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erich fromm voi sarete come dei - Giano Bifronte

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ERICH FROMM<br />

VOI SARETE COME DEI<br />

Questo libro vuole essere una sfida tanto a coloro che hanno “ereditato” la tradizione<br />

religiosa, quanto a coloro che la hanno cancellata. Sarete <strong>come</strong> dèi (il più recente libro di<br />

Fromm) dimostra <strong>come</strong> dalle parti più arcaiche del Vecchio Testamento, dagli scritti<br />

profetici, fino alla successiva tradizione ebraica, sprigioni lo spirito dell'umanesimo<br />

radicale. Esso presenta l'idea di Dio <strong>come</strong> il risultato di uno sviluppo, di una purificazione<br />

graduale, sottolineando da un lato <strong>come</strong> ogni momento di tale sviluppo sia coerentemente<br />

caratterizzato dalla lotta contro ogni tipo di idolatria, dall'altro <strong>come</strong> lo sviluppo conduca<br />

all'inevitabile conclusione dell'assurdità della teologia. Dimostrando che il Giudaismo è una<br />

religione “non-teologica” Fromm mette in risalto che non contano tanto le concezioni<br />

razionali, quanto il sostrato di esperienza umana di tali concezioni.<br />

Voi <strong>sarete</strong> conte dèi non concede nulla alle contemporanee filosofie della disperazione.<br />

L'uomo rivelato dal Vecchio Testamento è un uomo che crea se stesso nel corso di uno<br />

sviluppo storico che ha avuto inizio col suo primo atto di libertà: la libertà di disobbedire.<br />

L'autore ribadisce insistentemente che il problema significativo oggi è di sapere non se<br />

"Dio è morto", ma se "l'uomo è morto".<br />

Dal punto di vista storico il libro ha il merito di dimostrare continuamente <strong>come</strong> i testi e le<br />

pratiche religiose tradizionali conservino un significato e una validità attuali. Malgrado il<br />

fondamentale atteggiamento di rispetto per la tradizione, questo libro presenta una<br />

impostazione rivoluzionaria. Come elevato contributo alla moderna ricerca <strong>dei</strong> valori esso<br />

ammonisce credenti e non-credenti che “la base dell'unità della specie umana non è che ogni<br />

uomo creda in un medesimo Dio, ma c e ogni uomo agisca con giustizia e con amore".<br />

ERICH FROMM è ampiamente conosciuto per il suo lavoro nel campo della psicoanalisi, della<br />

filosofia, della scienza politica e della religione. Egli ha studiato devotamente per diversi<br />

anni la letteratura biblica e rabbinica. Ha insegnato nelle maggiori università statunitensi, e<br />

attualmente insegna alla Università Nazionale del Messico, alla New York University, e al<br />

William Alanson Institute of Psychiatry, Psycho-analysis and Psychology.<br />

È autore, tra l'altro, di numerosi libri, tra cui Escape from Freedom, The Art of Loving,<br />

Man for Himself, Psychology and Culture, Marx's Concept of Man, e Sigmund Freud's<br />

Mission, molti <strong>dei</strong> quali tradotti in italiano. La nostra Casa Editrice ha pubblicato Dalla


parte dell'uomo e, di Fromm - Suzuki - De Martino, Psicoanalisi e Buddismo Zen.


© 1966, Erich Fromm<br />

© 1970, Casa Ed. Astrolabio - Ubaldini Editore, Roma<br />

ERICH FROMM<br />

VOI SARETE COME DEI<br />

Titolo originale dell'opera:<br />

YOU SHALL BE AS GODS<br />

A RADICAL INTERPRETATION OF THE OLD TESTAMENT<br />

AND ITS TRADITION<br />

(Holt, Rinehart and Winston, New York)<br />

Traduzione<br />

di<br />

STEFANIA GANA<br />

ERICH FROMM<br />

VOI SARETE<br />

COME DEI<br />

Una interpretazione radicale<br />

del vecchio testamento e della sua tradizione


I - Introduzione<br />

II - Il concetto di Dio<br />

Ubaldini Editore - Roma<br />

INDICE<br />

pag. 7<br />

» 16<br />

III - Il concetto di uomo . » 46<br />

IV - Il concetto di storia » 61<br />

V - Il concetto di peccato e pentimento » 108<br />

VI - La strada: halakah » 121<br />

VII - I salmi » 135<br />

VIII - Epilogo » 152<br />

IX - Appendice: Il salmo 22 e la passione » 155<br />

Finito di stampare nel settembre 1970 per conto della Casa Editrice Astrolabio - Ubaldini Editore<br />

presso le Grafiche Mignani di Bologna


Salvo indicazione contraria, le citazioni bibliche sono riprese dalla Revised Standard Version of the Bible,<br />

© 1949 e 1952 della Division of Christian Education, National Council of the Churches.<br />

[Nella presente traduzione i passi biblici citati da Fromm sono ripresi dalla<br />

Bibbia Concordata, Mondadori, Milano 1968,<br />

indicando i luoghi in cui la traduzione si discosta dalla B. C. per seguire la versione inglese].<br />

I.<br />

INTRODUZIONE<br />

La Bibbia ebraica, il Vecchio Testamento, è qualcosa di più di una reliquia storica alla quale<br />

si rende un doveroso rispetto in quanto origine delle tre grandi religioni occidentali? Ha<br />

ancora qualcosa da dire all'uomo, oggi - l'uomo che vive in un mondo di rivoluzioni,<br />

automazione, armi nucleari, che ha una filosofia materialistica che nega implicitamente ed<br />

esplicitamente i valori religiosi?<br />

Non sembrerebbe che la Bibbia ebraica possa ancora essere attuale. Il Vecchio<br />

Testamento (compresi i libri apocrifi) è un insieme di scritti di svariati autori, composti per<br />

più di un millennio (dal 1200 al 100 a. C. circa), formato da codici di leggi, resoconti storici,<br />

composizioni poetiche, discorsi profetici: solo una parte di una più vasta letteratura<br />

prodotta dagli ebrei durante questi mille e cento anni[1]. Questi libri furono scritti in un<br />

piccolo paese situato tra l'Africa e l'Asia, per uomini che vivevano in una società che tanto<br />

da un punto di vista culturale, quanto da un punto di vista sociale, non aveva niente in<br />

comune con la nostra.<br />

Sappiamo naturalmente che la Bibbia ebraica è stata l'ispirazione principale non solo del<br />

Giudaismo ma anche del Cristianesimo e dell'Islam, e che perciò influenzò profondamente<br />

lo sviluppo culturale dell'Europa, dell'America e del Medio Oriente, tuttavia oggi, perfino<br />

tra gli ebrei e i cristiani, la Bibbia ebraica non sembrerebbe altro che una rispettabile voce<br />

del passato. La maggior parte <strong>dei</strong> cristiani legge molto meno il Vecchio Testamento del<br />

Nuovo, e inoltre spesso lo distorce coi suoi pregiudizi. Di solito si crede che il Vecchio<br />

Testamento esprima esclusivamente principi di giustizia e di vendetta, in opposizione al


Nuovo, che rappresenta invece quelli di amore e di carità; molti pensano che perfino la<br />

frase « Ama il prossimo tuo <strong>come</strong> te stesso », non derivi dal Vecchio Testamento ma dal<br />

Nuovo. Oppure che la Bibbia sia stata scritta esclusivamente in uno spirito di stretto<br />

nazionalismo, e che non vi si trovi niente dell'universalismo sopra-nazionale così tipico del<br />

Nuovo Testamento. Per la verità ci sono indizi incoraggianti di un cambiamento<br />

nell'atteggiamento e nella pratica tanto tra i Protestanti quanto fra i Cattolici, ma il più è<br />

ancora da fare.<br />

Gli ebrei che si occupano di servizi religiosi conoscono meglio il Vecchio Testamento: tutti i<br />

sabati, i lunedì e i mercoledì viene letta una parte del Pentateuco, in modo che in capo<br />

all'anno la lettura sia completa[2]. Questa conoscenza è inoltre approfondita con lo studio<br />

del Talmud, pieno di citazioni delle Scritture. Mentre coloro che seguono questa tradizione<br />

sono oggi una minoranza di ebrei, questo sistema di vita era comune a tutti fino a circa un<br />

secolo e mezzo fa soltanto. Nella vita tradizionale ebraica lo studio della Bibbia era<br />

favorito dalla necessità di basare tutte le nuove idee e gli insegnamenti religiosi<br />

sull'autorità <strong>dei</strong> versi biblici; questo tuttavia portava a un risultato ambiguo. Dato che i<br />

versi biblici servivano a sostenere una nuova idea o una legge religiosa, venivano citati<br />

spesso fuori del contesto, e interpretati in un modo che non corrispondeva al loro reale<br />

significato. Anche dove non avveniva tale distorsione ci si interessava sovente più all'<br />

“utilità” di un verso che sostenesse una nuova idea, che non al significato dell'intero<br />

contesto in cui questo ricorreva. Infatti il testo della Bibbia era più conosciuto tramite il<br />

Talmud e le recitazioni settimanali che non per uno studio diretto e sistematico. Lo studio<br />

della tradizione orale (Mishnah, Gemara, ecc.) aveva maggiore importanza e costituiva una<br />

spinta intellettuale più stimolante.<br />

Nei secoli gli ebrei capirono la Bibbia non solo nello spirito della loro tradizione ma anche,<br />

in misura considerevole, sotto l'influenza delle idee di altre culture con le quali i loro<br />

studiosi entravano in contatto. Così Filone affrontò il Vecchio Testamento con lo spirito di<br />

Platone, Maimonide con lo spirito di Aristotele, Hermann Cohen con lo spirito di Kant. I<br />

commentari classici però furono scritti nel Medio Evo: il commentatore più autorevole è R.<br />

Solomon ben Isaac (1040-1105), conosciuto <strong>come</strong> Rashi, che interpretò la Bibbia secondo lo<br />

spirito conservatore del feudalesimo medievale[3], anche se il suo e altri commentari<br />

chiarirono il testo sia da un punto di vista linguistico che logico, e spesso lo arricchirono<br />

riferendosi alle compilazioni haggadiche <strong>dei</strong> rabbini, alle credenze mistiche ebraiche e<br />

talvolta ai filosofi arabi ed ebrei.<br />

Per le molte generazioni di ebrei che vissero dopo la fine del Medio Evo, specialmente per<br />

quelli che vivevano in Germania, Polonia, Russia e Austria, lo spirito medioevale di questi<br />

commentari classici contribuiva a rinforzare le tendenze radicate nella loro stessa<br />

situazione del ghetto, dove avevano poco contatto con la vita sociale e culturale dell'età<br />

moderna. D'altra parte quegli ebrei che, a cominciare dalla fine del XVIII secolo, si<br />

integravano alla cultura contemporanea europea, avevano di solito poco interesse per lo<br />

studio del Vecchio Testamento.<br />

Il Vecchio Testamento è un libro dai molti aspetti, scritto, curato e rivisto da molti<br />

scrittori nel corso di un millennio; in esso si può rintracciare un'evoluzione notevole,<br />

dall'autoritarismo e dal nazionalismo primitivi, fino all'idea della libertà radicale dell'uomo


e della fratellanza di tutti gli uomini. È un libro rivoluzionario; suo tema è la liberazione<br />

dell'uomo dai legami incestuosi del sangue e della terra, dalla sottomissione agli idoli, dalla<br />

schiavitù, dai padroni potenti, per la libertà dell'individuo, della nazione e di tutto il genere<br />

umano[4]. Forse noi, oggi, possiamo capire la Bibbia ebraica meglio di ogni altra epoca<br />

precedente, proprio perché viviamo in un tempo di rivoluzione in cui l'uomo, nonostante i<br />

molti errori che lo hanno portato a nuove forme di dipendenza, sta liberandosi di tutte le<br />

forme di schiavitù sociale un tempo sanzionate da “Dio” e dalle “leggi sociali”.<br />

Paradossalmente, forse uno <strong>dei</strong> libri più antichi della cultura occidentale può essere capito<br />

meglio da chi è meno nutrito di tradizione e più consapevole della natura radicale del<br />

processo di liberazione ora in atto.<br />

Poche parole per spiegare il modo in cui mi sono accostato alla Bibbia in questo libro. Non la<br />

considero <strong>come</strong> il “verbo di Dio”, non solo perché un esame storico dimostra che si tratta di<br />

un libro scritto da uomini - uomini di vario tipo, di epoche diverse - ma anche perché non<br />

sono un teista. Tuttavia per me è un libro straordinario, che dà molte norme e principi che<br />

hanno mantenuto la loro validità per migliaia di anni. Un libro che ha annunciato all'uomo una<br />

visione tuttora valida e in attesa di realizzazione. Non fu scritto da un solo uomo né<br />

dettato da Dio: esprime il genio di un popolo in lotta per la vita e la libertà attraverso<br />

molte generazioni.<br />

Nonostante consideri la critica storica e letteraria del Vecchio Testamento molto<br />

significativa all'interno del suo stesso ambito di riferimento, non credo sia essenziale allo<br />

scopo di questo libro, che deve aiutare a capire il testo biblico e non a fare un'analisi<br />

storica; tuttavia lo farò ogni qualvolta mi sembrerà importante riferirmi ai risultati<br />

dell'analisi storica o letteraria della Bibbia ebraica. I commentatori della Bibbia non<br />

sempre conciliarono le contraddizioni tra le varie fonti di cui si servivano. Ma dovevano<br />

essere uomini di grande penetrazione e saggezza per trasformare le molte parti in un'unità<br />

che riflettesse un processo evolutivo le cui contraddizioni sono aspetti di un insieme. La<br />

loro revisione e anche l'opera <strong>dei</strong> saggi che fecero la scelta finale delle Sacre Scritture, è<br />

in senso lato, opera d'autori.<br />

La Bibbia ebraica, secondo me, può essere trattata <strong>come</strong> un unico libro, nonostante il fatto<br />

che sia stata compilata seguendo molte fonti. È diventata un unico libro, non solo grazie al<br />

lavoro <strong>dei</strong> vari commentatori ma anche per il fatto di essere stata letta e capita <strong>come</strong> un<br />

unico libro durante gli ultimi duemila anni. Oltre a ciò, i singoli passi cambiano di significato<br />

quando vengono trasferiti dalle loro fonti originali al nuovo contesto del Vecchio<br />

Testamento, <strong>come</strong> tutto unico. Due esempi possono spiegarlo. Nella Genesi 1: 26 Dio dice:<br />

«Facciamo l'uomo a nostra immagine». Questo, secondo molti studiosi del Vecchio<br />

Testamento, è una frase arcaica introdotta dal commentatore del Codice <strong>dei</strong> Sacerdoti<br />

senza molte variazioni. Secondo alcuni autori, la frase concepisce Dio <strong>come</strong> un essere<br />

umano. Questo può essere senz'altro vero per quanto riguarda il significato arcaico<br />

originale del testo. Ma il problema sorge sul perché il commentatore di questo passo, che<br />

senz'altro non aveva un tale concetto arcaico di Dio, non cambiasse la frase. Credo che la<br />

ragione sia che per lui la frase significava che l'uomo, essere creato a immagine di Dio, ha<br />

una natura divina. Un altro esempio è la proibizione di fare un'immagine di Dio, o di<br />

pronunciare il suo nome. Può benissimo essere che in origine questa proibizione derivasse il<br />

suo significato da un uso arcaico, ritrovato in alcuni culti semitici, che considerava tabù Dio


e il suo nome; da qui la proibizione di riprodurre la sua immagine e di pronunciare il suo<br />

nome. Ma nel contesto di tutto il libro, il significato del tabù arcaico è stato trasformato in<br />

un nuovo concetto: cioè che Dio non è una cosa e che quindi non può essere rappresentato<br />

da un nome o da un'immagine.<br />

Il Vecchio Testamento è il documento che raffigura l'evoluzione di una piccola nazione<br />

primitiva, i cui capi spirituali insistevano sull'esistenza di un unico Dio e sull'inesistenza<br />

degli idoli, verso una religione di fede in un Dio senza nome, nella unificazione finale di tutti<br />

gli uomini, nella completa libertà di ogni individuo.<br />

La storia ebraica non si arrestò con la codificazione <strong>dei</strong> 24 libri del Vecchio Testamento.<br />

Andò avanti e proseguì l'intero corso dell'evoluzione di idee iniziata nella Bibbia ebraica. Ci<br />

furono due linee di continuazione: una espressa nel Nuovo Testamento, la Bibbia cristiana;<br />

l'altra nello sviluppo ebraico chiamato di solito la “tradizione orale” i saggi ebrei hanno<br />

sempre sottolineato la continuità e l'unità tra la tradizione scritta (il Vecchio Testamento)<br />

e la tradizione orale. Anche quest'ultima è stata codificata: la parte più antica, la Mishnah,<br />

verso il 200 d. C.; quella più recente, il Gemara, verso il 500 d. C. È paradossale che proprio<br />

se si considera la Bibbia per quello che significa storicamente - una scelta di scritti di molti<br />

secoli - sia facile accettare l'opinione tradizionale sulla continuità tra la tradizione scritta<br />

e quella orale. Nella tradizione orale, <strong>come</strong> nella Bibbia scritta, si trova la testimonianza di<br />

concetti espressi in uno spazio di tempo di più di 1200 anni. Se potessimo immaginare una<br />

seconda Bibbia ebraica, vi si troverebbe il Talmud, gli scritti di Maimonide, la Cabala e i<br />

racconti <strong>dei</strong> maestri hasidici. Questa raccolta di scritti comprenderebbe soltanto pochi<br />

secoli in più di quella del Vecchio Testamento, sarebbe formata da molti autori vissuti in<br />

circostanze diverse, e presenterebbe concetti e insegnamenti contraddittori <strong>come</strong> la<br />

Bibbia. Naturalmente questa seconda Bibbia non esiste e molte sono le ragioni per cui non<br />

avrebbe potuto essere compilata. Ma quello che voglio dimostrare con questa idea è che il<br />

Vecchio Testamento rappresenta lo sviluppo di concetti che si dispiegano in un lungo<br />

periodo di tempo e che questi concetti hanno continuato ancora a svilupparsi dopo la<br />

codificazione del Vecchio Testamento. Questa continuità è dimostrata con drammaticità ed<br />

evidenza in ogni pagina di un Talmud stampato oggi: vi si trovano non solo la Mishnah e il<br />

Gemara, ma anche i commentari successivi e i trattati scritti fino ad oggi, a partire da<br />

prima di Maimonide fino a dopo il Gaon di Vilna.<br />

Sia nel Vecchio Testamento che nella tradizione orale si trovano contraddizioni, ma le<br />

contraddizioni sono di tipo in qualche modo diverso. Quelle nel Vecchio Testamento sono in<br />

gran parte dovute all'evoluzione degli ebrei da piccola tribù nomade a popolo che viveva in<br />

Babilonia e più tardi influenzato dalla cultura ellenistica. Nel periodo successivo alla<br />

redazione del Vecchio Testamento, le contraddizioni non sono dovute all'evoluzione dalla<br />

vita arcaica a quella civile, ma soprattutto alla costante frattura tra le varie tendenze<br />

opposte che vivono in tutta la storia del Giudaismo, dalla distruzione del Tempio alla<br />

distruzione da parte di Hitler <strong>dei</strong> centri di cultura tradizionale ebraica. Si tratta della<br />

frattura fra il nazionalismo e l'universalismo, il conservatorismo e il radicalismo, il<br />

fanatismo e la tolleranza. Le forze delle due tendenze - e delle molte scissioni all'interno di<br />

esse - hanno naturalmente le loro ragioni, da ricercarsi nelle condizioni specifiche <strong>dei</strong> paesi<br />

in cui il Giudaismo si è sviluppato (Palestina, Babilonia, Nord Africa e Spagna islamici,<br />

Europa medievale cristiana, Russia zarista) e nelle specifiche classi sociali da cui


provenivano gli studiosi[5].<br />

Le precedenti osservazioni mostrano la difficoltà dell'interpretazione della Bibbia e della<br />

tradizione ebraica posteriore. Interpretare un processo evolutivo significa dimostrare lo<br />

sviluppo di certe tendenze che si sono rivelate nel processo di evoluzione. Questa<br />

interpretazione rende necessaria la scelta di quegli elementi che costituiscono la corrente<br />

principale, o per lo meno una corrente principale del processo evolutivo; significa<br />

considerare certi fatti e sceglierne alcuni fra i più significativi. Una storia che attribuisce<br />

la stessa importanza a tutti i fatti non è altro che un elenco di avvenimenti e non dà loro un<br />

senso. Scrivere una storia vuol dire sempre interpretarla. Il problema è che l'interprete<br />

abbia una conoscenza e un rispetto per i fatti, sufficienti ad evitare il pericolo di scegliere<br />

dati che sostengano una tesi predeterminata. L'unica condizione che l'interpretazione<br />

contenuta nelle pagine seguenti deve soddisfare è che i passi della Bibbia, del Talmud e<br />

della letteratura ebraica posteriore non siano espressioni rarefatte e insolite, ma<br />

affermazioni fatte da figure rappresentative e parti di una linea di pensiero coerente e in<br />

sviluppo. Inoltre non devono essere ignorate le affermazioni contraddittorie, ma invece<br />

prese per quello che sono, frammenti di un insieme in cui esistevano l'una accanto all'altra<br />

linee di pensiero contraddittorie, compresa quella messa in rilievo in questo libro.<br />

Richiederebbe un lavoro di portata molto più vasta dare una dimostrazione che il pensiero<br />

umanistico radicale è l'unico che segni gli stadi principali dell'evoluzione della tradizione<br />

classica, mentre la corrente conservatrice-nazionalistica è ciò che resta di relativamente<br />

immutato di tempi più antichi, mai fatto partecipe dell'evoluzione progressiva del pensiero<br />

ebraico nel suo contributo ai valori umani universali.<br />

Sebbene io non sia un esperto nel campo degli studi biblici, questo libro è il frutto di molti<br />

anni di riflessione, dato che ho studiato il Vecchio Testamento e il Talmud fin da bambino.<br />

Pure, non avrei osato pubblicare queste osservazioni sulla Scrittura se nel mio<br />

orientamento fondamentale allo studio della Bibbia e della tradizione ebraica posteriore<br />

non avessi avuto per maestri grandi studiosi rabbinici, tutti rappresentanti dell'ala<br />

umanistica della tradizione ebraica e ebrei rigorosamente osservanti, ma molto diversi<br />

l'uno dall'altro. Ludwig Krause, un tradizionalista poco toccato dal pensiero moderno;<br />

Nehemia Nobel, un mistico, profondamente impregnato del misticismo ebraico e del<br />

pensiero umanistico occidentale; Salman B. Rabinkow, legato alla tradizione hasidica,<br />

socialista e studioso moderno. Sebbene nessuno di essi abbia lasciato scritti notevoli, erano<br />

molto conosciuti <strong>come</strong> studiosi del Talmud fra i più autorevoli viventi in Germania prima<br />

dell'olocausto nazista. Non essendo un ebreo praticante o “credente”, io sono naturalmente<br />

in una posizione molto diversa dalla loro, e tanto meno oserei considerarli responsabili delle<br />

opinioni espresse in questo libro. Tuttavia queste mie opinioni si sono sviluppate dal loro<br />

insegnamento, e sono convinto che non si è interrotta in nessun punto la continuità tra<br />

questo e le mie idee. Sono stato anche incoraggiato a scrivere questo libro dall'esempio del<br />

grande kantiano Hermann Cohen che, nel suo Die Religion der Vernunft aus den Quellen des<br />

Judentums seguì il metodo di considerare il Vecchio Testamento e la tradizione ebraica<br />

posteriore <strong>come</strong> un tutto unico. Anche se questa opera di poco valore non può paragonarsi<br />

al suo importante capolavoro, e se le mie conclusioni a volte divergono dalle sue, sono stato<br />

influenzato fortemente dal suo modo di affrontare la Bibbia.<br />

L'interpretazione della Bibbia data in questo libro è quella dell'umanesimo radicale. Con


“umanesimo radicale” mi riferisco a una filosofia globale che sottolinea l'unicità della razza<br />

umana, la capacità dell'uomo di sviluppare le proprie potenzialità, di raggiungere un'armonia<br />

interiore e l'equilibrio di un mondo pacifico. L'umanesimo radicale considera lo scopo<br />

dell'uomo una completa indipendenza; ciò implica pervenire, al di là delle finzioni e degli<br />

inganni, a una piena consapevolezza della realtà, e inoltre un atteggiamento di scetticismo<br />

verso l'uso della forza, proprio perché durante la storia dell'uomo è stata ed è tuttora la<br />

forza (l'indurre paura) a render l'uomo incapace di indipendenza, deformandone così la<br />

ragione e i sentimenti.<br />

Se è possibile scoprire le basi dell'umanesimo radicale nelle più antiche fonti bibliche, è<br />

soltanto perché conosciamo l'umanesimo radicale di Amos, di Socrate, degli umanisti<br />

rinascimentali, dell'Illuminismo, di Kant, Herder, Lessing, Goethe, Marx, Schweitzer. Il<br />

seme diventa chiaramente riconoscibile solo se se ne conosce il fiore; la prima fase deve<br />

spesso essere interpretata con l'aiuto della seguente, anche se, geneticamente, la prima<br />

precede la successiva.<br />

Esiste un altro aspetto dell'interpretazione umanistica radicale da considerare. I concetti,<br />

specialmente se non si tratta solo di quelli di un unico individuo ma di quelli incorporati al<br />

processo storico, hanno le loro radici nella vita reale della società. Per cui, se si sostiene<br />

che il concetto dell'umanesimo radicale è una tendenza importante nella tradizione biblica<br />

e post-biblica, si deve sostenere anche che già nella storia degli ebrei esistevano le<br />

condizioni fondamentali che avrebbero dato origine all'esistenza e allo sviluppo della<br />

tendenza umanistica. Ci sono tali condizioni fondamentali? Credo che ci siano e che non sia<br />

difficile scoprirle. Gli ebrei detennero un potere secolare efficace e autoritario soltanto<br />

per un breve periodo di tempo, di fatto, per poche generazioni. Dopo i regni di David e<br />

Salomone, la pressione delle grandi potenze del nord e del sud arrivò a tali dimensioni che<br />

Giuda e Israele vissero sotto la minaccia sempre crescente di venir conquistati. E, in<br />

effetti, conquistati furono, senza potersi riprendere. Perfino quando più tardi gli ebrei<br />

ebbero un'indipendenza politica formale, costituivano un piccolo satellite impotente,<br />

soggetto a grandi potenze. Quando infine i Romani posero fine al loro stato dopo che R.∗<br />

Yohanan ben Zakkai passò dalla loro parte - con l'unica richiesta di aprire un'accademia a<br />

Jabne per educare le future generazioni di studiosi rabbinici - emerse un Giudaismo senza<br />

re né sacerdoti, già sviluppatosi nei secoli, dietro una facciata che ebbe dai Romani<br />

soltanto il colpo decisivo. I profeti che avevano denunciato l'ammirazione idolatra per il<br />

potere secolare furono vendicati dal corso della storia. Perciò furono gli insegnamenti<br />

profetici e non lo splendore di Salomone a costituire l'influenza dominante e duratura sul<br />

pensiero ebraico. Da allora in poi gli ebrei <strong>come</strong> nazione non hanno più riconquistato il<br />

potere. Al contrario, la maggior parte della loro storia è fatta di sofferenze inferte da<br />

coloro che furono capaci di servirsi della forza. Indubbiamente la loro posizione poteva<br />

anche - e così è accaduto - dare origine a risentimenti nazionali, chiusura faziosa,<br />

arroganza: questa è la base dell'altra tendenza all'interno della storia ebraica sopra citata.<br />

Ma non è naturale che la storia della liberazione dalla schiavitù in Egitto, i discorsi <strong>dei</strong><br />

grandi profeti umanisti, abbiano trovato una eco nei cuori di uomini che avevano<br />

sperimentato la forza soltanto subendola, e mai esercitandola? Non è sorprendente che la<br />

visione profetica di un'umanità unita e pacifica, di giustizia per i poveri e gli indifesi,<br />

trovasse un suolo fertile tra gli ebrei e che non fosse mai dimenticata? Che quando le mura


<strong>dei</strong> ghetti caddero al suolo, gli ebrei, in numero sproporzionatamente grande, fossero tra<br />

coloro che proclamavano gli ideali di internazionalismo, pace e giustizia? Quella che da un<br />

punto di vista umano è stata la loro tragedia - la perdita della loro terra e del loro stato -<br />

dal punto di vista umanistico fu la più grande benedizione: essendo fra chi soffre ed è<br />

disprezzato, furono capaci di svilupparsi e di mantenere una tradizione di umanesimo.<br />

(ritorna all'indice)


II.<br />

IL CONCETTO DI DIO<br />

I termini e i concetti che si riferiscono ai fenomeni collegati all'esperienza psichica e<br />

mentale si sviluppano e crescono - o si deteriorano - con la persona alla cui esperienza si<br />

riferiscono: si trasformano e hanno vita nella stessa misura.<br />

Se un ragazzino di sei anni dice a sua madre « Ti voglio bene », usa la parola “bene” per<br />

indicare l'esperienza che ne ha a sei anni. Quando il bambino è cresciuto e diventato un<br />

uomo, le stesse parole dette alla donna che ama avranno un significato diverso, che esprime<br />

la più ampia sfera, la maggiore profondità, la libertà e attività più grandi che<br />

contraddistinguono l'amore di un uomo da quello di un bambino. Purtuttavia, sebbene<br />

l'esperienza alla quale il termine “amore” si riferisce sia diversa, ha un'origine comune,<br />

proprio <strong>come</strong> l'uomo è diverso dal bambino e insieme lo stesso.<br />

Permanenza e cambiamento esistono simultaneamente in ogni essere umano, per cui<br />

permanenza e cambiamento si trovano in ogni concetto che rifletta l'esperienza di un<br />

essere vivente. Tuttavia se i concetti abbiano una esistenza propria e si sviluppino, si può<br />

capire soltanto quando non vengano separati dall'esperienza che esprimono. Se il concetto<br />

diventa alienato - cioè si separa dall'esperienza alla quale si riferisce - perde la sua realtà<br />

e si trasforma in un prodotto artificiale della mente umana. Si crea così la finzione, per cui<br />

chiunque si serva del concetto si riferisce al substrato di esperienza che sta alla sua base.<br />

Una volta che questo accade - e questo processo di alienazione <strong>dei</strong> concetti è la regola e<br />

non l'eccezione - il concetto che esprime un'esperienza si è trasformato in un'ideologia che<br />

usurpa il posto della realtà sottostante dell'essere umano vivente. La storia allora diventa<br />

una storia di ideologie piuttosto che la storia del concreto, di uomini reali creatori <strong>dei</strong> loro<br />

concetti.<br />

Le precedenti considerazioni sono importanti se si vuole capire il concetto di Dio, e anche la<br />

posizione in base alla quale sono state scritte queste pagine. Io credo che il concetto di Dio<br />

sia stato un'espressione storicamente condizionata di un'esperienza interiore. Posso capire<br />

quello che la Bibbia o le persone sinceramente religiose vogliono dire quando parlano di Dio,<br />

ma non condivido il loro pensiero; io credo che il concetto «Dio» sia stato determinato dalla<br />

presenza di una struttura socio-politica in cui capi tribali o re avevano il potere supremo. Il


valore supremo è concettualizzato <strong>come</strong> analogo al potere supremo nella società.<br />

“Dio” è una delle numerosissime espressioni poetiche dell'umanesimo di più alto valore, non<br />

una realtà in se stesso. È inevitabile tuttavia che, parlando del pensiero di un sistema<br />

monoteistico, io mi serva spesso del termine “Dio”, senza aggiungere ogni volta la mia<br />

riserva personale. Per cui voglio chiarire la mia posizione fin dall'inizio. Se potessi definirla<br />

approssimativamente, direi che si tratta di un misticismo non-teistico.<br />

A quale realtà dell'esperienza umana si riferisce il concetto di Dio? Il Dio di Abramo è lo<br />

stesso Dio di Mosè, di Isaia, di Maimonide, di Meister Eckhart, di Spinoza? E se non è lo<br />

stesso, esiste comunque un substrato esperienziale comune al concetto adoperato da questi<br />

vari uomini, o può darsi che sebbene questa base comune esista per alcuni, non esista per<br />

altri?<br />

Che sia così facile che un'idea - espressione concettuale di un’esperienza umana - si<br />

trasformi in un'ideologia, si spiega non soltanto con la paura dell'uomo di compromettersi<br />

fino in fondo nell'esperienza, ma anche con la natura stessa del rapporto fra esperienza e<br />

idea (concettualizzazione). Un concetto non può mai esprimere in modo adeguato<br />

l'esperienza a cui si riferisce: la indica, ma non è. Come dicono i buddhisti Zen, è «il dito<br />

che indica la luna» - non è la luna. Una persona si può riferire alla propria esperienza con il<br />

concetto a o il simbolo x; un gruppo di persone può usare il concetto a o il simbolo x per<br />

denotare un'esperienza comune che esse condividono. In questo caso, anche se il concetto<br />

non è alienato dall'esperienza, esso o il simbolo sono solo un'espressione approssimativa<br />

dell'esperienza. È necessariamente così poiché non esiste esperienza personale che sia mai<br />

identica a quella di un altro, può solo avvicinarvisi in modo da permettere l'uso di un simbolo<br />

o di un concetto comune. (Infatti perfino l'esperienza di una persona non è mai uguale a se<br />

stessa nelle varie occasioni, perché nessuno è esattamente lo stesso in due momenti diversi<br />

della propria vita). Il concetto e il simbolo hanno il grande vantaggio di permettere alle<br />

persone di comunicare le proprie esperienze, ma il tremendo svantaggio di prestarsi<br />

facilmente ad un uso alienato.<br />

Inoltre un altro fattore contribuisce allo sviluppo dell'alienazione e dell' “ideologizzazione”.<br />

Sembra che si tratti di una tendenza inerente al pensiero umano tentare di sistematizzare<br />

e di completare. (La radice di questa tendenza sta nella ricerca di certezza dell'uomo - una<br />

ricerca abbastanza comprensibile se si considera in rapporto alla natura precaria<br />

dell'esistenza umana). Quando conosciamo <strong>dei</strong> frammenti di realtà, vogliamo completarli in<br />

modo che “abbiano un senso” sistematicamente. Tuttavia per la natura stessa <strong>dei</strong> limiti<br />

dell'uomo abbiamo sempre soltanto una conoscenza “frammentaria” e mai completa. Quello<br />

che siamo portati a fare allora è costruire alcune parti addizionali da aggiungere ai<br />

frammenti per costituirli in una totalità, in un sistema. Spesso manca la coscienza della<br />

differenza qualitativa fra i “frammenti” e le “aggiunte” per l'intensità del desiderio di<br />

certezza.<br />

Si può riscontrare spesso questo processo perfino nello sviluppo della scienza. In molti<br />

sistemi si trovano interpretazioni effettive della realtà mescolate a parti inventate<br />

aggiunte, intese a formare un testo sistematico. Solo più tardi, in un momento di sviluppo<br />

successivo, si riconosce chiaramente quali erano le parti vere ma frammentarie di


conoscenza e quali l' “imbottitura” aggiunta per dare al sistema una maggiore plausibilità.<br />

Lo stesso processo avviene nell'ideologia politica. Quando durante la Rivoluzione francese<br />

la borghesia combatteva per la propria libertà, questo avveniva nell'illusione di combattere<br />

per la libertà universale e per la felicità <strong>come</strong> principi assoluti, e quindi applicabili a tutta<br />

l'umanità.<br />

Troviamo ancora lo stesso processo nella storia <strong>dei</strong> concetti religiosi. Al tempo in cui l'uomo<br />

aveva una conoscenza frammentaria della possibilità di risolvere il problema dell'esistenza<br />

umana con lo sviluppo completo <strong>dei</strong> propri poteri umani; quando intuiva di poter trovare<br />

l'armonia progredendo verso il pieno dispiegarsi dell'amore e della ragione e non con il<br />

tragico tentativo di regredire alla natura eliminando la ragione, attribuì a questa nuova<br />

visione, a questa x, molti nomi: Brahama, Tao, Nirvana, Dio. Questo sviluppo avvenne in<br />

tutto il mondo durante il millennio fra il 1500 a. C. e il 500 a. C.[6], in Egitto, Palestina,<br />

India, Cina, Grecia. La natura della diversità di questi vari concetti dipendeva dalle basi<br />

economiche, sociali e politiche delle rispettive culture e classi sociali, e dai tipi di pensiero<br />

da loro derivanti. Ma la x, il fine, fu presto convertito in un assoluto; vi fu costruito intorno<br />

un sistema, gli spazi bianchi riempiti da molte supposizioni fittizie, finché quello che era<br />

comune nella visione quasi scomparve sotto il peso delle “aggiunte” fittizie prodotte da ogni<br />

sistema.<br />

Ogni progresso nella scienza, nelle idee politiche, nella religione e nella filosofia, tende a<br />

creare delle ideologie che competono e lottano le une con le altre. Inoltre questo processo<br />

è aiutato dal fatto che appena il sistema di pensiero diventa il nucleo di un'organizzazione,<br />

sorgono i burocrati che, per tenere e controllare il potere, vogliono accentuare le<br />

differenze più che ciò che è comune, e che sono quindi interessati a fare aggiunte fittizie<br />

altrettanto - o più - importanti <strong>dei</strong> frammenti originali. Perciò la filosofia, la religione, le<br />

idee politiche e talvolta anche la scienza, sono trasformate in ideologie, controllate dai<br />

rispettivi burocrati.<br />

Il concetto di Dio nel Vecchio Testamento nasce e si evolve di pari passo all'evoluzione di<br />

un popolo, in uno spazio di tempo di 1200 anni. Esiste un elemento comune di esperienza<br />

riguardo al concetto di Dio, ma c'è un cambiamento costante anche in questa esperienza, e<br />

di conseguenza nel significato del termine e del concetto. In comune è l'idea che né la<br />

natura né i prodotti dell'uomo costituiscono l'ultima realtà o il valore più alto, ma che solo<br />

l'UNO rappresenta il valore e lo scopo supremi dell'uomo: ritrovare l'unione con il mondo<br />

tramite la potenzialità delle capacità specificatamente umane di amore e di ragione. Il Dio<br />

di Abramo e il Dio di Isaia hanno in comune le qualità essenziali dell'Unità, tuttavia si<br />

differenziano nella stessa misura in cui si differenzia un capo incivile, primitivo, di una<br />

tribù nomade, da un pensatore universalista di uno <strong>dei</strong> centri di cultura mondiale un<br />

millennio più tardi. C'è uno sviluppo e un'evoluzione del concetto di Dio che accompagnano lo<br />

sviluppo e l'evoluzione di una nazione; hanno un nucleo in comune ma le differenze che<br />

aumentano nel corso dell'evoluzione storica sono così grandi che spesso sembrano superare<br />

gli elementi comuni.<br />

Nel primo stadio di questa evoluzione, Dio è concepito <strong>come</strong> signore assoluto. Egli ha creato<br />

la natura e l'uomo, e se non li ama può distruggere ciò che è opera sua. Tuttavia questo<br />

potere assoluto di Dio sull'uomo è controbilanciato dal concetto che l'uomo è il suo rivale


potenziale. L'uomo potrebbe diventare Dio se solo mangiasse dell'albero della conoscenza e<br />

dell'albero della vita. Il frutto dell'albero della conoscenza dà all'uomo la saggezza di Dio;<br />

il frutto dell'albero della vita la Sua immortalità. Incoraggiati dal serpente, Adamo ed Eva<br />

mangiano il frutto dell'albero della conoscenza e compiono così il primo passo. Dio sente<br />

minacciata la sua posizione di supremazia. Egli dice: « Ecco, l'uomo è diventato <strong>come</strong> uno di<br />

noi nella conoscenza del bene e del male. Ora dunque, che egli non stenda la mano e non<br />

colga anche dell'albero della vita e ne mangi e viva in eterno... » (Gn. 3: 22). Per proteggersi<br />

da questo pericolo Dio scaccia l'uomo dal Paradiso e limita la sua esistenza a un massimo di<br />

120 anni.<br />

L'interpretazione cristiana dell'atto di disobbedienza dell'uomo <strong>come</strong> “caduta” ne ha<br />

offuscato il chiaro significato. Il testo biblico non menziona affatto la parola “peccato”;<br />

l'uomo sfida il supremo potere di Dio, e lo può fare perché è potenzialmente Dio. Il primo<br />

atto dell'uomo è di ribellione, e Dio lo punisce perché si è ribellato e perché vuole<br />

conservare la Sua supremazia. Deve proteggerla con un atto di forza, scacciando Adamo ed<br />

Eva dal Giardino dell'Eden impedendo così loro di compiere il secondo passo verso l'essere<strong>come</strong>-Dio,<br />

mangiando dell'albero della vita. L'uomo deve cedere di fronte alla forza<br />

superiore di Dio, ma non esprime rimpianto o pentimento. Scacciato dal Giardino dell'Eden,<br />

comincia la sua vita indipendente; il suo primo atto di disobbedienza è l'inizio della storia<br />

umana, perché è l'inizio della libertà umana.<br />

Non è possibile capire l'evoluzione ulteriore del concetto di Dio, se non si capisce la<br />

contraddizione inerente al concetto precedente. Sebbene sia il signore supremo, Dio ha<br />

creato una creatura che è il suo rivale potenziale; fin dal primo inizio della sua esistenza<br />

l'uomo è il ribelle e reca in se stesso, in potenza, la propria divinità. Come vedremo, più va<br />

avanti, più si libera dalla supremazia di Dio e più può diventare <strong>come</strong> Lui[7]. Tutta<br />

l'evoluzione successiva del concetto di Dio limita il suo ruolo di padrone dell'uomo.<br />

Una volta ancora Dio appare nel testo biblico <strong>come</strong> il signore arbitrario che può fare con le<br />

sue creature quello che il vasaio fa con un vaso che non gli piace. Poiché l'uomo è “malvagio”,<br />

Dio decide di distruggere la vita sulla terra[8]. Questo racconto nel suo svolgersi porta<br />

tuttavia al primo importante cambiamento del concetto di Dio. Dio “si pente” della sua<br />

decisione e vuole salvare Noè, la sua famiglia, e ogni specie di animale. Ma il punto decisivo<br />

sta nel fatto che Dio conclude un patto (berit) simbolizzato dall'arcobaleno, con Noè e con<br />

tutti i suoi discendenti. «Io faccio un patto con <strong>voi</strong>, che non sarà più distrutta alcuna carne<br />

dalle acque del diluvio e non vi sarà più alcun diluvio a distruggere la terra» (Gn. 9: 11) . Il<br />

concetto del patto fra Dio e l'uomo può avere un'origine arcaica che risale a quando Dio era<br />

solo un'idealizzazione dell'uomo, forse non troppo diverso dagli dèi olimpici greci - un Dio<br />

che ha le virtù e i vizi umani e che può essere dagli uomini sfidato. Ma nel contesto in cui i<br />

commentatori della Bibbia hanno inserito la storia del patto, il suo significato non è quello<br />

di una regressione a forme più arcaiche del concetto di Dio, ma di un progresso a una<br />

visione molto più sviluppata e matura. Il concetto del patto costituisce, in effetti, uno <strong>dei</strong><br />

passi più decisivi nello sviluppo del Giudaismo, passo che prepara la strada al concetto della<br />

completa libertà dell'uomo, libertà anche da Dio.<br />

Con la conclusione del patto, Dio cessa di essere il signore assoluto: è diventato socio<br />

dell'uomo in un contratto, si è trasformato da sovrano, “assoluto” a sovrano


“costituzionale”; è legato <strong>come</strong> l'uomo alla costituzione; ha perduto la libertà di essere<br />

arbitrario, e l'uomo ha conquistato la libertà di poter sfidare Dio nel nome delle sue stesse<br />

promesse, <strong>dei</strong> princìpi stabiliti nel patto. È solo un accordo, ma fondamentale: Dio si obbliga<br />

a un rispetto assoluto per la vita dell'uomo e di tutte le creature viventi. Il diritto di vivere<br />

è stabilito <strong>come</strong> la prima legge, che neppure Dio può mutare. È importante notare che il<br />

primo patto (nella redazione finale della Bibbia) è tra Dio e il genere umano, non tra Dio e la<br />

tribù ebraica. La storia degli ebrei è concepita solo <strong>come</strong> una parte della storia dell'uomo; il<br />

principio del «rispetto per la vita»[9] precede ogni altra promessa specifica a una tribù o<br />

nazione particolari.<br />

Questo primo patto fra Dio e il genere umano è seguito da un secondo, tra Dio e gli<br />

ebrei[10]. Nella Genesi, 12: 1-3, il patto è già indicato: «Vattene dalla tua terra, dal tuo<br />

parentado, dalla casa di tuo padre, verso la terra che ti mostrerò. Io farò di te una grande<br />

nazione, ti benedirò e renderò glorioso il tuo nome e sarai una benedizione. Benedirò coloro<br />

che ti benediranno e maledirò coloro che ti malediranno; in te saranno benedette tutte le<br />

famiglie della terra». In queste ultime parole ritroviamo l'espressione dell'universalismo.<br />

La benedizione non servirà soltanto alla tribù di Adamo ma è estesa a tutta la famiglia<br />

umana. In seguito la promessa di Dio a Abramo si stende in un patto che promette ai suoi<br />

discendenti la terra fra il fiume d'Egitto e il fiume Eufrate. Questo patto si ritrova in<br />

un'ampia versione della Genesi 17: 7-10.<br />

L'espressione più drammatica delle conseguenze radicali del patto si trova nella discussione<br />

di Abramo con Dio, quando Dio vuole distruggere Sodoma e Gomorra per la loro « malvagità<br />

»[11]. Quando Dio parla ad Abramo delle sue intenzioni, Abramo gli si accosta e dice: « Farai<br />

tu perire il giusto insieme con l'empio? Forse vi saranno cinquanta giusti in quella città.<br />

Farai tu perire e non piuttosto perdonerai a quel luogo, per riguardo ai cinquanta giusti che<br />

sono in esso? Lungi da te fare una tal cosa, far perire il giusto insieme con l'empio, trattare<br />

il giusto alla pari dell'empio; lungi da te. Il giudice di tutta la terra non giudicherebbe<br />

secondo giustizia ». Allora il Signore rispose: « Se troverò dentro la città di Sodoma<br />

cinquanta giusti, per riguardo a loro perdonerò a tutto il luogo ». Abramo replicò « Ecco,<br />

benché io sia polvere e cenere, mi permetto di insistere presso il mio Signore. Forse<br />

mancheranno cinque giusti a quei cinquanta. Farai tu perire tutta la città per quei cinque? »<br />

Rispose: « Non la distruggerò se ve ne troverò quarantacinque ». Ed egli continuò ancora a<br />

parlare dicendo: « Forse ve ne saranno quaranta ». Rispose: « Non lo farò per riguardo a<br />

quei quaranta ». Disse egli ancora: « Di grazia, non si adiri il mio Signore se continuo a<br />

parlare: Forse ce ne saranno trenta ». Rispose: « Non lo farò se ve ne troverò trenta ».<br />

Disse: « Ecco mi permetto di insistere presso il mio Signore: Forse ve ne saranno venti».<br />

Rispose: « Per riguardo a quei venti, non la distruggerò ». Disse egli: « Di grazia non si adiri<br />

il mio Signore se parlo ancora una volta. Forse se ne troveranno dieci ». Rispose: «Per<br />

riguardo a quei dieci io non la distruggerò».<br />

Genesi 18: 23-32<br />

« Il giudice di tutta la terra non giudicherebbe secondo giustizia ». Questa frase segna il


cambiamento fondamentale del concetto di Dio derivante dal patto. Con un linguaggio<br />

rispettoso, ma con l'audacia di un eroe, Abramo spinge Dio a osservare i principi di<br />

giustizia. Il suo non è l’atteggiamento di un umile che supplica, ma di un uomo fiero che ha il<br />

diritto di esigere da Dio che osservi il principio di giustizia. Il linguaggio stesso di Abramo<br />

si muove con abilità consumata tra rispetto formale e sfida - cioè tra la terza persona<br />

singolare (« Non si adiri il mio Signore... ») e la seconda persona (« Farai tu perire tutta la<br />

città per quei cinque? »).<br />

Con la sfida di Abramo si aggiunge un nuovo elemento alla tradizione biblica e ebraica<br />

successiva; proprio perché Dio è legato alle norme della giustizia e dell'amore, l'uomo non è<br />

più il suo schiavo.<br />

L'uomo può sfidare Dio - <strong>come</strong> Dio può sfidare l'uomo - perché sopra di essi sono i princìpi<br />

e le norme. Anche Adamo ed Eva sfidarono Dio, per disobbedienza, ma dovettero cedere;<br />

Abramo sfida Dio non per disobbedienza ma per accusarlo di violare le sue stesse promesse<br />

e i suoi princìpi[12]. Abramo non è un Prometeo ribelle, è un uomo libero che ha il diritto di<br />

chiedere, mentre Dio non ha il diritto di rifiutare.<br />

Si arriva alla terza fase dell'evoluzione del concetto di Dio con la rivelazione di Dio a Mosè.<br />

Anche a questo punto, però, non tutti gli elementi antropomorfici sono scomparsi. Al<br />

contrario, ancora Dio « parla », « dimora su una montagna », più tardi scriverà la legge su<br />

due tavole. In tutta la Bibbia Dio è descritto con un linguaggio antropomorfico. Di nuovo c'è<br />

il fatto che Dio si rivela <strong>come</strong> il Dio della storia e non <strong>come</strong> il Dio della natura, e<br />

soprattutto la distinzione fra Dio e un idolo trova la sua massima espressione nel concetto<br />

di un Dio senza nome.<br />

In seguito discuteremo più in particolare la storia della liberazione dall'Egitto. Per ora sarà<br />

sufficiente ricordare che nel corso di questo racconto, Dio fa ripetute concessioni alle<br />

varie richieste di Mosè: gli ebrei pagani non possono capire il linguaggio della libertà e il<br />

concetto di un Dio che si riveli solo <strong>come</strong> il Dio della storia, senza darsi un nome, e che<br />

dice: « Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe »<br />

(Es. 3: 6). Gli ebrei non crederanno in lui: « e Mosè disse a Dio, “Ecco, quando sarò giunto<br />

dai figli di Israele e avrò detto loro: È il Dio <strong>dei</strong> vostri padri che mi ha mandato da <strong>voi</strong>, se<br />

essi mi domanderanno, Qual è il suo nome?, che risponderò loro?” » (Es. 3: 13). L'obiezione<br />

di Mosè viene accettata. L'essenza stessa di un idolo sta nel fatto che ha un nome; ogni<br />

cosa ha un nome perché è intera nello spazio e nel tempo. Per gli ebrei, abituati al concetto<br />

di idolatria, un Dio della storia senza nome non poteva avere senso, poiché un idolo senza<br />

nome è una contraddizione in se stesso. Dio se ne rende conto e fa una concessione alla<br />

capacità di capire degli ebrei. Si dà un nome e dice a Mosè: « “IO SONO COLUI CHE<br />

SONO”. Poi disse: “Così dirai ai figli d'Israele: L'IO SONO mi ha mandato da <strong>voi</strong>” ». (Es. 3:<br />

14).<br />

Cosa vuol dire questo nome particolare che Dio si dà? Il testo ebraico dice EHEYEK asher<br />

EHEYEK; oppure « Eheyeh mi ha mandato da <strong>voi</strong> ».<br />

Eheyeh è la prima persona del tempo imperfetto del verbo ebraico « essere ». Dobbiamo<br />

ricordare che in ebraico non esiste un tempo presente, ma soltanto due forme


fondamentali: perfetto e imperfetto. Il presente si può formare con l'uso del participio,<br />

<strong>come</strong> in inglese « Ι am writing », ma non esiste un tempo corrispondente a « Io scrivo<br />

».Tutte le relazioni di tempo sono espresse da certe alterazioni secondarie del verbo[13]. Di<br />

base, un'azione viene vissuta <strong>come</strong> se fosse finita ο non finita, cioè, al perfetto ο<br />

all'imperfetto. Con le parole che denotano azioni del mondo fisico, il perfetto implica<br />

necessariamente il passato. Se ho terminato di scrivere una lettera, la mia azione è finita:<br />

è nel passato. Ma con le attività di natura non-fisica, <strong>come</strong> il conoscere, per esempio, la<br />

cosa è diversa. Se io ho finito di imparare, non è necessariamente nel passato, ma il<br />

perfetto di conoscere può - e spesso accade - significare in ebraico « Conosco<br />

completamente », « Capisco fino in fondo ». Lo stesso dicasi per i verbi <strong>come</strong> “amare” e<br />

simili[14].<br />

Considerando il “nome” di Dio, l'importanza del Eheyeh sta nel fatto che è l'imperfetto del<br />

verbo “essere”. Dice che Dio è, ma che il suo essere non è finito <strong>come</strong> quello di una cosa, è<br />

un processo vivente, un divenire; solo una cosa, cioè, che abbia raggiunto la sua forma finale<br />

può avere un nome. La traduzione libera della risposta di Dio a Mosè sarebbe « Il mio nome<br />

è Senzanome; di’ loro che Senzanome ti ha mandato »[15]. Solo gli idoli hanno un nome,<br />

perché sono delle cose. Il Dio « vivente » non può avere un nome. In Eheyeh troviamo un<br />

compromesso ironico tra la concessione di Dio all'ignoranza del popolo e la sua convinzione<br />

di dover essere un Dio senza nome.<br />

Questo Dio che si manifesta nella storia non può essere rappresentato da nessun tipo di<br />

immagine: né da quella di un suono - cioè un nome - né da quella di pietra ο di legno. Questo<br />

divieto di rappresentare in qualsiasi modo Dio è espresso chiaramente nei Dieci<br />

Comandamenti, che proibiscono all'uomo di prostrarsi davanti ad alcuna « scultura, ne<br />

immagine alcuna delle cose che sono nel cielo in alto ο sulla terra in basso, ο nelle acque<br />

sotto la terra ». (Es. 20: 4). Questo comandamento è uno <strong>dei</strong> princìpi fondamentali della<br />

“teologia” ebraica.<br />

Sebbene Dio sia stato designato con un nome paradossale (YHWH), anche questo “nome”<br />

non deve essere pronunciato « invano », <strong>come</strong> dicono i Dieci Comandamenti. Nahamides, nel<br />

suo commentario, spiega questo “invano” con il significato di “senza scopo”; la tradizione<br />

ebraica successiva e la pratica religiosa hanno chiarito cosa volesse dire questo “senza<br />

scopo”. Gli ebrei osservanti anche oggi non pronunciano lo YHWH e dicono invece Adonai,<br />

che significa “mio Signore”; ma non dicono neanche Adonai se non pregando ο leggendo le<br />

Scritture, e lo sostituiscono con Adoshem (la prima lettera di Adonai più la parola shem<br />

che significa semplicemente “nome”) ogni volta che parlano di Dio. Anche quando scrivono<br />

Dio in una lingua straniera, per esempio in inglese, un ebreo osservante scriverà “G'd” per<br />

non pronunciare il nome di Dio invano. In altri termini, secondo la tradizione ebraica il<br />

divieto biblico di rappresentare Dio in qualsiasi modo e di servirsi del Suo nome invano,<br />

significa che si può parlare a Dio pregando, nell'atto di unirsi a Dio, ma non si può parlare di<br />

Dio per non trasformarlo in un idolo[16]. La conseguenza di questo divieto verrà trattata nel<br />

seguito di questo capitolo, riguardo alla possibilità della “teologia”.<br />

(ritorna all'indice)


segue ......... da pag. 26<br />

[1] Per una breve e concisa storia letteraria del Vecchio Testamento, consiglio Robert H. Pfeiffer, The Books of the Old Testament, II<br />

ediz. (New York: Harper & Row, 1948).<br />

[2] La lettura del Pentateuco è seguita da un capitolo di scritti profetici, così da collegare lo spirito del Pentateuco con quello <strong>dei</strong><br />

Profeti.<br />

[3] La spiegazione di Rashi della prima frase della Bibbia è un esempio significativo: «La ragione per cui si comincia con la creazione è<br />

giustificare l'assegnazione della Terra Santa a Israele; essendo Dio il Creatore del Mondo, può assegnare una qualsiasi parte di esso a<br />

chiunque Egli desideri». La limitatezza del commento di Rashi è impressionante. Dove il testo parla della creazione del mondo, Rashi<br />

pensa al diritto ebraico su Israele e, secondo la tradizione feudale, dimostra che Dio, <strong>come</strong> padrone del mondo intero, ha il diritto di<br />

dare una parte di terra a chiunque voglia. (Questa e tutte le successive traduzioni <strong>dei</strong> commentari alla Bibbia sono citate dal Chumash di<br />

Soncino, pubblicato a cura di A. Cohen [Hindhead, Surrey: The Soncino Press, 1947]).<br />

[4] È stato il carattere rivoluzionario del Vecchio Testamento a farne guida delle sette rivoluzionarie cristiane prima e dopo la Riforma.<br />

[5] La distinzione tra l' “ala destra” e l' “ala sinistra” è espressa con la massima chiarezza in due fra i più antichi rappresentanti <strong>dei</strong><br />

Farisei: Hillel e Shammai. Quando un pagano andò da Shammai per chiedergli di spiegargli tutta la Torah stando su una gamba, Shammai<br />

lo buttò fuori. Quando andò con la stessa richiesta da Hillel, ricevette la seguente risposta: «L'essenza della Torah è il comandamento:<br />

Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te - il resto è solo un commentario. Va' e studia». In un ottimo libro The<br />

Pharisees (Philadelphia: The Jewish Publication Society of America, 1962), Louis Finkelstein ha fatto vedere le differenze fra l'ala<br />

destra e l'ala sinistra nei Farisei e ha analizzato il loro ambiente sociale. Per uno studio approfondito di queste due “scuole di pensiero”<br />

ebraiche medievali, si veda Jacob Katz, Exclusiveness and Tolerance (Oxford: Oxford University Press, 1961).<br />

∗ L'iniziale “R.” sta per “Rabbi” (Rabbino) [N.d.T.].<br />

[6] Cf. La concezione di Karl Jasper dell'«età assiale».<br />

[7] Da un punto di vista storico si può dedurre che il testo biblico trae origine da antichissime tradizioni nelle quali Dio non è ancora il<br />

signore supremo e l'uomo vi rappresenta più antiche divinità che ancora contestano la sua supremazia. Anche se è probabile che sia così,<br />

non ha la minima importanza dal punto di vista del nostro metodo di interpretazione, che accetta l'ultimo testo riveduto, <strong>come</strong> un tutto<br />

unificato. I commentatori del testo volendo avrebbero potuto eliminare i passi arcaici. Ma non lo hanno fatto, e hanno lasciato le<br />

contraddizioni interne alla figura di Dio, da cui deriva la figura di Dio drasticamente mutata che ritroviamo più tardi.<br />

[8] Considerando che questa decisione segue una sentenza arcaica riguardante i «figli degli dèi» che generano «con le sorelle dell'uomo»,<br />

può essere che la «malvagità» dell'uomo stia prima di tutto nel fatto che minaccia la supremazia di Dio.<br />

Si può pensare lo stesso dell'episodio della Torre di Babele, in cui Dio si oppose a un genere umano riunito: «e non sarà precluso ad essi<br />

quanto è venuto loro in mente di fare» (Gn. 11: 6). Per impedire che ciò avvenga Dio confonde le loro lingue e li disperde dovunque.<br />

[9] Cf. la tesi centrale di Alberi Schweitzer.<br />

[10] Il patto con Abramo proviene dalla fonte J, quello con Noè dalla fonte E, quindi la storia del patto con Abramo precederebbe<br />

storicamente quella del patto con Noè. Ma secondo ciò che è stato detto all'inizio, non ha importanza per la nostra analisi. Il redattore<br />

ultimo della Genesi ha riunito le due fonti in modo tale che il patto con il genere umano precede quello con la tribù ebraica. Aveva le sue<br />

buone ragioni per farlo e il libro sussiste nel modo in cui a lui sembrò opportuno.<br />

[11] Il concetto della natura della colpevolezza di Sodoma e Gomorra rivela un interessante sviluppo nella tradizione ebraica. Il testo<br />

biblico parla di omosessualità ed è chiaramente questo il significato del testo, interpretato così anche da Rashi, Abraham Ιbn Ezra (n.


1092), Rashbam (R. Samuel ben Meir, 1085-1174). Nahman (R. Moshe ben Nahman, 1194-1270), invece, interpreta il testo <strong>come</strong> se lo<br />

scopo degli abitanti di Sodoma e Gomorra fosse di tener lontani gli stranieri per conservare la propria ricchezza. Questa interpretazione<br />

si avvicina alla definizione talmudica secondo cui la malvagità di Sodoma e Gomorra consisteva nel non voler fare alcunché che « desse<br />

all'altro piacere e non recasse danno a se stesso ».<br />

[12] Ci si può domandare perché Abramo arrivi a difendere fino a dieci uomini giusti e non chieda di risparmiare la città anche per<br />

riguardo a un sol uomo. Secondo me la ragione sta nel concetto che dieci uomini siano il minimo per costituire un'entità sociale e che<br />

l'argomento di difesa di Abramo si basi sul fatto che Dio non può distruggere un'intera città fino a che vi si trovi un nucleo che non sia<br />

malvagio. Il concetto del nucleo si ritrova anche nei profeti riguardo a Israele, e nella concezione talmudica <strong>dei</strong> « trentasei giusti », la cui<br />

esistenza in ogni generazione è necessaria per la sopravvivenza del genere umano.<br />

[13] Cf. Gesenius, Hebrew Grammar, II ed. inglese, riveduta sulla 28ª ed. tedesca (1909) da A. E. Cowley (Oxford: Clarendon Press,<br />

1910), ρ. 117.<br />

[14] Il Salmo 116 è un esempio significativo: comincia con il versetto Ahavti ki yishma Adonai et koli tahanunai. La prima parola è il<br />

perfetto di ahob (= amare). Significa « io amo completamente »; poi il versetto continua, « perché il Signore ha ascoltato la voce delle<br />

mie suppliche ». La traduzione abituale “io amai” non ha molto senso nel contesto. Anche se la grammatica ebraica era molto nota ai<br />

traduttori della Bibbia cristiani ed ebrei, essi fecero numerosi errori nel tradurre versetti <strong>come</strong> questo, evidentemente perché non<br />

potevano liberarsi dal senso del tempo dominante nelle lingue europee, che ha forme per esprimere sia il tempo che la qualità dell'azione<br />

compiuta.<br />

[15] Il significato di un Diο senza nome è stato capito profondamente da Meister Eckhart. « Il termine finale dell'essere » disse « è<br />

l'oscurità del non-conoscere la Divinità nascosta, in cui splende questa luce, e questa oscurità non la comprese. Così Mosè disse: “Colui<br />

che mi ha mandato” (Es. 3: 14). Egli che è senza un nome, e che mai ebbe un nome, ragione per cui il profeta disse: “Veramente tu sei un<br />

Dio nascosto” (Is. 45: 15) nel terreno dell'anima dove il terreno di Dio e dell'anima sono un unico terreno. Più uno Ti cerca, meno uno Ti<br />

può trovare. Dovresti cercarlo <strong>come</strong> per non trovarlo mai. Se tu non Lο cerchi, Lo troverai » (James Μ. Clark, Meister Eckhart: an<br />

Introduction to the Study of His Works with an Anthology οf His Sermons [Edimburgh: Τ. Nelson Sons, 1957], Sermone XXIV p. 241<br />

[corsivo di E. F.]).<br />

[16] È interessante il fatto che nella tradizione ebraica esisteva anche una concezione secondo cui non era permesso fare il ritratto di<br />

una persona. Essendo Dio anche nell'uomo, l'uomo stesso nella sua infinità non doveva essere rappresentato da un'immagine <strong>come</strong> una<br />

cosa.

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