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Barbiere di Siviglia - Teatro La Fenice

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«Che invenzione prelibata!»<br />

Poche opere godono una fama paragonabile a quella del <strong>Barbiere</strong> <strong>di</strong> <strong>Siviglia</strong>, opera buffa<br />

per antonomasia, anche se, alla luce della sensibilità attuale (e dopo le scoperte dovute<br />

al restauro critico, che hanno restituito lucentezza alla partitura), l’aggettivo «buffa»<br />

risulta riduttivo rispetto alla complessità del messaggio che ci porge il capolavoro<br />

rossiniano. Si provino a mettere in fila un paio <strong>di</strong> espressioni della sola cavatina <strong>di</strong> Figaro<br />

(il «factotum della città»), fra le tante entrate nel linguaggio comune sparse per<br />

tutto il lavoro, da «Figaro qua, Figaro là» a «Uno alla volta, per carità», per accorgersi<br />

quanto quest’opera faccia parte della cultura occidentale tout-court. Ma, come nota<br />

Stefano Piana nella guida all’ascolto, il successo <strong>di</strong> questo brano ha origine nella sua<br />

perfetta costruzione formale: «Rossini riesce a creare tale <strong>di</strong>rompente flusso musicale<br />

ricorrendo a un’abilissima combinazione <strong>di</strong> alcuni incisi melo<strong>di</strong>ci, esposti nell’introduzione<br />

orchestrale, tutti basati sulle terzine <strong>di</strong> crome, che sembrano quasi venir generati<br />

l’uno dall’altro». Dietro all’apparenza <strong>di</strong> una facile presa comunicativa si cela dunque<br />

un meccanismo sofisticato, così ben rodato da rendere naturale e attraente per tutti i<br />

pubblici la complessità dell’opera.<br />

Proprio in considerazione della ‘popolarità’ del <strong>Barbiere</strong>, «<strong>La</strong> <strong>Fenice</strong> prima dell’Opera»<br />

offre in questo numero due saggi <strong>di</strong> approfon<strong>di</strong>mento. Nel primo Daniele Carnini<br />

ci <strong>di</strong>mostra in che misura Rossini, da vero uomo del suo tempo, fosse inserito nel<br />

circuito produttivo coevo, e ci chiede <strong>di</strong> non meravigliarci della rapi<strong>di</strong>tà con cui vide la<br />

luce un’opera <strong>di</strong> così vaste proporzioni (l’autografo passa le seicento pagine!): Rossini fu<br />

«economo», appunto, e riuscì ad attuare «una accorta strategia iterativa volta a risparmiare<br />

le forze compositive e al contempo a potenziare il messaggio». L’ampio confronto<br />

fra due numeri complessi come il finale primo <strong>di</strong> un’opera oggi <strong>di</strong>menticata, <strong>La</strong> dama<br />

soldato, e quello a molti, se non a tutti familiare del <strong>Barbiere</strong>, ritratto nel <strong>di</strong>agramma<br />

alle pp. 19-20, rende ampiamente ragione <strong>di</strong> una strategia che con tocchi sapienti produceva<br />

una musica <strong>di</strong> qualità irraggiungibile per tutti gli operisti del tempo.<br />

Nel secondo saggio, Serena Facci approfon<strong>di</strong>sce un paio <strong>di</strong> pagine fra le più celebri<br />

dell’opera: le serenate che Almaviva rivolge all’amata Rosina all’inizio della vicenda. Il<br />

metodo d’indagine della stu<strong>di</strong>osa è quello dell’etnomusicologia, e dunque la sua valutazione<br />

<strong>di</strong> questo «genere musicale en plein air» non tiene conto solo del contesto storico<br />

ed estetico della musica colta, ma prende in considerazione il topos della serenata<br />

come tratto comunicativo del sentimento e della passione, così come può essere vissu-

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