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Storie fuori dalla storia - Arcipelago Adriatico

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Viviana Facchinetti<br />

<strong>Storie</strong><br />

<strong>fuori</strong> <strong>dalla</strong> <strong>storia</strong><br />

Ricordi ed emozioni<br />

di emigrati giuliano - dalmati in Australia<br />

Edizione a cura della<br />

PROVINCIA DI TRIESTE<br />

e del CENTRO DI DOCUMENTAZIONE MULTIMEDIALE<br />

DELLA CULTURA GIULIANA, ISTRIANA, FIUMANA E DALMATA


Un centinaio sono i protagonisti delle storie,<br />

vissute in prima persona e raccontate nel<br />

libro.<br />

I loro nomi e la città di attuale residenza:<br />

MELBOURNE<br />

Derio e Fabio COMAR<br />

Toni DI NOIA<br />

Renato ESPOSITO<br />

Nino PAULIN<br />

Virgilio PIGO<br />

Fabio e Luciana ROSIN<br />

Edda ed Erminio SMREKAR<br />

Andreina TROLIS<br />

Stellio VISINTIN<br />

Paolo ZAMBIASI<br />

Guglielmo ZUGNA<br />

Ornella AGOSTINIS MOCNIK<br />

Luciano BINI<br />

Stefano e Olga BOTTEGARO<br />

Onorina CAPPELLANI<br />

Arnaldo CIOLI<br />

Sergio COLOMBO<br />

Renato FERLIN<br />

Alfio GEBEL<br />

Riccardo LUSSETTI<br />

Isidoro MARSAN<br />

Nino e Giordana MATTOSSOVICH<br />

Noris MOSCARDA RAGUSA<br />

Enrico PIMPINI<br />

Maria ROVIS<br />

Edoardo VORANO<br />

SYDNEY<br />

Delia ZORN OSBICH<br />

Dora LOKAR<br />

Fatima SANCIN HERMET BRUMATTI<br />

Giulio VIRANI<br />

Guerrino VERROCCHIO<br />

Remigio STEFFE‚<br />

Silvio UICICH<br />

Tullio BOGATAI<br />

Gigliana CARIS<br />

Carlo e Laura CATTARUZZI<br />

il ricordo di Teddy CREPALDI<br />

Dino e Lena GUSTIN<br />

Pino MENDUNI<br />

Pino e Serena PASCALI<br />

Franco RASONI<br />

Antonio BONICIOLLI<br />

Benedetto DE DOMIZIO<br />

Giuliano HREGLICH<br />

Giorgio LAPAINE<br />

Giorgio MARCUZZI<br />

Pino PALEKA<br />

Claudio PERENTIN<br />

Renata SPADONI<br />

ADELAIDE<br />

Afra BELGIOVANE<br />

Claudio BERTOSSA<br />

Giordano e Iole BISSI<br />

Stello COLLINI<br />

Italo e Anna DE MARCO<br />

Stellio e Silvana DRIUSSI<br />

Willy ed Etta MARTUCCI<br />

Nino POROPAT<br />

Nini RUGGIERO<br />

Francesco SICOLO<br />

Ondina STABILE<br />

Bepi COSTESSI<br />

Mario FLEGO<br />

Roberto MASI<br />

Carlo MIRELLI<br />

Guido VOIVODICH<br />

Gabriella ZUCCA APAT<br />

PERTH<br />

Salvatore GAGLIARDI<br />

Giuseppe BERTINAZZO<br />

Manlio BERTOGNA<br />

Stella CHENDA<br />

Marisa STERLE<br />

Silvana COSLANI ZACCHIGNA<br />

Gina ILIAS GESMUNDO<br />

Edoardo MAIORANA<br />

Silvano PETTORINO<br />

Amedeo e Lidia SALA<br />

Carlo STRANSKI<br />

RIENTRATI A TRIESTE DA MELBOURNE<br />

Vittoriano BRIZZI<br />

Pietro e Elisa LOSAPIO<br />

Iolanda FARAGUNA


NOTA INTRODUTTIVA<br />

Questo libro avrei voluto (o dovuto?) scriverlo io. È infatti il seguito ideale de<br />

“L’Esodo”, il volume edito da Mondadori in cui ho rievocato la tragedia degli<br />

italiani della Venezia Giulia, dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia costretti<br />

<strong>dalla</strong> furia xenofoba slava ad abbandonare i propri beni, le proprie case, i propri<br />

morti. In questo senso ero stato appunto incoraggiato dalle molte lettere che<br />

ancora mi giungono da ogni parte del mondo in cui si è diffusa la diaspora giuliana.<br />

Si tratta di lettere amare, malinconiche e nostalgiche di vecchi emigrati<br />

che hanno vissuto sulla propria pelle il dramma che ho tentato di riassumere nel<br />

mio libro o di lettere interessate, gradevoli e incuriosite di giovani che non<br />

hanno mai visto la loro terra di origine, che questo dramma hanno vissuto solo<br />

attraverso i racconti dei familiari e che vorrebbero saperne di più. Ma anche lettere<br />

in cui mi si invita più o meno apertamente a proseguire il racconto ed a rievocare,<br />

dopo avere descritto la loro prima emigrazione - o meglio la fuga disperata<br />

dalle terre italiane che il trattato di Parigi ha strappato alla Madrepatria -<br />

anche la loro seconda emigrazione, quella che li spinse ad abbandonare l’Italia<br />

ed a cercare altrove, sia pure tra enormi sacrifici morali e materiali, una tranquillità<br />

economica che desse loro la possibilità di riacquistare un’identità di cui<br />

erano stati privati. A colmare questa lacuna, ma anche a completare una memoria<br />

che qualcuno ha cercato di cancellare <strong>dalla</strong> <strong>storia</strong>, provvede ora con questo<br />

libro Viviana Facchinetti. L’Autrice ha raccolto racconti significativi, fatti ed<br />

episodi singolari e collettivi <strong>dalla</strong> viva voce di tanti emigrati giuliani in Australia,<br />

ma penso che in essi possano riconoscersi tutti i componenti della diaspora giuliana<br />

che hanno pagato per tutti noi la cambiale della seconda guerra mondiale.<br />

Arrigo Petacco


PRESENTAZIONE<br />

L’emigrazione giuliana nell’ultimo dopoguerra coincide con anni spesso fumosi<br />

di <strong>storia</strong> locale, talvolta tratteggiata con lapis un po’ spuntati, se non addirittura<br />

prematuramente relegata in archivio. Il tempo, che scorrendo intervenne a<br />

medicare dolorose ferite, con il suo codice inderogabile ha purtroppo anche<br />

fatto uscir di scena molti dei protagonisti di quell’epopea. Incrinata ormai la tradizione<br />

orale con la sparizione <strong>dalla</strong> memoria collettiva di molti importanti tasselli<br />

esistenziali, è diventato più che mai improcrastinabile porre in salvo il<br />

patrimonio di ricordi ed emozioni di chi può ancora metterci a parte di vicissitudini<br />

personali appartenute ad un’esperienza, sì lontana, ma indimenticabile<br />

pietra miliare nel percorso umano della nostra gente.<br />

Risulta quindi pregevole il lavoro di ricerca, di documentazione e di assemblaggio<br />

delle testimonianze raccolte sull’argomento, svolto fra Trieste e<br />

l’Australia da Viviana Facchinetti. Ne esce un quadro accurato ed attendibile di<br />

un vissuto comune, che ha segnato le vite di emigrati e rimasti, con ampio spazio<br />

dedicato soprattutto ai risvolti emozionali in un’affiorante realtà, da tanti<br />

ricordata e nel contempo da molti ignorata.<br />

L’esposizione genuina e spontanea di racconti di vita vissuta, contribuendo ad<br />

approfondire la conoscenza, aiuta a comprendere quel particolare momento storico<br />

di Trieste e delle terre giuliano-dalmate. Fu un dramma che accomunò le<br />

conseguenze della pulizia etnica, subita da Istriani e Fiumano-Dalmati, alle<br />

contingenze economiche da cui in scia vennero travolti i Triestini, in uno sconvolgente<br />

ridimensionamento di confini, posti di lavoro ed abitazioni.<br />

Il fenomeno emigrazione non è materia semplice da trattare, sia nel suo decorso<br />

sia, e soprattutto, nel contenuto sentimentale, perché solo chi l’ha provato sa<br />

cosa significhi. Va pertanto particolarmente apprezzata l’opera di chi ha voluto<br />

addentrarsi nell’intimo di tante vicende, finalizzata a sapere per far sapere, evitando<br />

retorica e stereotipi.<br />

È con grande soddisfazione che la Provincia di Trieste, in concorso con Enti ed<br />

Istituzioni locali, ha contribuito alla realizzazione di questo volume, che integra<br />

i due special televisivi realizzati in Australia dall’Autrice, dedicati sempre al<br />

tema dell’emigrazione giuliana in quel Paese e apprezzati dagli spettatori del<br />

circuito di RAI INTERNATIONAL.<br />

È <strong>storia</strong> che non deve andare perduta perchè è uno stralcio della nostra <strong>storia</strong>, nel<br />

suo insieme di tradizioni, valori e cultura da tramandare alle nuove generazioni.<br />

Renzo Codarin<br />

presidente della Provincia di Trieste


Vi è un paradosso nella <strong>storia</strong> di Trieste. In una posizione di rilievo dell’odierna<br />

Piazza dell’Unità d’Italia sorge una fontana settecentesca, ricca di fregi e<br />

decorazioni di tipo mercantile, chiamata dei Quattro Continenti. Segno tangibile<br />

dell’importante ruolo commerciale che Trieste andava via via assumendo<br />

nel corso del XVIII secolo, in un tempo in cui James Cook non aveva ancora<br />

scoperto il continente “nuovissimo”, l’Oceania. Sembra un segno del destino.<br />

Infatti, se la “terra australis” gli inglesi cominciarono a colonizzarla proprio <strong>dalla</strong><br />

fine di quel secolo (con i galeotti, così come per lo sviluppo di Trieste Maria<br />

Teresa aveva concesso l’immunità agli uomini di “malaffare” purché dimostrassero<br />

la loro voglia di ravvedersi mediante l’edificazione virtuosa di una città che<br />

doveva sostituire la decadente Venezia come dominatrice adriatica) di pari<br />

passo avvenne la crescita della nostra città. Tuttavia la <strong>storia</strong> segue percorsi tortuosi,<br />

sempre determinati dall’inadeguatezza degli uomini, anche se le circostanze<br />

casuali forniscono un buon contributo. I drammatici eventi del nostro<br />

secolo hanno fatto sì che la <strong>storia</strong> delle nostre terre si ammantasse di tragedia,<br />

costringendo tanti giuliani ad emigrare proprio in quella nazione, l’Australia,<br />

che <strong>dalla</strong> sua scoperta non ha mai interrotto, invece, la sua crescita, frutto di<br />

un’intraprendenza, di una capacità, di una voglia di fare e di affermarsi che<br />

richiamavano alla memoria un passato ancora recente delle terre adriatiche, purtroppo<br />

vanificato da conflitti ideologici e da aberranti “lotte di classe” che<br />

avrebbero dovuto edificare presunti paradisi terreni.<br />

Il libro di Viviana Facchinetti che il “C.D.M. - Centro di Documentazione<br />

Multimediale della cultura giuliana, istriana, fiumana e dalmata” ha voluto<br />

pubblicare, con una partecipazione morale che va al di là della mera realizzazione<br />

di un’opera editoriale, intende, quindi, rendere omaggio ai sacrifici compiuti<br />

da una generazione di giuliani spesso ipocritamente dimenticata dalle<br />

convenienze politiche dell’interminabile secondo dopoguerra.<br />

Ciò dimostra anche - e in questo sta il nostro auspicio, la nostra speranza da consegnare<br />

alle giovani generazioni - come la <strong>storia</strong> giuliana sia <strong>storia</strong> della nazione<br />

italiana a pieno titolo; una <strong>storia</strong>, come si sa, intessuta di emigrazione ma, allo<br />

stesso tempo, di affermazione della cultura e del lavoro italiano in ogni angolo<br />

del globo. E penso, ad esempio, a quanto descritto nei pregevoli lavori dell’auronzano<br />

Gianni Pais Becher che ha celebrato, con due splendidi volumi, l’emigrazione<br />

cadorina tardo ottocentesca negli Stati Uniti d’America. Un’emigrazione<br />

che ha fatto del Cadore e del Veneto, come dimostra il cosiddetto miracolo del<br />

Nord-Est, l’America d’Italia. La più tarda migrazione giuliana verso il nuovo


continente australe è avvenuta, invece, in una terra che le recenti Olimpiadi di<br />

Sydney hanno imposto all’attenzione pubblica mondiale come la terra del futuro,<br />

per la giovinezza, per l’entusiasmo, per la capacità della sua gente. Una terra<br />

alla quale guardare, quindi, e che i nostri emigranti hanno contribuito, con un<br />

ruolo importante, a rendere ciò che essa è diventata, con la speranza che i loro<br />

valori morali (sono queste le “rimesse” degli emigranti a cui noi aspiriamo) rendano<br />

le terre adriatiche orientali, nuovamente unite in termini di civiltà,<br />

l’Australia della nazione italiana ed europea.<br />

Paolo Sardos Albertini<br />

presidente del C.D.M.


Ai miei genitori


MELBOURNE 1956 - SYDNEY 2000<br />

Due appuntamenti olimpici che sembrano<br />

raffigurare i momenti simbolo nelle vite<br />

di migliaia di Giuliani emigrati in Australia:<br />

il disagio del passato, la scelta di un cammino in salita,<br />

i sacrifici e le rinunce, le ansie e gli ostacoli, la tentazione della resa,<br />

i traguardi raggiunti e la gratificazione del presente.<br />

Un piccolo riconoscimento<br />

alla loro silenziosa operatività,<br />

che ha portato oltreoceano con ammirevoli risultati<br />

ingegno e competenza nostrani,<br />

senza nulla chiedere se non<br />

di trovare un posto nella memoria di chi è rimasto.<br />

Viviana Facchinetti


NOTA DELL’AUTORE<br />

L’ultimo dopoguerra segnò un capitolo pressochè unico nella <strong>storia</strong> delle terre<br />

giuliane, a cui assolutamente non apparteneva una tradizione migratoria. In<br />

quegli anni però, furono obbligati all’emigrazione migliaia e migliaia di<br />

Triestini, Istriani, Fiumano-Dalmati: gli uni, per i gravi motivi di incertezza economica<br />

derivanti <strong>dalla</strong> fine dell’amministrazione del Governo Militare Alleato<br />

Anglo-Americano a Trieste, gli altri, disorientati e provati dallo sradicamento<br />

dai luoghi natii, conseguente al forzato esodo dalle terre cedute alla Jugoslavia.<br />

Quasi tutti a Trieste - quasi nessuno nel resto d’Italia - sono a conoscenza dell’anomala,<br />

copiosa emigrazione giuliana degli anni 50 verso l’Australia.<br />

La conoscenza però si è purtroppo generalmente fermata al momento dei fazzoletti<br />

sventolati alla Stazione Marittima, mentre le navi si staccavano dal molo.<br />

Del dopo, dal viaggio oltreoceano al trauma dell’impatto con una nuova realtà,<br />

prospettata come l’Eldorado ma di fatto assolutamente diversa, dalle conseguenti<br />

difficoltà di inserimento ai tanti successivi lusinghieri traguardi raggiunti,<br />

pochi forse sono adeguatamente aggiornati.<br />

Si è parlato tanto di nostalgia, di integrazione in una società diversa e di un<br />

generale positivo assestamento economico; sono stati fatti autorevoli studi delle<br />

conseguenze economico-demografiche del fenomeno, con accurate analisi scientifiche<br />

dell’aspetto storico-politico; è stato assegnato un San Giusto d’oro alla<br />

comunità triestina d’Australia.<br />

Ma, come è stato detto più volte nel corso di varie celebrazioni, chi ha vissuto<br />

in prima persona l’odissea migratoria è depositario di un patrimonio storico culturale,<br />

che non deve andare disperso e non deve essere raccontato dagli storici,<br />

bensì dai protagonisti dell’avvenimento.<br />

Il presente volume, attraverso le testimonianze dei diretti interessati e la documentazione<br />

raccolta sul posto, modestamente si propone di contribuire alla ricostruzione<br />

di percorsi umani spesso dimenticati, che racchiudono valori e contenuti<br />

storico-biografici da salvaguardare.<br />

È variegata la galleria di figure che si raccontano: c’è gente comune, che agli<br />

antipodi ha raggiunto un traguardo di serenità, e ci sono personaggi di successo,<br />

divenuti esponenti di rilievo in vari settori della società australiana. Nelle loro<br />

parole emozioni e nostalgie, i ricordi dell’approdo quasi pionieristico in una terra<br />

allora quasi sconosciuta, la fatica dell’integrazione in un nuovo mondo, le prime<br />

affermazioni e la meta conquistata, il primo ritorno a Trieste, la nuova realtà di<br />

oggi. Sono memorie che molte volte in chi le riviveva, hanno fatto inaspettatamente<br />

riaffiorare turbamenti ritenuti superati ed in realtà solo sopiti.


Al di là della facile retorica, credo che i racconti di queste pagine possano essere<br />

documento informativo su di una realtà poco conosciuta sia da chi, per varie<br />

contingenze della <strong>storia</strong>, cinquant’anni fa si trovò estromesso da tante esistenze,<br />

sia dai più giovani che con ogni probabilità ignorano quella particolare e sofferta<br />

parentesi nel passato prossimo di casa propria.<br />

Nel corso di sei trasferte in terra australe, ho avuto l’occasione ed il piacere di<br />

conoscere un gran numero di nostri conterranei. Non è stato un incontro superficiale,<br />

una stretta di mano, da quanto tempo si trova qui? Come va? Sono nate<br />

anche delle grandi amicizie. Ho vissuto assieme a quelle persone, frequentando<br />

le loro case e partecipando alla loro vita; ho ascoltato, fra l’incantato e il commosso,<br />

la <strong>storia</strong> di questa gente che ora, nel giardino delle proprie villette - taluna<br />

di lusso, taluna più modesta, qualcuna con piscina e giardino tropicale, qualcuna<br />

con semplici aiolette ben curate - può raccontare con un po’ di distacco e<br />

meno emozione, le tappe e l’evoluzione della sua nuova vita ai nostri antipodi.<br />

Il tempo trascorso laggiù è oggi ben oltre i due terzi di quelle esistenze. I più<br />

anziani sono scomparsi e tante memorie storiche purtroppo già mancano all’appello.<br />

I Giuliani in Australia sono ormai arrivati alla terza, se non addirittura quarta<br />

generazione. Notevolmente diffuso fra i nuovi nuclei venutisi a formare, con<br />

l’incrocio anche di diverse etnie, è il desiderio di ritrovare le radici generazionali,<br />

di conoscere cultura, tradizioni, luoghi e motivazioni dell’avvio della loro<br />

<strong>storia</strong>. Esigenza particolarmente avvertita in un Paese che, per il succinto passato<br />

su cui poggia, vistosamente risente della mancanza di <strong>storia</strong> e tradizioni<br />

proprie.<br />

Viviana Facchinetti


La partenza del Toscanelli il 7 settembre 1955 (dall’album di Tullio Bogatai).


Due anni e poi torno


Foto ricordo prima dell’imbarco (famiglia Comar).


... 27 aprile 1954 distacco molto doloroso, tempo piovoso, atmosfera triste - Alle 19.20<br />

la folla irrompe alla stazione marittima rompendo i cordoni di polizia. Gridi, urla,<br />

auguri e lacrime, ultimo saluto del popolo triestino ai suoi figli che partono. Ore 19.30<br />

la nave Toscana, sulla quale sono imbarcato, stacca gli ormeggi: addio Trieste! ...<br />

Sono ormai ingiallite le pagine dell’agendina conservata gelosamente da<br />

Vittoriano Brizzi, che racchiude le emozioni dell’avvio di una metamorfosi di<br />

vita: la sua e quella dei tanti compagni con cui condivideva quell’avventura.<br />

Iniziata il 15 marzo con la partenza del Castel Verde - la prima nave di emigranti<br />

triestini - la scena si sarebbe rinnovata alle successive partenze delle migliaia di<br />

altri che li avrebbero seguiti, in una sorta di eterno ritornello, forse <strong>dalla</strong> musica<br />

diversa ma con parole sempre le stesse.<br />

La maggior parte dei Triestini partiti agli inizi degli anni 50 cercò soluzione a<br />

problemi di lavoro, che non consentivano una serena esistenza ai neo costituiti<br />

nuclei familiari o, addirittura, impedivano a tanti giovani di potersi formare una<br />

famiglia nella loro città. Affrontarono l’esperienza pionieristica con nel cuore<br />

l’intima speranza che quel salto nell’ignoto potesse solo essere una parentesi<br />

nella loro vita, un qualcosa per riuscire a creare delle solide basi in patria.<br />

...Due anni e poi torno... era il saluto con cui rincuoravano i parenti nel distacco,<br />

era l’illusione in cui credevano in quel momento, quasi un autoconvincimento<br />

della validità dello loro scelta.<br />

*****<br />

Una volta superato il cancello, i partenti sembravano inghiottiti <strong>dalla</strong> Stazione<br />

Marittima di Trieste.<br />

Elio Tafaro, allora giovane impiegato della Cassa di Risparmio di Trieste, distaccato<br />

presso l’ufficio ICLE (Istituto per il Credito del Lavoro Italiano all’Estero)<br />

attivato all’interno della struttura, ricorda la lunga teoria di passeggeri della speranza,<br />

intenti ad aprire il conto su cui si impegnavano a mandare dall’Australia,<br />

nei successivi trenta mesi, le rimesse mensili a copertura della quota parte anticipata<br />

per il viaggio dal Governo italiano. Furono moltissimi i compagni di studi<br />

e di atletica che, con amaro stupore, si scoprì a salutare.<br />

Dopo le ultime pratiche burocratiche e con il cartellino identificativo appeso al<br />

collo, mentre si accingevano all’imbarco, i viaggiatori riemergevano ancora per<br />

qualche attimo alla vista della folla che li aveva accompagnati. Il commiato fina-<br />

21


le alla città e alla moltitudine rimasta sulle rive, raccolto dagli obiettivi di qualificati<br />

professionisti, documentò per lungo tempo la cronaca cittadina, diventando<br />

materiale fotografico per archivi storici.<br />

Non tutti partivano da Trieste, come si potrà apprendere in seguito dalle diverse<br />

biografie; molti dovevano raggiungere con il treno i diversi porti d’imbarco:<br />

Genova, Napoli, addirittura Bremenhaven in Germania.<br />

...La nave stava per staccarsi dal molo, con il suo bagaglio di ricordi,<br />

di rimpianti, di speranze e di paure... (Maria Rovis sul Toscana).<br />

22


PER IL SECONDO TEMPO SI CAMBIA<br />

La bianca macchia di gabbiani, che pigramente si lasciava dondolare <strong>dalla</strong> leggera<br />

marea della Sacchetta, esplose in un volo spaventato al cupo risonar della sirena. Il<br />

momento era giunto, la nave stava staccandosi dal molo, con il suo bagaglio di ricordi,<br />

di rimpianti, di speranze e di paure.<br />

Nel gran trambusto di voci che si sommavano, nell’intreccio di richiami e raccomandazioni<br />

urlate, ma praticamente consegnate al vento, sventolavano i fazzoletti dai ponti e<br />

<strong>dalla</strong> banchina, quasi a voler sconfiggere ancora per qualche secondo il momento del<br />

distacco, a neutralizzare la grande incognita dell’arrivederci.<br />

Il fischio si ripetè, penetrante. Istintivo dilagò a bordo l’impulso di tuffarsi, per riappropriarsi<br />

della riva, della famiglia, della propria gioventù. Ma poi si spense, come il<br />

sibilo della sirena. I fazzoletti vennero riposti, la nave fu inghiottita dall’orizzonte,<br />

sulle rive cominciò a riapparire il selciato.<br />

Era come abbandonare la sala cinematografica alla fine del primo tempo. Il finale<br />

sarebbe per sempre rimasto un’ipotesi.<br />

I superstiti tornarono alle loro case ed alla loro vita di sempre, o quasi. Mancavano i<br />

vicini di casa, il compagno di banco, il collega di lavoro. La mente correva sulle onde,<br />

fantasticava sull’avventura che si stava vivendo in quella città galleggiante, diretta<br />

verso mondi praticamente sconosciuti. Un’avventura che accomunava tante esistenze,<br />

tutte simili e pur tanto diverse, come gli alberi delle foreste, come le onde del mare.<br />

Dai parapetti della nave lo sguardo si intestardiva a voler riconoscere il più a lungo<br />

possibile il minuscolo punto in dissolvenza, che ancora appariva come Trieste. Da quel<br />

momento la sua immagine sarebbe stata riposta nella memoria, rivalutandosi nel ricordo<br />

come generalmente succede con le cose a cui si deve rinunciare. Si iniziava a varcare<br />

la frontiera dell’ignoto.<br />

Un po’ alla volta il ponte cominciò a svuotarsi dei passeggeri. Rimasti soli con se stessi,<br />

combattuti fra la seduzione delle promesse a cui avevano voluto credere e gli interrogativi<br />

dell’appuntamento che li aspettava al di sotto dell’orizzonte, quasi obbedendo ad<br />

un muto passaparola, in silenzio e con qualche lacrima malcelata, più o meno tutti scesero<br />

negli alloggi.<br />

Per i più giovani e spensierati il viaggio rappresentava una specie di crociera, ma<br />

per le coppie e le famiglie la sistemazione a bordo costituiva già il primo trauma.<br />

Si dormiva separati, donne e bambini da una parte, uomini dall’altra. La<br />

maggior parte dei cameroni era allestita in stiva, con letti a castello; spesso accoglieva<br />

anche oltre cento persone. Un impatto particolarmente sentito dai giovani<br />

sposi imbarcati. Esiguo infatti era il numero delle cabine, che venivano assegnate<br />

ai più fortunati. Dopo tanti anni, qualcuno ora racconta sorridendo come,<br />

23


nel corso della traversata, quelle stanze durante il giorno venissero subaffittate<br />

“a ore” alle coppiette in cerca di intimità.<br />

Quaranta giorni di viaggio, anche alcune note di allegria, l’emozione e i festeggiamenti<br />

per il passaggio dell’equatore, gli scali tecnici in terre fino ad allora<br />

conosciute soltanto sull’atlante ai tempi di scuola, l’acquisto di qualche souvenir<br />

esotico da portare verso la futura dimora. Per i più volonterosi di integrarsi<br />

velocemente nella nuova dimensione, i corsi d’inglese da seguire a bordo.<br />

Castel Verde, Castel Bianco, Toscana, Fairsea, Toscanelli, Flaminia, Aurelia,<br />

Australia, i nomi ricorrenti dei traghettatori di sogni e speranze dei nostri emigranti,<br />

i piroscafi che si avvicendavano su quella rotta con capolinea i due emisferi.<br />

Fremantle, il porto di Perth, era solitamente il primo scalo tecnico in Australia<br />

e occasione per il primo impatto con il nuovo mondo. La sosta diventava infatti<br />

anche opportunità per una ricognizione sul territorio, ma solitamente la città<br />

era per pochi la destinazione definitiva. Da quella rada di transito, la nave proseguiva<br />

il viaggio verso Melbourne, dove deponeva la maggior parte del suo<br />

carico di fiduciose aspettative. Gli sbarchi si completavano a Sydney, l’approdo<br />

I festeggiamenti a bordo per il passaggio dell’equatore (dall’album di Nini Ruggiero).<br />

24


conclusivo. Era il periodo di Pasqua del 1954 quando i primi Triestini, partiti<br />

con il Castel Verde, scesero sul suolo australiano.<br />

L’epilogo di quei viaggi sembrava il film della partenza girato all’incontrario.<br />

Ogni nave in arrivo dall’Italia era attesa con batticuore dai connazionali emigrati<br />

precedentemente, quasi ad accorciare la distanza fra due continenti allora<br />

tanto lontani. C’era pertanto sempre una piccola folla ad attendere i nuovi arrivati<br />

che, una volta a terra, trovavano chi dava loro il benvenuto, chi metteva a<br />

disposizione la sua già maturata esperienza di emigrante, chi voleva essere<br />

aggiornato sull’attualità del Paese d’origine.<br />

Dopo lo sbarco, a mezzo di un vecchio treno avveniva il trasferimento alle<br />

prime destinazioni di accoglienza. I viaggiatori di allora ricordano quei vagoni<br />

come i convogli che attraversavano la prateria nei film western, lentissimi e scomodi.<br />

La stazione di arrivo si riassumeva in una tabella con il nome della località<br />

ed in uno spiazzo nella pianura sconfinata, dove la locomotiva interrompeva<br />

il suo sbuffante percorso.<br />

I centri di ricovero erano sistemati in ex campi militari o di prigionia al tempo<br />

della guerra mondiale. Bonegilla, Greta, Villawood, Woodside, Broadmeadows,<br />

Somer Camp, Cabramatta, Northam, Cowra, Chullora, Matraville: campi diversificati<br />

solo nei nomi e nella distribuzione geografica, ma culla comune di quasi<br />

tutte le vite da emigrante in Australia.<br />

All’attracco di Melbourne, le rotaie con i carri ferroviari in attesa si snodavano<br />

addirittura sottobordo.<br />

Una parte di quell’antico molo conserva ancora il suo aspetto “storico”, con i<br />

vecchi binari e le tipiche costruzioni inglesi in legno, di stile vagamente coloniale,<br />

che ospitavano gli uffici immigrazione. Un lato è invece ora riservato ai<br />

traghetti in servizio di collegamento con la Tasmania. La zona attorno si presenta<br />

trasformata in un elegante e vivace quartiere residenziale, meta di escursioni<br />

domenicali e particolarmente frequentata nei giorni festivi.<br />

Molti a Trieste avevano lasciato abitazioni di città, vissute, comunque dignitose.<br />

Una volta arrivati nei campi di raccolta australiani, dopo estenuanti ore di<br />

peregrinazione, erano accolti da una realtà ben diversa: sistemazioni in baracche<br />

di lamiera ondulata edificate in aperta campagna, servizi all’aperto, viottoli di<br />

terra, che nelle giornate piovose trasformavano la cittadella in un acquitrino. La<br />

mensa proponeva abitudini alimentari assolutamente differenti e contrastanti<br />

con quelle che fino ad allora avevano caratterizzato i loro pasti: terribili salsicce<br />

bianchicce, “erbette rosse” giganti e dal sapore dolciastro che tingevano con il<br />

loro colore gli strani cibi a cui venivano accompagnate, il pie - sorta di involtino<br />

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dal ripieno non ben definito, ... e poi sempre e ovunque il montone, ingrediente<br />

base di quella cucina d’impronta anglo-sassone, utilizzato sia per la carne che<br />

come grasso. Il suo odore persistente e nauseabondo sembra avvolgere i primi<br />

ricordi australiani di ogni emigrato.<br />

...Tutto da ricominciare dunque, con quattro effetti personali e tanta forza di<br />

volontà.<br />

All’attracco di Melbourne, sottobordo c’erano i carri ferroviari per il trasporto degli emigrati nei<br />

centri di raccolta. Ancora oggi si possono vedere le antiche rotaie.<br />

26


UNA NUOVA VITA<br />

Il contratto sottoscritto per emigrare prevedeva un impegno di lavoro in terra<br />

australiana di almeno due anni. Un’eventuale scelta di rimpatrio, prima della<br />

scadenza dei termini, veniva penalizzata dal rimborso delle spese del viaggio.<br />

Le opportunità di lavoro promesse alla partenza esistevano, ma quasi sempre si<br />

doveva cominciare con faticose mansioni di manovalanza nei settori più disparati<br />

e ben lontani dalle qualificazioni acquisite. Solitamente nella baracca di<br />

smistamento venivano affisse delle liste con le proposte occupazionali; contemplata<br />

la possibilità di rifiutare due offerte, la terza scelta diventava d’obbligo. Il<br />

lavoro era comunque il passaggio che conduceva <strong>fuori</strong> dal campo di prima accoglienza.<br />

In parallelo iniziava a Trieste un’usanza fino ad allora inconsueta, quale il matrimonio<br />

per procura. Non di certo quello riproposto da Sordi nel suo film “Bello, onesto,<br />

emigrato Australia...”, tutt’altro. I giovani triestini generalmente preferivano partire<br />

da soli in esplorazione del Paese Sconosciuto. Una volta sistemati, con il richiamo si<br />

facevano raggiungere dalle fidanzate rimaste a Trieste, che venivano sposate con il<br />

matrimonio a distanza. La documentazione di rito costava 10 sterline australiane.<br />

...Sistemazioni in baracche di lamiera ondulata, viottoli di terra che nelle giornate piovose trasformavano<br />

la cittadella in acquitrino... Il campo di Bonegilla (dall’album di Arnaldo Cioli).<br />

27


Con l’inserimento nel mondo lavorativo, cominciava anche il problema dell’alloggio.<br />

Quasi sempre lo si risolveva condividendo l’abitazione con più famiglie.<br />

La giornata non scorreva facile: c’erano grandi distanze da coprire quotidianamente<br />

con i mezzi pubblici, spesso una certa barriera di pregiudizi e diffidenza<br />

del mondo anglosassone nei confronti dell’Italiano, la comunicazione<br />

in una nuova lingua ancora da assimilare. Ci furono più casi in cui sull’autobus<br />

i nostri si trovarono ad essere ripresi da passeggeri australiani, perché uditi<br />

esprimersi fra loro in triestino. Ora siete in Australia e dovete parlare inglese il<br />

perentorio invito.<br />

Il primo involucro di quella nuova esistenza fu parecchio ruvido per quasi tutti.<br />

Ma avvolgeva anche un mondo tanto diverso, che si offriva ai suoi pionieri con<br />

delle prospettive, e li catturava: era quasi palpabile il clima di generale fermento<br />

che pervadeva il Paese in veloce trasformazione. In quel variegato e vasto<br />

scenario, a volte i nostri si ritrovarono sorpresi di fronte a scene o abitudini<br />

inconsuete. C’era la signora con l’abitino della festa in tessuto nylon, accessoriata<br />

di guanti e cappellino, e c’erano le donne con bigodini e ciabatte, che con<br />

noncuranza andavano a fare la spesa; c’erano gli uomini, sempre incravattati,<br />

che calzavano scarpe grosse e <strong>dalla</strong> linea tozza; oltre al già menzionato effluvio<br />

Quasi sempre si doveva cominciare con faticose mansioni di manovalanza, ben diverse dalle qualificazioni<br />

acquisite (dall’album di Fabio Rosin).<br />

28


di montone (castrà, come lo ricordano molti), che insistente invadeva ogni sito,<br />

c’era l’olezzo del “fish & chips”, pesce e patatine fritti, venduti avvolti nella<br />

carta di giornale; e poi la bottiglia del latte, lasciata vuota davanti la porta di<br />

casa, con le monete dentro, come ordinazione per la consegna del giorno successivo;<br />

i giornali che potevano essere ritirati per strada dagli scaffali espositori,<br />

deponendo l’importo d’acquisto in una cassettina accanto. Non esistendo ancora<br />

un adeguato sistema fognario, i servizi igienici erano diffusamente collocati<br />

all’aperto, in una cabina dietro la casa. A cadenza più o meno settimanale, funzionava<br />

un servizio di sostituzione dei “bidoni biologici” usati, che venivano<br />

ritirati con appositi camion da personale che, per quella mansione, era senz’altro<br />

pagato “profumatamente”. La quotidianità di allora era panorama in cui si<br />

delineavano le più svariate figure, che casualità della vita facevano incrociare in<br />

un continente tanto lontano.<br />

L’impegno lavorativo solitamente lasciava libero il fine settimana, che diventava<br />

così occasione per stare con i familiari e rivedere i compagni di avventura.<br />

Non c’era il telefono in casa, ma funzionava il passaparola. Si crearono dei punti<br />

di riferimento per gli incontri domenicali, che prevedevano di norma una visita<br />

in casa o un’escursione alla spiaggia, talvolta un appuntamento danzante.<br />

Programmi semplici, consentiti da quei primi tempi di assestamento economico<br />

ed ambientale. Non va dimenticato che il cambio di emisfero aveva procurato<br />

una proiezione in avanti di nove fusi orari e l’inversione stagionale. Non fu<br />

facile assuefarsi ad un Natale balneare, con un albero dalle sembianze diverse<br />

da quelle familiari che, sostenendo a fatica i 30/35 gradi all’ombra, non riusciva<br />

ad emettere il caro buon profumo della tradizione.<br />

Abitualmente faceti di carattere anche nei momenti grigi, i Triestini, per evidenziare<br />

il loro sbigottimento nell’affrontare usi e costumi del nuovo continente,<br />

pensarono di buttarla in musica e, sull’aria di orecchiabili motivetti, sottolinearono<br />

fra le varie cose che li avevano colpiti, come in quella terra fossero<br />

quasi tutti mancini e non facessero uso di stuzzicadenti, considerato il frequente<br />

ricorso alle protesi dentarie.<br />

In quei primi tempi la vita sociale era praticamente inesistente; pochissimi i<br />

locali pubblici, fatta eccezione per i pubs, aperti però con orari molto limitati.<br />

Frequentatissimi dagli avventori australiani, vi si poteva avviare amicizia con i<br />

nativi, accollandosi la spesa di vari giri di bevute di birra.<br />

In risposta all’esigenza di poter disporre di un punto di ritrovo e di riferimento,<br />

un po’ in tutte le città cominciarono a costituirsi i vari club. Davano opportunità<br />

di ritrovarsi con gli amici, di zittire un po’ la nostalgia di casa: si parlava il dialetto,<br />

si mangiava nostrano, si festeggiava San Giusto, si riusciva ad essere<br />

aggiornati sulle ultime notizie da piazza Goldoni e dintorni.<br />

29


Eppure i nostri pionieri ce l’hanno fatta: si sono inseriti, hanno imparato la lingua,<br />

hanno superato il gelido distacco del Paese che li accolse, affermandosi<br />

brillantemente e facendosi rispettare. Oggi laggiù c’è ammirazione e stima per<br />

l’Italiano e per tutto quello che è stato capace di fare anche <strong>fuori</strong> dal suo Paese.<br />

La mano d’opera italiana è considerata all’avanguardia. Anche la nostra lingua<br />

piace. Tutto ciò che è italiano ora fa tendenza, <strong>dalla</strong> moda all’arredamento, alle<br />

costruzioni, al cibo. Fa molto chic mangiare la rucola, il parmigiano, il prosciutto<br />

crudo, il gorgonzola, bere il merlot e gustare il cappuccino. Quasi d’obbligo<br />

La partenza del Castel Verde <strong>dalla</strong> stazione marittima di Trieste<br />

(dall’album di Claudio Bertossa).<br />

30


portare in tavola il garlic bread, parente stretto della bruschetta, per non parlare<br />

poi di pizza, di spaghetti e di risotto. Non esiste ristorante che non evidenzi nel<br />

suo menù fried calamari anche se, prima dell’arrivo dei nostri, gli Australiani i<br />

calamari li usavano solamente come esca. D’altra parte integrandosi nella nuova<br />

realtà, gli Italiani hanno assimilato anche un’impronta anglosassone: <strong>dalla</strong> consuetudine<br />

del picnic alle riunioni intorno al barbecue, tanto per citare qualche<br />

esempio.<br />

Ma non c’è casa “nostrana” laggiù che non porti in tavola il vegetale simbolo<br />

della tradizione gastronomica triestina: il radicchio. Essendo vietata per legge<br />

l’introduzione nel Paese di qualsiasi semente, genere alimentare, animale, pelle<br />

o pelliccia non passata per la quarantena, il radicchio sbarcò clandestinamente<br />

sul suolo australiano, sparso con finta noncuranza e mimetizzato allo stato di<br />

chicchi sul fondo di qualche valigia. Ora, nel reparto di agraria di tanti mercati,<br />

è possibile trovare la busta di semi con stampato: “cicoria bionda triestina”.<br />

*****<br />

Come sono lontani i sogni di un tempo! ... Due anni e poi torno... Qualche sacrificio<br />

all’estero per poi potersi sistemare nella terra natia, farsi la casa.<br />

La casa l’hanno fatta sì, si sono sistemati sì, ma laggiù. Quando le cose iniziarono<br />

ad aggiustarsi, arrivarono i figli, l’occasione per una prima bella casetta e le<br />

rate per pagarla; poi i figli cominciarono a frequentare la scuola e ad avere gli<br />

amici. Quasi impercettibilmente il tempo passava e le radici presero ad affondare<br />

anche lì.<br />

E ora che hanno raggiunto la serenità che cercavano, il loro male è sentirsi una<br />

mela tagliata a metà. In Australia hanno nostalgia dei luoghi natii e di tutti i<br />

sogni lasciati ieri in qualche cassetto; e mentre sono in visita alla terra d’origine,<br />

è l’Australia che manca, i figli, i nipoti, il presente e il futuro insomma...<br />

*****<br />

La città che conta il maggior insediamento giuliano è Melbourne, da dove inizia<br />

questa serie di “memorie australiane”, per la maggior parte raccolte fra i<br />

mesi di luglio e settembre del 1998.<br />

Attraverso i racconti degli intervistati è stato possibile conoscere esperienze<br />

emozionali e sociali, affrontate un giorno in prima persona, spesso alla stessa età<br />

in cui i ragazzi di oggi sono costantemente appoggiati da ansiose cure e premure<br />

familiari.<br />

31


NINO PAULIN<br />

Il 15 marzo 1954 era sulla nave che aprì il tempo dell’emigrazione da Trieste,<br />

dove era nato nel 1921. Sin da quando aveva pochi mesi la sua famiglia si era<br />

però trasferita a Gorizia, che egli ora riassume fra le sue memorie nella bandiera<br />

italiana che sventola sopra il castello.<br />

Alle sue spalle dei brutti ricordi bellici: portato prigioniero in Sassonia dopo l’8<br />

settembre, si trovava a Dresda nel ‘44 durante un terribile bombardamento, che<br />

causò la morte di 300.000 persone. Nel dopoguerra aveva ripreso nel cotonificio<br />

goriziano il lavoro che aveva dovuto lasciare causa il conflitto, senza però alcuna<br />

soddisfazione morale nè materiale. Da qui la decisione di emigrare. Optò per<br />

l’Australia, in quanto la designazione di Melbourne a sede delle Olimpiadi ‘56,<br />

gli aveva fatto ritenere la città degna di credenziali. Il suo bagaglio? Un bauletto<br />

con il vestiario e qualche attrezzo da lavoro. Superata l’inevitabile commozione<br />

del distacco <strong>dalla</strong> madre e <strong>dalla</strong> sorella, si era imbarcato, adattandosi quasi<br />

subito alla nuova situazione. A bordo mangiava con appetito e viveva bene, frequentando<br />

i corsi d’inglese.<br />

La prima cosa a colpirlo dell’Australia furono le tante biciclette con il manubrio<br />

rivolto all’insù, viste durante la sosta a Fremantle. Del successivo vissuto, ha<br />

affidato ad un diario episodi e nomi più significativi, come ad esempio le tappe<br />

del viaggio verso Bonegilla: la fermata ad Albury - cittadina al confine fra il<br />

Victoria ed il New South Wales, dove si doveva cambiare treno per la differente<br />

larghezza del binario - e la sosta a Wodonga per prendere l’autobus verso la<br />

sistemazione nel centro di raccolta.<br />

Fra le annotazioni dei suoi ricordi e delle sue prime riflessioni dopo l’arrivo al<br />

campo, si legge : ...Appena scesi dall’autobus, vidi baracche di lamiera ondulata, allineate<br />

proprio come nel campo di prigionia in Germania in cui vissi per quindici mesi.<br />

Che cosa ci serberà il futuro in questo nuovo continente al quale siamo stati invitati sì,<br />

però, la scelta di venirci era nostra? Per l’effetto del dopoguerra che in Italia non si presentava<br />

troppo sereno, adattarsi ad una nuova vita non presentava per me troppe difficoltà.<br />

L’assegnazione dell’alloggio che, per noi scapoli, era di due persone per camera, era<br />

organizzata abbastanza bene. Le pareti di queste camere, che potremo chiamare camerini<br />

per la loro misura, consistevano in un foglio di masonite da una parte e nell’intelaiatura<br />

dall’altra. Per dire, possiamo paragonarle allo steccato che divide due proprietà,<br />

dove una parte è liscia e l’altra presenta il traliccio che sostiene lo steccato.<br />

Parlando di pareti, debbo pur ricordare un episodio. Una sera ci siamo riuniti alcuni<br />

amici e dopo qualche scambio di vini, diventammo più loquaci e rumorosi. Questo, ora<br />

si può ben più capire, dava fastidio agli occupanti della camera accanto, i quali avevano<br />

chiesto di abbassare il volume delle voci, che uscivano dalle ormai gracchianti ed<br />

32


affumicate laringi. Improvvisamente uno schianto ed un pugno chiuso apparve nella<br />

parete. Questo, tanto per descrivere lo spessore delle pareti e del loro valore protettivo<br />

acustico. I gabinetti e le docce in un’altra baracca a circa cento metri di distanza; ordini<br />

scritti di come comportarsi in questi. Pure là, regole scritte in riguardo al cibo da consumarsi<br />

solo in sala mensa, con l’ordine perentorio di non portarlo nelle baracche.<br />

Erano troppo severi questi ordini per un italiano di allora? ...<br />

Dopo un mese a Bonegilla trovò lavoro a Melbourne, dapprima in una fabbrica<br />

di trattori (conserva ancora la prima busta paga di 14 sterline), poi nell’economato<br />

degli hostels, l’istituzione che gestiva i pensionati per lavoratori.<br />

Cominciò come magazziniere per poi arrivare, passo dopo passo, al settore<br />

amministrativo delle verifiche inventariali, che gli diede l’opportunità di girare<br />

tutta l’Australia nel corso di 32 anni di servizio. L’impiego gli fece anche incontrare<br />

la ragazza che diventò sua moglie: napoletana, aveva bisogno di un ferro<br />

da stiro e cercava qualcuno che parlasse italiano.<br />

Il suo primo rientro in Italia avvenne nel 1970, assieme alla moglie ed alla figlia.<br />

Sentì che i 16 anni passati lontano lo avevano portato <strong>fuori</strong> della cerchia delle<br />

vecchie amicizie. Si trattenne per tre mesi. Negli anni seguenti ritornò ancora<br />

tante altre volte, ma sempre con lo spirito della vacanza. La sua dimora è ormai<br />

l’Australia, oggi tanto cambiata dal tempo del suo arrivo. Senza rimpianti per il<br />

passato, trova sia stata una bella esperienza vivere la propria metamorfosi in<br />

parallelo con quella di un Paese nuovo ed in crescita.<br />

FABIO E LUCIANA ROSIN<br />

Ancora adesso, a distanza di 45 anni, se qualcuno mi chiedesse perché l’ho fatto, non<br />

saprei rispondere. È così che Fabio Rosin, triestino a Melbourne da quasi mezzo<br />

secolo, esordisce nel ricordare la sua partenza per gli antipodi di tanti anni fa.<br />

Aveva poco più di vent’anni, un lavoro ed una bella fidanzata, Luciana. Si conoscevano<br />

praticamente da sempre, erano vicini di casa in via D’Alviano, e da<br />

sempre avevano deciso che un giorno avrebbero messo su famiglia insieme.<br />

Fabio si lasciò contagiare dal mal d’Australia, che dopo la fine del Governo<br />

Militare Alleato a Trieste coinvolse in maniera diversa e talora ben più drammatica<br />

migliaia di famiglie giuliane. Partì con un gruppo di amici de contrada,<br />

come li chiama lui, in vestito color carta da zucchero, mocassini e cravatta chiari,<br />

secondo i dettami della moda dell’epoca. Sarebbe rimasto per un bel po’ in un<br />

baule, in una tenda in mezzo al deserto, quell’abito della festa. Arrivato infatti<br />

in Australia, il primo lavoro a cui venne destinato, fu il rifacimento delle traversine<br />

dei binari della ferrovia all’interno della regione occidentale australiana,<br />

33


vicino alle miniere d’oro di Kalgoorlie. L’acqua dell’accampamento era di origine<br />

piovana, raccolta in un’enorme cisterna e sempre calda, conseguenza di una<br />

temperatura all’ombra anche di 45 gradi. L’acqua si manteneva invece fresca,<br />

durante la giornata lavorativa, in una borsa di tela molto spessa, che riusciva a<br />

trattenere i liquidi e fungeva da thermos. Il lavoro era pesante, ma interpretato<br />

subito come temporaneo ed accettato con giovanile entusiasmo assieme ai suoi<br />

amici de contrada, con cui continuava a fare squadra, accompagnato dal subitaneo<br />

amichevole calore con cui i farmisti (gli agricoltori delle fattorie locali) li<br />

accolsero, pur senza comprendere il loro idioma.<br />

Trasferitosi a Melbourne dopo alcuni mesi e perfezionata la conoscenza della<br />

lingua inglese, vennero successivamente altri lavori. In una fabbrica di cavi elettrici<br />

passò da semplice operaio a responsabile della manutenzione elettrica.<br />

Appassionato della materia, si diplomò al corso di elettronica per corrispondenza<br />

Radioelettra di Torino. Costruì anche una radio, che usò per anni per ricevere<br />

i programmi dall’Italia e ascoltare le partite di calcio. Utilizzava il tempo libero<br />

vendendo enciclopedie, finchè accompagnando un amico che doveva comperare<br />

casa, notò la difficoltà di comunicazione esistente fra venditori australiani<br />

ed acquirenti italiani, causa la scarsa conoscenza delle reciproche lingue.<br />

Diede allora la sua disponibilità part-time di mediatore-interprete ad un’agenzia,<br />

situata in un rione di insediamento prevalentemente italiano: fu successo<br />

immediato. Divenne addirittura un amichevole consulente dei suoi clienti, che<br />

consigliava anche su risvolti legali e fiscali, ricevendo da loro in segno di gratitudine<br />

prodotti della terra, vino e cacciagione. Abbandonò il lavoro in fabbrica,<br />

facendosi assorbire full-time dal settore immobiliare. Avviò quindi la Rosin<br />

Real Estate, una piccola agenzia che è riuscito a trasformare nell’attuale importante<br />

realtà della metropoli australiana, con 34 persone alle dipendenze.<br />

Apprezzato consulente nel settore immobiliare, la sua azienda anche recentemente<br />

ha partecipato alla realizzazione di significative strutture edificative, che<br />

hanno accompagnato l’evoluzione e la metamorfosi del panorama edilizio in<br />

Melbourne.<br />

Al suo fianco la moglie Luciana, che lo raggiunse in Australia più o meno un<br />

anno dopo il suo arrivo. Giunse da Genova con l’Aurelia assieme a 250 ragazze,<br />

quasi tutte come lei giovani spose per procura. Lo sposo laggiù si era unito in<br />

matrimonio a distanza con la fidanzata, che a Trieste aveva vissuto i preparativi<br />

secondo tradizione: i confetti, le partecipazioni (una era stata spedita anche al<br />

futuro marito in Australia), i fiori, l’abito bianco, gli invitati.... Solo che sull’altare<br />

della chiesa di San Giacomo, accanto a lei c’era stato il suocero, fatto questo<br />

male interpretato da alcune signore, casualmente in chiesa in quel momento<br />

ed ignare della realtà dei fatti. Scandalizzate, avevano severamente commentato<br />

sulla differenza di età degli “sposi”, esprimendo però la loro conten-<br />

34


tezza ed i loro auguri, una volta ragguagliate in merito. Insieme a Fabio,<br />

Luciana si sentì subito a casa. Ricorda affettuosa l’accoglienza dell’Australia,<br />

anche in occasione della nascita della prima figlia: era giovane e non aveva ancora<br />

padronanza della lingua, ma l’assistenza ospedaliera fu, oltre che professionale,<br />

anche familiarmente gentile.<br />

Il primo rientro a Trieste avvenne per Fabio nel febbraio del ‘67, causa la triste<br />

circostanza della malattia mortale del padre. Anche se gli ricordava la sua gioventù,<br />

la città gli apparve cambiata, c’era stata una grande crescita economica.<br />

Il diffuso benessere gli fece sorgere qualche dubbio sulla passata scelta di emigrare.<br />

La sua attività, anche se decollata, era ancora agli inizi.<br />

Fu felice il successivo ritorno a Trieste nel Natale del ‘75 con tutta la famiglia,<br />

seguito da innumerevoli altre visite in tutti questi anni.<br />

Provetto giocatore di golf, Fabio Rosin è stato presidente dell’Italian Golf<br />

Association di Melbourne, mentre nel primo lustro degli anni 80 è riuscito, fra i suoi<br />

numerosi impegni, anche a trovare il tempo da dedicare al San Giusto Alabarda<br />

Social Club. Il sodalizio dei Triestini di Melbourne, durante la sua presidenza, ha<br />

conosciuto i traguardi più notevoli. Ideò anche un notiziario informativo, che<br />

chiamò “Il Piccolino”, nostalgica parafrasi tascabile del quotidiano di Trieste.<br />

Matrimonio per procura di Fabio e Luciana che, al posto del fidanzato, sull’altare aveva al suo<br />

fianco il suocero.<br />

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Ricavata da una dismessa fabbrica di maglie e realizzata grazie al personale contributo<br />

lavorativo dei suoi soci, la sede del circolo divenne ritrovo per il tempo<br />

libero, con le prime cene danzanti ai ritmi dell’orchestrina “La Bora”, celebrazioni<br />

e spettacoli. La sala delle feste ha ospitato rappresentanti istituzionali,<br />

esponenti della cultura e personaggi del mondo dello spettacolo in visita da<br />

Trieste. Purtroppo non è stato perfezionato il progetto di coinvolgimento delle<br />

nuove leve generazionali, con attività sportive o di riscontro giovanile. In parallelo,<br />

sfortunatamente non si è riusciti a realizzare l’ambizioso programma di<br />

riconversione del club in centro di assistenza per anziani. L’attuazione del pro-<br />

Luciana e Fabio nella loro prima casa a Melbourne.<br />

36


getto avrebbe potuto centrare un problema praticamente nuovo per la società<br />

australiana. Abituata a considerarsi popolo giovane di un continente giovane<br />

infatti, in questi ultimi anni si è trovata un po’ impreparata ad affrontare un’attualità<br />

diversa, quale quella collegata al mondo della terza età.<br />

Genitori di cinque figli e nonni di tre splendidi nipoti, i Rosin sono ormai naturalizzati<br />

australiani, ma rimasti sempre triestini nel cuore. Lo hanno ripetuto<br />

anche al vicesindaco di Trieste che, nella primavera del 2000, li ha ricevuti nel<br />

salotto azzurro del Comune per una visita di saluto.<br />

VIRGILIO PIGO<br />

Australia Australia, terra bruciata dai raggi del sol, Australia Australia, tu ci farai<br />

morir… Era stata affidata a quelle strofe la perplessa titubanza vissuta da un<br />

gruppo di giovani triestini, in attesa di incontrare lo scenario del loro futuro.<br />

Avevano buttato giù quei versi sulle note di una vecchia melodia, durante la traversata<br />

col Toscana verso l’Australia, e cantavano quella canzoncina mentre<br />

scendevano a Fremantle. - Non vi farà morire - li rassicurò il viceconsole italiano<br />

che li accolse allo sbarco.<br />

Fra quei ragazzi c’era Virgilio Pigo, nato a Grado dove suo padre faceva il cameriere<br />

stagionale, ma dall’età di 11 anni residente a Trieste, dove la famiglia si era<br />

in seguito trasferita. Abitava in Via Rismondo e frequentava l’omonima scuola<br />

vicino a casa. Partiti gli Anglo-americani, rammenta un certo panico serpeggiare<br />

in città al riguardo del futuro occupazionale, tale da spingere all’emigrazione<br />

moltissime famiglie, circa 5.500.<br />

Lui aveva 25 anni, due fratelli e una sorella, un lavoro nel garage Diana di via<br />

Madonnina. Era fidanzato con una ragazza che lavorava da Beltrame. Progettavano<br />

di sposarsi, ma appreso che la partenza per l’Australia era agevolata per i celibi,<br />

decise di imbarcarsi da solo e di sposarsi per procura. Era il 30 aprile 1955, quando<br />

lasciò Trieste.<br />

Non volle che la mamma andasse a salutarlo alla Stazione Marittima, ma ancora<br />

oggi ricorda il momento in cui <strong>dalla</strong> strada, volgendo gli occhi per un ultimo<br />

sguardo alla finestra del terzo piano in cui abitava, la scorse affacciata piangere.<br />

Rammenta bene anche il tono apparentemente distaccato con cui lo congedò il<br />

papà, che andò a salutare nel ristorante di via Geppa dove lavorava. Apprese in<br />

seguito che il genitore era poi andato al porto, su un altro molo, a guardare la<br />

partenza della nave. Sulle rive Pigo trovò a salutarlo i fratelli, i nipoti, la fidanzata.<br />

Quando si trovò a bordo era già pentito. Sulla nave c’erano oltre 1.200 triestini,<br />

molti gli scapoli, poche le ragazze e circa una ventina le famiglie. Fra gli<br />

37


Alla ricerca di un’identità perduta


L’emigrazione degli esodati giuliano-dalmati era regolamentata dall’IRO (International Refugee<br />

Organization), che riconosceva ai profughi il diritto di emigrare sotto il patrocinio della Nazioni<br />

Unite. (dall’album di Ornella Agostinis Mocnik, la partenza della nave Skaubryn).


Gli abitanti delle terre giulie hanno sempre avuto un po’ la vocazione del giramondo<br />

(prova ne sia che, vuoi per lavoro, vuoi per turismo, non esiste o quasi<br />

luogo al mondo in cui non capiti di incontrare qualche conterraneo).<br />

Costituzione del giramondo sì, ma non dell’emigrante. Rispettosi ad esempio<br />

della tradizione marinara di questi lidi, per anni e anni ampie schiere di marittimi<br />

hanno battuto le onde degli oceani, lontani da casa per lunghi periodi, staccati<br />

dalle famiglie in occasione di festività e lieti eventi, ma, come novelli<br />

Ulisse, concludendo a casa quel loro faticare.<br />

In scia alla seconda guerra mondiale, una diversa realtà polverizzò fra meridiani<br />

e paralleli le genti di Istria, Fiume e Dalmazia. Il drammatico epilogo degli<br />

eventi bellici sconvolse la fisionomia di quei territori: il trattato di Parigi del<br />

febbraio 1947 mutilò la regione a beneficio della Jugoslavia. Dallo stravolgimento<br />

di equilibri e confini, conseguì una diaspora di una moltitudine di persone:<br />

sembrerebbero 350.000, anche se il numero è ancora controverso e scuole<br />

di analisi diverse riducono la cifra a 300.000.<br />

Cittadini italiani, si trovarono improvvisamente privati di casa e nazionalità.<br />

Divennero loro malgrado protagonisti in un movimento di doppia emigrazione:<br />

la prima verso un rifugio in Italia, la seconda alla ricerca di una tranquillità economica<br />

che desse anche la possibilità di riacquistare un’identità di cui erano<br />

stati privati. Molto spesso il governo jugoslavo non riconobbe le opzioni di italianità,<br />

per cui frequentemente i rifugiati provenienti dalle regioni istriano - dalmate<br />

e quarnerine si ritrovarono ad essere classificati come apolidi.<br />

Ad assistere ed a regolamentare tale esodo di massa ci fu l’IRO (International<br />

Refugee Organization), che riconosceva ai profughi il diritto di emigrare sotto il<br />

patrocinio della Nazioni Unite.<br />

111


Fra le memorie dell’esodo collegate alla successiva emigrazione in Australia, la<br />

più datata è stata raccolta a Sydney, città che apre la seconda parte di questo itinerario<br />

biografico nel quinto continente.<br />

GIULIANO HREGLICH<br />

Completamente <strong>fuori</strong> da ogni schema, la sua vicenda australiana iniziò già nel<br />

1940. Suo padre Giulio, nativo di Lussinpiccolo, era l’agente del Lloyd<br />

Triestino a Singapore, dove viveva assieme alla moglie ed ai due figli. Allo scoppio<br />

del conflitto mondiale, la famiglia venne internata dagli Inglesi in un campo<br />

di prigionia, dove un giorno improvvisamente ebbe notizia di un trasferimento,<br />

senza ulteriori informazioni. Partirono con il Queen Mary, in abiti estivi; arrivarono<br />

in un’Australia che stava appena uscendo dall’inverno e ignorando la destinazione.<br />

Vennero internati nel campo numero 3 di Tatura, nel Victoria, dove<br />

esistevano una ventina di campi di detenzione e all’incirca 200.000 tra prigionieri<br />

di guerra e prigionieri civili. Dopo quattro anni ai tropici, si risentiva particolarmente<br />

del freddo. Il vitto era noiosissimo, però abbastanza abbondante - ricorda<br />

Giuliano Hreglich. Ci fu un’unica occasione per uscire, per una battuta di caccia<br />

ai conigli, che si risolse in un disastro per gli organizzatori di S.M.Britannica.<br />

I 1.200 prigionieri del campo, dove si necessitava un po’ di tutto, durante quella<br />

gita si interessarono ben poco alla cacciagione, approfittando invece di un<br />

camion in sosta per portarne via tutte le gomme. Il materiale risultava prezioso<br />

per poter risuolare le scarpe. Da parte australiana venne deciso che non ci sarebbero<br />

state altre uscite. Almeno per gli adulti, perché Giuliano e sua sorella,<br />

assieme ad altri tre ragazzi, vennero trasferiti in collegio, in ottemperanza alla<br />

concessione fatta al cardinale cattolico di Melbourne di permettere ai bambini<br />

italiani di trovare sistemazione presso i convitti locali. I primi mesi furono un po’<br />

duri, perché i ragazzini sanno anche essere crudeli, il racconto di Hreglich che, unico<br />

italiano e visto come nemico, dovette confrontarsi con i vari compagni di scuola,<br />

che a turno volevano fare a botte con lui. Per fortuna era piuttosto alto per la<br />

sua età, così che superata abbastanza bene la prova, da quel confronto nacquero<br />

anche delle belle amicizie.<br />

I genitori nel frattempo vivevano l’esperienza del campo, cercando comunque<br />

di essere positivi e costruttivi: suo padre insegnò tedesco e matematica,<br />

imparando a sua volta il russo e lo spagnolo, mentre la madre si occupò della<br />

preparazione scolastica dei bambini. La comunità prigioniera era diventata<br />

anche comunità culturale. Giuliano, nei periodi in cui rientrava dal collegio,<br />

si ritrovava ancora a studiare, per cui in tutti quegli anni fece praticamente<br />

sempre lo studente, eccezion fatta per quando al campo veniva assegnato a<br />

112


lavare docce e gabinetti, cosa che lo seccava non poco.<br />

Il padre anelava ad uscire dal campo e nel gennaio del ‘45 ci riuscì, accettando<br />

di lavorare assieme alla moglie presso una ricca famiglia australiana di Melbourne,<br />

in qualità di maggiordomo e cameriera. Il suo concetto del ruolo derivava però<br />

da quanto visto al cinema, per cui con sigaro e in vestaglia di seta egli andava in<br />

giro per la casa a controllare che non ci fosse polvere, mentre la moglie sgobbava<br />

veramente.<br />

Erano usciti dal campo con 5 sterline, il ricavato di quanto erano riusciti a vendere<br />

a dei tedeschi rimasti internati. Nell’importo, anche la sterlina derivante<br />

<strong>dalla</strong> cessione di un vaso da notte. Oggetto particolarmente ricercato, considerata<br />

la tipologia dei servizi igienici del campo, rientrava assieme ad un sacco di<br />

bilie, fra le assegnazioni ricevute durante la prigionia <strong>dalla</strong> Croce Rossa<br />

Brasiliana. L’omologo Ente assistenziale turco aveva fornito delle sigarette.<br />

Nulla venne dato nei cinque anni <strong>dalla</strong> Croce Rossa Italiana. In tutto quel<br />

periodo non ci fu neppure alcuna notizia da casa, perché la posta nemmeno arrivava.<br />

Le capacità manageriali di papà Hreglich non sfuggirono al datore di lavoro, che<br />

trasformò la sua qualifica da maggiordomo e chauffeur a contabile, fino a direttore<br />

di una sua Compagnia, impegnata ad iniziare un servizio di Ro-Ro fra i<br />

porti di Sydney e Melbourne.<br />

In quel mentre, il signor Giulio venne contattato dal Lloyd Triestino che, con<br />

il Toscana, stava per riattivare i collegamenti marittimi fra Italia e Australia. Aprì<br />

l’agenzia di Sydney.<br />

Giuliano, completati gli studi e prima di affiancarsi al padre come agente di successo,<br />

visse a Melbourne l’esperienza di venditore di mulini a vento per la<br />

Southern Cross Windmills (in Australia c’è tutta un’industria basata sui mulini<br />

a vento, che servono a pompare l’acqua artesiana dal sottoterra). Conclusa la carriera<br />

al terzo tentativo malriuscito di installazione di un mulino, scoprì a posteriori<br />

che il vento, nel suo percorso in discesa dalle colline, poteva anche triplicare<br />

di potenza, con conseguenti danni e perdita di strutture.<br />

Nella successiva attività per il Lloyd, si trovò ad essere testimone dei primi arrivi<br />

dei nostri emigranti. L’agenzia era un punto di riferimento per i viaggiatori e,<br />

in occasione del primo viaggio del Toscana, sulla rotta Melbourne - Sydney, salì<br />

a bordo per cercare di essere di aiuto. Le autorità australiane non avevano provveduto<br />

a dare l’appoggio di almeno un interprete e allora Giuliano dovette<br />

espletare anche quella mansione insieme a un certo Peter Richardson, che parlava<br />

lo spagnolo cercando di adattarlo all’italiano. Ricorda che in compenso il<br />

Governo australiano aveva fornito una pubblicazione, probabilmente tradotta da un<br />

maltese (quasi tutti gli interpreti allora erano maltesi; conoscevano quattro lingue, tutte<br />

male, ma costavano meno), in cui offriva un’immagine irresistibile dell’Australia: case<br />

113


a buon mercato, vita assolutamente conveniente, addirittura facilità di trovare pepite.<br />

La promozione dell’illusione.<br />

Papà Hreglich continuò a ripensare con nostalgia alla terra d’origine. Voleva tremendamente<br />

bene alle sue isole. Su quel mare, negli anni giovanili aveva trasmesso<br />

i primi rudimenti di vela - la sua grande passione da sempre - ad un<br />

compaesano allora ragazzo, ma futuro ammiraglio e campione in ben cinque<br />

appuntamenti olimpici: Agostino Straulino. A Lussino - il posto più bello del<br />

mondo, secondo un’entusiastica definizione dell’alto ufficiale - Giulio Hreglich<br />

tornò spesso, il figlio un paio di volte.<br />

Una di quelle visite originò un inatteso turbamento in Giuliano quando, in un<br />

bar, casualmente vide una gigantografia del porto di Lussinpiccolo: fra le barche<br />

raffigurate, riconobbe quella di suo nonno Augusto - si chiamava Italia.<br />

Nonno Hreglich, prima comandante e poi socio della Cosulich, nonostante i<br />

dettami dell’epoca e le sue idee, mai permise di trasformare il cognome di famiglia.<br />

Un nome che oggi, per la sua pronuncia, non risulta facile da portare in giro<br />

per il mondo e che in Australia si sbizzarriscono ad articolare fantasiosamente.<br />

Nel rientro a Lussino, a colpire ancora Giuliano fu l’incontro con alcuni anziani<br />

uditi parlare in dialetto, a cui si rivolse per domandare notizie sulla casa di famiglia.<br />

Risposero come se non fossero passati quasi quarant’anni: Alora ti xe el fio<br />

de Giulio, el fio de Augusto. Come sta Giulio? La tua casa adesso xe caserma della<br />

Marina jugoslava.<br />

Giuliano Hreglich, diventato da qualche anno anche cittadino australiano, conserva<br />

la nazionalità ed il passaporto italiani.<br />

PINO PALEKA<br />

Addio Zara, oh Zara mia, se parto via ti porto nel cuore ...<br />

Si levavano tristi le note del coro intonato a prua da un gruppo di alpini mentre<br />

la nave si allontanava dalle rive zaratine. Era il 1942. A bordo c’era anche Pino<br />

Paleka, giovane militare in rientro a Venezia da una licenza di tre settimane.<br />

Quelle strofe gli suonarono come un presentimento e un groppo gli prese la<br />

gola. Nei precedenti giorni di permesso aveva voluto riempirsi gli occhi con le<br />

case, la spiaggia delle Colovare, le chiese di Zara. Aveva provato la sensazione<br />

di vedere per l’ultima volta la città dove era nato diciassette anni prima e che<br />

aveva lasciato nel ‘41, dopo aver compiuto gli studi alla scuola industriale<br />

Baknaz, per arruolarsi volontario in Marina...<br />

Finita la guerra, Pino si stabilì in provincia di Venezia, imbarcandosi come operaio<br />

di macchina su navi mercantili con rotta il Golfo Persico e il Centro<br />

114


America. Durante un viaggio, nascose nella propria cabina un profugo compaesano,<br />

che voleva aiutare a raggiungere il Brasile. Scoperta la cosa, il comandante<br />

- di Trieste - dapprima promise la sua collaborazione, ma una volta a Rio de<br />

Janeiro consegnò il clandestino alle autorità. La polizia fu tuttavia tollerante ed<br />

accettò l’esule. Pino invece, fatto sbarcare al rientro, prese servizio in una cooperativa<br />

di Venezia che si occupava della manutenzione meccanica di bordo. Un<br />

lavoro non molto remunerativo, che lo sollecitò a proporsi subito per l‘espatrio,<br />

non appena avuta notizia dell’attività dell’IRO. Era il 4 novembre 1949. Fu<br />

messo nel campo profughi di Bagnoli, ad incrementare la moltitudine di esodati<br />

in attesa di partenza. Vennero imbarcati a Napoli su una nave americana di<br />

trasporto truppe; assieme a loro tanti polacchi, tedeschi dell’est, russi bianchi,<br />

rumeni, cecoslovacchi. Pessime le condizioni del mare durante la traversata.<br />

Misero a dura prova lo stomaco di molti passeggeri, ma nel contempo diedero<br />

opportunità a Pino, già avvezzo a navigare, di accedere anche alle razioni non<br />

utilizzate dei suoi compagni di viaggio.<br />

Era il 1950 quando giunse a Sydney. In quell’epoca l’attracco avveniva alla banchina<br />

di Pyrmont, dove un treno merci caricava i nuovi arrivati per portarli nei<br />

campi di raccolta. Prima destinazione Bathurst, ex campo militare americano;<br />

scapoli sistemati in tende, famiglie nelle baracche. Pino rifiutò una prima pro-<br />

Sistemazione in tenda durante il primo lavoro in Australia di Pino Paleka.<br />

115


posta di lavoro, in una miniera di piombo; accettò la seconda, delle ferrovie, che<br />

lo portò a diciotto ore di treno da Sydney a sostituire vecchi binari e traversine<br />

della linea ferroviaria, praticamente nel deserto. Anche là sistemazione in<br />

tenda, caldo, mosche e zanzare. Tre giorni liberi ogni due settimane di lavoro.<br />

Resse per quattro mesi. Spesso nel cuore della notte si sentiva chiamare taliano,<br />

taliano, scolta. Era un compagno di lavoro serbo appassionato dell’Italia: in<br />

segno di amicizia, gli voleva far sentire una voce dal suo Paese attraverso la linea<br />

radiofonica vaticana, che trasmetteva in onde corte.<br />

Cominciò a guardare verso Sydney, dove aveva come punto di riferimento alcuni<br />

polesani, conosciuti sulla nave. Era particolarmente vivo il contatto fra noi profughi;<br />

sentivamo che era l’unica cosa che ci era rimasta - ricorda Paleka.<br />

Fu grazie all’interessamento di un calzolaio calabrese però, che venne assunto<br />

come tornitore meccanico in una piccola fabbrica, dove ha lavorato per 34 anni.<br />

Ottimo il suo rapporto con il titolare che, con metodo personalizzato, agli inizi<br />

lo aiutò a perfezionare la conoscenza dell’inglese. Allineati attrezzi ed oggetti su<br />

un banco, ne corredava ognuno con la traduzione scritta.<br />

Il primo alloggio in città fu in una boarding house di italiani (stava praticamente<br />

a pensione presso una famiglia). Frequentava il club italo-australiano, ma in<br />

quell’ambito rimase amareggiato per spiacevoli dissapori proprio con dei con-<br />

L’attestazione del riconoscimento della nazionalità italiana di Pino Paleka.<br />

116


nazionali, emigrati durante il ventennio, che mal interpretavano la posizione<br />

degli esodati. Trasferitosi in casa di amici friulani, nel 1963 li seguì a Torino in<br />

una visita a loro parenti. Nel capoluogo piemontese provò a fermarsi, lavorando<br />

in fabbrica, ma due anni dopo era già di ritorno a Sydney ed al suo vecchio impiego.<br />

Aiutando un amico friulano nel suo studio, scoprì un’inclinazione per la fotografia.<br />

Dapprima si trattò di un impegno saltuario, poi i servizi fotografici per<br />

feste e matrimoni divennero il secondo lavoro nei week end.<br />

Anche Pino fu parte attiva nell’associazionismo di quei tempi, specie nella polisportiva<br />

“Julia”, che organizzava incontri di calcio, pallacanestro, pallavolo, tennis<br />

da tavolo.<br />

Sposato con una signora di origine friulana, è tornato più volte in Italia, ma Zara,<br />

dov’è rimasto il suo cuore, l’ha rivista soltanto in cartolina.<br />

RENATA REATTI SPADONI<br />

Imbarcandosi verso l’Australia, Renata guardava solo avanti, dove erano riposte<br />

le sue speranze di un avvenire migliore. Voltarsi al passato significava ricordare<br />

la guerra, la paura, le brutture vissute e le tristezze da cui stava fuggendo.<br />

...Particolarmente vivo il contatto tra noi profughi in Australia - racconta Paleka.<br />

117


Nacque su di un treno fra Monfalcone e Trieste, dove i genitori ipotizzavano di<br />

trasferirsi. La famiglia aveva origini un po’ sparse nel nord est italiano, ma per<br />

generazioni era vissuta a Pola. La sua casa era in via Flavia numero 2, la più vicina<br />

all’Arena. Il papà era ufficiale della marina mercantile, la mamma lavorava<br />

alla Manifattura Tabacchi. Nel periodo postbellico Renata frequentava l’istituto<br />

tecnico Da Vinci. Molto spesso però in quel tempo le lezioni saltavano, in<br />

quanto gli studenti andavano a manifestare perché fosse rispettata l’italianità di<br />

Pola. Non servì e nel febbraio del ‘47 sua madre decise di scappare con i figli<br />

<strong>dalla</strong> nuova realtà che si stava prospettando per l’Istria. Fu una partenza carica<br />

di inquietudine. In un primo tempo venne rinviata per il trambusto seguito<br />

all’uccisione di un militare inglese da parte di Maria Pasquinelli. Successivamente,<br />

il giorno fissato per l’imbarco sul Toscana, la piattaforma mobile che trasportava<br />

a bordo la famigliola, si fermò a mezz’aria. Probabilmente si trattò di un<br />

problema tecnico, ma procurò gran batticuore.<br />

Approdarono ad Ancona, assistiti dall’IRO. Suo fratello maggiore venne accolto da<br />

una zia a Faenza, dove in seguito si sarebbe diplomato; la mamma, incinta, con gli<br />

altri figli proseguì per un campo profughi di Firenze, città per cui le era stato riconosciuto<br />

il trasferimento alla Manifattura Tabacchi. Per la sistemazione dei rifu-<br />

I compagni di scuola con cui Renata spesso si assentava dalle lezioni per manifestare a favore dell’italianità<br />

di Pola.<br />

118


giati era stato utilizzato un vecchio chiostro medievale. Dapprincipio le famiglie<br />

vivevano nei grandi cameroni in totale promiscuità; in seguito sarebbero stati elevati<br />

dei divisori. Si cucinava su un fornellino elettrico, quando funzionava.<br />

Renata riprese gli studi di ragioneria a Firenze, sua madre a giugno del ‘47<br />

diede alla luce un’altra bambina. Erano tempi duri, bisognava arrangiarsi con i<br />

soldi e si mangiava poco - il racconto di Renata, che a quel punto lasciò la scuola<br />

per impiegarsi negli uffici di una raffineria di petrolio. L’Australia, alternativa<br />

agli USA che avevano bloccato le immigrazioni, si delineò come una soluzione. I<br />

Reatti inoltrarono la domanda all’IRO. Cominciò tutta una serie di trasferimenti<br />

a vari campi profughi: da Firenze a Cinecittà, ad Aversa, a Bagnoli. Non avevano<br />

molto da portarsi appresso in quella peregrinazione. Provata dall’esperienza<br />

della guerra e dallo spauracchio della fame, la madre nel bagaglio metteva<br />

scorte di fagioli e di pasta. Vennero ammessi all’espatrio solo Renata, diciottenne,<br />

ed il fratello grande. La mamma, che doveva allevare tre figli ancora piccoli,<br />

sarebbe stata accettata solo un anno più tardi; nel frattempo sarebbe dovuta<br />

rimanere a Bagnoli, trasferita presso la locale Manifattura Tabacchi.<br />

Nella complessità organizzativa dell’IRO, che programmava i piani d’imbarco, i<br />

due fratelli scelti per l’Australia furono ancora mandati prima in un campo profughi<br />

di Bremenhaven in Germania e poi di Genova. Alla fine salirono sul<br />

Gioventù nelle baracche del campo profughi di Bremenhaven.<br />

119


Castel Bianco. Indimenticabile per Renata il primo pasto a bordo: il brodino, la<br />

tovaglia bianca sul tavolo - di per sè una novità - il bicchiere di vino, il pane fresco...<br />

dopo la Germania era già tutto più bello. A bordo c’erano all’incirca cinquecento<br />

ragazzi, una dozzina di ragazze e sette otto famiglie, tutti esodati. Arrivarono a<br />

Melbourne il 3 settembre 1950. Prima di scendere <strong>dalla</strong> nave intonarono Va’ pensiero.<br />

Dopo Bonegilla, il primo lavoro per suo fratello fu a Sydney, come tornitore<br />

(oggi è un affermato professionista). Lei volle seguirlo e, grazie alla sua<br />

conoscenza del francese, s’impiegò come aiuto in casa del console canadese,<br />

sposato con una belga che non aveva dimestichezza con l’inglese.<br />

Seguirono poi tanti lavori e tanti traslochi. C’era una gran crisi di alloggi in quel<br />

tempo. Non esistevano case a sufficienza per tutti i nuovi arrivi. C’era tanta<br />

richiesta di materiale da costruzione, ma esisteva solo qualche paio di fabbriche<br />

di mattoni, che non riuscivano ad evadere tutte le richieste.<br />

Il primo lavoro ad entusiasmare Renata fu presso gli uffici della Warner Bross,<br />

che però dovette lasciare quando, dopo il matrimonio con un marchigiano,<br />

divenne mamma di una bambina. La chiamò Flavia, in ricordo dell’indirizzo di<br />

Pola.<br />

Impegnata in seguito in una compagnia di marketing per la preparazione di<br />

campagne pubblicitarie, ora Renata quando non impartisce lezioni di italiano ed<br />

inglese, si dedica molto alla scrittura. Associata ad un sodalizio di scrittori<br />

australiani, per i suoi lavori dapprima usava l’italiano, ora le è più consono l’inglese.<br />

Molti i racconti e le poesie dedicate all’Istria ed alla sua gente. Ispiratrice<br />

particolare è stata la sua mamma, alla quale riconosce tutto il valore di un’esistenza<br />

provata e combattuta, in un tempo in cui per una donna era particolarmente<br />

difficile il ruolo di capofamiglia.<br />

Sogna di rivedere Pola, dove non è più tornata.<br />

GIORGIO MARCUZZI<br />

Zara subì i primi bombardamenti nel ‘43. Noi siamo andati in un Paese che era già<br />

Jugoslavia, perché ormai Zara era rimasta italiana soltanto per pochi chilometri di circonferenza,<br />

da una parte c’era il mare, dall’altra le truppe titine.<br />

Mi ricordo la grande paura, per cui non vedevo l’ora di scappare. La mia famiglia consisteva<br />

di due sorelle più piccole, gemelle di undici anni, e di mia madre, vedova. Il<br />

papà era morto a Trieste nel ‘39, in seguito ad un’operazione per un male allora con<br />

poche speranze: asportato un rene, l’altro a metà, non esistevano dialisi o trapianti. Io,<br />

di quattordici anni, ero l’uomo di casa.<br />

Giorgio Marcuzzi ricorda così il triste distacco da Zara, dove era nato nel 1929<br />

120


da famiglia, sembra, di remote origini albanesi. Il cognome, originariamente<br />

Kerstich, era stato trasformato in Marcuzzi nel ‘32, quando suo padre divenne<br />

console italiano a Skopie in Macedonia, luogo di nascita delle sorelle. Il nome<br />

non fu del tutto inventato, in quanto sembra che durante il periodo albanese<br />

esistesse un ceppo chiamato Marcusi. Giorgio, per molti anni lontano <strong>dalla</strong> città<br />

natale in conseguenza al lavoro del padre, praticamente la conobbe nel difficile<br />

periodo bellico.<br />

La loro casa era crollata sotto ad un bombardamento; pur se rifugiate in cantina,<br />

la mamma rimase ferita ad una gamba, travolta dalle macerie, la sorella Lidia<br />

venne trovata dopo due ore. Giorgio si salvò perché in quel momento si trovava<br />

in chiesa.<br />

Il distacco fu piuttosto traumatico: avevamo pochissime cose, quelle che riuscivamo a<br />

trasportare; la mamma, con la gamba ancora ferita, faceva fatica a camminare, le due<br />

sorelle erano piccole, l’unico che poteva portare una valigia un po’ più pesante ero io...<br />

Andammo alla banchina per partire con il Sansego, l’unica nave che aveva un contatto<br />

con il nord, ma non si potè partire perché i tedeschi avevano requisito il bastimento<br />

per andare loro a Fiume e Trieste. Aspettammo invano il suo rientro, perché venne<br />

affondato.<br />

Per un anno andammo a Bibinie presso dei contadini, partigiani di Tito alleati con gli<br />

inglesi. Seguirono tre mesi di continui spostamenti con i pescherecci fra le isole, viaggiando<br />

di notte, finchè non arrivammo a Lissa, dove c’imbarcammo sulla Ljubljanka<br />

che faceva collegamento con l’Italia. Dopo vari controlli e peripezie, ci diedero il permesso<br />

di andare a Bari, in un campo profughi americano.<br />

Il rifugio si presentava come una babele di genti e di razze. Vennero rapati a<br />

zero e disinfettati; l’assistenza diede un primo aiuto con delle lenzuola, qualche<br />

materasso, un cappotto e alcune camicie militari. Successivamente furono trasferiti<br />

al centro UNRRO (United Nations Refugees Resettlement Organization)<br />

di Santa Maria di Leuca, seguito dopo qualche anno dal campo profughi italiano<br />

in via della Scala a Firenze. Durante l’anno scolastico Giorgio fu ospite del<br />

collegio Nicolò Tommaseo di Brindisi, dove conseguì la maturità scientifica. Le<br />

sorelle studiavano a Firenze.<br />

Venne poi la volta del campo profughi di Cinecittà, un’occasione per lavorare di<br />

tanto in tanto come comparse nel cinema e guadagnare duemila lire al giorno.<br />

Giorgio, iscritto a scienze politiche, si guardava attorno per un lavoro. Si profilò<br />

con l’IRO la possibilità di emigrare in Australia e vennero spostati a Bagnoli in<br />

attesa dell’imbarco. Erano gli inizi di aprile del 1951 quando da Napoli partirono<br />

con la Fairsea - la farisea la chiamavano i nostri. La nave era abbastanza<br />

moderna e permise una traversata record in 22 giorni. Apparteneva alla Sitmar,<br />

compagnia panamense, fondata da un profugo della Russia bianca, Vlasos; capitano<br />

e equipaggio italiani, ma registrata a Panama.<br />

121


La decisione di partire per l’Australia venne presa dai più giovani. La mamma,<br />

che avrebbe preferito aspettare l’evoluzione degli eventi, affrontò la prova<br />

abbastanza distrutta, non convinta di separarsi da fratelli e sorelle, comunque<br />

sparsi un po’ in tutta l’Italia e che praticamente non ha più rivisto. Lei guardava<br />

perplessa verso il Paese sconosciuto e la diversità della lingua, Giorgio pensava<br />

alle cavalcate in una terra nuova, nutriva speranze molto rosee per il suo<br />

futuro, si immaginava ...perlomeno primo ministro d’Australia.<br />

Il 25 aprile, giorno dell’arrivo a Melbourne, era il giorno della festa dell’esercito<br />

australiano: niente dogana, niente immigrazione. Qualcuno sembrò aver conferma<br />

delle informazioni ricevute, che davano l’Australia come un paese sempre<br />

in festa.<br />

A Bonegilla, con soddisfazione, Giorgio vestì l’uniforme ed il distintivo della<br />

Security, corpo di vigilanza del campo addetto a tutte le varie emergenze.<br />

L’inglese, imparato un po’ a bordo, si perfezionò sul posto. Continuava ad essere<br />

ottimista: aveva vitto e alloggio, la paga era buona, solo qualche irrisoria trattenuta,<br />

non aveva grosse esigenze e sapeva che tempo due anni avrebbe potuto<br />

cambiare vita. Come per tutti, nota dolente era il cibo della mensa, a cui<br />

rimediava con delle trasferte nella vicina Aulbury, dove per poco prezzo faceva<br />

delle grosse scorpacciate di aragosta o delle allegre bevute di birra. Vi andava<br />

insieme ai compagni del centro di raccolta, ma anche gli Australiani tutto sommato<br />

si dimostrarono abbastanza amichevoli - osserva. Se calcoliamo che eravamo stati<br />

nemici - la guerra era finita da 6 anni - di religione diversa, e quella volta la religione<br />

contava, di due ceppi di lingue diverse... Pur se completamente stranieri per loro, eravamo<br />

accettati per quello che valevamo.<br />

Nel frattempo, mamma e sorelle erano state mandate a Melbourne ed impiegate<br />

nel locale ospedale.<br />

Prima che fossero trascorsi i due anni di vincolo lavorativo, Giorgio cominciò a<br />

lavorare presso l’agenzia del Lloyd Triestino a Melbourne. L’indicazione in<br />

merito alla riattivazione di quelle linee marittime arrivò dallo zio Giuseppe<br />

Marussig, residente a Napoli. Giuliano Hreglich, già incontrato nelle pagine<br />

precedenti, era il figlio del rappresentante della società di navigazione in<br />

Australia. La collaborazione divenne anche l’avvio di un’amicizia.<br />

Lasciata Bonegilla e ricongiuntomi con la famiglia a Melbourne, dopo un anno e mezzo<br />

potevamo già tracciare un bilancio positivo dell’esperienza migratoria, con 4 stipendi e<br />

una discreta esistenza - la considerazione di Marcuzzi.<br />

Intorno agli anni sessanta arrivò l’Alitalia, che fece un po’ razzia degli impiegati<br />

della flotta Lauro e del Lloyd Triestino. Vista la sua ormai collaudata esperienza<br />

nel settore viaggi, Giorgio venne richiesto <strong>dalla</strong> Compagnia, che lo portò<br />

a Sydney.<br />

Ora dovrebbe essere in pensione, ma essendo sempre interessato a fare qualco-<br />

122


sa, per un amico che ha un’agenzia di viaggio, organizza dei gruppi turistici di<br />

Australiani attirati dal conoscere l’Italia e l’italiano.<br />

Sposato con una polesana che ha vissuto più o meno la stessa odissea, ha provato<br />

molta tristezza nel rivedere Zara - racconta. Bombardata per larga parte, è<br />

stata ricostruita e non è più come la conoscevo io. La gente è stata importata al 90% da<br />

Serbia, Croazia, Montenegro, Macedonia, perché la città è stata praticamente svuotata<br />

degli Zaratini che se ne sono andati via... Per cui la gente è differente, l’architettura è<br />

differente... Ora noi siamo tutti dei grandi nostalgici, abbiamo i giornalini che ci<br />

mostrano la Calle Larga, la Riva Nova, e come eravamo una volta... Quello che è adesso<br />

è tutto differente.<br />

A Melbourne sono rimaste le sue sorelle. È stato possibile avere un colloquio<br />

con LILIANA, ora MARCUZZI DEL PORTO.<br />

Si sposò infatti con il ragazzo, che lavorava per l’IRO, di cui si innamorò a<br />

Bagnoli, mentre aspettava l’imbarco per l’Australia. Se la vuoi sposare - gli disse<br />

allora mamma Marcuzzi - devi raggiungerla in Australia. Fu presa in parola, e a<br />

Melbourne si sposarono nella chiesa di St. Patrick. Ritornarono in Italia con<br />

l’Angelina Lauro e a Napoli, dove il marito lavorò per la NATO, nacquero quattro<br />

figli. Dal ‘66 di nuovo in Australia, ora è nonna di otto nipoti.<br />

LA TRAVERSATA SULLA SKAUBRYN<br />

Il trasporto degli esuli verso l’Australia, attraverso l’IRO, rientrava in un programma<br />

internazionale che coinvolgeva anche i profughi dell’Europa centro<br />

orientale. Oltre ad una dislocazione ad ampio raggio dei porti d’imbarco e alla<br />

conseguente sosta d’attesa in diversi campi profughi, comportava anche il<br />

noleggio di navi già molto sfruttate nel periodo bellico per il trasporto delle<br />

truppe alleate. Fra queste la Skaubryn, vecchia Libertyship americana, che<br />

navigava nel dopoguerra sotto bandiera norvegese.<br />

Accomunate anche dal ricordo di quella carretta, le tre prossime testimonianze.<br />

ANTONIO BONICIOLLI<br />

In Australia dal 1951, con la sua famiglia abbandonò Zara alla vigilia di Natale<br />

del ‘43 sulla nave Sansego. Era piccolo, aveva solo sette anni quando la lasciò,<br />

eppure ricorda praticamente tutto della sua città: dove vivevano i nonni, gli zii,<br />

la casa davanti al Duomo, l’ultima abitazione in calle del Cristo in un bell’appartamento<br />

a due piani, la scuola Cippico, il negozio dove la mamma lo portava<br />

a comperare i giocattoli, il bar dove il papà giocava a carte e lui andava a seccarlo<br />

123


per avere qualche soldo e poter comprare una pastina... La mamma era casalinga<br />

ed il papà navigava.<br />

I bombardamenti in quei giorni avevano già causato molte perdite nella sua<br />

famiglia. Si andava a dormire vestiti, pronti a scappare nei rifugi o <strong>fuori</strong> Zara - il suo<br />

racconto. Finchè arrivò il momento in cui si dovette scappare una volta per sempre.<br />

Noi veramente speravamo di ritornare, perciò siamo partiti con pochissima roba, giusto<br />

una valigia. Prima di lasciare la casa, la mamma tolse i lampadari, perché i bombardamenti<br />

non li danneggiassero, li avvolse nelle lenzuola sistemandoli sotto il tavolo<br />

della cucina, del salotto. Chiuse la porta di casa e si allontanò, con la chiave in tasca,<br />

sicura di poter tornare. ...In seguito apprendemmo che la nostra casa era stata bombardata<br />

e distrutta completamente.<br />

Cominciò la lunga serie di peregrinazioni: Trieste, Valstagna in provincia di<br />

Vicenza, Venezia. Bisognava arrangiarsi per sopravvivere e così il papà, da una<br />

normale esistenza lavorativa, passò ad una vita di improvvisazioni. Ad esempio<br />

andava in bicicletta da Valstagna a Trieste per barattare il tabacco con il sale, che<br />

serviva ai contadini.<br />

Nel dopoguerra si ritrovarono sistemati alla scuola Giacinto Gallina di Venezia,<br />

trasformata in campo profughi. Coperte appese dividevano gli spazi assegnati<br />

alle tante famiglie accolte nei cameroni. Bisognava decidere cosa fare della pro-<br />

Ragazzi nella piscina della Skaubryn.<br />

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pria vita. Antonio era in collegio. Un giorno ricevette la visita del padre. Guarda<br />

che domani partiamo. - Per dove? - Per l’Australia. Il Paese compariva nell’ultima<br />

pagina del suo libro di geografia, c’erano la testa di un aborigeno e delle canne<br />

da zucchero. Il papà c’era stato nel ‘47, quando aveva ripreso a navigare, con<br />

l’Adriatica. Ma gli imbarchi, alternati a periodi di sbarco troppo lunghi, non si<br />

erano dimostrati un sostegno economico sufficiente. Non c’erano sbocchi, mentre<br />

eravamo a Venezia non si parlava di case per noi profughi, solo di campi, dove vivere<br />

tutta la vita. Appena dopo la nostra partenza, hanno cominciato ad assegnare gli<br />

appartamenti a Marghera.<br />

Prima dell’imbarco sulla Skaubryn, ci furono le soste nei campi profughi di<br />

Bagnoli e di Bremen. Anche il viaggio fu un’avventura: La nave stava insieme per<br />

miracolo. Prima o dopo siamo stati tutti male, perché ci davano da mangiare pesce<br />

crudo, salsicce e, in genere, piatti norvegesi. Noi stavamo un po’ meglio perché papà l’avevano<br />

messo a lavorare in cucina. C’erano tanti ragazzini a bordo, io avevo quindici<br />

anni. Giocavamo e ci divertivamo. Ma se c’era burrasca, addirittura ci legavano con<br />

le corde, specie in prossimità dell’Australia.<br />

Iniziava la primavera australiana quando giunsero a Melbourne. A Bonegilla<br />

arrivarono verso le undici di sera. Tutto buio, la baracca tre metri per due e<br />

mezzo, era completamente vuota. Non c’era luce elettrica; vennero distribuite<br />

delle candele assieme a dei grandi sacchi. Riempiti con paglia e fieno, furono i<br />

giacigli sul pavimento per la famiglia Boniciolli, genitori, due figli ed una figlia.<br />

Mia madre non faceva altro che piangere, voleva tornare in Italia. Ma dove? In un<br />

altro campo?... E allora siamo dovuti rimanere. I genitori non riuscivano a staccarsi<br />

dalle loro memorie. Ti ricordi quando ti portavamo sulla Riva Nova a passeggiare?<br />

Quando il pallone cadde in acqua e qualcuno si tuffò per recuperarlo?<br />

Il papà aveva un contratto con le Ferrovie Statali del New South Wales e dopo<br />

cinque mesi fu mandato a Sydney in un campo di lavoro a Leichhardt. Il resto<br />

della famiglia venne portato a Cowra, comprensorio a 400 chilometri da Sydney<br />

dove, durante la guerra, erano stati rinchiusi prigionieri giapponesi. All’epoca era<br />

stato teatro di un fallito tentativo di evasione, con molti morti fra i detenuti (<strong>dalla</strong><br />

vicenda venne anche tratto un film). Da lì, i ragazzi con la madre furono ancora<br />

trasferiti a Greta. Antonio provò a frequentare la scuola, ma il tentativo durò una<br />

settimana. Non conoscendo l’inglese, venne assegnato ad una classe di bambini<br />

molto più piccoli di lui. Decise allora di andare a lavorare. Nelle ferrovie, a scaldare<br />

bulloni, per due sterline e mezza; una e mezza andava per l’affitto di una<br />

camera, una doveva bastare per vivere. Non aveva neanche sedici anni.<br />

Con l’aiuto di uno zaratino trovò lavoro in una fabbrica di legno compensato, di<br />

proprietà di ebrei inglesi. Applicandosi con l’impegno di un adulto, potè anche<br />

pretendere adeguato salario: 9 sterline la settimana, quando suo padre ne prendeva<br />

7. Venne però la crisi occupazionale del ‘52, che causò molti licenziamen-<br />

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ti. Tony potè rimanere nella ditta come guardiano notturno; avrebbe ripreso in<br />

seguito a lucidare il compensato, però come cottimista.<br />

In quel frangente ricominciò ad abitare con madre e fratelli nel campo di<br />

Chullora. Nuovo indirizzo, un po’ di più spazio a disposizione, ma disagi più o<br />

meno sempre gli stessi. Le donne facevano la fila alle due di notte per riuscire<br />

ad accedere alla lavanderia per fare il bucato. Per un vitto migliore, la mamma<br />

cucinava su due fornellini a petrolio. Per raggiungere il posto di lavoro si doveva<br />

salire sul tram alle quattro del mattino. Capitò un giorno che sul mezzo di trasporto<br />

Antonio fosse intento a leggere La Fiamma, il giornale italiano di<br />

Sydney. Gli si affiancò un’aborigena che, strappatogli il foglio dalle mani, lo usò<br />

per schiaffeggiarlo, chiamandolo Mussolini Hitler. Frastornato, scese e andò a<br />

lavorare a piedi.<br />

Come già considerato, non erano tempi facili per gli emigranti. Il sabato sera, ai<br />

balli del Trocadero, sempre a Sydney, bisognava stare vigili. I nativi li provocavano,<br />

mentre la polizia era solita fermare per controllo “i nuovi australiani”. La<br />

cosa spinse Aldo Lorenzutta, un fiumano, a diventare poliziotto per riuscire a<br />

fermare quell’ingiustizia. Diventato Super Intendant, poliziotto nel comando di<br />

Liverpool (Sydney), ha lavorato nel servizio d’ordine in occasione della visita in<br />

Australia del Papa e del nostro presidente della Repubblica.<br />

La squadra della Julia a Sydney.<br />

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Problemi razziali si presentavano anche in occasione degli incontri di calcio.<br />

Quando la Julia giocava contro gli australiani, appena qualcuno della formazione<br />

italiana apriva bocca, l’arbitro lo espelleva. E ogni volta erano botte.<br />

Andò meglio con la fondazione del Diadora Sport & Social Club, promotore di<br />

importanti campionati, in cui le squadre portacolori dell’Italia riuscirono più<br />

volte a superare con successo il confronto con gli Australiani. Boniciolli si distinse<br />

particolarmente nel tennis.<br />

Anche in questa <strong>storia</strong>, le tormentate pagine introduttive al capitolo australiano<br />

si contrappongono a quelle dell’odierna realtà. Sposato con una signora di origini<br />

pugliesi - che però ha imparato il nostro dialetto - Tony attualmente opera<br />

nel ramo importazione e distribuzione di bibite, vini e liquori. La sorella, nell’ambito<br />

della sua collaborazione con l’ambasciata italiana in Australia, ha lavorato<br />

fra l’altro presso i nostri consolati in Cina e Vietnam. Il fratello si è affermato<br />

nel settore della ristorazione.<br />

Nota dolente fu la prematura scomparsa del papà, mancato nel ‘65 per un male<br />

inguaribile, dopo che aveva da poco lasciato le ferrovie per un lavoro in fabbrica<br />

vicino alla casa, che finalmente si era riuscito a costruire.<br />

A vent’anni dall’arrivo in Australia, ci fu il primo rientro di Tony a Zara. E con<br />

risvolti un po’ misteriosi. Aveva vinto un concorso vendite per la Stock, allora<br />

positiva presenza commerciale in Australia. Il premio consisteva in un viaggio<br />

di tre mesi intorno al mondo. Programmata una visita alla città natale, ad<br />

Ancona s’imbarcò con la moglie sul traghetto per Zara. All’arrivo, per qualche<br />

ora fu trattenuto a bordo <strong>dalla</strong> polizia di frontiera per una disputa verbale sul suo<br />

luogo di nascita: per Tony, Zara - Italia, come da passaporto australiano, Zadar -<br />

Jugoslavia per le autorità portuali. Queste alla fine accettarono il contenuto del<br />

documento, passando però a chiedere notizie del padre, di cui dubitavano l’avvenuto<br />

decesso. Una volta finalmente scesi a terra, Tony venne affiancato da un<br />

signore molto anziano che, spacciatosi per facchino in nome di un’asserita vecchia<br />

amicizia con il papà, bisbigliando lo consigliò di non trattenersi.<br />

Tutto appariva molto strano, considerato il fatto che Boniciolli aveva lasciato la<br />

città a sette anni. Volle almeno dare un saluto ai propri defunti, con una visita<br />

al camposanto. Si accorse però che ad ogni suo passo sulla ghiaia faceva eco il<br />

rumore di un altro alle sue spalle: intravvide due personaggi dall’aspetto un po’<br />

da segugio - bavero alzato, cappello, nonostante la bella stagione - che già l’avevano<br />

incuriosito a bordo del traghetto. Capì di essere inspiegabilmente pedinato,<br />

e preferì ripartire.<br />

Negli anni successivi ritornò ancora a Zara - tre volte - e andò tutto meglio.<br />

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Innumerevoli sono ancora le storie come quelle incontrate, sparse per l’Australia.<br />

<strong>Storie</strong> che sembrano romanzo e che sono solo rimaste <strong>fuori</strong> <strong>dalla</strong> <strong>storia</strong>, con<br />

pudore e dignità.<br />

Quanti partirono, quanti sono adesso? I numeri riguardano le statistiche, non<br />

interessano le emozioni contenute in così tante storie, poco conosciute, forse<br />

addirittura ignorate.<br />

Sono molti, sono assenti da casa loro, spesso cancellati come mai esistiti: qualcuno<br />

ha potuto scegliere, qualcuno ha dovuto.

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