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20. Francisco Suarez. Nelle Disputationes ... - Home Page FTTR

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III<br />

ETÀ MODERNA<br />

<strong>20.</strong> <strong>Francisco</strong> <strong>Suarez</strong>.<br />

<strong>Nelle</strong> <strong>Disputationes</strong> metaphysicae (1597) <strong>Francisco</strong> <strong>Suarez</strong> (1548-1617) prolunga la<br />

riflessione metafisica scolastica approfondendo la posizione scotista: egli mantiene l’analogia<br />

dell’essere, purché s’intenda l’essere (ens) in un senso indeterminatissimo (simplicissimus) o<br />

neutro (confusum) e dunque univoco (unum), tale cioè da rimanere se stesso ed a non<br />

moltiplicarsi secondo gli oggetto di cui è predicato.<br />

La nostra mente [...] confondendo e congiungendo, in quanto simili tra loro,<br />

cose che in realtà sono distinte, unifica il suo concetto, formandone uno solo<br />

secondo la realtà e secondo il significato formale (ratio formalis); ma questo è il<br />

modo in cui le realtà vengono concepite (concipiuntur) nel suddetto concetto<br />

formale di essere (ens). La mente, infatti, assume tutte quelle cose solo in quanto<br />

sono simili tra di loro secondo il significato di essere (ratio essendi) [...]. Tale<br />

concetto è dunque semplicemente uno (simpliciter unus), nella realtà e nel suo<br />

significato formale (ratio formalis), e, secondo quest’ultimo, esso prescinde da<br />

quei concetti che rappresentano con una maggior distinzione le realtà particolari o<br />

i loro significati (rationes) 1 .<br />

La ratio entis (natura indeterminata dell’essere trascendentale) è neutrale rispetto alle<br />

differenze; è tale da consentire, per la sua semplicità, la resolutio in unum di tutti i significati.<br />

L’essere in questa prospettiva prescinde in sé da tutte le differenze per poterle comprendere tutte.<br />

All’essere (ens) corrisponde un unico concetto formale, giacché, che l’essere<br />

sia uguale a esistente (existens), o che sia preso come potenza (aptitudo existens),<br />

il suo concetto avrà sempre il medesimo significato unitario (ratio unitatis). Per<br />

questo si è soliti dire che il concetto di essere, non solo è uno (unus), ma è anche<br />

il più semplice di tutti (simplicissimus), di modo che in esso si risolvono<br />

ultimamente (fit ultima resolutio) gli altri concetti 2 .<br />

Del resto, se a detta di <strong>Suarez</strong> non è corretto, per difendere l’analogia, negare l’unità del<br />

concetto di essere, neppure l’analogia va negata, a patto che essa indichi il reciproco convenire e<br />

il differire delle diverse realtà, in forza della ratio entis.<br />

Il convenire e il differire, del resto, non si escludono reciprocamente, perché<br />

non accadono dallo stesso punto di vista. Infatti, le differenti realtà (entia)<br />

convengono tra loro, in quanto partecipano della medesima ratio entis, e<br />

differiscono tra loro, in quanto ne partecipano ciascuna secondo la propria<br />

natura 3 .<br />

Ciò che qualifica la ratio entis è “l’esistere al di fuori del niente”, extra nihil inteso come<br />

nihil negativum, cioè come autocontraddizione. Il nihil negativum è infatti per <strong>Suarez</strong> la<br />

1 <strong>Disputationes</strong> metaphysicae, II, 1. 9-11.<br />

2 Ivi, II, 1.9.<br />

3 Ivi, II, 2.36.<br />

99


negatività propria dell’autocontraddizione, quindi l’impossibilità, e si distingue dal nihil<br />

absolutum, inteso come il ‘nulla’ da cui Dio trae il mondo creando 4 . Quindi in <strong>Suarez</strong> esse<br />

equivale ad existere nel senso dello star fuori dall’autocontraddizione. Ens è tanto ciò che esiste,<br />

quanto ciò che può esistere.<br />

Il pensabile comprende tutto il reale (attuale e possibile).<br />

<strong>Suarez</strong> tien ferma anche la distinzione tra essentia ed esse, cioè tra ciò che esiste in atto e<br />

come possibile. Ma la differenza non dice della composizione interna tra essentia ed esse ut<br />

actus – la distinzione non ha fondamento nella realtà, ed è solo un fatto di ragione. Per <strong>Suarez</strong>,<br />

basta avere una essenza che sia realmente tale (cioè, non contraddittoria), per realizzare la ratio<br />

entis, cioè per esistere “fuori del niente” (nihil negativum).<br />

<strong>Suarez</strong> tende così ad appiattire l’attualità sulla possibilità, e a pensare la modalità più ricca<br />

(attualità) in riferimento alla modalità più povera (possibilità). Il principale analogato<br />

dell'essere non è più, come in Tommaso, l’esse ut actus, bensì l’existere (extra nihil negativum),<br />

che coincide a sua volta con l’avere realmente una essenza (una struttura intelligibile).<br />

Così, mentre per Tommaso il principale analogato del trascendentale è ciò che è attuale<br />

(id quod est), per <strong>Suarez</strong> il principale analogato del trascendentale è ciò che è possibile (essentia<br />

realis).<br />

La preminenza dell’indifferenziata existentia di <strong>Suarez</strong> rispetto all’esse ut actus di<br />

Tommaso fa prevalere l’interesse dell’essere come contenuto di pensiero (esser presente al<br />

pensiero, esser pensato o pensabile).<br />

21. Cartesio e la dissociazione tra soggettività e oggettività.<br />

Per René Descartes [Cartesio] (1596-1650) vi è indubitabilità dell’“essere oggettivo”<br />

(essere pensato), corrispondente alla existentia di <strong>Suarez</strong>, mentre è sottoposto a dubbio<br />

metodico l’“essere formale”, corrispondente all’esse ut actus.<br />

Con ciò si genera quella scissione tra l’Io penso e la realtà esterna, tra res cogitans e res<br />

extensa che la modernità cercherà faticosamente di ricomporre, proponendo le più diverse<br />

soluzioni, mentre andrà accrescendosi il primato del Soggetto, così saldamente stabilito nel<br />

Cogito da apparire pressoché inestirpabile.<br />

La concezione sistematica del sapere fa pronunciare a Cartesio la celebre metafora<br />

dell’albero delle scienze, per cui<br />

Tutta la filosofia è come un albero, le cui radici sono la metafisica, il tronco<br />

è la fisica e i rami che escono da questo tronco sono tutte le altre scienze, che si<br />

riducono a tre principali, cioè la medicina, la meccanica e la morale 5 .<br />

Ma è in questo porre la metafisica, o meglio un certo tipo di metafisica, quale radice<br />

dell’albero delle scienze che si mostrerà tutta la fragilità del sistema cartesiano, e ciò verrà in<br />

luce nella controversia sul vuoto, per i cartesiani impossibile in base al presupposto ‘metafisico’<br />

dell’identità di materia ed estensione.<br />

4 Cfr. ivi, XXVIII, 3.15.<br />

5 R. Descartes, I principi della filosofia - Lettera all’abate Picot.<br />

100


La prima, essenziale applicazione delle regole del metodo spingerà Cartesio alla<br />

formulazione del dubbio metodico ed al passaggio obbligato attraverso la strettoia del cogito<br />

quale intuizione pura dell’esistenza individuale. Di qui la ricostruzione del sapere, attraverso<br />

l’esistenza di Dio e l’affidabilità delle facoltà conoscitive, garantite da Dio stesso<br />

nell’attestazione non ingannevole dell’esistenza del mondo corporeo.<br />

Quanto all’esistenza di Dio, Cartesio propone tre prove:<br />

1) Dio quale causa adeguata (perfetta e infinita) dell’idea di Dio, che è, quanto al<br />

contenuto, idea di alcunché di perfetto e infinito;<br />

2) Dio quale causa adeguata (perfetta e infinita) del soggetto pensante, che avendo idea<br />

del perfetto e infinito, si sarebbe creato tale se si fosse autoprodotto;<br />

3) Dio quale corrispondente adeguato all’idea della sua esistenza, la cui perfezione deve<br />

includere l’esistenza medesima per essere tale (ripresa della prova ontologica anselmiana).<br />

22. Spinoza, Leibniz, Wolff.<br />

Secondo Baruch Spinoza (1632-1677) l’attuale realizza secondo necessità il possibile, ed<br />

ogni possibile determina necessariamente l’attuale. Il mondo e la stessa realtà antropologica<br />

sono ricomprese come espressioni del divino, che si articola in esse quali suoi ‘modi’ secondo<br />

necessità.<br />

Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716) si fa carico delle istanze del pensiero<br />

enciclopedico maturate nell’età moderna ed elabora, senza però portarla a compimento, l’idea di<br />

un “alfabeto dei pensieri”, ovvero di una scienza generale di simboli che permettesse la<br />

traduzione di ogni scienza in termini logico-matematici, attraverso una teoria generale<br />

rappresentata in un ‘linguaggio’ ideale per mezzo di un insieme di simboli, sviluppabile<br />

attraverso una serie di operazioni logiche.<br />

Per Leibniz l’attuale è pensato in relazione al possibile, come attuazione del possibile,<br />

come si vede chiaramente nella dottrina dei “mondi possibili” (cfr. Teodicea, II, 201). Ciò<br />

appare in linea con la concezione suareziana per cui existere è avere un’essenza (qualcosa di<br />

incontraddittorio, di possibile).<br />

Così nello stesso Leibniz il principale analogato dell’essere è il possibile, non l’attuale.<br />

Si assiste così con l’avvento della modernità, ad una sorta di inversione nel primato<br />

ontologico, che si afferma nel tempo, da <strong>Suarez</strong> in poi, in modo sempre più netto ed esplicito.<br />

Per Christian Wolff (1679-1754) «la prima cosa che si concepisce di un ente è l’essenza,<br />

e senza di essa non può esserci l’essente» – Essentia primum est, quod de ente concipitur, nec<br />

sine ea ens esse potest, e ancora: Essentia definiri potest per id quod primum de ente concipitur,<br />

et in quo ratio continetur sufficiens, cur caetera vel actu insint vel inesse possint 6 .<br />

L’ontologia viene allora costituita assimilando l’attuale al possibile: è il possibile che fa<br />

da comune denominatore del regno dell’essere.<br />

Si noti qui che possibile va ormai disgiunto dal concetto di potenza, correlato all’atto (in<br />

quanto capacità, passiva o attiva): possibile è pura ipotesi, pura situazione intelligibile che non<br />

inerisce ad una realtà in atto.<br />

6 Ch. Wolff, Ontologia, Frankfurt - Leipzig 1730, p. 144.<br />

101


23. Kant.<br />

Ne L’unico argomento possibile per dimostrare l’esistenza di Dio (1763), Immanuel Kant<br />

(1724-1804) afferma che l’esserci di qualcosa, la sua “esistenza”, è “la posizione (Position)<br />

assoluta” di quel qualcosa. Essa non amplia il significato della cosa, perché non appartiene alla<br />

sua essenza. In altri termini, nell’essenza di qualcosa non può trovarsi implicita l’esistenza<br />

(l’esserci effettivo) di quel qualcosa. È sulla base di questo assunto che Kant nega ogni validità<br />

alla prova ontologica dell’esistenza di Dio, che nell’essenza perfettissima vedeva inclusa<br />

l’esistenza quale attributo necessario della sua perfezione.<br />

Ora, in Kant, l’esistenza come “posizione” dell’essente è un che di non intelligibile, ma<br />

solo di esperibile, mentre per Tommaso l’esistenza come esse ut actus costituiva la fonte di ogni<br />

intelligibilità.<br />

Kant attribuisce l’insuccesso del filone razionalista del pensiero moderno (Cartesio,<br />

Leibniz, Wolff) al tentativo di generare un tipo di conoscenza ‘pura’, ovvero estranea agli<br />

apporti empirici propri alla scienza che, contemporaneamente, rivelava un sensibile progresso.<br />

Una tale ragione ‘pura’, a priori, è l’oggetto dell’opera Critica della ragion pura che tenta di<br />

definire le condizioni del sapere e approda a mostrare la vanità della metafisica quale scienza<br />

speculativa sganciata dall’informazione empirica. La proposta alternativa kantiana è una<br />

concezione gnoseologica che comprende come parimenti indispensabili tanto la sensibilità<br />

quanto la comprensione intellettiva, col che sembrano mediate le posizioni razionalista ed<br />

empirista: la sensibilità produrrebbe con le intuizioni una ‘molteplicità’ poi ridotta dall’intelletto<br />

sotto forma di concetti. Ma ciò che è decisivo nella gnoseologia kantiana è la cosiddetta<br />

“rivoluzione copernicana” che porta l’oggetto a gravitare sul soggetto conoscente e a<br />

conformarsi in certo modo all’operazione conoscitiva. In relazione a ciò, spazio e tempo sono<br />

riconosciuti come forme pure dell’intuizione sensibile, ovvero funzioni permanentemente<br />

presenti nel soggetto percipiente, che entro tali forme a priori riconosce l’intero mondo<br />

dell’esperienza sensibile.<br />

La distinzione kantiana tra giudizi analitici a priori (analitici – cioè che “per mezzo del<br />

predicato non aggiungono nulla al concetto del soggetto” (es. “tutti i corpi sono estesi”) –, a<br />

priori – ottenibili senza ricorso all’esperienza (es. “il tutto è maggiore della parte”)) e sintetici a<br />

posteriori (sintetici – il cui predicato non è contenuto nel soggetto, per cui vi aggiunge qualcosa<br />

– a posteriori – ottenibili mediante il ricorso all’esperienza) rivela il forte limite gnoseologico<br />

imposto da questa partizione. Ciò spinge Kant ad ammettere la via mediana della possibilità di<br />

formulare giudizi sintetici a priori (es. “la linea retta è la distanza più breve tra due punti”), che<br />

trovano di fatto applicazione nelle scienze matematiche e fisiche, nonché nella metafisica. Tra le<br />

proposizioni sintetiche a priori Kant riconosce anche l’affermazione “ogni evento ha una<br />

causa”.<br />

L’esito dell’ontologia kantiana è noto e radicalizza in un certo senso, con lo spirito della<br />

modernità, quella cesura tra metafisica e ontologia cui si accennava all’inizio. La metafisica,<br />

infatti, è data per impossibile, mentre l’ontologia concepisce comunque l’essere per sé, ovvero<br />

ammette l’esistenza della realtà noumenica che pure è dichiarata inattingibile dalla metafisica.<br />

Nella radicalizzazione kantiana viene in piena luce l’alienazione moderna del problema<br />

della verità dell’essere dall’essere in sé considerato: il discorso del metodo come pretesa di<br />

102


ottenere un discorso veritativo sull’essere rimane estraneo all’ontologia o, per così dire, “al di<br />

qua” di essa, il che verrà aspramente criticato da Hegel (celebre la metafora dell’uomo che<br />

pretendesse di imparare a nuotare fuori dall’acqua).<br />

24. La parabola dell’enciclopedismo ontologico nella modernità.<br />

La prima movenza del progetto enciclopedico della modernità era consistita, con i platonici<br />

rinascimentali, nella posizione dell’intero dell’essere, vale a dire nel riconoscimento della<br />

possibilità di una comprensione unitaria del molteplice condotta sulla scorta di un’ontologia<br />

metafisica fecondata dai guadagni teorici di un’antropologia trascendentale in via di<br />

elaborazione che decreta l’apertura del senso del sapere enciclopedico dando così forma a quella<br />

che abbiamo designato come sua coordinata intensiva, la quale a sua volta sollecita la<br />

costituzione della complementare coordinata estensiva.<br />

Insieme a ciò, il progressivo definirsi della coscienza della soggettività nella riflessione<br />

filosofica trova sbocco in Carolus Bovillus (1483-1553) con l’esplicitazione di intuizioni<br />

particolarmente significative circa il nesso tra il precisarsi della riflessione filosofica intorno alla<br />

soggettività e l’apparentemente contrastante volgersi dell’attenzione verso il sapere della realtà<br />

naturale con l’intensità dimostrata dall’aspirazione enciclopedica. Nell’affiorare, così, dello<br />

scoprirsi del soggetto moderno quale formalità vuota e, con ciò, ricettività pura dell’intera<br />

realtà, in relazione diretta con l’operazione di sintesi del sapere – e quindi della realtà espressa<br />

dal sapere medesimo – ci pare di riconoscere il nesso tra i due fronti, traducibile in metafora con<br />

una sorta di tensione assimilatrice di quanto si rende disponibile (la realtà naturale) dovuto ad<br />

una depressione (la soggettività), il che potrebbe determinare il senso stesso dell’aspirazione<br />

enciclopedica della modernità.<br />

A fronte del sorgere di queste esigenze si coglie una particolare insistenza nella riflessione<br />

logico-retorico-dialettica intorno al problema della topica, ovvero della costruzione della tavola<br />

dei loci communes che col tempo assurgerà al ruolo di griglia di riferimento della<br />

sistematizzazione delle conoscenze. Su questa nel contempo rifluiva in parte la levitazione<br />

simbolica delle forme di conoscenza – che pure andava incoraggiando in tutt’altra direzione<br />

quella ‘deriva’ cui si è precedentemente accennato –, a rafforzare il processo di spazializzazione<br />

della topica e determinare anche figurativamente la dottrina dei “luoghi”, verso una concezione<br />

mappale del sapere.<br />

Ora, è precisamente nella costruzione di queste griglie elementari e quadri di riferimento che<br />

sono osservabili le prime concretizzazioni sperimentali della seconda coordinata<br />

dell’enciclopedismo moderno. La sistematizzazione si rende possibile a partire da queste mappe<br />

del sapere in cui possono trovare adeguata collocazione tutti i dati di conoscenza 7 .<br />

7 Nonostante quanto si pensa (e, talora, si scrive) ordinariamente di fronte a questi tentativi, l’eseguibilità di un tale<br />

progetto, rettamente inteso, non dovrebbe stupire oltre una certa misura gli intellettuali contemporanei, in un<br />

momento in cui la classificazione Dewey, pur con tutti i limiti di un sistema vincolato ad una struttura decimale causa<br />

di squilibri anche vistosi nella ripartizione delle discipline, si è imposta – con pregi e (anche gravi) difetti – nei<br />

sistemi bibliotecari internazionali come sistema di catalogazione tematica capace di assorbire ed inquadrare ogni<br />

possibile pubblicazione. Ciò che ‘salva’, infatti, tali strutture, sono i requisiti della permanente apertura<br />

all’incremento del sapere e la disponibilità a dettagliare sempre e ulteriormente la griglia stabilita, alla quale non si<br />

chiede altro che la copertura del territorio delle scienze nella loro totalità e la garanzia di alcune partizioni sommarie,<br />

lasciando parzialmente fluttuante la struttura interna e, nel caso del sistema Dewey, esso è ‘salvato’ una volta di più<br />

103


La nuova fase aperta da Pierre de la Ramée [Pietro Ramo] (115-1572) nel rapporto ars<br />

reminiscendi / metodo, che riassorbe nel metodo dialettico l’arte della memoria conservandola<br />

in un’accezione strumentale, preserva la migliore linea dell’indagine retorico-dialettica dagli<br />

inquinamenti delle derive magico-esoteriche in cui la tradizione lullista era andata<br />

impelagandosi nella prima metà del ’500.<br />

Si incontrano così i grandi tentativi di organizzazione scientifico-sistematica del pensiero<br />

seicentesco, che si caratterizzano significativamente per la priorità della codificazione di un<br />

metodo che vediamo costituirsi in Francesco Bacone in rapporto all’assunto di un’unità del<br />

sapere avente il proprio fondamento nell’unità della natura che la mente umana può riprodurre<br />

specularmente solo mediante l’applicazione del novum organum, cosicché, secondo quanto<br />

prospettato nel De Augmentis scientiarum, l’enciclopedia del sapere ricava la sua unità<br />

dall’essere un rispecchiamento della grande forma, della configurazione della realtà, della<br />

natura una, dove ritroviamo affermata la metafora lulliana dell’arbor scientiarum, col dire che<br />

«le singole parti [...] assomigliano piuttosto ai rami di un albero che si dipartono da uno stesso<br />

tronco il quale era liscio e continuo prima di dipartirsi nei vari rami» 8 . Ciò garantisce all’edificio<br />

del sapere unità e continuità, giacché Bacone precisa – e l’indicazione è rilevante, giacché è<br />

come se già presentisse il destino di frammentazione cui l’impianto epistemologico moderno<br />

finirà per consegnare le scienze e, da ultimo, l’intera comprensione della realtà – che le<br />

suddivisioni vanno intese «come linee per distinguere e definire le scienze, non come parti che<br />

le separino e le taglino in pezzi» 9 . La metafora dell’albero è ripresa da Cartesio, che ribadisce il<br />

principio di corrispondenza tra il sistema unitario delle conoscenze e la natura nella sua unità e<br />

coerenza, ma l’ordine cui fa riferimento è trasferito dalla configurazione della realtà ai nessi che<br />

si presentano in rapporto alla conoscenza che se ne ha, pur restando all’evidenza la curvatura<br />

ontologica di un pensiero ancorato all’essere.<br />

Nel contempo i cosiddetti enciclopedisti di Herborn, i cui massimi esponenti sono<br />

riconoscibili in Johann Heinrich Alsted, John Amos Comenius [Jan Amos Komensky] e John<br />

Henry Bisterfield, rilanciano il progetto enciclopedico con una più marcata caratterizzazione<br />

fondativa di tipo metafisico e preludono alla proposta della characteristica universalis<br />

leibniziana. Si fa strada in questi autori l’idea di una clavis universalis, di una possibile<br />

codificazione dei caratteri elementari della realtà naturale che ne permetta la lettura e di un<br />

sistema di praecognita quali principi generali delle scienze. Non manca di affiorare ancora, in<br />

Comenius, quel monito che già in Bacone suonava interessante presentimento della deriva<br />

dissociativa delle singole scienze rispetto all’unità organica concepita, verso la quale la<br />

modernità appare destinata: «non vediamo che i rami di un albero vivono solo se tutti<br />

ugualmente traggono la linfa dal tronco comune su radici comuni? Come sperare che i rami<br />

della sapienza possono essere spezzati salvando loro la vita, cioè la verità?» 10 .<br />

Il profilo del tracciato del pensiero enciclopedico perviene, abbondantemente nutrito dagli<br />

enciclopedisti di Herborn e da una serie convergente di fattori e di produzioni testuali che<br />

agli occhi dei contemporanei dalla giustificazione dei limiti della struttura decimale con l’appello alla natura<br />

puramente convenzionale del sistema medesimo.<br />

8<br />

De augmentis, III, 1.<br />

9<br />

Ivi, IV, 1.<br />

10<br />

Amos Comenius, Prodromus pansophiae, XXVI.<br />

104


esprimono una simile sensibilità, almeno per la sua connotazione ontologico-metafisica, al suo<br />

punto di massima leibniziano.<br />

La characteristica universalis leibniziana avrebbe dovuto permettere l’ordinamento logico di<br />

tutte le conoscenze a cominciare dalle definizioni di tutti i termini elementari che danno forma<br />

quello che egli designa come l’alfabeto dei pensieri. Le ricerche e i progetti giovanili di Leibniz<br />

sulla traduzione numerica dei concetti primi delle scienze e la codificazione della<br />

characteristica universalis, se non furono mai abbandonati, rimasero però allo stato di<br />

abbozzo 11 , e a noi resta al massimo di intravvedere una tendenziale saldatura in radice<br />

ontologica di questa intuizione con la metafisica della monadologia quale suo possibile esito.<br />

Con un radicamento ontologico-metafisico del progetto enciclopedico che sembra qui<br />

raggiungere la sua massima espressione, Leibniz si spinge sino ad approssimarsi alla concezione<br />

di un sapere metasistematico: l’intero campo delle conoscenze è rappresentato alla stregua di un<br />

vasto oceano come continuum e per nulla diviso se non «da linee arbitrarie», ma non per questo,<br />

in sé, mancante di oggettività, cosicché «una stessa verità può essere posta in diversi luoghi» –<br />

cioè assumere più posizioni o classificazioni –,«a seconda dei termini medi o cause da cui essa<br />

dipende, e a seconda delle conseguenze e degli effetti che può avere» 12 .<br />

Ma il Settecento, smantellato l’impianto metafisico del secolo precedente, si rassegnò alla<br />

raccolta non gerarchizzata dei dati di conoscenza. Tra la fine del ’600 e l’inizio del ’700<br />

prendono piede dizionari specifici, raccolte di osservazioni e di esperimenti legate alle attività<br />

scientifico-sperimentali, di cui il prodotto più rappresentativo, quanto alle scienze naturali, è il<br />

Systema naturae di Linneo del 1735 13 : è l’affermazione piena della coordinata estensiva del<br />

sapere enciclopedico che si distende nella fitta ricognizione degli enti di natura, investiti dalle<br />

grandi tassonomie, ma che celebrata nella caduta d’interesse se non addirittura a detrimento<br />

della coordinata intensiva, col mancare dell’unità del radicamento ontologico del progetto<br />

enciclopedico originario, orienterà il pensiero moderno alla dissipazione dell’unità e alla<br />

frammentazione dei saperi, sino alla loro incomunicabilità. Si afferma così l’Enciclopedia come<br />

Dizionario, a cominciare con la Biblioteca universale sacro-profana di Vincenzo Maria<br />

Coronelli (1702) 14 , e Dizionario di fatto è il titolo della Cyclopedia di Ephraim Chambers<br />

(1728) 15 e del più noto monumentale progetto dell’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert (1751-<br />

1772) 16 .<br />

11 Menzioniamo in particolare i lavori giovanili Dissertatio de arte combinatoria (Leipzig, 1666), Historia et<br />

commendatio linguae charactericae universalis, quae simul sit ars inveniendi et judicandi (edita dal Raspe in<br />

Oeuvres philosophiques, Amserdam - Leipzig, 1765) ed Elementa charactericae universalis (ed. da L. Couturat<br />

tra gli Opuscules et fragments inédits de Leibniz, Paris 1903).<br />

12 G.W. Leibniz, Nuovi Saggi sull’intelletto umano, IV, 21, Roma - Bari, Laterza, 1988, p. 566.<br />

13 Carl von Linné, Systema Naturae, sive Regna Tria Naturae systematice proposita per classes, ordines,<br />

genera, & species. Rotterdam, 1735; Systema Naturae per Regna Tria Naturae, secundum classes, ordines,<br />

genera, species, cum characteribus, differentiis, synonymis, locis, Stockholm, 1758.<br />

14 Biblioteca universale sacro-profana, antico-moderna, in cui si spiega con ordine alfabetico ogni voce, anco<br />

straniera, che puo avere significato nel nostro idioma italiano, appartenente a' qualunque materia, Venezia,<br />

1701-1704.<br />

15 Cyclopaedia or an universal Dictionary of Arts and Sciences, London, 1728.<br />

16 Encyclopédie, ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et de métiers, par une société de gens de<br />

lettres. Mis en ordre et publié per M. Diderot, ... e quant a la partie mathematique par M. d'Alembert, Paris,<br />

1751-1772.<br />

105


L’Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, promossa<br />

da Denis Diderot e Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert, viene pubblicata in 28 volumi dal 1751<br />

al 1772, con un supplemento di 5 volumi apparsi tra il 1776 e il 1777 e una Table analytique in<br />

due volumi, tra il 1780 e il 1781. Denis Diderot, nell’articolo Encyclopédie, scrive:<br />

Lo scopo di un’enciclopedia consiste nel raccogliere le conoscenze sparse in<br />

tutto il mondo; nell’esporne il sistema generale agli uomini con i quali viviamo, e<br />

nel trasmetterlo ai posteri, affinché le fatiche dei secoli passati non siano state<br />

inutili per quelli che verranno 17 .<br />

E D’Alembert, nel Discours préliminaire, si diffonde in riflessioni che richiamano le<br />

similitudini gnoseologico-epistemologiche del percorso conoscitivo ipotetico-deduttivo:<br />

Il sistema generale delle scienze e delle arti è una specie di labirinto, o<br />

cammino tortuoso, in cui lo spirito s’avventura senza conoscere troppo la strada<br />

da seguire. Spinto dai bisogni propri e da quelli del corpo cui è unito, è portato ad<br />

occuparsi in primo luogo degli oggetti che gli si presentano per primi;<br />

approfondendone poi la conoscenza, si trova ben presto di fronte a difficoltà che<br />

l’arrestano e, disperando di superarle o attratto da nuove speranze, batte un’altra<br />

strada. Torna poi sui suoi passi, supera talora le prime difficoltà, ma non fa che<br />

incontrarne di nuove e, passando da un oggetto a un altro, compie una serie di<br />

indagini, a intervalli e come per balzi successivi, la discontinuità delle quali<br />

sembra conseguire necessariamente dalla genesi stessa delle nostre idee 18 .<br />

Labirinto, mappa, albero, le similitudini cui fa ricorso d’Alembert non implicano il<br />

riferimento ad alcun sistema gerarchico o “metafisico” della realtà, decaduto progressivamente<br />

di interesse, anzi se ne tengono debitamente distanti: lo stesso concetto di albero è ben lontano<br />

dall’idea di arbor scientiarum di lulliana memoria, dove la ‘ramificazione’ delle discipline<br />

riproduce un ordine sistematico della realtà stessa, e si riduce all’ottenimento – quale puro fatto<br />

convenzionale (fra tutti ... si dovrà dare la preferenza a ..., afferma d’Alembert) – della<br />

rappresentazione-albero “che offrirà il maggior numero di connessioni e rapporti fra le scienze”.<br />

Il criterio-guida prescelto sarà, di fatto, gnoseologico, cosicché, come vengono<br />

individuate nella memoria, nella ragione e nell’immaginazione tre modalità di pensiero – “tre<br />

modi diversi con i quali l’anima nostra agisce sugli oggetti del suo pensiero” –, l’intero progetto<br />

enciclopedico è strutturato nelle tre divisioni generali di storia (oggetto della memoria), filosofia<br />

(prodotto della ragione) e belle arti (frutto dell’immaginazione).<br />

17 D. Diderot, art. Encyclopédie, in : Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers.<br />

18 «L’ordine enciclopedico delle nostre conoscenze consiste nel raccoglierle tutte nel minimo spazio possibile e nel<br />

collocare, per così dire, il filosofo al di sopra del vasto labirinto, in un punto prospettico elevato dal quale possa<br />

abbracciare insieme le scienze e le arti principali; cogliere con un solo colpo d’occhio gli oggetti delle sue<br />

speculazioni e le operazioni che egli può fare mediante tali oggetti; discernere le branche generali delle umane<br />

conoscenze, i punti che le separano o le uniscono e intravvedere talora persino i segreti cammini che le uniscono. Si<br />

tratta di una specie di mappamondo che deve indicare i principali paesi, la loro posizione e dipendenza reciproca, il<br />

cammino più breve dall’uno all’altro, cammino spesso interrotto da mille ostacoli; ostacoli che in ogni paese solo gli<br />

abitanti o i viaggiatori possono conoscere e che solo carte molto dettagliate e particolareggiate potrebbero indicare.<br />

Tali carte sono appunto i diversi articoli dell’enciclopedia, mentre l’albero o sistema figurato è il mappamondo. Ma,<br />

come nelle carte generali del globo da noi abitato gli oggetti sono più o meno vicini e si presentano in modo diverso a<br />

seconda del punto di vista dal quale s’è collocato il geografo per costruire la carta, allo stesso modo la forma<br />

dell’albero enciclopedico dipenderà dal punto di vista dal quale ci si colloca per abbracciare l’universo letterario [...]<br />

Certo, tra tutti gli alberi enciclopedici si dovrà dare la preferenza a quello che offrirà il maggior numero di<br />

connessioni e rapporti fra le scienze» (D’Alembert, Discours préliminaire a: Encyclopédie ... cit).<br />

106


Va pur detto che, se tale impianto rinuncia al “sistema”, non abbandona ancora l’idea di<br />

un reticolo di connessioni tra le scienze, di «nessi prossimi o remoti intercorrenti tra gli esseri<br />

che costituiscono la natura», come afferma Diderot nel Prospectus, dove la rappresentazione di<br />

una “paesaggistica del sapere”, per così dire, quale il medesimo splendidamente affresca nella<br />

voce Encyclopédie, tradisce ancora l’assunto di uno sfondo comune di realtà che è, a qualche<br />

titolo, ordine e tessuto organico di relazioni: «Un dizionario universale delle scienze e delle arti<br />

va considerato come una campagna immensa, cosparsa di montagne, pianure, rocce, acque,<br />

foreste, animali, e di tutti gli oggetti che popolano un grande paesaggio. La luce del cielo li<br />

illumina tutti, ma li colpisce in modi diversi. Gli uni, per natura e per esposizione, si protendono<br />

sulla scena in primo piano, altri si dispongono su infiniti piani intermedi, altri sfumano in<br />

lontananza, tutti si valorizzano reciprocamente».<br />

Agli inizi dell’800, la fondazione della nefologia da parte dello scienziato inglese Luke<br />

Howard (Essay on the Modification of Clouds, 1802) porta la coordinata estensiva<br />

dell’enciclopedismo a spingersi sulla classificazione sistematica delle tipologie delle nubi, quasi<br />

nel tentativo di catturare, da ultimo, l’evanescente per eccellenza e di fissare l’estremamente<br />

volatile nella fissità di tipologie ben definite, di codificare un tempo atmosferico che sembra<br />

forse la più viva rappresentazione dell’estrema fluidità del divenire dell’esistenza cui il pensiero<br />

contemporaneo dei due secoli successivi dedicherà tutto se stesso. Un immediato riflesso si avrà<br />

nella pittura di paesaggio di John Constable, che restituisce le forme nuvolose in figure più<br />

definite e precisamente differenziate di quanto non si fosse mai fatto sino a allora, a conferma di<br />

quell’idea ‘visiva’ dell’enciclopedia quale precipitare dell’inafferrabile sotto la presa della<br />

conoscenza, di cui il vedere è massimo simbolo.<br />

La progettualità enciclopedica nel suo spessore ontologico-metafisico risorgerà solo con<br />

le antitetiche proposte dell’idealismo hegeliano, che porterà però alla torsione del progetto<br />

enciclopedico in un ineseguibile sapere assoluto dell’assoluto dove la coordinata estensiva<br />

piega fino a con-fondersi con l’intensiva e ad esserne assorbita, e della sintesi rosminiana, che<br />

riproporrà al meglio le esigenze dell’aspirazione enciclopedica della modernità progettando la<br />

ricomposizione delle due coordinate nella riguadagnata coesione delle polarità complementari di<br />

unità e totalità, mentre poteva intravvedere più da vicino gli esiti della frammentazione dei<br />

saperi che finiranno per caratterizzare di fatto il pensiero e la temperie contemporanea, tanto<br />

nella sfera teorica quanto nella pratica.<br />

25. Tra idealismo ed esistenzialismo.<br />

La concezione dell’estraneità dell’essere al pensiero diventerà dominante nell’Ottocento,<br />

fino a consolidarsi nell’esistenzialismo.<br />

Friedrich Wilhelm Schelling (1775-1854), che accoglie da Fichte la considerazione della<br />

realtà come progressiva realizzazione dello spirito, distingue tra una filosofia puramente<br />

speculativa (“filosofia negativa”) il cui ambito è il possibile, vale a dire la pura essenza, e una<br />

filosofia riguardante la rivelazione divina (“filosofia positiva”) il cui ambito è la realtà attuale o<br />

effettiva (Introduzione alla Filosofia della Rivelazione).<br />

L’esistenza attuale può essere solo sperimentata o rivelata dal suo Autore, mentre la<br />

riflessione razionale parte dal possibile.<br />

107


Søren Aabye Kierkegaard (1813-1855) spinge l’eterogeneità di pensiero ed esistente fino<br />

a sostenere che il secondo sfugge ad ogni possibile “sistema”, ovvero fa sempre eccezione ad<br />

ogni forma di concettualizzazione del pensiero, che riguarderà invece l’universale (Postilla<br />

conclusiva non scientifica alle “Briciole di filosofia”). Così, quello che per Tommaso è la<br />

condizione di conoscibilità del singolo – l’individualità –, in Kierkegaard diventa all’opposto il<br />

motivo dell’impossibilità di una sua concettualizzazione: essere e pensiero non costituiscono<br />

neppure un’unità intenzionale.<br />

26. Hegel.<br />

La Scienza della logica, in cui è esposta nel modo più compiuto e approfondito<br />

l’ontologia hegeliana, si articola in tre parti, rispettivamente dedicate a: l’essere (Sein),<br />

l’essenza (Wesen) e il concetto (Begriff).<br />

Punto di partenza del sapere è l’essere (Sein) considerato nella sua purezza, cioè<br />

prescindendo dalle sue determinazioni particolari.<br />

L’essere è sintesi di immediatezza e mediazione: è qualcosa di immediato e non deve<br />

essere perciò dimostrato, ma solo evidenziato; ma anche questa è una forma di riflessione, e<br />

dunque di mediazione.<br />

Quale punto di partenza, l’essere non presuppone nulla (nessun contenuto): è<br />

semplicissimo, è una perfetta unità, senza alcuna indicazione sul suo declinarsi analogico – è un<br />

essere univoco.<br />

Nella sua assoluta semplicità e unità originarie, l’essere hegeliano è pure indistinzione di<br />

pensiero (Io) e realtà (non-Io). L’essere puro può essere inteso come trascendentale, nel cui<br />

ambito unitario emergono le differenze e le modalità.<br />

Ma anche il pensiero può essere inteso come pensiero puro, non determinato, come<br />

pensiero di un particolare soggetto (Io empirico). Sarà allora pensiero trascendentale: pensiero<br />

come manifestarsi di tutto ciò che si manifesta.<br />

Quindi, nella loro accezione pura, pensiero ed essere sono lo stesso, come già affermato<br />

da Parmenide.<br />

Nell’essere hegeliano finiscono per congiungersi le due accezioni del trascendentale:<br />

quella scolastica e quella moderna rappresentata da Kant. Dal punto di vista scolastico si mette<br />

in rilievo l’intrascendibilità dell’essere; dal punto di vista moderno e, in particolare, kantiano, si<br />

mette in rilievo l’intrascendibilità del pensiero.<br />

Hegel, all’inizio della scienza della logica cerca di mostrare che, nella loro purezza, quelle<br />

due intrascendibilità siano una sola.<br />

Dalla ni-entità dell’essere Hegel ricava il rivosciamento dell’essere nel nulla, in che, per<br />

evitare la pura contraddizione, richiede di essere ricompreso in una figura più ampia capace di<br />

accogliere quali proprie dimensioni astratte, essere e nulla. Una tale figura più ampia è<br />

riconosciuta nel divenire dell’essente, dove il non essere dell’essente passa all’essere e<br />

viceversa. Se interpretata come coincidere nella manifestatività, l’indistinzione di essere e<br />

pensiero è una costante corretta, ma in Hegel lavora il presupposto che l’essere cresca in<br />

qualche modo su se stesso.<br />

108


27. Le sette Modernità. Un affresco.<br />

Tentiamo ora di tracciare una sintesi sul significato del corso della modernità o, per dir<br />

così, delle modernità.<br />

Ciò che specifica la modernità è il principio soggettività, principio affermato, celebrato,<br />

sviluppato, dilatato sino all’ipertrofia di ciò che conosciamo oggi come soggettivismo e di cui<br />

pure soffriamo, sotto diverse forme, dalle relazioni affettive al mondo del lavoro. Sul piano<br />

della forma la modernità è caratterizzata da una dinamica di rottura, di compiacimento della<br />

discontinuità con un passato immaginato e descritto come peggiore del futuro apertosi grazie<br />

alla rottura stessa 19 .<br />

Una Prima Modernità è riconoscibile con il fenomeno dell’insorgenza del principio di<br />

soggettività. Essa si affaccia con l’Umanesimo (a lungo preparato dalle spinte culturali del tardo<br />

Medioevo) e il Rinascimento. Tra gli elementi qualificanti segnaliamo la nascita della figura<br />

dell’umanista come Singolo e dell’artista moderno quale protagonista e genio creativo<br />

assolutamente originale, fino allo scontro con la committenza (si pensi a quello che sarà, tra fine<br />

Cinquecento e inizio Seicento, un Caravaggio), la Riforma protestante come costitutivamente<br />

personalista (si esalta la fede come esperienza personale di grazia, si afferma il principio del<br />

libero esame della Scrittura, si smantella l’apparato della mediazione ecclesiale lasciando<br />

l’uomo come Singolo di fronte a Dio), il mutamento di stile della stessa filosofia, che da Scuola<br />

di pensiero in cui è viva l’idea (positiva) di tradizione, si trasforma in riflessione del Singolo<br />

pensatore che, originalmente, ridescrive di volta in volta il reale in termini radicalmente diversi<br />

e reimpianta le condizioni della speculazioni (da cui la proliferazione del problema del metodo),<br />

l’invenzione della stampa a caratteri mobili (Gutenberg, 1450) che avvia il processo di<br />

personalizzazione della lettura (e della cultura).<br />

Una Seconda Modernità prende forma alla fine del Cinquecento, investe il Seicento e si<br />

determina come esplicitazione del principio di soggettività. In quest’epoca si fronteggiano le<br />

due concezioni alternative di Cartesio, che pone nel cogito il fulcro dell’intera comprensione del<br />

reale, avviandolo sulla china del solipsismo, e di Pascal, che riafferma la destinazione<br />

relazionale della persona, richiamando il Soggetto dalla dimenticanza della propria finitezza e<br />

miseria e prospettando l’autenticazione della persona nella relazione sacramentale del Corpo<br />

Mistico di Cristo: è il percorso dell’Apologie di cui resta traccia nelle Pensées. Il monito di<br />

Pascal sembra rimanere inascoltato (anche a causa dell’incompiutezza dell’Apologie che lascia<br />

nell’equivocità il suo pensiero agli occhi di molti pensatori) almeno dal mainstream filosofico,<br />

ma inaugura comunque un filone alternativo che affiora in più punti con pensatori di spessore e<br />

a tratti penetra nelle linee della discendenza postcartesiana. La rapida espansione delle<br />

conoscenze geografiche e il confluire di una messe di informazioni inaudita in dati di enti<br />

naturali e di culture diverse finisce peraltro per esercitare una certa pressione relativizzante sulla<br />

cultura occidentale e su molti suoi assunti.<br />

Una Terza Modernità si afferma con il Settecento illuminista e si determina come<br />

prevaricazione del principio di soggettività sull’oggettività del reale. Hume, sulla linea<br />

19 In questo senso, il vezzo di molti cattolici postmoderni di ritenere, compiacendosene, il Concilio Vaticano II un<br />

momento di rottura rivoluzionaria con il passato (la cosiddetta ermeneutica della discontinuità) è strutturalmente<br />

“moderno”. Come è moderna la moda della ribellione e della trasgressione assegnata dalla mentalità vigente<br />

all’identità del “giovane”.<br />

109


dell’empirismo inglese, nega validità ai principi fondamentali della logica classica (decisiva la<br />

critica al principio di causalità) e, perciò, dell’ontologia metafisica. Coerentemente procede ad<br />

una prima desostanzializzazione della persona, ridotta a scenario di accadimenti. Kant, con la<br />

cosiddetta “rivoluzione copernicana”, procede ad una ridefinizione dei rapporti tra soggetto e<br />

oggetto che comporta una disoggettivazione della realtà, inattingibile nella sua essenza propria,<br />

posta la distinzione netta e radicale tra il fenomeno e il noumeno (la cosa in sé). Nell’ambito<br />

della filosofia della prassi la ricaduta immediata è la sostituzione del paradigma dell’agire: il<br />

modello teleologico (e, solidalmente, eudaimonistico - assiologico - aretalogico) di ascendenza<br />

(socratico-platonico-) aristotelica (agire per il bene) è sostituito con il modello deontologico,<br />

che inaugura, con l’intento di purificare (!) l’agire dalle ragioni d’interesse, il formalismo<br />

morale (il dovere per il dovere).<br />

La cultura occidentale conosce una Quarta Modernità con il Sette-Ottocento idealistico e<br />

romantico e si determina come totalizzazione del principio di soggettività portato in equazione<br />

col reale assoluto. Con Hegel viene a consumazione il processo di ipertrofizzazione del<br />

soggetto, che è portato in equazione con l’Assoluto, e questo con la Storia.<br />

Una Quinta Modernità si afferma con la stagione postideaistica e si determina come<br />

contrazione del principio di soggettività totalizzato al reale finito diveniente. Di qui in poi il<br />

pensiero occidentale sarà una grande, crescente, pervasiva celebrazione del divenire, una<br />

celebrazione che si traduce in un’erosione progressiva degli Immutabili, cioè, al fondo, della<br />

stabilità dell’essere a fondamento della realtà. Si assolutizza il divenire a detrimento della<br />

stabilità (eternità) dell’essere, di cui in teologia il fondamento e garante ultimo è Dio, di cui si<br />

progetta perciò la rimozione. Di qui la piega anti-teistica e antireligiosa assunta da quei<br />

pensatori che hanno esercitato l’influenza non certo unica ma senza dubbio dominante sullo<br />

sviluppo del pensiero contemporaneo 20 . Se tutto è diveniente nulla è eterno. È l’epoca dei<br />

positivismi, sociali ed evoluzionistici, dove il Singolo (contrazione) è paradossalmente assorbito<br />

nei grandi movimenti dei corpi sociali della Storia. Così in Comte al culto di Dio si sostituisce il<br />

culto del Grande Essere (l’umanità nella storia). Il positivismo è riduzionista e scientista. In<br />

questa fase tre pensatori affermano, in ambiti diversi, il fattore conflittuale come necessario e<br />

pervasivo: esso è, come lotta per la sopravvivenza, la legge fondamentale dell’evoluzione delle<br />

specie viventi, per Charles Darwin; quale dialettica delle masse sociali è il principio animatore<br />

della storia per Karl Marx (“la storia è storia di lotta di classi”); come struttura conflittuale<br />

intrasoggettiva ed intersoggettiva (generazionale) è il fattore fondamentale della maturazione<br />

nel passaggio allo stato adulto, secondo Sigmund Freud. L’esito compiuto dell’assolutizzazione<br />

del divenire lo si ha con Friedrich Nietzsche, che proclama la generale irrazionalità della realtà,<br />

la tragicità della vita e l’assoluto non senso di cui l’uomo deve comunque farsi carico, nel<br />

radicale rifiuto del rifugio in ogni forma di sapere stabile in cui l’Occidente ha cercato di<br />

rinchiudere il divenire. Annunciata la morte di Dio (Nietzsche maledice il Cristianesimo come<br />

somma espressione del vile rimedio consolatorio alla tragicità del divenire), solo un<br />

Übermensch, un “ultra-uomo” (nel senso di un uomo capace di portarsi oltre la dimensione<br />

20 Lungo questa linea vedremo Dio di volta in volta respinto come uno stadio arcaico e prescientifico di spiegazione<br />

della realtà (A. Comte), una proiezione dell’uomo (L. Feuerbach), l’“oppio del popolo” e “un inganno di preti” (K.<br />

Marx), l’illusione di persone rimaste ad uno stato infantile (S. Freud), il risentimento dei vinti e una vigliaccheria per<br />

perdenti (F. Nietzsche), o sarcasticamente liquidato come “un vertebrato gassoso” (Th. Huxley).<br />

110


sinora vissuta) è in grado di assumersi tutta la tragicità del divenire e di liberarla con gioia alla<br />

massima possibilità dell’esistenza dando luogo ad una trasmutazione radicale di tutti i valori. Il<br />

nichilismo esprime la consumazione del processo della celebrazione del divenire. È l’apologia<br />

dell’irrazionale. L’annuncio della morte di Dio non è l’annuncio della morte di Dio<br />

religiosamente inteso, ma della fine della totalità della cultura umana, quale ha avuto corso sin<br />

dall’origine dell’indagine sul senso dell’essere. La morte di ogni fondamento stabile, metafisico,<br />

incontrovertibile. La totale assenza, ottenuta per rimozione, di qualsiasi significato ultimativo<br />

dell’esistenza, di qualsiasi stare sotto il divenire, è proclamata, giacché il divenire è il tutto: la<br />

totalità è divenire e il divenire è la totalità. L’equazione non lascia residui. L’erosione del<br />

fondamento è compiuta. La stessa reazione della corrente spiritualista, con Henri Bergson,<br />

perviene alla medesima assolutizzazione del divenire, pur nel segno opposto, positivo, del<br />

sorprendente dinamismo di una creazione continua.<br />

Una Sesta Modernità prende forma tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del<br />

Novecento e si determina come traslazione del principio di soggettività diveniente al piano<br />

esperienziale della coscienza come vissuto. Vediamo allora delinearsi la fenomenologia di<br />

Husserl, che figlierà, con il suo allievo Heidegger, l’esistenzialismo contemporaneo. Il soggetto<br />

è qui concepito come esperienza immanente lanciata nel divenire fluido dei dati della coscienza.<br />

L’esistenza è allora intesa come ex-sistere, esser gettati, proiettati.<br />

Una Settima Modernità è riconoscibile nella condizione presente della cosiddetta età (o<br />

cultura) postmoderna, e si determina come disgregazione della soggettività totalizzata e<br />

diveniente nell’esperienza come frammentarietà. L’Io è diviso, l’unità del soggetto è persa, esito<br />

coerente dello sviluppo della comprensione humiana della persona umana come scenario.<br />

Nell’io diviso si è preteso di aprire orizzonti sconfinati di libertà in forza della sottrazione al<br />

logos, consegnando l’esperienza all’instabilità esistenziale e soprattutto affettiva.<br />

Il postmoderno è la cultura, anzi, l’anticultura della trasgressione come esito ultimativo di<br />

una libertà malata che sembra vivere del reiterato riscontro di poter rompere i limiti, e goderne e<br />

protestarne la rottura come vera affermazione della propria personalità e indipendenza assoluta.<br />

Ab-soluta, appunto, ovvero sciolta da ogni legame, e se lo stesso vincolo del matrimonio come<br />

indissolubile non è quasi più neppure compreso, dobbiamo riconoscerne in questo la radice.<br />

Ancora, la trasgressione si installa come atteggiamento permanente della temperie<br />

culturale contemporanea. Essa perde persino l’oggetto di cui nutrirsi quale bersaglio e si riduce<br />

a vuota formalità. L’etimologicamente dia-bolica forma dei conflitti generazionali (beninteso, al<br />

livello di esasperazione cui sono giunti nel nostro tempo e che nessuna civiltà aveva<br />

precedentemente conosciuto) – trattati dallo stesso mondo adulto come una ‘necessità’<br />

inevitabile quanto abilmente sfruttati e strumentalizzati da sciagurate logiche politiche e<br />

commerciali – risponde alla medesima configurazione della relazione al mondo, quale si è<br />

venuta a determinare nella temperie postmoderna 21 .<br />

Era dell’incertezza e della fluidificazione, dell’assenza sollevata contro la Presenza che<br />

della tradizione metafisica è il cuore solido e profondo, del dis-orientamento e della dis-<br />

21 Si rimanda a questo proposito al nostro saggio Sulla valenza ontoetica della trasgressione nel pensiero del<br />

Novecento, in: AA.VV., Etica del plurale. Giustizia, riconoscimento, responsabilità, a cura di E. Bonan e C. Vigna,<br />

Milano, Vita e Pensiero, 2004, pp. 125-144.<br />

111


organizzazione esistenziale rabbiosamente protestata come inevitabile e persino più grande e<br />

più coraggiosa di una progettualità esistenziale stabile, unitaria, coerente, il postmoderno è l’era<br />

della frammentazione. Frammentazione dei saperi, ma pure delle scelte, dei piani esistenziali,<br />

degli assetti assiologici e delle loro implicazioni pratiche. Una frammentazione quale<br />

condizione pervasiva di ogni aspetto della realtà e del vissuto che con questa si misura ogni<br />

giorno e che risulta perciò inerire all’attuale condizione antropologica quale è andata maturando<br />

dalla coscienza dell’uomo moderno e contemporaneo.<br />

Ci si può chiedere se ci attende, oltre la presente, un’ottava Modernità. Che sia ancora<br />

modernità, quindi, nel senso del principio materiale e formale, cioè tale da onorare l’innegabile<br />

grandezza del Soggetto senza per questo perdere di vista la sua finitezza e la sua non<br />

autosostenibilità – cioè, poi, il fatto che sia obbligato a sostanziarsi passando attraverso la<br />

relazione ad altri – e da rompere, ancora una volta, con il recente passato: quello di<br />

un’inadeguata comprensione della realtà, che ha finito per inautenticarlo e renderlo sofferente<br />

pellegrino delle regioni incomprese dell’essere. La risposta sarà positiva se sapremo<br />

reimmettere nella corrente della “grande” filosofia – quella stessa che è andata prosciugando il<br />

proprio corso nella rinuncia a porsi le domande fondamentali (e con ciò ha rinunciato ad essere<br />

grande, anzi, ad essere filosofia) – i fermenti di una risposta solida e coerente alle sollecitazioni<br />

della modernità, se sapremo ritrovare tra i cespugli le tracce di un sentiero aperto e non ancora<br />

percorso fino in fondo, eppure non propriamente “interrotto”, giacché la Verità che abita il logos<br />

non conosce né soffre interruzione alcuna.<br />

28. Antonio Rosmini.<br />

Rispetto al corso descritto, la proposta di Rosmini, rapportandosi direttamente alle<br />

problematiche sollevate dalla modernità, intese rappresentare una solida alternativa a fronte<br />

degli esiti idealista da un lato e positivista dall’altro, a lui contemporanei. Con lo spirito di<br />

un’acuta preveggenza sugli sviluppi del pensiero successivo, tale quale caratterizza, nella storia,<br />

alcuni rari anticipatori dei tempi a seguire, intravvide il corso che avrebbe preso la riflessione<br />

filosofica e, in generale, la cultura occidentale, nei secoli successivi e che già si annunciava con<br />

alcuni indizi e scavò il letto di un corso alternativo nel breve tratto che separava Kant da Hegel,<br />

con una previa e mirata canalizzazione a monte dello stesso Kant, consistente in primo luogo in<br />

una rifondazione equilibrata del rapporto soggettivo-oggettivo alla realtà.<br />

Nell’auspicare la rinascita di una vera filosofia, Rosmini ne addita i “due caratteri”<br />

essenziali nell’unità e nella totalità, categorie nelle quali è possibile riconoscere le due<br />

coordinate fondamentali del pensiero enciclopedico, come del resto è evidente dalle precisazioni<br />

dello stesso autore del Nuovo Saggio:<br />

[...] i due caratteri [...] della UNITÀ e della TOTALITÀ, col primo de’ quali<br />

ella [la vera filosofia] dia consistenza e pace alle cognizioni, col secondo dia<br />

quell’immenso pascolo allo spirito umano, del quale egli è famelico, e senza il<br />

quale non può reggere, e cader deve necessariamente, come ogni qual volta è<br />

sottratto all’uomo un bene essenziale al suo spirito, in una specie d’intellettuale<br />

frenesia. La prima verità, forma dela ragione, essendo unica e semplicissima in se<br />

medesima, dà necessariamente la più perfetta UNITÀ a tutto quel sapere che da<br />

lei si deriva; e non essendovi alcun sapere che da lei non si derivi e non si parta,<br />

112


necessariamente ella abbraccia il tutto in una fecondità immensa, e quindi è<br />

subbietto di una filosofia che ha il carattere della TOTALITÀ 22 .<br />

Le parole di Rosmini mostrano chiaramente come egli intenda con unità il sapere del<br />

fondamento – grazie ad essa la filosofia dà “consistenza e pace alle cognizioni”, cioè permette di<br />

ri-posare, vale a dire fondare, nella stabilità dell’essere, ogni dato di sapere – e con totalità il<br />

sapere del molteplice dell’essere nelle sue determinazioni fino alle pieghe più minute della<br />

realtà naturale, e che nell’insieme rappresenta l’“immenso pascolo” disponibile alla presa<br />

dell’intelletto. Siamo di fronte alle coordinate intensiva ed estensiva, ovvero ontologicofondativa<br />

e fenomenico-descrittiva dell’aspirazione enciclopedica quale è venuta configurandosi<br />

all’alba della modernità.<br />

Di contro alle opinioni filosofiche succedutesi nella storia del pensiero e da ultimo<br />

approdate alla rotazione di prospettiva del soggettivismo moderno, la Prefazione al Nuovo<br />

Saggio conclude opponendo che «all’uomo non resta che di farsi discepolo della natura; di<br />

scrutarla, e non prevenirla; di rilevarne le leggi, e non dettargliele: non isbigottendosi poi se<br />

quelle leggi ch’egli rileva essere nella natura sì fisica come intellettuale o morale, sieno altre da<br />

quelle che gli mostravano dover essere le vane sue prevenzioni, ma rimanendo sempre fedele<br />

alla credenza viva di una sapienza altissima che il tutto corregge e governa» 23 .<br />

Fedeltà al reale e alla verità dell’essere nella sua luminosità fondamentale che permette di<br />

accostarne e conoscerne tutte le articolazioni: riconosciuta la luce dell’idea dell’essere che tutto<br />

permea e unifica, all’indagine della natura resta di porsi semplicemente in osservazione della<br />

ricca ed inesauribile articolazione dell’essere nelle sue determinazioni, sapendo guardare alle<br />

“essenze delle cose” che, come afferma lo stesso Rosmini nel Nuovo Saggio, «sono i principi<br />

delle scienze tutte, come aveva già detto l’antichità, e quindi l’idea dell’essere è il fonte e il<br />

fondamento di tutto il sapere umano» 24 .<br />

Nella Teosofia Rosmini concepisce l’essere nella sua assoluta purezza o primordialità,<br />

nell’originarietà di un “essere iniziale” che è originaria indistinzione anche di attualità (l’essere<br />

reale) e possibilità (essere ideale). Questo essere iniziale è semplicemente l’essere<br />

trascendentale, in senso radicale, e non va confuso con i “reali” quali sue manifestazioni<br />

particolari (essenti finiti, molteplici, divenienti, di cui si ha esperienza). Queste sono, per<br />

Rosmini, le “terminazioni inadeguate dell’essere” (inadeguatezza degli enti all’essere).<br />

L’unificazione intorno all’essere del sistema rosminiano si compone con la distinzione<br />

nelle tre grandi forme o categorie, i tre grandi ambiti in cui è sempre l’essere che si ripresenta<br />

quale essere reale (primo ontologico), essere ideale (primo gnoseologico) ed essere morale<br />

(primo pratico), che per la legge della circuminsessione costituiscono i contenenti massimi delle<br />

altre forme, nelle quali sono a loro volta a diverso titolo, contenuti.<br />

Le tre forme dell’essere hanno dunque tra di sé la relazione di contenente; ma<br />

questa relazione è d’un modo diverso per ciascuna delle diverse forme, modo<br />

determinato dalla loro natura.<br />

22<br />

Nuovo Saggio sull’origine delle idee, Prefazione, n. 7, cit., vol. I, pp. 97-98.<br />

23<br />

Ivi, n. 24, p. 114.<br />

24<br />

Nuovo Saggio sull’origine delle Idee, par. 1453.<br />

113


La forma subiettiva è la sussistenza. Questa è dunque contenente massimo<br />

nell’ordine de’ sussistenti: in quanto è l’atto del sussistere in tanto ella contiene<br />

in sé anche l’altre due forme.<br />

La forma obiettiva è l’inteso come inteso, da cui viene l’intelligibile o lo<br />

scibile. Questa forma dunque è contenente massimo nell’ordine degli scibili: in<br />

quanto è l’inteso, in tanto contiene tutte le cose intese, anche l’altre due forme<br />

come intese o come scibili.<br />

La forma morale è l’amato come amato, da cui viene l’amabile. Questa forma<br />

dunque è contenente massimo nell’ordine de’ beni, ossia degli amabili: in quanto<br />

è l’amato, l’amabile, il bene, ella contiene tutti gli amati, i beni, gli amabili, anche<br />

l’altre due forme come amabili.<br />

Se dunque si tratta dell’ordine de’ sussistenti, la forma della sussistenza,<br />

essendo contenente, è prima, ed è quella da cui le cose si denominano sussistenti.<br />

La sussistenza stessa delle altre due forme è in essa e per essa. Poiché l’oggetto, e<br />

il morale sussistono perché hanno la forma della sussistenza in se stessi, e sono<br />

da questa contenuti come sussistenti.<br />

Se si tratta dell’ordine degli scibili, a cui appartengono tutti gli astratti, e però<br />

anche le forme categoriche, la forma oggettiva, essendo contenente, è prima ed è<br />

quella da cui le cose si denominano cognite. Le altre due forme esistono come<br />

cognite in quanto sono in essa contenute.<br />

Se si tratta dell’ordine de’ beni, la forma morale, essendo contenente, è prima,<br />

e le due altre sono e si denominano bene perché si considerano in essa<br />

contenute 25 .<br />

Rosmini argomenta l’esistenza di Dio registrando l’inadeguatezza dell’essere reale finito<br />

rispetto all’infinità dell’essere ideale, che chiede un reale corrispondente adeguato. Acquisita la<br />

disequazione tra l’essere indeterminato e l’essere reale esperito, il Roveretano sviluppa due<br />

movenze dell’argomentazione, che potremmo ritenere due argomenti distinti o due varianti<br />

complementari dello stesso argomento:<br />

- da un lato egli fa leva sulla constatazione che «le realità finite non esauriscono la<br />

possibilità universale dell’essere, la quale non ammette limite alcuno» 26 e postula l’esistenza di<br />

un reale infinito adeguato: «l’essere indeterminto non potendo non esistere, e nello stesso tempo<br />

non potendo esistere come indeterminato, deve di necessità avere un suo termine proprio,<br />

nascosto al nostro intuito, che lo completi, unito al quel termine sia ente, ed ente necessario» 27 .<br />

- dall’altro fa leva sul pensato come necessariamente relativo al pensante: l’essere intuito<br />

dalla mente ha una relazione essenziale con la medesima, ma la mente umana è particolare e<br />

contingente, mentre l’essere intuito è universale, necessario, eterno, per cui deve sussistere «una<br />

relazione dell’essere con una mente che non sia diversa dall’essere stesso e che non è l’umana,<br />

25 Ivi, I, l. III, sez. IV, c. VI, art. III, 958. Ancora: «L’essere obietto contiene il subietto, e reciprocamente il subietto<br />

contiene l’obietto. Dall’unione poi e dall’inesistenza dell’uno nell’altro procede la loro unione che è la terza forma<br />

dell’essere contenente entrambe, e contenuta nell’una e nell’altra delle due prime.<br />

Se dunque si considera l’obietto come contenente il subietto e la forma morale si ha il primo genere di ordini cioè<br />

l’ordine obbiettivo, d’intelligibilità.<br />

Se si considera poi che l’obietto non può star solo perché si riferisce al subietto e perciò lo si considera come<br />

contenuto in questo e questo come contenente l’obietto e la forma morale, si ha il secondo genere, l’ordine subiettivo,<br />

di sussistenza.<br />

Se finalmente si considera la terza forma d’unione che contiene il subietto e l’obietto, ossia il subietto contenuto<br />

nell’obietto, si ha il terzo genere, l’ordine morale, di perfezione, che negli enti finiti appartiene al subietto anch’esso,<br />

onde si può chiamare ordine subiettivo di perfezione. Ma nell’Essere infinito sussiste da sé» (ivi, I, l. III, sez. IV, c.<br />

VIII, 980).<br />

26 A. Rosmini, Teosofia, I, c. IX, 87.<br />

27 Ivi, I, l. II, sez. IV, c. II, 404.<br />

114


ma necessaria ed eterna come l’essere. L’essere dunque 1.° dee avere un’esistenza indipendente<br />

dalla mente umana e da ogni mente separata da lui e però deve essere anche reale non solamente<br />

ideale come apparisce alla mente umana; 2°. Quest’essere reale che assolutamente è, dee essere<br />

intelligente e non solamente intelligibile, benché tutto ciò rimanga nascosto all’intuito e alla<br />

percezione immediata dell’uomo» 28 .<br />

Rosmini formula ancora in questi termini l’argomentazione, designandola dimostrazione<br />

a priori dell’esistenza di Dio:<br />

L’essere virtuale e iniziale, ossia l’essere intuito per natura di cui la<br />

riflessione scoperse le relazioni di virtualità e inizialità, è necessario come<br />

abbiam veduto, perché l’essere non può non essere. Ma egli non è un ente, è<br />

dunque qualche cosa d’un ente. Ma quest’ente di cui quell’essere è qualche cosa,<br />

non può essere un ente contingente, perché il contingente è l’opposto del<br />

necessario. Dunque l’essere intuito dall’uomo deve necessariamente esser<br />

qualche cosa d’un ente necessario ed eterno, causa creante, determinante e<br />

finiente di tutti gli enti contingenti, e questo è Dio 29 .<br />

La teologia filosofica di Rosmini si fonda perciò sul rilievo della disequazione tra<br />

l’infinità dell’essere ideale intuito (assoluto e indeterminato) e la finitezza dell’essere reale<br />

subiettivo, che non compensa il primo e chiede un reale adeguato. A questo si collega il rilievo<br />

dell’antinomia nel rapporto tra unità e molteplicità dell’essere, antinomia riconciliata dalla<br />

rivelazione della Trinità di Dio, che rende concepibile la simultanea unità e molteplicità<br />

dell’essere.<br />

L’essere ideale contiene virtualmente la molteplicità dell’entità: è il “determinabile<br />

universale” di ogni ente. È pure, come “possibilità di qualunque cosa”, la proprietà<br />

onnicomprensiva di tutti: l’esistenza. È l’atto di ogni ente.<br />

Per Rosmini «l’essere virtuale e iniziale è assolutamente necessario». Se è necessario<br />

«non può essere parte alcuna del contingente, ma deve essere un’appartenenza di un ente<br />

necessario» 30 .<br />

Capovolgendo l’argomento precedente (o, se vogliamo, la variante “gnoseologica”<br />

dell’argomento) e considerando in primis l’essere reale per passare poi all’essere ideale (la sua<br />

intelligibilità) ad esso necessariamente connesso, troviamo che: «1°. Ogni cosa reale non<br />

potrebbe essere e non sarebbe se non fosse concepibile; 2°. essendo concepibile ha la sua<br />

essenza ideale o intelligibilità; 3°. questa è immutabile ed eterna; 4°. ma non potrebbe essere<br />

eterna se non ci fosse una Mente eterna che la concepisce. 5°. dunque niuna cosa può realmente<br />

esistere, se non è ab aeterno attualmente concepita» 31 .<br />

La considerazione del molteplice porta alla descrizione dell’atto creativo in rapporto<br />

all’essere trinitario di Dio, dove il Padre è concepito come la realizzazione assoluta dell’essere<br />

reale, che pone la propria intelligibilità nel Verbo quale essere ideale (oggettività) e dalla cui<br />

relazione scaturisce lo Spirito che esprime l’essere morale, la cui perfezione, in Dio, realizza<br />

quale santità.<br />

28<br />

Ivi, I, l. III, sez. II, c. III, 797.<br />

29<br />

Ivi, I, l. II, sez. II, c. II, 298.<br />

30<br />

Ivi, 295.<br />

31<br />

Ivi, I, l. II, sez. IV, c. V, art. II, 453.<br />

115


L’atto creativo si articola in tre “momenti”, tra i quali si dà solo distinzione logica, non<br />

nell’ordine della successione temporale, non essendovi temporalità in Dio:<br />

I momento: astrazione divina. L’intelligenza dell’Essere assolutamente libero astrae<br />

dall’assoluto Oggetto l’essere iniziale: nell’essere assoluto oggettivo distingue l’inizio dal<br />

termine.<br />

II momento: immaginazione divina. L’Assoluto produce il secondo elemento degli enti<br />

contingenti: il termine reale finito: immagina il termine reale contenuto virtualmente nell’essere<br />

iniziale contemplato delimitando tutti i reali possibili.<br />

III momento: sintesi divina. Si produce l’unione dei due elementi, con la quale sono creati<br />

gli enti finiti: la sintesi dell’essere iniziale comune di tutti gli enti finiti e il reale finito<br />

determina i diversi reali finiti, termini diversi dello stesso essere iniziale.<br />

Scrive Rosmini:<br />

Il Mondo, abbiam detto, è contenuto virtualmente nell’Oggetto assoluto, ma<br />

come oggetto determinato è ab aeterno distinto dalla Mente libera in Dio, e<br />

quest’oggetto è l’archetipo divino del Mondo, non pura idea, ma tipo reale da cui<br />

risulta la realizzazione, ossia l’esistenza relativa del mondo in sé. L’ordine logico<br />

in fatti che si concepisce nella creazione del mondo, mostra che il mondo non<br />

potrebbe esser creato se prima non fosse generato il Verbo. Il Verbo poi generato<br />

lo contiene virtualmente. Ma il Padre coll’atto stesso con cui genera il Verbo<br />

distingue ab aeterno in esso l’Archetipo del mondo e questo distinguerlo è ad un<br />

tempo crearlo. È dunque il Mondo contenuto prima nel Verbo per opera del<br />

Padre, ed essendo il Verbo generato, nel seno del Padre, di conseguente anche il<br />

mondo creato è nel Padre. Ma poiché tutto quello che è nel Verbo è amato,<br />

conviene che anche il mondo sia contenuto in un terzo modo in Dio, cioè<br />

contenuto nell’Amore divino, che in quanto sussiste colla relazione di contenente<br />

Massimo è la terza persona. Il mondo dunque e ogni cosa in esso è contenuto in<br />

Dio in un triplice modo. E quando si considera così contenuto, e non nella sua<br />

pura esistenza relativa, non è più un uno intero, ma qualche cosa che appartiene<br />

ad un uno maggiore, cioè a Dio che è l’uno intero assoluto, il quale non è<br />

contenuto in altro per essenza, ma solo per partecipazione 32 .<br />

L’atto creativo è concepibile soltanto ammettendo la Trinità divina: solo perché Dio,<br />

unica Essenza in tre Persone, conoscendo se stesso può astrarre da se se stesso e amarsi in Altro<br />

da sé, è causa del mondo.<br />

Ancora, il processo di entificazione, riguardato dal lato dell’esperienza del finito, che si<br />

dà alla coscienza sempre nell’orizzonte dell’oggettività dell’essere ideale, fonda la ragione di<br />

continuità ontoetica e naturale-soprannaturale dell’essere: la Rivelazione completa, in<br />

32 Ivi, I, l. III, sez. IV, c. X, 1091. Peraltro, «Essendo Dio atto intellettivo, niente ripugna che quest’atto abbia ab<br />

aeterno inteso se stesso e in se stesso il mondo; ed essendo Iddio pure atto volitivo, niente ripugna che abbia<br />

affermato e voluto se stesso e in se stesso il mondo: dacché questa è la natura dell’atto intellettivo e volitivo, di poter<br />

intendere e volere più oggetti l’uno dentro l’altro, senza divenir due atti, ma restando un atto solo. Che poi rispetto a<br />

se stesso quest’atto sia volizione libera, ciò non moltiplica l’atto, ma solo il concetto; perché la differenza della natura<br />

necessaria e della natura libera in Dio nasce dal rispetto che il medesimo atto ha co’ due oggetti legati in uno, l’uno<br />

de’ quali ha la proprietà di costituire Iddio (d’esser Dio), e però si dice oggetto necessario, l’altro ha la proprietà di<br />

non costituire Iddio essere necessario, e però si dice contingente. Onde l’atto stesso divino riceve l’appellazione di<br />

necessario e di libero da’ suoi oggetti, secondo che la mente la considera in quanto si riferisce al secondo come causa.<br />

E nulladimeno, l’atto di Dio essendo eterno ed immutabile non solo come Principio del Verbo, e Verbo e Spirito<br />

Santo, ma anche causa del mondo, perciò dicesi quest’atto causa bensì ibera, ma non contingente, come acutamente<br />

osserva l’Aquinate» (ivi, IV, 1286).<br />

116


contenuti, quanto delineato in sede speculativa, confermando la coerenza delle acquisizioni<br />

dell’indagine filosofica con un arricchimento perfettivo della stessa sfera della prassi:<br />

Ora noi vedemmo che entro i limiti della natura umana l’essere non si<br />

manifesta se non con una comprensione totale sì ma del tutto virtuale, che è quasi<br />

una capacità, un vuoto immenso da riempire, o se si vuol meglio un abisso<br />

profondo nel quale c’è tutto, ma per la cupa sua oscurità nulla si vede. L’essere<br />

dunque manifesto in questa maniera all’uomo, con questa infinita virtualità,<br />

infinita estensione e nulla comprensione dev’essere l’oggetto della moralità<br />

naturale.<br />

Ma la stessa ragione umana poi s’avvede che quanto l’essere contien ne’ suoi<br />

visceri, il qual contenuto dee essere infinito come lui, non solo di necessità è (che<br />

altrimenti non sarebbe il contenente che pur si conosce); ma può anche<br />

comunicarsi e manifestarsi. S’avvede di conseguente che se l’essere si<br />

manifestasse con tutta questa ricchezza a sé essenziale che racchiude in seno, egli<br />

sarebbe vivente, e acquisterebbe una esistenza subiettiva davanti alla mente, che<br />

renderebbe possibile il secondo e più perfetto grado dell’inoggettivazione che<br />

abbiamo descritta, e conseguentemente un altr’ordine più sublime di moralità. E<br />

quest’ordine, perfettivo del primo, i cristiani asseriscono e credono di possederlo;<br />

e giustamente si dice soprannaturale 33 .<br />

29. Un’epistéme senza ontologia. Edmund Husserl.<br />

Edmund Husserl (1859-1938) riafferma l’esigenza della filosofia di raggiungere l’ideale<br />

epistemico di scienza rigorosa e perfetta, incontrovertibile. Parla di un edificio solido del sapere<br />

filosofico e retto dal basso sopra un fondamento assicurato contro il dubbio, quindi è il massimo<br />

della solidità.<br />

Questo fondamento è l’esperienza vissuta della coscienza nel divenire nei contenuti di<br />

coscienza che la storia personale presenta nel loro fluire continuo. Epistéme, allora, non è<br />

l’affermazione di strutture immutabili dell’essere sussistenti oltre l’esperienza dell’essere in<br />

divenire, ma la comprensione rigorosa proprio del divenire.<br />

Come comprensione rigorosa del divenire, la vera filosofia deve sollevarsi dal piano della<br />

prospettiva naturalistica, che attribuisce agli eventi psichici il carattere di fatti naturali che<br />

accadono nel tempo sul piano di una fenomenologia pura. Le cose che si manifestano sono i<br />

fenomeni, l’apparire e non nel senso superficiale, ma nel senso che ciò che appare è la verità ed<br />

a questo dobbiamo attenerci e non v’è altro, non abbiamo altra certezza, altro contenuto<br />

disponibile alla coscienza.<br />

Una scienza non di fatti, ma di essenze (la scienza così detta eidetica, da eidos - forma, da<br />

cui anche l’idea platonica), che impone il passaggio ad una fenomenologia pura, con un<br />

mutamento radicale di atteggiamento e di prospettiva. Questo mutamento consiste nella<br />

sospensione dell’affermazione della realtà che è propria dell’atteggiamento naturalistico.<br />

Qual è l’atteggiamento naturalistico? Quello che dichiara una consistenza ontica della<br />

realtà oltre i fenomeni. Ma noi abbiamo i fenomeni e quelli oltre l’evidenza originaria null’altro<br />

aprono alla coscienza.<br />

33 Ivi, I, l. III, sez. III, c. I, 881.<br />

117


L’assetto della gnoseologia naturalistica è che l’intelletto aderisce nell’esperienza<br />

conoscitiva al piano di realtà. Il naturalismo è anche realismo: c’è la res rispetto alla quale il<br />

mio piano conoscitivo entra in adeguazione, cioè va ad aderirvi, e in quel punto fa una cosa sola<br />

con la res conosciuta: cognoscens et cognitum in actu sunt unum, dice Tommaso. Senza quella<br />

precisazione, in actu, si finisce nell’idealismo assoluto di Hegel, per cui tutto il mio contenuto<br />

di pensiero è la realtà e tutta la realtà è contenuto di pensiero. In actu, in atto, nel mentre io<br />

sento, ad es., la campana che suona, vi aderisco, in quel suono vado in contatto e posso anche<br />

affermare qualcosa, ma la campana suona indipendentemente dal mio dire.<br />

In Husserl l’alternativa è di attenersi al piano fenomenologico, oltre il quale si opera una<br />

sospensione di giudizio, detta epoché fenomenologica. Fare epoché (ἐποχή) significa sospendere<br />

l’affermazione di realtà e assumere l’atteggiamento di semplice spettatore. Io sono solo lo<br />

spettatore sullo scenario di questa vita che è puramente contenuti di coscienza che passano e<br />

questo passare è appunto il loro divenire. La mia esperienza, che è un divenire di coscienza,<br />

appunto l’esperienza vissuta che è l’erlebnis, in un fluire continuo.<br />

Con l’epoché fenomenologica non posso dire se quella cosa che mi appare ha una sua<br />

consistenza ontica e quale: il mondo si presenta quale puro fenomeno di coscienza, in tutte le<br />

sue determinazioni, anche secondarie, in tutto il complesso che vivo.<br />

La riflessione filosofica allora si sposta dal mondo della realtà ai fenomeni nei quali il<br />

mondo si presenta alla coscienza, cioè al suo residuo fenomenologico, vale a dire a ciò che<br />

rimane dopo l’epoché.<br />

<strong>Nelle</strong> Meditazioni cartesiane Husserl scrive: «Al di sopra dell’io, ingenuamente<br />

interessato al mondo, si stabilirà l’io fenomenologico come spettatore disinteressato». Il<br />

disinteresse qui sta nella rinuncia a porre la domanda sulla reale consistenza di ciò che si<br />

presenta. E non è un giudizio metafisico, perché il giudizio metafisico sarebbe sulla consistenza<br />

o meno della cosa. Qui si chiede invece l’astensione dal giudizio metafisico.<br />

Il residuo fenomenologico così concepito è il campo specifico dell’indagine<br />

fenomenologica. Allora Husserl può formulare il principio di tutti i principi, il principium<br />

principiorum, che fonda la filosofia come scienza: «Nessuna immaginabile teoria può coglierci<br />

in errore nel principio di tutti i principi: ogni visione originalmente offerente [principio fecondo<br />

di interessanti sviluppi in Heidegger] è una sorgente legittima di conoscenza che tutto ciò che si<br />

dà originalmente nell’intuizione, per così dire “in carne e ossa” [Husserl intende proprio la<br />

realtà fenomenologica, la verità del fenomeno] è da assumere come esso si dà, ma anche e<br />

soltanto nei limiti in cui si dà».<br />

Questa visione originalmente offerente è la visione che offre i contenuti di pensiero,<br />

giacché non è la visione a produrre le cose: le cose sono offerte e non prodotte dall’intelletto. La<br />

visione non produce le cose, ma le lascia vedere e quindi apre gli occhi su queste realtà che mi<br />

si offrono come contenuti di coscienza; e le lascia vedere nella loro autentica e-videnza.<br />

Fondamentale è la distinzione tra l’intuizione del fatto (es. vedo questo rosso) e<br />

l’intuizione dell’essenza (cosa vuol dire rosso).<br />

Per quanto riguarda l’intuizione del fatto, vi è un pericolo di psicologismo, dove la verità<br />

è ridotta ad espressione della realtà psichica del soggetto: io vedo rosso; l’epoché sbanda dal<br />

lato di una ritrazione solipsistica nell’evidenza fenomenologica.<br />

118


Per quanto riguarda l’intuizione dell’essenza, dobbiamo ravvisare la possibilità<br />

dell’epistéme nel senso di stabilire affermazioni universali e necessarie, non limitate ad<br />

esprimere l’individuale. Quindi, quando rimbalzo dall’intuizione di questo rosso alla<br />

considerazione dell’essenza, sono in grado di sollevarmi dal piano della conoscenza individuale<br />

a quello della realtà universale di questo contenuto di pensiero. Col che non ho ancora detto che<br />

vi sono altre coscienze che pensano ed hanno esperienze di vissuti.<br />

A fondamento dell’atteggiamento naturale e scientifico vi è la convinzione che il mondo<br />

esista realmente, esternamente, fuori, indipendentemente dalla coscienza; che il mondo esista<br />

come un “fuori”, e questa persuasione è la così detta persuasione dell’identità immediata di<br />

certezza e verità: ciò che io conosco è anche la cosa stessa così come realmente è.<br />

Il pensiero moderno ha consumato la separazione di questi due piani. All’identità<br />

immediata di certezza e verità subentra la scissione del piano di certezza e verità, rispetto alla<br />

quale Hegel ricompone l’identità attraverso l’assimilazione totale dei piani della realtà rispetto<br />

alla coscienza.<br />

Rosmini aveva risolto questo problema con l’idea dell’essere e il sentimento<br />

fondamentale corporeo. Per Rosmini il corporeo esteso (l’esterno) è fuori di me, cosa<br />

indipendente da me; ma, in realtà, è da sempre dentro di me come il contenuto nel contenente,<br />

per cui non ha senso parlare di una materia estesa fuori da una coscienza che la comprenda e ne<br />

abbia esperienza.<br />

Rispetto a questa esistenza reale del mondo, per Husserl va sospeso l’assenso (epoché).<br />

Resta la certezza dell’esistenza indubitabile di ciò che è dato, che si offre in quanto tale come<br />

atto di esperienza, contenuto vissuto, stato di coscienza, Erlebnis appunto.<br />

Allora la fenomenologia come scienza rigorosa si fa carico della descrizione rigorosa del<br />

mondo come appare nella visione originalmente offerente. Ecco allora l’idea di noema, il<br />

contenuto di pensiero, il mondo così esteso, la corrente degli Erlebnisse che è il flusso del<br />

divenire come totalità della mia esperienza.<br />

Questo comporta il recupero della trascendentalità della coscienza, che è ciò che rende<br />

grande il pensiero di Husserl. La ricompattazione dell’io nell’unità dell’esperienza ripropone<br />

infatti con forza l’idea (medievale) della trascendentalità della coscienza, cioè della sua apertura<br />

infinita.<br />

Trascendentalità significa che la coscienza non è una cosa tra le cose, una parte di una<br />

totalità, ma l’orizzonte intrascendibile dell’esperienza in toto; la trascendentalità è questo piano<br />

universale della coscienza che è in grado di aprire uno squarcio sull’infinito, piano che è anche<br />

invalicabile, perché non si è in grado di portarsi oltre la trascendentalità della coscienza.<br />

Ecco che la trascendentalità dell’essere è un aspetto dell’intrascendibilità della coscienza:<br />

ciò vuol dire che la coscienza è in presa di tutto, perché tutto è essere, tutto è disponibile al<br />

lume dell’intelletto (Rosmini).<br />

La coscienza è un vedere immanente, è coscienza del divenire, giacché la temporalità<br />

stessa si mostra con assoluta evidenza. E allora, oltre alla finitezza di ogni singolo Erlebnis, vi è<br />

la corrente infinita: la coscienza comprende l’insieme di tutti gli Erlebnisse.<br />

119


Questa importante messa a punto della filosofia come scienza dal lato dell’originario<br />

della coscienza permette una messa a punto della teoria dell’intenzionalità, antica teoria della<br />

Scolastica (intentio è quel rapporto conoscitivo con la realtà conosciuta). La coscienza è<br />

coscienza di qualche cosa, dove qualche cosa non è un carattere della coscienza o un suo<br />

elemento costitutivo, ma ne differisce.<br />

L’acquisizione è importante. Io esperisco qualcosa che so che non è me, ma, nella<br />

prospettiva della fenomenologia husserliana, visione offerente.<br />

L’atto di coscienza resta puro, e anche questo è importante: la mia coscienza non è<br />

semplicemente la sommatoria dell’esperito, per cui non è ricavabile assommando l’insieme di<br />

tutto ciò che esperisco. Il solo apparire del contenuto è dunque assolutamente aproblematico e<br />

insieme, per questo, incontrovertibile. Allora la filosofia come scienza è l’accorgersi del<br />

contenuto di coscienza come aproblematico e non controvertibile.<br />

30. Un’ontologia senza metafisica. Martin Heidegger.<br />

Nell’ontologia esistenziale, o esistenzialismo, il divenire è assorbito nel concetto di<br />

esistenza quale ex-sistere, ovvero l’essere, il costituirsi e mantenersi venendo da (ex) altro (il<br />

niente). L’uomo è divenire come incessante produzione e trasformazione dei propri contorni e<br />

della propria essenza, il cui fondamento è l’esistenza. L’uomo (il singolo) è una possibilità, per<br />

cui la decisione e la scelta (libertà) in cui l’esistenza consiste sono l’espressione più radicale del<br />

divenire.<br />

Per Martin Heidegger (1889-1976) la forma originaria del divenire è l’esistenza (che si<br />

mostra nell’intuizione fenomenologica) storico-temporale dell’uomo. Poiché il fenomeno è ente,<br />

la fenomenologia è ontologia. L’esistenza dell’uomo è un poter essere, rapporto alla possibilità,<br />

temporalità, divenire. L’errore della metafisica sarebbe perciò consistito, secondo Heidegger,<br />

nell’irrigidimento dell’essere in una forma afferrabile ed oggettiva, col che si cancella il<br />

divenire storico e si apre la via alla tecnica come produzione e organizzazione degli enti.<br />

L’essere va piuttosto inteso non come ciò che è comune ad ogni ente, ma come differenza<br />

ontologica da ogni ente. L’essere come altro dall’ente è non-ente, è dunque nulla, ma nulla<br />

come trascendenza assoluta rispetto all’ente: la nullità / trascendenza dell’essere è la luce in cui<br />

gli enti si manifestano (!) e, in quanto nulla di ente, l’essere apre lo spazio libero in cui<br />

l’esistenza dell’uomo è possibile e può realizzarsi come divenire storico e temporale. La luce<br />

dell’essere è un puro evento, un puro fatto senza perché e senza fondamento (dovrebbe a sua<br />

volta essere). L’esistenza dell’uomo è una relazione di comprensione all’essere, è un portarsi<br />

fuori, un progettare se stessa il cui progetto è un “esser gettato”.<br />

Heidegger afferma che ciò che si mostra nell’intuizione fenomenologica in senso<br />

husserliano è l’esistenza storico temporale dell’uomo.<br />

Ciò che si mostra non è solo apparenza, ma è proprio ente, è questo mostrarsi. Quindi il<br />

senso proprio e radicale dell’ontologia è la fenomenologia. Il senso dell’essere si presenta nel<br />

manifestarsi degli enti e non nell’astrazione metafisica.<br />

Così Heidegger di una fenomenologia fa un’ontologia, ma un’ontologia senza metafisica.<br />

120


L’esperienza dell’uomo è un ente, ma nel senso di un poter essere, è cioè una possibilità.<br />

Quindi l’esistenza dell’uomo è inconclusa, è aperta, è preda della storicità, della temporalità, del<br />

divenire. E non c’è nessun eterno che stia oltre l’esperienza del divenire. L’uomo non è<br />

un’essenza (dato della metafisica classico-scolastica), ma un ex-sistere, un venire da e un<br />

portarsi oltre al tempo stesso, un trascendere continuamente ciò che si è, quale possibilità pura e<br />

novità radicale.<br />

La riflessione su Dio si effettua solo nell’orizzonte di una comprensione ontologica in cui<br />

però l’ontologia chiarisce il carattere assolutamente e insuperabilmente temporale dell’essere.<br />

Così, l’opera fondamentale di Heidegger, Sein und Zeit (Essere e tempo) (1927) finisce in<br />

un’equazione, per cui l’esito andrebbe ritradotto Sein ist Zeit. L’esito è che la totalità dell’essere<br />

è in assoluta coincidenza, in equazione, con il divenire.<br />

Essere e tempo sembra muovere dalla preoccupazione di non dimenticare la peculiarità<br />

dell’essere (das Sein), non definibile e non riducibile ad un essente e richiedente una<br />

semantizzazione propria. Si afferma l’irriducibile differenza tra ciò che è proprio dell’essente<br />

(ciò che è ontico) da ciò che è proprio dell’essere (ciò che è ontologico). La storia della<br />

metafisica è, per Heidegger, la storia della dimenticanza della differenza ontologica o la storia<br />

del tentativo di ricondurre l’essere ad un essente più elevato, capace di dar ragione dell’essente<br />

ordinario. Ma l’essente rinvia semplicemente all’essere che lo costituisce, cosicché bisogna<br />

“comprendere il senso dell’essere” perché l’essere manifesti l’essente e non il nulla.<br />

In Heidegger il pensiero è sempre temporale, quindi è l’essere stesso ad essere temporale.<br />

Lo stesso titolo dell’opera Sein und Zeit allude al carattere originariamente temporale del<br />

pensiero e dunque del manifestarsi dell’essere, legato al carattere linguistico, connaturato e<br />

strutturale del pensiero, segnato da un’articolazione e scansione nel tempo.<br />

L’uomo di Heidegger si scopre in una condizione di permanente temporalità, ma anche di<br />

incompiutezza, di apertura, ma come inconclusione o inconcludenza.<br />

La fenomenologia, che coglie il flusso del divenire come esperienza, fa da base alla<br />

costruzione di Heidegger, per cui quello che si mostra nell’intuizione husserliana<br />

fenomenologica è l’esistenza storico-temporale dell’uomo, cosicché c’è ancora una base<br />

fenomenologica, che Heidegger deriva dal pensiero del suo maestro, essenziale per capire il<br />

piano su cui Heidegger si muove.<br />

Il senso dell’essere si manifesta negli enti, è il manifestarsi degli enti che ne rivela il<br />

contenuto. L’esistenza dell’uomo è un ente, ma è un ente particolare, perché tra tutti ha questa<br />

configurazione: l’essere aperto, l’essere progettato, cioè l’essere un progetto gettato, che dice<br />

storicità, temporalità, divenire: l’uomo è divenire.<br />

L’essere in esistenza dell’uomo non è il sussistere di un’essenza, ma è un ex-sistere, cioè<br />

un trascendersi continuo, un portarsi oltre ciò che si è, l’essere gettati in avanti: questo si<br />

traduce, nei termini dell’esperirsi come una possibilità pura, un progetto aperto.<br />

In realtà, se il progetto lo si intende come unità dotata di coerenza, esso si giustifica<br />

soltanto in base ad un punto di solidità ontologico-metafisica: l’essere persona come sostanza.<br />

Il perdere – e Heidegger lo perde – il significato della consistenza ontologica della<br />

sostanza svapora la persona come persona.<br />

121


Oggi, molta teologia contemporanea (non, grazie a Dio, il Magistero della Chiesa), tenta<br />

di rileggere le categorie della riflessione teologica alla luce dell’esistenzialismo heideggeriano e<br />

guardano a Heidegger come a un punto di riferimento ineludibile. Certamente lo è dal punto di<br />

vista dell’evoluzione storica del pensiero filosofico, ma non nell’irrinunciabilità a pensare<br />

secondo Heidegger o nel pensare come irrimediabilmente tramontate alcune fondamentali<br />

acquisizioni della migliore tradizione speculativa dell’Occidente.<br />

La riflessione sul divenire può effettuarsi, per Heidegger, solo nell’orizzonte di una<br />

comprensione ontologica, dove però l’ontologia chiarisce il carattere temporale dell’essere. La<br />

metafisica classica intende l’essere come sussistenza (sostanza), oggettività presente,<br />

indipendente dalla coscienza.<br />

Il superamento di questa comprensione dell’essere, proposto da Heidegger, è il pensare la<br />

differenza ontologica. La differenza ontologica è che l’essere è altro dall’ente, mentre per la<br />

metafisica classica l’ente rappresenta in qualche modo l’essere, lo individua, è una porzione<br />

d’essere.<br />

In Heidegger l’essere è altro dall’ente, per cui ancora una volta – e ciò è tipicamente<br />

moderno – si afferma che tutta la filosofia precedente è stata in errore, in quanto avrebbe<br />

confuso essere ed ente.<br />

La metafisica occidentale rappresenta una delle epoche del darsi dell’essere caratterizzata<br />

da un linguaggio nichilistico e sarebbe attraversata da due linee di pensiero: “ontoteologica” (la<br />

filosofia scolastica e le filosofie dei valori in generale, il cui errore starebbe nel considerare Dio<br />

come un essente e nel porlo a creatore del mondo), ed “umanistica” (la filosofia cartesiana e<br />

illuministica, culminante nella civiltà della tecnica, il cui errore sarebbe nel porre la tecnica<br />

quale surrogato della creazione).<br />

Heidegger propone il superamento della metafisica nella concezione di un essere come<br />

Abgrund, come fondo abissale che non rinvia ad altro, e l’affermazione della differenza<br />

ontologica confusa dalla metafisica occidentale.<br />

La differenza ontologica consisterebbe nel fatto che l’essere è il nulla come trascendenza,<br />

rispetto all’ente; cioè è talmente altro dall’ente che lo trascende ponendosi totalmente oltre, è<br />

nulla di ente. È, piuttosto, la luce in cui gli enti si manifestano (impossibile non ricordare<br />

Rosmini, che aveva in ciò anticipato Heidegger, riferendo però l’oggetto dell’interessante<br />

intuizione heideggeriana al solo essere ideale, senza annullare con ciò la consistenza ontologica<br />

dell’essere, che in lui rimaneva al riparo nell’essere reale): l’essere è perciò l’apparire, cioè il<br />

mostrarsi degli enti che mi lascia essere e vedere. Possiamo immaginare l’essere come quel<br />

mare che si svuota e lascia affiorare gli scogli: gli enti lasciati in vista dalla ritrazione /<br />

svuotamento dell’essere.<br />

Questa rotazione del senso dell’essere sembra una sorta di kenosi e può affascinare, sulle<br />

prime, il (teologo?) cristiano sprovveduto, ma è l’esatto contrario della circuminsessione delle<br />

forme dell’essere di Rosmini. Mentre la luce di Rosmini fa vedere attivamente gli enti, è un<br />

pieno di luce che tutto permea, qui è un rendersi essente per far emergere. In questo senso<br />

l’essere è uno spazio libero in cui l’esistenza dell’uomo può realizzarsi come divenire storico,<br />

cioè assenza dell’essere: si presuppone che se l’essere è un plenum saturi, al contrario, il campo<br />

122


al punto che nessuno sia più in grado di muoversi né di vedere (presupposto contemporaneo<br />

dell’incompossibilità dell’esistenza di Dio e dell’uomo come Soggetto libero).<br />

Ma questa concezione dell’essere è un problema dell’ontologia heideggeriana e non della<br />

filosofia in quanto tale. Come abbiamo potuto vedere, il senso dell’essere ha subito nell’età<br />

moderna, a partire soprattutto da <strong>Suarez</strong>, una rotazione che lo ha sbilanciato semanticamente<br />

dall’atto verso la potenza, dall’essere come esistenza in atto verso l’essere potenziale, verso il<br />

possibile. Heidegger si colloca al termine di questo movimento di rotazione, di cui esprime<br />

l’ultima e la massima coerentizzazione, cosicché nella sua concezione l’uomo si può scegliere<br />

come divenire storico, contro l’ontologia metafisica che proporrebbe un essere concepito come<br />

impediente il divenire.<br />

La preoccupazione del pensiero contemporaneo, ancora una volta, è di concepire la<br />

libertà dell’uomo e difenderla a tutti i costi nel colossale fraintendimento che l’esistenza di Dio<br />

e l’ontologia metafisica la neghino e la rendano impossibile.<br />

- Se c’è Dio io non ci sono, ma ci sono io, perciò non c’è Dio;<br />

- Se ha ragione l’ontologia metafisica esiste l’Essere come assoluto, sostanza, stabilità,<br />

verità, e la mia libertà non è possibile, giacché se vi è qualcosa di stabile io non sono libero. Ma<br />

io sono e mi voglio libero, di una libertà assoluta e al tutto spontanea, quindi non deve esserci<br />

alcunché di stabile e assolutamente oggettivo (insofferenza contemporanea per il sapere<br />

epistemico come incontrovertibile) 34 .<br />

Heidegger dice di Dio che, come ente determinato, non ha senso se pensato come stabilità<br />

ontologico-metafisica: è, al contrario, un ritrarsi, è un farsi da parte da cui l’uomo viene progettato,<br />

cioè gettato fuori. Il soggetto personale è perciò concepito, nella sua esistenza, quale<br />

deiezione, il che, come sappiamo, ha antiche radici gnostiche.<br />

Allora il senso del termine greco alétheia (verità) (a - lethèia, nascondimento),<br />

esprimerebbe la negazione del nascondimento, l’estrazione, per dir così, dal nascondimento, lo<br />

svelamento, il venire, l’apparire dal fondo dell’oscurità. La verità sarebbe quindi l’emergere<br />

dell’essere dal nascondimento: l’apparire illumina e lascia gli enti nella visibilità. L’insieme si<br />

sottrae alla visibilità, cioè la dimensione che rende visibile o offre l’apertura in cui l’ente è<br />

lasciato apparire. Allora l’essere è un evento, un puro fatto, privo di fondamento e di ragion<br />

d’essere. L’essere è l’alétheia, il disvelamento originario rispetto al quale non va chiesta la<br />

“ragione per cui” (la causa); l’essere si manifesta nell’essente e non ne va chiesta la ragione, in<br />

quanto la sua giustificazione adeguata coincide con l’essere stesso. Al punto che la tesi<br />

metafisica della creazione rappresenta l’espressione e il vertice del nichilismo, per cui l’essente<br />

ha bisogno di essere causato da altro dall’essere stesso. In tal senso l’essere è inteso da<br />

Heidegger come physis, qualcosa che è in grado di produrre da sé se stesso e i propri contenuti.<br />

34 Per queste caratteristiche il pensiero contemporaneo sembra presentarsi con i tratti di una fase adolescenziale del<br />

pensiero, quella del distacco e dell’ostentata negazione della dipendenza dalla coppia genitoriale come atto (anche<br />

polemicamente) assertorio della propria libertà. Ben altra cosa è la piena maturità, in cui il soggetto può affermare<br />

l’Altro senza negare se stesso. Chi ha detto che perché Dio esiste non vi è spazio per il Soggetto? Perché mai se vi è<br />

Dio, io non sarei libero, quando la Rivelazione cristiana dice esattamente il contrario? Attesta infatti che la mia libertà<br />

si realizza e si illumina pienamente proprio nell’esser io stesso pensato e sostenuto da Dio e nell’incontrare Cristo e<br />

rivestirmene, vale a dire nella pienezza della relazione che trova termine adeguato nell’Altro che solo realizza in<br />

pienezza la Persona (io ma non più io - Gal 2,20).<br />

123


Allora l’essere è un esserci (Dasein), e l’esistenza del singolo può essere autentica o<br />

inautentica. Autentica se si adegua alla struttura dell’essere e si sceglie, inautentica se si perde<br />

nell’oggettivo, nell’impersonale. Il Dasein rappresenta il pensiero quale comprensione<br />

dell’essere di cui, tra gli essenti, solo l’uomo è capace. Tale capacità è detta da Heidegger<br />

esistenza e va intesa come lo sporgere, oltre il pensiero ontico, verso l’ontologico.<br />

L’esistenza inautentica caratterizza l’epoca della metafisica e realizza l’era della tecnica<br />

dominata dall’organizzazione e dalla volontà di potenza.<br />

L’esistenza autentica, capace di scegliersi, è sempre del singolo ed è tale se giunge a<br />

costituirsi come atto radicale ultimativo, cioè il pensarsi aperti fino alla consumazione radicale<br />

di sé, cioè un essere per la morte. L’autenticità è potersi concepire come essere per la morte,<br />

giacché questo è il massimo della possibilità delle possibilità: la possibilità di non essere più, la<br />

possibilità dell’annientamento dell’esistenza, la possibilità più estrema, che è rinuncia a se<br />

stesso, che fa sì che ogni possibile sia possibile.<br />

31. Pieghe deboliste, decostruttiviste e antimetafisiche del pensiero postmoderno.<br />

Dopo Heidegger, dopo la polemica contro il trascendente, si è diffusa anche la polemica<br />

contro il trascendentale, senza il quale resterebbero le semplici differenze senza poter neppure<br />

esser più pensate come differenze, non appartenendo più ad un comune orizzonte. Tale è la<br />

prospettiva della postmodernità, cioè la prospettiva di una “disseminazione originaria della<br />

realtà”, secondo le parole di Jacques Derrida.<br />

Alla metafisica si sostituisce un’ermeneutica che pretende di assorbirne il compito e<br />

l’ambito di indagine, avendo però rimosso ogni pretesa di stabilire quelle costanti elementari cui<br />

l’ermeneutica per secoli si è alimentata 35 .<br />

Prevale nel contemporaneo, secondo la sensibilità cosiddetta “postmoderna”, un<br />

atteggiamento teorico-pratico di tipo trasgressivo, che si determina nella forma di una<br />

trasgressione onto-etica tendenzialmente avulsa da contenuti determinati e da ultimo sfociante<br />

in una disposizione negativa formalisticamente vuota e che finisce inevitabilmente per<br />

delegittimare e deporre la propria stessa struttura così concepita.<br />

Accade così che il rifiuto netto e inappellabile del ‘sapere forte’, da parte del sedicente<br />

‘pensiero debole’, si rovesci in forme ben più ‘forti’ e ‘violente’ di dogmatismo e di chiusura<br />

rispetto a quelle prese polemicamente di mira con la pretesa ‘debolezza’ invocata 36 .<br />

35<br />

Rimandiamo, in proposito, al saggio di C. Vigna, Sulla verità dell’ermeneutica, in Il frammento e l’intero, Milano,<br />

Vita e Pensiero, 2000, pp. 79-99.<br />

36<br />

Si veda C. Vigna, Vattimo e il pensiero debole, in Il frammento e l’intero, Milano, Vita e Pensiero, 2000, pp. 385-<br />

396.<br />

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