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ITALO PANTANI<br />

che «davo il mio assenso alla pessima Venezia» 68 . Quanto poi alla<br />

povertà <strong>di</strong> documenti che <strong>di</strong>mostrino incontrovertibilmente una<br />

nascita padovana del Vannozzo, si potrebbe osservare che mentre<br />

quelli <strong>di</strong>sponibili conducono comunque a <strong>Padova</strong>, nulla abbiamo<br />

<strong>di</strong> analogo che ci porti a Venezia; ma, soprattutto, sufficientemente<br />

probatorio dovrebbe risultare il documento conservato presso<br />

l’Archivio notarile <strong>di</strong> <strong>Padova</strong> (con data 11 agosto 1418), e segnalato<br />

dal Me<strong>di</strong>n, in cui si parla dei casi <strong>di</strong> una «Trivixola <strong>di</strong>cta Airentina<br />

filia quondam Francisci de Vanotio de Padua» 69 .<br />

Se questa chiave interpretativa è corretta, nel sonetto <strong>di</strong> cui stiamo<br />

parlando <strong>Padova</strong> è colta al massimo del suo potere, a seguito <strong>di</strong><br />

un’importante vittoria (come efficacemente rappresentato dal v. 11):<br />

sebbene tra il 1372 e il 1387 vari successi (seguiti peraltro da altrettante<br />

sconfitte) fossero stati conseguiti da Francesco il Vecchio, e<br />

già dal 1373 il Vannozzo potesse essere accusato <strong>di</strong> simpatia per<br />

ambienti veneziani, data la sua familiarità con Marsilio da Carrara,<br />

la collocazione ideale per questo testo, come <strong>di</strong>cevo, sembra proprio<br />

da ricondurre ai trionfi del 1379. Al Vannozzo, tuttavia, questa<br />

<strong>Padova</strong> vittoriosa, <strong>di</strong> cui egli brama l’onore e il buono stato, si presenta<br />

qui, innanzitutto, in una <strong>di</strong>mensione fantastica, più che concreta:<br />

la <strong>di</strong>mensione del ricordo e della nostalgia, propria <strong>di</strong> un<br />

emigrato ancora desideroso <strong>di</strong> tornare in patria, ma da essa forzatamente<br />

lontano, e quin<strong>di</strong> incline a mitizzare, in apertura, il rapporto<br />

con la propria città nei termini <strong>di</strong> una rassicurante relazione familiare,<br />

da <strong>di</strong>pingersi col più eletto linguaggio <strong>di</strong>sponibile.<br />

68 I significati registrati in GDLI, I, p. 758, sono i seguenti: 1. dare la propria<br />

approvazione, consentire, accon<strong>di</strong>scendere (cfr. Inf. XVIII 45: «e ’l dolce duca meco<br />

si ristette, / ed assentì che alquanto in<strong>di</strong>etro io gissi»); 2. permettere, concedere (cfr.<br />

Purg. XIX 86: «ond’elli m’assentì con lieto cenno / ciò che chiedea la vista del <strong>di</strong>sio»);<br />

3. accettare una cosa, una situazione particolare; esserne sod<strong>di</strong>sfatto (cfr. Purg. XXI<br />

101 «e per essere vivuto <strong>di</strong> là quando / visse Virgilio, assentirei un sole, / più che<br />

non deggio al mio uscir <strong>di</strong> bando»); il primo e il terzo mi sembrano avere l’accezione<br />

semantica da me in<strong>di</strong>cata. I tre significati censiti riguardano il verbo inteso come<br />

«voce dotta, lat. assentiri ‘dare la propria approvazione’ (comp. <strong>di</strong> sentire)»; non<br />

dantesco, e comunque non tale da spostare i termini della questione, è il valore <strong>di</strong><br />

«sentire, percepire», che il verbo ebbe nell’italiano antico in qualità <strong>di</strong> «forma intensiva<br />

<strong>di</strong> sentire». Naturalmente, all’interno <strong>di</strong> tale linea interpretativa, il significato<br />

da attribuire alla citazione vannozziana delle proprie «frottole» torna ad essere<br />

quello proposto da Me<strong>di</strong>n, e ricordato nella nota precedente.<br />

69 Cfr. A. MEDIN, recensione a LEVI, Francesco <strong>di</strong> Vannozzo, cit., «Giornale storico<br />

della letteratura italiana», 55 (1910), pp. 389-406, a p. 391.<br />

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