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Barbiere di Siviglia - Teatro La Fenice

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102<br />

APPENDICE – L’ORCHESTRA<br />

tano nella parte acuta dell’orchestra sostituendosi ai flauti, e ciò avviene in particolare<br />

nei momenti più fragorosi come le strette dell’introduzione, del finale primo e del quintetto<br />

dell’atto secondo. In compenso è curioso notare come l’unico oboe previsto durante<br />

l’opera (il secondo suona solo nella sinfonia), a cui pure sono affidati qua e là passi<br />

<strong>di</strong> rilievo come durante la lamentosa autocommiserazione <strong>di</strong> Rosina nel finale primo,<br />

sia in realtà spesso lasciato a riposo, in particolare proprio in quei punti sopra citati dove<br />

ci si aspetterebbe l’utilizzo della piena orchestra. Il timbro complessivo dei legni assume<br />

in tale maniera un colore particolare, dove agli acutissimi ottavini si contrappone<br />

solo il registro me<strong>di</strong>o-grave dei clarinetti e dei fagotti; manca cioè quella fascia<br />

me<strong>di</strong>o-acuta solitamente coperta dagli oboi. <strong>La</strong> vecchia partitura a stampa Ricor<strong>di</strong>, come<br />

si è visto, intervenne tra l’altro proprio qui, togliendo un ottavino e aggiungendo<br />

due oboi, nel tentativo <strong>di</strong> ‘normalizzare’ quella che veniva sentita come un’anomalia.<br />

In generale l’orchestrazione del <strong>Barbiere</strong> è in qualche maniera equi<strong>di</strong>stante sia dallo<br />

stile delle prime prove rossiniane, sia da quello delle gran<strong>di</strong> opere napoletane; riesce tuttavia<br />

a miscelare in modo assai equilibrato i pregi <strong>di</strong> entrambi. Dalle farse e dalle prime<br />

opere buffe proviene quella scattante leggerezza che il recupero della strumentazione<br />

originale ha contribuito a mettere in evidenza, a tutto ciò sono unite una ricerca<br />

dell’impasto e una cura dei particolari che saranno tipiche delle prove più mature; nel<br />

1815 (l’anno prima del <strong>Barbiere</strong>) Rossini aveva iniziato quell’esperienza napoletana<br />

durante la quale ebbe modo <strong>di</strong> accrescere in maniera significativa le sue doti <strong>di</strong> orchestratore<br />

in quanto a ricchezza e a cura del dettaglio, forse però un po’ a scapito <strong>di</strong> quella<br />

brillantezza tipica delle prime prove. Molti sono i punti dove ciò si evidenzia: dal modo<br />

in cui viene <strong>di</strong>stribuito il materiale melo<strong>di</strong>co tra gli strumenti all’inizio<br />

dell’introduzione o nel tempo d’attacco del quintetto n. 13, sino ad arrivare a quel particolare<br />

e geniale congegno timbrico nella stretta del finale primo, che rende il colore<br />

del brano davvero inconfon<strong>di</strong>bile.<br />

<strong>La</strong> presenza piuttosto inconsueta tra gli strumenti dell’orchestra delle chitarre e del<br />

pianoforte obbe<strong>di</strong>sce a precise esigenze scenico-drammatiche: le prime si presuppongono<br />

utilizzate dai suonatori che accompagnano il Conte nella scena <strong>di</strong> apertura e successivamente<br />

da Almaviva stesso durante la canzone a Rosina, il secondo è usato dal<br />

finto Don Alonso per accompagnare Rosina nella scena della lezione (anche se Rossini<br />

scrive solo due battute per tale strumento: su ciò si veda la guida all’ascolto).

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