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2 ALBATROS<br />
EDITORIALE<br />
In questo numero di Albatros abbiamo voluto dare spazio, tra gli altri articoli, anche a due tesine partico<strong>la</strong>rmente<br />
signi cative <strong>del</strong>l’esame di Maturità 2012.<br />
Sia Veronica Batani che Beatrice Serra, maturate con il massimo dei voti che ora studiano e vivono rispettivamente<br />
a Roma e Bologna, erano state l’anno scorso protagoniste <strong>del</strong><strong>la</strong> redazione <strong>del</strong> nostro giornale.<br />
Abbiamo loro chiesto di poter pubblicare i loro <strong>la</strong>vori sostanzialmente per tre motivi.<br />
Primo, perché pensiamo che le loro tesine siano belle, scritte con precisione e dedizione, in forma personale<br />
e non copia incol<strong>la</strong>te in un pomeriggio da Google, tesine che procedono da un continuo paragonarsi durante<br />
tutto l’ultimo anno con gli autori a loro più cari.<br />
Secondo perché leggendo si impara, perché una <strong>del</strong>le strade più semplici per diventare grandi è guardare<br />
chi è più avanti di noi.<br />
Terzo, perché <strong>la</strong> bellezza al<strong>la</strong> ne vince sempre e porta a ottimi risultati anche quando i commissari esterni<br />
non ci conoscono e i nostri nomi sono appunto solo dei voti e dei nomi.<br />
Durante l’esame di Maturità gli ‘esterni’ ci possono incontrare e ci valutano anche attraverso <strong>la</strong> lettura <strong>del</strong>le<br />
tesine.<br />
E’ un’opportunità che Veronica e Beatrice si sono prese al<strong>la</strong> grande.
in questo numero<br />
Dicembre 2012 N. 3<br />
ALBATROS 3<br />
4 MATURITA’ 2012: L’Oltranza e l’Ineffabile, di Veronica Batani<br />
19 MATURITA’ 2012: Percorso sul<strong>la</strong> “Follia”, di Beatrice Serra<br />
26 STORIE: Come un gol di Miccoli, di Nico<strong>la</strong> Di Camillo<br />
27 CINEFORUM: L’amicizia <strong>del</strong>le iene di Tarantino, di Simone Pracucci<br />
28 STORIE: Da una <strong>la</strong>crima a un sorriso, di Tommaso Faedi<br />
29 FATTI DI SCUOLA: Gita a Mi<strong>la</strong>no, di Teresa Angeli<br />
30 STORIE: La vita fra solitudine e speranza, di Marcello Barbarossa<br />
31 STORIE: Neil Armstrong, di Micae<strong>la</strong> Sirsi e Patrizia Petrucci<br />
32 L’INTERVISTA A...: Giovanna Amoroso e Istvan Zimmermann, di Alessandro Sgrignani<br />
34 LE IENE DEL LICEO: L’intervista a... Mariani vs Gianfelici, di Lugi Montalti e Maria Vittoria Bazzocchi<br />
36 OSSERVANDO: La sica nel pallone, di Federica Pianese<br />
39 LETTERANDO: Tra scienza e tecnologia, di Simone Pracucci<br />
40 LETTERANDO: Antagonismo di natura e uomo in Leopardi, di Mario Montagliani<br />
41 OPEN DAY: L’esperienza <strong>del</strong> vedere in matematica e letteratura, di Giovanni Zanotti<br />
42 OPEN DAY: La comunicazione: un desiderio innato, un’estrema necessità, di Giovanni Montanari
4 ALBATROS<br />
MATURITA’ 2012<br />
L’OLTRANZA E L’INEFFABILE<br />
Veronica Batani<br />
“Dico che bisogna essere veggente, farsi veggente” (Arthur Rimbaud, Lettera a Paul Demeny)<br />
L’oltranza e l’ineffabile<br />
“[…]se ci si muove nel territorio che viene prima degli oggetti fenomenici, per ciò stesso ci si trova al di là <strong>del</strong><strong>la</strong> paro<strong>la</strong>,<br />
nel mondo <strong>del</strong> pre-simbolico, dal momento che le cose emergono al<strong>la</strong> realtà solo nel caso in cui approdino al<strong>la</strong> paro<strong>la</strong><br />
che le simboleggia […]”<br />
Dunque, il naturale movimento <strong>del</strong>l’uomo “nel territorio che viene prima degli oggetti” è un movimento verso un oltre che,<br />
allo stesso tempo, trascende e previene <strong>la</strong> realtà, è al di là <strong>del</strong>l’oggetto essendone fondamento e completamento misterioso,<br />
è l’oltre pre-simbolico, perché essenza dei simboli che formano <strong>la</strong> realtà visibile e, in quanto anteriore al segno,<br />
ineffabile.<br />
Quello che qui si vuole analizzare è il tentativo di chi, perseguendo, ricercando, evocando, e poi immergendo se stesso<br />
in un’oltranza di per sé illimitata, in nita, e quindi ineffabile (indicibile con parole o segni), ha paradossalmente cercato<br />
di dare forma a ciò che forma non ha, dando prova di misteriosa profondità. E’ un tentativo solo in apparenza paradossale:<br />
infatti, è propria <strong>del</strong><strong>la</strong> nitezza umana <strong>la</strong> necessità di dare una forma reale a una realtà che pure è oltre <strong>la</strong> forma,<br />
perché solo se mette in re<strong>la</strong>zione l’oltre con il qui, l’in nito con il nito, l’uomo è in grado di conoscere; si tratta, dunque,<br />
di un’esigenza, di un’urgenza conoscitiva.<br />
Maestro in questo è certo Dante, che nel<strong>la</strong> terza cantica <strong>del</strong><strong>la</strong> “Commedia”, si trova a dar voce e immagine a quel luogo<br />
(il Paradiso) che “ha per primo oggetto quel<strong>la</strong> realtà assoluta ed eterna a cui l’uomo tende come a suo supremo desiderio,<br />
verso <strong>la</strong> quale il cammino non è misurabile coi tempi storici, e i singoli eventi terreni sono davanti ad essa piccoli<br />
e lontani” . Sebbene all’interno di un’impostazione categoriale decisamente diversa, <strong>la</strong> stessa dinamica è nel concetto<br />
<strong>del</strong>le corrispondenze baude<strong>la</strong>iriane e soprattutto nel<strong>la</strong> poetica degli oggetti e nel simbolismo post e pre-grammaticale<br />
<strong>del</strong> Pascoli.<br />
La dialettica tra apollineo e dionisiaco in Nietzsche esprime una dinamica analoga, nel tentativo, all’interno <strong>del</strong><strong>la</strong> più<br />
ampia loso a <strong>del</strong><strong>la</strong> vita, di liberare l’esistenza da ogni imprigionamento, e, si potrebbe dire, di riscoprire <strong>la</strong> portata conoscitiva<br />
<strong>del</strong>le istanze propriamente irrazionali.<br />
Da un equilibrio quanto mai precario e inde nibile, quale quello tra apollineo e dionisiaco, sembra sorgere anche <strong>la</strong><br />
pittura di artisti come Van Gogh e Cézanne. Il primo, mosso da un sentire profondo e tormentato <strong>del</strong><strong>la</strong> realtà, tenta di oltrepassar<strong>la</strong><br />
nel<strong>la</strong> sua pittura per scorgere l’essenza <strong>del</strong> mondo, cioè <strong>la</strong> verità. Il secondo ricerca <strong>la</strong> tessitura eterna <strong>del</strong><strong>la</strong><br />
natura, anche lui attraverso l’osservazione analogica.<br />
Il rapporto con l’in nito è stato oggetto di indagine anche nelle discipline scienti che. In partico<strong>la</strong>re George Cantor ha<br />
tentato di rigorizzare il concetto di insieme in nito. La sua analisi matematica è innovativa e generativa perché affronta<br />
un problema che, prima di lui, era stato ignorato a partire dal<strong>la</strong> consapevolezza <strong>del</strong><strong>la</strong> sua oltranza rispetto al campo<br />
conoscitivo <strong>del</strong><strong>la</strong> ragione. In ogni caso, Cantor deve ammettere che nessuna analisi può dare <strong>del</strong>l’Assoluto nemmeno<br />
un’approssimativa comprensione.<br />
In ne, un esempio di negazione <strong>del</strong>l’alterità: dall’ideologia totalitaria e dallo sviluppo assolutamente logico, rigoroso,<br />
coerente dei suoi presupposti, cioè volontà onnicomprensiva, negazione <strong>del</strong>l’alterità, identi cazione Stato – società.<br />
L’ineffabilità <strong>del</strong> trasumanar e <strong>la</strong> necessità <strong>del</strong> compromesso<br />
Che <strong>la</strong> partecipazione dantesca al<strong>la</strong> beatitudine <strong>del</strong> Paradiso sia un’esperienza quantomeno ardita ed esclusiva è<br />
chiaramente noto, tanto che, nel II canto, è Dante stesso a rivendicarne l’unicità: “L’acqua ch’io prendo giammai non si<br />
corse” . Tale metafora ha certamente un carattere ambivalente: da un <strong>la</strong>to si riferisce all’impresa <strong>del</strong> Dante-pellegrino, <strong>la</strong><br />
visione di un viaggio privilegiato che si colloca ben oltre le aspirazioni e le capacità umane; dall’altro vuole indicare “il<br />
senso di persino ardita modernità <strong>del</strong> Paradiso in quanto creazione poetica” . In questa cantica, infatti, Dante si propone<br />
di dare voce a un’ esperienza che porta l’uomo a oltrepassare <strong>la</strong> condizione umana, per unirsi al<strong>la</strong> beatitudine divina tramite<br />
l’unione con l’Assoluto. Si tratta di un tentativo paradossale: dare forma con le parole a un’esperienza che trascende<br />
tempo, spazio e forma, rendere materiale ciò che è immateriale.
ALBATROS 5<br />
Pertanto, è inevitabile che <strong>la</strong> poesia <strong>del</strong> Paradiso sia profondamente diversa da quel<strong>la</strong> <strong>del</strong>le altre due cantiche. L’evoluzione<br />
poetica, secondo Freccero, si può leggere in stretta re<strong>la</strong>zione con <strong>la</strong> “graduale attenuazione <strong>del</strong> legame tra poesia<br />
e rappresentazione”. Se infatti, nell’Inferno, tra poesia e rappresentazione sussiste un rapporto di immediatezza, per<br />
cui ci si ritrova di fronte a un regno che difatti è mimesi <strong>del</strong><strong>la</strong> realtà sensoriale e che assume così esistenza autonoma, e<br />
nel Purgatorio, invece, interviene <strong>la</strong> mediazione <strong>del</strong><strong>la</strong> visione, come a supplire con l’immaginazione <strong>del</strong> discorso gurato<br />
al progressivo venir meno dei sensi, nel Paradiso il rapporto perde il suo valore. Infatti, “nell’ultima parte <strong>del</strong> poema <strong>la</strong><br />
visione <strong>del</strong> pellegrino si trasforma no al punto che non occorre più alcuna mediazione rappresentativa nel<strong>la</strong> sua comunicazione<br />
con l’assoluto” .<br />
La rappresentazione, dunque, non è più possibile, perché <strong>la</strong> poesia ha per oggetto l’irrappresentabile, essa sembra<br />
quindi dover cedere il passo al silenzio. “L’esistenza stessa <strong>del</strong> Paradiso, perciò, implica una sorta di ripiego, di compromesso<br />
sul limite <strong>del</strong> silenzio” . Dante stesso, nel I canto, giusti ca <strong>la</strong> narrazione <strong>del</strong>l’esperienza <strong>del</strong><strong>la</strong> beatitudine<br />
divina (trasumanar) in questo senso:<br />
Trasumanar signi car per verba<br />
non si poria; però l’essemplo basti<br />
a cui esperïenza grazia serba. (Pd. I, vv. 70-72)<br />
“E’ proprio questo senso di compromesso, di inadeguatezza poetica che pervade gran parte <strong>del</strong><strong>la</strong> cantica, ma soprattutto<br />
gli ultimi canti, dove al poeta, venute meno <strong>la</strong> memoria e <strong>la</strong> fantasia, non resta che descrivere <strong>la</strong> dolcezza distil<strong>la</strong>ta<br />
nel suo cuore.” Nell’ultimo canto una terzina in partico<strong>la</strong>re esprime questa condizione in cui anche il compromesso<br />
viene meno perché l’esperienza che Dante si trova a vivere è <strong>la</strong> più alta, si spinge troppo oltre le capacità umane:<br />
Da quinci innananzi il mio veder fu maggio<br />
che ‘l par<strong>la</strong>r mostra, ch’a tal visa cede,<br />
e cede <strong>la</strong> memoria a tanto oltraggio. (Pd. XXXIII vv. 55-57)<br />
Il compromesso nell’azione drammatica: <strong>la</strong> command performance<br />
L’esperienza vissuta da Dante-pellegrino non è di dif cile comprensione solo per il lettore ma lo è stata prima di tutto per<br />
lui. A questo motivo si deve <strong>la</strong> natura di “compromesso” che assume <strong>la</strong> struttura stessa <strong>del</strong><strong>la</strong> Cantica: essa si presenta<br />
ordinata secondo <strong>la</strong> forma di “una command performance che le anime dei beati inscenano a esclusivo bene cio <strong>del</strong><br />
pellegrino” . Così come il lettore ha bisogno di una forma, <strong>del</strong><strong>la</strong> parole e, come vedremo, <strong>del</strong>le metafore, per comprendere,<br />
anche Dante-pellegrino ha bisogno che <strong>la</strong> realtà in nita nel<strong>la</strong> quale si muove gli vada incontro in modo tale da<br />
poter essere compresa dal<strong>la</strong> sua nitezza.<br />
E’ Beatrice, nel IV canto, a spiegare a Dante che quello che vede prima <strong>del</strong><strong>la</strong> visione <strong>del</strong><strong>la</strong> candida rosa e di Dio non è<br />
altro che una concessione che gli viene riservata, una sorta di rappresentazione teatrale messa in scena in suo onore, in<br />
modo tale che il passaggio dal<strong>la</strong> realtà umana a quel<strong>la</strong> divina avvenga in modo graduale e comprensibile.<br />
Così par<strong>la</strong>r conviensi al vostro ingegno,<br />
però che solo da sensato apprende<br />
ciò che fa poscia d’intelletto degno<br />
(Pd. IV, vv. 40-42)<br />
MATURITA’ 2012<br />
“Straordinaria implicazione <strong>del</strong>le parole di Beatrice è che l’intero Paradiso, almeno no all’attraversamento <strong>del</strong> ume di<br />
luce verso <strong>la</strong> ne <strong>del</strong> poema, non ha alcuna esistenza, neppure immaginaria, oltre quel<strong>la</strong> puramente metaforica” .
6 ALBATROS<br />
MATURITA’ 2012<br />
Il compromesso a livello poetico: <strong>la</strong> metafora<br />
Il compromesso che a livello <strong>del</strong><strong>la</strong> struttura <strong>del</strong><strong>la</strong> cantica assume <strong>la</strong> forma di command performance, a livello poetico è<br />
costituito dal<strong>la</strong> metafora. E’ infatti sul<strong>la</strong> metafora, e non sul<strong>la</strong> mimesis che si fonda <strong>la</strong> poesia <strong>del</strong> Paradiso. Per metafora<br />
si intende “<strong>la</strong> creazione di una realtà totalmente nuova, per mezzo di elementi così disparati da risultare inammissibili<br />
fuori di una pura logica poetica” . La metafora non ha quindi il ruolo di rendere familiare o riconoscibile <strong>la</strong> dimensione<br />
che è chiamata a descrivere, il che per quanto detto è chiaramente impossibile, ma deve, a partire da riferimenti al mondo<br />
<strong>del</strong><strong>la</strong> realtà umana, sottolineare <strong>la</strong> sua oltranza, <strong>la</strong> sua unicità, <strong>la</strong> sua eccezionalità.<br />
Per comprendere meglio questo concetto è necessario un esempio. Nel III canto Dante, si trova a dover descrivere<br />
come gli appaiono le anime che compaiono nel cielo <strong>del</strong><strong>la</strong> Luna. Il problema di rappresentare le anime Dante lo ha n<br />
dall’inizio <strong>del</strong><strong>la</strong> Commedia, ma nel Paradiso <strong>la</strong> situazione si complica. Se infatti l’eidolon, ossia quel<strong>la</strong> sorta di rivestimento<br />
esteriore che più si avvicina al<strong>la</strong> realtà sensibile <strong>del</strong> corpo (che esse non perdono in assoluto in quanto lo riconquisteranno<br />
nel Giudizio nale), nelle prime due cantiche è costituito da aria, nel Paradiso è costituito dal<strong>la</strong> luce . Il poeta ora<br />
si trova dunque a dover “creare con <strong>la</strong> luce” e lo fa tramite una metafora che le descrive “come per<strong>la</strong> in bianca fronte” .<br />
Tale similitudine non ha valore per il lettore che vi scorge unicamente l’accostamento di bianco su bianco, ma è proprio<br />
a partire da questa apparente inutilità che ne si comprende <strong>la</strong> grandezza. Infatti, nel momento in cui <strong>la</strong> similitudine<br />
sembra non avere più nessun valore, emerge <strong>la</strong> consapevolezza che debba esistere una diversità tra quello che Dante<br />
ha visto e quello che <strong>la</strong> nostra mente riesce a comprendere. Ciò che conta quindi è “<strong>la</strong> differenza che noi non siamo in<br />
grado di percepire, e che pure determina l’intera realtà <strong>del</strong> Paradiso. La giustapposizione tra per<strong>la</strong> e fronte, nel<strong>la</strong> loro<br />
concretezza, vale negativamente a scoraggiare ogni tentativo di uscire dai con ni <strong>del</strong> testo, impedendoci, per così dire,<br />
ogni riferimento al mondo reale che vada al di là di una vaga parvenza.”<br />
Il Paradiso come mo<strong>del</strong>lo di poesia pura<br />
“Nel suo tentativo di rappresentare poeticamente ciò che per de nizione è irrappresentabile, tale cantica consegue ciò<br />
che pareva pressoché impossibile (anche per il poeta <strong>del</strong>l’Inferno e <strong>del</strong> Purgatorio) e che è rimasto, da allora, l’ultima<br />
aspirazione dei poeti. La degli autori romantici e dei loro successori ha come prototipo il Paradiso<br />
dantesco.”<br />
Il simbolismo, una rivoluzione preannunciata<br />
Il simbolismo cambia radicalmente gli statuti <strong>del</strong><strong>la</strong> poesia moderna, tanto che Mario Luzi lo considera uno “tra i rari<br />
avvenimenti storici e irreversibili che determinano il corso <strong>del</strong><strong>la</strong> arti e <strong>del</strong> pensiero umano” . Tuttavia <strong>la</strong> svolta che determina<br />
negli ultimi decenni <strong>del</strong>l’Ottocento non è improvvisa, né tantomeno dovuta unicamente al<strong>la</strong> reazione verso l’impraticabilità<br />
<strong>del</strong>le poetiche realistiche di origine positivista. La rivoluzione simbolista è un processo che ritrova le sue origini<br />
nel<strong>la</strong> tensione irrazionale <strong>del</strong> romanticismo più profondo e genuino e che, momentaneamente sommerso sotto l’alluvione<br />
storicista di matrice hegeliana e sopraffatto dal tentativo di razionalizzazione scientista, ha continuato <strong>la</strong> sua evoluzione<br />
in silenzio, per poi esplodere de nitivamente sul nire <strong>del</strong> secolo. E’ infatti durante il romanticismo che si ingenera nel<br />
poeta contemporaneo una profonda malinconia, il sentimento di un dolore dovuto al<strong>la</strong> consapevolezza di una perdita,<br />
percepita da “una nuda sensibilità”, (quel<strong>la</strong> <strong>del</strong> poeta), “spa<strong>la</strong>ncata sul vuoto prodotto dal<strong>la</strong> ragione” in ambito illuminista,<br />
prima, e positivista, poi. Si tratta però di una nostalgia, o meglio <strong>del</strong><strong>la</strong> mancanza di qualcosa che non è identi cabile<br />
in nessun oggetto, e per questo insostituibile con altri oggetti, e che genera quindi un dolore inesauribile, una condizione<br />
di “lutto perpetuo”.<br />
La poesia come testimonianza <strong>del</strong>l’oltranza<br />
Il punto di partenza <strong>del</strong><strong>la</strong> nostra analisi è proprio questo sentire nostalgico, questa profonda consapevolezza di un<br />
qualcosa che esiste ma manca, e soprattutto che in quanto mancanza è altro da noi, sentimento che assume una forza<br />
dirompente a ne Ottocento, momento, in cui <strong>la</strong> perdita di molte certezze e l’introduzione di nuove problematicità in<br />
campo scienti co e loso co aveva diffuso <strong>la</strong> consapevolezza <strong>del</strong>l’esistenza, nell’individuo e nel<strong>la</strong> realtà, di “qualcosa<br />
che sfugge al<strong>la</strong> logica <strong>del</strong><strong>la</strong> ragione scienti ca, un fondo imponderabile per <strong>la</strong> coscienza, che forse solo l’arte, <strong>la</strong> poesia,<br />
<strong>la</strong> meta sica, possono avvicinare e intuire” .<br />
Infatti, come osserva Gioano<strong>la</strong>, “se quanto è stato colpito dal<strong>la</strong> perdita non è rintracciabile nel mondo degli oggetti,<br />
signi ca che non appartiene al mondo fenomenico <strong>del</strong>le cose visibili e sottoposte al<strong>la</strong> paro<strong>la</strong> che le de nisce” e quindi<br />
“dimora nell’oltranza di un primordiale sottratto ad ogni possibilità di de nizione e di misura.” Tale sentire riemerge con
ALBATROS 7<br />
forza nel simbolismo dopo un periodo in cui lo scientismo positivista aveva fatto <strong>del</strong><strong>la</strong> letteratura lo strumento di indagine<br />
scienti ca <strong>del</strong><strong>la</strong> società, distinguendo chiaramente il soggetto dall’oggetto, il conoscente dal conosciuto cioè, dal reale,<br />
postu<strong>la</strong>to implicitamente comprensibile e dominabile completamente dal<strong>la</strong> ragione umana.<br />
La poesia ora si assume il ruolo, che solo in parte e intuitivamente aveva avuto nel romanticismo, di testimonianza<br />
<strong>del</strong>l’oltranza verso ciò che si è perso, o forse non si è mai avuto, verso quell’alterità che si sente esistere, ma <strong>del</strong><strong>la</strong> quale<br />
non si conosce nul<strong>la</strong> e non si sa se si possa conoscere qualcosa, ma che esiste perché si intuisce, <strong>la</strong> si percepisce<br />
evocata dal<strong>la</strong> realtà, esiste, esiste come verità.<br />
Il simbolo come tentativo di dire l’ineffabile<br />
Si tratta di un tentativo che sembra paradossale, e proprio per questo interessante, ossia quello di dire quel<strong>la</strong> alterità<br />
inde nita e nascosta che sfugge al<strong>la</strong> comprensione razionale, ma che il poeta intuisce come matrice <strong>del</strong><strong>la</strong> realtà, e<br />
pertanto come un oltre che possa sve<strong>la</strong>re, seppur indistintamente, <strong>la</strong> verità <strong>del</strong><strong>la</strong> realtà stessa. Il poeta si trova pertanto<br />
a dover dire, tramite parole che inevitabilmente si devono re<strong>la</strong>zionare con le forme e le immagini <strong>del</strong><strong>la</strong> realtà, ciò che<br />
non si può dire, che solo si intuisce, e che certo è troppo grande per avere una forma, ma è proprio una forma ciò che<br />
<strong>la</strong> poesia prova a darle. E’ proprio in questa tensione a dire l’ineffabile che si comprende perché <strong>la</strong> paro<strong>la</strong> poetica non<br />
sia “<strong>del</strong><strong>la</strong> stessa natura <strong>del</strong>le parole che servono a veico<strong>la</strong>re e comunicare i signi cati: essa guarda, dicendo quello che<br />
dice, a ciò che non può essere detto” . Certo per perseguire tale ne erano necessarie forme poetiche nuove, parole<br />
nuove, un linguaggio nuovo che non fosse il linguaggio <strong>del</strong><strong>la</strong> comunicazione, e nemmeno il linguaggio poetico tradizionale,<br />
troppo vicino al realismo o comunque a una mimesi <strong>del</strong><strong>la</strong> realtà più vicina al fenomenico, e quindi più lontana<br />
dall’oltre. Era quindi necessaria una paro<strong>la</strong>, che oltre a essere simbolo <strong>del</strong><strong>la</strong> realtà fenomenica in quanto paro<strong>la</strong>, fosse<br />
anche simbolo di questa nuova realtà.<br />
Baude<strong>la</strong>ire, l’analogismo, e l’inettitudine di chi vede oltre<br />
MATURITA’ 2012<br />
Fu Baude<strong>la</strong>ire il primo ad avere come orizzonte <strong>del</strong><strong>la</strong> sua poesia una realtà che travalicava l’oggettualità e che però<br />
riusciva misteriosamente a comprender<strong>la</strong> e uni car<strong>la</strong> in una “universale analogia”. Fu dunque anche il primo a dover<br />
affrontare il problema di un linguaggio e di una forma adeguata a una realtà percepita e a una unità evocata dalle cose,<br />
ma senza una forma propria che si potesse identi care chiaramente. A metà ottocento inizia così a affermarsi l’analogismo<br />
che in Baude<strong>la</strong>ire si con gura nel<strong>la</strong> forma <strong>del</strong>le “correspondances”, per cui il mondo , <strong>la</strong> natura, diventa una “foresta<br />
di simboli” (di cui è emblema appunto <strong>la</strong> lirica “Corrispondenze”): le cose sono cose ma sono altro, rimandano a<br />
un senso più profondo, a una unità segreta che le lega; inesauribile, imprendibile, ma che si manifesta, misteriosamente<br />
nelle cose, e, ancor di più nel<strong>la</strong> bellezza <strong>del</strong>le cose, in un Bello profondo che il poeta percepisce e <strong>la</strong> poesia cerca di<br />
raggiungere, poiché è altro, ed è, pur facendosi percepire nelle cose, oltre.<br />
Come già detto questa percezione è propria <strong>del</strong> poeta, <strong>del</strong><strong>la</strong> sua sensibilità, e totalmente aliena rispetto al<strong>la</strong> società<br />
circostante, suscita turbamento e malinconia nel poeta, motivo per cui <strong>la</strong> poesia, oltre a esprimere il presentimento<br />
<strong>del</strong>l’oltranza e <strong>del</strong> Bello, riferisce anche lo sgomento che essa suscita e il contrasto stridente che il poeta sente con il<br />
suo tempo (lo spleen in Baude<strong>la</strong>ire).
8 ALBATROS<br />
MATURITA’ 2012<br />
Pascoli e il rapporto con l’oltre: gli strumenti <strong>del</strong> poeta<br />
La letteratura italiana con Pascoli si è trovata di fronte al<strong>la</strong> “novità e freschezza” di un “linguaggio che era tanto sorprendente,<br />
in un certo senso tanto scandaloso” , che è diventato poi “radice e matrice di tanta parte degli esperimenti<br />
europei”. Al<strong>la</strong> domanda su quale sia l’origine di una tale eccezione al<strong>la</strong> norma Contini risponde chiaramente:<br />
“Quando si usa un linguaggio normale, vuol dire che <strong>del</strong>l’universo si ha un’idea sicura e precisa, che si crede in un mondo certo,<br />
ontologicamente molto ben determinato, in un mondo gerarchizzato dove i rapporti stessi tra l’io e il non-io, tra l’uomo e il cosmo sono<br />
determinati, hanno dei limiti esatti, <strong>del</strong>le frontiere precognite. Le eccezioni al<strong>la</strong> norma signi cheranno allora che il rapporto fra l’io e il<br />
mondo in Pascoli è un rapporto critico, non è più un rapporto tradizionale. È caduta quel<strong>la</strong> certezza assistita di logica che caratterizzava<br />
<strong>la</strong> nostra letteratura no a tutto il primo romanticismo.”<br />
Si può tentare di comprendere <strong>la</strong> poesia di Pascoli, dunque, solo se <strong>la</strong> si intende come dimensione di ricerca e di<br />
tensione, come desiderio di oltranza verso una verità nascosta nel<strong>la</strong> realtà <strong>del</strong>le cose quotidiane, che solo il poeta può,<br />
alogicamente, intuire. La poesia diventa per Pascoli il tentativo di rappresentare l’originario, il nativo evocato dal<strong>la</strong> realtà,<br />
le segrete re<strong>la</strong>zioni che essa nasconde. Il poeta si muove verso <strong>la</strong> natura, credendo che le parole <strong>del</strong><strong>la</strong> poesia siano<br />
in grado di richiamare in vita quel<strong>la</strong> purezza che lui vi ha scorto e che certo non può essere spiegata da ragionamenti<br />
logici e de niti. Pascoli, nel<strong>la</strong> sua più nota dichiarazione di poetica, per spiegare il ruolo che attribuisce al poeta, usa <strong>la</strong><br />
metafora <strong>del</strong> “fanciullino” come colui che mosso da stupore e da curiosità “scopre nelle cose le somiglianze e le re<strong>la</strong>zioni<br />
più ingegnose”, e senza il quale “non solo non vedremmo tante cose a cui non badiamo per solito, ma non potremmo<br />
nemmeno pensarle e ridirle, perché egli è l’Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente” . Quel<strong>la</strong> di Pascoli si<br />
gura quindi come una poetica <strong>del</strong>l’oltre-realtà, di una realtà che parte sì da quel<strong>la</strong> fenomenica, ma allo stesso tempo <strong>la</strong><br />
trascende in direzione di un non de nito materno. Come osserva Gionao<strong>la</strong> “<strong>la</strong> paro<strong>la</strong> <strong>del</strong> fanciullo-poeta ha a che vedere,<br />
insomma, col ritmo primitivo <strong>del</strong><strong>la</strong> suzione, <strong>del</strong> dondolio cul<strong>la</strong>nte che precede e segue <strong>la</strong> nascita” .<br />
E’ chiaro che a questo punto risulta primaria <strong>la</strong> questione dei modi espressivi, e qui ci si ricollega al motivo <strong>del</strong><strong>la</strong> riconosciuta<br />
originalità di Pascoli: il linguaggio. Come già abbiamo avuto modo di osservare, <strong>la</strong> mimesi di una realtà che va<br />
oltre <strong>la</strong> realtà quotidiana s da il linguaggio che è chiamato ad adeguarsi al<strong>la</strong> verità che si vuole rappresentare. Infatti<br />
poiché è l’oggetto <strong>del</strong><strong>la</strong> poesia a essere fuori dal<strong>la</strong> norma, tale risulta anche il linguaggio pascoliano nel quale Contini<br />
ha rilevato l’uso di tre tipi di elementi ricorrenti, che possono essere ricondotti a tre tipologie di linguaggio e che costituiscono<br />
<strong>del</strong>le eccezioni al<strong>la</strong> norma.<br />
In Pascoli si riconosce prima di tutto un uso ricorrente <strong>del</strong>l’onomatopea e di conseguenza di un linguaggio<br />
fonosimbolico, lontano dal<strong>la</strong> grammatica in quanto a lei precedente, e pertanto de nito “pre-grammaticale, estraneo al<strong>la</strong><br />
lingua come istituto.” Un chiaro esempio si può osservare in “Dialogo” tratto da Myricae e nel “Fringuello cieco” tratto<br />
da Canti di Castelvecchio, testi che saranno poi utili per capire più compiutamente <strong>la</strong> novità pascoliana e che qui citiamo<br />
solo come esempio di onomatopea evidente che non necessita ulteriori spiegazioni.<br />
Tornano quindi ai campi, a seminare « Finch... nché non vedo, non credo »<br />
veccia e saggina coi vil<strong>la</strong>ni scalzi, però diceva a quando a quando.<br />
e — videvitt — venuta d’oltremare Il merlo schiava « Io lo vedo »;<br />
trovano te che scivoli, che sbalzi, l’usignolo zittìa spiando.<br />
rondine, e canti; ma non sai <strong>la</strong> gioia Poi cantava gracile e b<strong>la</strong>ndo:<br />
— scilp — <strong>del</strong><strong>la</strong> neve, il giorno che dimoia. « Anch’io anch’io chio chio chio chio... »<br />
(Dialogo, Myricae, vv.37-40) (Fringuello cieco, Canti di Castelvecchio, vv.19-25)<br />
Nel<strong>la</strong> lirica pascoliana ci si imbatte inoltre in tecnicismi, con funzione alternativamente espressiva o nomenc<strong>la</strong>toria, “che<br />
i glottologi de niscono” propri “<strong>del</strong>le lingue speciali” , e che insieme a un “vasto uso poetico dei nomi propri” (c<strong>la</strong>ssi cato<br />
come parnassianismo), costituiscono un linguaggio che esiste in virtù <strong>del</strong><strong>la</strong> sua “differenza di potenziale rispetto al<strong>la</strong><br />
lingua normale” e che pertanto può essere de nito “post-grammaticale” , al limite <strong>del</strong> quale si trova un’altra grammatica:<br />
quel<strong>la</strong> <strong>la</strong>tina.<br />
Quelli citati sono i due i due ambiti, per così dire, “estremi” <strong>del</strong><strong>la</strong> grammatica in cui si collocano alcune <strong>del</strong>le eccezioni<br />
pascoliane, ma esse “si svolgono” anche “durante <strong>la</strong> grammatica” , all’interno di quello che può essere considerato<br />
il linguaggio poetico tradizionale, elemento sempre presente nel<strong>la</strong> lirica pascoliana e punto di partenza per qualsiasi<br />
innovazione.<br />
Se il linguaggio post-grammaticale era già un esperienza abbastanza diffusa nel<strong>la</strong> cultura di quel periodo, il linguaggio<br />
pre-grammaticale è certo una novità che va tutta attribuita a Pascoli e che può vantare, a ragione, <strong>la</strong> paternità di tutte le
ALBATROS 9<br />
sperimentazioni italiane e europee.<br />
Tuttavia, <strong>la</strong> vera innovazione pascoliana, <strong>la</strong> sua unicità, sta nell’essere riuscito a creare <strong>la</strong> contemporaneità, tra i diversi<br />
settori <strong>del</strong><strong>la</strong> grammatica e quindi tra i diversi linguaggi. E’ proprio qui <strong>la</strong> svolta pascoliana. Una svolta che non si misura<br />
nell’abbandono <strong>del</strong><strong>la</strong> tradizione ma che è determinata da una grande ducia nel valore conoscitivo <strong>del</strong><strong>la</strong> paro<strong>la</strong>. E’ tale<br />
ducia che permette di ricreare, con le parole, i legami tra le cose intuiti nel<strong>la</strong> realtà, che permette attraverso <strong>la</strong> fusione<br />
e <strong>la</strong> dialettica tra linguaggi differenti di evocare <strong>la</strong> verità, che per Pascoli è strettamente legata al<strong>la</strong> natura, di rendere<br />
visibile l’esperienza <strong>del</strong>l’oltranza compiuta dal “fanciullino”. Credere nel<strong>la</strong> potenza conoscitiva <strong>del</strong><strong>la</strong> paro<strong>la</strong> è <strong>la</strong> base<br />
<strong>del</strong>l’analogismo e <strong>del</strong> simbolismo pascoliano, entrambi raggiunti non solo attraverso l’ accostamento e <strong>la</strong> dialettica di<br />
parole e immagini, bensì anche tramite uno studio e un <strong>la</strong>voro sul valore grammaticale <strong>del</strong><strong>la</strong> paro<strong>la</strong>, che in Pascoli addirittura<br />
evolve nel corso <strong>del</strong><strong>la</strong> poesia, perché inteso come strumento funzionale all’evocazione <strong>del</strong>l’oltre-realtà percepita.<br />
Ma cerchiamo di capire meglio.<br />
La rottura <strong>del</strong><strong>la</strong> frontiera tra <strong>la</strong> pregrammaticalità <strong>del</strong><strong>la</strong> lingua e l’evocatività <strong>del</strong><strong>la</strong> lingua<br />
L’onomatopea e dunque tutto il linguaggio pre-grammaticale, si presenta nel suo intento fonosimbolico, come “grido<br />
sfornito di contenuto nozionale […] che evoca immediatamente <strong>la</strong> natura, anzi è un pezzo di natura messo lì sul<strong>la</strong> pagina”<br />
. Così in “Dialogo” videvitt e scilp sono usati per rendere il rumore <strong>del</strong>lo svo<strong>la</strong>zzare <strong>del</strong>le rondini sui campi e lo zampettare<br />
dei passeri sul<strong>la</strong> neve, ed anche nch in “Fringuello cieco” è chiaramente una onomatopea che ricorda il canto<br />
<strong>del</strong> fringuello. Tuttavia, e qui sta parte <strong>del</strong><strong>la</strong> sua grandezza, Pascoli inserisce l’innovazione nell’innovazione attribuendo<br />
all’onomatopea o all’interiezione un valore semantico. Si può dire quindi che “c’è nel suo uso <strong>del</strong>l’onomatopea, un equivoco,<br />
o un compromesso”, un compromesso che si instaura a partire, nel caso di nch, da un analogismo fonico con <strong>la</strong><br />
congiunzione nché nel<strong>la</strong> quale con uisce l’onomatopea (“Finch... nché”)uscendo così dal settore pregrammaticale nel<br />
quale non aveva signi cato per entrare nel linguaggio normale (“ nché non vedo, non credo”), acquistando semanticità,<br />
linguaggio dal quale si esce poi a ne strofa per ritornare verso l’onomatopea con il canto <strong>del</strong>l’usignolo (“Anch’io anch’io<br />
chio chio chio chio...”).<br />
Questo dinamismo è inspiegabile senza premettere <strong>la</strong> percezione di un’oltranza che scardina i legami tradizionali e <strong>la</strong><br />
convinzione che le parole, prese nel<strong>la</strong> loro totalità (signi cato, signi cante, suono), possano render<strong>la</strong>, almeno in parte,<br />
conoscibile. E’ infatti solo quando ci si trova di fronte a qualcosa di altro, di oltre, dif cilmente de nibile, di ineffabile, non<br />
richiudibile in schemi, che si sente <strong>la</strong> necessità di sopprimere le frontiere <strong>del</strong><strong>la</strong> lingua normale. La frontiera che Pascoli<br />
infrange è tra “<strong>la</strong> pregrammaticalità <strong>del</strong><strong>la</strong> lingua e l’evocatività <strong>del</strong><strong>la</strong> lingua”, tra “pre-grammaticalità e semanticità” per<br />
cui è possibile liberamente semantizzare elementi asemantici e desemantizzare elementi semantici.<br />
La rottura <strong>del</strong><strong>la</strong> frontiera tra determinato e indeterminato<br />
La contemporaneità dei settori grammaticali si traduce anche, ed è questo un esito importantissimo, nell’annul<strong>la</strong>mento<br />
<strong>del</strong> “con ne fra melodicità e icasticità, cioè tra uido corrente, continuità <strong>del</strong> discorso, e immagini iso<strong>la</strong>te autosuf cienti”,<br />
ossia nel<strong>la</strong> rottura <strong>del</strong><strong>la</strong> “frontiera fra determinato e indeterminato.” Così come a livello <strong>del</strong><strong>la</strong> grammaticalità <strong>del</strong>le parole<br />
Pascoli introduce una dialettica tra pregrammaticale, grammaticale e post-grammaticale, così a livello <strong>del</strong>le immagini<br />
che esse descrivono o semplicemente suscitano egli costruisce una dialettica tra elementi determinati e elementi<br />
indeterminati. Nel<strong>la</strong> poesia pascoliana si riscontra una grande precisione nel<strong>la</strong> descrizione <strong>del</strong>le cose, degli oggetti che,<br />
altra innovazione, non hanno niente di epico ma sono tratti dal<strong>la</strong> umile quotidianità. Tuttavia <strong>la</strong> “determinatezza” <strong>del</strong>le<br />
descrizioni e dei nomi degli oggetti “si accampa sempre su un fondo di indeterminatezza che <strong>la</strong> giusti ca dialetticamente”<br />
. I primi piani precisi degli oggetti entrano a contatto con un fondo indeterminato, “effuso e diffusivo” , in modo<br />
da creare <strong>la</strong> continuità tra quegli oggetti, quel<strong>la</strong> realtà e il mondo materno <strong>del</strong>l’oltranza. Uno tra i tanti esempi di fondo<br />
indeterminato si ritrova nel<strong>la</strong> poesia “Il gelsomino notturno”:<br />
E s’aprono i ori notturni, Dai calici aperti si esa<strong>la</strong><br />
nell’ora che penso a’ miei cari; l’odore di fragole rosse.<br />
(vv. 1-2) Splende un lume là nel<strong>la</strong> sa<strong>la</strong>.<br />
Nasce l’erba sopra le fosse.<br />
(vv. 10-14)<br />
MATURITA’ 2012<br />
L’indeterminatezza si percepisce già dall’apertura che avviene con una congiunzione e che quindi presuppone un<br />
collegamento, un legame con qualcosa che qui però non è espresso e che quindi si trova necessariamente nel mondo<br />
che precede l’espressione, con quel<strong>la</strong> che abbiamo chiamato l’oltre-realtà e che qui è messa in continuità con <strong>la</strong> realtà<br />
concreta dei ori. Essa dunque precede i ori ma noi, tramite le parole <strong>del</strong> poeta, <strong>la</strong> percepiamo evocata dal<strong>la</strong> loro<br />
immagine. Tali primi piani su oggetti precisi, come in questo caso i ori, sono stati de niti anche “corre<strong>la</strong>tivi oggettivi”
10 ALBATROS<br />
MATURITA’ 2012<br />
proprio in virtù <strong>del</strong><strong>la</strong> loro capacità di essere strumento di oltranza, di fungere da re<strong>la</strong>zione, pur essendo oggetti, con una<br />
realtà che trascende l’oggettualità. Poiché, come detto, Pascoli crede nel<strong>la</strong> potenza conoscitiva <strong>del</strong><strong>la</strong> paro<strong>la</strong>, ciò che<br />
essi esprimono è una re<strong>la</strong>zione possibile con <strong>la</strong> verità, che pur nel<strong>la</strong> sua ultima ineffabilità, si <strong>la</strong>scia ogni tanto sve<strong>la</strong>re<br />
evocativamente, rendendo così possibile l’esperienza <strong>del</strong>l’oltranza. Oltranza resa in questa poesia anche grazie al<strong>la</strong><br />
paratassi per asindeto (vv. 10-14) dal<strong>la</strong> quale possiamo dedurre <strong>la</strong> “sostanza <strong>del</strong>l’immaginazione pascoliana”, <strong>la</strong> quale<br />
“non è in queste immagini per sé prese, bensì,[…] negli intervalli tra immagine e immagine; <strong>la</strong> consecuzione di queste<br />
immagini fa soltanto sorgere più instante l’evocazione <strong>del</strong>l’intervallo”, insomma, “questa troppo apparente chiarezza è in<br />
sostanza eminentemente evocativa e suggestiva.”<br />
Sono dunque molte le innovazioni pascoliane ma tutte si basano sul<strong>la</strong> dialettica nata dal rapporto con un’oltranza dif cile<br />
da de nire. Sarà questa <strong>la</strong> radice dal<strong>la</strong> quale si svilupperà una nuova poesia: quel<strong>la</strong> <strong>del</strong> Novecento.<br />
Il valore ermeneutico <strong>del</strong><strong>la</strong> diade Apollo-Dionisio<br />
Tutta <strong>la</strong> loso a di Nietzsche si presenta come dissoluzione <strong>del</strong><strong>la</strong> storia <strong>del</strong> pensiero, come abbattimento di qualsiasi<br />
tipo di valore e di qualsiasi morale con lo scopo di liberare <strong>la</strong> vita da ogni imprigionamento esterno o misti cazione.<br />
L’oltre verso il quale si rivolge Nietzsche è radicale, in quanto è al di là di ogni tradizione e verità, al di là <strong>del</strong> mondo e<br />
<strong>del</strong>l’uomo come sono da sempre conosciuti, ed è radicale perché costituisce <strong>la</strong> nuova, o meglio l’originaria, consistenza<br />
<strong>del</strong>l’esistente.<br />
In questa analisi ci vogliamo soffermare sul<strong>la</strong> po<strong>la</strong>rità fondamentale che, nonostante le successive evoluzioni, può essere<br />
considerata al<strong>la</strong> base di tutto il pensiero nietzschiano: l’antitesi tra apollineo e dionisiaco.<br />
Nietzsche indaga il rapporto tra questi due principi divini (gli aggettivi si riferiscono al Dio Apollo e al dio Dionisio),<br />
nell’opera lologica Nascita <strong>del</strong><strong>la</strong> tragedia, dove vengono assunti a fondamento <strong>del</strong>l’arte greca e nel<strong>la</strong> quale è studiata<br />
l’evoluzione nel tempo <strong>del</strong> loro rapporto all’interno <strong>del</strong><strong>la</strong> tragedia greca. Tuttavia, l’interesse di Nietzsche non è storico:<br />
“le due divinità non sono interessanti in quanto oggetti di adorazione <strong>del</strong>l’antichità, ma in quanto veri e propri soggetti<br />
dotati di valore eterno, mo<strong>del</strong>li e modi di vita, presenze attive, operanti e creative” .<br />
Oltre <strong>la</strong> realtà apparente, <strong>la</strong> radice comune di apollineo e dionisiaco: <strong>la</strong> vitalità irrazionale e contradditoria <strong>del</strong><strong>la</strong><br />
natura<br />
Per comprendere il valore e l’essenza di questi principi bisogna innanzitutto distogliere lo sguardo dal<strong>la</strong> realtà così come<br />
<strong>la</strong> vediamo per proiettarlo oltre, più in profondità, al di là <strong>del</strong>le forme che essa assume, scoprendo così una realtà molto<br />
più ampia e molto più contraddittoria di quel<strong>la</strong> che normalmente ci appare, <strong>la</strong> natura nel<strong>la</strong> sua interezza. E’ infatti proprio<br />
all’inizio <strong>del</strong>l’opera che Nietzsche afferma:“l’uomo loso co ha persino il presentimento che anche dietro a questa realtà<br />
in cui viviamo e siamo ce ne sia una seconda <strong>del</strong> tutto diversa, che cioè anch’essa sia un’apparenza” .<br />
Si tratta di una realtà che “sta dietro” il mondo apparente in cui viviamo, nel senso che lo comprende, esso ne<br />
fa parte, è una sua determinazione. Al<strong>la</strong> base <strong>del</strong><strong>la</strong> loso a di Nietzsche e dunque al<strong>la</strong> radice di apollineo e dionisiaco,<br />
c’è una realtà onnicomprensiva “che si manifesta come pluralità dinamica di eventi, multiverso divenire di centri di forza”<br />
. Essa non è altro che <strong>la</strong> pura vita <strong>del</strong><strong>la</strong> natura, ed è oltre il bene e il male (Al di là <strong>del</strong> bene e <strong>del</strong> male s’intitolerà una<br />
sua successiva opera), “non ha nul<strong>la</strong> di morale, è un’esplosione agonale di monadi di prospettive (quel<strong>la</strong> che sarà più<br />
tardi <strong>la</strong> volontà di potenza)” , ed è allo stesso tempo groviglio e scontro di contraddizioni e “innocente serenità, assoluta<br />
mancanza di colpa, […], turgida assenza <strong>del</strong> principio di ragione, […], non ha storia; è un atto dinamicocreativo senza<br />
tempo”<br />
L’ebbrezza <strong>del</strong> dionisiaco, <strong>la</strong> rappresentazione <strong>del</strong>l’apollineo<br />
E’ proprio da questo caos vitale e irrazionale che nascono quelli che Nietzsche de nisce i due istinti fondamentali, l’apollineo<br />
e il dionisiaco, dei quali scrive:“questi impulsi così diversi l’uno dall’altro, per lo più in aperto dissidio fra loro ed<br />
eccitandosi reciprocamente a sempre nuove e potenti creazioni, […], appaiono accoppiati l’uno all’altro”.<br />
Essi sono entrambi “impulsi” naturali che si contrappongo l’uno all’altro e tramite loro si manifestano le diverse molteplicità<br />
che divengono e si contraddicono nel<strong>la</strong> vita <strong>del</strong><strong>la</strong> natura. Il termine dionisiaco fa riferimento al dio greco <strong>del</strong>l’ebbrezza,<br />
Dionisio, in quanto rappresenta l’istinto che procede per irrazionalità pura, che accetta <strong>la</strong> vita nel<strong>la</strong> sua pienezza e<br />
dunque anche nel<strong>la</strong> sua tragicità, nel<strong>la</strong> sua contraddittorietà, nel dolore inevitabile al<strong>la</strong> quale essa porta inevitabilmente<br />
(se non altro con <strong>la</strong> morte).
ALBATROS 11<br />
Esso non ha paura <strong>del</strong> caos, né di perdersi in una molteplicità che elimina l’individuo, ed è il principio che permette <strong>la</strong><br />
fusione <strong>del</strong>l’uomo con <strong>la</strong> natura stessa. Nietzsche infatti afferma:“Con l’incanto <strong>del</strong> dionisiaco non solo si rinsalda il legame<br />
fra uomo e uomo: anche <strong>la</strong> natura estraniata, nemica o soggiogata, celebra nalmente <strong>la</strong> sua festa di conciliazione<br />
con il proprio glio perduto: l’’uomo.”<br />
In questo passo Nietzsche par<strong>la</strong> di un uomo lontano da una natura “soggiogata” in quanto lo considera sottomesso<br />
all’istinto apollineo. In questo caso il dio di riferimento è apollo, inteso nell’accezione di dio <strong>del</strong><strong>la</strong> rappresentazione e <strong>del</strong><br />
sogno. Anche questo istinto ha le sue radici nel<strong>la</strong> vitalità irrazionale, tuttavia esso è mosso dal<strong>la</strong> paura nei confronti <strong>del</strong><br />
caos informe e irrazionale, dall’angoscia nei confronti <strong>del</strong> dolore, e dunque dal<strong>la</strong> volontà di ordinarlo, di renderlo vivibile.<br />
Nel<strong>la</strong> pretesa di cristallizzazione <strong>del</strong><strong>la</strong> realtà all’insegna di interpretazioni univoche, che eliminano di conseguenza <strong>la</strong><br />
molteplicità e il divenire, l’apollineo è visto come l’origine <strong>del</strong><strong>la</strong> morale, <strong>del</strong>le forme apparenti in cui siamo soliti vedere il<br />
mondo, e in questo tradisce, è ciò che pretende di rappresentare e dare forma all’irrazionalità <strong>del</strong><strong>la</strong> vitalità pura, tradendone<br />
così l’essenza. Compare così l’individualità, l’unicità, e si può infatti dire che questo istinto agisca tramite il principio<br />
d’individuazione.<br />
Tuttavia <strong>la</strong> realtà che esso costruisce (<strong>la</strong> realtà in cui noi viviamo, fatta di valori, di principi, di morale, di ordine) non è altro<br />
che una sublimazione <strong>del</strong><strong>la</strong> vitalità naturale che sostanzia <strong>la</strong> realtà. L’apollineo è dunque un principio onirico, perché<br />
costruisce un mondo onirico, un sogno, lo stesso sogno in cui noi viviamo e che tradisce l’ineffabilità e l’indeterminatezza<br />
<strong>del</strong><strong>la</strong> realtà originaria con l’ordine che le impone, generando quindi apparenze e sterili morali. “Il tratto fondamentale<br />
<strong>del</strong> mondo onirico è che esso è un mondo di immagini, di apparenze e di forme; è il regno <strong>del</strong><strong>la</strong> forza p<strong>la</strong>stica, <strong>del</strong><strong>la</strong><br />
creatività mo<strong>del</strong><strong>la</strong>trice.”<br />
La consapevolezza oltre l’apollineo<br />
MATURITA’ 2012<br />
La tensione di fondo <strong>del</strong> rapporto apollineo-dionisiaco, si fa ora più chiara: il dionisiaco nel suo tentativo di adesione<br />
totale al principio vitale è costantemente ostaco<strong>la</strong>to dal<strong>la</strong> volontà di razionalizzazione-difesa <strong>del</strong>l’apollineo.<br />
Secondo Nietzsche l’uomo moderno vive in preda all’apollineo, e imprigionato dalle diverse morali che si susseguono<br />
nel tempo, non è in grado di riconoscere l’unica natura vitale <strong>del</strong>l’esistente, quel<strong>la</strong> che invece l’istinto dionisiaco riesce<br />
a cogliere. Non si tratta di verità o falsità, ma di vita, <strong>del</strong><strong>la</strong> vita di ogni cosa che sta al di là di qualsiasi principio e<br />
comprende tutto senza escludere nul<strong>la</strong>. Per giungere a questa consapevolezza è necessario accettare <strong>la</strong> vita nel suo<br />
divenire in nito, e retrocedere a ciò che si dà prima di ogni razionalizzazione difensiva.
12 ALBATROS<br />
MATURITA’ 2012<br />
Due artisti che si affacciano sull’eterno: Vincent Van Gogh e Paul Cézanne<br />
Vincent Van Gogh (1853-1890)<br />
“Se tutto ciò che facciamo si affaccia sull’in nito, se si vede il proprio <strong>la</strong>voro trarre <strong>la</strong> sua ragione d’essere e<br />
proiettarsi al di là, si <strong>la</strong>vora più serenamente”<br />
Non ci sono parole migliori di queste in grado di sintetizzare con altrettanta ef cacia <strong>la</strong> tensione umana, e dunque anche<br />
pittorica, che segna l’animo di Vincent Van Gogh per tutta <strong>la</strong> sua vita. Sempre al<strong>la</strong> ricerca <strong>del</strong> suo ruolo nel mondo, che<br />
fatica a trovare a causa di numerose insoddisfazioni, e costantemente scosso dal bisogno di certezze sul<strong>la</strong> vita, Van<br />
Gogh sente l’urgenza di potersi af dare a una realtà che sia oltre le misere condizioni materiali in cui è costretto a vivere,<br />
e che risponda e comprenda <strong>la</strong> sua grande domanda di eternità e verità.<br />
Affacciarsi sull’in nito, proiettarsi al di là dove dimorano anche le verità ultime, è l’unica forma di speranza che Vincent<br />
intravede.<br />
La stessa speranza che egli ricerca per tutta <strong>la</strong> sua breve e tormentata vita, che insegue tenacemente nei suoi quadri,<br />
quasi a voler<strong>la</strong> intrappo<strong>la</strong>re nelle pennel<strong>la</strong>te vorticose e brevi e nel<strong>la</strong> materialità pastosa dei colori che abbondano no a<br />
assumere spessore sul<strong>la</strong> te<strong>la</strong>.<br />
Van Gogh si rende conto che l’oltre di grandezza e bellezza e verità, (e anche il mistero <strong>del</strong>l’eternità, <strong>del</strong><strong>la</strong> vita dopo <strong>la</strong><br />
morte), su cui spesso si interroga, è già in germe nel<strong>la</strong> realtà, lo sente, lo vede.<br />
Per questo lo vuole rappresentare proiettandolo sul<strong>la</strong> te<strong>la</strong> fuso insieme a tutta <strong>la</strong> forza <strong>del</strong><strong>la</strong> sua tensione, al suo tormento<br />
interiore, come a volerlo comprendere tutto, come proteso verso ciò che ha intravisto senza mai riuscire a raggiungerlo<br />
<strong>del</strong> tutto.<br />
“Anche un bambino nel<strong>la</strong> cul<strong>la</strong>, se lo si osserva con calma, ha l’in nito negli occhi. Comunque non so niente, ma proprio<br />
questo senso di non sapere niente rende <strong>la</strong> vita che viviamo attualmente paragonabile a un semplice viaggio in ferrovia.<br />
Si va svelto, ma non si distingue nessun oggetto da molto vicino, e soprattutto non si vede <strong>la</strong> locomotiva.”<br />
Emerge dunque una fusione tra soggetto e oggetto, espressione di un tentativo di oltranza rispetto al<strong>la</strong> quale si percepisce<br />
<strong>la</strong> necessaria esistenza di un approdo che tuttavia rimane inde nibile, ineffabile.<br />
E’ per questa ragione che a Van Gogh non rimane che tentare, con gli strumenti <strong>del</strong><strong>la</strong> pittura, di intrappo<strong>la</strong>re nel<strong>la</strong> te<strong>la</strong><br />
quell’in nito scorto nelle stelle o negli occhi di un bambino, che allo stesso tempo è esito e origine <strong>del</strong> desiderio di eternità<br />
e di pienezza. La pittura diventa quindi un viaggio veloce (nota è <strong>la</strong> rapidità con cui Van Gogh concludeva le sue<br />
tele) al<strong>la</strong> ricerca di esprimere con i colori e il pennello tutta <strong>la</strong> sua vita, tutto ciò che Vincent è e che vorrebbe essere,<br />
quello che ama, quello lo rende felice, quello che desidera e non possiede.<br />
Come il poeta che ricuce <strong>la</strong> realtà con i versi, allo stesso modo Vincent tenta con i suoi quadri di ricucire lo strappo tra<br />
l’impronta di in nito che sente bruciare in sé e <strong>la</strong> nitezza, apparente, <strong>del</strong>le cose <strong>del</strong> mondo.<br />
Così un tramonto, un campo di grano, il gesto semplice di un seminatore, un cielo stel<strong>la</strong>to, una famiglia di contadini<br />
riunita al<strong>la</strong> sera a mangiar patate, trovano <strong>la</strong> loro eternità nelle tele di uno sfortunato pittore o<strong>la</strong>ndese.<br />
I primi passi (da Millet), Saint-Rémy gennaio 1890 Notte stel<strong>la</strong>ta sul rodano, Arles settembre 1888
ALBATROS 13<br />
“[...] È veramente un fenomeno strano che tutti gli artisti, poeti, musicisti, pittori, siano materialmente degli infelici - anche<br />
quelli felici [...] Ciò riporta a gal<strong>la</strong> l’eterno problema: <strong>la</strong> vita è tutta visibile da noi, oppure ne conosciamo prima <strong>del</strong><strong>la</strong><br />
morte solo un emisfero?[…] Dichiaro di non saperne assolutamente nul<strong>la</strong>, ma <strong>la</strong> vista <strong>del</strong>le stelle mi fa sempre sognare,<br />
come pure mi fanno pensare i puntini neri che rappresentano sulle carte geogra che città e vil<strong>la</strong>ggi”<br />
Davvero l’eterno problema <strong>del</strong><strong>la</strong> vita emerge sempre. Vincent da par suo non perde tempo, dipinge no al<strong>la</strong> ne,<br />
dà <strong>la</strong> vita per <strong>la</strong> pittura, si consuma dipingendo: questa è una evidenza che viene prima di tutto.<br />
A fronte <strong>del</strong>l’affermazione di non saper nul<strong>la</strong>, sa già tutto, e rigenerando le cose che lo circondano con i colori compie<br />
un cammino verso una vetta che non vede, eppure cammina ugualmente. La serietà verso l’oltranza lo porta a compiere<br />
un cammino, a percorrere una strada.<br />
Paul Cézanne (1839-1906)<br />
MATURITA’ 2012<br />
“La natura per noi uomini è più in profondità che in super cie”<br />
Si potrebbe riassumere in questa affermazione il senso di tutta <strong>la</strong> produzione pittorica di Paul Cézanne. La sua ricerca<br />
artistica è tutta rivolta al<strong>la</strong> ricerca <strong>del</strong><strong>la</strong> struttura eterna <strong>del</strong><strong>la</strong> natura e va di pari passo con <strong>la</strong> ricerca umana <strong>del</strong><strong>la</strong> verità.<br />
La natura è certamente mutevole all’apparenza, ma Cézanne intravede nel<strong>la</strong> profondità <strong>del</strong>le sue componenti formali e<br />
cromatiche un legame di fondo immutabile che sente <strong>la</strong> necessità di indagare attraverso <strong>la</strong> pittura.<br />
“Tutto ciò che vediamo non è vero, si disperde, se ne va. La natura è sempre <strong>la</strong> stessa, ma nul<strong>la</strong> resta di lei, di ciò che ci<br />
appare. La nostra arte deve darle il respiro <strong>del</strong><strong>la</strong> durata [...] Deve farce<strong>la</strong> gustare come eterna.”<br />
Per poter cogliere ciò che <strong>del</strong><strong>la</strong> natura resta, e dunque <strong>la</strong> sua verità, Cézanne si spinge oltre <strong>la</strong> realtà fenomenica e<br />
sfuggente, non vuole cogliere <strong>la</strong> luce le forme o i colori <strong>del</strong>l’attimo, <strong>del</strong>l’istante, ma <strong>la</strong> luce che si è già fermata sulle<br />
cose, le forme geometriche che egli vede nascoste in ogni altra forma, i colori nel loro permanere in oggetti diversi in<br />
quanto parti <strong>del</strong><strong>la</strong> struttura immutabile. Si comprende così il motivo per cui per il pittore è fondamentale “trattare <strong>la</strong> natura<br />
secondo <strong>la</strong> forma <strong>del</strong> cilindro, <strong>del</strong><strong>la</strong> sfera, <strong>del</strong> cono” , oltrepassando <strong>la</strong> prospettiva come schema razionale a priori,<br />
ché imprigionerebbe <strong>la</strong> natura senza coglierne l’essenza, e utilizzando<strong>la</strong> solo quando permette di comprendere meglio<br />
<strong>la</strong> geometria ultima <strong>del</strong><strong>la</strong> natura.<br />
Cézanne va oltre anche l’Impressionismo <strong>del</strong> quale afferma: “ è <strong>la</strong> mesco<strong>la</strong>nza ottica dei colori: io devo spingermi oltre”<br />
. Infatti se gli impressionisti dipingevano rapidamente per cogliere ogni sfumatura <strong>del</strong><strong>la</strong> luce e <strong>del</strong> colore, e osservando<br />
dunque molto rapidamente, Cézanne premette al<strong>la</strong> pennel<strong>la</strong>ta<br />
un’ osservazione più attenta e scrupolosa, proprio perché l’esperienza di immersione nel<strong>la</strong> profondità <strong>del</strong><strong>la</strong> natura, e<br />
quindi l’esperienza d’oltranza, che egli si propone, richiede tempo per comprendere quale sia l’armonia tra tutte <strong>la</strong> parti,<br />
il centro verso cui tende l’universale analogia di tutti gli elementi.<br />
Il losofo francese Merleau-Ponty descrive così questa dinamica: “Se il pittore vuole esprimere il mondo, bisogna che<br />
<strong>la</strong> disposizione dei colori rechi in sé questo Tutto indivisibile. E’ questo il motivo per cui Cézanne meditava anche un’ora<br />
prima di dar<strong>la</strong> [<strong>la</strong> pennel<strong>la</strong>ta]: essa deve contenere l’aria, <strong>la</strong> luce, l’oggetto, il piano, il disegno e lo stile.” Deve esistere<br />
quindi un punto in cui questo Tutto culmina, come sintesi <strong>del</strong>l’oltre raggiunto.<br />
“in una arancia in una me<strong>la</strong>, in una pal<strong>la</strong>, in una testa, c’è un punto culminante”<br />
Trovarlo è impresa ardua che richiede un contatto continuo con <strong>la</strong> natura, l’unica che possa educare l’occhio.<br />
La sintesi che Cézanne persegue tenacemente non è nell’istante, non si esaurisce quindi nell’attimo come nel<strong>la</strong> pittura<br />
impressionista, essa è il frutto di un <strong>la</strong>voro, di una lunga osservazione, di uno studio al<strong>la</strong> ricerca <strong>del</strong><strong>la</strong> forma geometrica<br />
e cristallina che ‘struttura’ le cose.<br />
Per questo <strong>del</strong> Mont Sainte-Victoire abbiamo tante versioni, come se a quel tutto Cèzanne si avvicinasse passo dopo<br />
passo, senza mai riuscire a possederlo completamente.<br />
I giocatori di carte, 1890/92 Le grandi bagnanti, 1906 Mont Sainte-Victoire visto da Les Lauves, 1902-1906
14 ALBATROS<br />
MATURITA’ 2012<br />
Il concetto di insieme in nito<br />
Lo studio degli insiemi in niti è apparso problematico n dal tempo dei Greci a causa <strong>del</strong><strong>la</strong> dif cile comprensione dovuta<br />
al<strong>la</strong> loro stessa natura e alle loro proprietà apparentemente contraddittorie.<br />
I problemi principali concernenti gli insiemi in niti erano due: se fossero da considerare entità attuali e l’incomprensibilità<br />
di come una parte potesse essere messa in corrispondenza biunivoca con il tutto.<br />
“Per tutto il medioevo i loso assunsero l’una o l’altra posizione circa il problema <strong>del</strong>l’esistenza di una collezione in nita<br />
attuale di oggetti” , e anche nei secoli successivi <strong>la</strong> polemica continuò ;a questo proposito è da notare <strong>la</strong> posizione di<br />
Gauss che “in una lettera a Schumacher <strong>del</strong> 12 luglio 1831, dice: >”<br />
Il secondo problema turbò partico<strong>la</strong>rmente Galileo che giunse a respingere gli insiemi in niti. Egli osservava come i punti<br />
di due lunghezze diverse AB e CD possono essere posti in corrispondenza biunivoca tra di loro, o come i numeri interi<br />
possono essere messi in corrispondenza biunivoca con i loro quadrati. Tali osservazioni portavano però al<strong>la</strong> necessaria<br />
conseguenza che dovessero esistere diversi gradi di in nito, cosa che egli reputava impossibile.<br />
La questione posta dagli insiemi in niti si mostrava quindi complessa e “l’atteggiamento <strong>del</strong><strong>la</strong> maggior parte dei matematici<br />
verso questo problema fu quello di ignorare ciò che non potevano risolvere”<br />
Cantor e <strong>la</strong> teoria degli insiemi come tentativo di esprimere il seco<strong>la</strong>re ineffabile <strong>del</strong>l’ insieme in nito<br />
Colui che cercò di dare risposta, rigorizzandone <strong>la</strong> de nizione, il concetto e le proprietà <strong>del</strong>l’insieme in nito, in parte<br />
già intuite anche se ri utate dai matematici precedenti, fu Georg Cantor (1845-1918) attraverso <strong>la</strong> teoria degli insiemi.<br />
Proprio in questo si sviluppa il suo tentativo di dar voce, matematicamente s’intende, a un concetto <strong>del</strong> quale no a quel<br />
momento non si era riusciti a dire niente di preciso e de nito, e che pertanto possiamo ricondurre al<strong>la</strong> già introdotta categoria<br />
<strong>del</strong>l’ ineffabile. Inoltre lo stesso Cantor de nisce il suo <strong>la</strong>voro come una trascrizione di leggi che provengono da<br />
una realtà che è altra rispetto sé,e dunque è oltre, tanto che nel 1895 nel<strong>la</strong> premessa a una <strong>del</strong>le sue ultime pubblicazioni<br />
riporta un motto <strong>la</strong>tino che Zellini traduce così: “non inventiamo ad arbitrio le leggi <strong>del</strong> pensiero e <strong>del</strong> mondo, ma le<br />
riceviamo, come scribi fe<strong>del</strong>i, trasmesse dal<strong>la</strong> voce <strong>del</strong><strong>la</strong> natura”, posizione che potrebbe addirittura sorprendentemente<br />
ricordare i già citati Pascoli e Baude<strong>la</strong>ire. Per Cantor infatti, come citato da Zellini , “i numeri interi con le loro leggi e<br />
re<strong>la</strong>zioni costituiscono una totalità allo stesso modo dei corpi celesti”, una totalità che egli indaga con gli strumenti <strong>del</strong><strong>la</strong><br />
matematica no a giungere a una teoria sistematica <strong>del</strong>l’in nito.<br />
Il primo passo: <strong>la</strong> de nizione di insieme in nito<br />
Al<strong>la</strong> de nizione generale che Cantor dà di insieme: “una collezione di oggetti de niti e separati che può essere colto<br />
dal<strong>la</strong> nostra mente e a cui si può decidere se un oggetto dato appartiene o no” , segue <strong>la</strong> <strong>la</strong> de nizione data da Cantor<br />
di insieme in nito:<br />
“Un insieme è in nito se può essere messo in corrispondenza biunivoca con una sua parte“<br />
Esempio:<br />
•considero l’insieme N dei Numeri Naturali N = {1, 2, 3, 4, 5, ....}<br />
•e considero il sottoinsieme di N che comprende l’insieme dei numeri naturali pari N2 = {2, 4, 6, 8, 10, ....}<br />
I due insiemi sono in corrispondenza biunivoca perché ad ogni numero in N corrisponde il suo doppio in N2 e ad ogni<br />
numero in N2 corrisponde <strong>la</strong> sua metà in N.<br />
N N2<br />
1 2<br />
2 4<br />
3 6<br />
4 8<br />
5 10<br />
... ...<br />
... ...<br />
Quindi l’insieme N, essendo in corrispondenza biunivoca con una sua parte, è un insieme in nito.
Il secondo passo: <strong>la</strong> distinzione degli insiemi in niti rispetto al<strong>la</strong> loro “potenza”<br />
ALBATROS 15<br />
Cantor si pose il problema di rispondere al<strong>la</strong> domanda “Quanti sono gli elementi <strong>del</strong>l’insieme A”?, domanda il cui signi -<br />
cato è <strong>del</strong> tutto chiaro se si par<strong>la</strong> di in insieme con un numero nito di elementi, mentre risulta più problematico quando<br />
si ha a che fare con insiemi in niti. Appare infatti incomprensibile come si possa dare senso al<strong>la</strong> frase “l’insieme A ha<br />
più elementi di B” se A e B sono in niti.<br />
Per risolvere questo problema Cantor parte dal<strong>la</strong> sua soluzione nel caso nito, in cui dire che due insiemi A e B sono<br />
ugualmente numerosi, ovvero che hanno le stessa cardinalità, corrisponde a dire che tra di essi si può stabilire una<br />
corrispondenza biunivoca.<br />
Cantor scopre che questa de nizione di cardinalità ha il pregio per valere sia per gli insiemi niti sia per gli insiemi in niti.<br />
Il concetto fondamentale è dunque il concetto di corrispondenza biunivoca, che permette dunque di affermare che:<br />
“Due insiemi in niti A e B hanno <strong>la</strong> stessa cardinalità (o <strong>la</strong> stessa potenza) se e solo se fra A e B è possibile de -<br />
nire una corrispondenza biunivoca (ovvero una funzione biiettiva).”<br />
Esempio:<br />
L’insieme Z può essere messo in corrispondenza biunivoca con l’insieme N attraverso <strong>la</strong> seguente funzione:<br />
2|n| se n < 0<br />
f(n) 0 se n = 0<br />
2n – 1 se n > 0<br />
Pertanto anche se dal punto di vista <strong>del</strong>l’inclusione Z ha “più elementi” di N, gli insiemi N e Z hanno <strong>la</strong> stessa<br />
cardinalità.<br />
La potenza <strong>del</strong> numerabile<br />
Cantor de nisce che:<br />
“Ogni insieme che può essere messo in corrispondenza biunivoca con l’insieme N è numerabile (o ha <strong>la</strong> potenza <strong>del</strong><br />
numerabile).”<br />
Per quanto detto prima segue che Z è numerabile. Intuitivamente, gli insiemi numerabili sono quelli che i cui elementi<br />
possono essere contati; in modo più preciso, possiamo interpretare gli insiemi numerabili come quegli insiemi in niti i<br />
cui elementi possono essere elencati come termini di una successione.<br />
La numerabilità di Q<br />
MATURITA’ 2012<br />
Dimostra poi che l’insieme dei numeri razionali Q è numerabile.<br />
I numeri razionali possono essere disposti nel modo seguente:<br />
•Si noterà che tutti quelli che appartengono a una stessa diagonale hanno<br />
<strong>la</strong> stessa somma de numeratore e <strong>del</strong> denominatore.<br />
•Partendo ora da 1/1, si seguano le frecce,<br />
associando 1 a 1/1, 2 a 2/1, 3 a ½, 4 a 1/3, e così via.<br />
•Ogni numero razionale verrà così associato a un numero intero<br />
(ogni diagonale è associata a un numero naturale).<br />
•Il precedente insieme dei numeri razionali (in cui alcuni compaiono più di una volta) è perciò in corrispondenza biunivoca<br />
con l’insieme degli interi positivi.<br />
•Se quindi si eliminano i doppioni, l’insieme dei numeri razionali risulterà numerabile<br />
Non tutti gli insiemi sono numerabili: <strong>la</strong> potenza <strong>del</strong> continuo<br />
Non bisogna pensare che tutti gli insiemi in niti siano “ordinabili” in una successione, ossia numerabili.<br />
Come controesempio basta considerare l’intervallo (0,1): è abbastanza intuitivo che non si possa trovare un criterio per<br />
ordinare i suoi elementi in una successione.
16 ALBATROS<br />
MATURITA’ 2012<br />
Dopo aver dimostrato che (0,1) non è numerabile, Cantor afferma che anche l’insieme R non è numerabile.<br />
Da tale dimostrazione viene dunque introdotta una nuova cardinalità, detta potenza <strong>del</strong> continuo, da cui segue che:<br />
“Gli insiemi aventi <strong>la</strong> stessa cardinalità di R si dicono avere <strong>la</strong> potenza <strong>del</strong> continuo”.<br />
Esempio<br />
L’insieme dei punti di un piano, l’insieme dei punti di una sfera, di un segmento, hanno tutti <strong>la</strong> potenza <strong>del</strong> continuo.<br />
Cantor è riuscito a dare dei “gradi” all’in nito<br />
Come abbiamo visto, nel suo tentativo di rigorizzazione Cantor è riuscito a stabilire dei livelli “gerarchici” nell’ambito<br />
<strong>del</strong>le possibili cardinalità degli insiemi in niti. Intuitivamente si potrebbe dire che è riuscito a de nire con così tanta precisione<br />
gli insiemi in niti da distinguerli anche in “gradi” che non si limitano al<strong>la</strong> potenza <strong>del</strong> numerabile e <strong>del</strong> continuo,<br />
ma vanno anche oltre. Esistono infatti insiemi in niti aventi potenza maggiore <strong>del</strong> continuo, ossia tali che sia possibile<br />
stabilire una corrispondenza biunivoca tra un loro sottoinsieme proprio e R.<br />
La posizione di Cantor rispetto all’attualità <strong>del</strong>l’in nito<br />
Cantor credeva nell’attualità dei numeri interi, compresi i numeri trans niti e <strong>la</strong> motivazione è espressa chiaramente dalle<br />
sue parole: essi “assumono un posto perfettamente determinato nel<strong>la</strong> nostra conoscenza, sono chiaramente distinti da<br />
tutti gli altri costituenti <strong>del</strong> nostro pensiero, stanno in de nite re<strong>la</strong>zioni con essi e perciò modi cano, in modo de nito, <strong>la</strong><br />
sostanza <strong>del</strong><strong>la</strong> nostra mente”.<br />
Nonostante l’analisi e <strong>la</strong> rigorizzazione resta un “di più non ancora calco<strong>la</strong>to o previsto”<br />
Ci sembra interessante sottolineare che, nonostante Cantor avesse speso <strong>la</strong> sua vita a studiare <strong>la</strong> teoria degli insiemi<br />
in niti, tuttavia riconobbe che, con i numeri trans niti, non poteva dare <strong>del</strong>l’Assoluto “nemmeno una approssimativa<br />
comprensione” . Bisogna inoltre constatare, come osserva anche Zellini, che capita spesso di imbattersi in “questa idea<br />
di impossibilità, […] spesso sorprendentemente anche nell’ambito di un procedimento mentale rigorosamente matematico”<br />
, dinamica per <strong>la</strong> quale resterà sempre un qualcosa in non calco<strong>la</strong>to e imprevisto.<br />
Il totalitarismo come negazione <strong>del</strong>l’alterità<br />
Se c’è una realtà oltre <strong>la</strong> realtà, se c’è un’origine che precede il fenomenico, che non risponde al<strong>la</strong> logica comune,<br />
questa può essere colta solo da chi sia nel<strong>la</strong> condizione di guardare il mondo coscientemente, con <strong>la</strong> piena libertà di<br />
pensiero, di azione, nel<strong>la</strong> sua vera forma.<br />
L’esperienza <strong>del</strong>l’oltranza è possibile solo all’uomo libero, che si percepisce nel<strong>la</strong> sua individualità parte di un mondo<br />
complesso <strong>del</strong> quale riconosce <strong>la</strong> misteriosità e l’inde nibile essenza, sempre pronto a mutare <strong>la</strong> sua concezione <strong>del</strong><br />
mondo o a intraprendere strade anche poco sicure in nome <strong>del</strong><strong>la</strong> verità. Inoltre cerca altro rispetto a sé solo l’uomo che<br />
non si sente compiuto, che ha un rapporto tale con se stesso che riconosce <strong>la</strong> necessità di un compimento, di verità in<br />
una alterità, colui che non fa parte di un sistema ma vive tutto il dramma <strong>del</strong><strong>la</strong> sua individualità.<br />
Con il totalitarismo <strong>la</strong> storia ha dimostrato come sia stata possibile <strong>la</strong> negazione di questa dimensione umana, ed è<br />
proprio per antifrasi che si vuole trattare questo tema, sottolineandone <strong>la</strong> funzione di negazione <strong>del</strong>l’alterità e insieme<br />
<strong>del</strong>l’ineffabile, a favore di una logica razionale e onnicomprensiva.<br />
Già dal termine si comprende come l’obiettivo di questo nuovo fenomeno politico, sia ricondurre ogni parte <strong>del</strong><strong>la</strong> società<br />
a una totalità che consenta l’identi cazione totale tra stato e società. Si tratta di un sistema politico nuovo perché, anche<br />
se in precedenza erano esistiti regimi autoritari, nessuno aveva preteso di racchiudere all’interno <strong>del</strong><strong>la</strong> propria unità<br />
organizzativa ogni singolo individuo e aspetto sociale.<br />
La negazione <strong>del</strong>l’oltranza sta proprio in questa impossibilità di essere individui partico<strong>la</strong>ri, unici, ma solo parti di un<br />
sistema rispetto al quale ogni alterità e diversità è da sopprimere. In un sistema così inquadrato risulta evidente, come<br />
afferma Todorov, che “non è più l’io di ciascun individuo che in questo caso è valorizzato, ma il noi <strong>del</strong> gruppo” . A seguito<br />
<strong>del</strong> totalitarismo dunque “tutta <strong>la</strong> vita <strong>del</strong>l’individuo si trova riuni cata, non è più divisa in sfera pubblica con <strong>del</strong>le<br />
costrizioni e in sfera privata libera, poiché l’individuo deve rendere conforme al<strong>la</strong> norma pubblica <strong>la</strong> totalità <strong>del</strong><strong>la</strong> propria<br />
esistenza, comprese le sue credenze, i suoi gusti e le sue amicizie.”<br />
Per comprendere meglio come il totalitarismo riuscì a creare una massa unitaria perfettamente organizzata e funzionante,<br />
che negasse l’alterità e nel<strong>la</strong> quale ogni individuo, privato <strong>del</strong><strong>la</strong> sua libertà, avesse un ruolo ben preciso, è utile<br />
prendere come punto di partenza le ri essioni di Hannah Arendt sulle origini <strong>del</strong> totalitarismo.
Oltre il consensus iuris: l’umanità come esponente <strong>del</strong><strong>la</strong> legge <strong>del</strong> movimento di una verità sovrumana<br />
Si può tentare di comprendere il sistema totalitario solo se lo si considera estraneo a qualsiasi consensus iuris, ossia al<br />
di là di ogni legalità. Ciò non vuole dire che esso agisca arbitrariamente (pretende infatti “di obbedire rigorosamente e<br />
inequivocabilmente a quelle leggi <strong>del</strong><strong>la</strong> natura e <strong>del</strong><strong>la</strong> storia da cui si sono sempre fatte derivare tutte le leggi positive”<br />
ed è inoltre “più ossequiente a queste forze sovraumane di qualsiasi precedente governo” ) ma che <strong>la</strong> legge al<strong>la</strong> quale<br />
obbedisce non necessita di nessun principio di giusto o ingiusto per essere applicata. Esso intende il rapporto con <strong>la</strong><br />
verità <strong>del</strong><strong>la</strong> natura e <strong>del</strong><strong>la</strong> storia sciolto da qualsiasi forma di legalità, senza essere per questo votato al<strong>la</strong> tirannia, che<br />
presuppone <strong>la</strong> mancanza totale di leggi, proprio perché legato strettamente al<strong>la</strong> legge sovrumana <strong>del</strong><strong>la</strong> natura (nazismo)<br />
o <strong>del</strong><strong>la</strong> storia (comunismo). Viene così eliminata <strong>la</strong> distinzione tra legalità e giustizia che aveva sempre concesso<br />
di intendere l’uomo e <strong>la</strong> legge su due piani distinti, piani che con tale concezione vengono dunque a coincidere facendo<br />
<strong>del</strong>l’ uomo “l’incarnazione vivente <strong>del</strong><strong>la</strong> legge” .<br />
Il totalitarismo aspira dunque a rendere attiva negli uomini <strong>la</strong> legge storica o naturale nel<strong>la</strong> quale riconosce <strong>la</strong> verità <strong>del</strong><br />
mondo, una legge che trascende l’essere umano, che diventa semplice strumento <strong>del</strong><strong>la</strong> sua manifestazione.<br />
Tale premessa concettuale è fondamentale perché è grazie ad essa che si comprende come nel totalitarismo “dietro <strong>la</strong><br />
pretesa di dominio totale c’è sempre l’ambizione di trasformare <strong>la</strong> specie umana nell’attiva sicura portatrice di una legge<br />
a cui gli individui si assoggetterebbero solo passivamente, con riluttanza.” Inoltre se <strong>la</strong> legge, essendo attiva negli<br />
uomini, si manifesta direttamente, sarà necessariamente sempre una “legge di movimento” che seguirà l’andamento<br />
<strong>del</strong><strong>la</strong> storia e <strong>del</strong><strong>la</strong> natura. E se <strong>la</strong> storia e <strong>la</strong> natura, come era stato teorizzato nel<strong>la</strong> seconda metà <strong>del</strong>l’Ottocento, seguono<br />
un andamento rettilineo e evolutivo, in direzione di un progresso che supera ogni fase in favore di quel<strong>la</strong> successiva<br />
supposta più favorevole al<strong>la</strong> vita, anch’essa seguirà lo stesso movimento, diventando cosi “legge di eliminazione” . Al<strong>la</strong><br />
legge di natura sarà dunque conforme “eliminare tutto ciò che è nocivo e inadatto a vivere”, tutto ciò che è più debole<br />
(anche le razze c<strong>la</strong>ssi cate tali), e al<strong>la</strong> legge storica sarà conforme “che certe c<strong>la</strong>ssi si >” , all’interno di<br />
un dinamismo per cui ci saranno sempre razze e c<strong>la</strong>ssi da eliminare.<br />
Il terrore totale come “essenza <strong>del</strong> potere totalitario”<br />
Nello stato totalitario il posto <strong>del</strong> diritto positivo, inesistente dal momento <strong>del</strong><strong>la</strong> rottura <strong>del</strong> consensus iuris, lo assume il<br />
terrore. “Esso è <strong>la</strong> realizzazione <strong>del</strong><strong>la</strong> legge <strong>del</strong> movimento; si propone principalmente di far sì che le forze <strong>del</strong><strong>la</strong> natura<br />
o <strong>del</strong><strong>la</strong> storia corrano liberamente attraverso l’umanità, senza l’impedimento <strong>del</strong>l’azione umana spontanea e, in quanto<br />
tale, cerca di gli uomini” . Il terrore è “l’essenza <strong>del</strong> potere totalitario”, perché esiste sempre, a prescindere<br />
dalle azioni e dal<strong>la</strong> colpevolezza o non colpevolezza degli uomini, è lo strumento che esegue <strong>la</strong> verità sovraumana<br />
che rego<strong>la</strong> tutto il mondo. Il suo ruolo è quello di instaurare il principio di fondo <strong>del</strong><strong>la</strong> legge totalitaria (<strong>la</strong> superiorità <strong>del</strong><strong>la</strong><br />
razza ariana nel<strong>la</strong> legge naturale nazista, e l’eliminazione <strong>del</strong> capitalismo nel<strong>la</strong> legge storica comunista) semplicemente<br />
eliminando qualsiasi cosa e individuo che sia in opposizione al<strong>la</strong> legge ultima, eliminando “gli individui per <strong>la</strong> specie”,<br />
sacri cando “le parti con il tutto” . Il terrore ha dunque lo scopo di impedire, tramite <strong>la</strong> minaccia e l’azione <strong>del</strong>l’eliminazione,<br />
qualsiasi idea che non sia l’unica idea possibile, cioè l’idea <strong>del</strong><strong>la</strong> legge naturale o storica.<br />
Senza il terrore dunque mancherebbe <strong>la</strong> premessa necessaria allo svolgimento logico <strong>del</strong>l’idea di fondo che sta al<strong>la</strong><br />
base <strong>del</strong> sistema totalitario: l’ideologia. Infatti “sull’inizio nessuna logica, nessuna deduzione cogente ha alcun potere,<br />
perché <strong>la</strong> sua catena presuppone l’inizio, sotto forma di premessa”, il quale è permesso <strong>del</strong> terrore, volto a impedire che<br />
“un nuovo inizio prenda vita”. Il terrore è dunque <strong>la</strong> condizione necessaria af nché si realizzi il dominio totalitario funzionale<br />
all’attuazione <strong>del</strong>l’idea.<br />
L’ideologia: il logico sviluppo di un’idea che distrugge tutti i legami con <strong>la</strong> realtà<br />
MATURITA’ 2012<br />
ALBATROS 17<br />
La legge totalitaria su cui lo stato totalitario si fonda, sia essa naturale o storica, segue un procedere logico che ha come<br />
principio base l’assolutezza e <strong>la</strong> onnicomprensività di tale legge.<br />
In primo luogo l’idea si applica al<strong>la</strong> storia pretendendo di spiegarne il movimento. Inoltre in quanto assoluta si emancipa<br />
dal<strong>la</strong> realtà “percepita dai cinque sensi”, insistendo su “una realtà che è nascosta dietro le cose percettibili”<br />
e che domina tutto, tentando così di “staccare il pensiero dall’esperienza e dal<strong>la</strong> realtà” e modi cando dunque<br />
quest’ultima a seconda <strong>del</strong> pensiero ideologico nel momento in cui emerge una contraddizione.<br />
Nel<strong>la</strong> sua volontà totalitaria l’idea pervade anche il pensiero con <strong>la</strong> sua logicità, il quale diventa unico per ogni essere<br />
umano e costruito sul<strong>la</strong> base <strong>del</strong><strong>la</strong> legge totalitaria, per cui procede per deduzione logica a partire da un’unica premessa<br />
e pertanto è costretto a giungere a conclusioni comuni che non nascono da nessun tipo di rapporto <strong>del</strong>l’individuo<br />
con <strong>la</strong> realtà ma da un’imposizione. Congiuntamente al terrore, tale processo “coercitivo <strong>del</strong><strong>la</strong> deduzione” elimina in<br />
de nitiva ogni individualità, ogni libertà e pertanto completa <strong>la</strong> preparazione <strong>del</strong>l’individuo a essere puro strumento per<br />
l’attuazione <strong>del</strong>l’idea, non importa se dal<strong>la</strong> parte <strong>del</strong>l’eliminato o <strong>del</strong>l’eliminatore.
18 ALBATROS<br />
MATURITA’ 2012<br />
“Il suddito ideale <strong>del</strong> regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale <strong>la</strong><br />
distinzione fra realtà e nzione, fra vero e falso non esiste più”<br />
L’ideologia totalitaria si basa su una pretesa aprioristica rispetto al<strong>la</strong> realtà e accampa il diritto di comprendere tutto il<br />
reale e ordinarlo secondo il suo movimento.<br />
Inoltre, questa volta, si tratta di una legge che non ha nul<strong>la</strong> di ineffabile, ma che anzi procede in modo estremamente<br />
logico e consequenziale, fe<strong>del</strong>e al<strong>la</strong> razionalità più lucida <strong>del</strong> pensiero umano.<br />
La logica con cui procede si disve<strong>la</strong> chiaramente nel<strong>la</strong> costruzione di un sistema associativo totalitario e compiutamente,<br />
con tutte le premesse portate alle logiche e terribili conseguenze, nel<strong>la</strong> costituzione dei campi di concentramento.<br />
1. Terrore e coercizione deduttiva col<strong>la</strong>borano al<strong>la</strong> costruzione di un sistema associativo totalitario<br />
“Il regime totalitario può esser sicuro solo nel<strong>la</strong> misura in cui riesce a mobilitare <strong>la</strong> forza di volontà <strong>del</strong>l’uomo per inserirlo<br />
in quel gigantesco movimento <strong>del</strong><strong>la</strong> storia o <strong>del</strong><strong>la</strong> natura che usa l’umanità come suo materiale e non conosce né nascita<br />
né morte. La coercizione <strong>del</strong> terrore totale, che irreggimenta le masse di individui iso<strong>la</strong>ti e le sostiene in un mondo che<br />
per esse è diventato un deserto, e <strong>la</strong> forza autocostrittiva <strong>del</strong><strong>la</strong> deduzione logica, che prepara ciascun individuo nel suo<br />
iso<strong>la</strong>mento contro tutti gli altri, si completano a vicenda per far marciare il movimento.”<br />
L’esito più compiuto di questa col<strong>la</strong>borazione tra terrore e coercizione deduttiva è <strong>la</strong> costituzione, da parte <strong>del</strong> governo<br />
nazista, di organismi ai quali devono partecipare obbligatoriamente tutti i ragazzi (dai 6 anni in su) e tutte le ragazze (dai<br />
10 anni in su). La caratteristica principale di tali organismi è un impianto militare che si basa su:<br />
-una rigida gerarchia interna<br />
-un indottrinamento pervasivo<br />
-speci che divise da indossare<br />
Tali associazioni hanno lo scopo di tenere sotto controllo e incorporare integralmente le giovani generazioni all’interno<br />
<strong>del</strong> regime, mostrandolo loro come unico orizzonte possibile, dato che di fatto l’impegno nell’organizzazione li portava<br />
a passare molto tempo fuori casa. Emblematica a questo proposito è una frase di Hitler in un discorso tenuto a Kiel nel<br />
Novembre 1933 : “ Quando un oppositore ci dice: “Non sarò al tuo anco”, io rispondo con calma “Tuo glio ci appartiene<br />
già”.<br />
•Tutti i ragazzi infatti dai 14 ai 18 anni fanno parte <strong>del</strong><strong>la</strong> Hitler Jugend (Gioventù hitleriana), e per chi prosegue gli studi<br />
segue il servizio militare o un periodo di <strong>la</strong>voro nelle sezioni maschili <strong>del</strong> Rad (servizio di <strong>la</strong>voro <strong>del</strong> Reich).<br />
•La Jungmä<strong>del</strong> (Fanciulle) è invece l’organizzazione per le ragazze dai 10 ai 14 anni.<br />
•Per le ragazze dai 14 ai 21 anni poi dai 14 ai 21 è prevista <strong>la</strong> Lega <strong>del</strong>le ragazze tedesche dove devono svolgere alcuni<br />
servizi di <strong>la</strong>voro per il Reich.<br />
•La Daf (Deutsche Arbeitsfront), è l’organizzazione per i <strong>la</strong>voratori e le <strong>la</strong>voratrici, è un’organizzazione che funge da<br />
mediazione tra gli imprenditori e i <strong>la</strong>voratori.<br />
•Esiste persino una organizzazione che organizza il tempo libero e le vacanze dei <strong>la</strong>voratori, <strong>la</strong> Kraft durch Freude (forza<br />
attraverso <strong>la</strong> gioia) che propone anche di comprare una macchina a basso presso, <strong>la</strong> macchina <strong>del</strong> popolo: <strong>la</strong> Wolkswagen.<br />
2. Eliminazione di qualsiasi elemento che si opponga all’attuazione <strong>del</strong><strong>la</strong> legge naturale, l’uomo strumento di<br />
attuazione <strong>del</strong><strong>la</strong> legge naturale: <strong>la</strong> soluzione nale de i campi di concentramento<br />
I <strong>la</strong>ger rappresentano <strong>la</strong> conquista da parte <strong>del</strong> regime di un dominio assoluto sull’uomo al ne di creare un unico uomo<br />
che, privato <strong>del</strong><strong>la</strong> sua umanità, funga unicamente da strumento per preservare <strong>la</strong> specie. Un simile scopo “è possibile<br />
soltanto se ogni persona viene ridotta a un’immutabile identità di reazioni, in modo che ciascuno di questi fasci di reazioni<br />
possa essere scambiato con qualsiasi altro.”<br />
Oltre che a sterminare gli individui, per salvare <strong>la</strong> razza ariana, i <strong>la</strong>ger servono a eliminare scienti camente <strong>la</strong> spontaneità<br />
e l’individualità <strong>del</strong>l’uomo, riducendolo a oggetto. L’umanità <strong>del</strong>l’uomo, il suo pensiero, <strong>la</strong> sua ragione, <strong>la</strong> sua essenza,<br />
sono totalmente inutili al regime, il quale, lungi da perseguire un governo dispotico, mira a “un sistema che li renda<br />
super ui”. Non è possibile un potere totale se si è in re<strong>la</strong>zione con degli uomini, mentre è possibile se li si possiede, ma<br />
si possono possedere gli esseri umani solo nel momento in cui essi, ridotti allo stato animale, diventano pedine inerti <strong>del</strong><br />
sistema. Non solo è logico il processo di fondo che porta al<strong>la</strong> costituzione dei campi di concentramento ma lo è anche<br />
<strong>la</strong> prassi che viene eseguita all’interno degli stessi <strong>la</strong>ger per procedere al<strong>la</strong> disumanizzazione, ossia <strong>la</strong> “preparazione<br />
dei cadaveri viventi” in virtù <strong>del</strong> dominio totale. In primo luogo gli esseri umani vengono annientati a livello giuridico,<br />
essendo privati dei loro diritti. Si passa poi “all’uccisione <strong>del</strong><strong>la</strong> personalità morale”, eliminando ogni solidarietà umana,<br />
ogni signi cato, ogni ricordo, ogni legame con le persone care, rendendo anonima per no <strong>la</strong> morte. Per completare<br />
l’annichilimento <strong>del</strong><strong>la</strong> persona si prosegue al<strong>la</strong> distruzione <strong>del</strong>l’individualità e <strong>del</strong>l’unicità: “le tecniche per realizzare <strong>la</strong><br />
distruzione <strong>del</strong>l’individualità vanno in questo caso dalle mostruose condizioni di trasporto nei treni merci verso i <strong>la</strong>ger di<br />
destinazione, alle modalità di accoglienza nei campi (<strong>la</strong> rasatura, il denudamento), alle torture, all’uccisione di massa. Il<br />
paesaggio che ne risulta è quello di una <strong>la</strong>nda deso<strong>la</strong>nte e ragge<strong>la</strong>nte in cui non sembra darsi più alternativa tra bene e<br />
male, e in cui si annul<strong>la</strong> <strong>la</strong> distinzione tra vittime e carne ci”.
PERCORSO SULLA “FOLLIA”<br />
Beatrice Serra<br />
“L’io non è padrone in casa propria”<br />
La follia come rifugio dal dramma <strong>del</strong>l’esistenza.<br />
INTRODUZIONE<br />
Vastità <strong>del</strong> signi cato di “folle”<br />
ALBATROS 19<br />
Tutti abbiamo giudicato almeno una volta nel<strong>la</strong> vita qualcun altro folle o, addirittura, considerato noi stessi folli. Ma conosciamo<br />
realmente il vero signi cato <strong>del</strong> termine follia? Nel momento stesso in cui si giudica lucidamente un comportamento<br />
e lo si c<strong>la</strong>ssi ca come folle, non ci si accorge in realtà di entrare in un ambito vasto, che sfugge a de nizioni e<br />
giudizi precisi. Sono talmente tante, infatti, le modalità con cui <strong>la</strong> follia si manifesta nelle persone e nei loro atteggiamenti,<br />
che non si può dare al termine un signi cato universalmente valido.<br />
Per secoli <strong>la</strong> follia è stata guardata con orrore e, rigettando<strong>la</strong>, <strong>la</strong> si è con nata nell’ambito <strong>del</strong> patologico. Ma questo<br />
grande mistero è stato nel tempo in parte sve<strong>la</strong>to, grazie al progresso <strong>del</strong><strong>la</strong> scienza medica. Ancora oggi, però, c’è<br />
sempre una parte di questa “ma<strong>la</strong>ttia” che neanche i più bravi neurologi riescono a comprendere e studiare.<br />
Per questo motivo, sono interessanti i meccanismi e gli atteggiamenti che derivano dai pensieri più oscuri e meno<br />
evidenti <strong>del</strong><strong>la</strong> mente <strong>del</strong>l’uomo. La presunta diversità dei folli mi ha sempre affascinato, così come <strong>la</strong> prassi <strong>del</strong><strong>la</strong> psicoanalisi,<br />
quel<strong>la</strong> scienza che non si nutre di calcoli, né di dimostrazioni, bensì si propone di esplorare <strong>la</strong> mente e i comportamenti<br />
che vanno al di là <strong>del</strong><strong>la</strong> realtà vivibile e visibile. La psicoanalisi o meglio lo studio <strong>del</strong>le diverse tipologie di follia<br />
non è soltanto uno strumento ef cace per i medici ma anche per gli stessi “pazienti” che cercano di cogliere <strong>la</strong> sostanza<br />
<strong>del</strong> proprio inconscio.<br />
L’arte come profonda espressione <strong>del</strong><strong>la</strong> follia<br />
Questo percorso non si propone semplicemente di analizzare <strong>la</strong> follia come manifestazione pratica e attitudinale di un<br />
individuo (punto di vista clinico), bensì come <strong>la</strong> sua più profonda espressione che spesso trova compimento nell’arte. La<br />
follia è, secondo <strong>la</strong> logica piran<strong>del</strong>liana, l’estrema rappresentazione <strong>del</strong> proprio essere e <strong>del</strong><strong>la</strong> propria identità. La follia<br />
ha una doppia esegesi: talvolta essa rappresenta quel<strong>la</strong> parte <strong>del</strong>l’uomo incomprensibile e inafferrabile, quindi qualcosa<br />
di misterioso che sfugge al<strong>la</strong> mente umana; ta<strong>la</strong>ltra <strong>la</strong> follia è come un segno indistinguibile, un’etichetta che tutti gli uomini<br />
indossano. Se, come nel primo caso, il folle è colui che è “fuori dal<strong>la</strong> norma”, allora, partendo dal presupposto che<br />
sia dif cile comprendere cosa sia <strong>la</strong> norma, lo diventa ancora di più capire cosa sia <strong>la</strong> follia. Ma ciò che più mi affascina<br />
è il fatto che <strong>la</strong> follia risieda in tutti noi e, proprio perché tale, noi non riusciamo a coglier<strong>la</strong>, anche se, in qualche caso,<br />
ne siamo consapevoli. La follia, infatti, non rappresenta qualcosa di inequivocabilmente negativo, anzi, essa nasce dalle<br />
nostre stesse azioni, siano esse buone o cattive.<br />
Senso ed etimologia <strong>del</strong> termine “folle”<br />
MATURITA’ 2012<br />
Quale senso attribuire al generico termine “folle”? - Spesso il suo signi cato è contraddittorio o, meglio, non ancora approfonditamente<br />
scoperto. Folle è sinonimo di: non razionale, insensato, non savio, non equilibrato, ma anche sconsiderato,<br />
imprevedibile, alienato, deviante, diverso, anormale, geniale, bizzarro, strano e, in ogni caso, incompreso. Quindi<br />
possiamo dire che <strong>la</strong> follia sembra de nirsi in opposizione a: ragionevolezza, sensatezza, positività, coerenza, equilibrio,<br />
unità, pienezza…<br />
L’etimologia <strong>del</strong><strong>la</strong> paro<strong>la</strong> “folle” rinvia al <strong>la</strong>tino follis che signi ca “sacca, pallone, sacco gon o d’aria”, ma spesso il termine<br />
è usato per indicare un congegno che gira a vuoto, senza produrre un <strong>la</strong>voro utile. Intorno al VI secolo <strong>la</strong> paro<strong>la</strong><br />
assume un signi cato differente, al punto da indicare una persona priva di senno, assimi<strong>la</strong>bile al<strong>la</strong> vacuità di una sacca<br />
o di un pallone pieno d’aria, insomma, una testa vuota. La caratteristica di vuoto, assenza, mancanza e difetto costituirà<br />
una costante <strong>del</strong><strong>la</strong> concezione medievale di follia. Il folle, quindi, rappresenta da sempre colui che è privo di senno, di<br />
buon senso e di coscienza, colui che è e che si sente estraneo rispetto all’ordine consensuale <strong>del</strong><strong>la</strong> società. A partire da<br />
questa concezione si assiste ad una trasformazione dei modi di concepire e di rappresentare <strong>la</strong> follia, così come ad una<br />
varietà di risposte esistenziali all’alienazione rispetto al<strong>la</strong> società e al ri uto di aderire all’ordine <strong>del</strong>l’universo. Per usare le<br />
parole di Segre, “Non possiamo confondere <strong>la</strong> pazzia con <strong>la</strong> libertà, ma certo molto bisogno di libertà si realizza attraverso<br />
<strong>la</strong> pazzia. E tale libertà comprende anche <strong>la</strong> fuga dalle de nizioni.”
20 ALBATROS<br />
MATURITA’ 2012<br />
La follia nel<strong>la</strong> storia e le sue rappresentazioni<br />
A partire dal mondo c<strong>la</strong>ssico, <strong>la</strong> follia era imprescindibilmente legata al<strong>la</strong> sfera sacra: il folle rappresentava <strong>la</strong> voce <strong>del</strong><br />
divino come una voce da ascoltare e da interpretare. Nel<strong>la</strong> Grecia antica, infatti, <strong>la</strong> follia e <strong>la</strong> sua valenza sacrale vengono<br />
rappresentate nelle tragedie teatrali. Il folle era colui che, posseduto dal<strong>la</strong> sfera divina, veniva talvolta tollerato,<br />
privilegiato ma soprattutto rispettato.<br />
Nel Medioevo, sotto l’in usso <strong>del</strong> cristianesimo, il termine folle assume un aspetto più tetro e negativo. Il folle è colui che<br />
era escluso dal<strong>la</strong> società, considerato come un estraneo, un pericolo imprevedibile che <strong>la</strong> società doveva allontanare.<br />
Infatti <strong>la</strong> follia era frutto di una possessione di origine magica, astrologica e persino demoniaca: nel Medioevo il folle<br />
perde completamente <strong>la</strong> sua dignità.<br />
Più tardi, nell’Età Rinascimentale <strong>la</strong> follia viene considerata come l’unica guida in grado di spa<strong>la</strong>ncare le porte al<strong>la</strong> vera<br />
sapienza e il saggio rappresenta colui che si <strong>la</strong>scia condurre dal<strong>la</strong> follia e, quindi, guidare dalle passioni. Come afferma<br />
Erasmo da Rotterdam,<br />
“Qualunque cosa dicano di me i mortali (so bene, signori miei, troppo bene, che <strong>la</strong> pazzia gode di pessima reputazione<br />
anche tra i folli più folli), ebbene sono io <strong>la</strong> so<strong>la</strong>, proprio io in carne ed ossa, grazie ai miei poteri sovrannaturali, a infondere<br />
serenità nel cuore degli uomini e degli dei”.<br />
Ma ben presto <strong>la</strong> follia, già a partire dal XVI-XVII secolo, viene affrontata da un punto di vista psicologico-scienti co<br />
che non sarà più abbandonato. Sarà proprio <strong>la</strong> scienza a ridurre <strong>la</strong> follia a ma<strong>la</strong>ttia e a creare pratiche di internamento<br />
e di esclusione di tutte le forme di eccedenza. Infatti, in questo periodo nasce un diverso modo di vedere <strong>la</strong> follia, una<br />
nuova “sensibilità” che <strong>la</strong> rigetta e <strong>la</strong> rinchiude, non offrendole <strong>la</strong> possibilità di esprimersi. Il folle viene, quindi, ridotto ad<br />
un mero oggetto di indagine scienti ca <strong>del</strong><strong>la</strong> ma<strong>la</strong>ttia, forzata al silenzio e medicalizzata, un’indagine che si elude di<br />
quell’interrogativo enigmatico e inquietante che <strong>la</strong> follia sembra porre sul<strong>la</strong> condizione umana.<br />
La follia, in realtà, è connaturata all’esistenza umana e talvolta consente all’uomo di comprendere ciò che ai più è oscuro<br />
e ineffabile. Infatti, è proprio con il XX secolo che <strong>la</strong> follia comincia a essere considerata come un fenomeno naturale,<br />
legato al<strong>la</strong> verità <strong>del</strong> mondo.<br />
La follia […] lungi dall’essere per <strong>la</strong> libertà un insulto, ne è <strong>la</strong> più fe<strong>del</strong>e compagna, ne segue il movimento come un’ombra.<br />
E l’essere <strong>del</strong>l’uomo non solo non può essere compreso senza follia, ma non sarebbe l’essere <strong>del</strong>l’uomo se non<br />
portasse in sé <strong>la</strong> follia come limite <strong>del</strong><strong>la</strong> sua libertà.<br />
In realtà oggi il termine follia non ha più un’esegesi univoca, bensì essa è come sdoppiata in due diverse rappresentazioni:<br />
da una parte <strong>la</strong> concezione c<strong>la</strong>ssica e letteraria in cui <strong>la</strong> follia è protagonista dei grandi testi letterari (da Shakespeare<br />
no a Piran<strong>del</strong>lo), tra loro molto diversi ma che esprimono <strong>la</strong> stessa inquietudine a vivere; dall’altra <strong>la</strong> concezione<br />
moderna e scienti ca.<br />
La follia nel<strong>la</strong> letteratura esprime sicuramente il disagio <strong>del</strong> personaggio e, quindi, ha una funzione rive<strong>la</strong>trice <strong>del</strong><strong>la</strong> verità.<br />
Ma <strong>la</strong> follia non ci sve<strong>la</strong> soltanto <strong>la</strong> verità, bensì ci mostra anche una parte di sofferenza, di mancanza.<br />
L’indagine non può, in ne, prescindere dall’aspetto clinico. Sul versante clinico, infatti, <strong>la</strong> follia è trattata e considerata<br />
nelle sue ripercussioni siche ed attitudinali: nel<strong>la</strong> pratica clinica ci si trova davanti a persone, talmente af itte da questo<br />
male che presentano effetti devastanti nel corpo e nel<strong>la</strong> gestione <strong>del</strong><strong>la</strong> vita quotidiana. Tuttavia è solo con <strong>la</strong> psicoanalisi<br />
(Freud) che non ci si interessa unicamente <strong>del</strong> decorso clinico, ma si pone al centro <strong>del</strong>l’osservazione <strong>la</strong> storia esistenziale<br />
<strong>del</strong> paziente, attuando una interpretazione individuale, che tocca le condizioni stesse <strong>del</strong><strong>la</strong> propria libertà.<br />
La conclusione p<strong>la</strong>usibile è che <strong>la</strong> letteratura e l’arte rappresentano <strong>la</strong> vera espressione psicologica e sentimentale <strong>del</strong><strong>la</strong><br />
sofferenza che le persone patiscono, e, quindi, <strong>la</strong> verità che <strong>la</strong> follia riesce a mostrare; <strong>la</strong> clinica, invece, sembra avere a<br />
che fare con le conseguenze di tale condizione, che s’iscrivono nel<strong>la</strong> realtà quotidiana.<br />
Van Gogh: quando <strong>la</strong> follia accompagna l’arte<br />
Una breve vita<br />
La breve vita di van Gogh è segnata dal<strong>la</strong> solitudine e dal<strong>la</strong> sofferenza. La natura <strong>del</strong><strong>la</strong> sua ma<strong>la</strong>ttia, che si manifestò<br />
prima dei trent’anni, è stata oggetto di numerose ricostruzioni diagnostiche, fondate soprattutto sulle numerose lettere<br />
che il pittore stesso scrisse al fratello Theo. La tesi più accreditata sostiene che egli abbia sofferto di <strong>la</strong>tente epilessia<br />
mentale: una forma di psicosi epilettica che esplode in periodici episodi acuti con manie, forme di autolesionismo e<br />
tremende allucinazioni, spesso a sfondo religioso: “sento dei suoni e <strong>del</strong>le strane voci… le cose parevano cangianti”.<br />
Nato nel 1853 Vincent era il primogenito di una famiglia di sei gli. Solo con due dei suoi fratelli Vincent avrebbe mantenuto<br />
rapporti per tutta <strong>la</strong> vita; con Wilhelmina, e con Theo, nanziatore, confessore e pubblico <strong>del</strong>le sue opere, col<br />
quale ebbe una specialissima unione personale. L’infanzia e <strong>la</strong> giovinezza dei fratelli furono quelle di un tipico ambiente<br />
piccolo-borghese <strong>del</strong>l’O<strong>la</strong>nda.
Una vita tra dipinti e lettere<br />
ALBATROS 21<br />
“D’ora in poi dobbiamo scriverci assiduamente”. Con queste parole scritte da Vincent a Theo il 13 dicembre 1872, ha<br />
inizio una corrispondenza che si sarebbe sviluppata nel corso di due soli decenni, costituita da circa 800 lettere, conservatasi<br />
grazie soprattutto a Theo. Al caro fratello Vincent scrisse <strong>la</strong> prima e l’ultima <strong>del</strong>le sue lettere che vanno di pari<br />
passo, accompagnano e raccontano <strong>la</strong> sua pittura.<br />
Vincent dimostra un bisogno effettivo e reale sia di dipingere quanto di scrivere a suo fratello, rendendolo, indirettamente,<br />
il col<strong>la</strong>boratore-creatore dei suoi dipinti.<br />
Vincent da subito è attratto da soggetti mistici e nutre una profonda disillusione nei confronti <strong>del</strong> mondo, un senso di<br />
angoscia che riesce ad esprimere tramite <strong>la</strong> pittura.<br />
L’angoscia che sfocia nel<strong>la</strong> follia artistica<br />
“Quando sono colto dal mio terribile bisogno di religione, vado fuori di notte a dipingere le stelle… , e sogno sempre un<br />
quadro così, come un gruppo di amici veri”. In questa lettera a Theo <strong>del</strong> 1888, Vincent si riferisce a La Notte stel<strong>la</strong>ta sul<br />
Rodano, che esprime tutta <strong>la</strong> sua solitudine proiettata in un cielo scuro dove soltanto <strong>del</strong>le amichevoli stelle sembrano<br />
donargli un po’ di speranza e compagnia.<br />
In questo momento di profonda solitudine aveva cercato rifugio in una vera e propria follia religiosa, che lo portava ad<br />
aspre morti cazioni siche: si fustigava, usciva in camicia di inverno e dormiva sul nudo pavimento di pietra. Ben presto<br />
anche <strong>la</strong> strada teologica si rive<strong>la</strong> soltanto un’illusione per Vincent che capisce che soltanto l’arte può conso<strong>la</strong>rlo.<br />
I soggetti dei suoi dipinti provengono dal<strong>la</strong> realtà che egli stesso vive, a partire dalle gure di umili contadini, ai paesaggi<br />
più suggestivi, ai ritratti più noti, per arrivare a soggetti naturali ltrati attraverso <strong>la</strong> sua follia e il suo genio artistico.<br />
Il dif cile rapporto con Gauguin<br />
L’ottobre <strong>del</strong> 1888 Gauguin arriva ad Arles e raggiunge Vincent. Poco prima <strong>del</strong>l’arrivo di Gauguin ad Arles, Vincent scrive<br />
al fratello (Lettera 556, 1888): “Sono nuovamente ridotto quasi al<strong>la</strong> follia. E se non fosse che ho una doppia natura, di<br />
monaco e di pittore, lo sarei già da molto tempo e in modo completo”.<br />
La presenza di Gauguin fa rinascere van Gogh e porta i due artisti a dipingere insieme, ma ognuno con <strong>la</strong> propria visione<br />
<strong>del</strong> mondo. Vincent si faceva, però, inevitabilmente, sempre più piccolo, più incerto, incerto anche <strong>del</strong> valore <strong>del</strong>le<br />
proprie opere, davanti all’evidente incompatibilità <strong>del</strong><strong>la</strong> propria concezione estetica con quel<strong>la</strong> <strong>del</strong>l’amico. Con Gauguin<br />
perdeva gran parte <strong>del</strong><strong>la</strong> propria identità. Per Gauguin gli armoniosi scenari che i suoi dipinti proponevano erano ben<br />
lontani dal<strong>la</strong> miseria <strong>del</strong><strong>la</strong> vita di Arles; per questo ben presto questa sua impazienza verrà dimostrata dal<strong>la</strong> sua fuga<br />
verso i Tropici. La tragedia ha inizio il 23 dicembre quando Gauguin decide di andarsene dopo un litigio furioso e Vincent,<br />
venutolo a sapere, decide di tagliarsi il lobo <strong>del</strong>l’ orecchio sinistro con il rasoio. Dopo questo gesto van Gogh sarà<br />
segnato per tutta <strong>la</strong> vita, tanto che <strong>la</strong> società gli assegna quel ruolo che in un certo senso svolgeva sin dal<strong>la</strong> nascita: il<br />
“folle”.<br />
Il “con namento”<br />
MATURITA’ 2012<br />
Dopo un breve periodo di degenza, Vincent torna a dipingere ma mostra subito crisi di paranoia tanto che i cittadini di<br />
Arles chiedono di internarlo perché considerato “pericoloso per <strong>la</strong> società”. Perfettamente LUCIDO, senza alcun segno<br />
di follia, van Gogh si vede chiuso e con nato: è un prigioniero, chiuso in una cel<strong>la</strong> d’iso<strong>la</strong>mento. Indubbiamente le sue<br />
fasi di follia si manifestavano con attacchi di paranoia e crisi depressive. Le crisi di cui soffre periodicamente sono dei<br />
tentativi di sfuggire a un’esperienza insopportabile, quel<strong>la</strong> <strong>del</strong><strong>la</strong> solitudine che s ora, con sensibilità dolorosa, l’estraneità,<br />
<strong>la</strong> contingenza <strong>del</strong><strong>la</strong> vita. “Per quanto posso giudicare”, così cerca Vincent di tranquillizzare il fratello (lettera<br />
580,1888), “non sono veramente ma<strong>la</strong>to di mente. Come puoi vedere i quadri che ho fatto nel periodo fra i due attacchi<br />
sono i più tranquilli e non peggiori degli altri.” Van Gogh illude il fratello, rassicurandolo di essere sempre lo stesso; in<br />
realtà le trasformazioni più evidenti compariranno a Saint-Rémy, in quel periodo in cui van Gogh si rifugerà coscientemente<br />
nel<strong>la</strong> propria follia. Il bisogno di trovare ducia e rassicurazione nel<strong>la</strong> pittura assume nuova urgenza. Infatti cerca<br />
di riprodurre nei suoi quadri <strong>la</strong> sensazione di prigionia e c<strong>la</strong>ustrofobia. Soggetti fondamentalmente semplici come dei<br />
ciuf d’erba <strong>del</strong> giardino gli bastano per porre in essi situazioni esistenziali, per artico<strong>la</strong>re il senso di oppressione e di<br />
ineluttabilità. Come si nota dal dipinto Giardino <strong>del</strong>l’ospedale di Arles, si trattava di una stilizzazione cosciente di ciò<br />
che lo circondava, che non ha nul<strong>la</strong> a che fare con <strong>la</strong> ma<strong>la</strong>ttia mentale. Vincent impara a convivere con questa ma<strong>la</strong>ttia,<br />
tanto che dal manicomio, nel 1889 scrive: “credo di aver fatto bene a venire qui, innanzi tutto perché vedendo <strong>la</strong> realtà<br />
<strong>del</strong><strong>la</strong> vita dei pazzi e dei vari squilibrati di questo serraglio mi passa il timore vago, <strong>la</strong> paura <strong>del</strong><strong>la</strong> cosa in sé stessa. E<br />
poco per volta posso arrivare a considerare <strong>la</strong> follia una ma<strong>la</strong>ttia come un’altra.”
22 ALBATROS<br />
MATURITA’ 2012<br />
Nelle lunghe settimane di internamento, van Gogh vagava al<strong>la</strong> ricerca di soggetti nuovi, ma anche questo gli fu limitato.<br />
Perciò fu costretto a riprodurre i medesimi soggetti all’in nito, con una creatività sempre più nuova. E allora è nel colore<br />
che egli conferisce al soggetto tutta <strong>la</strong> forza <strong>del</strong><strong>la</strong> sua pittura. Ma <strong>la</strong> vita c<strong>la</strong>ustrale nell’ospedale psichiatrico che fungeva<br />
contemporaneamente da chiostro e da studio di pittura, è accettata da van Gogh di buon grado se non altro perché<br />
corrisponde alle sue inclinazioni. Van Gogh dipinge <strong>la</strong> Corsia <strong>del</strong>l’ospedale di Arles, in cui <strong>la</strong> solitudine viene quasi attutita<br />
da un senso di solidarietà tra i ma<strong>la</strong>ti. Ma allo stesso tempo <strong>la</strong> struttura architettonica e quasi <strong>la</strong>birintica <strong>del</strong>l’ospedale<br />
<strong>del</strong>inea <strong>la</strong> strada senza via di uscita <strong>del</strong> ma<strong>la</strong>to, metafora <strong>del</strong><strong>la</strong> sua vita. Nei primi mesi <strong>del</strong> 1890 brevi momenti di<br />
(apparente) serenità si alternano a bruschi peggioramenti e crisi sempre più violente. Van Gogh si trova ad Auvers-Sur-<br />
Oise e qui dipinge Campo di grano con corvi, scrivendo a Theo: “Mio caro Theo, mi sono rimesso al <strong>la</strong>voro, anche se il<br />
pennello quasi mi casca dal<strong>la</strong> mano; […]. Sono immense distese di grano sotto cieli tormentati, e non ho avuto dif coltà<br />
per cercare di esprimere <strong>la</strong> tristezza, l’estrema solitudine”.<br />
La fuga dal<strong>la</strong> vita<br />
È senza dubbio il preludio di un drammatico epilogo. Il 27 luglio Vincent si spara una rivoltel<strong>la</strong>ta al petto e, benché<br />
gravemente ferito, riesce a trascinarsi nel<strong>la</strong> sua camera nel<strong>la</strong> locanda di Auvers. Ha in tasca una lettera che<br />
contiene, tra le altre, questa frase: “Ebbene, per il mio <strong>la</strong>voro, rischio <strong>la</strong> vita e vi ho perso metà <strong>del</strong><strong>la</strong> mia ragione”.<br />
Due giorni dopo, all’alba <strong>del</strong> 29 luglio Vincent, assistito dal fratello Theo, esa<strong>la</strong> l’ultimo respiro.<br />
Luigi Piran<strong>del</strong>lo: <strong>la</strong> follia come pura co(no)sc[i]enza di sé<br />
L’analisi critica <strong>del</strong>l’io<br />
Piran<strong>del</strong>lo è (insieme a Italo Svevo) uno degli interpreti più acuti <strong>del</strong><strong>la</strong> “crisi <strong>del</strong>l’io”. Il passaggio tra Ottocento e Novecento,<br />
<strong>la</strong> cosiddetta “età <strong>del</strong>l’ansia”, determina grande sconforto e angoscia nell’individuo che prova addirittura orrore<br />
nel vedersi vivere e nell’esaminarsi. L’individuo comincia ad esplorarsi e si riconosce frammentato, non più unico. Questa<br />
tendenza di critica <strong>del</strong>l’essere nei confronti <strong>del</strong><strong>la</strong> propria identità nasce da una profonda disillusione verso il mondo<br />
in cui è costretto a vivere; infatti, egli si accorge che <strong>la</strong> realtà esterna lo percepisce come un essere strati cato. Questa<br />
scoperta porta l’uomo a essere turbato da un insieme di ossessioni, angosce, impulsi inconfessabili perché violenti o<br />
cru<strong>del</strong>i, che giacciono nel profondo <strong>del</strong><strong>la</strong> psiche, nell’inconscio. Paradossalmente l’uomo sano, cosciente, è colui che<br />
cerca una via di fuga dal<strong>la</strong> realtà che, tuttavia, sfocia nel<strong>la</strong> pazzia e, quindi, nell’impossibilità a vivere. Questa inettitudine<br />
(caratteristica fondamentale dei personaggi di Piran<strong>del</strong>lo e Svevo), dal <strong>la</strong>tino non aptus, rive<strong>la</strong> <strong>la</strong> condizione di colui<br />
che si esclude e guarda gli altri vivere poiché vive “in attrito” con <strong>la</strong> società. Nei vari personaggi piran<strong>del</strong>liani e sveviani,<br />
segnati da questa condizione, l’inettitudine ha esiti differenti. Uno di questi, probabilmente il più emblematico <strong>del</strong><strong>la</strong> condizione<br />
<strong>del</strong>l’uomo moderno, è sicuramente quello <strong>del</strong><strong>la</strong> follia.<br />
La follia nel<strong>la</strong> concezione piran<strong>del</strong>liana<br />
La follia, per come <strong>la</strong> intende Piran<strong>del</strong>lo, riguarda un eccesso di <strong>la</strong>voro mentale da parte <strong>del</strong>l’uomo, un surplus che<br />
rende gli uomini incapaci di agire poiché consapevoli <strong>del</strong>le molteplici potenzialità <strong>del</strong> proprio io che, proprio per questo,<br />
non si vuole sclerotizzare in un ruolo ben preciso. Si assiste, quindi, al<strong>la</strong> detronizzazione <strong>del</strong>l’individuo che diventa un<br />
vero e proprio “forestiere <strong>del</strong><strong>la</strong> vita” , ricercando una libertà assoluta che, però, lo porta al<strong>la</strong> totale pazzia e frustrazione.<br />
In realtà, sia che si tratti di Mattia Pascal che di Vitangelo Moscarda o di Enrico IV, non si può par<strong>la</strong>re di un personaggio<br />
autenticamente folle e, quindi, “non si può par<strong>la</strong>re di una vera e propria fenomenologia <strong>del</strong>lo psicotico” ; senz’altro nessun<br />
personaggio piran<strong>del</strong>liano è immune da qualche vena di follia.<br />
La follia in “Uno, nessuno e centomi<strong>la</strong>”<br />
Questo è sicuramente il caso di Vitangelo Moscarda, protagonista <strong>del</strong> romanzo Uno nessuno e centomi<strong>la</strong>, che narra <strong>la</strong><br />
vicenda simbolica di un uomo, avvocato di una nuova morale. Vitangelo capisce che in realtà solo l’apparenza ci rende<br />
uguali di fronte agli altri ed è consapevole di essere vivo nelle persone intorno a lui in centomi<strong>la</strong> forme differenti. La battaglia<br />
<strong>del</strong> protagonista sta nel desiderio di distruggere le forme a lui estranee per scoprire il vero sé. La sua prima consapevolezza,<br />
quindi, consiste nel fatto di scoprire ciò che lui in realtà non è, di distruggere le errate convinzioni di cui,<br />
no a quel momento, non era a conoscenza. La pazzia in Moscarda è nota già dal primo episodio <strong>del</strong> romanzo in cui il<br />
protagonista non appare folle nel senso strettamente patologico <strong>del</strong> termine, ma scopre improvvisamente allo specchio<br />
(realtà) di esistere in maniera diversa da quel<strong>la</strong> in cui credeva. La sua follia è un di più, proprio perché lo rende in grado<br />
di riconoscere <strong>la</strong> menzogna degli altri. L’etichetta che gli altri gli assegnano e con cui continuano a difendersi da colui
che li minaccia nelle loro certezze è proprio quel<strong>la</strong> <strong>del</strong>l’essere folle. Le persone sane (o meglio che si ritengono sane)<br />
sono, quindi, coloro che non si rendono conto di essere “schiave” degli altri e di se stesse. Esse non hanno il coraggio<br />
di smascherarsi, di ribel<strong>la</strong>rsi e di svinco<strong>la</strong>rsi dalle credenze conformiste <strong>del</strong><strong>la</strong> società e di rive<strong>la</strong>re <strong>la</strong> propria inconsistenza<br />
ontologica.<br />
Il dramma <strong>del</strong><strong>la</strong> maschera<br />
Nel<strong>la</strong> lotta che <strong>la</strong> vita conduce continuamente con <strong>la</strong> forma entra in gioco <strong>la</strong> maschera che rappresenta lo strumento<br />
attraverso il quale si esercita <strong>la</strong> nzione <strong>del</strong><strong>la</strong> vita sociale. Tale dissidio è insormontabile e le persone, vinte dalle maschere,<br />
diventano inafferrabili e totalmente astratte. La “scena” piran<strong>del</strong>liana, che si tratti di un’opera narrativa o teatrale,<br />
nisce con l’essere popo<strong>la</strong>ta da personaggi essenzialmente “vuoti”, sospesi e irrealizzati, al<strong>la</strong> ricerca di un contenuto<br />
profondo che corrisponda al loro vero io. Piran<strong>del</strong>lo, pur affermando <strong>la</strong> negatività <strong>del</strong> vivere e l’impossibilità di realizzare<br />
un’esistenza autentica, non nega <strong>la</strong> continuità di una ricerca di vita che è <strong>la</strong> pura essenza <strong>del</strong>l’uomo.<br />
Enrico IV: il paradosso <strong>del</strong><strong>la</strong> follia come maschera<br />
L’analisi <strong>del</strong><strong>la</strong> follia è tanto rilevante in Uno, nessuno centomi<strong>la</strong>, quanto nel<strong>la</strong> tragedia <strong>del</strong><strong>la</strong> follia per eccellenza: Enrico<br />
IV. In questa opera teatrale il protagonista incarna <strong>la</strong> serietà e <strong>la</strong> sincerità <strong>del</strong><strong>la</strong> follia nel<strong>la</strong> prima parte e <strong>la</strong> consapevolezza<br />
<strong>del</strong>l’inevitabilità <strong>del</strong><strong>la</strong> maschera nel<strong>la</strong> seconda, come mezzo “ingegnoso” per potersi realizzare. Nel personaggio<br />
dinamico di Enrico IV notiamo un percorso trifasico così artico<strong>la</strong>to:<br />
•Nel<strong>la</strong> prima fase assistiamo ad una condizione concreta patologica e autentica di follia, che porta l’uomo a gesti spontanei,<br />
inconsapevoli e pertanto non giudicabili negativamente.<br />
•Nel<strong>la</strong> seconda parte si assiste ad un rinsavimento <strong>del</strong> protagonista che comporta <strong>la</strong> ripresa <strong>del</strong><strong>la</strong> “forma” precedente<br />
ma al tempo stesso <strong>la</strong> lucida consapevolezza <strong>del</strong>l’impossibilità di riappropriarsene di fronte agli altri.<br />
•Pertanto, nel<strong>la</strong> terza e ultima fase, si assiste al<strong>la</strong> simu<strong>la</strong>zione consapevole <strong>del</strong>l’atteggiamento folle e il ritorno al<strong>la</strong> maschera<br />
per sempre, al ne di non tradire certe convenzioni sociali (l’inevitabilità <strong>del</strong><strong>la</strong> maschera è strettamente legata al<br />
contesto storico e sociale in cui il protagonista vive).<br />
Virginia Woolf: between love and madness<br />
Traumatic events<br />
Virginia Woolf was born in London in 1882 from a high c<strong>la</strong>ss family. She was the third of four siblings and when she was<br />
only 13 years old (1895) her mother died. Her childhoold was deeply marked by this mourning. In that period Virginia<br />
really showed her rst depressive crisis. Her life was closed, oppressive and always devoted to duty and family. After<br />
the death of their father Virginia’s brother and sister decided to sell their house in Hyde Park (where Virginia was born)<br />
and bought a house in Bloomsbury. Virginia came to know a group of writers and artists who, together with her, formed<br />
the intellectual circle known as the “Bloomsbury group”. But the grief of the past added to the sufferings of the present,<br />
led Virginia feeling less and less loved and considered. From now on she had to live with her madness and depression<br />
which never left her. In 1911 she met Leonard Woolf with whom she established a re<strong>la</strong>tionship of complicity which led<br />
the two to get married in 1912. Actually they were happy but also very different from each other, not only because of<br />
their different cultural background (he was Jewish), but also because of their temperament: he was “healthy” and caring<br />
whereas she appeared considerably a “genius” who “wore” the visible sign of madness.<br />
A dif cult case to handle<br />
MATURITA’ 2012<br />
ALBATROS 23<br />
The border he tracked between HIS mental health and HER lunacy didn’t prevent the couple from loving each other but<br />
made so that Leonard sometimes found it dif cult understand his wife’s <strong>la</strong>nguage. He always tried to help her out, but<br />
he was convinced that Virginia’s “mental instability” was always lingering, as “the phosphorescent light of Fire y that day<br />
off and back on”. Her husband was often in trouble to control her maniac-depressive phases. Virginia sometimes was in<br />
a state of strong ungovernable excitement, where she expressed herself through nonsensical phrases with no interruption.<br />
Most of the time, however, during the depressive phase she sank into a strong abyss of me<strong>la</strong>ncholy and despair:<br />
she didn’t want to talk even to her husband, refused to eat, didn’t want to believe she was even sick and b<strong>la</strong>ming her<br />
condition on him. After years of support and “analysis”, Leonard soon learnt to recognize the symptoms which led his<br />
wife to cross the border between sanity and madness. One of the most stressful symptoms of her illness was the refusal<br />
of food; in particu<strong>la</strong>r when Virginia was so desperate, choosing not to eat, she aggravated her weak body even more<br />
and encouraged the prolongation of the crisis.
24 ALBATROS<br />
MATURITA’ 2012<br />
A skilled writer<br />
Through her novels Virginia succeeded in expressing the depth of her unconsciousness and her ma<strong>la</strong>ise. In fact in the<br />
novel Mrs. Dalloway her disease was expressed through the character of Septimus Warren Smith who suffered from<br />
deferred traumatic stress and had indecipherable hallucinations; in the end of the story he committed suicide by jumping<br />
out of a window. The idea of suicide always occurred in Virginia’s life. Leonard refused psychoanalytic support for<br />
Virginia as, according to her, the supreme form of self-analysis was writing. No doubt the genius of Virginia, skilled writer,<br />
was closely re<strong>la</strong>ted to manifestations of her mental instability. Furthermore her <strong>la</strong>ter novels dealt with the obsession with<br />
death and loneliness moreover due to the horror of Nazism looming on the horizon and the fear for the fate of her Jewish<br />
husband: all this made her mental situation worse.<br />
On March 28th, 1941, in her <strong>la</strong>st letter to her husband, Virginia wrote:<br />
“Dearest, I feel certain that I am going mad again. I feel we can’t go through another of those terrible times. And I shan’t<br />
recover this time. I begin to hear voices, and I can’t concentrate. So I am doing what seems the best thing to do. You<br />
have given me the greatest possible happiness. You have been in every way all that anyone could be. I don’t think two<br />
people could have been happier ‘til this terrible disease came. I can’t ght any longer. I know that I am spoiling your life,<br />
that without me you could work. And you will I know. You see I can’t even write this properly. I can’t read. What I want<br />
to say is I owe all the happiness of my life to you. You have been entirely patient with me and incredibly good. I want to<br />
say that– everybody knows it. If anybody could have saved me it would have been you. Everything has gone from me<br />
but the certainty of your goodness. I can’t go on spoiling your life any longer. I don’t think two people could have been<br />
happier than we have been. V.”<br />
The inevitable end<br />
After this touching letter Virginia decided rmly to commit suicide, and this time she succeeded drowning herself in the<br />
River Ouse. She wouldn’t like to be a burden to her husband anymore, and at the same time she could no longer ght<br />
against her own life. Death had always been present in her thoughts. She had often contemp<strong>la</strong>ted the death with wide<br />
open eyes, especially in times of great distress and depression. To her eyes, death didn’t represent the end of life and<br />
something unreal or very distant but it was something somehow concrete and immediate, which she felt darkly close<br />
and inevitable.<br />
Freud: <strong>la</strong> nevrosi individuale e <strong>la</strong> follia collettiva<br />
Premessa<br />
Tra i grandi protagonisti <strong>del</strong><strong>la</strong> storia <strong>del</strong><strong>la</strong> letteratura e <strong>del</strong>l’arte si riconoscono diversi casi di follia, intesa come un vero<br />
e proprio disturbo mentale che si manifesta diversamente in ogni individuo. Ma ciò che oggi ci permette nalmente di<br />
dare forma al<strong>la</strong> follia non è tanto il suo riconoscimento quanto <strong>la</strong> sua diagnosi, ossia lo studio dei sintomi <strong>del</strong> disturbo<br />
che, no all’inizio <strong>del</strong> ‘900, avevano una sorgente ignota. Prima di Sigmund Freud, infatti, specie nell’era <strong>del</strong> Positivismo<br />
(Comte), <strong>la</strong> psicologia veniva addirittura cancel<strong>la</strong>ta dal novero <strong>del</strong>le scienze e ridotta a “ siologia <strong>del</strong> cervello” e studio<br />
dei comportamenti sociali. Per questo motivo <strong>la</strong> nevrosi si è caricata sempre di più di cause esclusivamente scienti cooggettive.<br />
Soltanto grazie a Freud si cerca di comprendere no in fondo il dolore <strong>del</strong>l’io e il disagio <strong>del</strong><strong>la</strong> società, analizzando<br />
quel <strong>la</strong>to oscuro <strong>del</strong><strong>la</strong> nostra psiche che è l’inconscio.<br />
Psicoanalisi<br />
È con Freud che nasce <strong>la</strong> psicoanalisi, quel<strong>la</strong> terapia in cui il paziente, par<strong>la</strong>ndo attraverso “libere associazioni”, riesce<br />
a spaziare sui vari fattori che hanno provocato il suo disturbo. Freud, infatti, fu indotto a indagare <strong>la</strong> storia più remota<br />
<strong>del</strong> paziente e le sue idee, i cui effetti si rive<strong>la</strong>vano come sintomi di un disturbo mentale. Secondo Freud, infatti, i sintomi<br />
sono <strong>la</strong> manifestazione <strong>del</strong><strong>la</strong> ma<strong>la</strong>ttia, <strong>la</strong> cui cura consiste nell’eliminazione degli stessi sintomi, veri e propri sostituti <strong>del</strong><br />
<strong>la</strong>voro inconscio.<br />
La nevrosi<br />
Freud si è sempre ri utato di leggere le patologie nervose come lesioni o disturbi <strong>del</strong> meccanismo cerebrale ma ha<br />
riportato <strong>la</strong> coscienza umana al dinamismo istintivo <strong>del</strong>le pulsioni inconsce. La nevrosi per Freud indica una patogenesi<br />
di tipo psicologico; essa è vista come <strong>la</strong> manifestazione di desideri rimossi, l’epifania <strong>del</strong> <strong>la</strong>to appetitivo <strong>del</strong><strong>la</strong> mente.<br />
Ogni nevrosi, secondo <strong>la</strong> teoria freudiana, ha al<strong>la</strong> base un con itto irrisolto (e quindi una sofferenza psicologica) riguardante<br />
<strong>la</strong> sfera sessuale (libido). Secondo Freud, l’esperienza <strong>del</strong><strong>la</strong> sofferenza psicologica non è di per sé un problema,<br />
anzi essa è connaturata nell’uomo. Essa lo diventa solo quando questa sofferenza:<br />
o Dura nel tempo<br />
o Si origina precocemente
MATURITA’ 2012<br />
ALBATROS 25<br />
o Incide profondamente sul comportamento <strong>del</strong><strong>la</strong> persona<br />
o Compromette le sue capacità di <strong>la</strong>voro<br />
o Rende molto dif coltose le re<strong>la</strong>zioni affettive-sessuali<br />
o Compromette alcune importanti funzioni siologiche e psicologiche<br />
Quando assume queste caratteristiche, <strong>la</strong> sofferenza diventa un problema psicologico, ossia segna<strong>la</strong> <strong>la</strong> presenza di una<br />
nevrosi. La causa scatenante <strong>del</strong><strong>la</strong> nevrosi, secondo Freud, non è da considerare come qualcosa di puramente esterno<br />
(ed eterno), ma essa è fortemente connessa a fattori interni e più profondi, che nel tempo si moltiplicano. Sono tre, infatti,<br />
i fattori principali da cui <strong>la</strong> nevrosi è causalmente dipendente:<br />
1. Frustrazione<br />
2. Fissazione <strong>del</strong><strong>la</strong> libido<br />
3. Tendenza al con itto<br />
La prima si veri ca quando l’individuo è incapace di procurarsi <strong>la</strong> soddisfazione nel modo in cui <strong>la</strong> desidera; <strong>la</strong> seconda<br />
consiste in una “regressione” <strong>del</strong>l’individuo che si procura soddisfazione nel modo più primitivo in cui lo cerca. In ne <strong>la</strong><br />
tendenza al con itto costituisce un fattore principale <strong>del</strong><strong>la</strong> nevrosi, poiché, come dice lo stesso Freud “le nevrosi sono il<br />
negativo <strong>del</strong>le perversioni” e ci devono essere per forza pulsioni istintuali diverse da quelle sessuali.<br />
L’istinto bipo<strong>la</strong>re <strong>del</strong><strong>la</strong> psiche: Eros e Thanatos<br />
Nel<strong>la</strong> fase successiva, con lo scritto <strong>del</strong> 1920 intito<strong>la</strong>to Al di là <strong>del</strong> principio di piacere, Freud inizia ad ipotizzare il fatto<br />
che <strong>la</strong> vita psichica <strong>del</strong>l’Io non sia sempre e solo orientata verso un senso di appagamento, bensì anche di (auto)distruzione.<br />
Dall’analisi individuale Freud evince che i pazienti sono tendenti a ritornare sulle stesse condizioni dei traumi<br />
infantili e a perpetuarle. Freud estese questa analisi proiettando<strong>la</strong> nel<strong>la</strong> civiltà in generale, identi cando nel<strong>la</strong> “coazione<br />
a ripetere” <strong>del</strong>l’individuo, ma anche <strong>del</strong><strong>la</strong> società, un’attività opposta all’impulso di autoconservazione, che egli chiama<br />
“impulso verso <strong>la</strong> morte”. La distinzione tra pulsione di vita (Eros) e pulsione di morte (Thanatos) rappresenta nel<strong>la</strong><br />
psicologia di Freud una costante. In partico<strong>la</strong>re Freud riporta un’attenta e dettagliata ri essione a questo proposito<br />
nel<strong>la</strong> Lettera ad Einstein <strong>del</strong> 1932 in cui, per rispondere allo scienziato riguardo al<strong>la</strong> questione <strong>del</strong><strong>la</strong> guerra, si addentra<br />
nell’interpretazione <strong>del</strong>l’istinto <strong>del</strong>l’uomo che è dominato contemporaneamente da una pulsione-attrazione (Eros) verso<br />
<strong>la</strong> conservazione <strong>del</strong><strong>la</strong> civiltà e da una pulsione-repulsione (Thanatos) verso <strong>la</strong> distruzione <strong>del</strong><strong>la</strong> realtà stessa.<br />
La “psicoanalisi” <strong>del</strong><strong>la</strong> guerra<br />
A riprova di quanto <strong>la</strong> psicoanalisi possa sve<strong>la</strong>re i meccanismi inconsci che rego<strong>la</strong>no <strong>la</strong> vita sociale, Freud afferma che<br />
<strong>la</strong> guerra fa parte <strong>del</strong>l’istinto di conservazione <strong>del</strong><strong>la</strong> vita stessa <strong>del</strong>l’uomo che tende al<strong>la</strong> pace quanto al con itto e all’aggressività.<br />
Per questo Freud sostiene che l’idea <strong>del</strong><strong>la</strong> guerra deve essere considerata come una pulsione ineliminabile<br />
in tutti gli esseri poiché una sua inesistenza sarebbe incompatibile con <strong>la</strong> stessa natura umana. Freud rispondendo al<strong>la</strong><br />
domanda di Einstein sul “perché <strong>del</strong><strong>la</strong> guerra”, afferma: “Tutte e due le pulsioni sono parimenti indispensabili, perché<br />
i fenomeni <strong>del</strong><strong>la</strong> vita dipendono dal loro concorso e dal loro contrasto. […] è assai raro che l’azione sia opera di un<br />
singolo moto pulsionale, il quale d’altronde deve essere già una combinazione di Eros e distruzione.[…] l’essere vivente<br />
protegge, per così dire, <strong>la</strong> propria vita distruggendone una estranea.” Inoltre Freud giunge al<strong>la</strong> conclusione che, secondo<br />
<strong>la</strong> sua tesi, risulta impossibile sopprimere le tendenze aggressive degli uomini e risponde allo scienziato dicendo:<br />
“d’altronde non si tratta, come Lei stesso osserva, di abolire completamente l’aggressività umana; si può cercare di<br />
deviar<strong>la</strong> al punto che non debba trovare espressione nel<strong>la</strong> guerra.” A questo proposito Freud confessa che è necessario<br />
ricorrere allo scatenamento <strong>del</strong><strong>la</strong> pulsione amorosa (Eros), intesa come amore verso il prossimo o come identi cazione<br />
in un ideale o ancora di più come educazione <strong>del</strong>le masse, svinco<strong>la</strong>te dal<strong>la</strong> supremazia dei potenti, verso una vera e<br />
propria “dittatura <strong>del</strong><strong>la</strong> ragione” sul<strong>la</strong> vita pulsionale; soltanto <strong>la</strong> ragione, secondo Freud, sarebbe in grado di tenere uniti<br />
gli uomini e i loro ideali, poiché essa è superiore a qualsiasi altro legame emotivo. Talvolta, tuttavia, <strong>la</strong> ragione tende ad<br />
assolutizzare certi ideali e a proiettarli enfaticamente nel<strong>la</strong> collettività come fossero leggi supreme, da rispettare e condividere.<br />
Si crea così un processo osmotico tra <strong>la</strong> follia individuale e <strong>la</strong> massa che fa da cassa di risonanza e viene così<br />
strumentalizzata a ni politici. Questo è lo scenario che sembra pro <strong>la</strong>rsi in Europa, in partico<strong>la</strong>re in Germania, nel periodo<br />
tra le due guerre e che spinge un illustre scienziato come Einstein a chiedere aiuto a Freud (nel<strong>la</strong> lettera <strong>del</strong> 1932):<br />
“come è possibile che <strong>la</strong> massa si <strong>la</strong>sci in ammare con i mezzi suddetti no al furore e all’olocausto di sé? […] perché<br />
l’uomo ha dentro di sé il piacere di odiare e di distruggere. In tempi normali <strong>la</strong> sua passione rimane <strong>la</strong>tente, emerge solo<br />
in circostanze eccezionali; ma è abbastanza facile attizzar<strong>la</strong> e portar<strong>la</strong> alle altezza di una psicosi collettiva”.<br />
Einstein comprende, quindi, il potere <strong>del</strong>l’ideologia folle che, insinuatasi nel<strong>la</strong> massa, totalmente asservita, conduce gli<br />
uomini verso atti estremi, come <strong>la</strong> persecuzione e ancora di più l’annientamento <strong>del</strong> nemico. Gli interrogativi di Einstein e<br />
le ri essioni di Freud sembrano così ce<strong>la</strong>re un timore per così dire profetico: quello di un mondo sconvolto dal<strong>la</strong> guerra<br />
ma ancora di più segnato dall’odio e dal<strong>la</strong> volontà di sterminio. Di lì a poco, infatti, <strong>la</strong> Germania di Hitler opererà il suo<br />
progetto di risanamento e “igiene sociale”, spingendo l’odio antisemita verso l’aberrazione <strong>del</strong>l’olocausto.
26 ALBATROS<br />
STORIE<br />
COME UN GOL DI MICCOLI<br />
Nico<strong>la</strong> Di Camillo<br />
Lunedì 1 Ottobre verso le 7.15 <strong>del</strong> mattino, guidavo lungo <strong>la</strong> Via Emilia in direzione Cesena per raggiungere<br />
scuo<strong>la</strong> con mio glio seduto dietro.<br />
Di solito vado in macchina da solo, ma in quei giorni Enrico era ma<strong>la</strong>to e non potendo andare a scuo<strong>la</strong><br />
era con me ed io l’avrei <strong>la</strong>sciato a Forlimpopoli dai nonni che erano di strada.<br />
Mentre percorrevo il rettilineo appena dopo il ponte sul ume Ronco, in un tratto dove <strong>la</strong> via Emilia è in<br />
asse preciso est-ovest, a sinistra <strong>del</strong><strong>la</strong> strada in un tratto sgombro di case è comparso d’improvviso il<br />
sole che rivestiva di rosso tutta <strong>la</strong> campagna.<br />
In questi anni di viaggi lungo <strong>la</strong> via Emilia, sia in autunno che in primavera, ho attraversato l’aurora tante<br />
volte che quasi non ci faccio più caso. Mentre sono al<strong>la</strong> guida, ripasso le lezioni o ascolto <strong>la</strong> radio di-<br />
stratto, abituato al mistero <strong>del</strong><strong>la</strong> vita che si ripete ogni giorno.<br />
Ma quel<strong>la</strong> mattina c’era Enrico e<br />
avevo notato dallo specchietto<br />
retrovisore che assonnato guardava<br />
fuori dal nestrino. “Hai visto<br />
come è bello il sole che nasce” ho<br />
accennato. Enrico è stato qualche<br />
attimo in silenzio sempre a guardare<br />
fuori, poi ha risposto:<br />
“E’ vero babbo, è proprio come un<br />
gol di Miccoli.”<br />
(Palermo Chievo 4-1, domenica 30<br />
Settembre 2012)<br />
Forse si riferiva al fatto che entrambi<br />
erano rotondi, oppure entrambi<br />
molto belli, comunque non mi sono<br />
sentito di aggiungere nul<strong>la</strong>, l’ho<br />
<strong>la</strong>sciato dai nonni e ho proseguito<br />
verso Cesena.<br />
Naturalmente non ho le prove<br />
perché nessuno mi ha registrato,<br />
ma quel<strong>la</strong> mattina al Liceo penso<br />
di aver fatto <strong>del</strong>le buone lezioni,<br />
perché ero preparato, e perché mio<br />
glio mi aveva riacceso il cuore.<br />
Ultimamente quando mi trovo sul<strong>la</strong> soglia, un attimo prima prima di varcare <strong>la</strong> porta <strong>del</strong><strong>la</strong> c<strong>la</strong>sse, sento<br />
di essere come di fronte a un bivio, un bivio tra il dovere e <strong>la</strong> libertà, tra un contratto di docente da onorare<br />
e una responsabilità da amare.<br />
E’ anche vero che le belle parole sul nostro mestiere al momento giusto tutti abbiamo imparato ad usarle<br />
e i professori alle assemblee di c<strong>la</strong>sse si vestono bene e si ergono a pa<strong>la</strong>dini di educazione e bellezza.<br />
La verità è che certe mattine prima di entrare in c<strong>la</strong>sse siamo solo degli uomini stanchi.<br />
Fino a quando d’improvviso qualcuno si accorgerà che il sole sorge anche quel<strong>la</strong> mattina, no a quando<br />
cinque ragazzi insieme al loro professore di religione recitano l’Angelus nel corridoio <strong>del</strong><strong>la</strong> scuo<strong>la</strong> prima<br />
di entrare in c<strong>la</strong>sse, no a quando nel<strong>la</strong> veri ca di matematica arriva un otto dopo tanti sei, no a quando<br />
lei timidamente ti sorride, oppure no a un bel gol di Miccoli.
L’AMICIZIA DELLE IENE DI TARANTINO:<br />
1992-2012:vent’anni di “Reservoir Dogs”<br />
Simone Pracucci<br />
ALBATROS 27<br />
Le parole di un amico.<br />
Non esiste modo migliore per farci sentire meglio quando siamo a terra, quando a scuo<strong>la</strong> le cose non<br />
vanno, quando abbiamo rotto con <strong>la</strong> danzata, o semplicemente quando abbiamo una pallotto<strong>la</strong> con ccata<br />
nell’intestino. È questo il problema di Mr.Orange che, mentre agonizza sul pavimento di un garage, non<br />
può fare a meno di cercare conforto nell’unica persona che ha vicino: Mr.White, o meglio Larry.<br />
Già, perché un amico si chiama per nome, non può rimanere nel freddo anonimato di un nomignolo ttizio.<br />
Potremmo affermare che l’amicizia stessa è un nome: un nome che alle orecchie <strong>del</strong> mondo non signi ca<br />
nul<strong>la</strong>, ma pronunciato dalle mie <strong>la</strong>bbra riesce a far emergere da una massa grigia e rumorosa di sconosciuti<br />
una persona, un volto, un sorriso.<br />
Tuttavia Mr.Orange non sa quasi nul<strong>la</strong> di Larry, non dovrebbe conoscere nemmeno il suo nome: è questa <strong>la</strong><br />
legge <strong>del</strong>le iene. I membri <strong>del</strong><strong>la</strong> banda non devono sapere nul<strong>la</strong> gli uni degli altri in modo che, se il colpo<br />
al<strong>la</strong> gioielleria andasse male e qualcuno venisse arrestato, non potrebbe rive<strong>la</strong>re nul<strong>la</strong> al<strong>la</strong> polizia. E il colpo<br />
è andato proprio male, anzi, si è trasformato in una vera e propria carne cina: Mr.Brown e Mr.Blue sono<br />
morti e per Mr.Orange sembra essere solo questione di tempo. “Larry, amico mio, mi salverai?”.<br />
È buffo: di fronte al<strong>la</strong> morte persino Mr.White, complice professionista <strong>del</strong><strong>la</strong> rapina, diviene Larry, l’amico<br />
più sincero, poiché chiamato a stringergli <strong>la</strong> mano nell’ultima ora.<br />
CINEFORUM<br />
Davvero di in mo valore erano i discorsi sciatti<br />
e volgari pronunciati davanti ad un caffè,<br />
le vuote risate durante gli appostamenti, se<br />
paragonate all’enormità di questo gesto. “Doesn’t<br />
somebody want to be wanted like me?”<br />
recitava quel<strong>la</strong> stessa mattina <strong>la</strong> canzone dei<br />
Partridge Family al<strong>la</strong> radio. Mr.Orange, steso in<br />
un bagno di sangue, vuole sentirsi desiderato,<br />
vuole morire sapendo che per qualcuno è più<br />
di uno stupido colore, vuole sentirsi importante,<br />
speciale, unico: vuole un amico al suo anco.<br />
Questo è il dramma davanti a cui ci pone<br />
Quentin Tarantino: chi è l’amico? Quale mano<br />
vorremmo stringere nel<strong>la</strong> fatidica ora? Quale<br />
nome vorremmo sussurrare con l’ultimo respiro?<br />
Esiste una persona capace di dare signi cato al<strong>la</strong> nostra vita? Nel<strong>la</strong> nostra epoca, in cui i rapporti<br />
umani sono mediati sempre più dal<strong>la</strong> tecnologia e il legame verbale sembra aver perso ogni antico valore,<br />
il problema è immane e quanto mai stringente. Lo stesso Mr.White è angosciato da questo problema: vi<br />
risponde in modo coraggioso ed estremamente radicale, accettando l’enorme responsabilità assegnatagli<br />
da Mr.Orange, l’unica persona nel<strong>la</strong> sua vità ad averlo considerato con una tale serietà.<br />
Ora le luci si af evoliscono. Il pavimento <strong>del</strong> garage è ingombro di corpi crivel<strong>la</strong>ti di colpi, anche Mr.White<br />
sanguina, ma ha vinto: ha un amico, un amico per cui dare <strong>la</strong> vita. Ha ucciso chi diceva che Mr.Orange<br />
fosse una talpa. Ma come potrebbe l’unico suo amico essere una spia? Come potrebbe <strong>la</strong> sua amicizia,<br />
spesa per <strong>la</strong> prima volta in totale gratuità, venire tradita da una colpa così vile? Eppure, mentre le sirene<br />
confondono le voci, un ebile sussurro confessa l’orrendo <strong>del</strong>itto. Il sordo rumore di uno sparo.
28 ALBATROS<br />
storie<br />
DA UNA LACRIMA A UN SORRISO<br />
Tommaso Faedi<br />
Lo schermo <strong>del</strong> mio cellu<strong>la</strong>re è bagnato, una <strong>la</strong>crima: sempre litigi, ur<strong>la</strong>, questo periodo terso di dif coltà mi<br />
sta soffocando, non riesco a respirare,sono stremato, ho bisogno di par<strong>la</strong>re con qualcuno, di sfogarmi, di<br />
reagire.<br />
Il mio orologio segna le tre e quaranta.<br />
Se non parto subito probabilmente arriverò in ritardo.<br />
Sono le tre e tre quarti e per fortuna sono al luogo <strong>del</strong>l’appuntamento, ansimo per <strong>la</strong> corsa, gocce di sudore<br />
scivo<strong>la</strong>no dal<strong>la</strong> mia fronte a causa <strong>del</strong> sole cocente che picchia sul<strong>la</strong> mia testa.<br />
Perché non sei già qui? Me lo avevi promesso, non me lo posso essere sognato.<br />
Suona il cellu<strong>la</strong>re, lo tiro fuori dal<strong>la</strong> tasca. Un messaggio: sto arrivando. aspettami al bar.<br />
Che corsa! Mi siedo e ordino un caffè schakerato. Il ghiaccio mi sta andando al cervello.<br />
Sento un rumore. Alzo lo sguardo e lei è lì davanti a me che mi guarda.<br />
I suoi capelli sono mossi dal vento e i suoi occhi illuminati dal sole risplendono come due perle sul fondo<br />
<strong>del</strong>l’oceano.<br />
“Come stai? Cos’è successo?” mi sussurra.<br />
“Non ce <strong>la</strong> faccio più con i miei. Io non sopporto loro e loro non sopportano me. Dicono che...”<br />
Ogni paro<strong>la</strong>, come una spina appuntita, si stacca dal mio cuore permettendomi di respirare.<br />
Piano piano il dolore cessa perché inizio a capire che non sono l’unico, che anche lei sta soffrendo per le<br />
stesse ragioni, per gli stessi con itti, inevitabili a questa età.<br />
A volte mi blocco e lei mi ripete “Lo so! E poi?”.<br />
Non lo dice arrabbiata o stanca ma lo sussurra appena, vuole che io mi liberi da quel dolore che porto dentro<br />
e sa che l’unico modo è quello di dirle tutto, ogni minimo dettaglio.<br />
Io parlo, parlo, parlo...<br />
E’ tardi, <strong>la</strong> lezione di teatro sta per cominciare.<br />
Ci incamminiamo.<br />
Stiamo per entrare quando lei si volta verso di me e mi abbraccia.<br />
Non lo dimenticherò mai.<br />
Io piango e lei pure: tutti e due ci stiamo aiutando a vicenda.<br />
Le parole vengono sostituite dai gesti.<br />
“Non aver paura che qua ci sono io! Non temere che poi tutto si sistema. Anch’io ho passato questi momenti<br />
dif cili...”: questo è quello che le sue braccia mi stanno dicendo.<br />
Mi stringe sempre di più, e io sento dentro di me “Dai che ce <strong>la</strong> fai. Stai diventando grande!”.<br />
E io in risposta mi avvicino al<strong>la</strong> sua guancia e le do un bacio pieno <strong>del</strong> mio più grande affetto e amore: “Grazie<br />
Costanza! Sei una vera amica, non so come avrei fatto senza di te.”<br />
Lei mi sorride e mi da in mano un fazzoletto.<br />
Mi asciugo gli occhi e mano nel mano entriamo con un enorme sorriso stampato in volto, non un sorriso falso,<br />
ma vero e ricco di sentimenti di gioia e felicità.<br />
Ridiamo, scherziamo, come se abbiamo dimenticato i momenti infelici per cui prima avevamo tanto pianto.<br />
E invece no, non li abbiamo dimenticati, ma siamo certi che solo insieme li potremo un giorno superare!
GITA A MILANO<br />
Teresa Angeli<br />
ALBATROS 29<br />
FATTI DI SCUOLA<br />
Venerdì 5 ottobre siamo partiti presto per visitare <strong>la</strong> splendida Mi<strong>la</strong>no: è <strong>la</strong> consueta uscita di<br />
apertura <strong>del</strong>l’anno sco<strong>la</strong>stico, insieme ai nostri insegnanti.<br />
Intorno a noi, il chiasso <strong>del</strong><strong>la</strong> città, <strong>la</strong> fretta dei passanti, le fotogra e dei turisti; siamo davanti al<strong>la</strong> grande<br />
Cattedrale e il professore di storia <strong>del</strong>l’arte legge lentamente:<br />
“Il portentoso Duomo di Mi<strong>la</strong>no<br />
non svetta verso il cielo,<br />
ma ferma questo in terra in armonia<br />
nel gotico bel di Lombardia:<br />
mistico af ato va per le navate<br />
<strong>la</strong> Presenza <strong>del</strong> Verbo:<br />
e in tripudio di luce all’esterno<br />
nuova umanità saliente sboccia,<br />
e dall’Unica Persona<br />
in vertici di santi ri orisce<br />
dietro il materno invito di Maria<br />
che da Nascente si fa via via<br />
Assunta; e il popol de nisce, e accosta<br />
a sé a far<strong>la</strong> più vicina, dice<br />
Madonnina.”<br />
(Clemente Rebora)<br />
La descrizione è perfetta. Sono stupita dal<strong>la</strong> grandezza <strong>del</strong><strong>la</strong> costruzione, dal<strong>la</strong> perfezione dei decori, <strong>del</strong>le<br />
sculture, dal<strong>la</strong> cura di ogni dettaglio.<br />
Quando, da chi, perché è stato costruito il Duomo di Mi<strong>la</strong>no?<br />
I professori iniziano a spiegare <strong>la</strong> storia che lo riguarda e con mia grande sorpresa scopro che tutta <strong>la</strong> città,<br />
ogni persona di quell’epoca, ha contribuito al<strong>la</strong> costruzione, ha offerto il suo aiuto per realizzare il bene comune.<br />
Intendo che questo accadeva spesso nel Medioevo. Le persone mettevano a disposizione tutto ciò che<br />
avevano per costruire le Cattedrali, per far sì che <strong>la</strong> città possedesse un segno grande e affascinante <strong>del</strong>l’In-<br />
nito. Gli uomini avevano fede e si spendevano per essa. Chi poteva offrire grandi quantità di denaro, chi<br />
poteva dare qualcosa da mangiare agli operai e ai muratori, chi poteva semplicemente fare un offerta o<br />
privarsi di un oggetto di poco valore. Tutti gli uomini.<br />
Grazie ai Registri <strong>del</strong>le Ob<strong>la</strong>zioni siamo venuti a conoscenza di molte storie differenti di persone che davano<br />
il loro contributo. Una di esse ha come protagonista una vecchietta di nome Caterina, che mi ha colpito<br />
partico<strong>la</strong>rmente. La donna aiutava i muratori pulendo le pietre e trasportandole in piccole quantità e una<br />
mattina decise di donare al<strong>la</strong> Fabbrica <strong>del</strong> Duomo tutto ciò che possedeva: una logora pelliccia che usava<br />
per ripararsi dal freddo. Venne stimata <strong>del</strong> valore di una lira.<br />
Un uomo riconobbe <strong>la</strong> pelliccia, <strong>la</strong> comprò e <strong>la</strong> restituì a Caterina e nello stesso istante coloro che si occupavano<br />
<strong>del</strong>le offerte intuirono l’enorme generosità <strong>del</strong><strong>la</strong> vecchietta e le donarono ben 3 orini d’oro per recarsi<br />
a Roma e ricevere l’indulgenza che tanto desiderava.<br />
Cosa spinge una donna così povera a rega<strong>la</strong>re tutto pur di dare un contributo?<br />
Saremmo capaci, al giorno d’oggi, di donare una parte di noi stessi gratuitamente per <strong>la</strong> realizzazione di un<br />
bene non solo nostro, ma appartenente a tutta <strong>la</strong> comunità? Desideriamo <strong>la</strong>sciare alle generazioni future, un<br />
segno importante <strong>del</strong><strong>la</strong> nostra presenza?<br />
Io credo di sì! I desideri e il cuore <strong>del</strong>l’uomo sono rimasti immutati nel tempo. Bisogna solo avere il coraggio<br />
e <strong>la</strong> disponibilità di amare davvero ciò che ci interessa... Solo così saremo capaci di creare qualcosa per cui<br />
valga <strong>la</strong> pena essere nati e vissuti in questo mondo e -perché no?- di essere felici.
30 ALBATROS<br />
storie<br />
LA VITA TRA SOLITUDINE E SPERANZA<br />
Marcello Barbarossa<br />
Siamo destinati al<strong>la</strong> solitudine ogni qual volta <strong>la</strong> vita non si manifesta a noi come un miracolo, ogni volta che<br />
avviene qualcosa di non previsto, di drammatico. Abbiamo perduto <strong>la</strong> busso<strong>la</strong>, e cerchiamo di mettere in<br />
ordine questo mosaico andato distrutto, frammenti di amori passati, sogni morti, cuori spezzati dal nostro<br />
sadismo, illusioni scheggiate da quello degli altri. Il nostro è un mondo di misteri calpestati e di grazie perdute...<br />
un universo frustrato nei suoi ardori, inghiottito nelle proprie assenze, oggetto <strong>del</strong> nostro pensiero, <strong>del</strong><strong>la</strong><br />
nostra paura: un universo solo, di fronte al mio cuore. Solo.<br />
Allora <strong>la</strong> mia solitudine si accresce, non cerco conforto negli altri: essi non mi conoscono e non mi comprendono.<br />
Non c’è nessuno che possa prendere il mio posto, decidere per me, chiudermi gli occhi. Solo i miei genitori<br />
potrebbero salvarmi, da questo senso di angoscia. Peccato, che ora non ci siano più. Solo, di fronte ai miei<br />
spettri interiori, ribolle in me lo spirito <strong>del</strong> disinganno. Cesso di sperare, perché mi vedo già con <strong>la</strong> bocca<br />
traboccante di terra. Mia madre mi consolerebbe dolcemente. Ma lei non è qui.<br />
Sartre, che sempre accompagna in sordina le numerose meditazioni notturne, dice: “La vita è una passione<br />
inutile”. Allora mi abbandono allo spazio e al tempo come l’urlo strozzato di un muto. Mio padre, mi accarezzerebbe<br />
il volto. Ma ora, <strong>la</strong> sua mano è morta, fredda.<br />
E quando il primo ore sboccia, <strong>la</strong> prima meravigliosa gemma si schiude, appena nata, ecco che <strong>la</strong> volgarità<br />
<strong>del</strong><strong>la</strong> primavera e le sue provocazioni, mi rendono il cuore di ghiaccio. Di fronte a questo paradiso terrestre,<br />
mi rendo conto <strong>del</strong><strong>la</strong> mia in nita solitudine, appena riconosco <strong>la</strong> non-coscienza di questi taciturni interlocutori<br />
che sono gli alberi, i ori profumati, le montagne, gli oceani muti: io, col mio cuore pulsante, non vivo nell’estasi<br />
<strong>del</strong>l’incoscienza. Infatti, quando i genitori ti abbandonano, ancora piccolo, si perde il senso di unicità, di<br />
speranza, si diventa l’ennesimo errore nel mondo di coloro che respirano per pregiudizio.<br />
La mia vita continua, al<strong>la</strong> vana ricerca di un mo<strong>del</strong>lo tra i mortali. Cattivo sco<strong>la</strong>ro, apprendo le cose peggiori:<br />
<strong>la</strong> pigrizia, il sadismo, l’asprezza, <strong>la</strong> spudoratezza. Eppure mi credo ancora importante, in me un briciolo di<br />
speranza vive ancora, come un ultimo bagliore <strong>del</strong> sole al termine <strong>del</strong><strong>la</strong> notte nera: puro, rinnego il fango da<br />
cui sono nato; sordo, rinnego le parole che mi hanno ferito; vivo, temo <strong>la</strong> morte; sognatore, rinnego <strong>la</strong> durezza.<br />
Allora, mi rallegro, perché una speranza c’è! Una qualche luce al<strong>la</strong> ne <strong>del</strong> tunnel, qualche dio, qualche<br />
principio divino, in me o fuori di me... Ne sono sicuro. Aspetto una rive<strong>la</strong>zione imminente... Perché “se polve<br />
e ombra sei, tant’alto senti?”, direbbe Leopardi. Voglio qualcosa di più, il mio cuore aspetta. Perché questa<br />
debole ammel<strong>la</strong> dentro il mio cuore, sferzata dal vento <strong>del</strong><strong>la</strong> solitudine, non si spegne mai? Perché resisto?<br />
È questo il misterioso e imperscrutabile potere <strong>del</strong><strong>la</strong> speranza. Speranza in qualcosa, in qualcuno che venga<br />
a salvarmi, a ridarmi quello che ho perduto. La speranza, dicono, da senso al<strong>la</strong> vita. Allora mi apro al<strong>la</strong> realtà,<br />
piena di luci e di ombre: perché è questa <strong>la</strong> vita; questo mondo è <strong>la</strong> mia casa, l’umanità è <strong>la</strong> famiglia che ho<br />
perduto. Ora non posso fare altro che stupirmi <strong>del</strong><strong>la</strong> freschezza <strong>del</strong> giorno che muore.
NEIL ARMSTRONG<br />
Micae<strong>la</strong> Sirsi e Patrizia Petrucci<br />
ALBATROS 31<br />
storie<br />
Quasi tutti conoscono <strong>la</strong> celebre frase : “ Un piccolo passo per un uomo, un grande balzo per l’umanità”.<br />
Queste sono le parole pronunciate da Neil Armstrong, noto per essere stato il primo uomo ad essere sbarcato<br />
sul<strong>la</strong> Luna. Ma chi era Neil Armstrong?<br />
Nato in Ohio da una famiglia di origine tedesca, fu selezionato come astronauta nel 1962, dopo essersi <strong>la</strong>ureato<br />
in ingegneria aeronautica al<strong>la</strong> Purdue University.<br />
Nel luglio 1969 fu il primo essere umano ad aver messo piede sul<strong>la</strong> Luna, insieme al suo compagno Buzz<br />
Aldrin, mentre Michael Collins rimase in orbita attorno al satellite. Questa missione straordinaria ci fa vedere<br />
come semplicissime persone sono riuscite a fare grandi cose con opportunità molto più limitate di quelle<br />
che abbiamo ai giorni nostri. Ad esempio possiamo pensare che durante <strong>la</strong> missione Apollo 11, gli astronauti<br />
usavano computer di potenza pari ai cellu<strong>la</strong>ri che abbiamo noi oggi.<br />
Armstrong disse: “La cosa più importante<br />
<strong>del</strong><strong>la</strong> missione Apollo fu dimostrare che<br />
l’umanità non sarà incatenata per sempre<br />
a un solo pianeta ; le nostre visioni possono<br />
superare quel con ne e le nostre<br />
opportunità sono in nite”. Leggendo un’intervista<br />
fatta da Oriana Fal<strong>la</strong>ci al famoso<br />
astronauta, ci siamo stupite quando abbiamo<br />
scoperto una certa indifferenza da<br />
parte di Armstrong, riguardo al suo sbarco<br />
sul<strong>la</strong> Luna: “Per me lo sbarco è stato il<br />
semplice cambio d’uf cio; penso che mi<br />
abbia fatto piacere, ma un uf cio o l’altro è<br />
lo stesso: io non ho ambizioni personali”.<br />
Queste parole lo caratterizzano, infatti egli partecipò al<strong>la</strong> missione Apollo 11 esclusivamente per distrarsi<br />
dal<strong>la</strong> triste tragedia capitatagli in famiglia : <strong>la</strong> morte <strong>del</strong><strong>la</strong> sua picco<strong>la</strong> glia Karen.<br />
Il silenzioso Armstrong, descritto da tutti come persona fredda , calco<strong>la</strong>trice, ma soprattutto modesta ,fu<br />
scelto dall’amministrazione <strong>del</strong> progetto proprio per le sue qualità; in effetti avevano visto giusto in quanto<br />
egli non ha sfruttato <strong>la</strong> sua immagine per diventare famoso anzi, si iso<strong>la</strong>va dal mondo <strong>del</strong><strong>la</strong> fama e si nascondeva<br />
dalle macchine fotogra che. Basti notare, che le uniche fotogra e sul<strong>la</strong> super cie <strong>del</strong><strong>la</strong> Luna,<br />
avevano come soggetto Buzz Aldrin ; Niel non fotografò se stesso. Non ha mai fatto autogra , non ha mai<br />
accettato il titolo di professore senza passare il dottorato. Fu chiamato da varie aziende aerospaziali come<br />
consulente nei consigli di amministrazione ma lo fece sempre poco volentieri . Ci furono diversi tentativi di<br />
sfruttamento di immagine a sua insaputa. Il parrucchiere che lo aveva “curato” da 20 anni, vendette una<br />
ciocca di capelli <strong>del</strong>l’astronauta per 3.000 dol<strong>la</strong>ri. Quando Armstrong lo scoprì , propose al parrucchiere di<br />
restituirgli i capelli o di donare i soldi ricevuti ad un fondo di bene cenza. Il parrucchiere scelse <strong>la</strong> seconda<br />
opzione, in quanto i capelli erano irrecuperabili.<br />
Non è con l’egoismo che si guadagna il rispetto, per questo pensiamo che modestia e riservatezza siano<br />
le qualità che resero Neil Armstrong una persona così ammirata ; Sul<strong>la</strong> Luna non c’è vento che possa<br />
spazzare via l’impronta che ha <strong>la</strong>sciato. Rimarrà uno dei più grandi eroi americani, che ha fatto sognare le<br />
generazioni passate. Grazie a lui ci siamo resi conto che il futuro è nelle nostre mani. Il progresso scienti co<br />
e l’evoluzione tecnologica, unite alle grandi virtù di uomini come Armstrong, ci daranno <strong>la</strong> possibilità di dare<br />
<strong>del</strong>le risposte alle in nite domande che ognuno di noi si pone.
32 ALBATROS<br />
L’INTERVISTA A...<br />
GIOVANNA AMOROSO E ISTVAN ZIMMERMAN<br />
Alessandro Sgrignani<br />
Introduzione<br />
“L’arte vuol sempre irrealtà visibili”<br />
Jorge Luis Borges, da Altre inquisizioni<br />
Ho deciso di intervistare gli artisti Istvan Zimmermann e Giovanna Amoroso, perchè da sempre mi interessano<br />
le opere d’arte ma soprattutto le personalità degli artisti, il loro modo di rappresentare, percepire e a volte<br />
inventare <strong>la</strong> realtà, di rendere esistente un’idea.<br />
Per questo ho pensato che sarebbe stato interessante anche per altri intervistare questi due amici di famiglia<br />
che sono riusciti a realizzare il loro sogno e a vivere d’arte.<br />
La conoscenza fra le nostre famiglie è di lunga data, poiché frequentavo <strong>la</strong> scuo<strong>la</strong> materna assieme a uno<br />
dei gli di Istvan e Giovanna. Fin da quando ero bambino entrando nel<strong>la</strong> loro casa venivo colpito dal<strong>la</strong> quantità<br />
di libri, immagini e piccole o grandi sculture, che <strong>la</strong> rendevano incredibilmente ricca. A volte andavo a trovarli<br />
anche nel loro <strong>la</strong>boratorio, in cui prendevano vita fantastiche strutture, copie in materiale p<strong>la</strong>stico di corpi<br />
umani ed ingegnose soluzioni per far spuntare, ad esempio, dal centro di un letto un gigantesco ore, oppure<br />
come quel<strong>la</strong> volta che hanno saputo ricreare n nei minimi partico<strong>la</strong>ri una riproduzione perfetta <strong>del</strong><strong>la</strong> carrozza<br />
<strong>del</strong> cartone animato di cenerento<strong>la</strong>, con tanto di sedili imbottiti di velluto rosso e decorazioni dorate.<br />
Il loro modo di re<strong>la</strong>zionarsi così spontaneo e inusuale mi ha sempre affascinato, ed anche se ora li vedo più<br />
raramente, rimangono per me dei punti di riferimento, per <strong>la</strong> loro ingegnosità e sensibilità.<br />
Intervista<br />
1) In cosa consiste il tuo <strong>la</strong>voro? Come trascorri <strong>la</strong> tua giornata tipo?<br />
Istvan: Sono uno scultore e progetto, costruisco ogni sorta di cose che non esistono. Sculture, effetti speciali,<br />
maschere e macchine connesse all’arte e agli spettacoli. La mia giornata standard? “Metro Bulo Dodo” (<br />
Metro, Lavoro e Riposo).<br />
Giovanna: Mo<strong>del</strong>lo sculture, ritratti, col<strong>la</strong>boro con mio marito al<strong>la</strong> progettazione e realizzazione di allestimenti<br />
museali e scenogra e teatrali.<br />
2) Quali sono gli aspetti positivi e quelli negativi <strong>del</strong><strong>la</strong> tua professione?<br />
Istvan: il <strong>la</strong>to positivo che sono libero di scegliere quasi sempre. Il <strong>la</strong>to negativo che sono sempre e comunque<br />
io il responsabile di ogni cosa che faccio bene o male.<br />
Giovanna: positivo: sicuramente é un <strong>la</strong>voro molto libero,indipendente, creativo e quindi sempre diverso. Mi<br />
permette di viaggiare molto e recarmi spesso all’estero. Negativo: il <strong>la</strong>voro spesso non ha limiti di tempo e mi<br />
coinvolge completamente. È dif cile conciliarlo con esigenze familiari.<br />
3) Che tipo di studi hai intrapreso, come e dove hai imparato a scolpire?<br />
Istvan: durante l’infanzia: scuo<strong>la</strong> di disegno animato presso lo Studio Film Pannonia di Budapest. Ho assistito<br />
e partecipato alle belle pazzie di miei nonni e di mio padre. Da più grande Liceo C<strong>la</strong>ssico, Università di Design<br />
Industriale di Budapest, successivamente Accademia di Belle Arti in scultura tra città diverse, mi sono<br />
diplomato a Carrara. In seguito al<strong>la</strong> Sorbonne Corso di storia <strong>del</strong>l’arte. Non ho imparato ancora a scolpire ma<br />
sono sul<strong>la</strong> buona strada...<br />
Giovanna: dopo il liceo artistico mi sono diplomata all’accademia di belle arti di Carrara corso di scultura<br />
dopo aver fatto <strong>del</strong>le tappe a Firenze e Roma. Ho frequentato il corso di Storia <strong>del</strong>l’Arte presso <strong>la</strong> Sorbonne di<br />
Parigi. Ho Imparato a scolpire nel corso degli anni con l’esperienza <strong>del</strong>l’Accademia ma sopratutto <strong>la</strong>vorando<br />
con passione e cercando continui stimoli.
ALBATROS 33<br />
L’INTERVISTA A...<br />
4) Puoi aiutarmi a capire che cosa si intende per “ opera d’arte”?<br />
Istvan: è <strong>la</strong> domanda più grande sul<strong>la</strong> quale tutti cercano <strong>la</strong> risposta da Aristotele in avanti. Tutto può diventare<br />
arte ma solo per <strong>la</strong> prima volta. Mi piace pensare che un’opera d’arte non sia soltanto solo un pensiero<br />
ma che abbia anche una sorte di involucro perfetto.<br />
Giovanna: è un concetto, un pensiero che si sposa con un qualche ideale di bellezza.<br />
5) Quale dei tuoi <strong>la</strong>vori ti rappresenta di più? A quale sei più affezionato?<br />
Istvan: sono più affezionato a quello su cui sto <strong>la</strong>vorando. Cioè sull’ultimo.<br />
Giovanna: ai disegni realizzati a Parigi per una mostra nel 2002 il cui tema era l’infanzia.<br />
6) A cosa bisogna prestare maggiore attenzione nel tuo <strong>la</strong>voro?<br />
Istvan: bisogna prestare attenzione a tutto.<br />
Giovanna: al fatto che sia coerente con le proprie aspettative e con quelle <strong>del</strong> committente.<br />
7) Che consigli puoi dare a dei ragazzi che vorrebbero tentare di intraprendere una professione artistica?<br />
Istvan: non esiste <strong>la</strong> professione artistica. Ogni gesto ogni azione va imparato e perfezionato come una<br />
materia scienti ca, il contenuto artistico arriva un certo punto all’improvviso, oppure non arriva. Vorrei credere<br />
che tra l’arte e scienza non ci sia differenza.<br />
Giovanna: non direi “tentare”, ma di “fare” con piena convinzione ed entusiasmo. E di seguire i sogni anche<br />
se sembrano irraggiungibili, perché le strade si aprono ai nostri desideri.<br />
Giovanna Amoroso, Istvan Zimmerman: Mostra di Giovanna e Istvan
34 ALBATROS<br />
LE IENE DEL LICEO<br />
L’INTERVISTA A... TIZIANO MARIANI VS LORENZO GIANFELICI<br />
a cura di Lugi Montalti e<br />
Maria Vittoria Bazzocchi<br />
Nome<br />
Cognome<br />
Anni<br />
Quanti se ne sente?<br />
Stato civile<br />
Figli?<br />
Perchè insegna?<br />
Studente più bravo <strong>del</strong><strong>la</strong> scuo<strong>la</strong>?<br />
Piercing o tatuaggio?<br />
Proverbio preferito?<br />
E’ meglio lei o Gianfelici -<br />
Mariani?<br />
Juve o Mi<strong>la</strong>n?<br />
Canzone preferita?<br />
Come morirà?<br />
Giacca e cravatta o jeans e<br />
maglioncino?<br />
Tiziano<br />
Mariani<br />
34<br />
24<br />
Sposato (mostra <strong>la</strong> fede)<br />
Tre<br />
Perchè mi piace<br />
Sì! (ride)<br />
Tatuaggio<br />
Chi <strong>la</strong> fa l’aspetti<br />
Gianfelici<br />
Mi<strong>la</strong>n<br />
“Ho perso le parole” di Ligabue<br />
Non lo so<br />
Giacca e cravatta<br />
Lorenzo<br />
Gianfelici<br />
(ci pensa) 32!<br />
Almeno 35-36, un po’ di più<br />
Sono sposato<br />
Ma guarda, c’è e non c’è, nel senso<br />
che c’è ma non è ancora visibile!<br />
Perchè è <strong>la</strong> mia passione n da piccolo<br />
Tutti e nessuno<br />
A ‘sto punto è meglio il tatuaggio!<br />
Tanto va <strong>la</strong> gatta al <strong>la</strong>rdo che ci <strong>la</strong>scia<br />
lo zampino!<br />
(ride) Ma certo che io!<br />
Eh no... non mi fate questo<br />
“La Morna” di Vinicio Caposse<strong>la</strong><br />
Spero in un letto a casa mia di<br />
vecchiaia e serenamente<br />
Eh... jeans e maglioncino!
Descriva Gianfelici/Mariani con<br />
due parole<br />
Come vi siete incontrati?<br />
Lento innamoramento o colpo di<br />
fulmine?<br />
In vino veritas...?<br />
Ha un euro da prestarmi?<br />
Filoso a di vita?<br />
Sogno nel cassetto?<br />
Sport o lettura?<br />
Bellezza o intelligenza?<br />
Barba o baf ?<br />
Cosa fa per <strong>la</strong> sua cellulite?<br />
Punto debole?<br />
Mourinho o Stramaccioni?<br />
Peggiore esperienza sentimentale?<br />
Un ricordo dagli zero ai dieci<br />
anni?<br />
Gioia più grande <strong>del</strong><strong>la</strong> vita?<br />
E’ felice?<br />
ALBATROS 35<br />
LE IENE DEL LICEO<br />
L’INTERVISTA A... TIZIANO MARIANI VS LORENZO GIANFELICI<br />
Intelligente e interessante<br />
Per caso<br />
Entrambi<br />
In scarpe Adidas!<br />
No<br />
Vivi e <strong>la</strong>scia vivere<br />
Allenare l’Inter<br />
Sport<br />
Bellezza<br />
Nessuno dei due<br />
Niente!<br />
Permaloso<br />
Mourinho<br />
Essere mol<strong>la</strong>ti!<br />
Un campo di grano e una bel<strong>la</strong><br />
mucchia di eno<br />
I gli<br />
Sì!<br />
(ride) Serio.. ma in realtà comico!<br />
Ma qua a scuo<strong>la</strong>.. ma che è una storia<br />
d’amore tra me e Mariani?<br />
Lento innamoramento<br />
Eh che devo dire? Non me <strong>la</strong> ricordo<br />
Sì<br />
P<strong>la</strong>tone con un po’ di Aristotele per<br />
ancorarsi a terra<br />
(ci pensa) Non ne ho!<br />
Giocare a calcio mentre leggo un libro!<br />
Eh, intelligenza<br />
Barba. E al<strong>la</strong> grande!<br />
Faccio un’ora di essioni.. no, com’è che<br />
si chiamano.. addominali, faccio un’ora<br />
di addominali al giorno!<br />
(La cellulite dove ce l’ha scusi?)<br />
Infatti non è cellulite, è panza!<br />
L’ansia<br />
Stramaccioni!<br />
Una mia ragazza di liceo che mi ha<br />
<strong>la</strong>sciato dopo nove anni.. ma poi perchè<br />
vi devo raccontare queste cose?!<br />
Mia madre che a cinque anni mi dice “ormai<br />
sei un ometto, bada a tuo fratello”<br />
Ma penso che debba arrivare!<br />
Sì!
36 ALBATROS<br />
OSSERVANDO<br />
LA FISICA NEL PALLONE<br />
Federica Pianese<br />
Nonostante <strong>la</strong> sica sia solitamente ritenuta, secondo infondate ma popo<strong>la</strong>ri dicerie, un insieme di conoscenze<br />
astratte e sicuramente affatto legate agli aspetti <strong>del</strong><strong>la</strong> vita quotidiana, essa rappresenta in realtà uno<br />
degli ambiti più concreti <strong>del</strong><strong>la</strong> scienza, proprio come Nico<strong>la</strong> Ludwing e Gianbruno Guerriero hanno tentato di<br />
dimostrare scrivendo “La scienza nel pallone”, libro volto ad analizzare il calcio attraverso le leggi siche che<br />
lo rego<strong>la</strong>no.<br />
Certamente questo libro non è un manuale che, grazie a calcoli e formule matematiche, fornisce i segreti per<br />
giocare partite perfette, e non è questo il suo scopo; studiare uno sport dal punto di vista sico può essere<br />
molto utile per capire quali sono i complessi meccanismi che in uiscono sui nostri movimenti, cosicché, ad<br />
esempio, possiamo imparare a gestire meglio le nostre forze, migliorando così anche <strong>la</strong> vostra tecnica di<br />
gioco; ma è necessario ricordare che l’argomento di questi studi non è semplicemente un oggetto, il pallone,<br />
analizzabile da un punto materiale, mosso solo ed esclusivamente da meccanismi razionali. Lo sport è prima<br />
di tutto degli atleti, dei giocatori in questo caso, che come esseri umani sono molto in uenzati più da fattori<br />
psicologici e piuttosto irrazionali che da leggi matematiche; credo che gli uomini non possano essere analizzati<br />
solo come insieme, perché si incorrerebbe in risultati discordanti quasi come se ognuno fosse quell’eccezione<br />
che sfugge alle leggi che rego<strong>la</strong>no gli altri suoi simili:<br />
“L’unica scienza ef cace in questo senso è ancora quel<strong>la</strong> praticata da allenatori e giocatori nel duro <strong>la</strong>voro<br />
quotidiano sul campo: [...] nello sport <strong>la</strong> passione, <strong>la</strong> determinazione e il talento valgono più <strong>del</strong>l’apporto che<br />
da so<strong>la</strong> può fornire <strong>la</strong> tecnologia”.<br />
Questa massima esplicitata nelle ultime righe <strong>del</strong> libro può essere intuita in realtà leggendo qualsiasi capitolo,<br />
come se fosse il il lo conduttore che ha guidato i due autori in questa s da che de nirei vinta. Sebbene<br />
non abbia mai avuto alcun interesse per il calcio, leggere questo testo è stato davvero interessante forse<br />
perché ho trovato per analogia risposte su questioni re<strong>la</strong>tive allo sport che pratico, il nuoto.<br />
Il libro si apre con un capitolo dedicato al vero protagonista <strong>del</strong> calcio: il pallone. I materiali usati nel<strong>la</strong> sua<br />
composizione, <strong>la</strong> forma, il peso, <strong>la</strong> grandezza sono tutti frutto di studi scienti ci e sono quindi mutati nel<br />
tempo nel tentativo di raggiungere <strong>la</strong> perfezione. I due autori ci stupiscono, invece, dichiarando che, dopo<br />
l’introduzione <strong>del</strong> pallone jabu<strong>la</strong>ni (2010), saldato a caldo e non cucito per ridurre al minimo le asperità <strong>del</strong><strong>la</strong><br />
super cie, si è scoperto che una pal<strong>la</strong> perfettamente levigata non coincide con una perfetta condizione di<br />
gioco! Questo ha dimostrato che in realtà <strong>la</strong> traiettoria <strong>del</strong> pallone è strettamente legata alle turbolenze che<br />
essa stessa crea per mezzo <strong>del</strong>le sue imperfezioni durante il movimento.<br />
Segue quindi un approfondimento sulle forze che entrano in gioco insieme agli atleti: si legge per esempio<br />
che, tra<strong>la</strong>sciando <strong>la</strong> forza di gravità e quel<strong>la</strong> dovuta al<strong>la</strong> resistenza <strong>del</strong>l’aria, <strong>la</strong> traiettoria <strong>del</strong><strong>la</strong> pal<strong>la</strong> non è una<br />
parabo<strong>la</strong> a causa <strong>del</strong><strong>la</strong> forza frenante <strong>del</strong>l’aria; infatti “il suo moto ha una accelerazione che varia nel tempo”.<br />
Mentre invece l’impatto <strong>del</strong><strong>la</strong> pal<strong>la</strong> può essere misurato dal prodotto <strong>del</strong><strong>la</strong> sua massa e velocità.<br />
È, quindi, fondamentale studiare l’incontro <strong>del</strong> piede con <strong>la</strong> pal<strong>la</strong> perché è da questo che dipende il movimento<br />
<strong>del</strong> pallone. Ci sono formule che permettono di calco<strong>la</strong>re <strong>la</strong> massima velocità che il pallone può<br />
raggiungere no ad arrivare agli studi che hanno cercato di capire <strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione tra l’urto e <strong>la</strong> massa corporea<br />
<strong>del</strong> calciatore. E qui ho scoperto, per esempio, per quale motivo negli esercizi di potenziamento <strong>del</strong>le gambe<br />
nel nuoto riesco meglio io con i miei 160 cm di altezza piuttosto che <strong>la</strong> mia compagna alta 180 cm. Come il<br />
calcio di punizione di un giocatore basso è più ef cace di quello di un giocatore più alto, così io riesco a raggiungere<br />
una velocità maggiore perché “una persona più bassa avrà bisogno di investire minore energia per<br />
portare <strong>la</strong> propria gamba a una certa velocità, e quindi, a parità di energia, <strong>la</strong> velocità <strong>del</strong> piede <strong>del</strong>l’atleta più<br />
basso potrà raggiungere un valore superiore.”<br />
Successivamente vengono prese in considerazione altre modalità di colpire il pallone, per esempio per mezzo<br />
di quelle acrobazie che risultano ef caci grazie al supporto <strong>del</strong>l’effetto sorpresa che spiazza l’avversario.<br />
Molta attenzione è anche dedicata al colpo di testa, perché il cranio umano ha una forma e una <strong>del</strong>icatezza<br />
totalmente differenti rispetto al piede; <strong>la</strong> rigidità e <strong>la</strong> forma sferica <strong>del</strong> nostro capo, simile a quel<strong>la</strong> <strong>del</strong><strong>la</strong> pal<strong>la</strong>,<br />
può portare quest’ultima ad una velocità decisamente maggiore dato che il coef ciente di restituzione può<br />
superare anche <strong>del</strong> 20% di quello ottenuto nell’impatto con il piede.
ALBATROS 37<br />
OSSERVANDO<br />
In partico<strong>la</strong>re, ha catturato <strong>la</strong> mia attenzione <strong>la</strong> spiegazione <strong>del</strong>l’effetto Magnus. Con questo nome ci si<br />
riferisce a quei casi in cui il pallone si sposta dal<strong>la</strong> sua traiettoria iniziale per curvare o a destra o a sinistra o<br />
verso il basso in modo <strong>del</strong> tutto inaspettato ma perfettamente spiegabile e dimostrabile sotto un punto di vista<br />
sico, e quindi togliendo ai calciatori che riescono a compiere questa prodezza il titolo di supereroi. Prima<br />
degli studi compiuti da Galileo si credeva che i corpi in movimento fossero in tale stato per <strong>la</strong> presenza di un<br />
motore invisibile in grado di guidarli: “ omne quod movetur ab alio movetur – tutto ciò che si muove è mosso<br />
da qualcosa”. In realtà <strong>la</strong> traiettoria di un corpo in movimento è de nita da molti fattori, ma certamente fra<br />
questi non c’è un corpo-motore a cui si possa ricondurre tutto. Quindi, il pallone da calcio, se preso in considerazione<br />
come corpo puntiforme, verrebbe in uenzato solo dal<strong>la</strong> sua velocità iniziale e dal<strong>la</strong> forza di gravità;<br />
per studiare il suo moto in una partita, invece, bisogna considerarlo come corpo esteso suscettibile all’effetto<br />
<strong>del</strong><strong>la</strong> resistenza <strong>del</strong>l’aria detta resistenza aerodinamica e <strong>del</strong><strong>la</strong> rotazione che sono gli “ingredienti” <strong>del</strong>l’effetto<br />
Magnus. La resistenza aerodinamica è una forza di attrito per cui agisce opponendosi al movimento nel<strong>la</strong><br />
stessa direzione ma in verso opposto, mentre <strong>la</strong> rotazione è “lo spostamento ango<strong>la</strong>re <strong>del</strong>le sue diverse parti<br />
rispetto a una linea chiamata asse di rotazione”.<br />
Per ottenere l’effetto Magnus è necessario mettere <strong>la</strong> pal<strong>la</strong> in movimento in modo che questa ruoti in aria<br />
lungo <strong>la</strong> sua traiettoria: <strong>la</strong> direzione <strong>del</strong><strong>la</strong> forza applicata dal piede non deve passare per il centro di massa in<br />
modo che le diverse parti <strong>del</strong> pallone risentano in maniera diversa <strong>del</strong><strong>la</strong> sua azione, di conseguenza durante<br />
<strong>la</strong> tras<strong>la</strong>zione avverrà anche <strong>la</strong> rotazione con una velocità direttamente proporzionale al braccio <strong>del</strong><strong>la</strong> forza<br />
rispetto al baricentro <strong>del</strong> pallone.<br />
A questo punto per capire quali meccanismi sono in gioco in questo momento, bisogna ricorrere al cosiddetto<br />
TEOREMA DI BERNOULLI, enunciato nel Settecento: esso afferma che <strong>la</strong> somma <strong>del</strong><strong>la</strong> pressione <strong>del</strong><br />
uido, <strong>del</strong><strong>la</strong> sua energia cinetica e <strong>del</strong><strong>la</strong> sua energia potenziale ( legata al<strong>la</strong> quota a cui si trova ), non cambia<br />
nel tempo ----> p+1/2dv^2= costante ----> in questo caso speci co si può semplicemente affermare che,<br />
essendoci un valore costante, p e v sono inversamente proporzionali.<br />
Immaginiamo, quindi, che non sia <strong>la</strong> pal<strong>la</strong> a muoversi ma sia una colonna d’aria a dirigersi verso di lei: prima<br />
di incontrare <strong>la</strong> pal<strong>la</strong> il moto <strong>del</strong>l’aria è <strong>la</strong>minare, mentre, a causa <strong>del</strong><strong>la</strong> forma sferica <strong>del</strong><strong>la</strong> pal<strong>la</strong>, dietro<br />
quest’ultima si creano dei vortici dando vita ad un moto turbolento <strong>del</strong> uido che raggiunge una velocità<br />
più elevata. Secondo il teorema prima citato, allora, davanti al pallone il uido avrà una pressione maggiore<br />
mentre dietro sarà minore. Ciò signi ca che ai due <strong>la</strong>ti <strong>del</strong> corpo si ha una differenza di pressione, cosa che<br />
produce una forza in grado di spingere il pallone nel<strong>la</strong> direzione e nel verso <strong>del</strong><strong>la</strong> velocità <strong>del</strong> usso d’aria.<br />
A questo punto in base al<strong>la</strong> rotazione <strong>del</strong><strong>la</strong> pal<strong>la</strong> possiamo de nire il cambiamento <strong>del</strong><strong>la</strong> sua traiettoria. Per<br />
esempio, se il pallone ruota in avanti <strong>la</strong> discesa diventa molto più rapida di quanto ci si aspetterebbe e <strong>la</strong><br />
gittata diventa minore rispetto a quel<strong>la</strong> <strong>del</strong><strong>la</strong> parabo<strong>la</strong> ideale; il uido rallenta in alto e accelera in basso generando<br />
una portanza negativa; <strong>la</strong> pal<strong>la</strong> raggiunge l’apice <strong>del</strong><strong>la</strong> traiettoria che coincide con il valore minimo<br />
di velocità per poi riprendere ad aumentare nel<strong>la</strong> direzione negativa dove, appunto, il uido ha una pressione<br />
minore.<br />
È sicuramente molto più coreogra co quando lo stesso processo si svolge <strong>la</strong>teralmente perché, a seconda<br />
<strong>del</strong><strong>la</strong> rotazione, oraria o antioraria, una volta raggiunto l’apice, <strong>la</strong> traiettoria <strong>del</strong> pallone subirà una deviazione<br />
rispettivamente verso destra o sinistra senza modi care il tempo di volo e <strong>la</strong> gittata <strong>del</strong> tiro essendo determinate<br />
dal<strong>la</strong> forza di gravità e dal<strong>la</strong> resistenza <strong>del</strong>l’aria! Il più leggendario tiro di questo genere fu opera di<br />
Roberto Carlos il 3 giugno 1997: egli riuscì a imprimere una rotazione antioraria al pallone tale da farlo deviare<br />
dal<strong>la</strong> ipotetica traiettoria rettilinea di addirittura di 6 metri! Ruotando in senso antiorario, a destra <strong>del</strong><strong>la</strong> pal<strong>la</strong><br />
si era creata <strong>la</strong> zona di pressione maggiore e <strong>la</strong> pal<strong>la</strong> è stata per questo portata a virare verso sinistra dove <strong>la</strong><br />
pressione <strong>del</strong>l’aria era minore.<br />
Questo processo mi ha affascinato partico<strong>la</strong>rmente sia nel suo procedimento davvero singo<strong>la</strong>re e curioso<br />
sia, soprattutto, perché il teorema di Bernoulli ha davvero risposto a un mio grande dubbio sul nuoto. Mi<br />
sono sempre chiesta se il fatto di raggiungere una velocità più elevata e usare meno energia per mantener<strong>la</strong><br />
quando si nuota in “scia” fosse un fatto psicologico oppure una precisa condizione sicamente dimostrabile,<br />
e leggendo questo capitolo ho trovato una risposta più che soddisfacente. Infatti “nuotare in scia” signi ca<br />
avere qualcuno davanti ad una distanza massima di qualche metro, distanza che può variare in base al<strong>la</strong><br />
condizione sica <strong>del</strong><strong>la</strong> persona; per esempio, si può bene ciare <strong>del</strong><strong>la</strong> scia di un ragazzo più muscoloso ad<br />
una distanza maggiore rispetto ad una persona meno imponente; probabilmente in uisce anche il modo di
38 ALBATROS<br />
OSSERVANDO<br />
nuotare, per esempio quanto venga sfruttato il movimento <strong>del</strong>le gambe ma non necessariamente. Comunque<br />
il teorema di Bernoulli spiega cosa accade. Possiamo sostituire all’elemento aria l’acqua (è indifferente che<br />
sia <strong>del</strong> mare o <strong>del</strong><strong>la</strong> piscina) perché entrambi sono uidi, mentre al pallone <strong>la</strong> testa <strong>del</strong> nuotatore e <strong>la</strong> sua<br />
cuf a sopra, visto che già gli autori <strong>del</strong> libro hanno paragonato questi due corpi per <strong>la</strong> loro forma e, in fondo,<br />
è <strong>la</strong> testa principalmente a fendere l’acqua quando si nuota. A questo punto è molto semplice capire come si<br />
veri ca questa differenza di energia richiesta da chi nuota davanti.<br />
Come prima possiamo immaginare che non sia il nuotatore a muoversi incontro all’acqua ma il contrario: il<br />
usso che raggiunge <strong>la</strong> testa è <strong>la</strong>minare, ha una certa pressione e una certa velocità. Una volta superato il<br />
corpo <strong>del</strong>l’atleta il usso diventerà turbolento a partire dalle sue anche (<strong>la</strong> scia si prende al massimo di anco<br />
alle anche, no a qualche metro dietro ai piedi): da questo punto, quindi, il uido avrà una pressione minore<br />
e una velocità maggiore. Le mani <strong>del</strong> nuotatore che si muove in scia, allora, si troveranno a fare presa su porzioni<br />
di acqua che, non solo esercitano una pressione minore nell’opporsi al<strong>la</strong> loro forza, ma addirittura già in<br />
movimento ad una velocità maggiore rispetto al usso <strong>la</strong>minare; per non par<strong>la</strong>re <strong>del</strong> fatto che l’intero corpo<br />
<strong>del</strong> nuotatore in scia, a partire dal<strong>la</strong> testa e dalle spalle, risente di una pressione di gran lunga minore rispetto<br />
al compagno che lo precede. È questa <strong>la</strong> situazione facilitata che permette un dispendio minore di energia!
TRA SCIENZA E TECNOLOGIA<br />
Ri essione sul valore <strong>del</strong><strong>la</strong> scienza nel nuovo millennio<br />
Simone Pracucci<br />
LETTERANDO<br />
ALBATROS 39<br />
Scienza. Quale signi cato ha assunto oggi questa paro<strong>la</strong>? Ponendo <strong>la</strong> domanda a uno studente liceale,<br />
egli ci risponderebbe, nel<strong>la</strong> migliore <strong>del</strong>le ipotesi, recitando a memoria leggi e formule chimiche e siche,<br />
imparate faticosamente in previsione <strong>del</strong>le interrogazioni. Forse, uno studente partico<strong>la</strong>rmente diligente<br />
e appassionato al<strong>la</strong> materia, potrebbe citare le scoperte di alcuni illustri scienziati e descriverne<br />
<strong>la</strong> genesi. Tuttavia, l’impressione che si ricaverebbe da ogni risposta ci porterebbe a de nire <strong>la</strong> scienza<br />
come un concetto etereo, complesso e dogmatico, assai più strettamente legato ai libri sco<strong>la</strong>stici che<br />
al<strong>la</strong> vita quotidiana. Eppure lo studente liceale possiede quasi sicuramente uno smartphone, si muove<br />
per <strong>la</strong> città su uno scooter o in automobile, vive in una casa con riscaldamento, luce elettrica… Non sono<br />
questi effetti <strong>la</strong>mpanti e tangibili <strong>del</strong><strong>la</strong> presenza <strong>del</strong><strong>la</strong> scienza in ogni ambito <strong>del</strong><strong>la</strong> nostra vita? Le innovazioni<br />
tecnologiche non dovrebbero essere indissolubilmente legate al progresso scienti co e dunque al<br />
concetto stesso di scienza? No: paradossalmente, nel mondo in cui viviamo, <strong>la</strong> scienza sembra essere<br />
sempre più con nata nelle biblioteche e nei <strong>la</strong>boratori. Questo accade perché all’idea che assegnava<br />
al<strong>la</strong> scienza il ruolo di faro <strong>del</strong>l’umanità, affermata per <strong>la</strong> prima volta da scienziati e loso razionalisti<br />
più di tre secoli fa, si è progressivamente sostituita quel<strong>la</strong> di progresso tecnologico come tramite e ne<br />
di tutte le ricerche umane. Qualcuno, come ricorda A.Pacey, ha chiamato questa idea, a buon diritto,<br />
“misticismo <strong>del</strong><strong>la</strong> macchina”. Ed effettivamente oggi siamo sempre più abituati ad assistere ad una vera<br />
e propria adorazione <strong>del</strong><strong>la</strong> tecnologia: cellu<strong>la</strong>ri, automobili, computer, televisioni… qualsiasi accessorio<br />
tecnologico, se combinato con <strong>la</strong> spietata legge <strong>del</strong> consumismo, sembra poter essere <strong>la</strong> chiave giusta<br />
per <strong>la</strong> nostra felicità. Lo stesso Pacey evidenzia come questa enfatizzazione <strong>del</strong><strong>la</strong> tecnologia non risparmi<br />
nemmeno il criterio con cui studiamo <strong>la</strong> storia, infatti “pensiamo a ciascuna età nei termini <strong>del</strong>l’impatto<br />
<strong>del</strong><strong>la</strong> tecnica sulle faccende umane, e raramente indaghiamo sul processo contrario”.<br />
A questo punto, però, sorge spontaneo il bisogno di chiedersi quando i principi <strong>del</strong> razionalismo seicentesco<br />
abbiano <strong>la</strong>sciato il posto a quelli di mercato, ovvero quando scienza e tecnologia abbiano<br />
smesso di camminare l’una a anco <strong>del</strong>l’altra. Secondo G.O.Longo questa divisione è avvenuta in tempi<br />
re<strong>la</strong>tivamente recenti, a cominciare dal<strong>la</strong> metà <strong>del</strong> Novecento, quando “<strong>la</strong> tecnologia ha assunto una<br />
velocità tale da non permettere a volte al<strong>la</strong> scienza di giusti care e spiegare teoricamente, neppure a<br />
posteriori, il funzionamento dei ritrovati tecnologici”. Sempre in accordo con questa interpretazione, lo<br />
strumento che avrebbe reso possibile un così rapido incremento tecnologico è l’informatica, in quanto<br />
“ha fornito all’innovazione uno strumento, essibile e leggero, che ha impresso un’accelerazione fortissima<br />
alle pratiche <strong>del</strong><strong>la</strong> progettazione”. Ciò è sicuramente vero se si pensa a come l’utilizzo dei computer<br />
e di internet determini gran parte <strong>del</strong>le nostre attività: contattare altre persone, cercare informazioni,<br />
ascoltare musica, acquistare qualsiasi genere di oggetto… il mondo informatico ci permette di fare tutto<br />
questo e tanto altro ancora, ma spesso non ci permette di capire (e quasi mai ne avvertiamo il bisogno)<br />
i meccanismi che lo rego<strong>la</strong>no, le dinamiche di cui noi stessi entriamo a fare parte. È questo il punto più<br />
interessante <strong>del</strong><strong>la</strong> visione di Longo: <strong>la</strong> distinzione tra il “fare”, scopo ultimo <strong>del</strong><strong>la</strong> tecnologia, e il “capire”,<br />
propulsore <strong>del</strong><strong>la</strong> scienza. Nel nostro mondo veloce e frenetico, il sapere sembra aver perso l’antico valore,<br />
mentre il pragmatismo rimane <strong>la</strong> so<strong>la</strong> caratteristica apprezzata tanto nelle persone quanto nei nuovi<br />
ritrovati tecnologici. Così <strong>la</strong> scienza rischia di rimanere prerogativa di pochi, a scapito di una maggioranza<br />
attratta da una spiccio<strong>la</strong> praticità ne a se stessa: perché questo non accada bisognerebbe ricordare<br />
le origini <strong>del</strong><strong>la</strong> tecnologia, che tanto ammiriamo, e il suo scopo, ossia arricchire <strong>la</strong> nostra vita e non<br />
render<strong>la</strong> una banale esposizione di innovazioni tecnologiche.
40 ALBATROS<br />
LETTERANDO<br />
ANTAGONISMO DI UOMO-NATURA IN LEOPARDI<br />
Mario Montagliani<br />
Lo sviluppo <strong>del</strong> pensiero di Leopardi è tormentato da diversi drammi, maturati soprattutto in età infantile, che lo porteranno<br />
a concepire <strong>la</strong> realtà come luogo di sofferenza e disperazione. Egli, infatti, n da subito non ha un approccio<br />
facile con <strong>la</strong> vita: <strong>la</strong> madre, fervida credente, e il padre, molto severo, lo relegano a una vita di solitudine e Leopardi<br />
comincia, così, a sviluppare quel<strong>la</strong> visione pessimistica sull’esistenza che i critici chiamano “pessimismo cosmico”.<br />
Questa condizione di disagio, rafforzata notevolmente dal<strong>la</strong> maturata consapevolezza di aver perso i migliori anni<br />
<strong>del</strong><strong>la</strong> propria vita in uno studio da autodidatta “matto e disperatissimo”, lo porta a prendere una posizione chiara<br />
sul<strong>la</strong> vita e su ciò che lo tormenta, che è rintracciabile già nello Zibaldone. Egli attribuisce <strong>la</strong> colpa <strong>del</strong><strong>la</strong> sua perenne<br />
infelicità al<strong>la</strong> ragione, all’intelligenza umana rea di “cercare avidamente quello che non può trovare, cioè un’in nità<br />
di piacere, ossia <strong>la</strong> soddisfazione di un desiderio illimitato”, come afferma egli stesso nello Zibaldone [167]. Questa<br />
sua considerazione deriva certamente da studi adolescenziali e <strong>del</strong>le teorie di Rousseau, sul<strong>la</strong> base dei quali poi<br />
Leopardi nel 1820 consegnerà allo Zibaldone quel<strong>la</strong> che egli stesso chiama “teoria <strong>del</strong> piacere”. Essa nasce, infatti,<br />
come ri essione su un sentimento di profonda insoddisfazione. La ragione è dunque “il regno <strong>del</strong> vero che inaridisce<br />
<strong>la</strong> poesia, mette a nudo <strong>la</strong> falsità dei sogni […] che porta l’uomo dal<strong>la</strong> condizione primitiva di felicità inconsapevole<br />
a una condizione nale di cosciente dolore”, come asserisce Natalino Sapegno nel suo “Compendio di storia <strong>del</strong><strong>la</strong><br />
letteratura italiana”. Al contrario <strong>del</strong><strong>la</strong> ragione, connotata negativamente, Leopardi concepisce <strong>la</strong> natura come una<br />
madre benevo<strong>la</strong>, che tenta di attenuare le sofferenze <strong>del</strong>l’uomo nascondendogli <strong>la</strong> verità, come afferma sempre nello<br />
Zibaldone [167]: ”Bisogna considerare <strong>la</strong> gran misericordia e il gran magistero <strong>del</strong><strong>la</strong> natura che […] non potendo<br />
fornirli di piaceri in niti, ha voluto supplire colle illusioni”. In questo primo momento Leopardi è dunque grato al<strong>la</strong> natura<br />
di avergli donato l’immaginazione per poter fuggire dal<strong>la</strong> realtà , che lo vedeva turbato nei sentimenti ma anche<br />
nel sico. Egli, negli anni successivi, precisa e approfondisce le proprie ri essioni e approda ad un più rigoroso, per<br />
quanto doloroso, materialismo. Da qui il pensiero leopardiano registra una svolta fondamentale, che vede il ribaltamento<br />
<strong>del</strong><strong>la</strong> concezione antinomica di natura e ragione. Ora, infatti, <strong>la</strong> natura diviene <strong>la</strong> principale colpevole <strong>del</strong><strong>la</strong><br />
situazione di totale infelicità <strong>del</strong>l’uomo. Questa nuova concezione, che costituisce l’assetto all’incirca de nitivo <strong>del</strong><br />
suo pensiero, si riscontra nelle “Operette morali”, e in partico<strong>la</strong>re nel “Dialogo <strong>del</strong><strong>la</strong> Natura e di un is<strong>la</strong>ndese”, in cui<br />
Leopardi mette in evidenza il fatto che <strong>la</strong> natura sia un’entità superiore e disinteressata totalmente alle sorti <strong>del</strong>l’uomo.<br />
L’autore, infatti, immedesimandosi nel<strong>la</strong> natura e rivolgendosi all’is<strong>la</strong>ndese, domanda: “Immaginavi tu forse che il<br />
mondo fosse fatto per causa vostra? […] sempre ebbi l’intenzione a tutt’altro, che al<strong>la</strong> felicità degli uomini o all’infelicità”.<br />
La contraddizione insanabile, già perlomeno intuita nel<strong>la</strong> teoria <strong>del</strong> piacere, è ora giudicata connaturata nell’uomo<br />
e <strong>la</strong> responsabilità viene attribuita direttamente ed esplicitamente al<strong>la</strong> natura stessa, materialisticamente concepita<br />
come un principio cieco, insensibile e indifferente. Leopardi le addossa tutte le colpe <strong>del</strong><strong>la</strong> sua infelicità, come<br />
sostiene nello Zibaldone con queste parole: “<strong>la</strong> mia loso a fa rea d’ogni cosa <strong>la</strong> natura, e discolpando gli uomini<br />
totalmente, rivolge l’odio, o se non altro il <strong>la</strong>mento, o principio più alto, all’origine vera de’ mali de’ viventi”. La natura è<br />
vista dunque come matrigna, che ha creato l’uomo per poi sottoporlo alle sofferenze atroci <strong>del</strong><strong>la</strong> vita. L’uomo nasce<br />
al solo scopo di morire; l’esistenza universale è infatti un ciclo continuo di produzione e distruzione <strong>del</strong><strong>la</strong> materia, il<br />
cui unico obiettivo è il mantenimento <strong>del</strong> sistema stesso.<br />
Leopardi evidenzia questa caratteristica ne “La Ginestra” con queste signi cative parole per cui “<strong>la</strong> natura de’ mortali<br />
madre è di parto e di voler matrigna”. Viceversa, <strong>la</strong> ragione, prima considerata come una <strong>del</strong>le principali cause<br />
<strong>del</strong>l’infelicità umana, ora tende ad apparirgli un ef cace strumento conoscitivo capace di sve<strong>la</strong>re le contraddizioni<br />
<strong>del</strong> reale. Essa ha il ruolo triste, ma fe<strong>del</strong>e di renderlo consapevole <strong>del</strong><strong>la</strong> propria condizione liberandolo dalle false<br />
credenze. Ogni speranza è quindi vana e l’uomo non può credere neanche ad un destino provvidenziale che lo salvi<br />
dal tormento <strong>del</strong><strong>la</strong> vita terrena. Leopardi si avvia così a trascorrere gli ultimi anni <strong>del</strong><strong>la</strong> propria vita con <strong>la</strong> coscienza<br />
<strong>del</strong><strong>la</strong> “nullità” <strong>del</strong> genere umano. In questa luce va letto l’antagonismo tra natura e uomo: questo con itto, ritenuto<br />
da Leopardi impari, non permetterà mai all’uomo di raggiungere <strong>la</strong> felicità, resa chimera dal<strong>la</strong> cru<strong>del</strong>tà di questo<br />
”mostruoso ingranaggio che strito<strong>la</strong> individui e specie intere”, secondo le parole di Birol in “La posizione storica di<br />
Giacomo Leopardi”.
GUARDARE, SCOPRIRE, RACCONTARE…<br />
L’esperienza <strong>del</strong> vedere in matematica e letteratura<br />
Giovanni Zanotti<br />
OPEN DAY<br />
ALBATROS 41<br />
“L’occhio guarda, per questo è fondamentale. E’ l’unico che può accorgersi <strong>del</strong><strong>la</strong> bellezza.” Così scrive Pier Paolo<br />
Pasolini in un testo riguardante il modo in cui ci si dovrebbe porre di fronte al<strong>la</strong> realtà per poterne scorgere il positivo,<br />
<strong>la</strong> bellezza. Scrive ancora: “[…] Il problema è avere occhi e non saper vedere, non guardare le cose che<br />
accadono, nemmeno l’ordito minimo <strong>del</strong><strong>la</strong> realtà”.<br />
E’ proprio su queste ri essioni che si costruisce l’au<strong>la</strong> di matematica e italiano <strong>del</strong> biennio <strong>del</strong>l’ Open Day 2012, su<br />
ri essioni che sempre di più noi studenti abbiamo fatto nostre, sapendo in ne giudicarne <strong>la</strong> verità.<br />
In questi primi mesi di scuo<strong>la</strong> superiore, abbiamo affrontato <strong>la</strong> lettura <strong>del</strong> Piccolo Principe, un libro che offre molte<br />
occasioni di discussione e di veri ca. Fra tutte, quel<strong>la</strong> che più ha entusiasmato me e i miei compagni è <strong>la</strong> questione<br />
<strong>del</strong><strong>la</strong> differenza fra guardare e vedere. Vedere è un verbo che potrebbe essere de nito “passivo”, nel senso<br />
che noi tutti riusciamo a vedere, semplicemente per il fatto che le cose ci si presentano davanti così come sono.<br />
De Saint-Exupéry, autore <strong>del</strong> romanzo, spiega che dobbiamo invece essere in grado di “guardare”, ovvero di<br />
prendere piena coscienza di ciò che stiamo vedendo. Quindi, è necessario andare oltre le apparenze e, appunto,<br />
guardare le cose più a fondo. Però, se questa ri essione<br />
fosse rimasta nel<strong>la</strong> nostra mente senza che avessimo trovato<br />
esempi concreti in cui emergesse veramente che l’esperienza<br />
<strong>del</strong> “guardare” porta vantaggi e mostra <strong>la</strong> bellezza,<br />
probabilmente avremmo <strong>la</strong>sciato perdere e avremmo cercato<br />
un altro argomento da mettere a tema il giorno <strong>del</strong>l’Open<br />
Day. Fortunatamente, sempre più abbiamo capito che<br />
questa questione accomunava tutte le materie. Abbiamo<br />
iniziato a par<strong>la</strong>rne anche con l’insegnante di matematica. Il<br />
primo esempio che ci ha portato è il seguente: “Cosa vedi<br />
nel<strong>la</strong> formu<strong>la</strong> [n(n-1)]:2?”. Molti di noi hanno risposto che<br />
quel<strong>la</strong> formu<strong>la</strong> è solo un insieme di lettere e numeri senza<br />
signi cato; qualcuno ha detto che si tratta <strong>del</strong> rapporto fra<br />
il prodotto di un monomio e un binomio e il numero due.<br />
Andando, però, oltre questa banale apparenza, abbiamo<br />
scoperto che questa formu<strong>la</strong> può rappresentare l’area di<br />
un triangolo che ha per <strong>la</strong>ti n e n-1. Oppure, sostituendo a<br />
n un numero naturale, e poi il suo successivo no all’in nito,<br />
ci siamo accorti che il risultato di quel<strong>la</strong> formu<strong>la</strong> costituisce<br />
una parabo<strong>la</strong> disegnabile attraverso il sistema di rappresentazione<br />
cartesiano. Oltre a questi, che ci hanno molto<br />
colpito, abbiamo trovato molti altri casi in cui tale formu<strong>la</strong> è<br />
applicabile al<strong>la</strong> geometria e alle cose concrete.<br />
D’aiuto è stato anche il video che abbiamo guardato durante le ore di matematica, “La ragazza con l’orecchino<br />
di per<strong>la</strong>”. In questo, un pittore, maestro di una giovane ragazza, le chiede quali colori riesca a vedere guardando<br />
il cielo uggioso. Dapprima, l’allieva crede che le nuvole siano bianche e il cielo azzurro, poi il suo maestro le fa<br />
notare tutte le sfumature cromatiche che si possono ammirare. Qui, emerge anche l’importanza <strong>del</strong> maestro, che<br />
una di noi ha riconosciuto nell’ora di disegno, in cui è fondamentale avere a anco un maestro (per noi il nostro<br />
prof) che ti corregga continuamente per migliorarti sempre di più. Abbiamo capito che quest’esperienza di andare<br />
a fondo nelle cose, di guardare attentamente, è conveniente e rende molto più piacevoli e sorprendenti le materie<br />
sco<strong>la</strong>stiche. Ma questo <strong>la</strong>voro non si ferma qui, perché ora le s de sono due: quel<strong>la</strong> di continuare a vivere <strong>la</strong> scuo<strong>la</strong><br />
sempre tenendo alto questo sguardo, e quel<strong>la</strong> di condurre <strong>la</strong> nostra vita quotidiana comportandoci in tale modo,<br />
nelle amicizie, nelle re<strong>la</strong>zioni e in tutte le nostre esperienze.
42 ALBATROS<br />
OPEN DAY<br />
episto<strong>la</strong>@lettera...<br />
LA COMUNICAZIONE: UN DESIDERIO INNATO, UN’ESTREMA NECESSITA’<br />
Giovanni Montanari<br />
direttamente: Galileo scriveva al suo amico don Benedetto Castelli<br />
per illustrargli le sue scoperte, Van Gogh scriveva a suo<br />
fratello per dargli notizie su cosa faceva e per riceverne … e se<br />
non si ha qualcuno a cui scrivere si può scrivere a un diario, che<br />
non risponderà mai ma che sarà sempre disposto ad ascoltare.<br />
Si può scrivere anche ad un pubblico più vasto perché<br />
anche un articolo di giornale, come questo, è una lettera,<br />
un libro è una lettera, canzoni, poesie, sono lettere…<br />
anche uno stato su Facebook o un “tweet” sono lettere.<br />
Tutte le volte che scriviamo abbiamo l’intenzione e <strong>la</strong> necessità<br />
di comunicare qualcosa ad altri, di socializzare e<br />
di rapportarci con gli altri, anche quando non c’è sicamente<br />
nessuno che può ascoltare; penso che il motivo<br />
<strong>del</strong>l’invenzione <strong>del</strong><strong>la</strong> scrittura sia stato proprio questa estrema<br />
necessità <strong>del</strong>l’uomo di comunicare e di <strong>la</strong>sciare una<br />
traccia, un segno che rimanesse nel tempo e continuasse<br />
a par<strong>la</strong>re anche a destinatari <strong>del</strong> tutto ignoti: i posteri.<br />
Nell’allestire <strong>la</strong> nostra au<strong>la</strong> per l’Open Day, riesumando lettere<br />
di epoche, luoghi e personalità differenti, ci è sembrato<br />
di aver contribuito a continuare <strong>la</strong> loro missione originaria:<br />
raccontare ancora, anche in assenza <strong>del</strong>l’autore,<br />
alcuni aspetti <strong>del</strong><strong>la</strong> sua vita agli altri, salvandoli così dall’oblio.<br />
In occasione <strong>del</strong>l’Open day <strong>del</strong> liceo una <strong>del</strong>le aule tematiche ha<br />
come soggetto <strong>la</strong> lettera; vengono affrontate, studiate e commentate<br />
lettere di scienziati, scrittori, pittori, loso , poeti. Si tratta di lettere in<br />
cui traspare l’amore, l’amicizia, <strong>la</strong> sofferenza, <strong>la</strong> solitudine, il ringraziamento,<br />
<strong>la</strong> divulgazione e il dibattito scienti co di diverse epoche.<br />
Studiandole abbiamo scoperto che sebbene gli argomenti trattati siano<br />
diversi tutte queste lettere sono unite insieme da un lo rosso<br />
che collega ogni ambito <strong>del</strong> pensiero e <strong>del</strong>l’animo umano: <strong>la</strong> necessità<br />
che ciò che si è scoperto, sentito, appreso, sofferto non rimanga<br />
inascoltato ma venga sempre di nuovo, no al<strong>la</strong> ne, comunicato.<br />
Fin dall’invenzione <strong>del</strong><strong>la</strong> scrittura l’uomo ha sempre scritto lettere:<br />
all’inizio gli argomenti erano politici, commerciali, economici<br />
e solo una ristretta cerchia di persone appartenente ai<br />
ceti più ricchi <strong>del</strong><strong>la</strong> società sapeva scrivere. Andando avanti<br />
nel tempo aumentando il numero di alfabetizzati crebbe anche<br />
il numero <strong>del</strong>le lettere non solo formali ma anche informali.<br />
Le lettere univano, e uniscono, persone lontane rendendole partecipi<br />
di ciò che ci accade e che viviamo. La lettera scritta a mano su<br />
carta e inviata dentro una busta ormai è quasi scomparsa e sotto<br />
questa forma si ricevono quasi so<strong>la</strong>mente bollette o inviti ad abbonarsi<br />
a riviste; <strong>la</strong> “lettera” è stata sostituita dal<strong>la</strong> mail più veloce ed<br />
economica, dagli sms, o anche dai social network come Facebook,<br />
che rendono il dialogo tra persone lontane più veloce e semplice<br />
anche se, forse, un po’ più freddo. Ad ogni modo, pur cambiando<br />
il mezzo, il gesto e lo scopo <strong>del</strong>lo scrivere rimangono gli stessi.<br />
Infatti, scrivere una lettera, e direi lo scrivere in generale, è un modo<br />
per raccontarsi, scrivere <strong>la</strong> propria vita, le proprie idee e pensieri a<br />
qualcuno che non c’è, qualcuno con cui non ci si può rapportare
“...potere<br />
simili a questi rami<br />
ieri scarniti e nudi ed oggi pieni<br />
di fremiti e di linfe,<br />
sentire<br />
noi pur domani tra i profumi e i venti<br />
un riaf uir di sogni, un urger folle<br />
di voci verso un esito; e nel sole<br />
che v’investe, riviere,<br />
ri orire!”<br />
(E. Montale, Riviere)<br />
ALBATROS 43<br />
Gra ca e impaginazione a cura di Margherita Casadei e Francesca Brotto
IL GRIDO DELL’ALBATROS