adulti nel rapporto con i bambini, tali da indurli<br />

a comportamenti di prevaricazione o di abuso.<br />

25<br />

Tuttavia, molti altri indizi ci<br />

fanno dire che quel tipo di<br />

violenza si è perpetrata in<br />

modo analogo in altri contesti<br />

e in altre epoche.<br />

Analoghe considerazioni<br />

valgono per le prevaricazioni e per la violenza che<br />

si esplicitano nell'ambito scolastico tra coetanei,<br />

oppure da parte degli insegnanti e degli adulti nei<br />

confronti dei minori. Quest’ultima, anzi, un tempo<br />

era tollerata mentre oggi non lo è più.<br />

Come pure, se volessimo andare in aree dove la<br />

criminalità organizzata è presente, non possiamo<br />

certo dire che si tratta di una situazione che si sta<br />

risolvendo, ma è assolutamente corretto affermare<br />

che ci sono molti segnali di rivendicazione del diritto<br />

a non vivere in un contesto segnato dalla violenza<br />

o da altre forme di prevaricazione.<br />

Non parlerei quindi di un peggioramento generale,<br />

ma direi che è difficile comparare situazioni di<br />

questo tipo, quando i metodi con cui oggi studiamo<br />

i fenomeni non erano diffusi in altre epoche.<br />

Sono convinto che la nostra percezione di aumento<br />

della violenza è alimentata dal fatto che oggi vi è<br />

una diversa concezione dei diritti delle persone.<br />

Quelle che ieri venivano assunte come normali e<br />

accettabili forme di rapporti tra individui, oggi non<br />

sono più ammesse, e questo condiziona la<br />

percezione collettiva.<br />

Mi soffermo sulla violenza di genere, tema che<br />

secondo me è emblematico. Fino a pochi anni fa,<br />

in una società a forte dominanza maschile, il<br />

fenomeno era tollerato; inoltre era assai difficile<br />

per le donne denunciare le violenze subite sia


26<br />

nell’ambito familiare da<br />

parte di partner o mariti,<br />

sia in quello sociale più<br />

ampio. A tale proposito<br />

basti pensare che fino<br />

al 1996 lo stupro era<br />

considerato un reato contro la morale e non contro<br />

la persona. Oggi il numero di denunce è<br />

notevolmente più alto e, quindi, il fenomeno ha un<br />

maggior grado di visibilità.<br />

L’esistenza di un diverso equilibrio nel rapporto di<br />

forza tra i generi mi spinge a dire che il fenomeno<br />

della violenza contro le donne ha subito un ridimensionamento<br />

piuttosto che un aumento. Detto<br />

ciò, vi sono elementi che possono per qualche<br />

verso bilanciare questa riduzione; mi riferisco sia<br />

all'immagine della donna che oggi viene rappresentata,<br />

sia alle difficoltà di relazione con l'altro<br />

genere presenti in alcuni contesti sociali, non solo<br />

di immigrazione, nei quali il confronto culturale con<br />

un modello di donna diverso qualche volta può<br />

spingere a ritenere legittimo un comportamento di<br />

prevaricazione, cosa che in altre situazioni non<br />

avverrebbe.<br />

Fenomeni notevolmente più caratteristici della<br />

società contemporanea, investita dai processi di<br />

globalizzazione e da un grande afflusso di persone<br />

e di merci, sono il traffico e la tratta degli esseri<br />

umani, con le nuove forme di schiavitù ad essi<br />

legate. Si distingue tra traffico e tratta (in inglese,<br />

rispettivamente, smuggling e trafficking), in quanto<br />

il primo rappresenta il favoreggiamento dell'immigrazione<br />

clandestina di persone che lo desiderano,<br />

mentre la seconda è l'importazione di persone in<br />

un altro Paese con l'inganno o contro la volontà<br />

individuale, e il loro sfruttamento. Il traffico è un<br />

reato contro lo Stato, mentre la tratta è un reato<br />

contro la persona.<br />

Traffico e tratta possono rappresentare un elemento<br />

di novità che le nostre società non hanno conosciuto<br />

in passato, benché siano esistite forme di schiavitù<br />

e subordinazione in contesti a noi prossimi.<br />

Il fenomeno della tratta di esseri umani, in particolare,<br />

è stato studiato dall'Osservatorio sulla Tratta del<br />

Dipartimento di Scienze Sociali, al quale ho dato<br />

il mio contributo. E’ stato analizzato nella sua varia<br />

articolazione, dalla tratta di giovani donne e in parte<br />

di uomini a fini di sfruttamento sessuale, alla tratta<br />

di uomini o minori a fini di sfruttamento lavorativo,<br />

per arrivare alla tratta di minori a scopo di impegno<br />

in attività illegali, dal traffico della droga alle altre<br />

forme di illecito, nell'accattonaggio e nelle altre<br />

forme di economia informale, al confine con<br />

l'illegalità. Tutto questo è possibile perché, insieme<br />

a quello delle droghe, il traffico degli esseri umani<br />

è uno dei più lucrosi su scala internazionale.<br />

La tratta degli esseri umani non riguarda solo l'Italia,<br />

ma tutti i Paesi ricchi, nei quali la domanda è<br />

evidentemente forte. Nel caso italiano, tuttavia, il<br />

fenomeno ha una particolare rilevanza per la<br />

presenza di settori dell'economia caratterizzati dal<br />

mancato rispetto delle regole, dall'illegalità,<br />

dall'evasione e da forme di sfruttamento.<br />

Nel nostro Paese, molta attenzione è stata dedicata<br />

alla tratta con obiettivi di sfruttamento sessuale,<br />

attraverso interventi normativi e attività di sostegno<br />

alle vittime, ma solo da poco, e in pochi ambiti, si<br />

è iniziato a lavorare per le vittime di sfruttamento<br />

lavorativo, o di riduzione in schiavitù, in agricoltura,<br />

in edilizia e in altri settori nei quali è diffuso il lavoro<br />

nero. Nel 2003, una normativa specifica ha


ipristinato il concetto di riduzione in schiavitù e ha<br />

messo in campo strumenti per consentire alle<br />

persone di uscire da questa situazione. Lo<br />

sfruttamento lavorativo vede alcune differenze tra<br />

Nord e Sud, legate ai contesti e alle caratteristiche<br />

delle produzioni.<br />

Occorre tenere presente che le differenze tra la<br />

riduzione in schiavitù, il lavoro para-schiavistico e<br />

lo sfruttamento lavorativo, devono essere collocate<br />

in un continuum, dato che non vi sono distinzioni<br />

nette. Se è vero, ad esempio, che si può certamente<br />

parlare di riduzione in schiavitù quando la vittima,<br />

magari giovane e debole, viene portata in Italia con<br />

l'inganno e con la violenza e poi ridotta in una<br />

condizione dalla quale non può uscire né ricava<br />

nulla per sé, nell'ambito del lavoro il discorso si<br />

complica poiché vi è sempre un piccolo ritorno per<br />

la vittima. La persona, infatti, anche se è costretta<br />

con la violenza, accetta almeno in parte la sua<br />

condizione e si trova in una situazione più fluida.<br />

Il confine tra le varie forme di sfruttamento è stato<br />

inoltre reso più labile dai mutamenti normativi; ad<br />

esempio, da quando l'art. 18 della legge<br />

sull'immigrazione e l'art. 36 della legge del 2003<br />

hanno fornito risorse ad Associazioni e Comuni<br />

per la creazione di comunità o luoghi di accoglienza,<br />

esistono strumenti di aiuto concreto per le vittime<br />

dello sfruttamento sessuale. Da allora, gli sfruttatori<br />

hanno iniziato a far partecipare la vittima ad una<br />

parte dei guadagni. Ciò ha avviato una<br />

trasformazione nel rapporto di sfruttamento poiché,<br />

coinvolgendo la vittima, la si rende interessata a<br />

mantenere il ruolo per ricavarne profitto.<br />

La situazione piemontese non si discosta dal resto<br />

del Nord: traffico e tratta seguono i flussi delle<br />

27<br />

migrazioni, che a loro volta<br />

sono caratterizzati dalle<br />

cosiddette catene migratorie.<br />

Nell'area torinese c'è una<br />

certa presenza di donne<br />

nigeriane nella prostituzione;<br />

vi sono poi donne provenienti dall'Europa dell'Est,<br />

mentre il flusso dall'Albania si è in pratica fermato.<br />

E’ molto probabile che esistano, ma non ne ho<br />

conoscenza diretta, forme di sfruttamento intensivo<br />

di persone di nazionalità italiana, ad esempio nella<br />

pastorizia e nell'agricoltura. Io mi sono occupato<br />

molto della prostituzione minorile italiana, che si<br />

manifesta soprattutto nelle aree economicamente<br />

e culturalmente depresse, con minori messi a<br />

disposizione dalle loro stesse famiglie. Anche a<br />

questo proposito, tuttavia, non parlerei di un<br />

fenomeno nuovo. Nuovi, piuttosto, sono i viaggi di<br />

cittadini italiani verso i Paesi più poveri dove esiste<br />

la possibilità di accedere più facilmente ad<br />

adolescenti, maschi e femmine; è un ulteriore frutto<br />

della globalizzazione, legato anche ad una certa<br />

rappresentazione della giovinezza e della sessualità.<br />

Un'ultima questione che vorrei trattare è la violenza<br />

nella scuola, espressione più ampia del semplice<br />

“bullismo” e che dunque preferisco.<br />

In Italia si è iniziato a studiare la violenza e la<br />

prevaricazione tra coetanei a metà degli anni<br />

Novanta, mentre nei Paesi nordici se ne parlava<br />

già tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni<br />

Ottanta. Nei Paesi scandinavi i primi interessi degli<br />

studiosi sono stati rivolti al fenomeno del “bulling”,<br />

forma di prevaricazione e violenza che un gruppo<br />

esercita con continuità su un singolo all'interno di<br />

un contesto scolastico, caratterizzata da uno


28<br />

squilibrio di forze e di<br />

potere tra le parti.<br />

Pertanto non sono stati<br />

presi in considerazione<br />

i singoli atti violenti, ma<br />

i casi in cui tali forme di<br />

violenza reiterata avevano assunto tratti particolarmente<br />

gravi, dando luogo a suicidi di minori.<br />

I ricercatori francesi hanno poi ampliato il concetto<br />

di bulling e introdotto quello di violenza nella scuola.<br />

L'approccio è interessante perché guarda non solo<br />

alla violenza tra pari e non solo quando è continuata,<br />

ma anche quando si verificano casi episodici o<br />

saltuari, e perché considera anche la violenza degli<br />

studenti sugli adulti e degli adulti nei confronti dei<br />

minori. In Francia, in particolare, è stata molto<br />

studiata la violenza degli studenti nei confronti degli<br />

insegnanti, dato che si sono verificati molti casi di<br />

questo tipo, soprattutto nelle banlieu dove, con<br />

l'obiettivo dichiarato di creare “scuole ad educazione<br />

rinforzata”, sono stati concentrati tutti i problemi.<br />

Parlare in termini generali di violenza nella scuola,<br />

infine, significa includere il tema assai rilevante<br />

della violenza simbolica. Se la scuola è<br />

particolarmente discriminatoria nei confronti di<br />

alcune persone, magari perché vengono da ambienti<br />

diversi o perché non sanno rendere come gli altri,<br />

si mettono in moto processi di espulsione: i ragazzini<br />

più problematici si sentono presi di mira dagli<br />

insegnanti, non si sentono valorizzati né accolti;<br />

questi processi possono portare a forme di reazione<br />

violenta o a casi di abbandono scolastico. E'<br />

necessario tener conto di questo complesso di<br />

fenomeni, mentre l'enfasi posta di solito sulla<br />

violenza tra pari tende a non vedere la complessità<br />

della violenza nell’Istituzione scolastica. Molte analisi,<br />

infatti, correlano i dati di aggressività e di violenza<br />

tra coetanei al clima scolastico, ai criteri per cui si<br />

valorizzano o si stigmatizzano le persone, a quanto<br />

le regole siano condivise o imposte.<br />

Altra questione da affrontare è il grado di<br />

legittimazione sociale che la violenza riceve: la<br />

violenza tra i coetanei, così come altre forme di<br />

violenza (basti pensare a quanto avveniva nelle<br />

caserme col nonnismo), sono sempre state<br />

insopportabili, ma un tempo erano legittimate. Lo<br />

erano ad un punto tale che se ne parlava in maniera<br />

un po’ scherzosa, e apparivano naturali tanto che<br />

si riproducevano: chi era stato vittima del nonnismo,<br />

ad esempio, ne diventava a sua volta protagonista,<br />

in una dimensione ritualizzata. E' stato così solo<br />

fino ad un certo punto. Un altro esempio è quello<br />

della violenza nei confronti dei cosiddetti primini<br />

nella scuola superiore: in un primo momento non<br />

se ne parlava, poi il fenomeno è stato tematizzato,<br />

ora è stata messa in atto una serie di iniziative per<br />

evitarlo; addirittura si coinvolgono i più grandi<br />

nell’accoglienza dei più giovani nella scuola.<br />

In una logica non violenta, qualsiasi forma di conflitto<br />

deve essere limitato e contrastato; vi sono tuttavia<br />

opinioni opposte, anche tra gli stessi psicologi:<br />

alcuni dicono che un certo tasso di aggressività<br />

debba potersi esprimere e che, per le vittime, ciò<br />

rappresenta un’occasione di crescita.<br />

Per quanto poi riguarda l'origine dei comportamenti<br />

violenti, esistono studi e ricerche che dimostrano<br />

che chi ha subito forme di violenza durante il<br />

processo di sviluppo o è stato in qualche modo<br />

esposto a modelli in cui la violenza era molto<br />

presente, tenda a riprodurli. In altri casi, tuttavia,


ambini sottomessi a violenza, crescendo,<br />

sviluppano sensibilità maggiori. Insomma, dal mio<br />

punto di vista non è possibile offrire una soluzione<br />

certa, anche perché questo è un compito specifico<br />

della psicologia, più che della sociologia.<br />

Certamente posso affermare che in alcuni casi,<br />

come abbiamo visto, la riproduzione della violenza<br />

tende ad essere legittimata e quasi ritualizzata.<br />

Altre ricerche individuano un nesso tra violenza<br />

agita ed esposizione alla violenza rappresentata,<br />

vale a dire che quanto più si vede violenza sui<br />

mezzi di comunicazione, tanto più si tenderà ad<br />

essere violenti nella società. Non esiste alcuna<br />

prova certa che ciò avvenga, e a mio avviso<br />

l’esposizione non può da sola spiegare i comportamenti<br />

violenti. Alcuni tuttavia hanno sottolineato<br />

che il fatto di avere un rapporto con la realtà molto<br />

mediato da rappresentazioni virtuali (televisione,<br />

videogiochi, ecc.), nelle quali non si ha la percezione<br />

della sofferenza vera dell’altro, possa aver indotto<br />

nelle persone una mancanza di sensibilità riguardo<br />

alle conseguenze della violenza agita, come se la<br />

vittima non fosse simile a te.<br />

Credo alla fondatezza di questo approccio, tanto<br />

che sono convinto della bontà di risposte della<br />

giustizia minorile che prevedano il tentativo di far<br />

incontrare l’aggressore e la vittima. Sono infatti<br />

sicuro che, negli adolescenti e anche negli adulti<br />

che si rendono responsabili di violenze, soprattutto<br />

nei confronti di soggetti deboli, vi è incapacità o<br />

indisponibilità mentale ad identificarsi nella vittima.<br />

Quella di cui parlo è una giustizia al tempo stesso<br />

di mediazione e riparatrice che, ad esempio, obbliga<br />

il ragazzino che ha aggredito il senza tetto ad<br />

impegnarsi in attività di utilità sociale come andare<br />

29<br />

per un certo periodo a fare<br />

servizio in una mensa<br />

destinata ai poveri senza<br />

dimora, perché possa<br />

comprendere l'umanità e i<br />

bisogni di chi è stato sua<br />

vittima. Questa è senza dubbio una risposta più<br />

efficace di quelle sanzionatorie classiche che lo<br />

terrebbero in carcere con una “condanna del non<br />

fare” il cui rischio è far crescere l’identità deviante.<br />

E' chiaro che ciascuna delle forme di violenza che<br />

ho descritto ha innumerevoli costi sociali, che sono<br />

anche economici.<br />

A mio avviso la questione centrale è la grande<br />

incapacità di concepire sia una società senza<br />

violenza, sia un orientamento generale fra popoli<br />

e Stati che non contempli la guerra come soluzione<br />

possibile per i conflitti. Sono infatti posizioni che<br />

arrecano costi economici e sociali straordinari e<br />

producono vittime innocenti.<br />

Lo stesso vale per la violenza simbolica, che ha<br />

però costi sociali difficilmente quantificabili:<br />

pensiamo, ad esempio agli stili di vita e ai modelli<br />

di consumo imposti a persone che hanno pochi<br />

strumenti culturali per difendersi e sviluppare un<br />

atteggiamento critico, e che proprio per questo<br />

finiscono per indebitarsi oltre le proprie possibilità;<br />

tutto ciò incarna una dinamica sociale violenta.<br />

Il modello di sviluppo nel quale viviamo è inimmaginabile<br />

senza tutto questo, ma forse la crisi che<br />

stiamo vivendo potrà rivelarsi positiva se porterà<br />

ad una riflessione critica più profonda sulla possibilità<br />

di continuare così.


Umberto Lucia<br />

Docente Scuola secondaria superiore<br />

Osservatorio Anti-bullismo, Ufficio Scolastico Regionale<br />

del <strong>Piemonte</strong><br />

Educare alla<br />

responsabilità<br />

per non crescere<br />

nella paura<br />

Il bullismo è sempre esistito, in ogni epoca storica ed<br />

in ogni struttura sociale. Tuttavia i ragazzi sono figli<br />

della comunità nella quale vivono, e quindi anche il<br />

bullismo muta nel tempo, seguendo l’evoluzione dei<br />

comportamenti sociali. Insieme al fenomeno cambiano<br />

anche le sue origini, che sono molteplici. Spesso si<br />

sostiene che il bullo abbia subito a sua volta violenza:<br />

a mio avviso non è necessariamente così. Al contrario,<br />

è frequente che i bulli provengano da contesti protetti.<br />

La società contemporanea fornisce modelli di<br />

comportamento nei quali non ha valore la persona in<br />

quanto tale, ma ciò che di essa appare a prima vista.<br />

Chi esercita funzioni di educatore, spesso, non insegna


a rispettare le regole, concede troppo senza<br />

insegnare a meritare ciò che si ottiene, non<br />

responsabilizza bambini e ragazzi e questo induce<br />

a non riflettere sulle proprie azioni. Ne seguono<br />

talvolta atteggiamenti di oltraggio del più debole.<br />

Non più solo lo scherzo, ma l’oltraggio. Ecco la<br />

connotazione del bullismo dei nostri tempi.<br />

Le vittime designate sono coloro che manifestano<br />

una maggiore fragilità psicologica o fisica, magari<br />

coloro che vanno bene a scuola o hanno un<br />

atteggiamento remissivo. I bulli, in genere, sono<br />

ragazzi che hanno necessità di essere considerati:<br />

un insieme di noia, arroganza e mancanza di<br />

responsabilità connota la loro personalità.<br />

Ciò che oggi consideriamo bullismo è una forma<br />

di prevaricazione che presenta, tutte insieme, tre<br />

caratteristiche precise<br />

- intenzionalità, il comportamento aggressivo viene<br />

messo in atto volontariamente e in modo del tutto<br />

consapevole;<br />

- reiterazione e sistematicità, il comportamento<br />

viene messo in atto più volte e si ripete nel tempo;<br />

- lo squilibrio di potere, tra le parti coinvolte c'è<br />

sempre differenza di potere, dovuta alla forza fisica,<br />

all'età o al numero (quando le aggressioni sono di<br />

gruppo). La vittima, in ogni caso, ha difficoltà a<br />

difendersi e sperimenta un forte senso di impotenza.<br />

Sono quattro le forme assunte dal bullismo nella<br />

società attuale:<br />

- diretto fisico, quando si utilizza la forza fisica per<br />

nuocere all'altro. In questa categoria sono presenti<br />

comportamenti come picchiare, spingere, fare<br />

cadere e altri atti diretti non soltanto alla vittima,<br />

ma anche ad oggetti di sua proprietà;<br />

- diretto verbale, se si usa la parola per arrecare<br />

31<br />

danno alla vittima. Ad<br />

esempio insulti, minacce<br />

prese in giro insistenti e<br />

reiterate;<br />

- indiretto/relazionale, quando<br />

i comportamenti non si rivolgono<br />

direttamente alla vittima, ma la danneggiano<br />

nella relazione con gli altri; spesso sono poco<br />

visibili, ma portano all'esclusione e all'isolamento<br />

attraverso la diffusione di pettegolezzi e dicerie,<br />

l'ostracismo e il rifiuto di esaudire le sue richieste;<br />

- cyberbullismo, infine, sono le forme di prevaricazione<br />

attuate tramite il telefono cellulare (sms<br />

minacciosi o derisori, riprese di immagini imbarazzanti<br />

successivamente diffuse su internet), la posta<br />

elettronica, i servizi di messaggeria istantanea e le<br />

varie risorse che il web mette a disposizione.<br />

Dal 2007 ad oggi l’amministrazione scolastica è<br />

stata indotta ad intervenire in modo netto, soprattutto<br />

per la nuova connotazione di oltraggio alla dignità<br />

della persona che ha assunto il fenomeno del<br />

bullismo. Insegnanti, dirigenti, studenti e genitori<br />

sono stati parte di questo processo, anche se,<br />

com’è ovvio, hanno rilevato il problema in modo e<br />

con sensibilità differenti.<br />

Gli studenti hanno iniziato a confidarsi a scuola e<br />

in famiglia, e successivamente anche a denunciare<br />

esplicitamente il fenomeno a genitori e docenti.<br />

I genitori delle vittime normalmente denunciano ai<br />

dirigenti scolastici e ai docenti il fenomeno, mentre<br />

i genitori dei bulli hanno comportamenti contrastanti:<br />

alcuni intervengono cercando di correggere il<br />

comportamento dei figli, altri lo minimizzano , altri<br />

ancora accusano le scuole di un eccesso di rigore<br />

disciplinare.


32<br />

I docenti in genere sono<br />

responsabili durante il loro<br />

operato, altrimenti avremmo<br />

una scuola in condizioni<br />

molto precarie, mentre<br />

a mio avviso è ancora<br />

dignitosa.<br />

Tuttavia, anche gli insegnanti hanno comportamenti<br />

difformi non solo da scuola a scuola, ma anche da<br />

consiglio di classe a consiglio di classe. Questi<br />

ultimi, infatti, quando si trovano in presenza di<br />

aggressioni fisiche, in genere tendono a comminare<br />

sanzioni solo dopo aver tentato un periodo di<br />

rieducazione comportamentale, che coinvolge anche<br />

psicologi e famiglie; quando invece non ci sono<br />

aggressioni fisiche, l'intervento è quasi sempre di<br />

natura educativo-psicologica, senza sanzioni. Esiste<br />

anche una parte di docenti che ridimensionano il<br />

fenomeno, riconducendo gli atti di bullismo all’ambito<br />

delle cosiddette "ragazzate".<br />

Infine, ci sono i dirigenti, che hanno comportamenti<br />

molto difformi. Chi si sente ancora "preside" (in<br />

senso positivo, in quanto “presente” in ogni azione<br />

della scuola che dirige) ha un atteggiamento di<br />

intervento diretto nel consiglio di classe, nella<br />

relazione con lo studente e con la famiglia. Chi non<br />

si ritiene più "preside", invece, spesso delega<br />

l'intervento al consiglio di classe.<br />

Queste che ho elencato, naturalmente, sono opinioni<br />

personali, maturate nel corso della mia esperienza.<br />

Quel che è certo è che le attività del Ministero e<br />

della Direzione Regionale sono indirizzate a<br />

responsabilizzare sia il personale della scuola<br />

(dirigenti, docenti e tutto il personale tecnico,<br />

amministrativo e ausiliario), sia i genitori, perché<br />

tutti insieme partecipino all'educazione dei ragazzi.<br />

Da un punto di vista normativo, poi, una sostanziale<br />

innovazione è stata determinata dal “D.P.R. 24<br />

giugno 1998, n. 249, concernente lo Statuto delle<br />

studentesse e degli studenti della scuola<br />

secondaria” che sostituiva quanto previsto dal<br />

“Regio Decreto 4 maggio 1925, n. 653”.<br />

L’innovazione dello Statuto delle studentesse e<br />

degli studenti consiste nell'introduzione del principio<br />

di responsabilità dell’azione da parte dello studente<br />

a fronte della sua punibilità insita nel Regio Decreto.<br />

Il principio di responsabilità è fondamento e<br />

contemporaneamente conseguenza della funzione<br />

educativa della scuola. L’applicazione di questo<br />

fondamentale principio generale si è però rivelata<br />

un limite operativo per le scuole. Il risultato è stata<br />

una recrudescenza degli episodi di bullismo con<br />

una nuova connotazione, l’oltraggio alla persona,<br />

legata all’individualismo della nostra società. In<br />

questo contesto il Ministero è intervenuto con una<br />

correzione allo Statuto delle studentesse e degli<br />

studenti, il “D.P.R. n. 235 del 21 novembre 2007<br />

- Regolamento recante modifiche ed integrazioni<br />

al D.P.R. 24 giugno 1998, n. 249, concernente lo<br />

Statuto delle studentesse e degli studenti della<br />

scuola secondaria” che mantiene il principio<br />

fondamentale della responsabilità dell’azione e<br />

dell’educazione alla responsabilità, affiancandogli<br />

però la possibilità di maggiori interventi da parte<br />

delle istituzioni scolastiche.<br />

L’Osservatorio sul Bullismo effettua un monitoraggio<br />

costante del fenomeno, con il supporto del<br />

funzionario statistico dell’Ufficio Scolastico<br />

Regionale per il <strong>Piemonte</strong>. L'Osservatorio svolge<br />

anche altre importanti funzioni: valorizza le buone<br />

pratiche promosse dalle singole istituzioni, ascolta


i bisogni e fornisce un'informazione diffusa,<br />

garantisce una formazione a studenti, dirigenti<br />

scolastici e operatori scolastici, svolge un compito<br />

di raccordo con gli operatori dell'associazionismo<br />

e del volontariato sul territorio e coordina l'attività<br />

dei gruppi locali degli Uffici Scolastici Provinciali.<br />

I risultati del monitoraggio, pubblicati nelle differenti<br />

circolari e consultabili sul sito dell’Ufficio Scolastico<br />

Regionale per il <strong>Piemonte</strong>, mostrano che su 527<br />

scuole (circa il 90% delle scuole del <strong>Piemonte</strong>)<br />

che hanno risposto al questionario nell’anno<br />

scolastico 2006/2007, il 38,7% ha rilevato<br />

manifestazioni di bullismo e che nell’anno successivo<br />

questa percentuale è aumentata al 43,6% (rilevato<br />

a fine febbraio 2008).<br />

Emerge che circa il 50% dei dirigenti scolastici (di<br />

251 scuole) ha dichiarato di avere avuto almeno<br />

un caso di bullismo. La maggiore frequenza si è<br />

registrata nella scuola secondaria di I grado (51%),<br />

seguita dalla primaria (27,1%) e dalla secondaria<br />

di II grado (21,1%).<br />

Tra i principali atti di bullismo, quelli che si<br />

manifestano più spesso sono il diretto verbale<br />

(37,7%), l’indiretto/relazionale (29,5%) e il diretto<br />

fisico (26,5%). Dai dati si può rilevare che vi è una<br />

significativa relazione tra l’ordine di scuola e i luoghi<br />

in cui si manifestano le prepotenze. Infatti, nella<br />

scuola primaria il luogo preferito dai bambini è il<br />

cortile (25,0%), nella secondaria di I grado i corridoi<br />

(23,2%) e il cortile (21,1%), nelle superiori i corridoi<br />

e le aule (24,0%).<br />

Le istituzioni hanno avviato un intenso monitoraggio<br />

per contrastare il bullismo nelle scuole. Il fenomeno,<br />

infatti, ha un notevole prezzo sociale, che si paga<br />

negli anni. I ragazzi che subiscono violenza crescono<br />

33<br />

nella paura, mentre chi fa il<br />

bullo e non viene fermato<br />

diventa adulto con la convinzione<br />

di poter imporre le<br />

proprie idee anche con la<br />

violenza.<br />

La società, invece, dovrebbe essere fondata sulla<br />

relazione tra persone responsabili e mature, che<br />

abbiano seguito una crescita personale adeguata.


Giusi Territo e Sandro De Vecchis<br />

Giusi Territo, Dirigente Compartimento Polizia delle Comunicazioni, <strong>Piemonte</strong> e Valle d’Aosta<br />

Sandro De Vecchis, Coordinatore Squadra Crimini Informatici<br />

Cybercrimes:<br />

quando la violenza<br />

corre sul web<br />

La Polizia Postale e delle Comunicazioni, nata nel<br />

1981, è strutturata in 20 Compartimenti, situati nei<br />

capoluoghi di <strong>Regione</strong>, che fanno riferimento al Servizio<br />

Centrale di Polizia delle Comunicazioni presso il<br />

Ministero degli Interni.<br />

Nei principali capoluoghi di provincia sono presenti<br />

Sezioni di Polizia Postale e in <strong>Piemonte</strong> troviamo le<br />

Sezioni di Aosta, Alessandria, Asti, Cuneo, Novara e<br />

Vercelli.<br />

Le origini di Internet risalgono agli anni 70, quando,<br />

nell’ambito militare americano, nacque l’esigenza di<br />

collegare telefonicamente diversi computer sparsi in<br />

varie sedi, in modo da poter far condividere informazioni<br />

senza dover apportare sostanziali modifiche hardware<br />

e software ai vari p.c.<br />

Il primo collegamento telefonico da computer a


computer avvenne nel 1969 tra l’Università della<br />

California di Los Angeles e lo Stanford Research<br />

Institute che furono così i primi due nodi di Internet.<br />

L’uso domestico, invece, risale agli anni ’80 dando<br />

inizio alla rivoluzione mondiale delle comunicazioni,<br />

nonostante il materiale multimediale disponibile<br />

fosse piuttosto scarso e le connessioni molto più<br />

lente dei tempi successivi. Oggi Internet ci consente<br />

di aprire la finestra e ricevere tutto il mondo in casa:<br />

è una realtà che racchiude enormi opportunità di<br />

comunicazione finora inimmaginabili, ma anche<br />

nuovi reati da individuare, prevenire e reprimere.<br />

Nel 1998, il legislatore individuò nella Polizia Postale<br />

la struttura in grado di assolvere al delicato compito<br />

di contrastare i crimini informatici, riconoscendole<br />

anche la facoltà di condurre attività sotto copertura<br />

nel contrasto alla pedopornografia on line.<br />

Da allora, lungo un cammino di formazione e crescita<br />

continua, ci siamo posti come punto di riferimento<br />

sia per l’Autorità Giudiziaria che per le altre forze<br />

di Polizia nel campo dei reati informatici.<br />

Il nostro Compartimento è organizzato in squadre<br />

operative, composte da Ufficiali ed Agenti di P.G.,<br />

molti dei quali in possesso di laurea in Ingegneria<br />

Informatica; a ciascuna di esse è assegnato il<br />

compito di contrastare determinati tipi di reati<br />

commessi su Internet, i cosiddetti “cybercrimes”,<br />

e, contemporaneamente, di effettuare costanti<br />

monitoraggi alla rete, visitando le pagine web, i<br />

social network, i portali per il commercio elettronico<br />

e quant’altro possa servire ad effettuare un’efficace<br />

attività preventiva.<br />

Gli strumenti di cui disponiamo sono il costante<br />

aggiornamento professionale voluto dal nostro<br />

Ministero: infatti frequentiamo corsi di perfezionamento<br />

specialistici sia all’Università, sia presso<br />

35<br />

altre polizie internazionali.<br />

Ciò non va disgiunto dalle<br />

personali doti di intuito<br />

dell’operatore, dalla capacità<br />

di calarsi nel ruolo del cyber<br />

criminal, fingendo di condividerne<br />

interessi e linguaggio, doti particolarmente<br />

necessarie per il lavoro sotto copertura.<br />

Vi è un notevole scambio di esperienze e di<br />

informazioni con le altre polizie europee, soprattutto<br />

nel campo della pedopornografia minorile: la<br />

veicolazione delle notizie avviene anche attraverso<br />

la redazione delle black list dei siti su cui è presente<br />

materiale pedopornografico e la diffusione dei dati<br />

dei soggetti stranieri dediti allo scambio di tale<br />

materiale.<br />

E, ovviamente, ci sono le norme. Anche se non<br />

sempre il legislatore riesce a prevedere il formarsi<br />

di nuove figure di illeciti, provvede poi rapidamente<br />

a fornire le regole per combatterle; tra le ultime e<br />

più significative vi è la legge 48 del 2008 che ha<br />

stabilito i principi per la conservazione e l’inalterabilità<br />

dei dati originali durante l’ispezione o la perquisizione<br />

ai supporti informatici.<br />

Ci sono poi utili e moderne forme di collaborazione,<br />

come la convenzione con il Dipartimento di<br />

Informatica dell’Università di Alessandria stipulata<br />

dal nostro Servizio Centrale, che ha siglato la<br />

nascita di un Organismo del quale questo<br />

Compartimento di Polizia Postale fa parte, per<br />

promuovere e coordinare la ricerca, sia delle nuove<br />

forme di crimini informatici, sia degli strumenti<br />

informatici necessari a combatterli.<br />

Internet è un’invenzione umana di portata straordinaria,<br />

fonte inesauribile di aggregazione, di scambi


36<br />

culturali, di stimoli alla<br />

creatività, e molto altro<br />

ancora. Tuttavia può<br />

diventare pericolosa e<br />

generare violenza a<br />

causa delle devianze<br />

umane, per l’abitudine<br />

e l’assuefazione a<br />

immagini e linguaggi di cui si subisce il fascino,<br />

adeguandosi sempre più velocemente fino a usarla<br />

come veicolo per la diffusione di bravate o gesti<br />

scellerati.<br />

Quando parliamo di violenza in rete dobbiamo<br />

intenderla non solamente come atto di sopruso<br />

fisico o verbale, ma anche come prepotenza,<br />

coercizione, sopraffazione psicologica, subite anche<br />

da soggetti che, spesso, non sono nemmeno<br />

frequentatori della rete.<br />

Appartengono alla prima specie la diffusione su<br />

internet di immagini pedopornografiche, di frasi<br />

fanatiche inneggianti all’odio razziale, religioso,<br />

politico, di insulti, e altro ancora.<br />

E’ violenza psicologica, invece, ricevere e mail<br />

usate come lettere anonime, vedere divulgate notizie<br />

o immagini private, associate a dati reali (indirizzi,<br />

numeri di telefono, email, ...) con conseguenze<br />

immaginabili.<br />

Oggi molti, all’interno di una storia sentimentale,<br />

anche in accordo col partner, registrano o filmano<br />

i rapporti sessuali: spesso però, concluso il rapporto<br />

in modo burrascoso, capita che uno dei due diffonda<br />

queste immagini per dispetto.<br />

Altrettanto frequenti sono i casi di stolking, cioè<br />

molestie continue, inflitte ai malcapitati non solo<br />

attraverso internet, ma anche per telefono, cellulare,<br />

citofono... dando luogo a vere e proprie<br />

persecuzioni.<br />

Il settore più indagato, è certamente quello della<br />

pedopornografia, crimine terribile, che ogni volta<br />

sorprende anche noi con rinnovato orrore. E le<br />

devianze sono di vari tipi, dagli individui interessati<br />

a guardare e collazionare atroci immagini in un<br />

album virtuale, a quelli che abusano dei minori, fino<br />

ad una specie ancora più disgustosa, persone che<br />

con questa devianza non hanno nulla a che fare,<br />

ma che producono tali materiali solo per vendere,<br />

per farne commercio.<br />

Tutti i “cybercrimes” sono oggi in continuo aumento<br />

e, soprattutto per quelli che hanno come protagonisti<br />

i giovani, è necessaria una riflessione.<br />

Nella società attuale alcuni valori di base hanno<br />

perso incisività nell’ambito scolastico, familiare e<br />

sociale. Di conseguenza, soprattutto i ragazzi se<br />

ne costruiscono di alternativi, che per lo più<br />

conducono a comportamenti finalizzati all’affermazione<br />

violenta di sé nei confronti degli altri.<br />

Comportamenti che, diffusi sul web, catalizzano il<br />

popolo giovanile spingendo all’emulazione.<br />

E c’è un dato ancora: internet dà a chi lo utilizza<br />

una sensazione di anonimato, di sicurezza e dunque<br />

di impunità. Ma fortunatamente, fino ad ora all’uso<br />

spesso non si accompagna una profonda cultura<br />

informatica di massa.<br />

Le segnalazioni di reati commessi attraverso la rete<br />

sono numerose, tenendo conto che solo l’interessato<br />

può denunciare le violenze subite, e ci riferiamo<br />

all’accesso abusivo alla posta elettronica, al furto<br />

dell’identità virtuale, fino alla clonazione delle carte


di credito per il commercio on line.<br />

In particolare per la pedopornografia, le denunce<br />

sono motivate prima di tutto dall’orrore provato<br />

nell’imbattersi per caso (il che è molto difficile) in<br />

immagini del genere, ma anche dal desiderio di<br />

cautelarsi con una sorta di auto denuncia.<br />

Sono poco frequenti, invece, le segnalazioni<br />

riguardanti i reati che coinvolgono i giovani, troppo<br />

solidali con i coetanei. Tuttavia spesso il loro aiuto<br />

è stato indispensabile per la soluzione di casi,<br />

anche molto noti, riguardanti la diffusione di filmati<br />

violenti attraverso you-tube e altre incresciose<br />

vicende avvenute nelle scuole. Vivendo nel gruppo<br />

(qualche volta “branco”) i ragazzi non sempre<br />

riescono a separare il giusto da ciò che non lo è<br />

ma, una volta chiamati a rendere conto davanti a<br />

se stessi, rispondono in modo soddisfacente.<br />

Certo, c’è da essere ottimisti. Naturalmente il nostro<br />

impegno darà buoni frutti se potrà contare sull’aiuto<br />

generale. Insegnanti, genitori, operatori sociali...sono<br />

fondamentali per far capire ai giovani che internet<br />

è strumento di crescita culturale e non deve essere<br />

usato per delinquere o creare violenza.<br />

I genitori, in particolare, non devono usare il<br />

computer come la baby sitter cui affidare i figli in<br />

loro assenza, ma aiutarli a capire che in campo<br />

virtuale valgono gli stessi principi della vita reale e<br />

che delinquere in ambiente web non garantisce<br />

affatto l’impunità.<br />

Per quanto ci riguarda, da tempo siamo impegnati<br />

nelle scuole, anche private e religiose, con un<br />

programma di incontri nei quali illustriamo ai ragazzi,<br />

agli insegnanti e ai genitori i pericoli in agguato<br />

nella rete e gli strumenti da usare affinché le<br />

tecnologie digitali siano alla portata di tutti come<br />

mezzo di crescita.<br />

37


Fausto Sorino<br />

Responsabile Assistenza Sociale Ufficio Minori Stranieri Città di Torino<br />

Una rete di impegno<br />

e competenze<br />

al servizio<br />

dei piccoli stranieri<br />

Il Comune di Torino si occupa degli emigranti più<br />

giovani ed in particolare stranieri non accompagnati,<br />

attraverso il Settore Minori di cui fa parte l’Ufficio Minori<br />

Stranieri.<br />

Il fenomeno dell’emigrazione giovanile in <strong>Piemonte</strong> ha<br />

avuto fasi diverse.<br />

Agli inizi degli anni ’90, in Italia e per quanto ci riguarda<br />

a Torino, ci fu un’ondata di immigrati adulti e ragazzi<br />

soli in età compresa fra 14 e 18 anni; erano soprattutto<br />

migranti economici che arrivavano dall’Albania e dal<br />

Marocco per fare fortuna e le loro modalità di approccio<br />

al servizio erano chiare: chiedevano documenti, casa,<br />

corsi professionali per imparare un mestiere e lavoro.<br />

I numeri di questa immigrazione giovanile erano molto<br />

alti, le risorse istituzionali dedicate non erano faraoniche<br />

e perciò furono attivati, in collaborazione con le<br />

associazioni di volontariato, servizi di accoglienza in<br />

emergenza.<br />

Oggi questo tipo di emergenza è finito. I numeri si


sono stabilizzati; ci sono ormai le seconde<br />

generazioni, che vivono in famiglia e fanno riferimento<br />

ai servizi sociali delle varie Circoscrizioni.<br />

Gli attuali minori non accompagnati, se da un lato<br />

sempre più spesso hanno riferimenti adulti familiari<br />

o simili (parenti, amici di famiglia,...), dall’altro hanno<br />

problemi diversi, più comportamentali, psicologici<br />

e sociali.<br />

Oggi, quelli di cui ci occupiamo, cosiddetti “a<br />

cartella attiva”, cioè con documentazione completa,<br />

storica, anamnestica, clinica e quant’altro, sono<br />

881, una cifra assolutamente precisa.<br />

I servizi sociali della Città di Torino, infatti, hanno<br />

costituito una rete interistituzionale talmente<br />

ramificata che, se sul territorio di Torino arriva un<br />

minore, per esempio marocchino, entro 20 giorni<br />

o al massimo due mesi, sarà intercettato dalle forze<br />

dell’ordine o da cittadini che lo sorprendono a<br />

vendere fazzolettini…<br />

E’ una realtà complessa in continuo movimento<br />

che però noi conosciamo in profondità, ben oltre<br />

gli scoop dei media. Parliamo dei baby pusher che<br />

si nascondono nelle fogne? Ormai è più un<br />

tormentone giornalistico che una realtà vera. Anche<br />

questo, come tutti i percorsi sociali, storici ecc.,<br />

ha avuto un inizio, un’evoluzione e una fine. Al<br />

tempo delle Olimpiadi, effettivamente una banda<br />

di criminali marocchini aveva raccolto un gruppo<br />

di ragazzini fra 10 e 14 anni per lo spaccio, con<br />

tutte le vicende ampiamente raccontate dai giornali.<br />

Sulla situazione, però, è immediatamente intervenuta<br />

la Direzione distrettuale antimafia con una vasta<br />

azione che ha condotto a più di 30 arresti,<br />

eliminando l’attività. Il nostro Servizio, affiancato<br />

dai Carabinieri, ha levato dalla strada tutti i piccolini<br />

39<br />

e dal 2007 ai Murazzi non ci<br />

sono più ragazzi con meno di<br />

14 anni.<br />

Naturalmente la buona<br />

riuscita di questa operazione<br />

è stata possibile perché<br />

Torino è una città ancora circoscritta: a Milano o<br />

a Roma, con numeri tanto elevati, sarebbe stato<br />

molto più difficile.<br />

Riguardo alle “moderne” schiavitù, sappiamo<br />

dell’esistenza di ragazzine straniere segregate e<br />

mandate a prostituirsi con la violenza sulle strade<br />

della città. Fra le diverse etnie, le rumene e le<br />

albanesi sono più frequentemente identificate sia<br />

nel corso di operazioni dei carabinieri, sia per la<br />

loro stessa decisione di denunciare gli sfruttatori.<br />

Ultimamente, però, il rapporto sfruttatore/vittima si<br />

sta trasformando radicalmente, addirittura in alleanza<br />

per l’efficace “cogestione dell’affare”, ed ecco il<br />

protettore diventare socio di un business che rende<br />

molto denaro da mandare a casa, per fare la bella<br />

vita o altro.<br />

Il sommerso vero, quello difficile da indagare, è<br />

rappresentato dalle ragazze nigeriane schiavizzate,<br />

destinatarie di violenze spaventose, e comunque<br />

troppo spaventate per tentare la minima<br />

collaborazione. Delle cinesi è inutile parlare, del<br />

resto è l’intera comunità a rappresentare un mondo<br />

a sé.<br />

Secondo me, comunque, si fa ancora troppo poco;<br />

occorrerebbe avviare un’azione di contrasto simile<br />

a quella realizzata per i baby pusher, che veda il<br />

coinvolgimento diretto della Magistratura ordinaria.<br />

Bisogna distinguere fra la violenza che si può


40<br />

denunciare, magari con<br />

un esposto per sfruttamento<br />

del minore, e<br />

quella indimostrabile.<br />

Purtroppo il primo caso<br />

rappresenta solo la<br />

punta di un iceberg, diciamo l’l, al massimo il 2%<br />

di ciò che avviene nella realtà.<br />

Provo a raccontare. Un giovanissimo marocchino<br />

decide di fuggire dalla bidonville di Casablanca<br />

dove non ha casa, servizi igienici, luce e gas, e<br />

tanto meno lavoro. Non può fare altro che tentare<br />

di imbarcarsi clandestino su una nave diretta in<br />

Italia; da questo momento vive al porto cercando<br />

l’occasione giusta ed è già immerso in una situazione<br />

molto brutale, deve rubare qualcosa da mangiare<br />

e da bere, viene picchiato dalla polizia o dagli agenti<br />

privati a guardia del porto. Finalmente arriva a<br />

Torino, la tappa successiva è Porta Palazzo, dove<br />

incontra subito la strada e quel clima di violenza<br />

(risse, inseguimenti, notti all’addiaccio...) che segna<br />

anche se non si subisce nulla. Se non è crudeltà<br />

fisica, è comunque violenza psicologica quella<br />

originata dall’assenza di qualsiasi diritto che ti fa<br />

sentire nessuno, senza identità, dignità, educazione.<br />

Alle ragazzine nigeriane e di altre zone dell’Africa<br />

il destino non riserva sorte migliore: devono entrare<br />

in Libia, superare parecchi avamposti, dove vengono<br />

regolarmente violentate (loro lo raccontano con<br />

una naturalezza che in realtà è rassegnazione),<br />

come prezzo per proseguire in viaggio.<br />

Esiste poi una realtà sommersa che riguarda le<br />

prestazioni sessuali dei minori (soprattutto<br />

magrebini), che rappresentano le prede perfette<br />

per i pedofili. Noi ce ne accorgiamo purtroppo solo<br />

successivamente, osservando i comportamenti dei<br />

ragazzi, che sono irritabili, reiterano la violenza,…<br />

Esattamente come capitava negli anni ’50 in Italia,<br />

nei quartieri popolari.<br />

Se poi parliamo di adolescenti, è difficile distinguere<br />

un italiano da uno straniero con famiglia. Sono<br />

molto simili, al massimo può succedere che le<br />

ragazze marocchine abbiano maggiori contrasti in<br />

famiglia per ottenere più libertà e questo a volte<br />

porta i genitori ad atti di violenza. Sono sempre più<br />

numerose le donne che, avendo figli ed essendo<br />

state maltrattate dal marito, chiedono protezione<br />

e ricovero, anche se a volte la loro storia di<br />

emancipa-zione si interrompe e tornano dal marito<br />

maltrattante che spesso è anche l’unica fonte di<br />

reddito per la famiglia. Un altro elemento importante<br />

è che spesso queste donne sono isolate da un<br />

contesto di famiglia allargata che permetterebbe<br />

mediazioni dei conflitti intrafamiliari (esempio<br />

l’intervento del fratello della<br />

donna sul marito per “farlo ragionare”,…)<br />

Oggi, fra le comunità marocchina, albanese e<br />

rumena, per esempio, l’uso di violenze inflitte o<br />

subite è una modalità più o meno frequente, e<br />

spesso assolutamente sommersa.<br />

E’ invece alla luce del sole la situazione dei campi<br />

nomadi sia dei rom rumeni sia degli slavi (bosniaci,<br />

ecc.) che in teoria sono più radicati sul territorio in<br />

tutta Italia, ma dove negli ultimi 10 anni si è<br />

consumato un abbrutimento delle condizioni di vita<br />

e della moralità a causa dell’uso massiccio e<br />

devastante delle sostanze stupefacenti, cocaina in<br />

primo luogo, che prima erano un tabù.<br />

Il risultato eclatante sono i maltrattamenti in famiglia<br />

e i gravi problemi psichici sempre più diffusi, il tutto<br />

con molte sofferenze soprattutto dei bambini.<br />

Il nostro Servizio è attivo dalle 8 alle 20, dispone


di un’équipe di pronto intervento e di un numero<br />

per la reperibilità nel fine settimana.<br />

Nel 2007 i minori non accompagnati segnalati<br />

attraverso il pronto intervento e quindi da noi accolti<br />

e inseriti in Comunità, sono stati 164. Di questi<br />

sono 70, soprattutto marocchini, quelli che avevano<br />

compiuto reati (un po’ meno di 1/3 del totale) che<br />

sono spaccio di stupefacenti, furti e rapine, per lo<br />

più scippi, recentemente accorpati, appunto alla<br />

rapina.<br />

Un progetto di integrazione sociale è un progetto<br />

educativo che, se ben fatto, è capace di costruire,<br />

intorno a sé la collaborazione di altre figure<br />

professionali di servizi pubblici e privati, cioè di<br />

creare una rete attorno al soggetto. Una cornice<br />

entro la quale le persone vittime di violenza o che<br />

l’hanno compiuta, si sentono “contenute” e possono<br />

trovare delle risposte per la loro vita.<br />

Gli strumenti con cui lavoriamo sono:<br />

- innanzitutto il progetto educativo<br />

- quindi la collaborazione con la neuropsichiatria,<br />

i Sert, i Centri specializzati di Psicologia transculturale,<br />

ad esempio MAMRE e FANON che si<br />

occupano anche di vittime di tortura e di donne<br />

che subiscono violenza, e con i Centri sanitari<br />

(consultori...);<br />

- infine, molto importante, lo strumento giudiziario.<br />

Le minori vittime della tratta, ad esempio, sono<br />

accompagnate e protette oltre che nel progetto di<br />

integrazione sociale, lungo tutto il percorso<br />

processuale, fino alla testimonianza contro i loro<br />

aguzzini.<br />

La realtà torinese in questo campo è molto positiva,<br />

siamo infatti riusciti a creare un tessuto a maglie<br />

41<br />

strette al quale è molto difficile<br />

sottrarsi.<br />

Nel nostro lavoro, naturalmente,<br />

non mancano alcune<br />

criticità, che affiorano soprattutto<br />

nei rapporti con i Servizi<br />

psichiatrici e i Sert.<br />

Non è raro che si debba ricoverare con urgenza<br />

un minore in Comunità terapeutica o addirittura in<br />

un Repartino Psichiatrico. Prendiamo per esempio<br />

un sedicenne alto e corpulento che assume ogni<br />

tipo di stupefacente, dall’erba alla cocaina, fino al<br />

più recente Rivotril, un farmaco per l’epilessia,<br />

utilizzato dai ragazzi di strada stranieri; spesso ha<br />

crisi psichiatriche, durante le quali sfascia tutto,<br />

che richiederebbero il ricovero immediato in un<br />

repartino psichiatrico o comunità terapeutica.<br />

A questo punto dobbiamo fare i conti con la<br />

neuropsichiatria italiana, che sembra non prevedere<br />

la presa in carico degli adolescenti fra i 14 e i 18<br />

anni, quasi non avesse conoscenze e capacità<br />

tecniche adeguate.<br />

Il nostro sedicenne grande e grosso con problemi<br />

di droga e di comportamento non può essere<br />

ricoverato al Regina Margherita, dove ci sono i<br />

bambini, perché può essere pericoloso; peraltro è<br />

difficile avere una diagnosi (è straniero, c’è il fattore<br />

culturale, la diagnosi si fa solo sugli adulti, per i<br />

ragazzi è etichettante…), ma noi senza diagnosi<br />

siamo bloccati sul piano amministrativo.<br />

Per fare un lavoro come il nostro, ci vorrebbero<br />

medici che capiscano le situazioni al volo e impostino<br />

adeguate strategia di sostegno. Invece dobbiamo<br />

ricorrere alle conoscenze, far intervenire le istituzioni,<br />

ma intanto restano comunità danneggiate e tempi<br />

troppo lunghi.


42<br />

Le stesse difficoltà le<br />

viviamo con i Sert, che<br />

operando con adulti e<br />

con assuntori storici di<br />

sostanze, a volte non<br />

sono comprensivi con<br />

ragazzi che magari arrivano in ritardo al primo<br />

appuntamento o non si presentano affatto. Eppure<br />

sono comportamenti tipici degli adolescenti; se poi<br />

sono centro africani possono arrivare “lietamente”<br />

anche 3 giorni dopo, ma non per questo li<br />

respingiamo! Non si può pensare che un adolescente<br />

aderisca spontaneamente ad un progetto<br />

terapeutico come se fosse un adulto che ha preso<br />

coscienza della sua situazione, bisogna fare tutto<br />

un lavoro preliminare di aggancio e convincimento<br />

che precede la presa in carico.<br />

Secondo me i Servizi sociali, che si occupano di<br />

persone, oltre alla preparazione professionale<br />

tecnica e scientifica, all’aggiornamento continuo,<br />

devono uscire e stare sul territorio. Il nostro<br />

personale è costituito anche da operatori di strada<br />

che stanno fuori molto più che in ufficio. Solo così<br />

si conoscono davvero i ragazzi per i quali operiamo<br />

ed i loro contesti di vita. Ragazzi che vorremmo<br />

aiutare sempre più concretamente ed efficacemente.<br />

Il prezzo sociale è quello umano, tante storie che<br />

hanno come protagonisti le vittime e gli autori delle<br />

violenze (che spesso, a loro volta le hanno subite<br />

in precedenza), condannati a vivere in solitudine la<br />

scissione che dentro di loro si crea.<br />

Alla città, la violenza sottrae enormi energie, umane<br />

ed economiche: pensiamo ai costi di un processo,<br />

di un SERT, a quelli della violenza negli stadi e<br />

simili.<br />

Bisogna anche ricordare che i costi sociali sono<br />

molto più elevati quando si interviene per curare<br />

piuttosto che per prevenire. A Torino sulla<br />

prevenzione si è lavorato tanto e con efficacia. Gli<br />

educatori dispongono di una rete formata dalle<br />

istituzioni, ma anche da conoscenze personali: tutti<br />

insieme contribuiscono alla massima diffusione<br />

delle informazioni favorendo, se necessario il rapido<br />

intervento.<br />

Un altro prezzo sociale è dato dal senso di<br />

insicurezza diffuso, alimentato anche dal comportamento<br />

degli organi di informazione, carta stampata<br />

e audiovisivi.<br />

Fra i minori di cui ci occupiamo, infatti, quelli che<br />

delinquono, spacciano, si drogano, sono circa il<br />

20%. Il restante 80% è formato da “migranti<br />

economici”, ragazzi come eravamo noi negli anni<br />

Venti, che già a 12 anni andavano in America per<br />

fare fortuna.<br />

Noi questi giovani normali li accogliamo, loro<br />

studiano, poi cominciano a lavorare; è la realtà<br />

buona e vera che nessuno racconta perché non<br />

impressiona.<br />

Mi ha molto colpito una recentissima osservazione<br />

di Tito Boeri, economista che apprezzo, il quale<br />

rilevava come gran parte dei contributi pensionistici<br />

derivano proprio dal lavoro degli immigrati regolari,<br />

che in Italia sono ormai 4 milioni cioè il 6-7% della<br />

popolazione totale.<br />

Forse bisognerebbe divulgare più informazioni di<br />

questo e non solo quelle negative e impressionanti.


Sono obiettivi generali<br />

del Piano regionale:<br />

- Far emergere la parte sommersa del fenomeno della violenza<br />

e delle altre forme di maltrattamenti (fisici e psicologici,<br />

compresi le mutilazioni, i matrimoni forzati, la violenza<br />

assistita, le forme di violenza basate sul diverso<br />

orientamento sessuale, ecc.)<br />

- Accogliere, accompagnare e sostenere le donne e le altre<br />

vittime di violenza<br />

- Prevenire il perpetuarsi della violenza, dei soprusi e dei<br />

maltrattamenti attraverso azioni di sensibilizzazione,<br />

privilegiando le nuove generazioni<br />

- Promuovere il cambiamento culturale e l'atteggiamento di<br />

donne e uomini di fronte alla violenza nei confronti delle<br />

donne<br />

(con particolare attenzione al coinvolgimento di associazioni<br />

di uomini)<br />

- Educare al rispetto delle persone<br />

Piano regionale per la prevenzione della violenza contro le donne<br />

e per il sostegno alle vittime". D.G.R. n. 2-9099 del 7-7-08


Maurizio Laudi<br />

Procuratore della Repubblica di Asti<br />

La violenza,<br />

autentica patologia<br />

del calcio italiano<br />

A Sir Wiston Churchill viene attribuita una lapidaria<br />

definizione su di noi: gli Italiani vincono una partita di<br />

calcio come fosse una guerra, e perdono una guerra<br />

come fosse una partita di calcio.<br />

Ignoro se la citazione sia autentica. Come ogni<br />

paradosso, è eccessivo e forzato, ma certamente<br />

coglie un aspetto reale del nostro modo di vivere<br />

questo sport, come protagonisti attivi o come<br />

appassionati. Le caratteristiche che ci rendono<br />

comunque riconoscibili sono l'essere molto sovente<br />

sopra le righe; dimenticare che la vittoria e la sconfitta<br />

sono le facce di una stessa medaglia; investire in una<br />

partita una somma di aspettative, di energie, di


esaltazioni e delusioni che ragionevolmente<br />

dovrebbero essere indirizzate verso obiettivi più<br />

importanti per la convivenza sociale.<br />

All'inizio di gennaio 2009 il Dipartimento della<br />

Pubblica Sicurezza ha reso noti i dati relativi agli<br />

incidenti nelle gare di campionato di calcio<br />

professionistico tra fine agosto e fine dicembre.<br />

28 sono state le partite segnate dal ferimento di<br />

persone; 61 gli agenti della forza pubblica che<br />

hanno riportato lesioni, il triplo rispetto ai civili. 217<br />

le persone denunciate per reati caratterizzati da<br />

condotte violente; 60 gli arrestati per identico<br />

motivo.<br />

Pur registrando un trend in diminuzione rispetto<br />

all'identico periodo del campionato precedente,<br />

questi dati fotografano impietosamente una patologia<br />

gravissima dello sport italiano, più precisamente<br />

del suo gioco più popolare e più praticato.<br />

Il mondo del calcio come reagisce? Tende ad<br />

allontanare da sé queste degenerazioni: quei<br />

soggetti sono delinquenti e non tifosi, e quindi non<br />

ci appartengono.<br />

Una risposta furba ma non intelligente perché lascia<br />

ad altri l'onere di analizzare cause e forme della<br />

violenza, rivendicando una propria immagine<br />

immacolata che tale è solo di facciata.<br />

E, come ogni furbizia, contribuisce a lasciar irrisolti<br />

i problemi.<br />

Nel frattempo l'Italia continua ad occupare i<br />

primissimi posti nella non virtuosa classifica dei<br />

Club più indisciplinati d'Europa. I nostri stadi sono<br />

considerati così poco sicuri che per lungo tempo<br />

l'Italia è stata esclusa come sede per le finali delle<br />

più importanti competizioni. L’ultima umiliazione è<br />

recentissima: sul piano<br />

dell'ordine pubblico, Polonia<br />

ed Ucraina sono state preferite<br />

all’Italia come organizzatori<br />

dei prossimi campionati<br />

Europei di calcio del 2012.<br />

45<br />

Per fortuna i limiti di questo approccio superficiale<br />

cominciano ad essere avvertiti e negli ultimi tempi<br />

la risposta è più organica e sistematica rispetto al<br />

recente passato.<br />

Può sembrare una formula di stile, ma è la verità:<br />

la violenza nel calcio ed attorno ad esso è fenomeno<br />

complesso e sbaglia chi pensa a soluzioni immediate<br />

e miracolose, ad esempio usando solo la leva di<br />

una maggiore severità repressiva, che pure è<br />

indispensabile.<br />

La violenza si manifesta in varie forme.<br />

C'è la violenza organizzata dei gruppi "ultras", la<br />

più pericolosa per evidenti ragioni.<br />

Ma c'è anche la violenza singola dell'individuo<br />

isolato, persona normale durante la settimana,<br />

trasgressore incontrollato la domenica allo stadio.<br />

Una violenza che non conosce rigidi limiti di<br />

anagrafe. Il più delle volte ne sono autori giovani<br />

anche minorenni. Ma non è infrequente notare nei<br />

filmati sugli scontri, o leggere nei verbali di polizia,<br />

fisionomie e nomi di ultratrentenni e quarantenni.<br />

Così come nei campi di periferia dove si cimentano<br />

squadre dilettanti e giovanili, non è raro assistere<br />

allo spettacolo indecoroso di padri e madri di<br />

famiglia (nel senso letterale del termine) che incitano<br />

i figli a spaccare le gambe all'avversario o che<br />

danno vita a risse da saloon con i genitori dell'altra


46<br />

squadra.<br />

Anche questa è<br />

violenza, immediata e<br />

istigatrice di altra<br />

violenza, altrettanto<br />

pericolosa. E' rimasta<br />

storica la scena di due squadre di bambini che, ad<br />

un certo momento, in un campetto della Toscana<br />

smisero di giocare e tornarono negli spogliatoi per<br />

protesta contro i propri genitori che si stavano<br />

scazzottando in tribuna.<br />

La violenza si traduce in atti di diversa gravità a<br />

seconda del contesto specifico.<br />

Tutti abbiamo ancora negli occhi le immagini terribili<br />

dell'aggressione armata di tifosi del Catania contro<br />

i poliziotti, culminata con l'uccisione dell'Ispettore<br />

Raciti.<br />

E non possiamo dimenticare l'omicidio di tifosi<br />

uccisi dentro lo stadio da un razzo lanciato dalla<br />

curva opposta, o accoltellati fuori del campo prima<br />

dell'inizio della partita.<br />

La violenza organizzata delle tifoserie in Italia ha<br />

avuto, negli ultimi anni, come bersaglio principale<br />

le forze dell'ordine, secondo uno schema ideologico<br />

e operativo fortemente mutuato dalle azioni di<br />

guerriglia urbana tipiche dell'antagonismo politico<br />

sovversivo.<br />

Poliziotti e carabinieri sono al primo posto nell'elenco<br />

dei "nemici" dei gruppi organizzati di tifosi ultras.<br />

Nello slogan ACAB (all the cops are bastard) tutti<br />

costoro si riconoscono, senza differenza di tifo per<br />

una squadra o un'altra, senza distinzione politica<br />

tra destra e sinistra.<br />

A me, quale Giudice Sportivo della Federazione<br />

Calcio, è capitato di sanzionare cori e striscioni<br />

che inneggiavano alla strage di Nassirya in stadi<br />

diversi, notoriamente monopolizzati da tifoserie di<br />

opposte tendenze politiche.<br />

Non è scomparso l'odio che, storicamente, divide<br />

i tifosi violenti di una squadra da quelli di un'altra:<br />

Brescia e Bergamo; Milan e Genoa; Torino e<br />

Juventus; Lazio e Roma, solo per fare qualche<br />

esempio.<br />

E il copione è sostanzialmente immutato: aggressioni<br />

reciproche tra gruppi fuori dello stadio, prima e<br />

dopo la gara, con mazze, bastoni, bombe-carta e<br />

simili.<br />

Ma neppure mancano forme di violenza organizzata<br />

"domestica", rivolta cioè contro la propria società,<br />

i suoi dirigenti o giocatori, colpevoli di scarsi risultati<br />

o di qualche rifiuto ad assecondare richieste di<br />

questi tifosi.<br />

Più di una volta il campo è stato invaso, o l'impianto<br />

sportivo è stato devastato non per protesta contro<br />

arbitro o giocatori avversari, ma con premeditata<br />

intenzione di danneggiare la propria dirigenza.<br />

Ed è passata agli annali l'aggressione contro un<br />

calciatore reo di non aver esultato dopo un gol<br />

sotto la curva degli ultras, disconoscendo, con tale<br />

comportamento, l'autorità di quel gruppo come<br />

unico e legittimo depositario del tifo di quella<br />

squadra!<br />

Le cifre del Ministero degli Interni, prima ricordate,<br />

danno adeguato conto anche di un'altra forma di<br />

violenza organizzata.<br />

E' la violenza contro le cose, che si traduce in<br />

distruzione di vagoni ferroviari, saccheggio di bar<br />

e autogrill, danneggiamento degli arredi urbani<br />

oltreché degli impianti sportivi.<br />

La situazione - come si è visto - è da ultimo<br />

leggermente migliorata, anche grazie ai divieti, per


tifosi ospiti, di assistere a partite considerate "a<br />

rischio" dalle Autorità di Pubblica Sicurezza.<br />

Ma il pericolo è ancora attuale, tanto che i quartieri<br />

attorno allo stadio, in occasione di determinate<br />

gare, assomigliano più a zone di coprifuoco che a<br />

cornici di un evento sportivo.<br />

E' facile comprendere, allora, quali siano gli aspetti<br />

perversi di questa violenza, organizzata e non, sulla<br />

manifestazione sportiva.<br />

E' profondamente mutato il clima complessivo di<br />

una partita di calcio.<br />

Non è una frase fatta; non è un nostalgico rimpianto<br />

del bel tempo che fu, ma purtroppo la realtà di<br />

una negativa involuzione.<br />

I ragazzi di quaranta anni fa andavano anche da<br />

soli allo stadio perché non era un luogo pericoloso.<br />

I tifosi delle due squadre erano seduti o in piedi gli<br />

uni vicino agli altri. La tradizione, nelle famiglie<br />

tifose, era recarsi tutti insieme alla partita, come al<br />

cinema o a un qualunque altro divertimento.<br />

Oggi non è più così.<br />

La partita è diventata oggetto di riunioni nelle<br />

Prefetture e al Viminale come accade per le<br />

manifestazioni che possono degenerare in violenza<br />

collettiva. I protocolli operativi di sicurezza<br />

assomigliano a piani di intervento militare.<br />

Dentro gli stadi e nelle vie di accesso, è fisicamente<br />

percepibile - certo non sempre, ma molto spesso<br />

- una tensione che dovrebbe essere inconcepibile<br />

per un appuntamento destinato allo svago e al<br />

tempo libero.<br />

Personalmente ho la fortuna di assistere, con una<br />

certa frequenza, a partite di calcio all'estero.<br />

A parte qualche rara eccezione, sembra di vivere<br />

in un altro mondo rispetto all'Italia.<br />

47<br />

Gli stadi sono pieni di gente<br />

che urla, incita, protesta,<br />

gioisce e si dispera per un<br />

gol segnato o subito, come<br />

è giusto che sia per chi è<br />

tifoso. Ma tutto finisce lì; non<br />

ci sono cariche di polizia. Non ci sono lanci di razzi<br />

o di seggiolini divelti; non ci sono assalti contro i<br />

sostenitori avversari.<br />

Il tifo occupa il suo spazio naturale; è un protagonista<br />

positivo della gara.<br />

In Italia il danno prodotto dalla violenza nel calcio<br />

è enorme.<br />

Gli stadi oggi sono semivuoti, complice certo anche<br />

la comodità della Pay-Tv, che però esiste anche<br />

negli altri Paesi e non provoca un simile effetto.<br />

Talora, addirittura, le partite si disputano a porte<br />

chiuse o senza la presenza di tifosi ospiti per<br />

ragioni di ordine pubblico. Decisioni assolutamente<br />

opportune, anzi necessarie, che suonano però<br />

come una dichiarazione di fallimento rispetto<br />

all'essenza dello sport.<br />

Molti, da tanti punti di vista, si sono interrogati sul<br />

che fare. E qualche passo avanti si è compiuto<br />

negli ultimi anni.<br />

Credo si debba partire dall'origine della degenerazione<br />

del tifo organizzato, che nasce da molte<br />

cause.<br />

Non sono né uno psicologo né un sociologo. La<br />

mia analisi non pretende di avere fondamenti<br />

scientifici, ma è frutto dell’esperienza concreta<br />

maturata come Magistrato e Dirigente Sportivo.<br />

Alla base del tifo violento organizzato vi è un cemento<br />

unitario costituito dall’idea del tutto distorta "dell'ap-


48<br />

partenenza" di sé ad<br />

una squadra, e<br />

reciprocamente della<br />

squadra a sé. Un'idea<br />

che si concretizza nella<br />

creazione di un mondo<br />

chiuso, che si rapporta agli "avversari” - poliziotti<br />

e altri - solo in termini di ostilità, di guerra, e che<br />

comporta il riconoscimento di propri capi; l'adozione<br />

di modi di comportamento militare; l'accettazione<br />

come assolute delle proprie regole interne e la<br />

violazione altrettanto assoluta di tutte le altre regole<br />

che in qualche modo contrastano o si frappongono<br />

alle prime.<br />

Poi, certo, c'è anche dell'altro.<br />

C'è la contaminazione tra estremismo sportivo ed<br />

estremismo politico. C'è la deriva di delinquenza<br />

comune, per cui certe curve negli stadi sono luoghi<br />

di spaccio di droga. C'è il profilo affaristico, per<br />

cui i leader di certe frange ultras fanno di mestiere<br />

il capo tifoso che specula sulla rivendita dei biglietti<br />

o l'organizzazione delle trasferte.<br />

Ma il punto fondamentale rimane, a mio parere,<br />

quello che ho detto prima: la concezione "talebana"<br />

dell'appartenenza ad una squadra.<br />

Il che fare esige risposte diverse ma coordinate.<br />

Le manifestazioni di violenza vanno represse con<br />

severità, senza concedere attenuanti giustificate<br />

sbrigativamente con l'argomento che, in fondo, si<br />

tratta solo di sport.<br />

Quando si uccide, si ferisce, si devasta le indulgenze<br />

o le sottovalutazioni sono del tutto fuori luogo. La<br />

prevenzione della violenza deve essere appannaggio<br />

di strutture e uomini professionalmente qualificati.<br />

Su questo terreno, per fortuna, l'Italia è molto<br />

progredita negli ultimi anni.<br />

I protagonisti dello sport - atleti, allenatori, dirigenti<br />

- devono considerare prioritario l'impegno contro<br />

la violenza. Questo sia per evidenti ragioni etiche,<br />

sia per una lungimirante strategia di contrasto a<br />

condotte che potrebbero portare alla decadenza<br />

definitiva di questo mondo.<br />

Al fondo, meglio all'inizio, ci deve essere l'impegno<br />

di tutti - la politica nazionale, gli enti territoriali, le<br />

istituzioni scolastiche, le famiglie - per un'educazione<br />

alla correttezza, al rifiuto delle scorciatoie (il doping<br />

in primo luogo), al rispetto degli altri.<br />

Al termine di questo percorso, aspro e non breve,<br />

potremo di nuovo considerare il tifo calcistico per<br />

una squadra come la sola cosa alla quale ciascuno<br />

rimane fedele per tutta la vita, come ebbe a scrivere<br />

un grande poeta e romanziere Sud Americano.


19.656 sono le denunce di violenza sulle donne<br />

presentate presso le Questure e i Comandi Carabinieri<br />

del <strong>Piemonte</strong> tra il 2005 e il 2007<br />

Di cui:<br />

1.042 sono violenze e tentate violenze sessuali<br />

439 molestie<br />

779 maltrattamenti<br />

5.726 lesioni<br />

6.614 minacce<br />

4.958 ingiurie<br />

66 tentati omicidi<br />

32 omicidi<br />

Indagine sulla violenza alle donne in <strong>Piemonte</strong><br />

realizzata dalla<br />

Consulta delle Elette del <strong>Piemonte</strong>, 2009


Brunella Ruffa<br />

Psicologa, consulente Dipartimento Patologia delle Dipendenze,<br />

ASL TO3<br />

Dipendenze e<br />

violenza:<br />

una relazione<br />

complessa<br />

La mia riflessione sul tema della violenza parte dalla<br />

personale esperienza di lavoro con persone afflitte da<br />

problemi di dipendenza. Volutamente non ho usato il<br />

termine “tossicodipendenti” che evoca principalmente<br />

l'immagine stereotipata dell'eroinomane, così come lo<br />

si incontrava nei decenni passati. L'intento è quello di<br />

chiarire i nessi tra l'uso di sostanze e i fenomeni di<br />

violenza.<br />

E' inevitabile affrontare l’argomento per linee generali,<br />

mentre la quotidianità ci comunica lo stupore di fronte<br />

a storie, persone, sostanze, rapporti, emozioni, ogni<br />

volta differenti e particolari.<br />

Argomento di dibattito può essere la pericolosità<br />

dell'eroinomane, data la quantità di reati che lo vedono<br />

colpevole. Si tratta di reati ripetuti contro il patrimonio,<br />

dovuti per lo più all'urgenza di procacciarsi il denaro


per l'eroina, per placarne i sintomi d'astinenza. In<br />

altri casi l'azione delinquenziale e violenta può<br />

essere connessa anche alla personalità sociopatica<br />

di alcuni tossicodipendenti, ma non è conseguenza<br />

diretta degli effetti biochimici di questa droga sul<br />

cervello, a differenza di come avviene con la cocaina.<br />

L'incapacità di controllare la propria aggressività<br />

e lo stato di eccitazione indotti, come vedremo,<br />

dalla cocaina, rendono notevolmente più pericolosi<br />

gli atti delinquenziali, che possono trasformarsi in<br />

azioni molto violente. Non è infrequente che l'uso<br />

combinato di sostanze dagli effetti tra loro diversi,<br />

quali eroina e cocaina, possa indurre chi le consuma<br />

a compiere crimini anche efferati.<br />

Un altro motivo per cui forse siamo portati ad<br />

associare la violenza, e la paura che ne deriva, alla<br />

persona del tossicodipendente, deriva dalla modalità<br />

d'uso di sostanze per via endovenosa, che rappresenta<br />

un primo gesto violento.<br />

Il “bucarsi”, infatti, può rappresentare una forma<br />

di aggressività autodiretta; dove il rituale dei gesti<br />

di assunzione acquisisce priorità rispetto<br />

all'assunzione stessa, agli effetti specifici dello<br />

stupefacente. Talvolta invece la modalità iniettiva<br />

non ha il significato di violenza verso se stessi ma,<br />

in personalità dall'identità particolarmente fragile,<br />

è possibile che il sentire l'ago che la sfiora e affonda<br />

nella pelle, paradossalmente, sia una delle poche<br />

risposte positive alla ricerca del contatto con sé,<br />

che confermi la propria esistenza.<br />

Assolta parzialmente l'eroina dalla genesi di violenza,<br />

va ricordato che tra le sostanze alcuni psicostimolanti<br />

(cocaina, anfetamine...), specie se associati<br />

51<br />

all'alcol, tendenzialmente<br />

hanno la capacità di accrescere<br />

i comportamenti violenti<br />

in personalità predisposte.<br />

Inoltre la cocaina può indurre<br />

pensieri a carattere persecutorio,<br />

i quali possono giocare come ulteriore<br />

fattore scatenante l'aggressività; analoghi effetti<br />

possono essere prodotti anche da episodi di abuso<br />

o di intossicazione.<br />

Il fatto che non sia necessario aver strutturato una<br />

dipendenza da sostanze, oltre tutto di largo consumo<br />

e delle quali non si conoscono a fondo le implicazioni,<br />

rende forse più imprevedibili gli eccessi<br />

aggressivi; il soggetto e i familiari non si aspettano<br />

certi scatti d'ira improvvisi, un comportamento<br />

minaccioso, aggressività aperta.<br />

E’ il caso degli etilisti: quando la violenza si manifesta<br />

nell'ambito domestico, ha le conseguenze più<br />

devastanti, verso tutti, il coniuge, i figli e il loro<br />

sviluppo psicologico, i genitori increduli.<br />

Spesso i familiari, emotivamente molto coinvolti,<br />

non sono in grado di capire la portata del problema,<br />

le possibili cause e valutare adeguatamente le<br />

contromisure da attuare. Così la violenza<br />

intrafamiliare perdura e si ripete per molto tempo,<br />

le relazioni tendono a strutturarsi con dinamiche in<br />

corto circuito segnate dal senso di colpa, dalla<br />

frustrazione, dall'insicurezza che altro non fanno<br />

che acuire i sentimenti di rabbia reciproca.<br />

Ne consegue un tardivo riconoscimento del<br />

problema e quindi interventi meno tempestivi e<br />

incisivi.<br />

Un altro motivo per cui le persone che abusano o<br />

diventano dipendenti dalla cocaina non accedono


52<br />

facilmente ai servizi<br />

deputati alla cura delle<br />

patologie da dipendenza<br />

(mi riferisco ai servizi<br />

pubblici) è la connotazione<br />

negativa che li<br />

contraddistingue. Sicuramente è compito dei servizi<br />

stessi fare cultura e politica in questo senso, così<br />

da migliorare la propria immagine. Dovrebbero<br />

aprirsi di più al confronto con la società e a loro<br />

volta agire con meno violenza nei confronti dei<br />

propri pazienti. Anche in questo caso è voluto l’uso<br />

di un termine forte associato a chi lavora per la<br />

cura, perché penso che gli operatori dovrebbero<br />

essere tra i primi a lottare contro lo stigma sociale<br />

che offende le persone con problemi di dipendenza.<br />

Dovrebbero tenere a mente, tra gli obiettivi principali<br />

delle terapie, anche la dignità da restituire ai pazienti,<br />

anziché solo banalmente “accoglierli” in ambienti<br />

per lo più squallidi, marginali, disadorni, trascurati,<br />

che spesso richiamano a immagini violente.<br />

Pensiamo a quei servizi che occupano strutture in<br />

precedenza destinate ad altri scopi: scantinati,<br />

camere mortuarie, ospedali psichiatrici...<br />

Appurato che la dipendenza da sostanze o da<br />

comportamenti additivi è una patologia, al pari del<br />

diabete o dell'anoressia, ne consegue per il paziente<br />

il diritto a luoghi adeguati e, soprattutto, a tempi di<br />

cura efficaci, armonici con la propria vita sociale<br />

e lavorativa, il più delle volte da ricostruire. Invece<br />

proprio questi ultimi spesso si scontrano con la<br />

rigidità delle istituzioni che impongono orari limitati<br />

e luoghi scomodi per l'assunzione dei farmaci<br />

indispensabili, frutto di una cultura che li classifica<br />

come malati, un po' meno malati degli altri (perché<br />

“se la sono andati a cercare”) e dottori che li<br />

sentono come pazienti, più impazienti degli altri,<br />

mentre è proprio questo tipo di discriminazione, di<br />

violenza subita, che genera l’impazienza.<br />

Premesso dunque che non tutte le sostanze hanno<br />

la stessa capacità di generare o scatenare reazioni<br />

aggressive, focalizzerei l'attenzione ora, non tanto<br />

sulla sostanza, quanto piuttosto sulla psiche del<br />

soggetto, come già si è potuto leggere tra le righe<br />

precedenti.<br />

E' frequente che persone con disturbi di personalità<br />

tra le cui caratteristiche distintive si riconoscono<br />

impulsività, aggressività, scarso controllo della<br />

rabbia (ad esempio organizzazione di personalità<br />

di tipo borderline o disturbi di personalità narcisistici<br />

o antisociali), presentino un quadro complicato<br />

dall'uso di sostanze stupefacenti. L'intreccio diventa<br />

ancor più complesso quando questi soggetti sono<br />

poliassuntori e cioè fanno uso di molti tipi di sostanze<br />

diverse, i cui effetti non solo si sommano, ma si<br />

amplificano reciprocamente. Questi tratti psicopatologici<br />

sono molto frequenti anche in altre<br />

personalità, per esempio con problemi di addiction<br />

o di dipendenza non da sostanze, come i giocatori<br />

d'azzardo patologici.<br />

E' oggetto di studi quanta parte abbiano i traumi,<br />

l'essere stati vittime di violenza o l'essere stati<br />

esposti a scene di violenza in età infantile, nello<br />

sviluppo dei suddetti disturbi di personalità. Le<br />

teorie convergono comunque nel ritenere importante<br />

il fattore violenza nell'eziopatogenesi, soprattutto<br />

quando ad essa si associa una cattiva, se non nulla<br />

capacità di elaborazione dell'esperienza. Oltre alla<br />

violenza subita nell'infanzia, quale fattore di rischio,<br />

dobbiamo pensare all'assenza o all'instabilità di


figure adulte di riferimento in grado di fornire al<br />

bambino un valido contenimento affettivo e una<br />

solida base per lo sviluppo della capacità di<br />

mentalizzare gli stati emotivi. E' su questo secondo<br />

fattore che dovrebbero insistere tutte le agenzie<br />

sociali: cogliendo tempestivamente i segnali di<br />

fragilità dei nuclei familiari, fornendo adeguato<br />

supporto alle figure genitoriali esistenti, oppure, se<br />

questo non è possibile, individuando validi sostituti.<br />

Constatato che alcune sostanze scatenano reazioni<br />

aggressive e che l'essere stati vittime di violenza<br />

in età precoce, in assenza di un ambiente protettivo,<br />

sono fattori di rischio nello sviluppo di alcune<br />

psicopatologie su cui si innesta agevolmente l'uso<br />

e l'abuso di sostanze psicoattive, è evidente che<br />

siamo di fronte ad un circolo vizioso che è<br />

responsabilità civile interrompere senza pregiudizi.<br />

Vorrei dedicare un'ultima riflessione alle giovani<br />

generazioni, spesso ritratte dai media come<br />

“drogate” e violente. Sicuramente tra i ragazzi c'è<br />

larga diffusione di sostanze, per la ricerca della<br />

novità e della trasgressione, oppure del piacere,<br />

della prestazione, per trovare distrazione, forse<br />

anche per la ricerca di un senso al tutto. E’ anche<br />

vero che troppo spesso ci troviamo di fronte a gesti<br />

di violenza inaudita e sconcertante. Non penso<br />

però che tra i due fenomeni esista sempre un<br />

rapporto lineare di causa-effetto. Piuttosto<br />

potrebbero essere entrambi frutto di una società<br />

tendenzialmente nichilista, intrinsecamente violenta,<br />

arrivista e individualista.<br />

Potrebbero essere il frutto dell'incapacità sia di<br />

gestire i conflitti, sia di mediare tra il sentire e<br />

l'agire, laddove la droga o l'impulsività sono due<br />

modalità del corpo per esprimere ciò che la mente<br />

53<br />

non è riuscita a leggere e<br />

decifrare. Potrebbero essere<br />

entrambi conseguenza<br />

dell'analfabetismo emotivo<br />

che incontriamo in molti<br />

giovani, in contrasto con la<br />

ricchezza di stimoli, lezioni e cibi con cui abbiamo<br />

avuto cura di farli crescere: responsabilità delle<br />

famiglie e responsabilità della scuola.<br />

Mi domando se invece la società attuale degli adulti<br />

sia in grado di operare questa mediazione, di<br />

pensare prima di agire, di riconoscere, valorizzare<br />

e dare un significato e una collocazione ai sentimenti,<br />

oppure se non abbia la tendenza ad escluderli, a<br />

relegarli nell'area degli inutili accessori se non<br />

addirittura a quella degli impedimenti. E gli adulti<br />

siamo noi.


Laura D’Amico<br />

Avvocata penalista specializzata in diritto del lavoro<br />

Mobbing<br />

e diritto penale<br />

Come avvocato penalista mi sono specializzata nel<br />

diritto del lavoro, sia penale, sia civile. Nel secondo<br />

ambito, tuttavia, mi sono occupata soltanto di aspetti<br />

legati ai danni da lavoro, quindi il risarcimento dei danni<br />

derivanti da malattie professionali o da infortuni sul<br />

lavoro.<br />

Nel corso di queste esperienze, negli ultimi anni, ho<br />

incontrato vari casi di cosiddetto “mobbing”. Con<br />

questo termine si indicano le vessazioni subite nei<br />

luoghi di lavoro, situazioni che distinguiamo tra “mobbing<br />

verticale”, cioè operato da superiori nei confronti di<br />

inferiori, e “mobbing orizzontale”, creato da lavoratori<br />

in danno di altri lavoratori.<br />

Le esperienze sono piuttosto recenti. Parlando del<br />

caso torinese, l'autorità giudiziaria penale, in particolare<br />

la Procura della Repubblica presso il Tribunale di<br />

Torino, tra gli altri vari danni da lavoro, ha posto<br />

attenzione al mobbing da circa 10-12 anni, non di più.<br />

Ciò è avvenuto con parecchie difficoltà giacché nella<br />

legislazione italiana non esiste una fattispecie criminosa<br />

di mobbing già prevista e disciplinata, e dunque si<br />

deve operare con gli strumenti di lavoro esistenti, cioè<br />

gli articoli del Codice Penale e le fattispecie già previste<br />

dal Codice.


Solo una minima parte dei fatti, in genere quelli più<br />

eclatanti, arriva all’autorità giudiziaria; i fatti, cioè,<br />

che presentano nell'aspetto fenomenologico i<br />

requisiti richiesti dall'autorità giudiziaria per<br />

individuare un'ipotesi di reato la quale, per l'esperienza<br />

torinese, è normalmente quella di maltrattamenti<br />

(reato di cui all'articolo 572 del codice<br />

penale, che presuppone una reiterazione nel tempo<br />

dei comportamenti illeciti, in danno di un sottoposto,<br />

ad esempio persona di cui si ha la cura per motivi<br />

di professione o di arte). Occorre sottolineare che<br />

questa ipotesi, nata col Codice Rocco del 1930 in<br />

un momento in cui non si parlava certo di mobbing,<br />

sconta il momento storico in cui è stata formulata.<br />

Detto questo, solo una minima parte dei fatti arriva<br />

ai nostri studi legali che fungono più che altro da<br />

punto di ascolto, sfogo e consulenza; tra questi<br />

ancora meno arrivano di fronte all’autorità giudiziaria.<br />

Sappiamo poi che di mobbing si parla anche nelle<br />

sedi giudiziarie civili, nei casi in cui il lavoratore<br />

chiede al giudice civile del lavoro tutela per tutti i<br />

danni che possono essere derivati dalla situazione<br />

definita di mobbing. Di solito si tratta di persone<br />

che, nonostante psicologicamente prostrate, hanno<br />

ancora volontà e forze morale per avviare un azione<br />

di difesa.<br />

Vi sono poi le difficoltà che l'autorità giudiziaria<br />

incontra nell'accertamento della verità, che possono<br />

essere distinte in un doppio profilo: di merito e di<br />

tecnica giuridica.<br />

Per quanto riguarda il profilo di merito, cioè<br />

l'accertamento della verità attraverso la raccolta<br />

delle prove, la difficoltà maggiore deriva dalla scarsa<br />

55<br />

disponibilità dei compagni di<br />

lavoro del mobbizzato a<br />

confermare le circostanze da<br />

lui denunciate. Questo avviene<br />

perché, da un lato vi è scarsa<br />

sensibilità e scarso spirito di<br />

solidarietà tra i lavoratori, dall'altro perché di solito<br />

il datore di lavoro interviene in modo pressante<br />

sugli altri compagni di lavoro per indurli a non<br />

testimoniare. Insomma, nei luoghi di lavoro nei quali<br />

si verifica un caso di mobbing c'è sempre un datore<br />

di lavoro che imposta le relazioni sulla base della<br />

prepotenza e della prevaricazione, creando un<br />

ambiente poco ispirato a principi di rispetto e<br />

democrazia anche nei rapporti interpersonali.<br />

Sotto il profilo del merito, vi è poi anche una difficoltà<br />

legata all'accertamento delle conseguenze che<br />

l’attività di mobbing può aver provocato sul soggetto<br />

mobbizzato. Anche la cultura medica, infatti, che<br />

pure per quanto riguarda il mobbing è più avanzata<br />

di quella giuridica, sconta ancora una serie di ritardi<br />

e di complicanze nell'accertamento.<br />

Esiste infine una difficoltà, più squisitamente di<br />

tecnica giuridica, vale a dire riuscire a trovare delle<br />

vie percorribili, dal punto di vista del diritto penale,<br />

che consentano di dare tutela a coloro che hanno<br />

subito mobbing.<br />

Svolta questa necessaria premessa, passerò a<br />

descrivere le forme concrete assunte dagli interventi<br />

di mobbing: anzitutto si comincia con una serie di<br />

contestazioni di addebiti, prima solo informali e<br />

verbali, poi formali attraverso comunicazioni scritte,<br />

anche se i destinatari sono soggetti che presentano<br />

obiettivamente un buon livello di qualificazione


56<br />

professionale. Le<br />

contestazioni iniziano<br />

per motivi futili, quando<br />

non infondati, spesso<br />

pretestuosi e anche<br />

provocatori.<br />

Successivamente si assiste ad una forma di<br />

denigrazione vera e propria, diffamazione che il<br />

datore di lavoro, in assenza del lavoratore, promuove<br />

presso i suoi colleghi: il passo successivo è<br />

l'isolamento all'interno dell'ambiente di lavoro.<br />

Sintetizzando, in un primo momento il datore di<br />

lavoro ufficializza il momento di scontento, a seguire<br />

manifesta quello di palese sfiducia, poi procede<br />

con l’isolamento. Gli interventi successivi includono<br />

minacce più o meno larvate rivolte ai compagni di<br />

lavoro, ai quali si intima di isolare costantemente<br />

il lavoratore. In molte situazioni e in molti giudizi<br />

penali, quando qualche persona ha avuto il coraggio<br />

di riferircelo, abbiamo rilevato che ai colleghi veniva<br />

detto che con quel lavoratore non si doveva più<br />

parlare, che non bisognava più salutarlo, nemmeno<br />

durante i momenti di pausa, e che il datore di lavoro<br />

avrebbe tenuto in considerazione il comportamento<br />

di ciascuno.<br />

In seguito il soggetto mobbizzante cerca di<br />

intervenire più o meno istintivamente sulla psiche<br />

del lavoratore già oggetto di mobbing, per cercare<br />

di piegarne la forza, quando non la fierezza, nel<br />

tentativo di indurlo a dubitare nelle proprie capacità<br />

professionali e relazionali. La cosa che, in base<br />

alla mia esperienza, ferisce di più è proprio<br />

l'isolamento dei compagni, la mancata solidarietà.<br />

Se infatti è possibile resistere e reagire quando si<br />

ha un datore di lavoro che attua comportamenti<br />

palesemente ingiusti ma si ha la solidarietà dei<br />

compagni di lavoro, l’isolamento colpisce molto<br />

duramente. E’ una situazione che può essere<br />

abbastanza frequente nei luoghi di lavoro, specie<br />

se di dimensioni medio-piccole, dove il ricatto del<br />

posto di lavoro è molto sentito.<br />

In base alle situazioni analizzate, posso affermare,<br />

in termini generali, che mobbing e la possibilità di<br />

mobbizzare sono inversamente proporzionali alla<br />

forza contrattuale delle maestranze e alla presenza<br />

delle organizzazioni sindacali. Tanto più è presente<br />

un'organizzazione sindacale, tanto più forte e<br />

costante è la sua presenza, altrettanto difficile è<br />

per un datore di lavoro perpetrare disegni di<br />

mobbing, posto che il lavoratore sappia di avere<br />

al proprio fianco dei rappresentanti sindacali sensibili<br />

al tema.<br />

Un pronto intervento delle organizzazioni sindacali<br />

normalmente è il primo momento di efficacissima<br />

prevenzione; al contrario, nelle realtà lavorative<br />

dove le organizzazioni sindacali non ci sono, oppure<br />

sono poco presenti o deboli, il potere contrattuale<br />

e di resistenza del lavoratore diminuisce fortemente.<br />

Ciò avviene soprattutto di fronte a rapporti di lavoro<br />

fragili per la loro precarietà; è proprio il precariato<br />

che il lavoratore vive da anni che lo costringe a<br />

subire, pena la perdita del posto di lavoro e il<br />

mancato rinnovo dei contratti atipici o a tempo.<br />

Tenendo presente che il mobbing ha la finalità<br />

ultima di allontanare il lavoratore dall’ambiente di<br />

lavoro, un’ulteriore osservazione che voglio fare è<br />

relativa alle tipologie di soggetti che in prevalenza<br />

lamentano i comportamenti mobbizzanti e alla<br />

relazione, sicuramente esistente, tra mobbing,<br />

discriminazione e violenza in un'accezione molto<br />

ampia del termine, intendendo per violenza non


solo quella fisica, che ricorre meno, quanto piuttosto<br />

quella psicologica, assai più frequente.<br />

Anzitutto, oggetto di mobbing sono mediamente<br />

più le donne che gli uomini; il perché non è semplice<br />

da determinare. Si presume che nell'ambiente di<br />

lavoro le donne siano viste, e in parte siano<br />

realmente, un soggetto debole tra le maestranze;<br />

sono anche coloro che conoscono maggiormente<br />

il precariato nei rapporti di lavoro; sono quelle,<br />

infine, che subiscono di più il rapporto gerarchico,<br />

anche perché, normalmente, le posizioni intermedie<br />

nel panorama apicale non sono rivestite da donne,<br />

ma da uomini: si ripete nei rapporti di lavoro una<br />

condizione che, ahimè, si trova anche all'esterno.<br />

Tutto questo non significa che non vi siano donne<br />

manager che mobbizzano uomini: anche questo è<br />

arrivato alle cronache (forse un po' meno giudiziarie<br />

e un po' più di costume), ma normalmente, per la<br />

mia esperienza, le maestranze femminili, quelle che<br />

tra l'altro occupano i primi gradini nei livelli di<br />

responsabilità rispetto alle mansioni lavorative, sono<br />

coloro che sicuramente subiscono di più. Inoltre,<br />

le donne sono allontanate dai luoghi di lavoro<br />

quando è subentrata un'infermità o quando<br />

diventano meno produttive. Anziché tener conto,<br />

in ossequio alla legislazione penale del lavoro, della<br />

diminuita capacità di produrre redditi da lavoro,<br />

magari per malattie contratte a causa del lavoro<br />

stesso, si cerca di indurle ad andarsene. Con ciò<br />

si evita un contenzioso in ambito lavorativo, dato<br />

che è molto più rischioso e costoso licenziare in<br />

modo illegittimo.<br />

Ci sono infine situazioni in cui le donne sono oggetto<br />

di mobbing da parte dei superiori quando non<br />

aderiscono a inviti non graditi in ambito sessuale<br />

(non ne sono a conoscenza, ma può darsi che<br />

57<br />

questo avvenga anche per gli<br />

uomini); allora ecco che,<br />

quando le molestie sessuali<br />

trovano una donna reattiva,<br />

si sfocia nel mobbing, perché<br />

a quel punto il molestatore,<br />

se ha una posizione apicale, deve fargliela pagare<br />

e allontanarla.<br />

Oltre a ciò, altre categorie di soggetti che possono<br />

essere destinatari di interventi di mobbing sono i<br />

sindacalizzati, che possono dare fastidio perché<br />

magari rivendicano qualcosa e, di fronte a soprusi<br />

e a diritti non riconosciuti o calpestati, reagiscono.<br />

Anche lavoratori che intendono scriversi ad<br />

un'organizzazione sindacale o vogliono essere più<br />

presenti nei momenti di dibattito interno, sono<br />

soggetti a rischio.<br />

A volte le discriminazioni passano attraverso la<br />

divulgazione, tra i compagni di lavoro, di notizie<br />

ansiogene. Per esempio quelle per cui se il datore<br />

di lavoro dovesse subire le richieste che i soggetti<br />

mobbizzati portano avanti, l’azienda chiuderebbe.<br />

Far nascere tra i lavoratori il timore per la stabilità<br />

del loro posto di lavoro, li induce a non sostenere<br />

le rivendicazioni sindacali.<br />

Altri soggetti che possono essere vittime di mobbing<br />

sono le persone “indesiderate”. Tra i vari indesiderati<br />

ci sono, ad esempio, le persone con disabilità che,<br />

per legge, i datori di lavoro sono vincolati ad<br />

assumere. Nei casi in cui tali soggetti, a causa<br />

della loro condizione personale, dimostrino di non<br />

riuscire ad assolvere pienamente le proprie<br />

mansioni, capita che il datore di lavoro cerchi di<br />

indurli alle dimissioni. Per arrivare all’obiettivo,<br />

talvolta si passa, in modo vergognoso, attraverso


58<br />

il dileggio della sua<br />

infermità, nel tentativo<br />

ultimo di isolare il<br />

lavoratore dai compagni<br />

di lavoro, ai quali si fa<br />

credere, ad esempio, di<br />

doversi sobbarcare una parte del lavoro che la<br />

persona disabile non riesce a svolgere. I datori<br />

hanno terreno fertile in compagni di lavoro sempre<br />

meno sensibili; la mancanza di solidarietà nei<br />

luoghi di lavoro non è un fatto isolato, è al contrario<br />

un fenomeno legato all'imbarbarimento dei costumi<br />

e delle sensibilità che, a mio avviso, sta attraversando<br />

tutta la società creando terreno fertile per<br />

soprusi, tanto più ingiusti nel caso delle persone<br />

con disabilità perché coinvolgono difficoltà oggettive.<br />

Anche per gli stranieri esiste senza dubbio un<br />

rapporto tra violenza, mobbing e discriminazione:<br />

direi che ciò vale più per i migranti che provengono<br />

dal Sud del mondo, che per quelli che vengono<br />

dall'Europa dell'Est. Questo perchè all'interno delle<br />

maestranze, sono i più docili, quelli più disposti ad<br />

accettare qualsiasi forma di lavoro, anche il più<br />

disagiato e illecito pur di trovare un minimo di<br />

sostentamento, subiscono maggiormente il ricatto<br />

del posto di lavoro, poiché vengono da condizioni<br />

familiari e sociali di particolare disagio, come<br />

succedeva agli italiani all'inizio del Novecento. I<br />

lavoratori stranieri subiscono anche forme odiose<br />

di razzismo, poste in essere soprattutto dai superiori<br />

gerarchici, ma che trovano terreno fertile anche tra<br />

i compagni di lavoro. Per questo sono oggetto di<br />

discriminazione e possono esserlo di mobbing.<br />

Direi, in particolare, che sono vittime del fenomeno<br />

coloro che hanno instaurato un rapporto di lavoro<br />

nell'illegalità, perché privi di permesso di soggiorno.<br />

Nei luoghi di lavoro sono presenti anche altre forme<br />

di violenza, in particolare la violenza verbale, le<br />

ingiurie, le minacce. Si tratta di situazioni che<br />

coinvolgono da un lato le posizioni apicali, quando<br />

nascono contrasti e non vi è la capacità di confrontarsi<br />

in modo democratico con i lavoratori o quando<br />

si è in presenza di fenomeni che riempiono di<br />

contenuto il mobbing. Dall'altro, i casi di violenza<br />

riguardano i rapporti orizzontali, quando scadono<br />

le relazioni interpersonali tra soggetti collocati sullo<br />

stesso livello e in particolare quando sono esplicitate<br />

le difficoltà ad accettare qualsiasi forma di diversità<br />

(di genere, di origine nazionale o etnico-razziale,<br />

di condizione di disabilità, ecc.).


19.656 sono le denunce di violenza sulle donne presentate<br />

presso le Questure e i Comandi Carabinieri del <strong>Piemonte</strong><br />

tra il 2005 e il 2007.<br />

Di cui:<br />

36,2 % delle violenze avviene in casa<br />

33,1 % delle violenze avviene tra conoscenti<br />

81,3 % delle violenze, tentate violenze, molestie e maltrattamenti<br />

è commessa da italiani<br />

41,3 % delle denunce è presentato da donne con più di 40 anni<br />

30,3 % delle denunce per stupro o tentata violenza è presentata<br />

da ragazze tra i 20 e i 30 anni<br />

Indagine sulla violenza alle donne in <strong>Piemonte</strong><br />

realizzata dalla<br />

Consulta delle Elette del <strong>Piemonte</strong>, 2009


Alida Vitale<br />

Avvocata specializzata nel diritto del lavoro<br />

Consigliera Regionale di Parità del <strong>Piemonte</strong><br />

Mobbing<br />

e diritto civile<br />

La mia esperienza di avvocata specializzata nel diritto<br />

del lavoro e di Consigliera regionale di Parità del<br />

<strong>Piemonte</strong> mi ha fornito e continua a fornirmi un<br />

osservatorio privilegiato sui fenomeni di violenze e<br />

mobbing nei luoghi di lavoro.<br />

Da diversi anni ormai si è individuata questa fattispecie<br />

(la prima sentenza che ha fatto scalpore sul tema del<br />

mobbing è del 1999, proprio del Tribunale di Torino)<br />

la quale non essendo stata definita da una legge che<br />

ne fornisca i precisi contorni, si può riassumere nei<br />

fenomeni di “rapporto conflittuale sul posto di lavoro<br />

tra colleghi o tra superiori e dipendenti, nel quale la<br />

persona attaccata viene posta in una posizione di<br />

debolezza e aggredita direttamente o indirettamente<br />

da una o più persone in modo sistematico, frequen-


temente con lo scopo o la conseguenza della sua<br />

estromissione dal mondo del lavoro” (così lo<br />

psicologo tedesco Hanz Leyman ha descritto il<br />

mobbing).<br />

Sostanzialmente si individuano quattro fasi di questo<br />

processo, che si conclude con l’espulsione delle<br />

persone dal luogo di lavoro:<br />

- il conflitto quotidiano, ovvero un contesto lavorativo<br />

che diventa difficile per la persona determinata;<br />

- l’inizio di vere e proprie vessazioni psicologiche,<br />

con attacchi diretti alla persona;<br />

- il verificarsi di mutamenti delle condizioni lavorative,<br />

magari di per sé legittimi (come i trasferimenti o il<br />

cambiamento di mansioni), ma che diventano<br />

vessatori in quanto indirizzati alla persona;<br />

- la comparsa di malattie psicosomatiche e di sintomi<br />

ossessivi nella persona, con conseguenti periodi<br />

di assenza per malattia, che spesso si concludono<br />

con il licenziamento o con le dimissioni.<br />

E’ indispensabile ricordare che, come già detto,<br />

pur non essendoci nel nostro ordinamento una<br />

legge che definisca il mobbing, esiste tuttavia una<br />

norma generalissima come l’art. 2087 del Codice<br />

Civile, che così dispone: “L’imprenditore è tenuto<br />

ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure<br />

che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza<br />

e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità<br />

fisica e la personalità morale del prestatore di<br />

lavoro”. Si tratta dunque di una norma che obbliga<br />

il datore di lavoro a vigilare affinché nella propria<br />

impresa non si verifichino situazioni che minino<br />

l’integrità fisica e psichica dei propri dipendenti.<br />

Utile per comprendere la tematica è l’iter di una<br />

fattispecie di mobbing sfociata in una recentissima<br />

sentenza della Corte di Cassazione (n.22858/ 08).<br />

Essa ha statuito che “lo spazio del mobbing,<br />

61<br />

presupponendo necessariamente<br />

la protrazione d’una<br />

volontà lesiva, è pertanto più<br />

ristretto di quello (nel quale<br />

tuttavia si inquadra) delineato<br />

dall’art.2087 del Codice<br />

Civile, comprensivo di ogni comportamento<br />

datoriale, che può essere istantaneo e fondato sulla<br />

colpa (...)”. La Suprema Corte ha inoltre stabilito<br />

che: “Se è vero, infatti, che il mobbing non può<br />

realizzarsi attraverso una condotta istantanea, è<br />

anche vero che un periodo di sei mesi è più che<br />

sufficiente per integrare l’idoneità lesiva della<br />

condotta nel tempo”.<br />

La responsabilità del datore di lavoro per mobbing<br />

non sussiste solo quando vi è un suo specifico<br />

intento lesivo, ma anche nel caso in cui il<br />

comportamento mobbizzante sia attuato da un altro<br />

dipendente e il datore di lavoro non abbia fatto<br />

abbastanza per reprimerlo; inoltre, se il mobbing<br />

proviene da un dipendente posto in posizione di<br />

supremazia gerarchica rispetto alla vittima, un mero<br />

tardivo intervento "pacificatore" del datore di lavoro,<br />

non seguito da concrete misure e da vigilanza, non<br />

è sufficiente ad escludere le responsabilità datoriali.<br />

Secondo la decisione della Corte, infatti, “integra<br />

la nozione di mobbing la condotta del datore di<br />

lavoro protratta nel tempo e consistente nel<br />

compimento di una pluralità di atti (giuridici o<br />

meramente materiali, ed eventualmente anche leciti)<br />

diretti alla persecuzione o all'emarginazione del<br />

dipendente, di cui viene lesa - in violazione<br />

dell'obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso<br />

datore dall'art. 2087 cod. civ. - la sfera professionale<br />

o personale, intesa nella pluralità delle sue<br />

espressioni (sessuale, morale, psicologica o fisica).


62<br />

Né la circostanza che la<br />

condotta di "mobbing"<br />

provenga da un altro<br />

dipendente posto in<br />

posizione di supremazia<br />

gerarchica rispetto alla<br />

vittima vale ad escludere la responsabilità del datore<br />

di lavoro - su cui incombono gli obblighi ex art.<br />

2049 cod. civ. - ove questi sia rimasto colpevolmente<br />

inerte nella rimozione del fatto lesivo,<br />

dovendosi escludere la sufficienza di un mero (e<br />

tardivo) intervento pacificatore, non seguito da<br />

concrete misure e da vigilanza”.<br />

Nel caso specifico la Suprema Corte, nel cassare<br />

la sentenza impugnata, ha rilevato che il giudice di<br />

merito aveva valutato le condotte in termini non<br />

solo incompleti, ma anche con un approccio<br />

meramente atomistico e non in una prospettiva<br />

unitaria, sottovalutando la persistenza del<br />

comportamento mobbizzante, durato per un periodo<br />

di sei mesi, “più che sufficiente ad integrare l'idoneità<br />

lesiva della condotta nel tempo”. La condotta<br />

mobbizzante, nella sostanziale inerzia del datore di<br />

lavoro, era consistita nel trasferimento, da parte di<br />

un altro dipendente gerarchicamente sovraordinato,<br />

di una dipendente (incaricata della trattazione di<br />

un progetto aziendale di rilevanza europea) dal<br />

proprio ufficio in un'area "open", senza che venisse<br />

munita di una propria scrivania, di un proprio<br />

armadio e delle risorse utili allo svolgimento<br />

dell'attività. La dipendente aveva dovuto affrontare<br />

più volte situazioni di disagio professionale e<br />

personale, per aver dovuto trattare in un luogo<br />

aperto al passaggio di chiunque attività che<br />

presupponevano riservatezza e per essere stata,<br />

in più occasioni, insultata con espressioni<br />

grossolane.<br />

Sempre con riferimento al mobbing orizzontale (tra<br />

pari), la Cassazione si era pronunciata<br />

precedentemente con la sentenza del 20 luglio<br />

2007, n. 16148. Si trattava del caso di un ex<br />

dipendente dell’Enel che, per molti anni, era stato<br />

sottoposto dai colleghi a continue vessazioni,<br />

aggressioni e minacce. L'uomo aveva riportato una<br />

forte debilitazione psico-fisica, seguita poi da un<br />

infarto, e aveva chiesto i danni per mobbing solo<br />

all’esito di un procedimento penale.<br />

Con tale sentenza la giurisprudenza più recente<br />

ha confermato il fatto che viene sanzionata la<br />

colpevole inerzia del datore di lavoro nel rimuovere<br />

un fatto lesivo nei confronti del/della dipendente e<br />

che un periodo piuttosto breve del comportamento<br />

lesivo è idoneo ad integrare la fattispecie di mobbing.<br />

Non è semplice tipizzare le condotte mobbizzanti<br />

ma, analizzando ciò che comunemente accade,<br />

esse si possono così sintetizzare: demansionamento<br />

ed inattività della persona determinata; trasferimento<br />

punitivo o discriminatorio; deprivazione di mezzi<br />

tecnici o di un luogo dove svolgere il proprio lavoro;<br />

molestie sessuali; discriminazioni sulla base di<br />

sesso, etnia, orientamento religioso e sessuale;<br />

diniego continuativo di ferie e permessi; messa in<br />

ferie forzata; licenziamento per superamento del<br />

periodo di “comporto”; maltrattamenti verbali; atti<br />

umilianti, offensivi, persecutori; isolamento ed<br />

emarginazione; ripetute visite di controllo medico;<br />

apertura di posta personale; irrogazione di reiterate<br />

sanzioni disciplinari, spesso immotivate o in<br />

violazione della procedura prevista dallo Statuto<br />

dei Lavoratori; licenziamento ingiurioso ovvero<br />

quello che per forma e modalità, per le espressioni<br />

contenute nell’atto di recesso, lede la personalità


morale della persona determinata.<br />

Occorre ora chiedersi chi siano le vittime<br />

predestinate di questo tipo di comportamenti<br />

vessatori e violenti sui luoghi di lavoro. Anche in<br />

questo caso l’esperienza personale conferma<br />

pienamente quanto già la Commissione Europea,<br />

con la Raccomandazione 93/131, aveva<br />

sottolineato. Sono le donne ad essere le vittime<br />

più esposte al mobbing, specie per quello che si<br />

sostanzia in condotte sessuali; esiste un nesso<br />

inscindibile tra il rischio di molestie a sfondo sessuale<br />

e la fragilità di chi le subisce, che si trova in una<br />

posizione di soggezione, sia per forza fisica che<br />

per condizioni di lavoro. Nella grande maggioranza<br />

dei casi seguiti, le donne vittime di comportamenti<br />

mobbizzanti, a connotazione sessuale o meno,<br />

rientrano dalla maternità obbligatoria o facoltativa,<br />

oppure sono sole, separate o divorziate con vissuti<br />

di sofferenza, giovani e neoassunte, lavoratrici<br />

precarie o disabili o straniere.<br />

Per dare conto di come il mobbing comprenda le<br />

molestie e le molestie sessuali sul luogo di lavoro,<br />

dobbiamo tenere presente che detti comportamenti<br />

sono considerati atti discriminatori in ragione<br />

dell’appartenenza al genere.<br />

In particolare il Codice delle Pari Opportunità (D.<br />

Lgs. 198/06) così le definisce: “Sono considerate<br />

come discriminazioni anche le molestie, ovvero<br />

quei comportamenti indesiderati, posti in essere<br />

per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o<br />

l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di<br />

un lavoratore e di creare un clima intimidatorio,<br />

ostile, degradante, umiliante o offensivo. Sono<br />

altresì considerate come discriminazioni le molestie<br />

sessuali, ovvero quei comportamenti indesiderati<br />

a connotazione sessuale, espressi in forma fisica,<br />

63<br />

verbale o non verbale, aventi<br />

lo scopo o l’effetto di violare<br />

la dignità di una lavoratrice<br />

o di un lavoratore e di creare<br />

un clima intimidatorio, ostile,<br />

degradante, umiliante o<br />

offensivo”.<br />

E’ importante sottolineare che, contro questi<br />

comportamenti illeciti dal punto di vista civilistico,<br />

esiste anche una tutela penale. Di recente una<br />

sentenza della Corte di Cassazione (Sez. Penale<br />

n. 27469/08) ha stabilito che: “Gli atti vessatori,<br />

che possono anche essere costituiti da molestie o<br />

abusi sessuali nell’ambiente di lavoro, oltre al<br />

cosiddetto fenomeno del mobbing, risarcibile in<br />

sede civile, nei casi più gravi, possono configurare<br />

anche il delitto di maltrattamenti”. In questi casi,<br />

tuttavia, è necessario che la vittima si attivi<br />

denunciando penalmente i comportamenti subiti.<br />

Le molestie connesse al sesso possono<br />

naturalmente essere di vari tipi: richieste esplicite<br />

o implicite di prestazioni sessuali o attenzioni a<br />

sfondo sessuale non gradite e ritenute sconvenienti<br />

o offensive per chi ne è oggetto; promesse, implicite<br />

o esplicite, di agevolazioni e privilegi o avanzamenti<br />

di carriera in cambio di prestazioni sessuali e<br />

ritorsioni o minacce per avere negato tali prestazioni;<br />

contatti fisici indesiderati e inopportuni; apprezzamenti<br />

verbali sul corpo e sulla sessualità; espressioni<br />

verbali o scritti denigratori rivolti alla persona in<br />

ragione dell’appartenenza ad un determinato sesso<br />

o di diverso orientamento sessuale; esposizione<br />

sui luoghi di lavoro di materiale pornografico. Le<br />

molestie connesse al sesso, inoltre, si distinguono<br />

dalle molestie sessuali, nelle quali il comportamento<br />

indesiderato ha sempre specifica connotazione


64<br />

sessuale. Per la specificità<br />

di tali comportamenti<br />

violenti e persecutori<br />

a sfondo sessuale,<br />

rispetto a quelli mobbizzanti<br />

per altre ragioni,<br />

nel corso degli anni sono stati presentati diversi<br />

disegni di legge (anche a livello regionale) aventi<br />

ad oggetto le molestie sessuali sui luoghi di lavoro,<br />

nessuno dei quali, per ora, si è tradotto in legge.<br />

Tuttavia, nell’attesa, occorre ricordare che esistono<br />

diversi strumenti di prevenzione e di tutela delle<br />

lavoratrici e dei lavoratori, come i codici di<br />

comportamento assunti dalle Pubbliche<br />

Amministrazioni ed i Comitati Pari Opportunità,<br />

spesso previsti dalla contrattazione collettiva.<br />

Anche la figura della Consulente di Fiducia, che<br />

deve essere una persona esterna all’Ente e che<br />

viene incaricata di ascoltare i vissuti di<br />

discriminazione e di molestie, con la finalità di<br />

rimuovere le situazioni lesive della dignità e della<br />

personalità delle lavoratrici e dei lavoratori, è una<br />

figura di prevenzione e di tutela che lentamente sta<br />

facendosi strada nei luoghi di lavoro.<br />

Infine occorre ricordare la disciplina sulla sicurezza<br />

nei luoghi di lavoro, dettata dal decreto legislativo<br />

9. 4. 2008, n. 81, che non riguarda il mobbing<br />

direttamente, ma contiene varie norme comunque<br />

utili. Basti pensare alla stessa definizione di salute<br />

del lavoratore (quale stato di completo benessere<br />

fisico, mentale e sociale, non consistente solo in<br />

un'assenza di malattia o d'infermità) o al contenuto<br />

ampio e generale della «valutazione dei rischi» cui<br />

obbligatoriamente, e con compito e responsabilità<br />

non delegabile (art. 16), è chiamato il datore di<br />

lavoro (che deve effettuare una valutazione globale<br />

e documentata di tutti i rischi per la salute e la<br />

sicurezza dei lavoratori presenti nell'ambito<br />

dell'organizzazione in cui essi prestano la propria<br />

attività, finalizzata ad individuare le adeguate misure<br />

di prevenzione e di protezione e ad elaborare il<br />

programma delle misure atte a garantire il<br />

miglioramento nel tempo dei livelli di salute e<br />

sicurezza), o infine all’ambito di applicazione della<br />

disciplina sulla sicurezza (che riguarda tutte le<br />

tipologie di rischio, in ogni attività). Pertanto figure<br />

come i Responsabili per la Sicurezza ed i<br />

Responsabili Sindacali assumono una veste di<br />

tutela assai importante anche contro questi<br />

fenomeni.


Centro di coordinamento regionale<br />

contro la violenza alle donne<br />

Il Centro di coordinamento regionale si inserisce<br />

nel quadro delle azioni previste dal “Piano regionale<br />

per la prevenzione della violenza contro le donne e per il<br />

sostegno alle vittime” con la funzione di monitorare il<br />

fenomeno e coordinare le varie realtà già operanti<br />

su questo fronte.<br />

Creato negli ultimi mesi del 2008, il Centro ha sede presso<br />

l’Ires <strong>Piemonte</strong> e si propone come centro rete e di coordinamento<br />

dei soggetti e delle attività proposte sul territorio piemontese<br />

(non svolgerà attività diretta di supporto verso le donne<br />

vittime di violenza).<br />

Dal punto di vista operativo, il Centro ha il compito di<br />

costruire un sistema di monitoraggio del fenomeno, di creare<br />

una rete effettiva fra le realtà che operano sul territorio<br />

e di ottimizzare le azioni di informazione, sensibilizzazione<br />

e formazione.<br />

Esercita infine una funzione di monitoraggio e valutazione<br />

del Piano regionale nell’ambito del quale vengono man mano<br />

individuate nuove attività da svolgere, modalità di miglioramento<br />

e nuovi obiettivi da condividere.


Pubblicazione a cura di<br />

Rosaria Pagani e Maura Pasquali<br />

con il contributo di Antonio Soggia<br />

in collaborazione con<br />

Direzione Comunicazione Istituzionale <strong>Regione</strong> <strong>Piemonte</strong> e Assessorato Regionale Pari Opportunità


a cura di<br />

www.regione.piemonte.it/pariopportunita<br />

www.ires.piemonte.it - www.meltinglab.it - www.occs.it<br />

iniziativa di comunicazione<br />

Piano regionale per la prevenzione della violenza contro le donne e per il sostegno alle vittime

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