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Guerra di liberazione - Fondazione Cassa di Risparmio di Fano

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IV<br />

GUERRA DI LIBERAZIONE


ERA NECESSARIO “UN POSTO AL SOLE”?<br />

Non entro nel grave attualissimo tema della denatalità europea: penso<br />

invece con ironia ad Hitler che coltivava il mito della razza pura mentre<br />

ora, in Germania, ci sono più <strong>di</strong> tre milioni <strong>di</strong> turchi..! È proprio<br />

vero che a volte la storia fa matte risate sulle nostre trovate, e chissà<br />

quante ancora ne farà! A scuola (rivado nei lontani tempi della mia<br />

adolescenza) non s’insegnava e nemmeno si accennava al culto della<br />

libertà, ma si esaltavano quelli del nazionalismo e della forza. Si <strong>di</strong>ceva<br />

e si ripeteva, al canto <strong>di</strong> “Giovinezza” (parole <strong>di</strong> Salvatore Gotta)<br />

“molti nemici, molto onore”. Vecchio vizio se trovo che ad<strong>di</strong>rittura nel<br />

1896 il buon Cesare Selvelli (poi ingegnere) ce l’aveva a morte con<br />

Menelik e in alcune strofette “garibal<strong>di</strong>ne” gli dava del boia, dell’assassino,<br />

del birbaccione. Ricordo la guerra contro l’Abissinia (1935) e<br />

mi chiedo che cosa mai ci aveva fatto il Negus Neghesti (re dei re) Ailé<br />

Selassié. Me lo sono chiesto in ritardo, ma allora erano gli anni del<br />

“consenso” al fascismo e gl’italiani, troppi, molti, avevano abbassato<br />

la testa, obbedendo al Duce. A scuola e per ogni dove ci veniva detto<br />

che avevamo bisogno <strong>di</strong> “un posto al sole” perché nella penisola eravamo<br />

in troppi e non c’era lavoro per tutti. Gli studenti si mostravano<br />

particolarmente sensibili al richiamo del Capo e lo mostravano facendo<br />

gran<strong>di</strong> “<strong>di</strong>mostrazioni”; da noi a <strong>Fano</strong> era così, cantando, oltre a<br />

“Giovinezza”, “L’inno <strong>di</strong> Roma” (che era stato musicato da Giacomo<br />

Puccini) e dando anche saggio del “passo romano” che, benché copiato<br />

dal tedesco “passo dell’oca”, serviva o doveva servire a dare vigore,<br />

a coltivare sogni <strong>di</strong> gloria.<br />

Le <strong>di</strong>mostrazioni non erano preparate con la cartolina precetto, bastava<br />

passare la voce e spesso nel pomeriggio, con la banda del 94° fanteria<br />

in testa, gli studenti sfilavano per il Corso o in Piazza ripetendo<br />

lo slogan infame che il giornalista Mario Appelius lanciava dalla ra<strong>di</strong>o:<br />

“Dio stramale<strong>di</strong>ca gli inglesi!”. Ricordo che in una <strong>di</strong> quelle <strong>di</strong>mostrazioni<br />

un cartello illustrato mostrava un balilla che faceva la pipì nella<br />

bocca aperta del Negus, ma soprattutto ho in mente qualche strofetta<br />

allora in voga: “Caro Negus se permetti/ in Italia stiamo stretti/ allun-<br />

203


gheremo lo stivale/ fino all’Africa Orientale”. E poi ricordo: “Con la<br />

barba del Negus ci farem gli spazzolini/ ci pulirem le scarpe al Re e a<br />

Mussolini”.<br />

Quando Dio vuol perdere una persona la fa impazzire, ma il <strong>di</strong>avolo<br />

più lieve (come argutamente nota Salvatore Satta) la fa ridere e la fa<br />

<strong>di</strong>ventare ri<strong>di</strong>cola.<br />

E noi ridevamo molto, il <strong>di</strong>avolo era con noi, vittime predestinate non<br />

capivamo nulla del <strong>di</strong>svalore che il regime ci propinava. Chi riusciva a<br />

capirlo (ma erano troppo pochi) finiva in prigione o al confino. E il<br />

posto al sole? Fu una favola breve con brutta fine.<br />

2004<br />

204


LA VISITA DI MUSSOLINI E DI UMBERTO DI SAVOIA<br />

Ogni tanto a <strong>Fano</strong> qualche istituzione “chiude”: dove andremo a finire<br />

<strong>di</strong> questo passo?<br />

Questa volta è toccato alla caserma Paolini che, in un primo tempo in<br />

memoria <strong>di</strong> un grande soldato fanese del ‘600, avrebbe dovuto chiamarsi<br />

“caserma Palazzi”. Ma lasciamo stare la storia, altri l’hanno già<br />

raccontata o la racconteranno. Qualcosa che non si sa è forse meno<br />

importante, ma più stuzzicante.<br />

Nel <strong>di</strong>cembre 1943, mentre la caserma ospitava reparti locali della<br />

RSI, con molti antifascisti, la caserma Paolini doveva andare a fuoco.<br />

L’incen<strong>di</strong>o doveva cominciare (forse era una ingenuità) dal piano alto<br />

che dà sulla via Bixio. Benzina e zolfo dovevano essere l’esca; poi ci<br />

sarebbe stato chi avrebbe creato panico e confusione. Però avvenne<br />

l’imprevisto: la persona che doveva fornire benzina e zolfo fu colta da<br />

grave malore per un’ulcera perforata: portata all’ospedale, rimandò a<br />

tempi migliori l’impresa, mentre una decina <strong>di</strong> “congiurati” (che passarono<br />

poi tutti nelle file partigiane) aspettava con ansia e, <strong>di</strong>ciamolo<br />

senza falso pudore, con un po’ <strong>di</strong> paura, <strong>di</strong> dare inizio all’azione che<br />

non si sa come sarebbe andata a finire.<br />

La caserma Paolini nella primavera del 1944 subì un attacco nel tardo<br />

pomeriggio: due partigiani lanciarono ognuno una bomba a mano<br />

sopra il cancello <strong>di</strong> via Negusanti. Lì vicino stazionavano reparti della<br />

RSI. Le bombe, per caso, toccarono terra insieme; sì parlò <strong>di</strong> un tiro <strong>di</strong><br />

mortaio, poiché lo scoppio fu grande e fu vasto il raggio delle schegge.<br />

Tre<strong>di</strong>ci soldati della Repubblica furono feriti: uno, abbastanza gravemente.<br />

Il giorno dopo, fasciati e incerottati, li fecero sfilare lungo il<br />

Corso affinché tutti si rendessero conto della stoffa del “terrorismo”<br />

locale. Fu, non c’è dubbio, un episo<strong>di</strong>o <strong>di</strong> guerra civile! Il fatto grave<br />

è che nessuno pensava a proteggere la caserma nella parte esterna.<br />

Mi piace ricordare però due scene ine<strong>di</strong>te <strong>di</strong> tutt’altra natura e <strong>di</strong> tutt’altra<br />

data.<br />

Un giorno, all’ultimo momento, si seppe che Mussolini avrebbe visitato<br />

la caserma che ospitava, come sappiamo, la Scuola Allievi<br />

205


Ufficiali <strong>di</strong> fanteria e fu allora che ripeté il monito, poi scritto a gran<strong>di</strong><br />

lettere nel cortile della caserma stessa: “Coraggio, ar<strong>di</strong>mento, sacrificio<br />

e, se necessario, il combattimento”. Fatto sta che tutti si dettero<br />

da fare per mettere ancor più a posto l’ingresso, sempre ben tenuto.<br />

Quando Mussolini arrivò il colonnello comandante (mi pare Ronco)<br />

era nel cortile con una carriola a raccogliere le foglie. A un tratto si<br />

vide davanti Mussolini che, <strong>di</strong>smessa ogni solennità, “Ma bravo - gli<br />

<strong>di</strong>sse - proprio bravo!!”.<br />

Un’altra volta la Scuola Allievi fu visitata dal principe <strong>di</strong> Piemonte (el<br />

principìn) Umberto <strong>di</strong> Savoia. Quando si sparse la voce che Umberto<br />

era in caserma un foltissimo gruppo <strong>di</strong> persone (c’ero anch’io) si assiepò<br />

fuori della caserma per “vederlo”. Finalmente Umberto si affacciò<br />

alla finestra del portone principale e allora la gente, oltre a battere le<br />

mani, lo salutò gridando a più non posso: "Du-ce, Du-ce!!!". Ve l’immaginate<br />

la faccia <strong>di</strong> Umberto?<br />

2000<br />

206


STORIE O STORIELLE DI CASA NOSTRA<br />

Ormai sono passati sessantatre anni. Quel giorno, nel tratto <strong>di</strong> strada<br />

fra via Giordano Bruno e Borgo Cavour mi apparve proprio lui,<br />

Mussolini col gran faccione giallo incastrato fra sahariana e berretto<br />

bianchi. Proveniva dal campo d’aviazione dove era stato ossequiato<br />

dalle autorità.<br />

I fanesi applau<strong>di</strong>vano e lui sorrideva: l’aver da poco <strong>di</strong>chiarato guerra<br />

a Francia e Inghilterra e ricevere tanti applausi dai citta<strong>di</strong>ni <strong>di</strong> Fanum<br />

Fortunae doveva sembrargli <strong>di</strong> buon augurio, e lui ne aveva tanto bisogno.<br />

C’erano molti, e non tutti giovanissimi, che per ben fissare in mente<br />

quel volto atteggiato a fierezza e paternalismo correvano a per<strong>di</strong>fiato<br />

<strong>di</strong>etro la Mercedes che, veloce, andava su per il Corso rimasto sgombro<br />

da capi <strong>di</strong> stato o <strong>di</strong> governo dal maggio 1857 quando Pio IX scarrozzò<br />

per la nostra città che, solo tre anni dopo, gli avrebbe voltato le<br />

spalle per re Vittorio Emanuele. A Benito, transitante per il Corso nell’estate<br />

del 1940, capitò <strong>di</strong> peggio tre anni dopo. A lui quel giorno non<br />

gettarono petali <strong>di</strong> rose come a Pio IX; anzi venne giù da una finestra<br />

del “Gafòn”, poco prima <strong>di</strong> arrivare al Caffè Centrale, un bel mazzo <strong>di</strong><br />

fiori ancora tutto ben legato: gli passò a un palmo dalla visiera!<br />

Maragno, il segretario politico (è inutile aggiungere che c’era solo<br />

quello fascista) detto bonariamente “Cinq e tre òtt” per via del suo<br />

clau<strong>di</strong>care dovuto ad una mutilazione <strong>di</strong> guerra, impallidì: forse<br />

sospettò un attentato; caspita potevano colpirgli la testa! Quel segretario<br />

politico era noto per essere perpetuamente in lotta con la lingua italiana.<br />

Una volta, dal balcone della Casa del fascio in Piazza XX<br />

Settembre, aveva lanciato tuoni e fulmini contro gli “anglofilini e francofilini”.<br />

Più tar<strong>di</strong>, dopo la <strong>di</strong>chiarazione <strong>di</strong> guerra agli Stati Uniti,<br />

<strong>di</strong>sse con incrollabile fede: “Abbiamo messo a pecorone la Grecia, ci<br />

metteremo anche l’America!”. Tuttavia, benché ispirato come<br />

Nostradamus, fece piuttosto cilecca nel suo profetare osceno.<br />

Nelle popolaresche storie citta<strong>di</strong>ne quel segretario politico era ricordato<br />

quale vittima <strong>di</strong> ignoti ladruncoli che nottetempo gli ripulirono il<br />

207


pollaio, tralasciando per ironico sfregio un gracile striminzito galletto<br />

al collo del quale appesero un militaresco cartoncino con la scritta<br />

“rivi<strong>di</strong>bile”. Era il tempo del riso amaro.<br />

Intanto Lui, quel giorno dell’estate 1940, proseguì verso Pesaro inseguito<br />

dal martellante “du-ce, du-ce”. Eh, sì, purtroppo parecchi fanesi<br />

l’avevano facile quel verso. Ricordo (l’ho già scritto qualche anno fa)<br />

che quando il principe Umberto <strong>di</strong> Savoia venne a visitare la scuola<br />

allievi ufficiali e si affacciò alla finestra centrale del Casermone la<br />

gente da sotto gli gridava: “du-ce, du-ce”. Ve l’immaginate la sua faccia?<br />

Questi fanesi, questi fanesi!<br />

2003<br />

208


HANNO AMMAZZATO DUE RAGAZZI<br />

Benché pieno <strong>di</strong> <strong>di</strong>fetti e <strong>di</strong> omissioni anche gravi (certi vuoti per fortuna<br />

sono stati colmati dalle pagine <strong>di</strong> Gastone Mazzanti “Dalle vie del<br />

cielo a quelle della città”) è sempre interessante leggere qualche pagina<br />

<strong>di</strong> cronaca fanese della seconda guerra mon<strong>di</strong>ale nel libro <strong>di</strong><br />

Giuseppe Perugini, oggi introvabile.<br />

A pag. 73 del Perugini si legge: “oggi 23 settembre (del 1943 n.d.r.) si<br />

ha a <strong>Fano</strong> il primo fatto <strong>di</strong> sangue. Un soldato tedesco <strong>di</strong> guar<strong>di</strong>a alla<br />

caserma Sant’Agostino (in effetti, si trattava <strong>di</strong> un accantonamento<br />

ricavato dall’Esercito Italiano in un’ala del seminario vescovile, n.d.r.)<br />

è alle prese con dei ragazzi che non vogliono tenersi lontani dalla sentinella;<br />

la guar<strong>di</strong>a tedesca minaccia <strong>di</strong> sparare, poi spara con lo scopo<br />

<strong>di</strong> spaventare e allontanare i ragazzi, che continuano a far ressa sulla<br />

porta della caserma”.<br />

In seguito il Perugini, che non era fra i testimoni oculari della trage<strong>di</strong>a,<br />

freddamente e un po’ <strong>di</strong>strattamente aggiunge: “Com’è, come non è,<br />

forse l’intenzione del soldato era <strong>di</strong> sparare in alto, ma i colpi sono partiti<br />

in anticipo ed hanno colpito tre ragazzi, due dei quali mortalmente:<br />

Renata Marconi <strong>di</strong> anni 14 e Temistocle Paolini <strong>di</strong> anni 8”. Qui finisce<br />

l’asciutta narrazione del Perugini sulla occupazione tedesca della<br />

“Sant’Agostino”. La sua annotazione ha solo un carattere burocratico;<br />

ma il fatto, a ben pensarci, ha un valore emblematico ben <strong>di</strong>verso. I due<br />

ragazzi poco dopo morirono tra la <strong>di</strong>sperazione attonita dei parenti e<br />

degli amici. La città, come già il Perugini, non si scosse più <strong>di</strong> tanto.<br />

La guerra aveva indurito gli animi, la paura li aveva crocifissi; non ci<br />

furono né atti <strong>di</strong> ribellione contro gli occupanti tedeschi né proteste<br />

clamorose. I due ragazzi, innocenti, erano andati verso la caserma <strong>di</strong><br />

Sant’Agostino <strong>di</strong>etro l’esempio degli adulti che in quei giorni tumultuosi<br />

del settembre 1943 avevano fatto man bassa <strong>di</strong> quanto avevano<br />

trovato nella caserma più importante della città; vogliamo <strong>di</strong>re la caserma<br />

“Paolini” dalla quale, però, non fu sottratto nemmeno un fucile.<br />

Quei due poveri ragazzi erano davanti alla caserma <strong>di</strong> Sant’Agostino<br />

sperando <strong>di</strong> trovare un po’ <strong>di</strong> cibo o qualcos’altro che fosse <strong>di</strong> sollievo<br />

209


alle dure privazioni della guerra; invece trovarono ingiusta e crudele<br />

morte.<br />

Il duplice omici<strong>di</strong>o risulta solo dai certificati necroscopici. Non erano<br />

partigiani, non erano eroi: quasi tutti si <strong>di</strong>menticarono della loro assurda<br />

morte, come se si fosse trattato <strong>di</strong> un gioco.<br />

Sarebbe bene che per ricordare il fatto e tramandarlo alla memoria dei<br />

posteri il Comune <strong>di</strong> <strong>Fano</strong> ponesse sul posto una lapide che fosse <strong>di</strong><br />

ammonimento e insegnasse il giusto orrore che la guerra, la violenza e<br />

la poca stima dell’altrui vita possono generare.<br />

2001<br />

210


IL BOMBARDAMENTO DEL 17 APRILE 1944<br />

Nell’aprile 1944 <strong>Fano</strong> subì ventun incursioni <strong>di</strong> aerei alleati: naturalmente<br />

e purtroppo ci furono morti e feriti fra i civili. Oltre ai ponti sul<br />

Metauro gli alleati avevano preso <strong>di</strong> mira la stazione ferroviaria che nei<br />

loro rapporti (è fonte documentatissima il libro <strong>di</strong> Gastone Mazzanti<br />

“Dalle vie del cielo a quelle della città”) chiamavano “scalo ferroviario”.<br />

Gravissimo il bombardamento del 17 aprile. Sessant’anni fa le bombe<br />

sganciate da do<strong>di</strong>ci aerei Marauders sudafricani scortati da sei<br />

Spitfires (i famosi Sputafuoco) colpirono duramente Via Nolfi. Gli<br />

e<strong>di</strong>fici centrati dalle bombe sono ora scomparsi e sostituiti da nuove<br />

costruzioni. Furono allora colpiti: La filanda Solazzi, la vecchia sede<br />

delle Maestre Pie Venerini, la farmacia S. Elena aggregata all’Istituto<br />

tecnico commerciale (ex ospedale <strong>di</strong> S. Croce) che poi verrà totalmente<br />

spianato in un successivo bombardamento, il portico e la chiesa <strong>di</strong><br />

S. Croce. Fu colpita anche la chiesa <strong>di</strong> S. Agostino che non crollò del<br />

tutto ma vide invece crollare il soffitto reso famoso da una prospettiva<br />

secentesca del fanese Giovanni Battista Manzi (già attribuita a<br />

Francesco da Bibiena) raffigurante S. Agostino in gloria.<br />

Non so se nella stessa occasione dalle bombe fu provocato uno squarcio<br />

nelle mura malatestiano-pontificie, soprastanti la linea ferrata, che<br />

mise in luce, come scrisse il Selvelli, “un paramento secolare in grossolano<br />

opus reticulatum” (sic!), muro <strong>di</strong> origine romana del quale successivamente,<br />

riparando le mura, il geom. Menegoni del Genio Civile<br />

ebbe la felice idea <strong>di</strong> lasciare scoperto un breve tratto.<br />

2004<br />

211


ALFREDO PIZZONI CHI ERA COSTUI?<br />

LA RESISTENZA CENSURATA<br />

Nel 1993 e nel 1994 su pubblicazioni cattoliche si parlò del “caso<br />

Pizzoni”, ma l’argomento fu notato da pochi e fu rimosso: invece era<br />

importante.<br />

Alfredo Pizzoni, morto nel 1957 a 63 anni, fu il Presidente del<br />

Comitato <strong>di</strong> Liberazione Nazionale Alta Italia (C.L.N.A.I. ).<br />

Senz’altro un personaggio importante che oltre ad avere il pieno<br />

appoggio del governo nazionale, allora presieduto da Bonomi, godeva<br />

prestigio e fiducia presso gli Alleati sia in U.S.A. sia a Londra: era<br />

ad<strong>di</strong>rittura più gra<strong>di</strong>to, per la sua umiltà, dello stesso De Gaulle.<br />

Tutti sanno che il 25 aprile 1945 in Alta Italia ci fu l’Insurrezione,<br />

pochi sanno che il 27 aprile, due giorni dopo, Pizzoni venne destituito<br />

dal suo incarico e praticamente defraudato del <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> apparire <strong>di</strong><br />

fronte agli italiani e al mondo quale Capo supremo della Resistenza in<br />

Alta Italia (dove la lotta era stata più aspra) e Capo politico della lotta<br />

<strong>di</strong> Liberazione. Al suo posto fu messo l’allora oscuro socialista<br />

Rodolfo Moran<strong>di</strong>.<br />

A chiedere la destituzione <strong>di</strong> Pizzoni furono Sandro Pertini (socialista,<br />

destinato a <strong>di</strong>ventare Presidente della Repubblica), Emilio Sereni e<br />

Luigi Longo (comunisti ) e Leo Valiani (Partito d’Azione ). Achille<br />

Marazza (D.C.) e Giustino Aspesani (Liberale), subirono il colpo “per<br />

mantenere l’unanimismo del C.L.N.A.I.” come poi amaramente scrisse<br />

lo stesso Pizzoni.<br />

Il <strong>di</strong>retto interessato scrisse infatti le sue memorie, ma la famiglia<br />

imprudentemente le consegnò all’e<strong>di</strong>tore Giulio Einau<strong>di</strong>, che ne stampò<br />

poche copie finite quasi tutte in magazzino. La Resistenza doveva<br />

apparire tutta e solo <strong>di</strong> sinistra, invece Pizzoni non “rappresentava nessuno”<br />

perché non era iscritto a nessun partito!<br />

Nelle sue “Memorie” Pizzoni parlava dei rapporti non sempre i<strong>di</strong>lliaci<br />

fra le componenti del Comitato <strong>di</strong> Liberazione e metteva in luce i<br />

sospetti che da sinistra gravavano sugli alleati angloamericani, nonché<br />

le mire della Resistenza slovena su Trieste! Tutte cose che si sapevano:<br />

nulla era segreto. E’ certo che Pizzoni avrebbe <strong>di</strong>feso il confine orien-<br />

212


tale italiano: per questo “non rappresentava nessuno”.<br />

Su <strong>di</strong> lui ora fortunatamente il silenzio è stato rotto da Tommaso Piffer<br />

che ha pubblicato recentemente (Mondadori) “Il banchiere della<br />

Resistenza”. Già <strong>di</strong>menticavamo <strong>di</strong> <strong>di</strong>re che Pizzoni aiutò finanziariamente<br />

la formazione e il mantenimento delle bande partigiane. Su questi<br />

fatti è bene conoscere la verità che non è affatto nemica della democrazia,<br />

siamo anzi convinti che ne sia la vera base morale!<br />

2005<br />

213


II BATTAGLIONE DELLA LIBERAZIONE “FORTES IN FIDE”<br />

Abbiamo avuto occasione <strong>di</strong> parlare, su questo foglio, dello sbandamento<br />

dell’8 settembre 1943 nelle file dell’esercito. In proposito merita<br />

ricordare un episo<strong>di</strong>o che i più non conoscono. Il giorno 9 il Ten.<br />

Col. Giuseppe Cecchini aveva esortato i militari in servizio presso la<br />

Caserma Montevecchio a rimanere uniti. L’appello cadde nel vuoto; la<br />

stessa fine fece l’invito rivolto al Comando del Campo d’Aviazione <strong>di</strong><br />

<strong>Fano</strong> dalla Concentrazione antifascista <strong>di</strong> Pesaro.<br />

Il 16 settembre il Cecchini, uomo <strong>di</strong> profonda fede religiosa, assecondato<br />

da alcuni ufficiali, soldati e civili procedette alla costituzione <strong>di</strong><br />

un reparto, il primo nella provincia, che venne chiamato “Battaglione<br />

della <strong>liberazione</strong> Fortes in Fide”; trasposizione in campo patriottico <strong>di</strong><br />

un motto d’origine ecclesiale sul tipo <strong>di</strong> quelli allora usati dall’Azione<br />

Cattolica. Il reparto si andò organizzando nella zona <strong>di</strong> Mombaroccio,<br />

Monte della Mattera, Monte Marino: poche bombe a mano, due pistole<br />

d’or<strong>di</strong>nanza, alcuni fucili da caccia erano tutto lo sparuto armamento<br />

<strong>di</strong> quegli uomini. In seguito furono ottenute altre armi; ma lo scopo<br />

del Cecchini e dei suoi non era quello <strong>di</strong> passare all’attacco dei tedeschi<br />

o dei militi della RSI (che nel frattempo si andava organizzando)<br />

affrontando le incognite <strong>di</strong> una lotta civile. Lo scopo era quello <strong>di</strong> tenere<br />

in pie<strong>di</strong> un nucleo operativo pronto a collaborare con gli alleati non<br />

appena fossero sbarcati.<br />

Un altro nucleo <strong>di</strong> <strong>di</strong>eci uomini, col tenente Reali, si costituì a Pergola<br />

con lo stesso scopo. È da pensare che anche il citato invito della<br />

Concentrazione antifascista al comandante del campo <strong>di</strong> aviazione<br />

fanese si muovesse nella stessa logica: e cioè <strong>di</strong> mantenere libero il<br />

campo per gli aerei alleati. Proponimenti generosi, come si vede, ma<br />

che nascevano da una superficiale valutazione degli avvenimenti in<br />

corso. Essi denotano come fra molti fosse <strong>di</strong>ffusa la speranza, destinata<br />

a svanire in pochi giorni, <strong>di</strong> una rapida evacuazione dei tedeschi<br />

sotto la spinta del moltiplicarsi <strong>di</strong> sbarchi alleati.<br />

Le mosse del Col. Cecchini, che a fine ottobre <strong>di</strong>sciolse il concentramento<br />

pur rimanendo in contatto con i suoi uomini, non passarono<br />

214


inosservate. Fino al maggio 1944 egli venne ricercato con l’accusa <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>serzione e costituzione <strong>di</strong> banda ribelle. Dal primo rifugio nel<br />

Seminario Regionale passò via via ad altre se<strong>di</strong>. Dopo la <strong>liberazione</strong> fu<br />

nella prima giunta democratica fanese; successivamente aderì al<br />

Partito Cristiano-Sociale dell’on. Bruni.<br />

1993<br />

215


DOPO L’8 SETTEMBRE A FANO<br />

Non inten<strong>di</strong>amo fare tutta la possibile cronaca dei giorni e dei mesi che<br />

seguirono l’8 settembre, ma solo richiamare qualche dato che molti<br />

non conoscono o hanno <strong>di</strong>menticato.<br />

La Concentrazione antifascista <strong>di</strong> Pesaro pubblica sul “Corriere adriatico”<br />

l’11settembre 1943 un or<strong>di</strong>ne del giorno e saluta “l’esercito con<br />

il quale il popolo si stringe in una volontà sola per la <strong>di</strong>fesa della<br />

Patria”. Le cose, però, andarono <strong>di</strong>versamente. Il 14 settembre il<br />

Comando della zona militare <strong>di</strong> Ancona sciolse i reparti stanziati a<br />

<strong>Fano</strong>. Ad evitare future accuse <strong>di</strong> <strong>di</strong>serzione i militari furono inviati in<br />

licenza; nei giorni seguenti i tedeschi occuparono le caserme Paolini e<br />

Montevecchio senza trovare alcuna resistenza.<br />

Il 14 e il 15 settembre c’era stata l’invasione della caserma Paolini,<br />

sede della scuola allievi ufficiali <strong>di</strong> complemento. Furono asportati<br />

materiali e suppellettili, ma non furono prelevate armi o munizioni perché,<br />

si sentiva <strong>di</strong>re, “ormai la guerra è finita”: quello che sarebbe successo<br />

non era immaginabile dai più. E qui è bene ricordare che subito<br />

dopo l’8 settembre molti a <strong>Fano</strong>, come altrove, pensavano con notevole<br />

ingenuità, alimentata anche dalla scarsità delle informazioni sui<br />

tedeschi e sugli alleati, che fosse prossimo uno sbarco degli angloamericani.<br />

Il tenente colonnello Giuseppe Cecchini, del 94° Fanteria,<br />

ad<strong>di</strong>rittura lo ipotizzò fra Ancona e Pesaro e, conseguentemente, operò<br />

clandestinamente in tale ottica organizzando, a partire dal 16 settembre,<br />

un piccolo reparto da lui chiamato “Battaglione della <strong>liberazione</strong><br />

Fortes in Fide”. Tale reparto che avrebbe dovuto unirsi agli alleati non<br />

raggiunse mai la consistenza e la forza <strong>di</strong> un battaglione né condusse<br />

azioni belliche contro i tedeschi: la sua fu solo una testimonianza <strong>di</strong><br />

amor <strong>di</strong> Patria. Non è un <strong>di</strong> più ricordare che Giuseppe Cecchini era<br />

profondamente cattolico.<br />

A <strong>Fano</strong> un <strong>di</strong>staccamento G.A.P. (Gruppo <strong>di</strong> Azione Partigiana) fu formato<br />

con un centinaio <strong>di</strong> uomini solo nell’aprile 1944. L’iniziativa fu<br />

del locale Comitato <strong>di</strong> Liberazione Nazionale presieduto dall’avv.<br />

Enzo Capalozza. Detto Comitato nel periodo clandestino aveva sede<br />

216


permanente poco lontano da Fenile, nella villa Simonetta, messa a <strong>di</strong>sposizione<br />

dal dott. Hageman.<br />

Comandante del <strong>di</strong>staccamento fu Valerio Volpini affiancato da chi<br />

scrive e da Otello Vitali. Era un <strong>di</strong>staccamento “sui generis” perché chi<br />

ne faceva parte (quasi tutti giovani) pur tenendosi pronto ad ogni chiamata,<br />

continuava ad abitare con la propria famiglia. Era strutturato in<br />

sei squadre, forzatamente limitato nell’armamento (qualche partigiano<br />

aveva solo la rivoltella). Si rivelò più adatto a fare opera <strong>di</strong> sabotaggio<br />

e azioni limitate più che a scendere in campo aperto contro i reparti<br />

tedeschi.<br />

Prima del <strong>di</strong>staccamento operavano nel territorio del Comune due<br />

squadre G.A.P. composte da pochi uomini: altri fanesi, come si sa, operarono<br />

nei <strong>di</strong>staccamenti partigiani della zona <strong>di</strong> Cagli-Cantiano; circa<br />

sessanta si arruolarono nell’ottobre 1944 nel Corpo Italiano <strong>di</strong><br />

Liberazione:<br />

Non si hanno dati orientativi sugli effettivi fanesi nell’esercito della<br />

Repubblica Sociale Italiana.<br />

2003<br />

217


UNA PASQUA CLANDESTINA:<br />

A MONTE GIOVE CON VALERIO VOLPINI<br />

Correva la primavera del 1944. Quell’anno la Pasqua era stata “alta”.<br />

Noi <strong>di</strong>sertori dell’esercito della R.S.I e partigiani l’avevamo festeggiata,<br />

come tutti, un po’ in sor<strong>di</strong>na.<br />

Valerio qualche giorno dopo mi <strong>di</strong>sse: “Dobbiamo ‘prendere Pasqua’ e<br />

fare la Comunione”.<br />

Non era un problema; il Seminario Regionale, luogo sicuro per noi, era<br />

lì vicino e ci avrebbe facilmente ospitato per una breve permanenza.<br />

Ma Valerio continuò: “Andremo a Monte Giove, lì ci sono solo i frati<br />

e ci staremo per un giorno intero, così avremo anche modo <strong>di</strong> riflettere<br />

con calma”. Si vede che nel suo animo c’era ancora nostalgia per i<br />

ritiri spirituali tante volte fatti lassù.<br />

Valerio era il comandante del <strong>di</strong>staccamento partigiano fanese, io ero<br />

in qualche modo il suo aiutante: entrambi provenivamo dalla F.U.C.I.,<br />

la Federazione Universitaria Cattolica Italiana. Bene, si decise per<br />

Monte Giove. Per non dare nell’occhio andammo, una mattina <strong>di</strong> buonora,<br />

solo noi due. Le inseparabili biciclette, inservibili da Rosciano in<br />

su (la “costa” per arrivare all’eremo è piuttosto lunga), ci sarebbero<br />

invece state utili per il ritorno e pertanto non ce ne separammo. Mentre<br />

salivamo parlammo a lungo delle nostre responsabilità sia verso chi<br />

faceva parte attiva della Resistenza (un centinaio <strong>di</strong> persone) sia verso<br />

la popolazione, in gran<strong>di</strong>ssima parte sfollata dalla città e sistemata<br />

nelle case e nei villaggi <strong>di</strong> campagna. Era costante preoccupazione <strong>di</strong><br />

Valerio non coinvolgere i civili in atti <strong>di</strong> guerra, evitando quei colpi <strong>di</strong><br />

testa che provocavano da parte tedesca, lo sapevamo da vari racconti,<br />

feroci e selvagge rappresaglie.<br />

Suonammo alla porta dell’eremo; venne ad aprire don Michele, il<br />

padre “cellerario”, cioè l’economo della comunità monastica; ci conosceva<br />

bene e ci accolse con grande affabilità. Spiegammo il perché<br />

della nostra visita; ci portò subito in chiesa e fu lui stesso ad ascoltare<br />

la nostra confessione e a somministrarci la Comunione.<br />

Intanto qualche altro camaldolese, incuriosito, venne e ci propose <strong>di</strong><br />

salire sul campanile; così, per passare un po’ <strong>di</strong> tempo. Salimmo e<br />

218


dopo poco fummo involontari testimoni <strong>di</strong> un bombardamento aereo<br />

dalle parti <strong>di</strong> Pesaro. La città non si vedeva, ma il brontolio degli scoppi<br />

e le dense nuvole <strong>di</strong> fumo che, grigiastre, si alzavano verso il cielo<br />

erano troppo eloquenti: per essere liberi bisognava sopportare i bombardamenti<br />

dei liberatori, che strana guerra!<br />

Con padre Michele parlammo a lungo del fronte che lentamente avanzava<br />

e dell’attesa degli “alleati”. Il buon padre non sospettava che <strong>di</strong> lì<br />

a poco tempo l’eremo (che già custo<strong>di</strong>va preziosi co<strong>di</strong>ci della<br />

Federiciana) sarebbe <strong>di</strong>ventato rifugio per molti, nonché il bersaglio <strong>di</strong><br />

qualche colpo d’artiglieria!<br />

A mezzogiorno ci fu offerto il frugale pranzo a base <strong>di</strong> verdura, poi<br />

ancora padre Michele ci portò nella sua cella per una specie <strong>di</strong> ritiro<br />

spirituale.<br />

Venne il tramonto e noi due prendemmo la via <strong>di</strong> casa. Avevamo “preso<br />

Pasqua” e andavamo sereni incontro al nostro destino che, per grazia<br />

<strong>di</strong> Dio, fu felice. Ma questo lo capimmo in seguito.<br />

2002<br />

219


COME VALERIO DIVENNE UN “ARDITO”<br />

In occasione del conferimento “alla memoria” della “Fortuna d’oro” a<br />

Valerio Volpini sono stato invitato a dare <strong>di</strong> lui una testimonianza. Non<br />

ho esitato ed ho preso uno spunto da un accenno che Valerio (al quale<br />

fui vicinissimo nel tempo della resistenza) fece nella rubrica “Pubblico<br />

e Privato” apparsa per parecchi anni su Famiglia Cristiana. Voglio <strong>di</strong>re<br />

che, senza vantarsi <strong>di</strong> nulla, scrisse <strong>di</strong> aver preso parte alla <strong>liberazione</strong><br />

del Nord militando tra gli ar<strong>di</strong>ti del IX reparto d’Assalto.<br />

Come giunse Valerio, anzi, come giungemmo in quel famoso e focoso<br />

reparto?<br />

Dopo che <strong>Fano</strong> venne liberata nell’agosto 1944 parecchi ex partigiani<br />

erano convinti (altra scelta politica) che una forte presenza italiana<br />

fosse necessaria fra le truppe alleate che avrebbero liberato il molto<br />

che ancora restava in mano nemica. Fu così che dopo aver ben considerato<br />

ogni scelta seguì l’arruolamento volontario nel Corpo Italiano<br />

<strong>di</strong> Liberazione che, nel frattempo, si era articolato in cinque <strong>di</strong>visioni<br />

armate ed equipaggiate dagli alleati. Valerio ed altri fanesi partirono<br />

alla fine <strong>di</strong> ottobre. Da <strong>Fano</strong>, in camion si giunse a Jesi. Qui cominciò<br />

la mala avventura (<strong>di</strong>ciamo così per sfuggire ad ogni tentazione <strong>di</strong> retorica).<br />

Alla stazione ferroviaria ci fecero salire su vagoni-merce su cui<br />

certamente era stato trasportato catrame. Ce n’erano abbondanti inconfon<strong>di</strong>bili<br />

tracce. Lì rimanemmo due giorni prima <strong>di</strong> giungere a Roma<br />

dove fummo fatti salire su un’altra tradotta <strong>di</strong> carri-merce (oh, com’era<br />

ridotta l’Italia!) che a passi <strong>di</strong> lumaca ci portò verso Sud per raggiungere<br />

la zona <strong>di</strong> addestramento. Avemmo occasione <strong>di</strong> vedere l’allucinante<br />

spettrale visione <strong>di</strong> Monte Cassino. Finalmente dopo un<br />

viaggio massacrante fummo portati in un accampamento nei pressi <strong>di</strong><br />

Caserta: era notte ma ugualmente trovammo la possibilità <strong>di</strong> riposare<br />

alla menopeggio ficcandoci nelle tende piene <strong>di</strong> soldati sbandati.<br />

Il giorno dopo fu una vera trage<strong>di</strong>a. Non c’era per noi la colazione:<br />

pazienza, ci arrangiammo alla meglio. Poi, più tar<strong>di</strong>, ci <strong>di</strong>ssero che non<br />

ci avrebbero <strong>di</strong>stribuito nemmeno il rancio perché non c’era, e nessuno<br />

aveva avvertito e provveduto al nostro arrivo.<br />

220


Allora Valerio, vedendo che ci trattavano con noncuranza, se non con<br />

ostilità, si mosse verso la “tenda-comando” per far valere la nostra protesta.<br />

Dietro lui, che ormai era considerato il capo, si misero in molti.<br />

Davanti all’ufficiale responsabile del campo avvenne una scena che è<br />

<strong>di</strong>fficile <strong>di</strong>menticare. Valerio su tutte le furie, urlò e protestò, si strappò<br />

il fazzoletto che teneva al collo, poi, improvvisamente, apparve<br />

nelle sue mani un revolver. Per fortuna fu svelto a <strong>di</strong>sfarsi <strong>di</strong> quell’arma<br />

che certamente avrebbe causato guai a tutti quanti, però continuò<br />

nella sua audace e amara filippica.<br />

L’ufficiale, pallido e sconcertato, gli <strong>di</strong>ede ragione e <strong>di</strong>sse che avrebbe<br />

provveduto subito a farci portare dove ci sarebbe stato per noi tutto<br />

quello che cercavamo. Non aggiunse altro. Però è facile immaginare il<br />

pensiero che gli attraversò la mente: “Questi ex partigiani sono un po’<br />

matti, adesso li sistemo a dovere!”<br />

Vennero poco dopo due camion e ci portarono a S. Angelo sul<br />

Volturno.<br />

Pioveva a <strong>di</strong>rotto. Nessuno <strong>di</strong> noi sapeva che lì c’era una compagnia (la<br />

104 per esattezza ) del battaglione ar<strong>di</strong>ti “Col Moschin”, il IX Reparto<br />

d’assalto. Fu così che, senza aver presentato alcuna richiesta, Valerio e<br />

gli altri si ritrovarono “ar<strong>di</strong>ti”, quasi per scherzo. Bah, non parliamone<br />

più.<br />

Quella compagnia poi schierata al fronte in prima linea partecipò alla<br />

presa <strong>di</strong> Bologna, il 21 aprile 1945. Pochi giorni dopo (la guerra ufficialmente<br />

terminò l’8 maggio ) fu impegnata a Monte Casale, vicino<br />

al Lago <strong>di</strong> Garda, nel combattimento che in Italia fu l’ultimo della II<br />

guerra mon<strong>di</strong>ale. Cinque dei nostri morirono; a pensarci bene ci volle<br />

coraggio e imprudenza nel mettere a repentaglio la propria vita negli<br />

ultimi cinque minuti <strong>di</strong> guerra. Ma andò così, proprio così.<br />

2002<br />

221


1944: I PESCHERECCI AFFONDATI<br />

Nel 1944, alla fine <strong>di</strong> luglio, cominciarono a farsi sentire i cannoni<br />

degli alleati che avanzavano verso il Metauro. Poi, oltre al rombo, arrivarono<br />

i primi proiettili; ma al <strong>di</strong> là del Metauro la sosta dei “liberatori”<br />

fu abbastanza lunga. I pochi tedeschi <strong>di</strong> retroguar<strong>di</strong>a si <strong>di</strong>fesero con<br />

accanimento.<br />

Nel frattempo il locale comando germanico si preparava a compiere a<br />

<strong>Fano</strong> due atti atroci: l’abbattimento dei campanili (ho sempre creduto<br />

che ciò fu fatto per o<strong>di</strong>o contro il Vescovo Del Signore che s’era proposto<br />

come amministratore della città dato che nessun laico si lasciava<br />

convincere ad assumere, come volevano i tedeschi, tale carica) e la<br />

<strong>di</strong>struzione della flottiglia peschereccia.<br />

Come sappiamo, il primo intento purtroppo riuscì; il secondo, per fortuna,<br />

no.<br />

Una foto che mostra i pescherecci affondati nel porto ha fatto concludere<br />

a molti che i marinai stessi affondarono tutte le loro barche per salvarle<br />

dalla totale <strong>di</strong>struzione. Ciò solo in parte è vero.<br />

Alcuni pescherecci furono effettivamente e scientemente affondati da<br />

certi marinai che riuscirono ad eludere la sorveglianza nemica. “Dei<br />

natanti rimasti i tedeschi pensavano <strong>di</strong> fare un gran falò”, così <strong>di</strong>ce il<br />

foglio “Frusaglia” pubblicato a <strong>Fano</strong> il 15 ottobre 1955.<br />

E prosegue: “Tirava un forte vento da est e logicamente bastava appiccare<br />

il fuoco ai pescherecci posti in testa rispetto a quella <strong>di</strong>rezione perché<br />

le fiamme si propagassero alle altre imbarcazioni attraccate in fila<br />

in<strong>di</strong>ana. Il caso volle che proprio al levarsi dei primi bagliori sorgesse<br />

altro vento con <strong>di</strong>rezione del tutto contraria al precedente. Il fuoco rimase<br />

circoscritto e si ebbero a lamentare pochi danni. I tedeschi ricorsero<br />

allora a cariche <strong>di</strong> <strong>di</strong>namite, sicché i pescherecci affondarono ma senza<br />

subire danni irreparabili”.<br />

Dopo la <strong>liberazione</strong> <strong>di</strong> <strong>Fano</strong> i marinai cominciarono, con immensa<br />

fatica, a riportare a galla i natanti incuranti delle risatine che i ru<strong>di</strong>mentali<br />

mezzi a loro <strong>di</strong>sposizione suscitavano fra i soldati alleati i<br />

quali consigliavano <strong>di</strong> rimandare tutto a tempi migliori.<br />

222


L’ebbe vinta la tenacia dei marinai: fatto sta che nel gennaio 1945<br />

parecchi dei pescherecci “affondati” ripresero finalmente il mare.<br />

2003<br />

223


ALL’ALBA DEL 20 AGOSTO A FANO STRAGE DI CAMPANILI<br />

La mattina del 20 agosto 1944, verso le sette, aprii la finestra (ero rifugiato<br />

in una casa colonica a Chiaruccia) e come al solito guardai verso<br />

<strong>Fano</strong>. Per un attimo ebbi la sensazione che la città fosse del tutto scomparsa,<br />

sprofondata. Da quella finestra in mezzo alla campagna mi era<br />

sempre apparsa, fra gli alberi, la sagoma della sommità <strong>di</strong> quasi tutti i<br />

campanili, quello <strong>di</strong> Santa Maria Nuova in particolare; ma quella mattina<br />

avevo davanti solo l’azzurro intenso del cielo: mancavano i “segni<br />

crociati” della città.<br />

All’alba i tedeschi della Wermacht, non le SS, avevano fatto saltare i<br />

campanili più importanti e più belli: quello del Duomo, <strong>di</strong> Santa Maria<br />

Nuova, <strong>di</strong> San Paterniano, <strong>di</strong> Sant’Arcangelo e la torre <strong>di</strong> piazza. Il<br />

giorno dopo la stessa sorte toccò ai minori campanili <strong>di</strong> San Silvestro<br />

e <strong>di</strong> San Domenico (e così furono sette!), ma toccò anche al maschio<br />

della fortezza malatestiana, alla lanterna del porto, alla torretta <strong>di</strong> una<br />

casa privata tra via Froncini e via De Cuppis. Si salvarono i campanili<br />

<strong>di</strong> San Marco e <strong>di</strong> San Francesco <strong>di</strong> Paola (alla stazione).<br />

La cupola <strong>di</strong> San Pietro in Valle scampò non si sa come al <strong>di</strong>sastro; i<br />

tedeschi entrarono in chiesa e si accontentarono <strong>di</strong> sparare colpi <strong>di</strong><br />

pistola e <strong>di</strong> mitra contro i settecenteschi angeli del transetto.<br />

Perché tante rovine e tanto scempio <strong>di</strong> e<strong>di</strong>fici? Ancor oggi qualcuno<br />

pensa che i campanili siano stati abbattuti perché potevano servire da<br />

osservatorio agli alleati. E’ una tesi insostenibile. Dal punto <strong>di</strong> vista<br />

militare poteva essere valida nella prima guerra mon<strong>di</strong>ale, non già nel<br />

1944 nella fase <strong>di</strong> avanzata degli alleati abbondantemente dotati <strong>di</strong><br />

aerei ricognitori che tenevano sotto controllo, notte e giorno, i vari settori<br />

del fronte. Se i tedeschi avessero voluto <strong>di</strong>struggere possibili centri<br />

<strong>di</strong> osservazione avrebbero gettato a terra, fra i primi, i campanili <strong>di</strong><br />

Monte Giove e del Beato Sante, che invece non furono toccati.<br />

Inoltre i campanili e gli altri e<strong>di</strong>fici abbattuti non si trovavano su careggiate<br />

strategicamente importanti e nemmeno in punti <strong>di</strong> svincolo della<br />

città. C’è poi da tener presente che nessuna città delle Marche (tutte<br />

ricche <strong>di</strong> campanili) ebbe a soffrire lo stesso sfregio <strong>di</strong> <strong>Fano</strong>.<br />

224


E allora? Ho dei sospetti sul comandante tedesco della piazza <strong>di</strong> <strong>Fano</strong>,<br />

ten. Eberard Fischer. Nella lettera in<strong>di</strong>rizzata al vescovo per comunicargli<br />

che sarebbero stati abbattuti “cinque” campanili (e <strong>di</strong>sse una<br />

bugia) afferma, genericamente, che l’or<strong>di</strong>ne era venuto da “un comandante<br />

militare superiore”. Ma chi era questo Fischer? Sarebbe interessante<br />

appurarlo perché la <strong>di</strong>struzione dei campanili, con relativo scempio<br />

delle chiese, potrebbe essere un atto <strong>di</strong> barbarie completamente<br />

gratuito. Un modo con cui Fischer <strong>di</strong>mostrò rancore, rabbia e <strong>di</strong>sprezzo<br />

verzo la città, verso la Chiesa e il Vescovo che si era assunto la<br />

responsabilità <strong>di</strong> rappresentare anche civilmente la città, in mancanza<br />

<strong>di</strong> personalità <strong>di</strong>sposte a farsi avanti (chi se la sentiva <strong>di</strong> passare per<br />

“collaborazionista” alla vigilia della <strong>liberazione</strong>?).<br />

Insomma, a <strong>Fano</strong> potrebbe essere toccata la sfortuna <strong>di</strong> avere un<br />

comandante tedesco “antipapista” (non <strong>di</strong>mentichiamo che in<br />

Germania il nazismo non era stato contrastato da molti luterani, ma<br />

prevalentemente dai cattolici) <strong>di</strong>mostratosi particolarmente spietato<br />

nel colpire nei suoi monumenti e soprattutto nelle sue testimonianze<br />

cattoliche una città che, per altro, non aveva compiuto alcuna azione<br />

particolarmente clamorosa o cruenta contro i tedeschi.<br />

1992<br />

225


20 AGOSTO DEL ’44:<br />

IL DUOMO FU COPERTO DI MACERIE<br />

Fra venti giorni (quando questo settimanale sarà chiuso per ferie)<br />

ricorre il 54° anniversario del <strong>di</strong>roccamento a mine del campanile del<br />

Duomo <strong>di</strong> <strong>Fano</strong>.<br />

Si ba<strong>di</strong> che nel 1940 il Vescovo Mons. Del Signore aveva fatto molti e<br />

costosi lavori nella cattedrale per celebrarne l’ottavo centenario della<br />

costruzione.<br />

Dopo quattro anni dovette ricominciare tutto da capo, affrontando problemi<br />

enormi. “Non so - <strong>di</strong>ceva - quanti anni ci vorranno; ma prima <strong>di</strong> morire<br />

voglio rivedere il Duomo a posto!”. E anche questa volta la spuntò.<br />

Ritornando a quel tragico 1944 le cose cominciarono a mettersi male<br />

per la Cattedrale nella notte fra il 15 e il 16 gennaio. Aerei alleati sganciarono<br />

alcune bombe che colpirono non gravemente il tetto. Andarono<br />

in frantumi tutte le nuovissime vetrate comprese le sei, molto belle,<br />

istoriate da Vittorio Menegoni. Crollarono i soffitti <strong>di</strong> alcuni locali<br />

annessi alla sacrestia. Danni più gravi subirono i palazzi posti poco<br />

lontano dal Duomo.<br />

Le funzioni religiose ridotte al minimo furono <strong>di</strong>rottate verso la grande<br />

sacrestia ove si accedeva attraverso un cortile interno evitando la<br />

chiesa. Ed ecco il racconto un po’ sconnesso che delle giornate più tragiche<br />

ha registrato il Cancelliere Vescovile Mons. Agostino Narducci:<br />

“Venne l’or<strong>di</strong>ne tassativo <strong>di</strong> abbandonare la città... Diventarono sempre<br />

più <strong>di</strong>fficili le con<strong>di</strong>zioni con l’avvicinarsi delle azioni guerresche<br />

e coll’inasprimento continuo delle esigenze delle truppe Tedesche che<br />

imposero lavori, requisizioni <strong>di</strong> ogni specie senza alcun riguardo ai<br />

bisogni della popolazione. Non fissiamo qui i soprusi e le ruberie subìte<br />

dalla citta<strong>di</strong>nanza, ma certo le sofferenze furono gravissime e tali<br />

da lasciare il più brutto ricordo. Si può <strong>di</strong>re che i pericoli dei bombardamenti<br />

e delle armi passarono in seconda linea perché superati dalle<br />

malversazioni e prepotenze.<br />

Il giorno 20 agosto, senza preavvisi <strong>di</strong> sorta, anzi dopo una affermazione<br />

della autorità tedesca qui <strong>di</strong> stanza mentre la minaccia <strong>di</strong> atterrare<br />

i campanili della città si supponeva rientrata, potentissime mine<br />

226


fatte esplodere dai guastatori tedeschi fecero saltare il poderoso torrione<br />

detto Torre <strong>di</strong> Belisario su cui era stata innalzata la cella campanaria<br />

e la relativa guglia del campanile del Duomo.<br />

L’esplosione provocò oltre il crollo del campanile, lo sfondamento del<br />

tetto e delle volte della Cattedrale su tutto il presbiterio e navata sinistra<br />

relativa; della prima campata della navata centrale e della sinistra<br />

aderente al presbiterio; il crollo del tetto e volta della Cappella <strong>di</strong> N.<br />

Signora del Sacro Cuore e l’abbattimento del muro perimetrale della<br />

Cappella del Sacramento sino al Battistero. Conseguenza <strong>di</strong> tale inqualificabile<br />

sacrilegio fu anche lo sfondamento e la rovina <strong>di</strong> parte<br />

dell’Episcopio attiguo; il crollo della Sala a<strong>di</strong>bita ad Archivio storico<br />

della Cancelleria; la rovina quasi completa degli e<strong>di</strong>fici civili fiancheggianti<br />

il Duomo per via Rainerio. Le macerie hanno ostruito la<br />

strada pubblica e riempito in proporzioni paurose la Cattedrale. In tali<br />

bruttissime con<strong>di</strong>zioni, al rientrare della popolazione in Città, si dovette<br />

riprendere l’ufficiatura ridotta nell’ambiente della Sagrestia. Rovine<br />

meno ingenti, ma gravissime e deplorevolissime hanno subito in Città<br />

le Chiese <strong>di</strong> S. Paterniano, S. Domenico, S. Maria Nuova, il Santuario<br />

detto della Madonna <strong>di</strong> Piazza delle quali furono pure fatti saltare i<br />

relativi campanili. Tutte sono così rese impraticabili”. Bisogna aggiungere<br />

il campanile <strong>di</strong> S. Arcangelo.<br />

A testimoniare la grossolana bugia dei tedeschi, secondo cui i i campanili<br />

potavano offrire punti <strong>di</strong> osservazione, vale ricordare che gli<br />

unici due campanili con grande vista panoramica, cioè quello <strong>di</strong> Monte<br />

Giove e quello del Beato Sante non furono toccati. Senza contare che<br />

i tedeschi sapevano benissimo che gli alleati per spiare le loro mosse<br />

avevano numerosa aviazione da ricognizione. Vollero fare uno sfregio<br />

al Vescovo, uno sfregio alla Città.<br />

1998<br />

227


IL GIORNO DELLA LIBERAZIONE<br />

Di quella fine d’agosto <strong>di</strong> mezzo secolo fa rivedo tutto, come se fosse<br />

ieri. La città vuota, molte serrande dei negozi sfondate, case sventrate<br />

ai due angoli <strong>di</strong> piazza XX Settembre col Corso, altre sventrate dal<br />

crollo <strong>di</strong> sette campanili e del Maschio della fortezza malatestiana<br />

demoliti a mine; in tutto il Comune i genieri tedeschi avevano fatto saltare<br />

i ponti in muratura, <strong>di</strong> ferro, <strong>di</strong> legno gran<strong>di</strong> e piccoli. La centrale<br />

della Liscia era un mucchio <strong>di</strong> rovine, i moli irriconoscibili, i pescherecci<br />

affondati, la lanterna fatta saltare.<br />

A tutto ciò bisogna aggiungere i danni precedentemente causati dai<br />

bombardamenti alleati con la <strong>di</strong>struzione delle chiese <strong>di</strong> S. Agostino,<br />

Santa Croce, S. Francesco <strong>di</strong> Paola, S. Cristoforo (la vecchia chiesa in<br />

via Petrucci), dell’Istituto Tecnico commerciale, <strong>di</strong> Palazzo Zavarise e<br />

<strong>di</strong> parte del Gabuccini ecc.<br />

Sembravano una beffa quelle scritte “Vincere e vinceremo”, “Molti<br />

nemici molto onore” ancora balbettanti dai muri in cui erano state<br />

<strong>di</strong>pinte dai fascisti; “Dio stramale<strong>di</strong>ca gli inglesi” aveva tuonato per<br />

anni la ra<strong>di</strong>o del regime: e adesso, per uno <strong>di</strong> quei duri rovesciamenti<br />

<strong>di</strong> aspettative imposti dalla storia (cioé dagli uomini e, in questo caso,<br />

dalla loro capacità <strong>di</strong> guardare in faccia la realtà), il popolo aspettava<br />

come liberatori proprio gli “stramaledetti” <strong>di</strong> ieri.<br />

Nell’ultima settimana del “passaggio del fronte” gli alleati avevano<br />

infittito i bombardamenti <strong>di</strong> artiglieria: dalle colline sulla destra del<br />

Metauro si scaricò una pioggia <strong>di</strong> granate nella zona <strong>di</strong> Saltara e<br />

Cartoceto, qualche colpo toccò l’Eremo <strong>di</strong> Montegiove. Era “l’ultimo<br />

assaggio” contro le postazioni tedesche (poche in realtà) prima che<br />

polacchi e canadesi varcassero il Metauro: i primi a Madonna del<br />

Ponte, Ferriano, Falcineto, i secon<strong>di</strong> nella zona <strong>di</strong> Montemaggiore-<br />

Calcinelli.<br />

Ci furono scontri con morti e feriti fra i combattenti e, purtroppo anche<br />

fra i civili, ma non fu combattuta una vera e propria battaglia; ci fu una<br />

grande manovra <strong>di</strong> avvicinamento alla linea<br />

gotica che si snodava al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> Pesaro e <strong>di</strong> Urbino. Non voglio <strong>di</strong>re<br />

228


altro sulle operazioni militari. Quello che ricordo più nitidamente <strong>di</strong><br />

quei giorni è il senso <strong>di</strong> vera e autentica “<strong>liberazione</strong>” che, pur tra le<br />

sofferenze e le recenti macerie, aleggiava in ogni volto, in ogni <strong>di</strong>scorso.<br />

Era finito l’incubo dei rastrellamenti, delle ruberie, delle paure,<br />

delle prepotenze varie imposte dall’esercito tedesco in ritirata. Era<br />

finito l’incubo dei bombardamenti: finalmente si respirava!<br />

Ne ebbi una prova certissima il 25 agosto. Quel giorno attraversai il<br />

Metauro nella zona della “passerella” tedesca, sotto le Caminate; una<br />

pattuglia polacca mi rilevò per portarmi al comando operativo; salimmo<br />

su per una “costa” dov’erano attendati molti che avevano dovuto<br />

lasciare all’improvviso le case dov’erano sfollati, c’erano parecchi<br />

fanesi. Si trovavano in con<strong>di</strong>zioni precarie, sembrava un accampamento<br />

<strong>di</strong> noma<strong>di</strong> eppure, questo è meraviglioso, erano tutti contenti, sorridenti,<br />

vocianti e ciarlieri come se fossero a una scampagnata. “Il più é<br />

fatto”, <strong>di</strong>cevano, “Presto si torna a casa”, “Bisogna ricostruire tutto”,<br />

“Non ne potevamo più”, “En ne pudemi più!!”.<br />

Quando leggo certi <strong>di</strong>scorsi <strong>di</strong> carattere riduttivo o assolutorio sulla<br />

guerra voluta dal fascismo mi tornano subito in mente gli occhi raggianti,<br />

i volti felici <strong>di</strong> quegli uomini e <strong>di</strong> quelle donne attendati alla<br />

campagna sotto il sole d’agosto: erano felici perché avevano la certezza<br />

che tedeschi e fascisti se n’erano andati, per sempre! Senza retorica,<br />

senza forzature ideologiche possiamo essere certi che quelli furono<br />

giorni <strong>di</strong> autentica Liberazione.<br />

1994<br />

229


QUANDO LA RESISTENZA ERA GIÀ CONCLUSA<br />

Recentemente, a proposito dei fatti avvenuti in Italia nel 1945, ha fatto<br />

molto <strong>di</strong>scutere “Il sangue dei vinti”, il libro <strong>di</strong> Giampaolo Pansa,<br />

uomo non <strong>di</strong> destra, in cui si parla sia delle violenze sia <strong>di</strong> certe sommarie<br />

esecuzioni toccate ai fascisti repubblicani dopo il 25 aprile.<br />

Presentando a Roma il libro <strong>di</strong> Pansa, il giornalista e storico Paolo<br />

Mieli ha opportunamente ricordato che dopo quel 25 aprile, sia subito<br />

sia per parecchio altro tempo, venne anche versato il sangue dei “vincitori”.<br />

Infatti trovò la morte non solo qualcuno che non aveva niente<br />

a che fare con le nefandezze nazifasciste, ma che ad<strong>di</strong>rittura aveva<br />

preso parte alla Resistenza e dopo la <strong>liberazione</strong> si era posto su posizioni<br />

democratiche, ovviamente antitotalitarie. In particolare è stato<br />

detto che “è davvero incre<strong>di</strong>bile” il numero dei preti fatti fuori in quegli<br />

anni. Costoro, dei quali fino ad oggi s’è parlato poco o anche per<br />

nulla come in gran parte dei libri scolastici <strong>di</strong> storia, caddero per mano<br />

<strong>di</strong> comunisti, o <strong>di</strong> “rossi” in generale, per i quali la Resistenza non si<br />

era conclusa e forse pensavano che ad<strong>di</strong>rittura fosse stata tra<strong>di</strong>ta. Così<br />

continuarono a fare la loro guerra che non era più <strong>di</strong> <strong>liberazione</strong> dai<br />

nazifascisti ma (quando non era mossa da privata vendetta scambiata<br />

per giustizia) era solo guerra <strong>di</strong> classe per affermare la <strong>di</strong>ttatura del<br />

proletariato. È questa una storia che non è passata nella memoria collettiva<br />

perché qualcuno ha avuto interesse a metterla a tacere, ma che<br />

deve essere integralmente conosciuta, perché questa è la tesi <strong>di</strong> Mieli<br />

che noi con<strong>di</strong>vi<strong>di</strong>amo, non si può far finta che non sia accaduto ciò che<br />

invece è purtroppo accaduto.<br />

I più noti dei morti innocenti sono don Pessina, ucciso il 16 giugno<br />

1946 e il sindacalista cattolico (<strong>di</strong> cui è in corso la causa <strong>di</strong> beatificazione)<br />

Giovanni Fanin ammazzato il 4 novembre 1948. Si potrebbero<br />

fare molti altri nomi <strong>di</strong> coloro che soprattutto in Emilia-Romagna caddero<br />

nel famigerato “triangolo rosso”, che aveva uno dei suoi vertici a<br />

Reggio Emilia ed è stato considerato da molti, cre<strong>di</strong>amo giustamente,<br />

come ra<strong>di</strong>ce delle Brigate rosse vecchie e nuove.<br />

È questa una storia che non è passata nella memoria collettiva perché<br />

230


qualcuno ha avuto interesse a metterla a tacere, ma che deve essere<br />

integralmente conosciuta perché, questa è la tesi <strong>di</strong> Mieli che noi con<strong>di</strong>vi<strong>di</strong>amo,<br />

non si può far finta che non sia accaduto ciò che invece è<br />

purtroppo accaduto. Si è chiesto Paolo Mieli: “Come si spiega un’incre<strong>di</strong>bile<br />

mattanza <strong>di</strong> preti e <strong>di</strong> <strong>di</strong>rigenti locali <strong>di</strong> partiti antifascisti che<br />

rimase impunita?”. Aggiungiamo noi che quei pochi che vennero<br />

denunciati e processati trovarono poi il modo <strong>di</strong> fuggire nell’est<br />

Europa, soprattutto in Cecoslovacchia.<br />

È certo che allora né poi ci furono bande <strong>di</strong> liberali, democristiani o<br />

azionisti che abbiano ucciso dei comunisti.<br />

Cre<strong>di</strong>amo interessante, a questo punto, riportare poche righe <strong>di</strong> un’intervista<br />

apparsa su “Avvenire” il 25 gennaio 1992. Viene intervistato lo<br />

storico don Lorenzo Bedeschi che nel 1951 aveva pubblicato un libro<br />

che qualcuno ricorda: “L’Emilia ammazza i preti”.<br />

Chiede l’intervistatore: “La guerra rivoluzionaria faceva parte <strong>di</strong> un<br />

programma sistematico del P.C.I. <strong>di</strong> Togliatti?”. Ecco la risposta:<br />

“Credo che Togliatti abbia fatto tutto il possibile per impe<strong>di</strong>re la tracimazione<br />

in forme rivoluzionarie. Lo <strong>di</strong>mostra uno dei tanti episo<strong>di</strong><br />

ricostruiti coi documenti. Appena avvenuta la <strong>liberazione</strong> <strong>di</strong> Pesaro<br />

cinque partigiani ventenni andarono a Roma ad accogliere Togliatti,<br />

che li ricevette subito”. Il più coraggioso gli chiese: “Compagno<br />

Togliatti, dopo la <strong>liberazione</strong> dei fascisti, dobbiamo ammazzare prima<br />

i preti o i padroni per fare la nuova società?” Al che Togliatti, con la<br />

mani nei capelli, gridò: “Non fate questo. Non avete capito niente”.<br />

È proprio così: la strategia era un’altra. Era quella desunta dal pensiero<br />

<strong>di</strong> Gramsci: servirsi degli “intellettuali organici” per giungere al<br />

potere in Italia attraverso l’occupazione dei centri culturali e dell’informazione.<br />

2004<br />

231


LA PACE FRA GLI UOMINI: NE SONO CAPACI?<br />

La prima bomba atomica fu lanciata il 6 agosto 1945 sulla città giapponese<br />

<strong>di</strong> Hiroshima: quella data è ricordata da pochi. Allora molti<br />

plau<strong>di</strong>rono perché la bomba atomica praticamente poneva fine alla<br />

sanguinosa seconda guerra mon<strong>di</strong>ale. Ricordo che solo “L’Osservatore<br />

Romano” prese le dovute <strong>di</strong>stanze da quell’orribile or<strong>di</strong>gno.<br />

Erano le otto e un quarto del mattino e le sirene dell’allarme nemmeno<br />

suonarono poiché solo due aerei statunitensi volavano sopra la città<br />

<strong>di</strong> Hiroshima abituata a vedere sul proprio cielo grossi stormi <strong>di</strong> velivoli.<br />

Poi qualcosa si staccò da uno degli aerei e giunto a qualche centinaia<br />

<strong>di</strong> metri dal suolo scoppiò e come un lampo abbagliante investì<br />

la città. Era entrata nella storia la bomba atomica: un nuovo potente<br />

strumento <strong>di</strong> morte si trovava nelle mani dell’uomo.<br />

Morirono all’istante 71.000 persone; le case presero fuoco; verso le<br />

quattro del pomeriggio l’ evaporazione prodotta dal gigantesco incen<strong>di</strong>o<br />

si trasformò in torrenziale pioggia. Una moltitu<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> urlanti<br />

ustionati aveva cercato illusorio rime<strong>di</strong>o gettandosi nell’acqua dei<br />

canali. Solo allora arrivarono i primi soccorsi: erano i gesuiti (ma chi<br />

lo sa?) che abitavano in una vicina collina; tra essi c’era padre Pedro<br />

Arrupe, destinato a <strong>di</strong>ventare Generale della Compagnia <strong>di</strong> Gesù. Di<br />

loro parlò poi con ammirazione la relazione ufficiale giapponese.<br />

Mi sembra opportuno aggiungere quanto sul quel tragico avvenimento<br />

scrisse Valerio Volpini attingendo da Robert Jungk che aveva avuto un<br />

colloquio con uno dei pochi superstiti <strong>di</strong> quel tragico sei agosto. Si<br />

chiamava Kazuo e quando scoppiò la bomba aveva quattor<strong>di</strong>ci anni.<br />

Quel ragazzo nove giorni dopo lo scoppio e la scomparsa <strong>di</strong> Hiroshima<br />

gridando come un pazzo “tutti gli uomini sono degli imbecilli (Otona<br />

, Wa Bo-ka)” fece a pezzi ciò che aveva <strong>di</strong> più caro: il suo libro <strong>di</strong> lettura.<br />

Dopo quello che aveva visto a che serviva pensare e sapere?<br />

La scena, evocata da Volpini ha valore anche per noi che pre<strong>di</strong>chiamo<br />

la pace fra gli uomini; ma essi ne sono capaci?<br />

2007<br />

232


LA CONVERSIONE DEL GRAN RABBINO DI ROMA<br />

Premettiamo una breve introduzione. A tutti è noto che la damnatio<br />

memoriae <strong>di</strong> Pio XII si incancrenì con la pubblicazione del dramma <strong>di</strong><br />

Rolf Hochhut, tedesco, “Il Vicario” (in Italia stampato nel 1964 da<br />

Feltrinelli con l’introduzione <strong>di</strong> Carlo Bo).<br />

L’onorevole Spadolini definì “Il Vicario” un “modesto libello <strong>di</strong> <strong>di</strong>ffamazione<br />

anticlericale e <strong>di</strong> auto<strong>di</strong>fesa nazionalistica, un libello respinto<br />

dalla cultura più aggiornata e sensibile del nostro tempo”.<br />

Eppure ancora oggi le accuse contro quel Papa continuano e si è arrivati<br />

persino a chiamare Pacelli “il Papa <strong>di</strong> Hitler”: un’assur<strong>di</strong>tà, come<br />

ha scritto sul Corriere della Sera Paolo Mieli. E’ auspicabile che i<br />

detrattori <strong>di</strong> Pio XII abbiano letto l’ultimo libro pubblicato dal prof.<br />

Martin Gilbert, ebreo, uno dei massimi storici della seconda guerra<br />

mon<strong>di</strong>ale, docente a Londra <strong>di</strong> storia dell’Olocausto. Egli <strong>di</strong>ce che<br />

“Papa Pacelli ha agito moralmente e politicamente in modo appropriato<br />

e ha preso le decisioni giuste”. Scrive, poi, che “la Santa Sede ha<br />

assunto pubblicamente posizione contro i nazisti molto presto” e<br />

aggiunge: “Io sto dalla parte <strong>di</strong> coloro che hanno compreso il legame<br />

tra Pio XII e i cattolici che aiutarono gli ebrei”. A Roma nel 1943<br />

(attingiamo questi dati storici da “Avvenire” del 23 sett. 2003) quattromila<br />

ebrei furono salvati in istituti religiosi femminili e maschili. La<br />

clausura fu superata dove si trattava <strong>di</strong> salvare vite umane; e non solo<br />

a Roma. Dice bene lo storico Pietro Scoppola “E’ <strong>di</strong>fficile immaginare<br />

che la Santa Sede ignorasse questo impegno generoso e continuo <strong>di</strong><br />

accoglienza” e aggiunge che “nel comportamento della gran<strong>di</strong>ssima<br />

parte dei religiosi e delle religiose si può leggere anche il rifiuto della<br />

violenza e dell’ideologia totalitaria”. Senza <strong>di</strong>menticare i civili che<br />

aiutarono gli ebrei si può parlare senz’altro <strong>di</strong> Resistenza Civile.<br />

Quello che poi è successo al Papa era stato previsto da Israele Zolli.<br />

Chi era costui? Era il Gran rabbino <strong>di</strong> Roma, convertitosi al cattolicesimo<br />

nel 1945 scegliendo per il suo battesimo il nome <strong>di</strong> Eugenio per<br />

riconoscenza verso il Papa <strong>di</strong> cui aveva <strong>di</strong>rettamente conosciuto il<br />

grande spirito <strong>di</strong> carità e <strong>di</strong> umanità. Infatti, allorché i nazisti, nel 1943,<br />

233


chiesero cinquanta chili d’oro per risparmiare la vita agli ebrei abitanti<br />

nel cosiddetto Portico <strong>di</strong> Ottavia, il rabbino Zolli, che ne aveva messo<br />

insieme trentacinque chili, <strong>di</strong>sperato corse in Vaticano e parlò con il<br />

tesoriere monsignor Nogara. Attraverso lui il Santo Padre gli fece sapere<br />

che in qualche modo il Vaticano avrebbe messo a <strong>di</strong>sposizione i<br />

quin<strong>di</strong>ci chili mancanti. Sappiamo che quel tesoro, purtroppo, non<br />

servì a placare l’o<strong>di</strong>o e la violenza dei nazisti.<br />

All’umanità del Papa si aggiunse che Zolli, stu<strong>di</strong>oso ed esegeta della<br />

Bibbia, era stato profondamente colpito dai passi del profeta Isaia che<br />

parlano del Servo <strong>di</strong> Jahvè e si era andato convincendo che Cristo coincideva<br />

con il Servo. Nel 1945 spiegò la sua conversione nell’autobiografia<br />

rimasta però ine<strong>di</strong>ta in Italia. Scrisse fra l’altro: “Un uomo non<br />

è convertito nel momento in cui sceglie bensì nell’ora in cui riceve la<br />

chiamata <strong>di</strong> Dio. E, quando sente la chiamata, colui che la riceve ha<br />

solo una cosa da fare: obbe<strong>di</strong>re”. E poco prima nel suo libro, ora introvabile,<br />

Antisemitismo aveva scritto: “L’ebraismo mon<strong>di</strong>ale ha un debito<br />

grande <strong>di</strong> gratitu<strong>di</strong>ne alla Santità <strong>di</strong> Pio XII per gli iterati e pressanti<br />

appelli alla giustizia in suo favore; per le forti proteste contro leggi<br />

e proce<strong>di</strong>menti iniqui”.<br />

Fu buon profeta quando, subito dopo la guerra, <strong>di</strong>ceva alla figlia<br />

Miryiam: “Vedrai, faranno <strong>di</strong> Pio XII il capro espiatorio del silenzio<br />

che tutto il mondo ha mantenuto <strong>di</strong>nanzi ai crimini nazisti”. Zolli morì<br />

povero nel 1956. Su lui e sulla sua famiglia calò il sipario della impenetrabilità;<br />

la sua vicenda che a suo tempo aveva scatenato una vivace<br />

bagarre fu <strong>di</strong>menticata.<br />

2003<br />

234


“BELLA CIAO” NON È INNO PARTIGIANO<br />

Mi sono sempre chiesto come mai “Bella ciao” sia considerato inno<br />

partigiano. Nei pochi mesi che qui nei <strong>di</strong>ntorni <strong>di</strong> <strong>Fano</strong> sono stato partigiano<br />

non l’ho mai sentito nominare (ammesso che i partigiani avessero<br />

voglia <strong>di</strong> cantare!), e nemmeno dopo quando, con le truppe del<br />

nuovo esercito italiano, giunsi in Alta Italia. Qui mi soffermai soprattutto<br />

a Brescia dove ebbi molti contatti sia coi partigiani delle<br />

“Fiamme Ver<strong>di</strong>” sia con quelli della “Garibal<strong>di</strong>”. Nessuno sapeva <strong>di</strong><br />

“Bella ciao”! Mi convinsi che quell’inno veniva dalla Russia!<br />

Finalmente l’arcano mi è stato svelato leggendo alcuni recenti libri<br />

sulla Resistenza. Quella canzone (chi lo <strong>di</strong>rebbe?) ha origini molto<br />

modeste e per nulla bellicose; non viene dall’Europa dell’Est, ma ad<strong>di</strong>rittura<br />

dall’Italia e siccome è in tono minore è possibile che provenga<br />

da sotto la Toscana; forse è ad<strong>di</strong>rittura meri<strong>di</strong>onale! In origine (ma non<br />

si conosce l’autore) si trattava <strong>di</strong> una innocente tiritera, un po’ dolciastra,<br />

che parlava nientemeno della nonna “la vecchierella” che manda<br />

qualcuno “alla fontanella”. Poi ha assunto una veste nuova ed è <strong>di</strong>ventata<br />

quello che è <strong>di</strong>ventata. Senza cedere ad alcuna tentazione revisionistica,<br />

ma solo per dare a ciascuno quello che gli spetta Roberto<br />

Berretta ha precisato queste cose su “Avvenire” del 2 maggio 2005.<br />

Comunque furono i comunisti italiani che, invitati al Festival della gioventù<br />

a Berlino nel 1948, cambiarono molto abilmente le parole <strong>di</strong><br />

quella canzoncina per bambini, ci misero “l’invasore” e tutto il resto.<br />

Venne così fuori il canto che tutti conosciamo e che reputiamo nato<br />

durante la Resistenza. Il che è stato consacrato, se così si può <strong>di</strong>re, dal<br />

coro dell’armata rossa che l’ha egregiamente cantato in <strong>di</strong>verse occasioni.<br />

Sono cose che capitano; si potrebbero citare brani lirici, anche famosi,<br />

passati da un’opera all’altra. Per restare in tema è opportuno aggiungere<br />

che il ben noto inno trionfale fascista “Giovinezza, giovinezza”,<br />

quello che iniziava con le parole <strong>di</strong> Salvatore Gotta “Salve o popolo<br />

d’eroi”, era una canzone riciclata composta nel 1909 come inno goliar<strong>di</strong>co.<br />

235


Chi poi non ricorda il “Signore delle cime”? Inno fra i più famosi della<br />

montagna? Ebbene l’autore, Bepi De Marzi (vivente), lo compose<br />

come innamorato deluso dalla fidanzata che non l’aveva aspettato <strong>di</strong><br />

ritorno dalla leva obbligatoria.<br />

Suscitano davvero parecchie perplessità alcune canzoni popolari e<br />

alpine se ben stu<strong>di</strong>ate nella loro origine. Dobbiamo elogiare Garibal<strong>di</strong><br />

che, quando Luigi Mercantini gli consacrò l’inno “Si scopron le<br />

tombe, si levano i morti… ”, senza tanti complimenti gli <strong>di</strong>sse che<br />

quelle parole erano piuttosto brutte, per fortuna la musica non era roba<br />

da cani!<br />

E la “Leggenda del Piave”? Per chi non lo sapesse fu scritta e musicata<br />

nel 1918, ma <strong>di</strong>venne simbolo della prima guerra mon<strong>di</strong>ale nel 1921<br />

quando furono traslate a Roma le ceneri del Milite Ignoto.<br />

2005<br />

236

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