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L'alpeggio nelle Alpi lombarde tra passato e presente - Ruralpini

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“Salvo rare eccezioni, esse [alpi] sono tenute in modo che peggio non si potrebbe: è gran che se molte di esse esse danno<br />

ricetto ad un terzo del bestiame di cui sarebbero capaci”<br />

A conclusione dell’indagine sui pascoli alpini della Valtellina, che comprendeva 20 alpi <strong>tra</strong>scurate dal<br />

Facchiotti e che, a differenza di quest’ultimo si basava su carichi attuali, sempre rilevati direttamente,<br />

il Serpieri arrivò a stimare dieci anni più tardi, che sulle alpi valtellinesi i bovini alpeggiati (ridotti a<br />

capi grossi) erano pari all’80% di quelli che si sarebbero potuti caricare se si fossero adottati un<br />

sistema razionale di gestione e fertilizzazione e se si fossero eseguiti gli indispensabili “rinettamenti”<br />

(decespugliamento), ma precisava anche che:<br />

“Ma poiché, sopratutto in alcune zone, come fu via via notato, deve oggi lamentarsi un sovracarico delle alpi, cioé una<br />

insufficiente alimentazione durante l’alpeggio, è logico ritenere che detto aumento debba, almeno da principio, manifestarsi<br />

non tanto con un reale aumento del numero di animali alpeggianti, quanto con una più abbondante alimentazione di quelli che<br />

attualmente alpeggiano” 285 .<br />

Oggetto principale delle critiche ai sistemi di gestione delle alpi pascolive era il sistema di godimento<br />

diretto delle alpi comunali da parte dei comunalisti titolari di uso civico. Il Fanchiotti rileva che:<br />

“Le alpi comunali, nella maggior parte si fruiscono in comune dagli abitanti, i quali ben si guardano di raccogliere un sasso,<br />

di estirpare un cespuglio, di fare insomma una miglioria qualsiasi” 286<br />

Il Fanchiotti, alla fine del XIX secolo, esprime sotto forma di valutazioni tecniche una <strong>tra</strong>sparente<br />

avversione ideologica per la gestione comunitativa che lo porta ad essere uno stenuo fautore della<br />

sostituzione del godimento diretto collettivo delle alpi comunali con l’affitto mediante asta pubblica.<br />

All’inizio del secolo in epoca napoleonica, l’economista Melchiorre Gioia, aveva già espresso il punto<br />

di vista del tecnocrate fautore a priori della superiorità dell’iniziativa privata:<br />

“Nella Valtellina, però si allevano molte vacche, e si giungerebbe ad aumentarle, se venissero i pascoli all’interesse<br />

particolare confidati (...)” 287<br />

La critica di questo autore alla gestione comunitativa dei pascoli assumeva toni apocalittici:<br />

“nascita di paludi, infezione dell’aria, decremento di popolazione, minimo prodotto, magro bestiame, cattivo formaggio,<br />

epizoozie frequenti, torrenti rovinosissimi e fatali ai sottoposti terreni; così queste comunanze di pascoli preparano la morte<br />

della prosperità, che costretta ad uscire in maggior copia dai paesi maledirà con ragione la nos<strong>tra</strong> incuria” 288 .<br />

La critica del Gioia aveva evidentemente un connotato ideologico, caratterizzato dall’avversione per<br />

ogni forma “arcaica” di comunitarismo, considerato un ostacolo al progresso (leggi proletarizzazione).<br />

Era, infatti, palesemente infondato attribuire ad un sistema in vigore da molti secoli la causa di una<br />

prossima “morte della prosperità”. Alla fine del XIX secolo, la situazione era, però, certamente<br />

cambiata. La prosperità era diminuita, ma non certo a causa dei sistemi di gestione comunitativa delle<br />

risorse silvo-pastorali i quali, en<strong>tra</strong>rono in crisi per effetto delle peggiori condizioni economiche e<br />

sociali delle comunità rurali.<br />

I meccanismi che in precedenza, in una condizione di stabilità demografica, avevano garantito uno<br />

sfruttamento durevole delle risorse non poterono reggere l’aumento del numero degli aventi diritto e<br />

dall’aumento del numero dei capi di bestiame che ciascuna famiglia desiderava alpeggiare spinta dalla<br />

necessità. Il processi di disgregazione di quel sistema che integrava l’utilizzo della proprietà privata<br />

alle risorse comuni (pascoli e boschi) nel quadro di una ridottissima economia monetaria (e della<br />

presenza di efficaci meccanismi coesivi, in grado di contenere l’emergere di disparità di condizioni<br />

economica troppo accentuate), conducevano ora, inevitabilmente, ad una differenziazione di posizioni<br />

economiche e di interessi. Ciò, unito all’aumento delle <strong>tra</strong>nsazioni economiche <strong>tra</strong> membri delle<br />

285 IPASoIII, p. 124.<br />

286 C. Fanchiotti, op. cit.<br />

287 Gioia op. cit., p. 74<br />

288 Ibidem p. 50.

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