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Gennaio-marzo 2012 - Link Campus University

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link journal 1/<strong>2012</strong><br />

Inaugurazione Anno accademico 2011/<strong>2012</strong><br />

16 gennaio <strong>2012</strong><br />

Signor Presidente del Senato della Repubblica, Signore<br />

e Signori Membri del Parlamento, Magnifici Rettori,<br />

Autorità civili e religiose, Signore e Signori,<br />

anno accademico 2011 /<strong>2012</strong><br />

Saluto del Presidente della <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />

Prof. Vincenzo Scotti<br />

questo è il tredicesimo anno che noi, docenti e<br />

studenti della <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong>, insieme<br />

alle autorità e agli amici, manteniamo viva l’antica<br />

tradizione dell’inaugurazione solenne dell’anno<br />

accademico.<br />

La pur breve storia della <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> è segnata<br />

da costanti innovazioni, poco comunicate ma<br />

sempre presenti nei programmi di ricerca e di<br />

didattica, frutto dell’impegno della comunità accademica<br />

- studenti e docenti - e, soprattutto, della efficace<br />

cooperazione con eccellenti università<br />

internazionali europee e mediterranee, di cui alcune<br />

sono qui questa sera per la definizione di comuni programmi<br />

di ricerca e di comuni corsi di laurea nelle aree<br />

degli studi giuridici, strategici, diplomatici e di intelligence,<br />

di economia e di gestione delle imprese, di ingegneria<br />

dell’innovazione nel campo della sicurezza.<br />

La guida per lo studente di questo anno accademico vi<br />

offre una idea dell’ampiezza e della complessità del lavoro<br />

accademico di una università internazionale che<br />

non vuole essere mera copia delle altre università del<br />

nostro sistema nazionale. In tal senso essa si avvale di<br />

una pluralità di lingue di insegnamento e riconosce un<br />

ruolo fondamentale alla metodologia comparatistica la<br />

quale consente di focalizzare la formazione dei giovani<br />

sia sulla connessione tra culture diverse sia sulla interdipendenza<br />

tra pubblico e privato. L’obiettivo è quello<br />

di preparare una classe dirigente che possa operare nei<br />

diversi sistemi e Paesi e nei due ambiti dando così ai<br />

giovani, come abbiamo positivamente sperimentato in<br />

questi anni, le possibilità vincenti nella mobilità del<br />

mercato globale.<br />

Da questo punto di vista la <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> costituisce<br />

un ponte verso il cambiamento della nostra società.<br />

Una Università senza frontiere per rispondere alle sfide<br />

del cambiamento globale, particolarmente attenta alla<br />

lettura dei segni dei tempi nuovi: i grandi mutamenti<br />

planetari dei sistemi economici, sociali, politici e soprattutto<br />

culturali, l’evoluzione delle forme di organizzazione<br />

delle imprese del mondo globale e la nuova<br />

soggettività della “società civile”.<br />

Questa missione impegna i docenti a mantenere la didattica<br />

sulla frontiera della ricerca, a sviluppare un dialogo<br />

costante con gli studenti che, nel corso di ogni<br />

anno accademico, apprendono un metodo di studio, di<br />

ricerca e di approfondimento. Lo stesso Induction<br />

Course è pensato per trasmettere loro un’adeguata metodologia<br />

di apprendimento che li aiuti nel semestre di<br />

studi all’estero e nello stage di lavoro. Siamo, dunque,<br />

tutti impegnati a dare agli studenti un metodo di studio<br />

e di lavoro - ricongiungendo il sapere e il fare - con<br />

l’obiettivo di rendere i giovani professionalmente in<br />

grado di integrare saperi scientifici differenti per poter<br />

affrontare e risolvere efficacemente i problemi del fare;<br />

tali innovazioni necessarie qualificano, particolarmente,<br />

la nostra offerta nel campo delle Lauree Magistrali e<br />

dei Master post-lauream.<br />

Nel guardare alla guida per lo studente vorrei richiamare<br />

la vostra attenzione su alcune aree particolarmente<br />

innovative su cui la <strong>Link</strong> ha acquisito una<br />

particolare competenza; intendo riferirmi agli studi<br />

strategici e diplomatici che vedranno, da questo anno,<br />

la direzione di Franco Frattini e Michael Frendo, gli<br />

studi di analisi e intelligence che coinvolgeranno - tra<br />

gli altri - gli Ammiragli Battelli e Biraghi, i Generali<br />

Camporini e Jean, l’Ambasciatore Castellaneta, i Professori<br />

Savona, Lauro e Minniti.<br />

Signor Presidente, la Società di Gestione della <strong>Link</strong> sta<br />

lavorando a completare le strutture e i servizi necessari<br />

alla vita di una effettiva “comunità” universitaria con<br />

la realizzazione di un <strong>Campus</strong> della dimensione di 14<br />

ettari, dotato non solo delle attrezzature didattiche,<br />

1


2<br />

della biblioteca, delle residenze per studenti e professori stranieri,<br />

ma anche delle attrezzature per la vita sociale e sportiva,<br />

compreso un teatro e spazi espositivi all’aperto.<br />

Sapete, infatti, che parte integrante della Università è l’Accademia<br />

Internazionale di Arte Drammatica (<strong>Link</strong> Academy) diretta<br />

da Alessandro Preziosi che, in questo momento, è impegnato<br />

con un nuovo spettacolo (Cyrano) a cui partecipano sette studenti<br />

della nostra Accademia.<br />

La <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong>, inoltre, ha organizzato per i suoi ricercatori<br />

(docenti e studenti italiani e stranieri) una piccola ma molto vivace<br />

casa editrice, Eurilink Edizioni, e pubblica “<strong>Link</strong> Journal”,<br />

una rivista che sarà sempre di più la voce dell’intera comunità<br />

universitaria.<br />

La realizzazione del <strong>Campus</strong> si accompagna ad un rafforzamento<br />

della Società di Gestione con un azionariato diffuso e<br />

aperto anche ai nostri docenti e studenti oltre che agli amici,<br />

tutti consapevoli che non possiamo contare su alcun sostegno<br />

pubblico anche per non intaccare le disponibilità degli altri Atenei<br />

non statali e non volendo, nel contempo, uscire da una<br />

scelta inderogabile no profit.<br />

Contestualmente, abbiamo rivolto un invito ad importanti Fondazioni<br />

di ricerca per allargare la partecipazione alla Fondazione<br />

<strong>Link</strong> <strong>Campus</strong>, promotrice dell’Università. Vorrei fin d’ora ringraziare<br />

alcune delle Fondazioni che hanno accettato il nostro<br />

invito: la Fondazione De Gasperi, la Fondazione Rosselli, la<br />

Fondazione Biogem. Questo ci ha consentito di poterci avvalere<br />

del consiglio prezioso di Franco Frattini, Adriano De Maio,<br />

Riccardo Viale, Ortensio Zecchino, Gianni Pittella, Giustina<br />

Destro, Paolo Naccarato e Marco Minniti.<br />

La nascita e l’evoluzione della <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> è dovuta innanzitutto,<br />

come vedremo, alla lungimiranza del Rettore del tempo<br />

dell’Università di Malta, Roger Ellul Micalleff e di alcuni Presidi<br />

di Facoltà, all’impulso, al consiglio e al sostegno di due straordinari<br />

uomini di Stato, Francesco Cossiga e Guido de Marco,<br />

che noi consideriamo nostri padri fondatori, al lavoro di un<br />

gruppo di amici che, dando vita ad una Società di Gestione,<br />

hanno reso possibile il sogno di questa Università assumendosi<br />

il rischio; parlo in primo luogo di Vanna Fadini e di Pasquale<br />

Russo ma anche di una squadra di giovani, donne e uomini che,<br />

insieme a loro, non si risparmiano in nessun caso. Lasciatemi<br />

dire che il miracolo della <strong>Link</strong> è che non è soggetta a “nessun<br />

condizionamento”, è frutto solo dell’impegno libero di docenti<br />

e studenti; impegno reso possibile grazie all’intreccio tra progettualità<br />

accademica e forma giuridica.<br />

La <strong>Link</strong> non nasce, come detto, per aggiungersi al già importante<br />

sistema universitario italiano ma per integrarlo come università<br />

a specifica vocazione internazionale. Infatti noi siamo<br />

anno accademico 2011 / <strong>2012</strong> link journal 1/<strong>2012</strong><br />

nati alla fine degli anni ’90, quando i governi firmarono la convenzione<br />

di Lisbona, e precisamente l’11 aprile del ’97, con<br />

l’intento di favorire un processo di internazionalizzazione<br />

dell’alta formazione e così rispondere alle sfide dei cambiamenti<br />

planetari. Mentre si procedeva alla ratifica della Convenzione,<br />

il Parlamento italiano approvava, nel gennaio 1999, la<br />

prima normativa sulle filiazioni delle Università straniere operanti<br />

in Italia. Proprio su sollecitazione dell’allora ministro<br />

degli Esteri di Malta, Guido De Marco, con il sostegno del Presidente<br />

Emerito Francesco Cossiga, con un gruppo di docenti<br />

universitari - con noi ancora oggi e presenti in questa sala e<br />

permettetemi di ricordare il caro amico Luigi Coccioli recen-<br />

temente scomparso - concordammo con il Rettore della antica<br />

Università di Malta di aprire a Roma una filiazione di quell’Ateneo,<br />

per avviare la sperimentazione di una Università internazionale<br />

a Roma, fortemente “finalizzata” a rispondere, in<br />

termini di formazione, alle domande del mercato.<br />

Eravamo in attesa della normativa italiana sui requisiti che le<br />

Università straniere avrebbero dovuto possedere per consentire<br />

il riconoscimento dei titoli da essi rilasciati nel nostro Paese.<br />

Fu il Ministro Zecchino che, in base alla legge del 1999 sulle filiazioni,<br />

autorizzò a svolgere in Italia parte dei programmi accademici<br />

per gli studenti iscritti a Malta.


link journal 1/<strong>2012</strong><br />

La <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong>, con Decreto 27 novembre 1999 ed ai sensi<br />

dell’art. 2 della Legge 14 gennaio 1999 n. 4, viene riconosciuta<br />

quale filiazione in Italia dell’Università di Malta. Come tale<br />

svolge in Italia parte dei corsi dell’Ordinamento Universitario<br />

della Università di Malta per studenti iscritti a tale Università:<br />

al termine del percorso formativo il titolo accademico viene rilasciato<br />

dall’Università di Malta.<br />

Con Legge 148 dell’11 luglio 2002 l’Italia recepisce la Convenzione<br />

di Lisbona, 11 aprile 1997, che nella sezione VI punto 5<br />

stabilisce che ogni Stato, per consentire il riconoscimento dei<br />

titoli rilasciati da Istituti stranieri operanti sul proprio territorio<br />

deve indicare i requisiti che gli stessi devono possedere. Con<br />

D.M. 214 del 26 aprile 2004 l’Italia disciplina tale procedura indicando<br />

i requisiti che devono essere posseduti dagli Istituti<br />

stranieri affinché i titoli rilasciati ai propri studenti sul territorio<br />

italiano possano essere ammessi a riconoscimento presso le<br />

Università italiane ai sensi dell’art. 2 della citata Legge<br />

148/2002.<br />

La <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> avvia la procedura prevista dal D.M. 214. Ai<br />

sensi dell’art. 3 del suindicato decreto, il competente Ministero<br />

acquisisce i pareri del CUN, del CNVSU e della CRUL. Tale<br />

procedura è la stessa adottata per la emanazione da parte del<br />

Ministero del decreto di riconoscimento e autorizzazione a rilasciare<br />

titoli aventi valore legale di una Università degli Studi<br />

anno accademico 2011 /<strong>2012</strong><br />

dell’Ordinamento Universitario Italiano. Acquisiti i pareri favorevoli<br />

richiesti dalla normativa, con D.M. 4 luglio 2007, la<br />

<strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong> viene riconosciuta quale Università<br />

straniera operante in Italia, i cui titoli sono ammessi al riconoscimento<br />

presso le Università italiane.<br />

Nel 2010, a seguito del D.M. 23 dicembre 2010, n. 50, la <strong>Link</strong><br />

<strong>Campus</strong> <strong>University</strong> chiede di essere riconosciuta quale Università<br />

non statale legalmente riconosciuta dell’Ordinamento Universitario<br />

Italiano.<br />

Il Ministero competente attiva tutti gli atti previsti dalla procedura<br />

evidenziando a più riprese che trattasi dell’emanazione di<br />

un decreto che non istituisce un nuovo Ateneo, ma autorizza<br />

la trasformazione di un Ateneo straniero autorizzato a rilasciare<br />

titoli ammessi a riconoscimento in Ateneo non statale legalmente<br />

riconosciuto dell’Ordinamento Universitario Italiano.<br />

Con D.M. 21 settembre 2011, n. 374, del Ministro Gelmini, la<br />

Università <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> viene riconosciuta come Università<br />

non statale dell’Ordinamento Universitario Italiano.<br />

Tale Decreto, registrato alla Corte dei Conti, viene pubblicato<br />

nella Gazzetta Ufficiale - Serie Generale n. 268 del 17 novembre<br />

2011 - ed è stata solo la lungimiranza e il rigore di tre Ministri<br />

- Zecchino, Mussi e Gelmini - che hanno consentito di<br />

aprire “un’importante esperienza di internazionalizzazione”.<br />

La <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> non verrà meno alla missione che ha portato<br />

avanti in questi tredici anni. Intende portare avanti il lavoro di<br />

ricerca e di formazione non perdendo mai il suo carattere internazionale<br />

e la sua apertura alla collaborazione con le università<br />

italiane, soprattutto, con gli Atenei dell’area euro-mediterranea<br />

e dell’America Latina.<br />

La <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> ha una identità valoriale profonda ed una missione<br />

che sono a fondamento dei suoi programmi di ricerca e<br />

di didattica. Consentitemi di volgere lo sguardo indietro alla<br />

sera del lontano 29 novembre del 1999, quando coloro che consideriamo<br />

i due padri fondatori della nostra Università internazionale,<br />

il Presidente della Repubblica di Malta, Guido de<br />

Marco e il Presidente Emerito della Repubblica italiana, Francesco<br />

Cossiga, delinearono il nostro percorso e dichiararono<br />

aperto il primo anno di attività.<br />

Cossiga e de Marco, insieme, vollero che la missione della <strong>Link</strong><br />

attingesse il senso della sua ragione educativa da un insieme di<br />

riflessioni critiche sul Novecento; un tempo controverso, solcato<br />

da grandi tragedie, dallo scontro tra democrazia e totalitarismi,<br />

dalle guerre mondiali ma anche dalla vittoria della libertà<br />

e dalla rinascita dell’Europa accompagnata da uno straordinario<br />

sviluppo scientifico e sociale. In quella scelta c’era la consapevolezza<br />

che “la cultura non è asettica spettatrice degli eventi:<br />

anticipa e giustifica”. In tutto quello che è accaduto nel bene<br />

3


4<br />

che abbiamo avuto e nel male che abbiamo sofferto, ci ricordarono<br />

i nostri due Maestri, la cultura europea ha avuto grandi<br />

e terribili responsabilità.<br />

È stata una certa cultura ad aprire la strada ai colonialismi, al<br />

razzismo, ai totalitarismi che lasciano una macchia nera nell’inventario<br />

del secolo. Ed è stata un’altra cultura, quella democratica<br />

riformista o liberale, di ispirazione laica o cristiana, a<br />

guidare il riscatto morale degli europei. La <strong>Link</strong>, i suoi giovani,<br />

i suoi docenti, i suoi amici non potevano che indicare nelle libertà<br />

il valore fondante della conoscenza e della scienza. La<br />

“lectio magistralis” di Francesco Cossiga sui totalitarismi e sulla<br />

libertà racchiude per intero il significato della sua vita di cristiano,<br />

di liberale, di statista, di patriota, come si amava definire.<br />

“Ogni riflessione sul totalitarismo come ideologia e sui totalitarismi<br />

nella realtà storica produce un sentimento di profonda<br />

lacerazione nell’animo e nel pensiero di ogni uomo di oggi. Si<br />

tratta, cioè, di affrontare un paradosso insostenibile: il totalitarismo<br />

infatti, non è la negazione della libertà bensì è l’affermazione<br />

piena della libertà, così totale che non sopporta e non<br />

tollera altre libertà, la libertà degli altri. ... perciò parlare di totalitarismi<br />

significa affrontare realtà che grondano sofferenze e<br />

sangue”. E concludeva “il totalitarismo è la scomparsa della differenza<br />

tra errore e peccato. Se confondiamo errore e peccato,<br />

la libertà muore. La libertà è anche libertà di sbagliare. Con la<br />

democrazia non si decidono i valori. Vincere le elezioni significa<br />

avere il diritto - dovere di governare, non di avere e imporre il<br />

torto e la ragione”. Il Presidente de Marco, raccogliendo il senso<br />

profondo della riflessione del suo amico Francesco, ci ricordò<br />

che contro i totalitarismi antichi o risorgenti ci si può difendere<br />

ricorrendo soltanto ad una forte concezione liberale della democrazia<br />

che si realizza con la limitazione del potere attraverso<br />

regole condivise, per sconfiggere l’insidia della democrazia giacobina<br />

e totalitaria, su base messianica, che dà valore etico al<br />

potere. Parlando da Presidente dell’Assemblea Generale delle<br />

Nazioni Unite, l’anno successivo da ministro degli Esteri di<br />

Malta, quella sera alla <strong>Link</strong> de Marco ripeté, con la sua voce<br />

ferma e suadente: “Freedom first and foremost. That was the<br />

solid platform on which citizens worldwide stood their ground<br />

whenever authoritarian regimes sought to erode democracy ,<br />

human rights and the rule of law.”. Questa la pietra angolare<br />

sulla quale stiamo costruendo la nostra Università; la formazione<br />

dei nostri giovani per un umanesimo integrale si fonda<br />

proprio sui valori della libertà, della responsabilità, della coerenza<br />

tra il sapere e il fare, della eticità dei comportamenti, della<br />

solidarietà umana, del rispetto della legalità e dei diritti umani.<br />

Per conservare ben forte la lezione sulla libertà dei nostri fondatori<br />

abbiamo chiesto alla signora De Marco e ai suoi figlioli,<br />

anno accademico 2011/<strong>2012</strong><br />

link journal 1/<strong>2012</strong><br />

ad Annamaria e Giuseppe Cossiga di poter intitolare la biblioteca<br />

della <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong>, il cuore dell’Università, a questi due<br />

nostri grandi Maestri affinché i nostri studenti e docenti abbiano<br />

sempre presenti le radici culturali ed umane della nostra<br />

Università e del nostro lavoro comune.<br />

Una grande sintonia ha caratterizzato la esperienza umana di<br />

Francesco Cossiga a Guido de Marco. Due statisti euro-mediterranei,<br />

profondamente legati alle antiche isole mediterranee<br />

nelle quali sono nati, due raffinate menti giuridiche, due cristiani<br />

liberali legati alla grande figura di Thomas More, che - dietro<br />

loro sollecitazione - fu proclamato da Giovanni Paolo II protettore<br />

dei “politici”. Cossiga e de Marco erano profondi conoscitori<br />

della cultura europea ed atlantica ed erano consapevoli<br />

della dimensione mediterranea di questa cultura; erano uomini<br />

di una chiara e forte identità culturale e religiosa e proprio per<br />

questo erano uomini dell’incontro e del dialogo. Un misterioso<br />

disegno della Provvidenza li ha fatti tornare alla casa del Padre<br />

a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro. Sulle loro figure e sul<br />

tempo in cui fu dato loro di vivere, la <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong>, insieme ad<br />

altre Università ed Istituzioni prima tra tutte il Senato della Repubblica<br />

Italiana e il Parlamento di Malta, chiameranno studiosi<br />

e politici a riflettere nel corso di un seminario internazionale.<br />

Signor Presidente, questa sera abbiamo voluto chiedere a Lei,<br />

all’Emerito Rettore De Maio, al “già” Ministro Gelmini alcune<br />

brevi riflessioni sulle responsabilità di una comunità accademica<br />

chiamata a far avanzare “il sapere e il fare” della nuova classe<br />

dirigente del nostro Paese, a fronteggiare le crescenti sfide di<br />

un cambiamento a cui ha concorso il risultato “del sapere e del<br />

fare” delle precedenti generazioni attraverso la loro ricerca<br />

scientifica e la trasmissione dei loro risultati.<br />

Cari Amici, in conclusione vorrei ricordare e ringraziare il Santo<br />

Padre Benedetto XVI che nel corso dell’incontro con le Università<br />

romane del 15 dicembre scorso ha benedetto la targa<br />

della <strong>Link</strong>.<br />

Concludo ringraziando calorosamente ciascuno di Voi per<br />

avere accolto l’invito a partecipare a questa cerimonia e lo faccio<br />

a nome di tutti i colleghi che, in questo momento ed in attesa<br />

della costituzione degli organi statutari, fanno parte del Comitato<br />

Tecnico Ordinatore: a partire da Gianni Ricci che svolge<br />

le funzioni di Rettore, passando a Virginia Zambrano, Sergio<br />

Zoppi, Uberto Siola, Claudio Roveda, Pierluigi Matera, Michele<br />

Pizzo, Ian Refalo e Joseph Mifsud. Ed infine lasciate che dica<br />

grazie a Vanna Fadini, a Pasquale Russo, ad Achille Patrizi, a<br />

tutto il corpo docente, agli studenti e alle loro famiglie e a tutto<br />

il personale tecnico-amministrativo che formano sempre più la<br />

comunità della <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong>.


link journal 1/<strong>2012</strong> anno accademico 2011/<strong>2012</strong><br />

Prolusione del Prof. Adriano De Maio<br />

“L’Università<br />

di fronte alle sfide<br />

del cambiamento”<br />

Signor Presidente del Senato della Repubblica,<br />

Magnifici Rettori, colleghi, Autorità, cari Studenti, Signore e Signori,<br />

per me è stato un piacere quando il Presidente Vincenzo<br />

Scotti mi ha proposto di svolgere questa breve prolusione.<br />

Non temete, non sarà una lezione accademica. Si tratterà, invece,<br />

di alcuni stimoli e di alcuni spunti, così come mi è stato<br />

richiesto, che io mi accingo a porgervi. Avete sentito dire le<br />

ragioni per cui mi è piaciuto venire qui dalle parole del Presidente<br />

Scotti. Come si può non essere veramente felici dal profondo<br />

di poter parlare e poter dedicare alcune parole di<br />

introduzione a questa inaugurazione dell’anno accademico?<br />

Molto probabilmente sono stato chiamato anche per la mia<br />

lunga presenza nell’ambito accademico. Quando l’università<br />

funzionava meglio, si poteva diventare rettori giovani e soprattutto<br />

professori universitari giovani. Se riferisco adesso ai<br />

miei giovani colleghi quando sono diventato professore, si<br />

stupiscono, ma non ero un’eccezione. Non ero neppure la regola,<br />

ma ero tutt’altro che un’eccezione. Sono diventato professore<br />

a ventotto anni. Ho avuto poi un po’ di anni di<br />

rettorato, prima al Politecnico di Milano, poi alla LUISS e al<br />

CNR, quindi probabilmente per questa mia lunga carriera<br />

sono stato invitato a spendere alcune parole ispirate a un titolo.<br />

Il titolo era “L’università di fronte alle sfide del cambiamento”.<br />

Mi sono riproposto di partire da quali sono le sfide<br />

di cambiamento che dobbiamo esaminare.<br />

Ce ne sono tantissime, ma io dovevo scegliere quali sono, a<br />

mio avviso, quelle prioritarie su cui puntare l’attenzione per<br />

parlare di università e del ruolo dell’università. Ne ho scelte<br />

tre che, a mio avviso, sono le più rilevanti.<br />

In primo luogo, vi è l’accentuata mobilità. Noi abbiamo assistito<br />

in questi ultimi anni a una riduzione forte e drammatica<br />

delle barriere alla mobilità, non soltanto all’informazione, non<br />

soltanto alla ricerca - quelle ci sono sempre state - non sol-<br />

tanto all’aspetto finanziario, che si è accentuato e i cui effetti<br />

vediamo adesso in senso negativo, ma anche alle persone, alle<br />

attività produttive e alle aziende. Se questa mobilità si è diffusa,<br />

bisogna svolgere una riflessione. Soltanto una cosa è rimasta<br />

ferma: il territorio. L’Italia non si può muovere e<br />

nemmeno la Lombardia, l’Europa, Roma, il Lazio, ragion per<br />

cui il problema diventa come trattenere le risorse migliori e<br />

come attrarre da altri territori le risorse migliori. Io penso che<br />

per una persona che ha l’autorità e la responsabilità di governare<br />

un territorio questo debba essere tra i punti fondamentali<br />

della sua attività e la missione forse principale del suo governo.<br />

Senza le risorse più importanti un territorio declina<br />

inesorabilmente.<br />

La seconda sfida del cambiamento è l’aumento della complessità<br />

dei problemi che devono essere affrontati. Un tempo era<br />

molto più semplice e più banale farlo. Da un punto di vista<br />

più basso, quello delle tecnologie, c’era una tecnologia dominante<br />

per ogni prodotto, mentre adesso ciò non è più vero.<br />

In termini di connessioni fra aspetti tecnologici, scientifici,<br />

sociali, economici e giuridici ci sono una miscela e un mix di<br />

competenze e di complessità estremamente importanti.<br />

Quando mi hanno insegnato, molti anni fa, la differenza fra<br />

complicato e complesso, che noi talvolta usiamo come sinonimi,<br />

ciò mi è parso chiaro. Complicato è cum plica, “con la<br />

piega”. Un problema complicato, se lo si risolve, è spiegato e,<br />

quindi, occorre l’analisi specifica per tirar via un piegolino alla<br />

volta. Il complesso, viceversa, è un’intersezione, secondo il<br />

Prof. Adriano De Maio - Già Magnifico Rettore del Politecnico di Milano e dell’Università LUISS Guido Carli.<br />

5


6 anno accademico 2011/<strong>2012</strong><br />

link journal 1/<strong>2012</strong><br />

verbo complector “abbracciare”, un’unione tale per cui, se noi<br />

tentiamo di prendere e sfilare i capi di un tessuto, non otteniamo<br />

più nulla. Un problema complesso va compreso e abbracciato<br />

con sintesi. Oltre all’analisi occorre, dunque, anche<br />

la sintesi.<br />

Il terzo elemento di cambiamento è il fatto che i problemi<br />

continuano a emergere e che la loro criticità continua a variare.<br />

C’è una novità assoluta di problemi che emergono. Purtroppo<br />

in questo periodo ce ne stiamo accorgendo.<br />

Rispetto a tutto ciò, perché ho scelto questi tre temi come i<br />

punti fondamentali dell’università? Sul primo penso che sia<br />

chiaro a tutti senza bisogno di dover spendere molte parole.<br />

L’università è un fattore fondamentale per aumentare la capacità<br />

di attrazione del territorio, la capacità di trattenere risorse migliori<br />

e la capacità di attrarre. Le risorse migliori sono le persone.<br />

Significa trattenere gli studenti migliori e far venire da<br />

tutte le parti del mondo gli studenti migliori, sviluppare la ricerca<br />

e basarsi sul fatto che dalla ricerca trovano linfa l’industria<br />

e le attività produttive, l’innovazione e le nuove imprese.<br />

Nell’ultima lezione dico sempre agli studenti di non porsi il<br />

problema di dove andare a lavorare, di quale sia il posto di lavoro.<br />

Chiedo loro di porsi il problema di quanti posti di lavoro<br />

potranno creare. Questo è il problema.<br />

Il secondo aspetto sull’aumento della complessità significa<br />

che l’università deve sapersi dotare di un approccio realmente<br />

multi e interdisciplinare. Se ne parla tanto, ma, quando poi si<br />

arriva al concreto, è molto facile trovare una specie di un nouvelle<br />

cuisine, in cui le singole parti e i singoli componenti sono<br />

magari ottimi, ma non si amalgamano. Noi, viceversa, abbiamo<br />

bisogno di un buon cibo amalgamato, come nella nostra<br />

tradizione culinaria italiana.<br />

Dobbiamo avere i prodotti di base, che devono essere buoni,<br />

ma è l’amalgama che fa la bontà del prodotto finito. Occorre<br />

un’università che punti sull’interdisciplinarietà e sul fatto che<br />

sia nella formazione, sia nella ricerca, ci sia la creazione di reti<br />

forti. Abbiamo sentito il Presidente Scotti, quando ha posto<br />

questo come uno degli elementi centrali. È importantissima<br />

la creazione di reti di connessione non soltanto fra università<br />

e reti di ricerca nazionali e internazionali, ma anche con il<br />

mondo produttivo in senso lato. Occorre stabilire questo legame,<br />

occorre far sì che molti professionisti nelle diverse<br />

branche dell’operazione possano partecipare come docenti.<br />

Abbiamo bisogno di questo stretto legame tra mondo pro-<br />

duttivo e mondo accademico.<br />

Per quanto riguarda i continui cambiamenti, abbiamo bisogno<br />

che l’università sia in grado di anticipare i problemi. Anticiparli,<br />

non seguirli. Essere leader, non follower. Dobbiamo riuscire<br />

a capire quali saranno i problemi tra cinque, sei o dieci<br />

anni, perché soltanto così possiamo creare curricula adeguati.<br />

Tra la creazione di un curriculum e il fatto che i professionisti<br />

possano operare passa una decina d’anni. Se noi non anticipiamo<br />

oggi i problemi che prevedibilmente ci saranno fra<br />

dieci anni, svolgiamo male il nostro compito.<br />

Un’università che si trovi di fronte a queste sfide di cambiamento<br />

deve organizzarsi. Abbiamo sentito il Presidente Scotti,<br />

il quale ci ha porto alcune illuminanti parole sulle modalità di<br />

organizzazione di un’università, che a me sembra rispondano<br />

a queste sfide. È un problema interno, un problema di come<br />

fare didattica, di come fare ricerca, di come selezionare i docenti<br />

e di come selezionare gli studenti. Non possiamo dimenticare,<br />

però, che, se questi sono problemi interni, e sono la<br />

gran parte – il primo elemento parte dall’interno. Medice, cura<br />

te ipsum, mi dicevano, quindi bisogna sempre guardarsi allo<br />

specchio e tentare di vedere che cosa si può fare –, esiste<br />

anche un contesto esterno. Spero di non turbarvi.<br />

L’università opera in Italia in un mercato protetto. Perché non<br />

liberalizziamo l’università, tra le tante liberalizzazioni? Noi<br />

operiamo in un mercato protetto e governato da corporazioni<br />

di tutti i generi, da leggi, leggine, procedure, norme che complicano<br />

la convivenza, soprattutto in un Paese culturalmente<br />

orientato come l’Italia, il cui motto è che ciò che non è esplicitamente<br />

permesso è vietato, in una cultura liberale dovrebbe<br />

essere esattamente il contrario.<br />

Cominciamo a partire con la liberalizzazione effettiva dell’università.<br />

Questo è un mio pallino, continuo a ripeterlo. Se c’è<br />

liberalizzazione, significa che devono aumentare l’autonomia<br />

e la responsabilità, la responsibility e l’accountability, la responsabilità<br />

e la rendicontazione. Bisogna render conto del proprio<br />

operato. Chi opera bene è premiato, chi opera male è punito,<br />

mentre da noi, viceversa, è todos caballeros. Si tenta di fare<br />

un discorso di merito, da parecchio tempo i ministri in primis<br />

hanno promulgato questo editto culturale, ma i fatti non sono<br />

seguiti. C’è la vischiosità della corporazione. Tutti affermano


link journal 1/<strong>2012</strong> anno accademico 2011/<strong>2012</strong><br />

che ci dobbiamo rendere autonomi, ma, poiché devono poi<br />

rispondere di ciò che fanno, sono molto attenti.<br />

Un elemento che sembrerà un pochino strano e che è stato<br />

sostenuto anche più volte, ma su cui poi si è tornati indietro,<br />

è l’eliminazione del valore legale del titolo. Io continuerò finché<br />

avrò voce a battermi in tal senso. Sono almeno venticinque<br />

anni che continuo a ripeterlo: si deve procedere<br />

all’eliminazione del valore legale del titolo. Ciò significa eliminare<br />

tutte le incrostazioni burocratiche.<br />

Pensate: l’università si sceglie i docenti, perché è responsabilità<br />

dell’ateneo, si sceglie gli studenti, perché è sua responsabilità.<br />

Ha un sistema di modalità di operare totalmente autonomo,<br />

di cui risponde. Se ci deve essere un contributo in termini di<br />

intervento pubblico, è possibile intervenire con la valutazione<br />

di merito effettivo. Svolgo l’ultima considerazione, che spero<br />

non venga considerata come eretica. Noi continuiamo a parlare<br />

del mercato. Perché non lo facciamo anche per l’università,<br />

perché non stabiliamo che sia il mercato a giudicare? Il<br />

mercato giudica nel senso che prende i laureati dell’università<br />

o non li prende, li valuta o non li valuta, ma questo concetto<br />

del mercato si può riportare anche a valle.<br />

Quando una scuola media superiore ha i propri studenti maturati<br />

che, mediamente, non hanno un buon successo, ciò significa<br />

che tale istituto di formazione superiore vale di meno.<br />

Diamo spazio alla liberalizzazione, diamo spazio all’autono-<br />

mia, alla responsabilità e al mercato.<br />

Concludo con due osservazioni, che non sono banali, ma su<br />

cui non c’è né il tempo, né la possibilità di approfondire. Noi<br />

parliamo molto spesso di università, di riforma universitaria,<br />

ma l’università è soltanto il terminale di tutta la filiera formativa<br />

che parte dalle scuole primarie o forse anche prima. Bisognerebbe<br />

affrontare questo problema seriamente. Quando<br />

parlo agli industriali, rilevo che tutti continuiamo a sostenere<br />

che le risorse umane sono il punto fondamentale; nella loro<br />

fabbrica, in un processo produttivo, se c’è una fase importantissima,<br />

fanno operare su di essa le persone di minor pregio e<br />

le pagano meno di tutti? No.<br />

Allora perché il sistema formativo, a partire dalle elementari,<br />

è trattato in questo modo e non ci sono una valutazione, una<br />

modalità retributiva adeguata? Se noi effettivamente non soltanto<br />

lo affermiamo – pensate a Lisbona – ma crediamo<br />

anche sinceramente che la risorsa umana sia il capitale vero<br />

di una nazione, se ciò è vero ed esiste la cosiddetta knowledge<br />

society, basata sulla ricerca, sullo sviluppo e sull’innovazione,<br />

perché alle parole non seguono i fatti?<br />

È una domanda, un dubbio che non ha mai trovato risposta.<br />

Forse dovremmo porci seriamente questo problema e tentare<br />

di affrontarlo con molta franchezza, potendo permettere<br />

quelli che possono essere errori, ma non peccati. Sicuramente<br />

io mi auguro di aver svolto molte considerazioni anche errate,<br />

ma senza peccato.<br />

7


8 anno accademico 2011/<strong>2012</strong><br />

link journal 1/<strong>2012</strong><br />

Il saluto del professor Joseph Mifsud<br />

Presidente dell’EMUNI<br />

Presidente, Eccellenze, Ministri, Colleghi, Studenti e Amici della <strong>Link</strong>.<br />

Oggi un maltese non poteva non parlare, anche perché “link”<br />

è una parola, anche se in inglese, scelta non a caso. Ricordo<br />

anche il giorno.<br />

Si è parlato del nostro molto compianto Presidente della Repubblica,<br />

Guido De Marco. Guido era un faro per il Mediterraneo,<br />

nonché per questa università, insieme ad altri. Si è<br />

parlato anche di Roger Ellul Micallef e di Ian Refalo, persone<br />

che, con il professor Scotti e con la squadra che ha a disposizione,<br />

hanno cercato di costruire questo faro maltese, come<br />

lo chiamava Guido. Chiamava Malta il Din l-art Helwa, ossia<br />

“questa bellissima terra”.<br />

Sono qui per rendere onore a questo grande personaggio, che<br />

è stata fondamentale per la <strong>Link</strong>. Sono anche molto contento<br />

che tantissimi studenti abbiano conosciuto la parola Malta –<br />

è presente il nostro ambasciatore Inguanez – non soltanto attraverso<br />

i siti di pubblicità o di storia, ma anche attraverso<br />

questa università.<br />

In questo momento sono Presidente dell’Università euromediterranea<br />

e sono qui con altri Rettori.<br />

Il Presidente Schifani ha parlato di flessibili e tale carattere è<br />

innato in questa Università, che oggi, è un “link” anche con<br />

il passato e col futuro. Con questo grande lavoro che ci<br />

aspetta io vorrei chiedere l’aiuto di tutti gli studenti, di tutti i<br />

professori, di tutte le famiglie e di tutti coloro che hanno contribuito<br />

a rendere grande questa iniziativa. Continuate ad aiutarci.<br />

Vorrei rivolgermi ora al professor Nabil Ayad. Il<br />

professor Ayad ha lavorato a stretto contatto con la <strong>Link</strong> per<br />

molti anni come direttore della Diplomatic Academy of London.<br />

Continueremo, con il sostegno del Presidente Frattini e<br />

del Presidente Michael Frendo, che oggi non ha potuto essere<br />

con noi, a lavorare in questo senso.<br />

Il saluto del Prof. Nabil Ayad<br />

Direttore della Diplomatic Academy di Londra<br />

Eccellenze, Professori, Onorati Ospiti,<br />

vorrei congratularmi con il professor Scotti per questa occasione,<br />

anche a nome dei miei Colleghi, Rettori e Vicerettori<br />

dell’Università Euromediterranea.<br />

La prima volta in cui ho avuto l’onore di incontrare il professor<br />

Scotti è stato a Londra, quando lo invitammo a intervenire<br />

come ospite per parlare del cinquantesimo anniversario del<br />

Trattato di Roma. Il tema della Conferenza erano le dimensioni<br />

europee dei valori umani e fu una grande occasione.<br />

Da allora abbiamo stabilito ottimi contatti con la <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong><br />

<strong>University</strong>. Nel maggio del 2008 abbiamo organizzato insieme<br />

una settimana diplomatica a beneficio degli studenti e<br />

dei membri del corpo diplomatico di Roma.<br />

Lo scorso settembre il professor Scotti è venuto a Londra,<br />

dove ha incontrato il Vicerettore, professor Edward Acton, e<br />

insieme abbiamo firmato un accordo di collaborazione per<br />

promuovere programmi diplomatici su sicurezza e diplomazia,<br />

comunicazione e diplomazia e anche business internazionale<br />

e diplomazia. Auspicabilmente, svilupperemo questi<br />

programmi a breve nei prossimi mesi.<br />

Avere un’università privata non è un elemento innovativo di<br />

per sé, ma è un grande successo, perché prevedo che tra pochi<br />

anni la maggior parte delle università statali diventeranno private.<br />

Congratulazioni, dunque, professor Scotti, per quest’iniziativa<br />

innovativa e ben realizzata.


Il Presidente del Senato Renato Schifani<br />

apre l’Anno Accademico 2011/<strong>2012</strong><br />

Presidente Scotti, Autorità, illustri Rettori<br />

e Professori, cari studenti,<br />

sono veramente lieto di essere con voi in occasione dell'inaugurazione<br />

dell'anno accademico della vostra piccola<br />

ma dinamica e valida Università che forma professionisti<br />

per il mondo che cambia e per le nuove professionalità richieste<br />

dal mercato del lavoro.<br />

La qualità della formazione che viene impartita in questo<br />

Ateneo è confermata dall'alta percentuale di laureati che<br />

hanno trovato rapida ed utile collocazione sul mercato del<br />

lavoro e che sono poi cresciuti rapidamente in responsabilità<br />

gerarchiche aziendali.<br />

Tutto questo è dovuto anche alla vostra alta vocazione internazionale,<br />

un punto di forza in più di questa università;<br />

vocazione che mai come oggi è così necessaria nel contesto<br />

della globalizzazione.<br />

Sono poi particolarmente lieto quando ho l'occasione di rivolgere<br />

un pensiero o una riflessione direttamente ai giovani,<br />

ed alle istituzioni chiamate al compito, essenziale in<br />

ogni comunità, di curare la formazione e salvaguardare la<br />

crescita umana e culturale, oltre che tecnica e scientifica dei<br />

nostri uomini del futuro.<br />

L'anno che si è chiuso ci ha visti impegnati a contrastare gli<br />

effetti, anche sulla situazione politica, di una grave e pervasiva<br />

crisi economica.<br />

Il sistema finanziario e quello politico ne hanno subito pesanti<br />

conseguenze sia sul bilancio pubblico che sull'agenda<br />

dei lavori parlamentari, impegnata in continue manovre di<br />

aggiustamento finanziario.<br />

La crisi purtroppo non è un fenomeno passeggero, non è<br />

una fluttuazione economica: è una discontinuità sistemica,<br />

un cambio di passo nell'evoluzione economica del pianeta<br />

che ciclicamente può presentarsi.<br />

La crisi che stiamo vivendo è figlia della globalizzazione, un<br />

evento che genera tante opportunità ma che al tempo stesso<br />

modifica tutte le chiavi di lettura tradizionali della realtà, soprattutto<br />

economica, attraverso anche una competizione<br />

sempre più dura. E che rischia di mettere in serio pericolo<br />

la nostra capacità di onorare il debito pubblico che si è accumulato<br />

nei decenni trascorsi.


10 anno accademico 2011/<strong>2012</strong><br />

link journal 1/<strong>2012</strong><br />

Da qui è nata l'esigenza di una ulteriore manovra economica,<br />

che ha visto alternarsi al precedente Governo, una<br />

nuova formazione tecnica con il sostegno di un'ampia ed<br />

inedita maggioranza politica.<br />

Questo Parlamento, consapevole e responsabile, ha saputo<br />

operare scelte coraggiose nell'esclusivo interesse del Paese.<br />

E in questa fase, mi preme sottolinearlo, abbiamo assistito<br />

ad una grande prova di maturità degli italiani.<br />

Altri compiti gravosi e non agevoli attendono Camera e Senato;<br />

sono quelli di concorrere alla nuova fase essenziale e<br />

decisiva di crescita del Paese.<br />

All'aumento della pressione fiscale deve seguire la riduzione<br />

di tutta la spesa pubblica, attraverso scelte che diminuiscano<br />

le uscite e creino nuove opportunità di occupazione.<br />

E' questa la giusta prospettiva che desidero fortemente si<br />

realizzi in un clima sereno, pacato e costruttivo di confronto<br />

leale ed autentico.<br />

Quello che si chiede sempre - ma soprattutto in un momento<br />

difficile come quello che stiamo attraversando - è<br />

l'abbandono di visioni miopi, è collaborazione, unità di intenti,<br />

seppure in un clima di dialettica sempre necessario<br />

che è il sale della democrazia, ma che deve essere finalizzato<br />

al raggiungimento di obiettivi non più differibili.<br />

Una sana contrapposizione, dove non esistano inutili esasperazioni,<br />

conduce a risultati positivi attenuando eventuali<br />

tensioni sociali; è foriera di un ritrovato clima di coesione<br />

sociale.<br />

Nessun debito pubblico deve essere ereditato dalle nuove<br />

generazioni: gli italiani si stringono nei sacrifici richiesti per<br />

evitare che i propri figli e nipoti debbano sopportare un<br />

peso oltremodo gravoso.<br />

Sono richieste che coinvolgono tutte le categorie sociali in<br />

misura proporzionale a ciascun reddito. Ma al contempo<br />

devono essere individuati quei posti di lavoro che abbiano<br />

i requisiti della stabilità: è questo il dovere della politica.<br />

In questo contesto, per contribuire alla crescita del Paese,<br />

anche il tema delle liberalizzazioni può divenire una opportunità<br />

alla quale tutti dobbiamo guardare con attenzione,<br />

ma che deve essere affrontato adottando criteri e metodi<br />

ben delineati.<br />

Sono scelte che devono apparire comprensibili agli italiani<br />

e che devono includere percorsi di grande respiro.<br />

E’ una riforma alla quale occorre accostarsi, con approccio<br />

complessivo e non parziale, possibilmente partendo dalle<br />

liberalizzazioni strategiche sui grandi settori dei servizi pubblici,<br />

dell'energia e degli ambiti economici di maggiore rilevanza,<br />

per poi includere quelle più settoriali.<br />

Solo attraverso questo percorso il Paese può essere indotto<br />

ad accettare un cambiamento così radicale che, all’apparenza<br />

e nell’immediatezza può sembrare foriero di ulteriori<br />

sacrifici, ma che alla distanza saprà valutare nei suoi effetti<br />

positivi.<br />

Un altro tema sul quale l’opinione pubblica viene giornalmente<br />

informata è quello della lotta all’evasione.<br />

Se, come è a tutti noto, omettere in tutto o in parte di dichiarare<br />

al fisco il proprio effettivo reddito, o peggio nasconderlo<br />

totalmente è un comportamento illegittimo e<br />

purtroppo diffuso, in un periodo come quello attuale di difficoltà<br />

economica, deve esserci la consapevolezza del danno<br />

che si crea a tutta la comunità nazionale. Perché se ciascuno<br />

di noi fa la sua parte, contribuiamo tutti insieme a raggiungere<br />

presto e bene quegli obiettivi che ci chiede l’Unione


link journal 1/<strong>2012</strong> anno accademico 2011/<strong>2012</strong><br />

Europea. La lotta all’evasione, allora, va inquadrata in questo<br />

giusto e corretto ambito e viene assimilata come un dovere<br />

civico; assume, allora, il valore di un esempio collettivo<br />

di osservanza della legge finalizzata al rilancio dell’economia<br />

ed al bene di tutta la cittadinanza.<br />

La lotta all'evasione, come la lotta alle grandi criminalità,<br />

non può e non deve costituire elemento di divisione tra le<br />

forze politiche e sociali, ma deve essere invece un obiettivo<br />

primario ed inderogabile al quale ciascuno di noi, in rela-<br />

zione alle rispettive funzioni che svolgiamo nella società, è<br />

chiamato a dare il giusto contributo.<br />

L'obiettivo prioritario di tutte le politiche pubbliche è anche<br />

quello di innalzare la qualità della formazione culturale e<br />

specialistica delle giovani generazioni.<br />

Il capitale umano è infatti un fattore determinante per la<br />

crescita, lo sviluppo e la competitività dei sistemi-Paese.<br />

Per la politica è un imperativo categorico individuare, ed<br />

anche con urgenza, tutte le misure più idonee a fare emergere<br />

quei giovani di talento e professionalmente attrezzati -<br />

devo dire che ce ne sono tanti - attraverso la formazione di<br />

università serie e responsabili.<br />

Sono questi i giovani che possono arricchire il pubblico, ma<br />

anche il privato, che possono contribuire responsabilmente<br />

a valorizzare il nostro Paese.<br />

Quello che serve è una selezione basata su criteri meritocratici<br />

e la politica deve tendere a questo, creando i presupposti<br />

per evitare che la competizione dei meritevoli venga<br />

svilita da facili scorciatoie di chi immeritatamente può raggiungere<br />

gli stessi risultati.<br />

La meritocrazia deve essere l'arma vincente per l'innovazione<br />

e la crescita sociale.<br />

Nei prossimi mesi saremo chiamati a corrispondere agli impegni<br />

assunti dinanzi all'Unione europea ed al mondo.<br />

Occorrerà una grande condivisione collettiva per raggiungere<br />

il risanamento finanziario e il rilancio del nostro Paese,<br />

evitando visioni di corto respiro.<br />

Non possono e non devono esserci dubbi nella comunità<br />

internazionale sulla volontà di futuro e di progetto dell’Italia<br />

e sulla sua capacità di mettere in atto adeguati provvedimenti.<br />

Il nostro patrimonio storico, culturale, artistico, intellettuale<br />

e scientifico ci impone di rendere fede al nostro<br />

grande Paese e di garantire alle nuove generazioni un futuro<br />

sostenibile. Siamo chiamati anche a consolidare in voi giovani<br />

la consapevolezza di una solida cultura democratica.<br />

Dobbiamo tenere nella massima considerazione il vostro<br />

giudizio e vi sprono, cari ragazzi, nel ricercare il domani, ad<br />

esigere sempre nuove idee.<br />

Non temete di esercitare il giusto e misurato spirito critico<br />

verso le scelte della politica che devono essere credibili e<br />

affidabili.<br />

Lo stesso Senatore e Presidente Emerito della Repubblica<br />

Italiana Francesco Cossiga, al quale intitolate oggi la vostra<br />

biblioteca, nei diversi ruoli svolti nel corso della sua lunga<br />

e intensa vita, riuscì sempre a far emergere il suo spirito critico,<br />

la sua dialettica e perfino la sua ironia e le sue provocazioni.<br />

Questa vostra impostazione dovrà tradursi però sempre più<br />

nell'attaccamento diffuso e consapevole alla centralità delle<br />

istituzioni rappresentative, e al loro ruolo insostituibile nel<br />

processo democratico.<br />

Solo le Istituzioni, infatti, sono in grado di assicurare che i<br />

cambiamenti nella società globalizzata avvengano in un<br />

orizzonte che contempli le insopprimibili e irrinunciabili<br />

esigenze di tutela dei diritti della persona.<br />

11


12 anno accademico 2011/<strong>2012</strong><br />

link journal 1/<strong>2012</strong><br />

In questa crisi economica, provocata da eventi esterni al nostro<br />

Paese, occorre poi consapevolezza rifuggendo gli atteggiamenti<br />

di difesa degli interessi corporativi e delle<br />

"rendite di posizione".<br />

Sarà così assicurata la stabilità ed il rafforzamento di quel<br />

bene supremo per la nostra civiltà che é il cuore del principio<br />

della democrazia e che solo il buon funzionamento delle<br />

assemblee rappresentative, e in primo luogo del Parlamento<br />

nazionale, sono in grado di assicurare.<br />

Per queste ragioni, ritengo che molto opportunamente e<br />

saggiamente avete voluto dedicare la lectio magistralis di<br />

quest'anno al tema dell'università di fronte alla sfida del<br />

cambiamento globale.<br />

Le università hanno giocato un ruolo decisivo nella storia<br />

della cultura occidentale.<br />

Questa istituzione fondamentale è nata in Italia e ha sempre<br />

avuto l’ideale di insegnare agli studenti non solo dottrine e<br />

saperi, ma anche il modo con cui quelle conoscenze sono<br />

state acquisite e progrediscono.<br />

Un ponte tra scuola e vita. Un compito centrale di illuminismo<br />

per l’uomo, nella intricata foresta della vita; un sistema<br />

di idee vive, che ogni epoca deve possedere e<br />

insegnare.<br />

Oggi le sedi di produzione dove si creano, si scambiano e<br />

si trasmettono i saperi sono molteplici.<br />

Le università, pertanto, devono essere più attente alle realtà<br />

in evoluzione immergendosi nelle componenti sociali e civili<br />

e nelle esperienze di vita.<br />

Oggi c'è necessità di maggiore duttilità ed elasticità delle<br />

Istituzioni di formazione per governare nuovi modelli e anticipare<br />

progetti.<br />

Il sistema degli atenei deve essere aperto alla piena attualità,<br />

operando immerso nel dinamismo della vita.<br />

Se cultura e professioni rimanessero isolate – con alterigia<br />

e presunzione – senza contatto con l’incessante fermento,<br />

il sapere diverrebbe anchilosato.<br />

La classe dirigente moderna deve avere capacità di prevedere,<br />

per quanto possibile, l'evoluzione dei mercati globali<br />

come pure degli ordinamenti politici e sociali.<br />

Ancora più che nel passato, oggi è infatti imprescindibile<br />

avere una solida preparazione universitaria per anticipare i<br />

sempre più repentini cambiamenti della società.<br />

Cari studenti, guardate con serenità al ruolo che potranno<br />

avere le istituzioni repubblicane per il futuro del nostro<br />

Paese. Solo dal loro corretto e soprattutto libero e partecipato<br />

funzionamento, potrà derivare anche in futuro la piena<br />

legittimazione delle Istituzioni pubbliche presso la nostra<br />

cittadinanza. Le vostre opinioni meritano la massima considerazione:<br />

saranno le idee della futura classe dirigente.<br />

Credete nella cultura e nella buona preparazione. Per questo<br />

vi sprono allo studio e all'impegno civile: sono le qualità essenziali<br />

per conseguire ogni traguardo di vita.<br />

Il futuro potrà esservi amico se sarà solido, se sarà credibile<br />

ma anche se torneranno a imperare quei valori come l'equità<br />

e la solidarietà che troppo spesso vengono oggi accantonati.<br />

Cari giovani, non fatevi mai prendere dallo sconforto; raggiungere<br />

certi obiettivi è un vostro diritto, ma è vostro dovere<br />

conquistarli, giorno dopo giorno, spesso con fatica e<br />

spirito di sacrificio. Non esistono successi facili, esistono<br />

mete da raggiungere e raggiungibili solo con impegno e<br />

grande volontà di riuscire. E non mi riferisco ad obiettivi<br />

necessariamente ambiziosi; ciascuno può scegliere quello<br />

che è più confacente alle proprie idee, alle proprie possibilità,<br />

alle proprie inclinazioni. Ma, scelta la via da seguire, va<br />

percorsa fino in fondo, con tenacia, determinazione, voglia<br />

di superare piccoli e grandi ostacoli, anche quelli che possono<br />

apparire insormontabili.<br />

Continueremo a dialogare insieme, allargheremo i nostri<br />

orizzonti, riusciremo a creare nuove prospettive. La politica<br />

è e deve essere sempre al vostro servizio.<br />

Se non riuscirà ad esserlo, avrà fallito nel suo principale<br />

scopo, e cioè quello di essere sensibile alle volontà ed<br />

istanze di cambiamento della società da parte della sua<br />

nuova classe dirigente, di cui voi sarete i rappresentanti.<br />

Vi formulo, infine, con sincera vicinanza, i miei più calorosi<br />

auguri per l'anno accademico che si apre.<br />

Dichiaro aperto l'anno accademico 2011/<strong>2012</strong>


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editoriale<br />

editoriale<br />

<strong>Link</strong> <strong>Campus</strong>:<br />

la conoscenza, il mondo<br />

Un treno affollato, una valigia di cartone legata,<br />

abbracci, lacrime, un’infinita tristezza.<br />

Abbiamo rivisto tante volte le<br />

scene della nostra emigrazione. Per vivere, riuscire<br />

a mangiare, si andava altrove. Lontano. Si cambiava<br />

spesso continente, sempre abitudini e cultura.<br />

Nel pieno di una crisi acuta che fa perdere posti<br />

di lavoro e reddito, che fa vacillare le certezze materiali<br />

e immateriali che ci siamo costruiti in tanti<br />

anni, potremmo riprendere il treno? Oggi in Italia<br />

mangiamo tutti, di solito molto più di un pasto al<br />

giorno. E i vestiti, una casa, magari modesta, non<br />

mancano. Ma la speranza di futuro un po’ si: opportunità<br />

di lavoro qualificato, soddisfazioni professionali,<br />

riconoscimento del merito, possibilità<br />

di migliorare la propria condizione, queste le aspirazioni<br />

spesso frustrate.<br />

E allora molti giovani, soprattutto se hanno studiato<br />

‘bene’ e vogliono continuare a farlo o intendono<br />

mettere a frutto la loro fatica accademica,<br />

sono tentati di andare a realizzare la loro speranza<br />

altrove, all’estero.<br />

Noi, che siamo sempre stati una Università internazionale,<br />

proprio in queste settimane siamo divenuti<br />

a tutti gli effetti una Università italiana,<br />

dopo averlo fortemente voluto ed esserci a lungo<br />

battuti per questo riconoscimento. Siamo impazziti?<br />

Che senso ha?<br />

Beh, intanto non smettiamo certo di essere una<br />

Università internazionale!... Ma non voglio limitarmi<br />

a questa risposta. Non si tratta di mantenere<br />

i piedi in due staffe o di utilizzare ‘due forni’ per<br />

cuocere il nostro pane. Voglio dire qualcosa di più,<br />

perché c’è di più, c’è che <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />

scommette sull’Italia.<br />

Vanna Fadini, Presidente della Società di Gestione della <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />

link journal 1/<strong>2012</strong><br />

Nessun ridicolo sciovinismo, ma alcune ragioni:<br />

innanzitutto, questo è un Paese con radici<br />

profonde e risorse umane capaci da sempre di risollevarlo<br />

da qualsiasi momento di crisi. E’ sempre<br />

stato tra i protagonisti della Storia. E’ un Paese ad<br />

identità forte, che trasmette ai suoi prodotti e che<br />

usa per attrarre. Generiamo seduzione. Non sarà<br />

sempre con la stessa intensità, ma nessuno è perfetto;<br />

poi, nel pieno di una omogeneizzazione<br />

delle economie, della globalizzazione dei mercati,<br />

esiste un ‘altrove’? Voglio dire che in questo<br />

mondo non tutti hanno il ‘giardino’ sotto casa, ma<br />

tutti, proprio tutti, hanno tracciati, sentieri, strade<br />

che possono raggiungerlo. Perché non incamminarci<br />

da casa nostra? Fuori di metafora, se l’Occidente<br />

ha destini intrecciati, interdipendenti, come<br />

le borse e i mercati ci ricordano ogni giorno, cosa<br />

cambia ad affrontare gli ostacoli per lo sviluppo<br />

qui da noi, con il vantaggio di usare strumenti, risorse,<br />

potenzialità che conosciamo bene? Hic rhodus,<br />

hic salta… senza troppe delocalizzazioni;<br />

ancora, non ‘emigrare’ non vuol dire stare<br />

fermi. L’esperienza del viaggio, dello scambio,<br />

dell’esperienza ‘lontano da casa’ è vitale per qualsiasi<br />

curriculum e <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> l’incoraggia,<br />

l’aiuta. Ma a noi piace Marco Polo. Anni di viaggio<br />

non lo hanno reso meno italiano e hanno portato<br />

grandi vantaggi all’economia veneziana. Non è diventato<br />

un ‘professionista’ cinese!<br />

Scommettere sull’Italia (e cercare di vincere la<br />

scommessa…) certo non è una passeggiata. C’è da<br />

fare molto lavoro per qualificare sempre di più le<br />

risorse umane di questo Paese, per tradurre in fatti<br />

le potenzialità. Se avrete la pazienza di dare uno<br />

sguardo alla tabella pubblicata, vi renderete conto<br />

di quanta strada ci sia da fare.


link journal 1/<strong>2012</strong> editoriale<br />

15<br />

Noi come Università formiamo laureati, classi dirigenti,<br />

ma questi sono i dati di partenza:<br />

la classe dirigente italiana rappresenta appena<br />

il 2% del numero totale degli occupati<br />

(450.311 su 22.422.017);<br />

le donne rappresentano solo il 20,1%, ad<br />

eccezione della dirigenza pubblica, dove la quota<br />

percentuale sale al 32,5%;<br />

i dirigenti ‘giovani’, quelli cioè con un’età<br />

inferiore ai 45 anni, rappresentano appena il<br />

37,8%;<br />

dulcis in fundo (si fa per dire…) sul fronte<br />

del titolo di studio, soltanto il 36% di coloro che<br />

sono quotidianamente chiamati ad assumere decisioni,<br />

dirigere, coordinare lo sviluppo del Paese è<br />

laureato! Certo, la percentuale di titolari di laurea<br />

o titolo di studio più elevato sfiora il 75% nell’alta<br />

dirigenza pubblica (anche perché solo la laurea da<br />

accesso a concorsi); ma essa non raggiunge neanche<br />

il 15% tra gli imprenditori e gli amministratori<br />

di grandi aziende.<br />

Quindi, in sintesi: poche donne, età media avanzata<br />

e qualificazione formativa non eccellente. Rispetto<br />

al resto d’Europa un forte gap da colmare.<br />

Però anche una grande opportunità da cogliere per<br />

gli studenti della <strong>Link</strong>, perché questi dati vogliono<br />

dire che il ‘mercato’ non manca. E’ forte, cioè, la<br />

domanda di nuovi laureati, di alta formazione, di<br />

classi dirigenti, e proprio qui in Italia!<br />

Mi permetto una considerazione finale. La crisi<br />

che attraversiamo non credo potrà essere superata<br />

senza che si tenga in maggiore conto le esigenze<br />

dei più deboli o di coloro che sono in maggiore<br />

difficoltà di sviluppo. Una diversa distribuzione<br />

della ricchezza, maggiore rispetto per le risorse naturali,<br />

più sobrietà nei comportamenti sono condizioni<br />

di un futuro sostenibile e di una riduzione<br />

dei conflitti.<br />

L’etica, in questa epoca, ha un valore sempre maggiore,<br />

anche economico. Sarebbe stupido non capire<br />

il valore che essere il centro di una delle grandi<br />

religioni monoteiste porta al contributo italiano<br />

per lo sviluppo.<br />

Un valore accresciuto anche da decenni di battaglie<br />

politiche, sindacali, popolari per la giustizia e<br />

la solidarietà, che invece di essere occasione di divisione<br />

dovrebbero sempre più divenire motivo di<br />

orgoglio.


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link journal<br />

<strong>Link</strong> Journal - Periodico di informazione della <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong> - Direttore responsabile: Antonio Suraci<br />

Comitato di redazione: Vanna Fadini, Marco Emanuele, Gerardo Lo Russo, Tommaso Mattei, Massimo Pistone,<br />

Maurizio Zandri - Segreteria di redazione: Titti Nicolellis - Grafica e impaginazione: <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> - Periodico<br />

a diffusione gratuita n.0/12 in attesa di autorizzazione - Tipografia: Empograph, Villa Adriana, Roma<br />

Inaugurazione<br />

Anno Accademico 2011/<strong>2012</strong><br />

1 Saluto del Prof. Vincenzo Scotti<br />

Presidente <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />

5 Prolusione Prof. Adriano Di Maio<br />

Già Rettore del Politecnico di Milano<br />

8 Saluto del Prof. Joseph Mifsud<br />

Presidente EMUNI<br />

8 Saluto del Prof. Nabil Ayad<br />

Direttore Diplomatic<br />

Academy of London<br />

9 Intervento del Sen. Renato Schifani<br />

Presidente del Senato<br />

editoriale<br />

14 Siamo una università italiana<br />

Vanna Fadini<br />

italia<br />

19 Sviluppo, da dove ripartire<br />

Claudio Roveda<br />

20 Immigrazione e (s)fiducia<br />

nella politica<br />

Anna Maria Cossiga<br />

europa<br />

22 Riflessioni sul Trattato<br />

di Lisbona<br />

Vincenzo Scotti<br />

24 Europa a rischio di cortocircuito<br />

Antonio Maria Rinaldi<br />

27 Rivedere le regole<br />

e i sistemi di vigilanza<br />

A. Vento / G.C. Vecchio<br />

internazionale<br />

28 L’importanza della memoria<br />

Andrea Villa<br />

30 Il millennio urbano dei<br />

popoli africani<br />

Osservatorio Africa<br />

indice<br />

sicurezza e intelligence<br />

37 Redes criminales<br />

Garay Salamanca<br />

Salcedo Albaran<br />

diritti umani<br />

40 Il dilemma del prigioniero<br />

innocente<br />

Gianni Ricci<br />

Focus<br />

‘Il paradosso<br />

della globalizzazione’<br />

44 Il paradosso<br />

della globalizzazione<br />

Dani Rodrik<br />

47 Verso una diplomazia<br />

partecipativa<br />

Giandomenico Magliano<br />

49 Le deboli democrazie<br />

alla ricerca di un nuovo<br />

modello di Stato<br />

Antonio Suraci<br />

51 Il risveglio della libertà<br />

Maurizio Zandri<br />

54 Abbandoniamo il sogno<br />

dell’iperbole<br />

Claudio Patalano<br />

56 Il Web: agorà virtuale<br />

per il confronto<br />

e la partecipazione democratica<br />

Roberto Lippi<br />

Foto di copertina gentilmente concessa da Sheila McKinnon - www. sheilamckinnon.com<br />

Una riflessione<br />

sul mondo di domani<br />

17<br />

59 Dialogo globale: definire<br />

i canoni della convivenza<br />

Marco Emanuele<br />

61 Verso un progetto<br />

per la globalizzazione<br />

Pasquale Russo<br />

63 Rio+20: una porta aperta<br />

Gennaro Migliore<br />

incontri<br />

70 Incontro tra i Rettori delle<br />

Università del Mediterraneo<br />

Perché <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong><br />

31 Un nuovo umanesimo<br />

per la futura città interetnica 73 iTest your <strong>University</strong> Choice<br />

Stefania Lazzari Celli<br />

74 I corsi <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong><br />

economia e diritto<br />

75 I Master <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong><br />

33 Aprire i mercati<br />

libri<br />

e rafforzare<br />

la concorrenza<br />

76 Le pubblicazioni Eurilink<br />

Piergiorgio Valente<br />

34 Non solo profitto<br />

Giuseppe Perrone<br />

35 La sostenibilità<br />

dei debiti sovrani<br />

Luigi Paganetto<br />

Abbiamo voluto dedicare questo<br />

secondo numero del <strong>Link</strong> Journal<br />

ai problemi sollevati dalla globalizzazione.<br />

Si ritiene che i processi<br />

di mondializzazione siano tutti<br />

forieri di un benessere finalizzato<br />

alla pace nel mondo e all’affermazione<br />

dei valori universali.<br />

L’enfasi posta ai processi di globalizzazione,<br />

purtroppo, non trova<br />

nei fatti quel riscontro etico la cui<br />

mancanza da più parti si lamenta.<br />

Il processo, che potremmo definire<br />

di iper-capitalismo, è caratterizzato<br />

essenzialmente da<br />

fattori economico-finanziari, ovvero<br />

da rapporti spesso di dipendenza<br />

conflittuale tra i mercati.<br />

Il forte impatto economico, a discapito<br />

dello sviluppo armonico<br />

tra le diverse aree del mondo,<br />

apre però, nel contempo, la possibilità,<br />

grazie alle nuove tecnologie<br />

globali, di realizzare relazioni<br />

nuove tra i popoli, tra le religioni<br />

e, quindi, tra le culture. Questo è<br />

l’aspetto da cogliere e da coltivare<br />

con ferma determinazione per allontanare<br />

il rischio, causa la debolezza<br />

degli Stati, di una<br />

conflittualità permanente.


in collaborazione con<br />

e la partecipazione di<br />

INFO<br />

p.oliviero@unilink.it<br />

caferri@sudgestaid.it<br />

Master in Cooperazione allo Sviluppo<br />

Anno Accademico 2011 / <strong>2012</strong><br />

La <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong> in collaborazione con Emuni, rete<br />

delle Università Europee e Mediterranee, SudgestAid e con la partecipazione<br />

di FormezPA organizza per l’anno accademico in corso<br />

due Master di secondo livello dedicati rispettivamente:<br />

h alla Cooperazione internazionale e all’economia dello sviluppo,<br />

soprattutto rivolto alle problematiche delle aree mediterranee e di<br />

quelle di crisi e post-conflitto;<br />

h alla Cooperazione internazionale e ai processi di partnership<br />

economica e commerciale, con particolare attenzione all’area Latino-<br />

Americana.<br />

I Master, indirizzati a laureati magistrali e/o vecchio ordinamento,<br />

sono finalizzati alla formazione di esperti in materia di economia<br />

dello sviluppo e di cooperazione internazionale. Il profilo<br />

professionale in uscita è volto a rispondere alle crescenti esigenze di<br />

figure specialistiche operanti a livello comunitario ed internazionale,<br />

in istituzioni pubbliche e private, organismi internazionali, NGO, in<br />

materia di programmazione, attuazione e valutazione delle politiche<br />

di sviluppo.


link journal 1/<strong>2012</strong> italia<br />

Sviluppo:<br />

da dove ripartire<br />

Nel tentativo di contribuire a dare una risposta a questo<br />

interrogativo fondamentale per il futuro del nostro<br />

Paese, non si intende entrare nella analisi e nella<br />

valutazione delle misure che il nuovo Governo nazionale intende<br />

proporre all’approvazione del Parlamento e soprattutto<br />

nel dibattito circa l’opportunità di una strategia di pareggio<br />

di bilancio alla luce di una (adeguata) politica monetaria a scala<br />

di Governo della Unione Europea.<br />

Se si guarda al di là dell’attuale situazione di crisi economica<br />

e finanziaria e al futuro a medio-lungo termine, non si può<br />

non condividere l’ipotesi che l’Italia deve svilupparsi e strutturarsi<br />

come una effettiva Società della Conoscenza.<br />

Anche se sono possibili diverse declinazioni<br />

del concetto di Società della Conoscenza, nondimeno<br />

sono assunti alcuni aspetti strutturali<br />

sui quali si fonda una tale Società: essa si caratterizza<br />

per il fatto che tutti i processi economici<br />

e sociali fanno un uso estensivo e<br />

approfondito di conoscenze avanzate (in particolare<br />

quelle di tipo tecnico-scientifico) ed<br />

esiste una diffusa propensione di tutte le componenti<br />

sociali alla generazione e all’utilizzo di<br />

tali conoscenze.<br />

L’implementazione in Italia di tale modello di<br />

Società appare irrinunciabile se si vuole evitare<br />

la marginalizzazione dell’economia nazionale<br />

nel contesto competitivo globalizzato, in cui i modelli produttivi<br />

‘tradizionali’, basati sull’efficienza delle operations e sull’innovazione<br />

incrementale, non risultano più sostenibili a<br />

fronte della concorrenza dei Paesi di nuova industrializzazione,<br />

che dispongono di non imitabili differenziali positivi<br />

nei costi del lavoro e delle materie prime.<br />

Perseguendo con tali modelli di business, si estenderebbero<br />

Claudio Roveda , <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />

Sviluppo<br />

L’implementazione<br />

di un nuovo modello<br />

di Società appare<br />

irrinunciabile<br />

se si vuole evitare<br />

la marginalizzazione.<br />

19<br />

in modo diffuso i processi di crisi aziendale, che hanno portato<br />

molte aziende, soprattutto di piccole e micro dimensioni,<br />

ad uscire dal mercato, con gravi ripercussioni negative sul<br />

piano dell’occupazione e del reddito. Appare quindi necessario<br />

modificare la struttura dell’economia e della società italiana<br />

secondo queste direttrici di fondo:<br />

• mantenere, all’interno del sistema produttivo nazionale,<br />

il ruolo strategico del manufacturing in quanto motore<br />

della dinamica, se non della stessa esistenza, degli altri settori,<br />

dall’agricoltura ai servizi;<br />

• fondare la capacità di offerta e la competitività di<br />

tutti i settori produttivi, sulla innovazione knowledge based, in<br />

particolare quella tecnico-scientifica;<br />

• assicurare, attraverso l’attività di ricerca, una<br />

“produzione” di conoscenze avanzate, rispondenti<br />

sia alle esigenze di sviluppo del sistema<br />

produttivo nella logica di sostenibilità sia alle<br />

aspettative di qualità della vita dei cittadini, sia<br />

alla soluzione delle grandi problematiche sociali<br />

(in particolare nei campi della salute, della<br />

sicurezza, dell’ambiente);<br />

• accrescere la dotazione di capitale<br />

umano qualificato, in grado sia di contribuire<br />

alla generazione di conoscenze avanzate sia<br />

all’utilizzo intelligente e consapevole delle soluzioni<br />

applicative realizzate a partire da tali conoscenze,<br />

in tutti i processi economici e sociali.<br />

Assunti questi elementi strutturali fondamentali della Società<br />

della Conoscenza che si intende costruire in Italia, è possibile<br />

delineare le strategie di azione che i diversi stakeholder della economia<br />

e della società nazionale, in primo luogo a livello di governo<br />

pubblico, sono chiamati a elaborare e implementare.<br />

Tali azioni devono svilupparsi prioritariamente per:<br />

• promuovere e sostenere lo sviluppo nelle imprese di<br />

un modello strategico di business, fondato sull’innovazione,


20<br />

in primo luogo tecnologica, quale leva di competitività nell’ottica<br />

della sostenibilità e dell’internazionalizzazione;<br />

• indirizzare e sostenere l’attività di ricerca scientifica,<br />

coerentemente con gli attuali modelli di innovazione tecnologica,<br />

e soprattutto l’utilizzo delle nuove conoscenze così generate<br />

a scopi applicativi nella molteplicità delle strutture e<br />

dei processi economici e sociali;<br />

• affrontare, attraverso la ricerca e l’innovazione, le<br />

grandi problematiche sociali, da quelle connesse all’invecchamento<br />

della popolazione a quelle della sicurezza a livello individuale<br />

e sociale;<br />

• ridefinire la struttura e le modalità operative del si-<br />

Il secolo appena iniziato sarà il secolo dello straniero per<br />

eccellenza. Ma chi è lo straniero? Il turista che visita il nostro<br />

Paese? Il migrante costretto a lasciare la propria patria<br />

a causa della povertà e delle guerre? O il malvivente in<br />

cerca di un luogo dove sia più facile delinquere e dove l’eventuale<br />

punizione sia meno dura che a casa sua?<br />

Il turista è certo straniero ma, a parte forse qualche inconveniente<br />

di viabilità nei nostri centri storici, non costituisce un<br />

problema quanto una risorsa. Gli immigrati invece, spesso<br />

identificati tout court con i delinquenti, un problema lo sono<br />

eccome. Lo sono soprattutto in quanto ‘diversi’ per il colore<br />

della pelle, la lingua, i costumi, i valori. Tutto ciò che li riguarda<br />

ci è estraneo ed è dunque, in qualche modo, pericoloso.<br />

L’antropologo Claude Lévi Strauss affermava che<br />

Anna Maria Cossiga, <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />

italia link journal 1/<strong>2012</strong><br />

stema dell’istruzione e della formazione a tutti i livelli, da<br />

quello primario a quello post-laurea, in modo da fornire le tipologie<br />

di conoscenze e di competenze richieste dalla Società<br />

della Conoscenza, riassumibili in termini di multidisciplinarietà,<br />

di orientamento alle metodologie e al problem solving, di<br />

integrazione fra processi di apprendimento ‘teorico’ e di applicazione<br />

in contesti ‘reali’.<br />

Preme sottolineare come la definizione e l’attuazione di queste<br />

linee di azione richiedano l’assistenza di una visione sul futuro<br />

a medio-lungo termine della società italiana, che sia condivisa<br />

da tutti i suoi stakeholder e ne indirizzi la formulazione di strategie<br />

e l’operatività.<br />

Immigrazione e (s)fiducia nella politica<br />

“l’atteggiamento più antico […] consiste nel ripudiare puramente e semplicemente<br />

le forme culturali – morali, religiose, sociali, estetiche – che<br />

sono più lontane da quelle con cui ci identifichiamo. Dire “Abitudini di<br />

selvaggi”, o “da noi non si fa così”, sono altrettanti reazioni grossolane<br />

che esprimono (…) la stessa repulsione di fronte a modi di vivere, di<br />

pensare o di credere che ci sono estranei”.<br />

Forse per questo, come sosteneva Rousseau, la civiltà è stata<br />

fondata da chi ha costruito il primo recinto. E non per raggruppare<br />

il bestiame, bensì per separare il proprio terreno da quello<br />

dell’altro, lo ‘straniero’, il possibile ‘nemico’.<br />

Eppure, come sostiene Jean Danielou, storico e teologo francese,<br />

il passo decisivo l’umanità lo ha fatto quando “lo straniero<br />

da nemico è divenuto ospite”.<br />

Sono questi i due atteggiamenti cui la politica, l’Arte di go-


italia<br />

link journal 1/<strong>2012</strong> 21<br />

vernare la società, si trova innanzi nell’affrontare il problema<br />

degli immigrati: accoglienza dell’ospite o difesa dal nemico?<br />

Dal 1986, anno in cui l’immigrazione ha cominciato ad essere<br />

‘un problema’ in Italia, i nostri governi hanno emanato leggi<br />

ed emendamenti per regolare il flusso degli stranieri nel nostro<br />

Paese, cercando di coniugare i diritti umani da una parte, e la<br />

sicurezza dei propri cittadini dall’altra. La soluzione, tuttavia,<br />

non solo non è facile, ma deve rispondere, come sempre accade<br />

in politica, al sentire degli elettori. Qualunque decisione<br />

si prenda accontenterà qualcuno ma, inevitabilmente, scontenterà<br />

qualcun altro e la fiducia o la sfiducia nella politica, in<br />

tema di regolamentazione dello status degli immigrati, aumenterà<br />

o diminuirà in base all’orientamento dei governi.<br />

In democrazia, però, la politica e i partiti hanno<br />

il compito, come ricorda Gustavo Zagrebelsky,<br />

di raccogliere le istanze sociali e trasformarle<br />

in proposte politiche. E ne hanno un altro, altrettanto<br />

importante: quello di tenere unita la<br />

società. A questo dovrebbe guardare la politica,<br />

più che ai risultati elettorali. La società, oggi, è<br />

costituita anche da quei milioni di lavoratori<br />

stranieri che giungono in Italia in cerca di una<br />

vita migliore e che sono una risorsa quanto i<br />

turisti che affollano le nostre strade. Anzi, sono<br />

una risorsa ben maggiore, perché molti di loro<br />

sono nati qui, parlano perfettamente la nostra<br />

lingua, studiano nelle nostre scuole e nelle nostre<br />

università. Insieme ai nostri figli, saranno gli italiani di domani.<br />

Da non poche parti, tuttavia, l’immigrato è ancora visto come<br />

il nemico da cui difendersi, l’irregolare che viene in Italia non<br />

per lavorare e per migliorare le sue prospettive di vita (anche<br />

noi italiani lo facevamo, un tempo), ma per delinquere. Così<br />

nasce il reato di immigrazione clandestina, che prevede un’ammenda<br />

da 5.000 a 10.000 euro per lo straniero che entra illegalmente<br />

nel territorio dello Stato; e che probabilmente non<br />

possiede nulla, perché tutto ciò che aveva lo ha speso per affrontare<br />

il ‘viaggio della speranza’.<br />

Eppure qualche spiraglio di speranza in questa complicata materia<br />

ci arriva in questi giorni dal Presidente della Repubblica.<br />

“E’ un'assurdità e una follia che dei bambini nati in Italia non diventino<br />

italiani”- ha dichiarato. “Non viene riconosciuto loro un diritto fondamentale”.<br />

Purtroppo, è ancora la politica a gettare legna sul<br />

fuoco, anziché mediare. L’onorevole Calderoli avverte che “la<br />

Immigrazione<br />

In democrazia<br />

la politica ha<br />

il compito<br />

di raccogliere<br />

le istanze sociali<br />

e trasformarle<br />

in proposte.<br />

Lega è pronta a fare le barricate in Parlamento e nelle piazze''; l’ex<br />

sottosegretario Giovanardi lamenta che “il Presidente Napolitano<br />

avrebbe fatto bene a stare zitto”, e l’ex ministro La Russa sostiene<br />

che “faremmo partorire qui le donne di tutta l’Africa, se bastasse nascere<br />

in Italia per avere la cittadinanza”.<br />

Forse ha ragione l'Alto Commissario delle Nazioni Unite per<br />

i Rifugiati, Antonio Guterres, quando afferma che “politici populisti<br />

ed esponenti irresponsabili dei media sfruttano timore e insicurezza<br />

per additare gli stranieri come capro espiatorio, per cercare di<br />

imporre l'adozione di politiche restrittive e per diffondere sentimenti razzisti<br />

e xenofobi”.<br />

Intanto, un campo rom piemontese viene<br />

dato alle fiamme perché, mentendo, una giovane<br />

torinese ha accusato due zingari di averla<br />

stuprata.<br />

Forse il nuovo governo, che della politica ha<br />

preso il posto per risolvere la nostra crisi economica,<br />

potrà fare qualcosa in materia di immigrazione.<br />

Il Ministro Riccardi commenta<br />

positivamente le parole del Presidente Napolitano<br />

e sottolinea che “l’Italia ha bisogno di una<br />

visione strategica, di cui l'integrazione degli immigrati<br />

è un capitolo importante”. Si affretta però ad aggiungere:<br />

“Non credo che sarà il Governo Monti a<br />

fare una legge sulla cittadinanza”.<br />

Ma, signor Ministro, se non ora, quando? E il Presidente Napolitano,<br />

il Governo Monti e Lei che cosa ci darete: una maggiore<br />

(s)fiducia nella politica?<br />

1Carmine Di Sante, Lo straniero nella Bibbia. Saggio sull’ospitalità,<br />

Città Aperta Edizioni, 2002, p.11.<br />

2Claude Lévi-Strauss, Antropologia strutturale 2, Il Saggiatore, Milano<br />

1990, pp. 371-372.<br />

3Jean Danielou, Pour un théologie de l’hospitalité, in VS 85 (1951),<br />

p.340.


22<br />

Riflessioni<br />

sul Trattato di Lisbona<br />

L’attuale crisi internazionale rappresenta, con tutta evidenza,<br />

una cartina di tornasole delle debolezze europee,<br />

occidentali in generale, nell’affrontare le<br />

difficoltà che sono sotto gli occhi di tutti. La crisi, generata<br />

dai ‘miti’ - rivelatisi estremamente negativi - di un mercato<br />

in grado di auto-riformarsi e di una finanza fondata su processi<br />

e su strumenti completamente distaccati dall’economia<br />

reale, ha colto di sorpresa l’occidente, pur avendo origini<br />

chiare negli Stati Uniti.<br />

Gli Stati Uniti e l’Europa stanno reagendo con grande lentezza<br />

alla crisi, in termini di comprensione del fenomeno e<br />

dell’adozione di strumenti per l’aggiustamento delle finanze<br />

pubbliche e per la crescita e lo sviluppo. Ciò, a ben guardare,<br />

rischia di incrementare il fossato fra l’occidente e il<br />

resto del mondo, lasciando la nostra parte del mondo in<br />

balìa del mare periglioso di una globalizzazione non governata<br />

politicamente, nel cambiamento radicale degli equilibri<br />

di forza globali. La tappa del trattato di Lisbona ha certamente<br />

rappresentato uno spartiacque fra la ‘vecchia’ Europa<br />

ed un approccio adatto, si dice, a reggere la globalizzazione,<br />

i processi del cambiamento globale che hanno cambiato e<br />

stanno cambiando profondamente il mondo.<br />

È veramente così ?<br />

Queste mie riflessioni ‘critiche’ partono dall’attualità e, in<br />

particolare, da due elementi:<br />

- l’affermarsi sulla scena del mondo di nuovi player globali;<br />

- le difficoltà del “sistema Europa”.<br />

L’Europa, a ben guardare, sembra aver smarrito la ‘passione’<br />

degli inizi, di quando i ‘fondatori’ diedero il via al<br />

grande progetto europeo per un mondo di pace. Se è vero,<br />

come è vero, che l’Europa ha rappresentato una concreta<br />

speranza per la pace (pur avendo avuto al suo interno pericolosi<br />

focolai di violenza e di conflitto, come i Balcani, non<br />

Vincenzo Scotti - Presidente <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />

europa link journal 1/<strong>2012</strong><br />

ancora del tutto spenti) essa sta mostrando limiti evidenti<br />

che, sempre più, vengono sottolineati dal fatto che l’Europa<br />

fatica ad affermarsi come ‘soggetto globale’ apparendo<br />

come la sommatoria di sovranità statuali e non invece come<br />

una realtà davvero federale in grado di esprimere la propria<br />

voce e di contribuire a decidere - a livello globale - negli ambiti<br />

politici, diplomatici, economici, finanziari.<br />

L’Europa appare piuttosto come un ‘problema’ agli occhi<br />

di un mondo che non aspetta le nostre lentezze ma che, al<br />

contrario, cavalca la crisi con decisione e con tassi di crescita<br />

che, pur nelle difficoltà, sono decisamente importanti.<br />

L’Europa resta appesa al suo passato, incapace di decidere<br />

e prigioniera del suo stesso allargamento, di fatto ingovernabile.<br />

L’Europa, per scelta strategica, ha cercato negli ultimi<br />

decenni un allargamento a nord e ad est ma, con<br />

grande miopia, ha trascurato il Mediterraneo, lasciando per<br />

troppo tempo il mare nostrum in balìa di regimi oppressivi<br />

con i quali non si sono fatti i conti politicamente e che, alla<br />

prova della storia, hanno mostrato le loro contraddizioni<br />

sotto la forte richiesta di giustizia e di libertà da parte delle<br />

popolazioni, mietendo violenze e provocando vittime come<br />

si vede ancora oggi nella evoluzione di ‘situazioni paese’<br />

particolarmente delicate.<br />

Prima il partenariato euro-mediterraneo siglato a Barcellona<br />

e poi l’Unione per il Mediterraneo non sono stati in grado<br />

di configurare il senso strategico di un rapporto necessario<br />

fra Europa e Mediterraneo.<br />

Un elemento secondo me fondamentale per costruire una<br />

solida ed efficace partnership euro-mediterranea è quello<br />

della formazione: la nostra Università, insieme ad EMUNI<br />

(l’Università euro-mediterranea), ha colto tale sfida e, da<br />

tempo, lavora per costruire un network di alto livello fra Atenei;<br />

ciò non solo dal punto di vista dell’offerta formativa e


europa<br />

link journal 1/<strong>2012</strong> 23<br />

dello scambio di studenti e docenti ma, soprattutto,<br />

come occasione e possibilità di incontro, di confronto e<br />

di dialogo fra differenti tradizioni culturali e religiose.<br />

Tale lavoro, altresì, diventa importante per permettere<br />

uno sviluppo equilibrato dell’area euro-mediterranea, offrendo<br />

possibilità di sviluppo e di occupazione soprattutto<br />

per le giovani generazioni che, legittimamente,<br />

chiedono concrete speranze di futuro. Intorno alla costruzione<br />

euro-mediterranea che, lo ricordo, è la chiave<br />

di volta per la pace globale, si fa molta retorica anziché<br />

allargare lo sguardo ed assumere decisioni politiche; si<br />

pensi alla Turchia, gigantesco ponte fra Oriente e Occidente<br />

e Paese centrale in molte realtà del mondo arabo,<br />

che sta mettendo in discussione l’ “elefante” europeo fin<br />

dal suo significato strategico; quale Europa dobbiamo<br />

pensare e realizzare nel cambiamento globale ?<br />

Oltre alla ‘mission’ euro-mediterranea, l’Europa sta perdendo<br />

terreno nei confronti di aree del mondo fortemente<br />

proiettate in avanti e portatrici di grandi<br />

potenzialità non solo economiche e finanziarie ma anche<br />

culturali e politiche. Penso in particolare al continente<br />

latino-americano che, dopo un periodo storico particolarmente<br />

difficile, è ormai emerso nella sua realtà complessiva<br />

e nelle realtà di paesi che, come il Brasile, sono<br />

all’avanguardia globale per sviluppo e per lotta alla povertà<br />

(e non solo). Paradossi della storia:<br />

alcune analisi ci dicono che, in termini<br />

d’integrazione continentale, l’America<br />

Latina guarda al modello europeo ma con<br />

una diversa spinta propulsiva, con la voglia<br />

di superare una crisi certamente globale,<br />

costruendo – non senza problemi –<br />

le condizioni per vivere il mondo che<br />

verrà nel presente planetario.<br />

L’Europa, invece, sembra gongolarsi su<br />

ciò che è stata, inevitabilmente perdendo<br />

smalto e posizioni nella competizione globale<br />

e nel veloce cambiamento dei rapporti<br />

di forza planetari. Evito, per sintesi<br />

necessaria, di guardare alle altre parti del<br />

mondo in forte crescita ma, ancora una<br />

volta, sottolineo l’importanza strategica di<br />

Mediterraneo e America Latina, nostri<br />

ambiti di interesse particolare come Università.<br />

Per concludere torno all’Europa<br />

e, con realismo, sottolineo alcune carenze<br />

che investono il “vecchio” (in tutti i sensi)<br />

continente. L’Europa non riesce a decidere; il metodo<br />

di governance intergovernativo mostra tutti i limiti di<br />

una ‘costruzione’ che non ha anima politica e che vive<br />

prigioniera dei rapporti di forza dei diversi paesi.<br />

Le Istituzioni europee sono in un rapporto sbilanciato<br />

fra di loro; quale è, infatti, l’incidenza effettiva del Parlamento<br />

europeo che, in quanto organo eletto, dovrebbe<br />

rappresentare le istanze dei popoli europei. L’euro è una<br />

moneta unica che non è accompagnata da un sistema<br />

europeo organizzato in un fisco comune, in politiche<br />

economiche ed industriali comuni, da una Banca Centrale<br />

che agisca come prestatore di ultima istanza.<br />

Non sono un euro-scettico, tutt’altro, e credo che i ‘rigurgiti’<br />

nazionalistici esprimano posizioni anti-storiche;<br />

mentre guardo con attenzione alle motivazioni di quanti<br />

chiedono condizioni di vita ‘degne’, pur considerando<br />

la “piazza” spesse volte una cattiva consigliera, credo che<br />

nel mondo ci sia bisogno di più Europa, ma di un’Europa<br />

diversa, politica, attenta alle dinamiche planetarie.<br />

Di un’Europa che ricominci a “sognare”, che esca dalle<br />

secche burocratiche nelle quali si trova, per determinare<br />

essa stessa cambiamento anziché, come accade in questi<br />

mesi, subendolo.


24 europa link journal 1/<strong>2012</strong><br />

La grande sbornia europea è passata e dopo dieci anni<br />

di convivenza con la moneta unica, da qualche mese<br />

stiamo assistendo al suo lato ‘oscuro’, il rovescio della<br />

medaglia, quello che non avevamo ancora capito, o più realisticamente<br />

quello che sarebbe un giorno inevitabilmente accaduto.<br />

Sono sempre stato un europeista convinto sin dalla<br />

prima ora, uno di quelli che ha sempre creduto come il grande<br />

progetto d’integrazione fosse l’unica via percorribile, però<br />

devo dire con la stessa sincerità che sono estremamente deluso<br />

per come poi sono andate le cose.<br />

Perché, vedete, la moneta unica è da considerarsi in ogni<br />

caso un’idea meravigliosa, geniale, coraggiosa, ma che è stata<br />

gestita nel peggiore dei modi possibile nella sua costruzione<br />

e nella sua conduzione, per non parlare poi di come noi italiani<br />

vi abbiamo aderito.<br />

Peggio di così non sarebbe stato possibile! Ormai si può apertamente<br />

dire: al momento dell’adesione al Trattato di Maastricht<br />

abbiamo accettato tutte le imposizioni<br />

franco-tedesche, ed in particolare sottolineo le tedesche, in<br />

modo supino, senza possibilità di negoziazione, legando il nostro<br />

Paese mani e piedi a regole ed a meccanismi rivelatesi capestro.<br />

Ci siamo completamente affidati al modello<br />

economico tedesco, teso esclusivamente al contenimento<br />

dell’inflazione ed all’espansione della base monetaria, senza<br />

tenere assolutamente conto delle esigenze insite del nostro<br />

sistema paese. Il Trattato di Maastricht è la certificazione di<br />

tutto questo.<br />

L’euro allo stato dei fatti è risultato essere più uno strumento<br />

di laboratorio, concepito in qualche stanza della Bundesbank,<br />

una sorta di prodotto transgenico, geneticamente modificato,<br />

ideale per fungere da volano a pure operazioni finanziarie e<br />

favorire aggregazioni societarie, che come mezzo a supporto<br />

dell’economia reale ed alle effettive esigenze di 330 milioni di<br />

cittadini europei. Ci siamo anche accorti troppo tardi che la<br />

moneta unica doveva essere il complemento finale ad una effettiva<br />

integrazione e non il mezzo per poterla raggiungere.<br />

Un po’ come quando si mette la ciliegina sulla torta, si mette<br />

sempre alla fine. A più di vent’anni dal progetto di aggregazione<br />

monetaria ancora non c’e nulla di integrato in quest’Europa.<br />

Sistemi fiscali, amministrativi, giudiziari e soprattutto politici<br />

ancora troppo distanti, legati solamente da una moneta che<br />

chiamiamo Euro, ma che in effetti è il marco a tutti gli effetti<br />

e governato come se lo fosse. L’impianto del Trattato di Maa-<br />

Antonio Maria Rinaldi, <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />

Europa<br />

a rischio<br />

cortocircuito<br />

L’impianto del Trattato di Maastricht,<br />

ed in particolare i primi due articoli,<br />

‘condannano’ le economie dei Paesi meno<br />

virtuosi, a rincorrere numeri storicamente<br />

non favorevoli.


link journal 1/<strong>2012</strong> europa<br />

25<br />

stricht, ed in particolare i primi due articoli, ‘condannano’<br />

le economie dei Paesi meno virtuosi, ed<br />

in primis il nostro, a rincorrere numeri storicamente<br />

non favorevoli. Tutta l’architettura per la<br />

nascita della nuova moneta e per il suo mantenimento<br />

si basa solo ed unicamente sui parametri<br />

che scaturiscono da due valori: il debito pubblico<br />

ed il Pil.<br />

Ormai da molto tempo il Pil non è più considerato<br />

un indicatore corretto per determinare la capacità,<br />

la forza di una nazione e le Università di<br />

mezzo mondo si sono cimentate in studi per definire<br />

un indicatore più realistico che tenga conto<br />

di elementi più vicini alla situazione economica di<br />

un Paese. Per il debito pubblico il discorso è<br />

molto più complesso. Per prima cosa, la parola<br />

debito per Maastricht e successivo Patto di Stabilità<br />

e Crescita, significa solo ed esclusivamente la<br />

somma dei deficit pubblici accumulati, ma non la<br />

situazione debitoria aggregata e reale di ciascun<br />

Paese. Cosa vuol dire? Vuol dire semplicemente<br />

che per i tecnici di Maastricht una nazione come<br />

l’Olanda è da considerare un Paese fra i più virtuosi,<br />

visto che il famoso rapporto debito pub-<br />

blico/Pil è molto vicino al 60%, per l’esattezza al<br />

63%, ma se aggiungiamo anche il debito detenuto<br />

dalle imprese pari al 96% del Pil e a quello delle<br />

famiglie pari al 74%, questo rapporto aggregato<br />

sale ad un più realistico 233%! Continuando in<br />

questo esercizio di riclassificazione, ci accorgiamo<br />

che l’Irlanda conquista il primo posto assoluto<br />

con un drammatico 316% (96%+133%+87%),<br />

eppure sempre per Maastricht il suo rapporto debito<br />

pubblico/Pil pari al 96%, nudo e crudo, non<br />

preoccupa più di tanto come invece quello italiano<br />

o greco. Ed ancora la Germania sfora il<br />

190%, sommando 83% + 47% + 60%, l’Italia arriverebbe<br />

al 221% con 118,6%+71%+32%, scendendo,<br />

dal secondo posto attuale, al settimo. La<br />

Francia al 184% sommando 82% + 52% + 50%.<br />

(Dati elaborati da Standard & Poor’s).<br />

Però il problema unico per Maastricht risiede solo<br />

ed unicamente nell’entità dei debiti pubblici, come<br />

se i debiti detenuti dalle imprese e dalle famiglie<br />

non fossero un altrettanto enorme problema,<br />

visto che gravano essenzialmente sul sistema bancario,<br />

il quale abbiamo visto poi essere sempre assistito<br />

prontamente con rapidi e generosissimi, e<br />

a volte silenziosi, aiuti statali. I tecnici di Bruxelles-Francoforte<br />

non ci hanno pensato a questa<br />

più ovvia, equa e realistica visione o ha fatto comodo<br />

a qualcuno questa dimenticanza? Ma soprattutto<br />

è possibile che nessuno dei nostri tanti<br />

rappresentati-negoziatori, che si sono avvicendati<br />

ai tavoli delle trattative, si sia mai rovinato i pugni<br />

sul tavolo per farlo presente agli altri ‘distratti’<br />

partners? L’attuale Patto di Stabilità e Crescita è<br />

rispettato solamente dal Lussemburgo, Finlandia<br />

e dalla new entry Estonia, e dai paesi ancora non<br />

euro dotati come Danimarca e Svezia, che mi risultano<br />

non essere mai stati troppo euroforici.<br />

E’ sulle caratteristiche di questi Paesi che abbiamo<br />

costruito l’intera unità monetaria? Altro elemento<br />

incomprensibile del Trattato stesso risiede nel<br />

fatto che ognuno deve gestire in proprio il debito<br />

pubblico, ma con politiche monetarie dettate<br />

esclusivamente e solo dalla B.C.E. Ora visto che<br />

il Trattato individua (secondo articolo) nel 60% il<br />

Maastricht<br />

Il Pil non è<br />

più considerato<br />

un indicatore<br />

corretto<br />

per determinare<br />

la capacità,<br />

la forza<br />

di una nazione


26 europa link journal 1/<strong>2012</strong><br />

limite massimo tollerabile del rapporto debito<br />

pubblico/Pil, sarebbe stato più logico,<br />

più credibile, che i titoli rappresentativi il<br />

debito pubblico di ciascuna nazione, fino<br />

al concorso per l’appunto del 60% in relazione<br />

al proprio Pil, fossero stati solidali,<br />

cioè garantiti da tutti i Paesi membri. Una<br />

sorta di Eurobond iniziale, titoli con il bollino<br />

blu di garanzia europea, uno zoccolo<br />

comune di debito pubblico, mentre l’eccedenza<br />

del 60% di ciascun Stato, sarebbe<br />

stato gestito autonomamente con precise<br />

e rigide regole. Certo da questa decisione<br />

ne avrebbero tutti tratto un vantaggio in<br />

termini di tassi più bassi, tranne naturalmente<br />

Germania e forse i virtuosi Lussemburgo,<br />

Finlandia ed ora Estonia,<br />

ritrovandosi a garantire in solido un monte<br />

titoli a tassi medi sicuramente più alti dei<br />

propri. Sarebbe stato un messaggio fortissimo<br />

al mondo e ai mercati finanziari sulla<br />

solidità e credibilità del progetto europeo.<br />

E non ognuno per sé e Dio per tutti come<br />

ora avviene, anche perché il risultato di<br />

questa mancata realizzazione è la creazione<br />

tardiva di strumenti come i vari<br />

Fondi Salva Stati, i cui esiti e costi sono ora<br />

molto più onerosi e incerti rispetto all’ipotesi<br />

sopra esposta. E poi che significato<br />

hanno questi Fondi Salva Stati? Infatti<br />

questi strumenti sono alimentati quota<br />

parte da tutti, Italia compresa, con la liquidità<br />

proveniente da emissioni di titoli pubblici.<br />

Praticamente si contraggono ulteriori debiti<br />

aumentando ancora di più le entità dei<br />

debiti pubblici per finanziare un fondo per<br />

comprare i titoli pubblici di Paesi in difficoltà.<br />

Un cortocircuito, una catena di<br />

S.Antonio in cui si fanno debiti per comprare<br />

altri debiti, drenando ulteriore liquidità,<br />

linfa vitale a supporto del sistema<br />

creditizio di Eurolandia. Ma chi le pensa<br />

queste cose? Non farebbero prima a stampare<br />

cartamoneta? Perché il problema è<br />

proprio questo. La Banca Centrale Europea<br />

è l’unica Banca Centrale al mondo a<br />

non avere il ruolo di prestatore di ultima<br />

istanza, cioè non contempla nei suoi regolamenti<br />

la possibilità di essere l’ultimo soggetto<br />

disposto, in caso di necessità di<br />

finanziamento di uno Stato, a mettere<br />

mano al portafoglio, creando per l’appunto<br />

cartamoneta. Lo erano tutte le Banche<br />

Centrali Nazionali dei Paesi pre-euro,<br />

Banca d’Italia compresa, e non si capisce<br />

come la fobia tedesca sulle paure inflattive<br />

e sul contenimento della base monetaria<br />

abbia avuto la meglio. Ma ci siamo mai<br />

chiesti perché è avvenuto tutto questo?<br />

Tutto è scaturito da una intesa, da un ‘baratto’<br />

fra la Francia di Mitterand e la Germania<br />

di Kohl dopo la caduta del Muro di<br />

Berlino. La Francia disponibile al nullaosta<br />

per la riunificazione in cambio di una forte<br />

integrazione economica anche monetaria.<br />

Il marco stava alla Germania come la<br />

bomba atomica nell’armamento militare<br />

francese.<br />

Questa è la ragione perché è sempre esistito<br />

un direttorio di fatto franco-tedesco<br />

sulla conduzione delle problematiche relative<br />

alla moneta unica, che ha sovrastato<br />

in ogni occasione le condivise istituzioni<br />

europee preposte, lasciando spazi decisionali<br />

sempre più ridotti, se non nulli, agli<br />

altri Paesi. Speranze per il futuro? Solo se<br />

si riuscirà finalmente a ‘piegare’ le arroganze<br />

teutoniche e riscrivere le regole per<br />

il mantenimento della moneta unica, unitamente<br />

alla ridefinizione dei compiti e<br />

delle mansioni della Banca Centrale con<br />

parametri più vicini alla realtà delle economie<br />

di tutti i Paesi, l’eurozona riconquisterà<br />

il grande ruolo che ci era stato<br />

promesso ed a cui abbiamo sempre fortemente<br />

creduto.<br />

In alternativa i Paesi ‘periferici’, con l’Italia<br />

in testa, continueranno a rincorrere sempre<br />

con più ampia difficoltà i dettami di<br />

Maastricht, ‘sparametrando’ eternamente<br />

gli unici numeri che oggi formalmente legano<br />

l’Europa.


link journal 1/<strong>2012</strong><br />

Crisi finanziaria e debiti sovrani<br />

Rivedere le regole<br />

e i sistemi di vigilanza<br />

La Grande Crisi Finanziaria avviatasi nel 2007, trasformatasi<br />

in crisi degli emittenti sovrani nel corso dell’ultimo<br />

biennio, si è contraddistinta rispetto alle<br />

numerose crisi economiche, finanziarie e valutarie del passato<br />

sotto diversi profili. Da un lato, la forte integrazione a livello<br />

globale dei sistemi finanziari ha dimostrato che oggigiorno<br />

nessun Paese e nessun segmento del sistema finanziario può<br />

essere considerato immune rispetto ad eventi che si ingenerano<br />

in contesti molto remoti, apparentemente poco rilevanti.<br />

La portata sistemica delle interrelazioni tra intermediari, mercati<br />

e strumenti di diversi Paesi è andata ben oltre le aspettative<br />

di qualsiasi modello teorico o scenario elaborato dalle<br />

Autorità di vigilanza.<br />

In secondo luogo, la crisi, proprio per la sua portata globale<br />

e sistemica, ha imposto interventi molto significativi, sia in<br />

termini di onerosità delle politiche e degli strumenti utilizzati,<br />

sia per quanto attiene all’originalità di talune scelte di policy.<br />

Vi è unanimità di vedute circa il fatto che le risposte monetarie<br />

e fiscali alla crisi determineranno effetti di lungo periodo, difficili<br />

da prevedere appieno. In tale contesto, appare opportuno<br />

delineare sinteticamente quali possano essere le più significative<br />

linee di azione per scongiurare il verificarsi di episodi simili<br />

in futuro. Per facilitare la trattazione, suddividiamo le<br />

criticità strutturali, riscontrabili in precedenza ed a prescindere<br />

dall’attuale crisi, dalle problematiche contingenti, che potrebbero<br />

acuire le difficoltà in cui versano attualmente i sistemi<br />

economici e finanziari.<br />

Con riguardo ai profili strutturali, appare opportuno stigmatizzare<br />

gli squilibri strutturali di lungo periodo che hanno caratterizzato<br />

alcune economie negli ultimi anni. Si fa<br />

riferimento, in primo luogo agli Stati Uniti, laddove i disequilibri<br />

della bilancia dei pagamenti e l’elevata propensione all’indebitamento<br />

delle famiglie, a prescindere dalla capacità di<br />

credito e di rimborso, sono stati oltremodo tollerati, se non<br />

incentivati, dalla Federal reserve e dai policy makers. Un maggior<br />

rigore ed una maggiore aderenza delle politiche monetarie<br />

ai “fondamentali” dell’economia, non soltanto negli USA,<br />

europa<br />

Gianfranco A. Vento e Gisela C. Vecchio, <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />

appaiono d’uopo se si vogliono evitare ulteriori crisi dai costi<br />

sociali e privati imprevedibili. Per altro aspetto, nel contesto<br />

europeo le recenti spirali ribassiste innescate dagli squilibri<br />

delle finanze pubbliche prima in Grecia, e poi nei Paesi dell’europa<br />

meridionale, impongono una riflessione attenta sulla<br />

necessità di tornare a dare impulso ad un disegno di un governo<br />

europeo dell’economia. Tale ambizioso progetto, rimasto<br />

incompiuto all’indomani della realizzazione dell’Unione<br />

economica e monetaria, risulta quanto mai attuale e cogente<br />

non soltanto in una prospettiva “difensiva”, nella misura in<br />

cui favorirebbe la realizzazione di politiche fiscali coerenti e<br />

consistenti a livello europeo, ma anche perché, ad avviso di<br />

molti, fornirebbe una percezione di maggiore “solidità” all’area<br />

dell’euro, favorendo l’afflusso di investimenti verso la<br />

stessa area e sostenendo la diffusione internazionale delle attività<br />

finanziarie denominate nella moneta unica. Infine, la<br />

realizzazione di un sistema finanziario maggiormente resiliente<br />

non può prescindere da una revisione delle regole e<br />

delle prassi di vigilanza. In tale ambito, a fianco di un insieme<br />

di nuove regole tese a ridurre la probabilità di insolvenza di<br />

un singolo intermediario, si sta facendo largo una visione macroprudenziale<br />

della vigilanza, finora trascurata, in base alla<br />

quale le autorità devono monitorare e prevenire anche gli effetti<br />

sistemici, nella consapevolezza che le crisi di singoli intermediari<br />

rappresentano eventi fisiologici nel sistema<br />

finanziario. Tuttavia, le regole da sole non garantiscono la stabilità<br />

del sistema finanziario; è necessario che esse siano applicate<br />

in maniera coerente e trasparente a livello globale. Al<br />

riguardo, a fianco delle numerosissime ipotesi di riforme attualmente<br />

dibattute, si ritiene che un impegno di maggiore disclosure<br />

da parte di tutte le autorità di vigilanza circa le<br />

politiche e le logiche sottostanti il proprio operato possa ingenerare<br />

una positiva social pressure, analogamente a quanto<br />

avviene per gli intermediari finanziari oggi sottoposti alla disciplina<br />

di mercato.Con riferimento alle criticità contingenti<br />

ed al loro potenziale impatto sulla stabilità del sistema finanziario<br />

negli anni a venire, è evidente come politiche monetarie<br />

e fiscali largamente espansive, quali quelle sopra accennate,<br />

ingenerano effetti distorsivi sull’economia, ad esempio alterando<br />

le decisioni di investimento, favorendo l’assunzione di<br />

maggiori rischi e determinando ingenti movimenti di capitale.<br />

Appare, quindi, opportuno un maggiore sforzo nel rafforzamento<br />

della cooperazione internazionale con i Paesi “emergenti”,<br />

nel coordinamento delle politiche economiche e nella<br />

condivisione delle regole e delle pratiche di vigilanza, nella<br />

consapevolezza che nell’eventualità di una nuova crisi, nessun<br />

soggetto economico può considerarsi immune.<br />

27


28<br />

“... dimostraste che la Patria non era morta. Anzi, con la vostra decisione,<br />

ne riaffermaste l’esistenza. Su queste fondamenta risorse l’Italia!<br />

I combattenti dell’isola dimenticata<br />

L’importanza della memoria<br />

come radice dell’identità europea<br />

Lo scorso 17 <strong>marzo</strong> il Presidente della Repubblica,<br />

Giorgio Napolitano, parlando davanti alle Camere riunite<br />

ha aperto la solenne celebrazione per i 150 anni<br />

dell’Unità d’Italia, ripercorrendo brevemente la storia della<br />

nostra giovane democrazia. Si è soffermato sul Risorgimento,<br />

ma anche sul periodo della seconda guerra mondiale e della<br />

Resistenza, indicandola come momento fondante sia della<br />

nuova Repubblica Italiana, che del percorso che nel giro di<br />

pochi anni avrebbe portato alla creazione della Comunità Europea.<br />

Nel 1944 venne fondato clandestinamente a Milano il<br />

Movimento federalista europeo, che sotto la spinta di Altiero<br />

Spinelli strinse contatti con gruppi di resistenti in varie nazioni<br />

d’Europa occupate dai nazisti, e iniziò la formazione politica<br />

di personaggi come Alcide De Gasperi, Konrad Adenauer e<br />

Robert Schuman. Questi ultimi, tutti cattolici, oppositori del<br />

totalitarismo e convinti europeisti, nel secondo dopoguerra si<br />

fecero promotori della creazione di una nuova Europa che<br />

fosse in grado di superare le fratture e gli odi di un conflitto<br />

Andrea Villa, <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />

europa link journal 1/<strong>2012</strong><br />

che l’aveva prostrata. Nonostante la centralità di tale periodo<br />

per la storia contemporanea va purtroppo evidenziata la persistenza<br />

di lacune e dimenticanze nella memoria collettiva e<br />

nella ricerca storiografica. In particolare a lungo è stato dimenticato<br />

il contributo di tanti militari italiani che, mantenendo<br />

fede al giuramento prestato, rifiutarono di arrendersi<br />

ai nazisti e morirono combattendo, non soltanto in Italia ma<br />

anche nei Balcani, in Corsica, nelle isole dell’Egeo e in altre<br />

località lontane presidiate dalle nostre truppe.<br />

Nel 2001 l’allora Capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi, si<br />

recò a Cefalonia per rendere omaggio alla Divisione Acqui e<br />

ne celebrò il sacrificio con queste parole: «dimostraste che la Patria<br />

non era morta. Anzi, con la vostra decisione, ne riaffermaste l’esistenza.<br />

Su queste fondamenta risorse l’Italia».<br />

Eppure diverse pagine di questa storia sono finite nel dimenticatoio<br />

e rimangono pressoché sconosciute ai più, a cominciare<br />

dalle vicende del presidio italiano sull’isola di Lero dove<br />

si verificò uno dei primi episodi di resistenza militare ai tedeschi<br />

e dove, per la prima volta, le truppe italiane e britanniche<br />

iniziarono a collaborare.<br />

Lero, isola dalle alte coste frastagliate che si trova di fronte<br />

alla Turchia, apparteneva all’Italia dal tempo della guerra italoturca<br />

del 1912 ed era stata annessa direttamente al Regno.<br />

Sfruttandone le insenature, simili a laghi circondati da alture,<br />

Mussolini aveva deciso di stabilirvi la più importante base aeronavale<br />

del Mediterraneo Orientale.<br />

Nella baia di Lakki, sulla costa occidentale, vennero create ex<br />

novo istallazioni in grado di ospitare idrovolanti e sommergibili<br />

e una città dotata di palazzine, torri civiche, un teatro e un palazzetto<br />

dello sport progettati dagli architetti Petracco e Bernabiti,<br />

secondo i canoni del Razionalismo. Nell’estate 1943 la<br />

base era presidiata da circa ottomila soldati italiani, tra ma


europa<br />

link journal 1/<strong>2012</strong> 29<br />

rinai, fanti e avieri. Dopo l’Armistizio dell’8 settembre e la<br />

capitolazione di Rodi e Kos, Lero, per la sua importanza strategica,<br />

divenne l’obiettivo primario dei tedeschi e degli inglesi:<br />

questi ultimi il 12 settembre vi sbarcarono in fretta e furia un<br />

contingente di un migliaio di uomini.<br />

Dal 26 i cacciabombardieri della Luftwaffe iniziarono cicli<br />

quotidiani di attacchi per colpire le postazioni di artiglieria sui<br />

monti, le batterie costiere ma anche i porti e le città, provocando<br />

ovunque distruzioni e morte. Dopo un mese di bombardamenti<br />

aerei i villaggi, le caserme, i campi, le colline erano<br />

sconvolti dalle esplosioni, la terra era disseminata di crateri e<br />

i difensori erano stremati. Il 12 novembre scattò l’attacco decisivo<br />

che ebbe culmine nello sbarco di un convoglio navale<br />

tedesco proveniente da Kos.<br />

Nel pomeriggio dello stesso giorno alcuni aerei da trasporto<br />

Ju52 sganciarono da bassa quota 500 paracadutisti, la metà<br />

dei quali perì ancor prima di toccare terra. Un secondo lancio<br />

consentì ai tedeschi di occupare il centro dell’isola, tagliando<br />

in due il sistema difensivo approntato da italiani e inglesi, i cui<br />

ufficiali peraltro faticavano a comprendersi e a collaborare. Si<br />

scatenarono scontri isolati che videro numerosi episodi di<br />

eroismo, testimoniati dall’impressionante numero di riconoscimenti<br />

concessi ai difensori: sette Ori al V.M., sessantacinque<br />

Argenti e numerose medaglie di bronzo. Gli italiani<br />

ebbero trecento caduti; dodici ufficiali furono fucilati dai tedeschi<br />

dopo la resa, per rappresaglia; gli ammiragli Mascherpa<br />

e Campioni vennero consegnati ai fascisti che con un processo<br />

farsa li condannarono a morte nel maggio 1944; mentre<br />

centinaia di prigionieri furono avviati alla deportazione nei<br />

Lager nazisti. L’Università <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> ha avviato una ricerca<br />

negli archivi italiani e inglesi per ricostruire la vicenda,<br />

che ha già offerto singolari risultati: tra tutti, il fatto che le lettere<br />

scritte dai soldati italiani e abbandonate sull’isola sono<br />

state salvate e conservate da cittadini greci che prima della<br />

guerra avevano frequentato le scuole, gestite dalle suore missionarie,<br />

e conosciuto le numerose famiglie di civili italiani che<br />

vivevano nei pressi della base.<br />

Un’altra importante fonte storica è rappresentata dai diari e<br />

dalle foto che numerosi tedeschi hanno di recente consegnato<br />

al piccolo museo di Lero. Si sono così avverate le parole che<br />

nel 1951 l’On. Leonetto Amadei, allora presidente della Corte<br />

Costituzionale, pronunciò incontrando i reduci dell’Egeo:<br />

«I fatti d’arme passano, i valori umani restano e sono questi che dobbiamo<br />

trasmettere ai giovani. Sull’isola era penetrata nell’animo di tutti<br />

noi l’idea forza di un domani di libertà, di progresso, di giustizia, di<br />

pace, in cui il nostro paese fosse amico degli altri, di nessun servo. Chi<br />

meglio di noi può parlare di pace, di collaborazione tra i popoli».


30<br />

Africa<br />

Il millennio urbano<br />

dei popoli africani<br />

Il 39% degli africani vive nelle città e 54 di queste superano il milione di abitanti. Nel 2030 sarà oltre il 50%.<br />

Il Continente africano è, rispetto all’estensione,<br />

un territorio che offre ancora ampi<br />

spazi per futuri insediamenti. I calcoli proiettici<br />

indicano che nel 2050 la popolazione africana<br />

raggiungerà 1miliardo e 850 milioni di<br />

abitanti. Ma quali sono, oggi, le tendenze di mobilità<br />

all’interno delle singole nazioni? I dati rilevano<br />

una costante, e in molti casi forte,<br />

emigrazione che si registra dalle campagne alle<br />

città. Ciò lascia presagire che nel prossimo futuro<br />

l’inurbazione e la crescita della popolazione<br />

andranno di pari passo. L’odierna analisi<br />

rileva che le moderne città africane si sono sviluppate<br />

su preesistenti insediamenti coloniali<br />

generando all’interno dei centri urbani una<br />

commistione di stili, anche architettonici, che<br />

danno vita ad una ‘africanizzazione’ di un tessuto<br />

urbano che in epoca coloniale si è sempre<br />

cercato di evitare. La paura di eventuali rivolte<br />

favoriva una emigrazione stagionale e non la<br />

stanzialità delle persone.<br />

L’attuale fenomeno migratorio verso le città,<br />

non potendo più essere impedito, porta con sé<br />

le tensioni che tutt’ora sussistono tra zone rurali<br />

e zone urbane, provocando, non di rado, fenomeni<br />

di rivolta se non favorendo, in alcuni casi,<br />

veri e propri colpi di Stato. L’urbanizzazione è<br />

un fenomeno irreversibile ma al momento le<br />

strutture sociali, sanitare e amministrative di<br />

gran parte degli Stati non sono in grado di favorire<br />

una integrazione tranquilla e programmata.<br />

Quella che noi nel nostro continente<br />

abbiamo definito ‘la fuga dalle campagne’ racchiude<br />

in se, anche per l’Africa, la motivazione<br />

della migrazione: la povertà. I nuovi cittadini<br />

non sono più pendolari ma sono divenuti stanziali<br />

senza, nella maggior parte dei casi, aver<br />

rotto i legami con la campagna d’origine, con<br />

la quale mantengono un forte legame tradizionale<br />

e di supporto economico. Ciò, però, genera<br />

l’impoverimento umano delle campagne<br />

con la conseguente perdita della forza lavoro.<br />

In molti casi il ricongiungimento dei nuclei familiari<br />

fa il resto. Ma questo inurbamento non<br />

Osservatorio Africa - <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />

internazionale link journal 1/<strong>2012</strong><br />

La maggior parte delle capitali africane<br />

si sviluppa nelle sedi delle vecchie città portuali di<br />

epoca coloniale. Alcuni Paesi hanno iniziato<br />

la costruzione di nuove ‘capitali’ poste al centro<br />

del territorio nazionale: tra queste la Nigeria, la<br />

Tanzania e la Costa d’Avorio.<br />

Attualmente gli stati africani, compreso il Sud<br />

Sudan, sono 54, con una popolazione complessiva<br />

di oltre 980 milioni di abitanti.<br />

è facilitato da un piano urbani-stico razionale<br />

né da una programmazione amministrativa;<br />

molti di questi nuovi immigrati si collocano alla<br />

periferia delle città, dove coltivano micro appezzamenti<br />

per sopperire alla nuova povertà urbana<br />

generando insediamenti privi di qualsiasi struttura<br />

igienicio-sanitaria. Molti scappano dalle<br />

campagne per motivi ambientali e sanitari e alcuni<br />

di questi trasmettono le malattie contratte<br />

altrove, nelle nuove realtà urbane. La nuova urbanizzazione,<br />

quindi, ha due aspetti: il primo<br />

che permette una maggiore qualificazione e<br />

specializzazione, soprattutto tecnologica, a fasce<br />

della popolazione sempre più ampie favorendo<br />

una diversificazione dell’economia. Il secondo,<br />

non potendo tutti seguire la strada della qualificazione<br />

genera una forte disoccupazione urbana<br />

raggiungendo elevati livelli di degrado. L’emarginazione<br />

provoca il fenomeno dell’aggregazione<br />

‘etnica’ o ‘tribale’ e le periferie sono un<br />

mosaico di culture e tradizioni assai diverse. Nonostante<br />

questi aspetti preoccupanti, ma che<br />

rientrano in uno sviluppo economico non programmato,<br />

le città africane sono un continuo laboratorio<br />

in cui, grazie agli investimenti stranieri<br />

e alla realizzazione di infrastrutture, si offrono<br />

opportunità di lavoro crescenti.<br />

Questa crescita, anche per l’innalzamento della<br />

media scolastica, favorisce l’affermazione, seppur<br />

oggi minoritario, di un ceto economico<br />

emergente, definibile ‘ceto medio’, che opera<br />

nel commercio e nei servizi offrendo possibilità<br />

di lavoro ai nuovi arrivati. La prossima sfida sarà<br />

quella di stabilizzare il fenomeno migratorio eliminando<br />

la precarietà e offrendo la possibilità<br />

di integrare le tante forze che attendono di essere<br />

impiegate. L’Unione Europea e l’Unione<br />

Africana collaborano attivamente alla soluzione<br />

dei problemi con investimenti mirati, anche in<br />

infrastrutture, ma, ripetendosi una storia a noi<br />

conosciuta, i problemi potranno essere portati<br />

a soluzione con l’aiuto di tutti gli Stati e, soprattutto,<br />

attraverso lo studio e la ricerca del mondo<br />

accademico e intellettuale europeo...


link journal 1/<strong>2012</strong> internazionale<br />

31<br />

Lo scenario mondiale tra globalizzazione e frantumazione<br />

necessita di una diversa interpretazione della<br />

convivenza nella città europea.<br />

Lo scenario mondiale è contrassegnato da profondi e rapidi<br />

processi di globalizzazione e frantumazione le cui conseguenze<br />

presentano un’incognita sull’assetto futuro dell’umanità.<br />

Siamo spettatori di una crisi epocale dell’economia<br />

mondiale, dell’ecologia mondiale e della politica mondiale<br />

che, unite alla mancanza di una visione completa per prevedere<br />

e progettare scenari di composizione sociale, suscita<br />

preoccupazioni profonde perché non consente di far fronte<br />

a diversi macroproblemi: l’interdipendenza economica globale,<br />

la diffusione delle nuove tecnologie info-telematiche,<br />

le questioni dell’urbanizzazione, quelle del nomadismo e<br />

quindi della città sempre più multietnica e multiculturale.<br />

Tutto ciò ha creato un problema senza precedenti: un universo<br />

globalmente costituito dal convergere di popoli, religioni,<br />

culture diversissime e uno spazio globale governato<br />

sempre dalle stesse leggi economiche, dagli stessi meccanismi<br />

e dagli stessi ritmi.<br />

Ma a questo spazio globale, come fa osservare Corrado Beguinot<br />

da diversi anni nelle sue approfondite pubblicazioni,<br />

non corrisponde una comunità globale, con le gravi conseguenze<br />

del disagio urbano e dell’insicurezza crescente. La realtà<br />

di oggi fa emergere l’esistenza di un sesto continente<br />

formato da uomini e donne che solcano i mari e gli oceani<br />

lasciando la loro terra in cerca del miglior vivere, in cerca di<br />

un po’ di dignità.<br />

Questo fenomeno è sicuramente la conseguenza di grandi<br />

squilibri a livello mondiale non solo in termini di ricchezza<br />

ma anche di assenza di democrazia e di diritti che la globalizzazione<br />

accelera e, in alcuni casi, esaspera: l’80% della po-<br />

Stefania Lazzari Celli - <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />

Un nuovo<br />

umanesimo<br />

per la futura città<br />

interetnica<br />

polazione del mondo consuma il 20% delle risorse e il restante<br />

20% - da solo - consuma l’80% delle risorse: questa<br />

differenza abissale mette in moto un meccanismo di crisi<br />

profonda delle popolazioni indigenti alla ricerca della sopravvivenza<br />

e della difesa dalla morte per fame e sete generando<br />

un fenomeno migratorio di proporzioni enormi.<br />

Questo mutamento profondo, osserva sempre Beguinot,<br />

porterà come conseguenza al fenomeno del meticciato; fenomeno<br />

che per alcuni rappresenta una risorsa mentre per<br />

altri costituisce un problema: di conflittualità, di disagio urbano,<br />

di forme deteriori della vita associata - tra cui il terrorismo<br />

e l’esasperazione delle differenze o il non rispetto delle<br />

differenze, di immigrazione accolta come emarginazione,<br />

come ghettizzazione.<br />

La città europea è stata sempre una città cosmopolita ma in<br />

passato lo è stata soprattutto nella sua classe dirigente: dai<br />

banchieri, ai produttori, agli scienziati, ai ricercatori. Oggi il<br />

fenomeno non è più questo; è, invece, quello della presenza<br />

di persone che cercano un lavoro, una speranza di vita e che<br />

sono colpiti dalle forme di benessere, spesso fittizio, che i<br />

mezzi di comunicazione di massa trasmettono e trasferiscono<br />

nei loro Paesi.<br />

Un problema terribilmente più complesso di quello del dialogo<br />

tra i popoli che vivono lontani: questa volta si tratta<br />

della convivenza di uomini che sono nello stesso palazzo,<br />

nello stesso quartiere, nella stessa piazza.<br />

I mutamenti sociali conseguenti ai grandi movimenti migratori<br />

dal sud verso il nord del mondo stanno - di fatto - cambiando<br />

le grandi città europee, all’interno delle quali si<br />

trovano a convivere cittadini di differenti etnie, culture e religioni.<br />

E questo pone il problema di come organizzare -<br />

nella città dei diversi - una coesistenza civile nel rispetto delle


32<br />

differenze e nella assoluta difesa delle peculiarità etniche.<br />

Il disagio urbano attuale che noi percepiamo in diverse città<br />

europee costituisce un segnale che dà ragione a quella parte<br />

di intellighenzia che considera il fenomeno dello stare insieme<br />

tra diversi un problema. Va sostenuta,<br />

invece, l’idea del fenomeno<br />

come una risorsa in grado di dare<br />

una prospettiva di sviluppo al vecchio<br />

continente, ma solo nella misura<br />

in cui si riesca a ridisegnare la<br />

città per renderla adeguata a questa<br />

nuova esigenza dello stare assieme<br />

tra diversi.<br />

Il compito affidato agli urbanisti, agli<br />

esperti di pianificazione territoriale,<br />

ai manager della città interetnica, è -<br />

allora - quello di studiare le trasformazioni<br />

non per subirle ma per progettarle<br />

e governarle. Per far questo<br />

occorre prima di tutto partire da un<br />

atteggiamento in cui la trasformazione<br />

deve essere vissuta come progresso,<br />

come qualcosa in cui si vuole<br />

intervenire pensando al futuro.<br />

D’altro canto, dalle origini, il mestiere<br />

di pianificatore è esattamente<br />

quello di pensare al futuro; l’esperto<br />

di pianificazione era un personaggio<br />

che, nel recente passato, cercava di<br />

capire le contraddizioni della società<br />

industriale di allora per risolvere il<br />

tema del rapporto città-campagna e<br />

delle forti migrazioni dalla campagna<br />

verso la città e quindi dei problemi<br />

connessi. La nuova figura professionale<br />

del manager della città interetnica<br />

mostra un parallelismo<br />

incredibile anche se le nostre campagne<br />

non sono più vicino a noi ma<br />

sono lontane, in altre nazioni.<br />

Le nostre città vivono del beneficio<br />

di campagne molto lontane e del<br />

contributo di altre etnie che vi si stabiliscono.<br />

La città che dobbiamo stu-<br />

internazionale<br />

link journal 1/<strong>2012</strong><br />

diare allora è quella che sta tra la città compatta e quella che<br />

forse è ancora campagna perché è lì che vive la popolazione<br />

attiva autoctona e straniera. Se quello è il luogo ignoto perché<br />

non è così indagato, quella è la nuova città che dobbiamo<br />

andare a vedere e nella quale dobbiamo<br />

costruire nuovi spazi pubblici<br />

sulla base della osservazione su<br />

come i nostri giovani e gli atri li<br />

usano. Da qui dovremo fare un confronto<br />

andando ad osservare le città<br />

di provenienza proprio per capire<br />

cosa significa vivere in una città dove<br />

tutti sono di un altro colore e vi sono<br />

condizioni di vita diverse. Se le migrazioni<br />

sono un dato strutturale e<br />

non emergenziale, l’inasprimento<br />

delle politiche di frontiera allungherà<br />

solo i percorsi di arrivo aumentando<br />

i costi umani ma non contribuirà<br />

certamente a fermare le grandi migrazioni.<br />

Ne consegue che il problema<br />

è che se vogliamo governare<br />

il fenomeno e trarne dei vantaggi c’è<br />

una grande battaglia culturale da fare<br />

contro leggi che, specie in Italia, criminalizzano<br />

l’immigrato invece di ritenerlo<br />

una componente necessaria<br />

e indispensabile per la crescita.<br />

Dobbiamo sgombrare il campo dall’ipocrisia<br />

culturale della ratio della sicurezza<br />

ai cittadini che crea più<br />

instabilità negli immigrati e ne impedisce<br />

il radicamento nel Paese; questo<br />

atteggiamento, infatti, è contraddittorio<br />

perché con la criminalizzazione<br />

dell’immigrato si crea una scissura<br />

culturale gravissima che nel tempo<br />

può portare dei problemi sociali seri.<br />

Il riscoprire un nuovo umanesimo<br />

centrato sui valori della città interetnica<br />

è la sfida del cambiamento dei<br />

prossimi anni nel quale coinvolgere<br />

oggi, domani e poi domani i nostri<br />

giovani.


link journal 1/<strong>2012</strong><br />

Aprire i mercati<br />

e rafforzare<br />

la concorrenza<br />

Il concetto di concorrenza fiscale può essere inteso come<br />

quel processo che vede gli Stati competere tra di loro al<br />

fine di attrarre investimenti, forza lavoro, capitali e, in generale,<br />

risorse, in funzione del potenziamento delle loro economie.<br />

È principio comunemente condiviso che la concorrenza fiscale<br />

può determinare, in ogni campo<br />

• un generale miglioramento qualitativo dell'intervento<br />

dello Stato;<br />

• un incremento dell'efficienza nell'erogazione dei<br />

servizi pubblici;<br />

• un livellamento verso il basso della pressione fiscale.<br />

Perché tali obiettivi possano essere raggiunti, tuttavia, la concorrenza<br />

deve essere leale e libera. Non a caso, la stessa Commissione<br />

delle Comunità europee ha riconosciuto una<br />

funzione positiva alla concorrenza fiscale quando essa agisce<br />

a vantaggio dei cittadini ed esercita una pressione al ribasso<br />

sulla spesa pubblica. Il principio di concorrenza ha una diretta<br />

relazione con quello della liberalizzazione del commercio e<br />

del mercato del lavoro. Nella recente manovra Monti (DL n.<br />

201/2011) è stato dato ancor più spazio alla liberalizzazione<br />

in materia di orari degli esercizi commerciali, chiedendo alle<br />

Regioni, in base alle loro competenze, di adeguare le proprie<br />

legislazioni a questo principio. Con l'obiettivo di promuovere<br />

la concorrenza, il suindicato decreto legge prevede interventi<br />

di liberalizzazione in alcuni comparti (esercizi commerciali,<br />

somministrazione di farmaci e trasporti), misure che ampliano<br />

i poteri dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato<br />

(AGCM), interventi di semplificazione delle procedure e per<br />

la riduzione dei tempi di realizzazione delle infrastrutture.<br />

Nel dettaglio, con le liberalizzazioni nei comparti delle farmacie,<br />

degli esercizi commerciali e dei trasporti vengono riavviati<br />

processi di riforma iniziati nella seconda metà dello scorso<br />

decennio; poteri di regolazione e monitoraggio vengono attribuiti<br />

ad Autorità indipendenti (che incorporano le Agenzie<br />

esistenti) nei comparti dell'acqua e dei servizi postali. È un<br />

percorso a cui già le manovre estive avevano dato un impulso<br />

significativo, con interventi relativi ai servizi professionali e<br />

ai servizi pubblici locali. La scelta del Governo di non intervenire<br />

immediatamente sulle questioni che riguardano la regolamentazione<br />

dei rapporti di lavoro e gli ammortizzatori<br />

sociali consentirà di raccogliere le istanze delle parti sociali.<br />

Piergiorgio Valente, <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />

economia e diritto<br />

33<br />

Interventi su queste<br />

materie sono<br />

tuttavia urgenti, in<br />

particolare per rendere<br />

possibile un<br />

accesso al lavoro<br />

da parte dei giovani<br />

più facile e sicuro e<br />

per garantire loro<br />

una non effimera progressione economica. La riforma degli<br />

ammortizzatori va inserita in una visione organica della protezione<br />

sociale ispirata a un principio ampio di sostegno, tanto<br />

per le imprese che per le famiglie. Ciò significa anche integrare<br />

gli strumenti di sostegno per coloro che perdono il lavoro con<br />

politiche attive di riqualificazione e reinserimento professionale.<br />

Dal <strong>2012</strong> è prevista la totale deducibilità dall'Ires e dall'Irpef<br />

dell'IRAP relativa alla quota imponibile delle spese per<br />

il personale dipendente e assimilato, con una riduzione di gettito<br />

stimata in 1,5 miliardi nel <strong>2012</strong>, 1,9 nel 2013 e 2,0 nel<br />

2014. Viene inoltre aumentata di 6.000 euro la deduzione dalla<br />

base imponibile dell'IRAP applicabile dalle imprese per ciascun<br />

lavoratore dipendente donna o di età inferiore a 35 anni<br />

assunto a tempo indeterminato. Tali misure, riducendo il<br />

costo del lavoro, potrebbero avere effetti positivi sulla competitività<br />

delle imprese e sulla partecipazione delle donne e<br />

dei giovani al mercato del lavoro. Anche a livello europeo e<br />

di Istituto bancario centrale tale tematica è sentita. “E' urgente<br />

che i Paesi dell'area euro attuino subito riforme strutturali tese ad aumentare<br />

la competitività, intervenendo in particolare sul mercato del lavoro<br />

e sulle liberalizzazioni”, è l'invito contenuto nel bollettino<br />

mensile della BCE. Sempre secondo quanto pubblicato nel<br />

bollettino, per accompagnare il riequilibrio dei conti pubblici,<br />

il Consiglio direttivo della BCE ha ripetutamente invocato riforme<br />

strutturali audaci e ambiziose.<br />

Procedendo di pari passo, il risanamento di bilancio e le riforme<br />

strutturali rafforzerebbero la fiducia, le prospettive di<br />

crescita e la creazione di nuovi posti di lavoro.<br />

Secondo la BCE, “Occorre dare immediata attuazione a riforme fondamentali<br />

per aiutare i paesi dell'area dell'euro ad accrescere la competitività,<br />

a promuovere la flessibilità delle loro economie e a migliorare il<br />

potenziale di crescita a più lungo termine. Gli esiti della riunione del<br />

Consiglio europeo dell'8-9 dicembre rappresentano un passo importante<br />

in questa direzione”. Sottolinea infine l’Eurotower che “le riforme<br />

del mercato del lavoro si dovrebbero incentrare sulla rimozione delle rigidità<br />

e su una più ampia flessibilità salariale. Quanto ai mercati dei<br />

beni e servizi, gli interventi di riforma dovrebbero vertere sulla piena<br />

apertura dei mercati al fine di rafforzare la concorrenza.”


34<br />

Non solo profitto<br />

Dalle azioni agli stakeholders<br />

La crisi detta nuove regole<br />

del capitalismo alla Jack Welch sembra volgere al<br />

termine: il boss della GE è stato considerato come<br />

L'era<br />

l'incarnazione dell'idea che l'unico obiettivo dell'impresa<br />

dovesse essere la massimizzazione del ritorno dell’investimento<br />

fatto dai propri azionisti. Questa idea ha dominato il<br />

business negli ultimi 25 anni, diffondendosi rapidamente in<br />

tutto il mondo fino a quando la crisi finanziaria non ha colpito.<br />

Lo stesso Welch ha espresso dubbi: “… il valore per gli azionisti<br />

è l'idea più stupida del mondo”, scrisse in un articolo e molti altri<br />

pensatori concordano sull’idea che le imprese non dovrebbero<br />

più concentrarsi solo sulla massimizzazione del valore delle<br />

azioni.<br />

Questa ossessione iniziò nel 1976, quando Jensen e Meckling,<br />

due economisti, pubblicarono un articolo sulla teoria dell'impresa<br />

ed il relativo comportamento manageriale in cui si sosteneva<br />

che l’obiettivo dell’azionista non si discostava molto da<br />

quello del manager professionista. Da allora, gli articoli accademici<br />

più citati hanno spinto per ottenere che i manager si<br />

concentrassero sulla creazione di valore per gli azionisti. Convertiti<br />

a questa fede hanno avuto poco tempo per gli altri stakeholders:<br />

clienti, dipendenti, fornitori, società civile in generale e<br />

così via. Americani e britannici, i più accessi massimizzatori del<br />

valore dell’azione hanno avuto un particolare disprezzo per il<br />

"capitalismo degli stakeholders", praticato nell’Europa continentale.<br />

Oggi si sostiene che il valore per gli azionisti dovrebbe cedere<br />

il passo al cosiddetto capitalismo orientato al cliente caratterizzato<br />

dall’attenzione delle imprese a massimizzare la soddisfazione<br />

dei clienti. Questa idea sta convertendo molti. Persino l’ Unilever,<br />

gigante dei beni di consumo, dichiara di non lavorare per<br />

l'azionista, ma per il consumatore. E’ il cliente a guidare il modello<br />

di business, e con questo si crea, di conseguenza, valore<br />

per gli azionisti. Una indagine svolta in Germania ha rilevato<br />

che la maggior parte delle imprese intervistate prevedono che<br />

seguiranno un approccio più collaborativo con i vari gruppi di<br />

stakeholder, compresi i fornitori e le istituzioni rappresentative<br />

dei lavoratori. Ed il cambiamento non si ferma qui: sono in<br />

tanti che addirittura arrivano ad assumere posizioni molto nette<br />

Giuseppe Perrone, <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />

economia e diritto link journal 1/<strong>2012</strong><br />

mettendo al primo posto fra i portatori di interessi i propri dipendenti.<br />

Possiamo allora dire che il modello ‘valore per l’azionista’ è davvero<br />

finito? Il crollo finanziario ha certamente minato due delle<br />

grandi idee ispirate da Jensen e Meckling: che la remunerazione<br />

dei top manager debba essere strettamente collegata al prezzo<br />

delle azioni delle imprese che gestiscono, e che il private equity,<br />

sostenuto da montagne di debiti, debba spingere i manager a<br />

massimizzarne il valore. Le bolle degli ultimi dieci anni nei mercati<br />

azionari e, più tardi, anche nel mercato delle obbligazioni<br />

societarie e del debito sovrano hanno evidenziato le gravi carenze<br />

di queste idee, o, almeno, del modo in cui esse sono state<br />

attuate.<br />

Il prezzo delle azioni in un dato giorno, manco a dirlo, può essere<br />

un indicatore molto errato nel definire il valore per gli azionisti<br />

nel lungo termine. Eppure la retribuzione dei boss era<br />

legata ai movimenti a breve dei prezzi delle azioni, e ciò li ha<br />

incoraggiati a lavorare per spingere in alto il prezzo delle azioni<br />

nel breve, piuttosto che a massimizzare il valore dell’impresa<br />

nel lungo periodo. Allo stesso modo, le imprese che si sono indebitate<br />

troppo durante la bolla del credito facile, approfittando<br />

di condizioni assurdamente generose, devono oggi fare tagli<br />

che distruggono valore.<br />

Ora si insiste sul fatto che non si vive di trimestre in trimestre.<br />

Un discreto numero di società sembrano mettere molto impegno<br />

sia nella gestione dei loro bilanci, che nel corteggiamento<br />

dei loro clienti. Ma questo non significa necessariamente che il<br />

concetto di valore per gli azionisti è sbagliato e che dovrebbe<br />

essere sostituito dal culto di qualche altra divinità. I due concetti<br />

non si escludono a vicenda, anzi, spesso si rafforzano a vicenda.<br />

Il valore per gli azionisti è uno dei sottoprodotti della particolare<br />

attenzione alla soddisfazione dei clienti ed al buon rapporto<br />

con i dipendenti. Per ironia della sorte gli stessi azionisti che,<br />

insieme con gli hedge fund e molti investitori istituzionali, hanno<br />

idolatrato i profitti a breve termine e gli aumenti di prezzo delle<br />

azioni devono ora influenzare il management ad avere una visione<br />

più a lungo, cambiando la governance delle aziende e selezionando<br />

capi azienda preparati in altro modo.


link journal 1/<strong>2012</strong><br />

economia e diritto<br />

La sostenibilità dei debiti sovrani<br />

e l’affidabilità dei mercati ‘volatili’<br />

Il rischio relativo al debito sovrano influenza il costo di finanziamento<br />

delle banche perché, nel momento in cui si<br />

producono perdite sul debito, aumenta la difficoltà di ottenere<br />

finanziamenti e, dunque, occorre sostenere un costo<br />

maggiore di quello precedente.<br />

Ciò accade di solito attraverso un downgrading del rating. Secondo<br />

David Morgan, responsabile del Putnam Global Financial<br />

Fund, la variazione di valore dei titoli pubblici detenuti<br />

in ampia misura dalle banche spagnole ed italiane, in particolare,<br />

ha già avuto e potrebbe avere ancor di più in futuro un<br />

impatto negativo sui loro bilanci.<br />

Nelle stime condotte da Hsbc le banche europee potrebbero<br />

trovarsi nella necessità di ricapitalizzare<br />

da un minimo di 98<br />

miliardi ad un massimo di 192<br />

miliardi.<br />

Le banche italiane e spagnole,<br />

che sarebbero le più colpite, tenendo<br />

conto delle perdite sul<br />

debito sovrano e delle regole di<br />

Basilea 3, si troverebbero a<br />

dover ricapitalizzare, rispettivamente<br />

le prime tra i 27 i 45,3<br />

miliardi e le seconde tra i 30 e<br />

i 38,5 miliardi di euro. Per Unicredit l’impegno sarebbe compreso<br />

tra i 10 e i 17 miliardi e per Intesa tra i 6 e i 12 miliardi.<br />

La ricapitalizzazione è una scelta risolutiva? La risposta non<br />

può che essere negativa intanto perché rimane insoluto il problema<br />

dell’intreccio tra bilanci pubblici e bilanci bancari. E<br />

poi perché le banche si finanziano con una serie di operazioni,<br />

come i prestiti interbancari e i depositi esteri, che hanno un<br />

costo legato all’andamento del mercato e, soprattutto, una dimensione<br />

che dipende dalla fiducia che ciascuna banca ha rispetto<br />

alle altre.<br />

La questione non è perciò soltanto quella della solvibilità dei<br />

debiti sovrani ma anche quella dell’incertezza sull’affidabilità<br />

delle operazioni da condurre in mercati assai volatili.<br />

Quest’ultimo aspetto ha un rilievo particolare rispetto alla li-<br />

Luigi Paganetto, Presidente CEIS, Università Tor Vergata<br />

35<br />

quidità del mercato.<br />

Non va mai dimenticato che il sistema bancario è quanto mai<br />

complesso e interconnesso, reso tale anche dall’operare degli<br />

intermediari non bancari e dal ruolo dei derivati.<br />

La crisi di liquidità del mercato interbancario è resa evidente<br />

dal premio al rischio che le banche esigono nel farsi reciprocamente<br />

prestiti.<br />

Nel nostro mercato la differenza tra il tasso interbancario ad<br />

un giorno e quello a tre mesi è aumentato da 30 a 90 punti<br />

base negli ultimi tre mesi. Allo stesso tempo è aumentato il<br />

ricorso al finanziamento, decisamente più costoso, via BCE.<br />

Questo scenario, nel suo complesso, indica che il sistema bancario<br />

si è trovato e si troverà<br />

assai probabilmente ad affrontare<br />

un aumento dei costi del<br />

suo finanziamento legato in<br />

generale al perdurare dell’incertezza<br />

della aspettative e, in<br />

particolare ma non solo alle<br />

esigenze di ricapitalizzazione.<br />

In questo contesto è inevitabile<br />

che i suoi problemi di efficienza<br />

tenderanno a scaricarsi,<br />

se non saranno affrontati tempestivamente,<br />

su famiglie e imprese sia in termini di credit<br />

crunch che di costo del denaro, anche se il sistema bancario<br />

prenderà atto, come già sta facendo, della riduzione della redditività<br />

della sua attività.<br />

Il debito pubblico ha raggiunto il punto di non ritorno?<br />

Il debito pubblico delle economie avanzate ha raggiunto livelli<br />

che Reinhart e Rogoff giudicano, in base alle loro stime, il più<br />

alto dalla fine della seconda guerra mondiale.<br />

Essi ritengono, come è noto, che i periodi di alto debito siano<br />

associati ad una inevitabile riduzione dello sviluppo economico.<br />

La relazione econometrica che trovano tra debito pubblico<br />

e crescita del PIL è debole finché il debito pubblico<br />

rimane al di sotto del 90% del PIL. Al di sopra di questa soglia<br />

la media della riduzione della crescita del PIL è, secondo i loro


36<br />

calcoli, decisamente maggiore dell’1%.<br />

La loro conclusione è che quando si arriva a una crisi finanziaria<br />

di queste dimensioni la fase successiva per i debiti sovrani<br />

è il default.<br />

Si tratta di una fase che, ovviamente, si cerca di evitare per gli<br />

enormi costi economici e sociali che comporta.<br />

L’alternativa è l’adozione di politiche di ‘repressione finanziaria’<br />

che consistono in interventi che ergono barriere verso<br />

l’operare dei meccanismi automatici del mercato, a cominciare<br />

dalla creazione di un mercato privilegiato per il debito nazionale<br />

attraverso l’acquisizione di quote di proprietà pubblica<br />

nel sistema bancario. La repressione finanziaria, fanno notare<br />

Reinhart e Rogoff, non vene esplicitamente dichiarata ma<br />

viene presentata sotto un ombrello più grande e protettivo<br />

come quello della ‘macroprudential regulation’.<br />

Il ruolo del debito rispetto allo sviluppo, assai poco considerato<br />

dagli economisti negli ultimi decenni, è tornato al centro<br />

dell’attenzione dopo gli eventi seguiti alla crisi finanziaria del<br />

2008.<br />

Un quadro complessivo del debito per l’insieme dei paesi<br />

Ocse mostra quanto esso sia cresciuto in complesso, soprattutto<br />

dal 1995 in poi. Il quadro evidenzia anche la circostanza,<br />

assai meno nota, del particolare aumento del debito delle famiglie<br />

e delle imprese, rispetto a quello del settore pubblico.<br />

Il risultato è,comunque, che il debito complessivo dei principali<br />

paesi Ocse si colloca su valori superiori rispetto al 300%<br />

del PIL con un picco del 450% nel caso del Giappone.<br />

Le differenze tra i paesi sono prevalentemente legate al peso<br />

relativo del debito di famiglie e imprese rispetto al debito pubblico<br />

che è dominante per la Grecia, l’Italia e il Giappone<br />

mentre per Belgio, Finlandia, Norvegia, Spagna e Svezia è il<br />

debito delle imprese a rappresentare più del 50% del debito<br />

complessivo.<br />

In Australia, Danimarca, Olanda, Portogallo, UK e Usa sono<br />

le famiglie ad essere particolarmente indebitate.<br />

La mancanza di sufficiente rigore nella spesa e nella tenuta<br />

dei conti, insieme agli effetti della crisi del 2008, ha senza dubbio<br />

favorito l’aumento del debito pubblico nella maggior parte<br />

dei paesi Ocse.È peraltro vero che la rimozione della gran<br />

parte dei vincoli che prima degli anni ‘70 limitavano i mercati<br />

finanziari e le innovazioni, tecnologiche e non, introdotte nella<br />

finanza abbiano favorito l’aumento dell’indebitamento.<br />

Allo stesso tempo l’introduzione dell’euro ha consentito a<br />

paesi europei come Spagna, Portogallo, Irlanda e Grecia di finanziare<br />

a un tasso d’interesse assai contenuto un importante<br />

processo di sviluppo che non avrebbero potuto altrimenti intraprendere.<br />

È stato così possibile finanziare un tasso di crescita<br />

dell’economia decisamente superiore alla media europea,<br />

senza dover sopportare l’onere di un premio al rischio. È<br />

economia e diritto<br />

link journal 1/<strong>2012</strong><br />

l’esatto opposto di quel che sta succedendo oggi con l’impennata<br />

degli spread rispetto al debito pubblico tedesco.<br />

Non c’è dubbio che, in principio e fino ad un certo livello, il<br />

debito sia un potente fattore di sviluppo. Il debito pubblico,<br />

in particolare, consente attraverso il trasferimento intergenerazionale,<br />

l’accrescimento del benessere delle future generazioni.<br />

Quest’ultimo si realizza con l’investimento in capitale<br />

umano e tecnologia reso possibile dalla rinuncia ad un maggior<br />

consumo di oggi.<br />

L’idea che ci sia una soglia non superabile di debito è controversa<br />

dal punto di vista teorico. Krugman sostiene che, con<br />

quest’argomento, si cerca di contrastare l’adozione di politiche<br />

espansive per combattere la disoccupazione, dimenticando<br />

che bisogna guardare alla composizione del debito. A livello<br />

interno, non solo il debito di qualcuno corrisponde al credito<br />

di qualcun altro, ma ci sono sempre alcuni operatori, imprese<br />

o famiglie, meno indebitati di altri. Quest’asimmetria tende a<br />

ridurre la domanda aggregata. Un aumento di debito pubblico<br />

che dia spazio di spesa ai meno indebitati non necessariamente<br />

riduce lo sviluppo, anzi lo può aumentare (Krugman,<br />

“Debt, Deleveraging and the Liquidity Trap, 2010). In ogni<br />

caso è fuor di dubbio che nelle economie avanzate siano all’opera<br />

tendenze demografiche che aumentando il peso degli<br />

anziani sul totale della popolazione creano pressioni crescenti<br />

sui bilanci pubblici per la spesa pensionistica e per quella per<br />

la salute. Il Giappone è il paese che si trova nella posizione<br />

più difficile ma i paesi europei e gli Usa stanno andando nella<br />

stessa direzione.<br />

Le proiezioni dei deficit pubblici secondo i trend correnti mostrano<br />

una crescita esponenziale.<br />

Anche se i paesi interessati introducessero significative correzioni,<br />

non c’è dubbio che negli anni a venire l’esigenza di<br />

una significativa azione di consolidamento fiscale non potrà<br />

essere elusa. Ciò significa realizzare avanzo primario di bilancio<br />

per i prossimi 5 anni compreso, secondo i calcoli di Cecchetti,<br />

tra il 5 e il 10% del GDP. Ci sono molte ragioni a<br />

sostegno dell’esigenza di contenere le dimensioni del debito<br />

pubblico. Quella più immediatamente evidente è l’aumento<br />

del costo del rinnovo del debito per effetto del crescente premio<br />

al rischio richiesto dai mercati.<br />

A ciò va aggiunto non soltanto l’aggravio del costo di finanziamento<br />

e, in qualche caso, la stessa sostenibilità del debito,<br />

ma anche una crescente difficoltà di mantenere immutati i servizi<br />

offerti ai cittadini dallo Stato. Nel caso in cui si voglia<br />

mantenere immutata l’offerta di servizi pubblici, la conseguenza<br />

diventa quella di un aumento della tassazione con effetti<br />

di distorsione sull’allocazione delle risorse, di<br />

spiazzamento degli investimenti privati e, in definitiva, una riduzione<br />

del tasso di crescita dell’economia.


link journal 1/<strong>2012</strong> sicurezza e intelligence<br />

37<br />

Redes criminales transnacionales<br />

que reconfiguran Estados<br />

Desde la década de los 90, cuando países de la extinguida<br />

Unión Soviética adoptaron la economía de<br />

mercado, se comenzó a hablar de un tipo de corrupción<br />

conocida como Captura del Estado. Esta corrupción<br />

sucede cuando grandes firmas legales<br />

manipulan la expedición de leyes, decretos y políticas<br />

públicas, para obtener beneficios económicos de<br />

largo plazo: licencias de funcionamiento, concesiones<br />

de explotación o exenciones tributarias, por ejemplo.<br />

Sin embargo, actualmente se cuenta con suficiente<br />

evidencia empírica para constatar que no sólo los<br />

agentes poderosos legales tienen interés en capturar<br />

el Estado.<br />

En países con intensa presencia de Redes Criminales<br />

Transnacionales (RCTs), especialmente influenciadas<br />

por el narcotráfico, los agentes ilegales<br />

también capturan y reconfiguran instituciones. Así,<br />

se ha constatado que las RCTs pueden usar mecanismos<br />

democráticos formales para infiltrar todos<br />

los niveles y ramas de la administración pública.<br />

Luego, en una etapa avanzada, esa infiltración se<br />

puede transformar en colaboración de doble vía, en<br />

cooptación, que conlleva hasta a una reconfiguración<br />

del Estado.<br />

Por la complejidad de este fenómeno y la necesidad<br />

de entender sus causas y consecuencias, se propuso<br />

el concepto de Reconfiguración Cooptada del<br />

Estado (RCdE) para definir una etapa ulterior a la<br />

tradicional Captura del Estado. Las RCdE consiste<br />

en: “la acción de organizaciones legales e ilegales, que mediante<br />

prácticas ilegales buscan sistemáticamente modificar<br />

desde adentro el régimen político e influir en la elaboración,<br />

modificación y aplicación de las reglas de juego y las políticas<br />

públicas. Estas prácticas se desarrollan con el propósito de<br />

obtener beneficios permanentes y asegurar que sus intereses sean<br />

validados política y legalmente, así como obtener legitimidad<br />

social en el largo plazo, aunque esos intereses no estén regidos<br />

por el principio fundamental del bienestar social” 1 .<br />

Una y otra vez, a lo largo del Hemisferio Occidental,<br />

de África e incluso de algunos países europeos, suceden<br />

procesos de RCdE, en los que una zona<br />

gris/opaca de colaboración entre lo legal y lo ilegal<br />

se vuelve más intensa. Ya no es el caso del “Crimen<br />

Ubicación y tamaño de nodos en función del indicador de betweenness. El<br />

nodo que representa al ex Presidente Portillo aparece en color oscuro.<br />

Se resalta el flujo de información que conecta (i) al narcotraficante Byron<br />

Bernganza (ICBB), (ii) al Director del Banco de Crédito Hipotecario Nacional<br />

de Guatemala, Llort, en el núcleo, y (iii) al ex Presidente Portillo<br />

(el más oscuro)<br />

Organizado” como un grupo de malhechores que<br />

confronta al Estado. Ahora es la historia de funcio-<br />

Luis Jorge Garay Salamanca -Director Académico de Fundación Vortex, Colombia – ljg@scivortex.org<br />

Eduardo Salcedo-Albaran - Director de Fundación Vortex, Colombia – esa@scivortex.org


38<br />

1 Garay-Salamanca, L.<br />

J. & Salcedo-Albarán,<br />

E. (25 de Nov. de<br />

2011). Institutional<br />

impact of criminal<br />

networks in Colombia<br />

and Mexico”. Crime,<br />

Law and Social Change.<br />

November.<br />

2 Entre los libros publicados<br />

por los autores<br />

vale mencionar<br />

algunos: Illicit networks<br />

reconfiguring States. Social<br />

network analysis of<br />

Colombian and Mexican<br />

cases. Bogotá, May,<br />

2010; La Captura y Reconfiguración<br />

Cooptada<br />

del Estado en Colombia.<br />

Transparencia por Colombia<br />

y Avina, Bogotá,<br />

Colombia,<br />

Septiembre, 2008.<br />

Reti criminali transnazionali<br />

che riconfigurano gli Stati<br />

A partire dagli anni ’90, quando i Paesi della scomparsa Unione<br />

Sovietica hanno adottato l’economia di mercato, si è cominciato<br />

a parlare di un tipo di corruzione conosciuta come Cattura dello<br />

Stato. Si ha questa forma di corruzione quando grandi aziende<br />

legali manipolano l’elaborazione di leggi, decreti e politiche<br />

sicurezza e intelligence<br />

narios públicos incluso de alta jerarquía que usan<br />

su legitimidad y papel institucional para promover<br />

intereses criminales. Se encuentra el caso del ex<br />

presidente de Guatemala, Alfonso Portillo, acusado<br />

de favorece a una red narcotraficantes. Dicho<br />

presidente nombró Director del Banco Crédito<br />

Hipotecario Nacional de Guatemala a un amigo<br />

cercano, quien luego utilizó el banco para lavar masivamente<br />

dinero del narcotráfico. Investigaciones<br />

de una corte de Estados Unidos encontraron millonarias<br />

cuentas del ex presidente y el Gobierno<br />

estadounidense pidió su extradición, acusándolo<br />

de colaborar en el lavado de casi 70 millones de<br />

dólares. La extradición fue aprobada por Guatemala<br />

en noviembre de 2011.<br />

También está el caso de narcoparamilitares en Colombia<br />

que legislaron en el Congreso de la República<br />

de Colombia entre 2002 y 2006. Las<br />

Autodefensas Unidas de Colombia, la mayor confederación<br />

de paramilitares ilegales en Colombia,<br />

estableció acuerdos con candidatos y líderes políticos<br />

en distintas regiones del país. Lograron que<br />

cerca del 40% del congreso nacional elegido en<br />

2002 legislara representando sus intereses criminales.<br />

Todo esto, en el marco de procesos electorales<br />

locales combinados con masacres y coerción<br />

a electores. Como si fuera poco, gobernadores, alcaldes<br />

y el director de la agencia nacional de inteligencia<br />

de Colombia (DAS), han sido condenados<br />

por la Sala Penal de la Corte Suprema de Justicia<br />

de Colombia y la Fiscalía General. Múltiples acuerdos<br />

y vínculos con las Autodefensas Unidas de<br />

Colombia han sido comprobados entre agentes ilegales<br />

y funcionarios públicos y políticos. La lista<br />

link journal 1/<strong>2012</strong><br />

de cooptación de instituciones democráticas a través<br />

de redes RCTs es extensa. En Perú, Montesinos,<br />

Director del Servicio de Inteligencia Nacional<br />

durante la presidencia de Fujimori, compró ilegalmente<br />

armas a traficantes internacionales en Jordania,<br />

para intercambiarlas por cocaína con la<br />

guerrilla más antigua del mundo: las Fuerzas Armadas<br />

Revolucionarias de Colombia, FARC. En<br />

México, en 2009 más de 30 funcionarios públicos<br />

del Estado de Michoacán, entre alcaldes y hasta un<br />

gobernador del Estado, fueron capturados y acusados<br />

de vínculos con la red criminal de La Familia<br />

Michaocana, ahora conocida como Caballeros Templarios.<br />

En Estados Unidos, por su parte, aumentan los registros<br />

de cómo la red criminal mexicana de Los<br />

Zetas no sólo opera a través de Mexicano y Guatemala,<br />

sino que soborna oficiales estadounidenses,<br />

con procedimientos que van desde pagos sexuales<br />

hasta reclutamiento de contra-espías. Al tiempo, la<br />

Familia Michaocana y Los Zetas envían drogas sintéticas<br />

a Europa a través de África, y lavan masivamente<br />

dinero con empresas ficticias ubicadas en<br />

España y en China.<br />

Por lo anterior, se debe profundizar la comprensión<br />

de los mecanismos criminales de infiltración<br />

y reconfiguración de instituciones democráticas; es<br />

indispensable entender que la democracia formal<br />

algunas veces es utilizada para fines criminales . Es<br />

indispensable avanzar en el Programa de Investigación<br />

sobre Reconfiguración Cooptada del<br />

Estado para entender que la historia de la estructuración<br />

de algunos Estados se está escribiendo<br />

con la pluma y la tinta de la ilegalidad.<br />

pubbliche per ottenere vantaggi economici a lungo termine:<br />

brevetti, autorizzazioni allo sfruttamento o agevolazioni fiscali,<br />

ad esempio.<br />

In ogni caso è abbastanza evidente che non solo potenti soggetti<br />

legali hanno interesse a catturare lo Stato.<br />

In Paesi con un’intensa presenza di Reti Criminali Transnazionali<br />

(RCT), particolarmente influenzati dal narcotraffico, anche<br />

i soggetti illegali catturano e riconfigurano le istituzioni. Pertanto<br />

si è potuto constatare che le RCT possono utilizzare


sicurezza e intelligence<br />

link journal 1/<strong>2012</strong> 39<br />

anche meccanismi democratici formali per infiltrarsi a tutti i livelli<br />

ed in tutti i rami dell’amministrazione pubblica. Successivamente,<br />

in una fase più avanzata, quell’infiltrazione può<br />

trasformarsi in una collaborazione a doppio senso, in forme<br />

di cooptazione, che possono arrivare fino ad una riconfigurazione<br />

dello Stato.<br />

A causa della complessità di questo fenomeno e della necessità<br />

di comprendere le sue cause e conseguenze, è stato proposto il<br />

concetto di Riconfigurazione Cooptata dello Stato (RCdS) per<br />

definire una tappa ulteriore del processo di Cattura dello Stato.<br />

La RCdS consiste “nell’azione di organizzazioni legali e illegali, che<br />

mediante pratiche illegali tentano sistematicamente di modificare dall’interno<br />

il regime politico ed influire sull’elaborazione, la modifica ed applicazione<br />

delle regole del gioco e delle politiche pubbliche.” Queste pratiche vengono<br />

svolte con l’intento di ottenere vantaggi permanenti e assicurare<br />

che i propri interessi vengano sostenuti politicamente<br />

e legalmente, nonché per ottenere legittimazione sociale nel<br />

lungo periodo, nono-stante tali interessi non siano sorretti dal<br />

fondamentale principio del benessere sociale.”<br />

Nell’Emisfero Occidentale, in Africa e anche in alcuni paesi europei<br />

avvengono dei processi di RCdS ed in tali paesi diviene<br />

sempre più intensa quella che è una zona grigia/opaca di collaborazione<br />

fra l’ambito legale e quello illegale.<br />

Già non si tratta più il Crimine Organizzato, inteso come un<br />

gruppo di malfattori che affronta lo Stato. Adesso abbiamo dei<br />

funzionari pubblici appartenenti anche all’alta gerarchia che utilizzano<br />

la loro legittimazione ed il loro ruolo istituzionale per<br />

promuovere interessi criminali.<br />

C’è il caso dell’ex Presidente del Guatemala, Alfonso Portillo,<br />

accusato di favorire una rete di narcotrafficanti. Quel presidente<br />

nominò un suo caro amico Direttore di una istituzione bancaria,<br />

il Banco Crédito Hipotecario Nacional de Guatemala;<br />

l’amico usò la Banca per riciclare massivamente il denaro del<br />

narcotraffico. Le indagini di una corte degli Stati Uniti trovarono<br />

conti milionari dell’ex presidente e quindi il Governo statunitense<br />

ne richiese l’estradizione, accusandolo di aver<br />

collaborato nel riciclaggio di quasi 70 milioni di dollari. L’estradizione<br />

è stata approvata dal Guatemala nel novembre 2011.<br />

Abbiamo anche il caso dei narcoparamilitari in Colombia che<br />

hanno legiferato nel Parlamento della Repubblica di Colombia<br />

tra il 2002 e il 2006. Le Autodefensas Unidas de Colombia, la<br />

maggiore confederazione di paramilitari illegali della Colombia,<br />

hanno stipulato accordi con candidati e leader politici in varie<br />

regioni del Paese, ottennendo che quasi il 40% del parlamento<br />

nazionale eletto nel 2002 legiferasse in rappresentanza dei loro<br />

interessi criminali.<br />

Tutto ciò, nell’ambito dei processi elettorali locali combinati<br />

con massacri e coercizione nei confronti degli elettori. Come<br />

se non bastasse, governatori, sindaci e il direttore dell’Agenzia<br />

Nazionale di Intelligence della Colombia (DAS) sono stati condannati<br />

dalla Sezione Penale della Corte Suprema di Giustizia<br />

e dalla Procura Generale della Colombia. Sono stati dimostrati<br />

molteplici accordi e legami tra agenti illegali e funzionari pubblici<br />

e politici con le Autodefensas Unidas de Colombia<br />

La lista della cooptazione di istituzioni democratiche attraverso<br />

le reti RCT è estesa. In Perù, Montesinos, Direttore del Servizio<br />

Nazionale di Intelligence durante la presidenza di Fujimori, ha<br />

acquistato illegalmente armi da trafficanti internazionali in<br />

Giordania, per commerciare cocaina con la guerrilla più antica<br />

del mondo: le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia,<br />

FARC.<br />

In Messico, nel 2009, oltre 30 funzionari pubblici dello Stato<br />

di Michoacan, tra loro sindaci e persino un governatore dello<br />

Stato, sono stati catturati e accusati di avere legami con la rete<br />

criminale della Familia Michaocana, conosciuta adesso come i<br />

Cavalieri Templari.<br />

Negli Stati Uniti, d’altra parte, aumentano le segnalazioni di casi<br />

che indicano che la rete criminale messicana Los Zetas, non si<br />

limita ad operare in Messico e in Guatemala, ma corrompe<br />

anche funzionari statunitensi, con metodi che vanno dai favori<br />

sessuali fino al reclutamento delle contro-spie. Contemporaneamente<br />

la Familia Michaocana e Los Zetas mandano droghe<br />

sintetiche in Europa attraverso l’Africa e ripuliscono massicciamente<br />

il denaro attraverso imprese fittizie ubicate in Spagna ed<br />

in Cina.<br />

Pertanto, da quanto detto, dobbiamo approfondire la comprensione<br />

dei meccanismi criminali di infiltrazione e riconfigurazione<br />

delle istituzioni democratiche; è indispensabile<br />

comprendere che i meccanismi della democrazia formale alcune<br />

volte vengono utilizzati per fini criminali.<br />

È, altresì, indispensabile procedere con il Programma di Ricerca<br />

sulla Riconfigurazione Cooptata dello Stato per comprendere<br />

che la storia di come si strutturano alcuni Stati viene scritta con<br />

la penna e con l’inchiostro dell’illegalità.


40<br />

Il dilemma<br />

del prigioniero<br />

innocente<br />

Premessa.<br />

Il 2 dicembre 2011 la <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong>, in collaborazione<br />

con la Comunità di S. Egidio e nell'ambito<br />

dell'iniziativa internazionale Cities for life 2011 contro la<br />

pena di morte, ha organizzato un incontro con Anthony<br />

Graves, già condannato a morte in Texas e poi dichiarato<br />

innocente e liberato dal braccio della morte.<br />

Nel 1992 Anthony Graves aveva 29 anni, una moglie e<br />

tre figli ma viveva nel Texas e la sua pelle era nera, come<br />

quella di coloro che, percentualmente, finiscono più facilmente<br />

in galera e, spesso, nel braccio della morte. Il<br />

18 agosto di quell’anno un agente di polizia penitenziaria,<br />

Robert Carter, si macchiò di un’orrenda strage, massacrando<br />

ben sei persone:<br />

Bobbie Davis, una donna di 45 anni, la figlia sedicenne<br />

di lei e quattro bambini, tra cui anche il figlio di appena<br />

quattro anni dello stesso Carter.<br />

Si pensò che l'omicida, reo confesso, non avesse compiuto<br />

da solo quel crimine, così iniziò il solito gioco al<br />

massacro fatto di minacce, ritorsioni e false promesse<br />

per riuscire a far sputare fuori almeno un nome. La polizia<br />

texana era molto abile in questo gioco e, alla fine,<br />

Carter confessò che Anthony Graves sarebbe stato il suo<br />

complice (era il cugino di una ragazza con la quale Carter<br />

aveva avuto una storia).<br />

Di colpo la vita di Graves precipitò in un baratro senza<br />

fondo e iniziò a sperimentare sulla sua pelle gli ingranaggi<br />

della macchina giudiziaria texana. La pubblica accusa<br />

prese talmente a cuore il caso che cercò, inventò e<br />

creò quanti più indizi di colpevolezza possibile. Non ci<br />

fu niente da fare, la sentenza di colpevolezza del 1994<br />

era già stata scritta.<br />

Per Graves si spalancarono le porte dell’inferno, fu<br />

strappato via alla sua famiglia e scaraventato nel famigerato<br />

braccio della morte texano. Intanto Carter ritrattò,<br />

facendo una dichiarazione giurata in cui scagionava completamente<br />

Graves. Persino sul letto di morte, con l’ago<br />

già infilato nel braccio, Carter ribadì l’innocenza di Gra-<br />

Gianni Ricci - <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />

diritti umani link journal 1/<strong>2012</strong><br />

ves ed esalò l’ultimo respiro, il 31 maggio del 2000.<br />

Anthony Graves ha visto la morte passargli accanto. Poi<br />

qualcosa di colpo cambiò. La professoressa Nicole Casarez<br />

dell’Università St. Thomas e i suoi studenti di giornalismo<br />

presero a cuore il suo caso e studiarono a fondo<br />

gli atti processuali arrivando alla convinzione che non ci<br />

fossero prove reali a carico di Anthony.<br />

Il lavoro svolto da Nicole e dai suoi studenti fu prezioso<br />

e concreto, non mollarono fino a quando, nel 2006, la<br />

Corte Federale d’Appello del Quinto Circuito annullò il<br />

processo a causa delle gravi irregolarità commesse dall'accusa.<br />

Lo Stato del Texas, nonostante la sentenza di<br />

annullamento del processo, è riuscito a tenere Graves in<br />

prigione per altri quattro anni.<br />

Finalmente, il 27 ottobre del 2010, Anthony Graves si è<br />

aggiunto alla schiera dei 138 ex condannati a morte riconosciuti<br />

innocenti e liberati, da quando nel 1976 gli<br />

Stati Uniti hanno ripristinato la pena di morte.<br />

Il dilemma del prigioniero vero<br />

Ho sempre pensato al dilemma del prigioniero come ad<br />

un modello teorico di gioco in grado di spiegare la differenza<br />

tra scelte individuali e scelte di gruppo, tra soluzioni<br />

ed equilibri; utile per descrivere schematicamente<br />

situazioni di conflitto attraverso una chiave di lettura che<br />

coinvolge anche la sfera psicologica di chi deve assumere<br />

una decisione. Ho sempre interpretato il dilemma del<br />

prigioniero come un legame tra matematica, economia<br />

e scienze sociali, come un’occasione per avvicinare la


link journal 1/<strong>2012</strong> diritti umani<br />

41<br />

matematica ai problemi concreti rivalutando le potenzialità<br />

applicative dell’odiata matematica.<br />

Ma oggi la testimonianza di Anthony Graves ha spostato<br />

il dilemma del prigioniero su un piano diverso, concreto<br />

e drammaticamente umano.<br />

Ascoltando Anthony Graves mi ha colpito il racconto<br />

dell’interrogatorio fatto nella stazione di polizia prima a<br />

Robert Carter e poi a lui; mi è sembrato di leggere Albert<br />

Tucker quando introduce il suo paradigma del dilemma<br />

del prigioniero:<br />

Due persone indicate con A e B vengono accusate (a ragione)<br />

di un crimine e, in attesa del processo, sono imprigionate<br />

in celle separate in modo che non sia possibile<br />

per i due arrestati comunicare tra loro; in assenza di<br />

prove certe vengono interrogate separatamente dal<br />

Commissario che a ciascuno promette uno sconto di<br />

pena se confessa la sua colpevolezza; la definizione della<br />

riduzione dipende dal comportamento dell’altro arrestato.<br />

A titolo esemplificativo l’interrogatorio con l’arrestato<br />

A si sviluppa nel seguente modo:<br />

• Se tu (A) confessi e il tuo “complice”(B) non<br />

confessa, allora tu sarai libero e il tuo complice verrà<br />

condannato, grazie alla tua deposizione, a 20 anni;<br />

• Se tu (A) e il tuo complice (B) confessate entrambi<br />

verrete condannati entrambi ad una reclusione di<br />

4 anni;<br />

• Se tu (A) e il tuo complice (B) non confessate<br />

verrete comunque condannati a 2 anni per un reato minore<br />

per il quale abbiamo già le prove.<br />

A/B confessa non confessa<br />

Confessa 4,4 0,20<br />

non confessa 20,0 2,2<br />

In modo assolutamente analogo si svolge l’interrogatorio<br />

con l’altro arrestato B.<br />

La situazione può essere descritta dalla bimatrice seguente:<br />

la scelta che ciascuno degli arrestati fa è quella<br />

di confessare, non per motivi etici, ma semplicemente<br />

perché non potendo A e B concordare la scelta comune<br />

di non confessare (che porterebbe A e B ad ottenere il<br />

migliore risultato per entrambi: trascorrere 2 anni in prigione),<br />

vogliono evitare la situazione peggiore (trascorrere<br />

20 anni in prigione). Questo tipo di soluzione<br />

(minimizzare il massimo del rischio) viene denominata<br />

min-max e privilegia la prudenza rispetto al rischio ed è<br />

il risultato di scelte individualiste.<br />

Antony Graves ha trascorso 18 anni in prigione<br />

per un crimine che non ha commesso<br />

Questa situazione si sviluppa secondo le modalità che<br />

abbiamo descritto in base ad una ipotesi fondamentale:<br />

i due arrestati sono colpevoli!<br />

Cosa succede se uno dei due arrestati, ad esempio B, è<br />

innocente?<br />

La consapevolezza di essere innocente porta B a dichiararsi<br />

non colpevole per cui A (che è colpevole e sa che<br />

B è innocente) si dichiarerà colpevole con la prospettiva<br />

di tornare libero, pur sapendo, in questo modo, di creare<br />

il massimo danno all’altro arrestato. E questo, dal racconto<br />

di Anthony Graves (l’arrestato B), è proprio quello<br />

che è successo per il comportamento egoistico di Robert<br />

Carter (l’arrestato A).


SudgestAid è una Società consortile italiana, senza scopo di lucro,<br />

partecipata da Agenzie pubbliche, impegnata nel promuovere e<br />

gestire progetti di sviluppo locale sostenibile prestando assistenza<br />

alle Pubbliche Amministrazioni e alla società civile dei Mezzogiorni<br />

d’Italia e del Mondo.<br />

Operiamo soprattutto nelle aree dove più gravi sono gli elementi di<br />

crisi e maggiori le difficoltà di sviluppo.<br />

La nostra azione, in questi ambiti, riguarda la qualificazione delle<br />

risorse umane; la pianificazione e programmazione socio-economica<br />

e territoriale; la difesa e valorizzazione delle risorse ambientali,<br />

idriche, del suolo e sottosuolo; l’innovazione tecnologica; il recupero<br />

della legalità e della coesione sociale; il rispetto e valorizzazione delle<br />

culture e delle pari opportunità.<br />

L’impegno di SudgestAid è rivolto a:<br />

• riqualificare i sistemi di governance accrescendo i livelli di responsabilità<br />

e le capacità tecniche, l’efficienza e l’efficacia delle Pubbliche<br />

Amministrazioni; aiutando il decentramento amministrativo, l’organizzazione<br />

delle Istituzioni e i processi di concertazione; rafforzando<br />

il rispetto della legalità e la trasparenza delle azioni pubbliche; promuovendo<br />

il coinvolgimento della società civile e degli stakeholders;<br />

promuovere lo sviluppo locale sostenibile valorizzando le risorse<br />

umane, le esperienze ed il patrimonio storico-culturale locale; programmando<br />

e pianificando gli interventi nel rispetto della capacità<br />

di carico del territorio e della rinnovabilità delle risorse ambientali;<br />

ampliando i diritti umani, i livelli di libertà, di partecipazione e consenso,<br />

garantendo l’equità e il rispetto delle diverse culture<br />

e delle pari opportunità.<br />

SudgestAid S.c.a.r.l.<br />

Via Nomentana, 335 - 00162 Roma<br />

Tel. +39 06 982641<br />

Fax +39 06 98264150<br />

Email: info@sudgestaid.it<br />

www.sudgestaid.it


Focus<br />

‘Il paradosso della globalizzazione’<br />

D. Rodrik, G. Magliano, A. Suraci, M. Zandri,<br />

C. Patalano, R. Lippi, M. Emanuele, P. Russo, G. Migliore


44 globalizzazione link journal 1/<strong>2012</strong><br />

Il paradosso<br />

della globalizzazione<br />

Dani Rodrik<br />

Dani Rodrik<br />

è professore<br />

di economia<br />

politica alla John<br />

F. Kennedy School<br />

of Government<br />

dell’Università<br />

di Harvard<br />

Ultimamente ho presentato il mio nuovo<br />

libro The Globalization Paradox (Il paradosso<br />

della globalizzazione, ndt) a diversi<br />

gruppi. Ormai sono abituato a qualsiasi tipo di<br />

commento da parte dell’audience, ma ad una recente<br />

presentazione del libro, l’economista al quale<br />

era stato chiesto di intervenire come relatore mi ha<br />

sorpreso con una critica inaspettata affermando,<br />

stizzito, la mia volontà di rendere il mondo più sicuro<br />

per i politici.<br />

Per timore che il messaggio si perdesse nel vuoto,<br />

ha poi spiegato ulteriormente il suo commento ricordando<br />

all’audience un ex ministro dell’agricoltura<br />

giapponese che sosteneva che il Giappone<br />

non potesse importare la carne di manzo in quanto<br />

l’intestino dei giapponesi è più lungo rispetto a<br />

quello degli abitanti degli altri Paesi.<br />

Il commento ha provocato qualche risata soffocata.<br />

Chi non si diverte con le barzellette sui politici?<br />

Ma il commento aveva uno scopo ben più serio ed<br />

Globalizzazione<br />

I mercati ben<br />

funzionanti sono<br />

sempre inseriti<br />

all’interno<br />

di meccanismi<br />

più ampi<br />

di governabilità<br />

collettiva<br />

L’articolo apre una riflessione che diverrà oggetto di altri interventi nel corso delle prossime pubblicazioni.<br />

era in modo evidente mirato ad evidenziare un errore<br />

fondamentale nella mia argomentazione. Il<br />

mio relatore ha trovato che fosse evidente l’assurdità<br />

dell’idea di dare maggior spazio di manovra ai<br />

politici, supponendo che l’audience sarebbe stata<br />

d’accordo ed implicando che la rimozione di qualsiasi<br />

limite posto ai politici potrebbe portare a interventi<br />

insensati che soffocherebbero i mercati e<br />

bloccherebbero il motore della crescita economica.<br />

Questa critica indica un grave fraintendimento<br />

della modalità di funzionamento dei mercati. Dato<br />

il bagaglio culturale fondato solo sui libri di testo<br />

senza alcuna menzione del ruolo delle istituzioni,<br />

gli economisti immaginano spesso che i mercati si<br />

sviluppino da soli senza alcuna azione collettiva e<br />

mirata. Adam Smith aveva ragione nell’affermare<br />

che “la propensione verso le relazioni, il baratto e lo scambio”<br />

è innata nell’uomo, ma un insieme di istituzioni<br />

esterne al mercato sono comunque<br />

necessarie per concretizzare questa propensione.<br />

Consideriamo tutti i requisiti necessari. I mercati<br />

moderni necessitano di infrastrutture per i<br />

trasporti, la logistica e la comunicazione che derivano<br />

in gran parte dagli investimenti pubblici.<br />

Necessitano inoltre di sistemi di esecuzione dei<br />

contratti e della protezione del diritto di proprietà,<br />

di regolamentazioni per permettere ai consumatori<br />

di prendere decisioni sulla base di informazioni<br />

adeguate, per internalizzare gli elementi esterni ed<br />

evitare abusi di potere. Hanno bisogno di banche<br />

centrali ed istituti finanziari per prevenire eventuali<br />

situazioni di panico finanziario e moderare i cicli<br />

del business. E necessitano infine di una rete di<br />

protezione sociale e di sicurezza per legittimare i<br />

risultati ottenuti tramite il processo di distribuzione.<br />

I mercati ben funzionanti sono sempre inseriti all’interno<br />

di meccanismi più ampi di governabilità<br />

collettiva. Ecco perché le economie più sane a livello<br />

mondiale, e con i sistemi di mercato più produttivi,<br />

dispongono anche di vasti settori pubblici.<br />

Una volta che abbiamo riconosciuto la necessità<br />

da parte dei mercati di avere delle regole, dobbiamo<br />

chiederci poi a chi far scrivere tali regole. Gli<br />

economisti che denigrano il valore della<br />

democrazia parlano a volte come se l’alternativa<br />

ad un governo democratico fosse un processo de-


link journal 1/<strong>2012</strong> globalizzazione<br />

cisionale portato avanti da filosofi platonici di alto spessore intellettuale,<br />

ovvero, idealmente, degli economisti!<br />

Ma questo scenario non è né rilevante, né auspicabile.<br />

Innanzitutto, più basso è il grado di trasparenza, rappresentatività<br />

e responsabilità del sistema politico, più è probabile che<br />

interessi specifici devino le regole a loro vantaggio. Ovviamente,<br />

anche i sistemi democratici possono cadere in questo<br />

rischio, ma rimangono comunque la forma migliore di tutela<br />

contro regole arbitrarie.<br />

Inoltre, creare delle regole non implica solo essere efficienti,<br />

ma può anche portare a dover bilanciare obiettivi sociali in<br />

competizione tra loro (ad esempio la stabilità contro l’innovazione),<br />

o a dover fare scelte legate al processo di distribuzione.<br />

Non sono compiti che vorremmo affidare agli<br />

economisti che possono sì conoscere il prezzo di una serie di<br />

elementi, ma non ne conoscono il valore.<br />

E’ vero che la qualità della governabilità democratica può essere<br />

migliorata riducendo il margine<br />

di discrezione dei rappresentanti<br />

eletti. Le democrazie ben funzionanti<br />

delegano spesso il potere<br />

istituzionale relativo alla<br />

definizione delle regolamentazioni<br />

a enti semi-indipendenti,<br />

in particolar modo quando le<br />

questioni in oggetto sono di<br />

natura tecnica e non comportano<br />

preoccupazioni di carattere<br />

distribuzionale, quando uno<br />

scambio di favori darebbe risultati<br />

poco ottimali per tutti o<br />

quando le politiche risultano<br />

miopi, con l’implicazione di una<br />

forte riduzione dei costi futuri.<br />

Le banche centrali indipendenti sono un ottimo esempio di<br />

questo meccanismo. Può anche spettare ai politici eletti determinare<br />

il target dell’inflazione, ma la decisione su quali mezzi<br />

utilizzare per raggiungere tale obiettivo viene lasciata ai tecnocrati<br />

delle banche centrali. Anche in questo modo le banche<br />

rimangono comunque responsabili nei confronti dei politici e<br />

tenute, quindi, a risponderne quando il target non viene raggiunto.<br />

Allo stesso modo, si possono emanare simili istanze di<br />

delega democratica alle organizzazioni internazionali. Gli accordi<br />

globali mirati a porre un tetto massimo sulle tariffe o a<br />

ridurre le emissioni tossiche sono senza dubbio fondamentali.<br />

Ma gli economisti hanno la tendenza a idolatrare questi limiti<br />

senza analizzare a fondo ed in modo esauriente le politiche da<br />

cui derivano. Una cosa è sostenere l’applicazione di limiti es-<br />

45<br />

terni che sottolineino la qualità delle considerazioni fatte a livello<br />

democratico evitando, ad esempio, scadenze a breve termine<br />

o pretendendo trasparenza, altra cosa è sovvertire la<br />

democrazia privilegiando interessi specifici a dispetto di altri.<br />

Sappiamo, ad esempio, che i requisiti globali del capitale individuati<br />

dal Comitato di Basilea rispecchiano ampiamente l’influenza<br />

della banche più importanti. Se fossero gli economisti<br />

e gli esperti finanziari a dover dettare le regole, i limiti sarebbero<br />

molto più severi. D’altro canto se le regole fossero lasciate in<br />

balia dei procedimenti politici interni, ci potrebbe essere una<br />

pressione contrastante da parte degli attori coinvolti in contrasto<br />

tra di loro (sebbene gli interessi finanziari siano molto<br />

forti anche a livello nazionale).<br />

Nonostante la retorica, molti degli accordi siglati dall’Organizzazione<br />

Mondiale per il Commercio non sono il risultato del<br />

perseguimento del benessere economico globale, bensì del<br />

potere di lobbying delle multinazionali in cerca di opportunità<br />

per ottenere profitto.<br />

Le regole internazionali sui<br />

brevetti e sul copyright rispecchiano<br />

l’abilità delle aziende farmaceutiche<br />

e di Hollywood, per<br />

dare due esempi, di averla vinta.<br />

Queste regole sono state fortemente<br />

denigrate dagli economisti<br />

in quanto hanno imposto<br />

una serie di limiti inibendo la<br />

possibilità delle economie in via<br />

di sviluppo di avere accesso ad<br />

opportunità a basso costo in<br />

campo farmaceutico e tecnologico.<br />

Pertanto, la scelta tra la<br />

cautela democratica interna ed i<br />

limiti imposti dall’esterno non è<br />

sempre tra politiche positive o negative. Anche quando il sistema<br />

politico interno non funziona bene, non c’è alcuna<br />

garanzia che le istituzioni globali funzionino meglio. Spesso la<br />

scelta è tra cedere ai rent-seeking nazionali o stranieri. Nel primo<br />

caso almeno l’affitto rimane in casa! Sostanzialmente, la questione<br />

riguarda chi dobbiamo investire della responsabilità di<br />

scrivere le regole che il mercato richiede. La realtà inevitabile<br />

della nostra economia globale è che il luogo principale in cui<br />

risiede la responsabilità legittima democratica è ancora lo Stato<br />

nazionale. Pertanto porgo prontamente le mie scuse rispetto<br />

alla critica mossa dall’economista che ha commentato il mio<br />

libro. In effetti è vero che voglio rendere il mondo più sicuro<br />

per i politici democratici e, sinceramente, ho seri dubbi nei confronti<br />

di chi non vuole farlo.


46 globalizzazione link journal 1/<strong>2012</strong><br />

The globalization paradox<br />

Ihave been presenting my new book The Globalization Paradox<br />

to different groups of late. By now I am used to all<br />

types of comments from the audience. But at a recent<br />

book-launch event, the economist assigned to discuss the book<br />

surprised me with an unexpected criticism. “Rodrik wants to<br />

make the world safe for politicians,” he huffed.<br />

Lest the message be lost, he then illustrated his point by reminding<br />

the audience of “the former Japanese minister of agriculture<br />

who argued that Japan could not import beef because<br />

human intestines are longer in Japan than in other countries.”<br />

The comment drew a few chuckles. Who doesn’t enjoy a joke<br />

at the expense of politicians?<br />

But the remark had a more serious purpose and was evidently<br />

intended to expose a fundamental flaw in my argument. My<br />

discussant found it self-evident that allowing politicians<br />

greater room for maneuver was a cockamamie idea – and he<br />

assumed that the audience would concur. Remove constraints<br />

on what politicians can do, he implied, and all you will get are<br />

silly interventions that throttle markets and stall the engine<br />

of economic growth. This criticism reflects a serious misunderstanding<br />

of how markets really function. Raised on textbooks<br />

that obscure the role of institutions, economists often<br />

imagine that markets arise on their own, with no help from<br />

purposeful, collective action. Adam Smith may have been<br />

right that “the propensity to truck, barter, and exchange” is<br />

innate to humans, but a panoply of non-market institutions<br />

is needed to realize this propensity. Consider all that is required.<br />

Modern markets need an infrastructure of transport,<br />

logistics, and communication, much of it the result of public<br />

investments. They need systems of contract enforcement and<br />

property-rights protection. They need regulations to ensure<br />

that consumers make informed decisions, externalities are internalized,<br />

and market power is not abused. They need central<br />

banks and fiscal institutions to avert financial panics and moderate<br />

business cycles. They need social protections and safety<br />

nets to legitimize distributional outcomes. Well-functioning<br />

markets are always embedded within broader mechanisms of<br />

collective governance. That is why the world’s wealthier<br />

economies, those with the most productive market systems,<br />

also have large public sectors. Once we recognize that markets<br />

require rules, we must next ask who writes those rules. Economists<br />

who denigrate the value of democracy sometimes talk<br />

as if the alternative to democratic governance is decisionmaking<br />

by high-minded Platonic philosopher-kings – ideally<br />

economists!<br />

But this scenario is neither relevant nor desirable. For one<br />

thing, the lower the political system’s transparency, representativeness,<br />

and accountability, the more likely it is that special<br />

interests will hijack the rules. Of course, democracies can be<br />

captured too. But they are still our best safeguard against arbitrary<br />

rule.<br />

Moreover, rule-making is rarely about efficiency alone; it may<br />

entail trading off competing social objectives – stability versus<br />

innovation, for example – or making distributional choices.<br />

These are not tasks that we would want to entrust to economists,<br />

who might know the price of a lot of things, but not<br />

necessarily their value.<br />

True, the quality of democratic governance can sometimes<br />

be augmented by reducing the discretion of elected representatives.<br />

Well-functioning democracies often delegate rulemaking<br />

power to quasi-independent bodies when the issues<br />

at hand are technical and do not raise distributional concerns;<br />

when log-rolling would otherwise result in sub-optimal outcomes<br />

for all; or when policies are subject to myopia, with<br />

heavy discounting of future costs. Independent central banks<br />

provide an important illustration of this. It may be up to<br />

elected politicians to determine the inflation target, but the<br />

means deployed to achieve that target are left to the technocrats<br />

at the central bank. Even then, central banks typically<br />

remain accountable to politicians and must provide an accounting<br />

when they miss the targets. Similarly, there can be<br />

useful instances of democratic delegation to international organizations.<br />

Global agreements to cap tariff rates or reduce<br />

toxic emissions are indeed valuable.<br />

But economists have a tendency to idolize such constraints<br />

without sufficiently scrutinizing the politics that produce<br />

them. It is one thing to advocate external restraints that enhance<br />

the quality of democratic deliberation – by preventing<br />

short-termism or demanding transparency, for example. It is<br />

another matter altogether to subvert democracy by privileging<br />

particular interests over others. For instance, we know that<br />

the global capital-adequacy requirements produced by the<br />

Basel Committee reflect overwhelmingly the influence of<br />

large banks. If the regulations were to be written by economists<br />

and finance experts, they would be far more stringent.<br />

Alternatively, if the rules were left to domestic political<br />

processes, there could be more countervailing pressure from<br />

opposing stakeholders (even though financial interests are<br />

powerful at home, too).


link journal 1/<strong>2012</strong> globalizzazione<br />

La politica estera è sempre<br />

più chiamata ad un<br />

approccio di coerenza e<br />

di pro-attività sui temi<br />

globali. La comunità internazionale<br />

sta evolvendo<br />

in un sistema<br />

composito ed a più velocità<br />

tra economie avanzate,<br />

“emerse” ed<br />

emergenti, i cui lineamenti<br />

sono in corso di<br />

definizione.<br />

La crisi finanziaria ha impresso<br />

forte accelerazione<br />

ad un processo<br />

strutturale verso un<br />

nuovo paradigma economico,<br />

ormai tale da<br />

mettere costantemente<br />

in discussione le analisi<br />

congiunturali macroeconomiche,<br />

condannate ad<br />

inseguire dinamiche<br />

rapide ed imprevedibili.<br />

Secondo alcune statistiche<br />

dello Institute for International Finance, dal 2007 al<br />

<strong>2012</strong> l’economia cinese risulterà cresciuta del 60%, le altre<br />

economie asiatiche del 50% e quelle dei Paesi G8 solo del 3%.<br />

Questo “shift of wealth and power from the West to the Rest”<br />

comporta un superamento delle tradizionali gerarchie fra<br />

Paesi nei fori internazionali, dal G8 al G20 e oltre.<br />

Contestualmente, stiamo assistendo ad un fenomeno di<br />

“deconcentrazione” del potere economico. Oggi l’attenzione<br />

della comunità internazionale è rivolta soprattutto ai grandi<br />

Paesi emergenti, i BRIC. Peraltro, nuove potenze economiche<br />

- più piccole in termini assoluti, ma con tassi di crescita comparabili<br />

- si stanno affacciando alla frontiera dell’economia<br />

globale, rappresentando già oggi l’ago della bilancia nel balance<br />

of power fra Paesi avanzati ed emergenti. Alcuni analisti preconizzano<br />

la costituzione di un “blocco unico”, il nuovo G7<br />

(integrando Brasile, Russia, India e Cina con Indonesia, Messico<br />

e Turchia), che entro il 2020 potrebbe sopravanzare il<br />

“vecchio” G7 in termini di PIL consolidato. Altri pensano ai<br />

paesi emergenti dell’acronimo CIVETS, cioè Colombia, Indonesia,<br />

Vietnam, Egitto, Turchia e Sudafrica.<br />

Un assetto più decentrato<br />

dell’economia globale rappresenta<br />

certamente uno<br />

sviluppo positivo.<br />

Il fatto che già nei<br />

prossimi vent’anni quasi<br />

il 60% del PIL mondiale<br />

potrebbe provenire dai<br />

Paesi emergenti significa<br />

anche poter contare su<br />

un più ampio novero di<br />

motori di crescita, più<br />

che mai necessari soprattutto<br />

nel caso di crisi,<br />

come quella attuale, che<br />

impatta in modo asimmetrico<br />

su economie<br />

avanzate ed emergenti.<br />

Al contempo, questa<br />

moltiplicazione dei poli<br />

economici sembra comportare<br />

- almeno nel<br />

breve periodo - una maggiore<br />

entropia nei processi<br />

decisionali. L’attuale<br />

fase di riequilibrio si sta<br />

accompagnando ad una dissociazione fra PIL e benessere: per<br />

la prima volta i Paesi più ricchi non coincidono con i Paesi<br />

più benestanti. I BRICS oggi rappresentano il 18% del PIL,<br />

il 30% della crescita globale e, tuttavia, anche il 52% della<br />

popolazione più povera del pianeta.<br />

Tale situazione presenta implicazioni anche per il sistema multilaterale<br />

nel suo insieme. Da un lato, l’agenda dei fori e delle<br />

istituzioni internazionali dovrà riflettere l’esigenza degli emergenti<br />

di conciliare il loro nuovo ruolo di global players con le<br />

loro agende interne in termini di sviluppo economico e<br />

riduzione della povertà. Dall’altro, i Paesi avanzati - ed in particolare<br />

i membri del G8 - hanno una opportunità comune<br />

nello stimolare le economie emergenti verso un ruolo più fattivo<br />

di responsible stakeholders dell’economia globale,<br />

tenendo peraltro presenti le esigenze di efficienza ma anche<br />

di equità e solidarietà verso la più vasta comunità internazionale.<br />

Nell’ambito dell’eurozona, lo stesso caso della crisi<br />

del debito sovrano ci dimostra che situazioni di crisi in<br />

economie apparentemente piccole e periferiche possono<br />

propagare i propri effetti su scala globale, soprattutto quando<br />

le risposte internazionali restano improntate alla logica del<br />

Verso una diplomazia<br />

“anticipativa”<br />

della globalizzazione<br />

Quali strumenti e quali formati<br />

per la politica estera italiana?<br />

Giandomenico Magliano, Ambasciatore, Direttore Generale per la Mondializzazione, Ministero degli Affari Esteri<br />

47


48 globalizzazione link journal 1/<strong>2012</strong><br />

‘’too little, too late’. Nell’ottica delle responsabilità condivise, un<br />

esempio interessante è rappresentato dalle prospettive programmatiche<br />

in capo al G20. Sono qui necessarie azioni incisive<br />

su tre fronti ai fini di quell’approccio complessivo,<br />

strutturato e cooperativo che è necessario per governare l’economia<br />

globale e i rischi che sottende.<br />

In primo luogo, le politiche per la crescita. Tutti i paesi devono<br />

partecipare allo sforzo comune con la medesima intensità. Ciò<br />

è essenziale in termini economici, ma anche politici, perché<br />

le riforme nazionali “difficili” si sostengono l’una con l’altra.<br />

Bisogna adoperarsi maggiormente per la rimozione degli<br />

squilibri globali: l’asimmetria tra gli impegni di bilancio (quantitativi<br />

e con scadenze puntuali) e quelli sulla crescita e sugli<br />

squilibri (vaghi e senza scadenze) è di tutta evidenza.<br />

In secondo luogo, il sistema monetario internazionale. Il<br />

mondo è cambiato ed il sistema monetario deve cambiare con<br />

esso, a quarant’anni da quel “Nixon Shock” che nell’agosto<br />

1971 portò all’abbandono della convertibilità del dollaro in<br />

oro ed all’avvio del “non-sistema” di cambi flessibili. Raccogliamo<br />

ora i primi frutti di un processo di riforma degli ultimi<br />

anni, ma occorre andare oltre. Questo riguarda in<br />

particolare la composizione e il ruolo dei Diritti Speciali di<br />

Prelievo: si tratta di un passaggio essenziale per costruire un<br />

sistema monetario che rifletta i nuovi pesi nell’economia globale.<br />

In terzo luogo, gli strumenti di prestito del Fondo Monetario<br />

e le risorse disponibili. Dobbiamo completare la<br />

riforma della “cassetta degli attrezzi” che è stata avviata nel<br />

biennio scorso. Il nuovo strumento di facility finanziaria del<br />

Fondo su cui si sta lavorando a breve termine rappresenta un<br />

passo importante, ma è possibile renderlo più incisivo. Il<br />

Fondo deve essere dotato di adeguate risorse per svolgere con<br />

efficacia il suo mandato.<br />

Quali sono le implicazioni di questo processo di rebalancing<br />

per le nostre direttrici di politica estera?<br />

Innanzitutto, dal momento che l’evoluzione dei fondamentali<br />

economici viaggia a ritmi più veloci di quella dell’adeguamento<br />

delle strutture di governance, è necessario che la diplomazia<br />

classica divenga diplomazia “anticipativa” (anticipatory<br />

diplomacy), in modo da prevenire le situazioni di vulnerabilità<br />

prima che esse si manifestino.<br />

A partire dal 2008 le agende dei principali Vertici, europei e<br />

multilaterali, si sono trovate prevalentemente a dover reagire<br />

all’andamento dei mercati finanziari, privilegiando il contingency<br />

planning rispetto alla definizione di soluzioni condivise<br />

e di lungo periodo. È ora opportuno superare l’approccio<br />

tradizionalmente “reattivo” e a “filiere verticali” (stabilità finanziaria,<br />

investimenti e crescita, commercio, ambiente, energia,<br />

nutrizione, salute, tecnologia, proprietà intellettuale, ecc.)<br />

che ancora contraddistingue molti ambiti negoziali, per passare<br />

ad un’impostazione anticipativa che integri i vari settori<br />

di policy in un contesto di interdipendenza e di maggiore coerenza.<br />

La prevedibile evoluzione del multilateralismo in direzione<br />

di un “plurilateralismo” a geometrie variabili sta<br />

rafforzando il ruolo dei fori informali ristretti - come il G20<br />

- rispetto ai processi decisionali strutturati propri delle istituzioni<br />

multilaterali formali. Di fronte a questa molteplicità<br />

di processi e di formati - spesso paralleli - una diplomazia veramente<br />

anticipativa deve sapersi inserire attraverso reticoli,<br />

alleanze e formule spesso fluidi e complessi per propiziare<br />

soluzioni se non ideali quantomeno a somma positiva.<br />

L’emergere di nuovi attori sulla scena internazionale - con<br />

agende differenziate rispetto a quei Paesi industrializzati - sta<br />

comportando l’affermazione di nuovi assetti. Parallelamente<br />

al consolidamento del G20 quale luogo di incontro paritario<br />

fra vecchi e nuovi protagonisti dell’economia globale, si affermano<br />

fori ristretti, rappresentativi di soli Paesi emergenti:<br />

il raggruppamento dei BRICS, nato nel 2003 come accattivante<br />

acronimo coniato da una banca d’affari che selezionava<br />

i titoli finanziari/paese, dal 2009 si è trasformato in BRICS<br />

con Vertici annuali dei Leader di Brasile, Cina, India, Russia<br />

nonché Sud Africa, ciò che ha determinato un importante<br />

luogo di azione collettiva, ad esempio come amplificatore<br />

delle richieste di rappresentatività dei grandi Paesi emergenti.<br />

Anche qui una diplomazia veramente anticipativa deve saper<br />

interloquire con i nuovi protagonisti dell’economia globale,<br />

coniugando le rispettive direttrici bilaterali di politica estera<br />

con la dimensione multilaterale.<br />

E ciò non solo con riferimento ai cinque Paesi BRICS, ma<br />

anche nei confronti di quei Paesi intermedi - i “linchpin<br />

States” - che già oggi svolgono un ruolo essenziale di cerniera<br />

fra le istanze dei Paesi avanzati e delle nuove economie<br />

emerse.<br />

In sintesi, la diplomazia della globalizzazione deve oggi assumere<br />

tre caratteristiche: capacità di anticipazione, per gestire<br />

un sistema di relazioni internazionali sempre più<br />

complesso e vulnerabile; fluidità ed integrazione, in modo da<br />

valorizzare al meglio le interazioni fra le agende dei fori informali<br />

dei leaders e quelle delle istituzioni multilaterali; inclusività,<br />

al fine di stimolare le economie emergenti a svolgere<br />

un ruolo costruttivo di responsible stakeholders dell’economia<br />

globale.


link journal 1/<strong>2012</strong> globalizzazione<br />

Le deboli democrazie alla ricerca<br />

di un nuovo modello di Stato<br />

La globalizzazione, la cui<br />

complessità lascia libero<br />

sfogo ad interpretazioni<br />

contrastanti, viene interpretata<br />

esclusivamente quale fenomeno<br />

che tende ad unire i diversi<br />

popoli della terra attraverso processi<br />

finanziari ed economici la<br />

cui mancanza di trasparenza, evidenziata<br />

dalla recente crisi mondiale,<br />

rende problematici i<br />

rapporti sia a livello nazionale<br />

che internazionale. Gli anni in cui<br />

veniva posta l’importanza di una<br />

governance internazionale, almeno tra quelle nazioni che si<br />

richiamano ai principi della democrazia liberale e che fanno<br />

parte di medesimi organismi internazionali, sembrano lontani.<br />

Le proposte tutt’oggi sul tavolo risentono di una impostazione<br />

protezionistica che inficia le finalità della stessa<br />

governance anche se il lavoro in tal senso non è affatto interrotto.<br />

Nella crisi attuale si notano diverse impostazioni che<br />

mirano a superare in una dubbia competizione finanziaria gli<br />

stessi partner della medesima organizzazione che, al contrario,<br />

dovrebbero interagire per univoche finalità. In sintesi, la rivalità<br />

tra dollaro ed euro, indebolendo quell’area internazionale<br />

basata su una condivisione di valori e di azioni, ha<br />

creato le condizioni per risposte alternative che vedono, oggi,<br />

la Cina ed il Giappone disponibili ad una politica monetaria<br />

che le avvicina senza la mediazione del dollaro o dell’euro. In<br />

questa dinamica ‘globale’ si muovono altri interessi che cercano<br />

anch’essi una propria autonomia e che sono rappresentati<br />

da quei Paesi un tempo considerati in via di sviluppo.<br />

Oggi, quei Paesi rappresentano delle forze in grado di competere<br />

finanziariamente e di condizionare la stessa tensione<br />

all’interno del sistema euroatlantico. Nel processo della globalizzazione,<br />

quindi, vi sono diversi attori con caratteristiche<br />

politiche non similari, ma espressioni di una forza economica<br />

la cui finalità è quella di condizionare lo sviluppo commerciale<br />

e finanziario del sistema internazionale. Tale libertà di movimento<br />

pone il problema dell’adeguatezza delle strutture internazionali,<br />

iniziando dal FMI e dal WTO, ma pone anche<br />

problemi di democrazia reale all’interno dei singoli Stati. Soprattutto<br />

in quelle nazioni che fanno riferimento alla<br />

democrazia liberale. Queste ultime sono apparse come le più<br />

esposte al fenomeno della violenza terroristica e alla crisi eco-<br />

Antonio Suraci - Direttore <strong>Link</strong> Journal<br />

49<br />

nomica mondiale, due aspetti<br />

della globalizzazione. Pur in<br />

grado di dare risposte concrete<br />

su entrambi i fronti, le democrazie<br />

liberali hanno subìto un<br />

affievolimento della forza che<br />

sino ad oggi avevano saputo e<br />

potuto esprimere.<br />

Il possedere una Costituzione, e<br />

far partecipare i cittadini alla<br />

scelta dei go-vernanti attraverso<br />

libere elezioni, oggi non appare<br />

più sufficiente per mantenere in<br />

essere la democrazia e ciò in<br />

quanto i processi decisionali, meno di ieri, sono alla portata<br />

del cittadino. Il fenomeno del terrorismo, aumentando i sistemi<br />

di controllo, ha in qualche misura ristretto le libertà fondamentali;<br />

la crisi economica, non causata dal corpo sociale<br />

ma dall’errato utilizzo della delega, ha coinvolto la cittadinanza<br />

esclusivamente sull’effetto debitorio penalizzandone la<br />

vita sociale, il livello di protezione e la stessa occupazione. In<br />

entrambi i casi, le decisioni sono state assunte senza alcun<br />

coinvolgimento della popolazione e spesso anche al di fuori<br />

delle stesse istituzioni rappresentative. Il mondo globale impone<br />

risposte veloci i cui tempi spesso non rispondono ai riti<br />

delle democrazie liberali. Vi sono molti Paesi che si definiscono<br />

democratici pur avendo sistemi decisionali simili ad un<br />

sistema che non richiede necessariamente, nella formazione<br />

della decisione, il coinvolgimento della popolazione ed anche<br />

se dotati di sistemi elettivi, non sono, in molti casi, paragonabili<br />

a quelli delle democrazie liberali. In questa competizione<br />

globale noi non esportiamo democrazia, ma subiamo,<br />

adeguandoci, la necessità di rispondere celermente alle pressioni<br />

o ad azioni globali, sacrificando lo spirito che sino a<br />

questa rivoluzione contemporanea ci ha caratterizzato.<br />

Se prendiamo in considerazione che per molti il nostro sistema<br />

ha rappresentato il miglior sistema tra i peggiori esistenti,<br />

la porta ad una riflessione alternativa è aperta. Non si<br />

tratta di considerare sistemi autoritari o totalitari, ma di vedere<br />

come la democrazia liberale possa, adeguandosi alle sfide<br />

globali, mantenere in essere i presupposti ideali che la caratterizzano.<br />

Occorre, a questo punto, valutare come e perchè -<br />

essendo la maggioranza dei cittadini costretta a subire decisioni<br />

che ne penalizzano l’esistenza - la lealtà verso lo Stato e


50 globalizzazione link journal 1/<strong>2012</strong><br />

la disponibilità a partecipare ai riti della democrazia si siano<br />

affievolite. In quasi tutti i Paesi occidentali la disaffezione<br />

verso la politica e quindi verso le istituzioni è calcolabile percentualmente<br />

dal dato di astensionismo elettorale e dal<br />

fenomeno di una contestazione, seppure non violenta, sempre<br />

più ampia e rilevabile anche attraverso la lettura dei social-network.<br />

Non vi è una data ‘storica’ da cui partire per definire l’indebolimento<br />

dello Stato, ma è possibile prendere in esame l’arco<br />

degli anni settanta, in cui iniziava ad essere predicata la<br />

parabola del ‘meno Stato, più mercato’. Il laissez-faire, riconducibile<br />

ad un liberismo radicale, ha preso il sopravvento con<br />

l’illusione che i servizi già resi dal pubblico sarebbero stati più<br />

qualificati e a minor costo se offerti dal privato in una libera<br />

competizione. Da questo momento tale pensiero economico,<br />

che diviene politico nelle proposte, crea una incrinatura tra<br />

cittadini e Stato, convinti - i primi - che avrebbero potuto fare<br />

a meno di una entità pubblica che si avviava sul viale del tramonto.<br />

Pur non sostenendo le ragioni dell’uno o dell’altro, è<br />

indubbio che le funzioni di uno Stato non adeguatamente attrezzato,<br />

e non in grado di continuare ad essere fonte di investimenti<br />

per una errata visione populista della propria<br />

missione, hanno generato un distacco costante e continuo dei<br />

cittadini, ancor più penalizzati da forme di ‘rappresentanza<br />

conservativa’ a livello istituzionale. Il risultato di questo combinato<br />

è stato ed è la inadeguatezza nell’elaborare un nuovo<br />

contratto sociale rispondente alle necessità di una mutata visione<br />

economica e politica del mondo. La globalizzazione impone<br />

questa riflessione e la risposta può provocare anche il<br />

radicale cambiamento dei rapporti interni ai singoli Stati.<br />

Partendo dalla recente esperienza, seguendo una riflessione<br />

di Eric J. Hobsbawn, di come ‘il mercato non sia stato complementare<br />

alla democrazia liberale’ e come ‘la partecipazione al mercato<br />

abbia sostituito la partecipazione alla politica’, possiamo ritenere<br />

che entrambe le cause abbiano prodotto un unico effetto: la<br />

partecipazione del cittadino all’economia come consumatore<br />

e fruitore di un benessere illusoriamente duraturo. Il cittadino<br />

si è trovato imbrigliato in un gioco economico senza potersi<br />

rendere conto che andava lentamente indebolendo quell’aggregazione<br />

sociale di cui era parte e della quale oggi sente la<br />

mancanza. Vi è anche un altro aspetto che ci riguarda ancora<br />

più da vicino ed è quello di prendere nella giusta considerazione<br />

l’appartenenza ad una istituzione sovranazionale<br />

quale l’Europa, sempre più pregnante nella vita delle diverse<br />

comunità che ne fanno parte. L’allargamento dei confini<br />

nazionali ha rappresentato un altro elemento di debolezza<br />

dello Stato, anziché di forza e di maggiore rispondenza agli<br />

interessi dei cittadini. Tutti fattori questi che hanno sbilanciato<br />

la politica a favore dell’economia, del mercato più aperto.<br />

Oggi molte voci si levano nel chiedere una diversa e più au-<br />

tonoma funzione dello Stato, un ruolo maggiormente protettivo.<br />

Come vediamo, nei momenti di crisi, come l’attuale,<br />

molti tendono a rinchiudersi e a chiedere ‘più Stato e meno mercato’.<br />

Ma il problema non è questo e chi lo solleva lo sa. Il raggio<br />

di azione dello Stato è profondamente cambiato così il<br />

suo ruolo che necessita di nuove regole interne e di nuove<br />

‘autorizzazioni’ per esercitare politicamente la propria funzione<br />

nella globalizzazione e nella vita sovranazionale in cui<br />

molti Stati hanno scelto da tempo di confluire. Il rapporto<br />

interno deve essere recuperato attraverso l’implementazione<br />

di nuove regole certe che mirino a tutelare lo sviluppo della<br />

vita sociale e l’economia privata con meccanismi di<br />

trasparenza e maggiore responsabilità per chi è chiamato a<br />

gestire questa nuova sfida. Lo Stato-nazione, che chiede una<br />

libertà d’azione sul piano globale, deve saper garantire al proprio<br />

interno la certezza delle regole attraverso un’etica dei<br />

comportamenti che sia guida per coloro che verranno chiamati<br />

a gestire la cosa pubblica. Ciò significa che la politica,<br />

ritrovando se stessa, può garantire quei processi di partecipazione<br />

alla vita nazionale in grado di far rivivere i principi e<br />

i valori della democrazia, anche se sarà necessario individuare<br />

nuovi sistemi e metodi di rappresentanza. Dalla qualità del<br />

nuovo Stato dipenderà la stabilità sociale e una diversa predisposizione<br />

del cittadino a partecipare costruttivamente ai<br />

processi di globalizzazione, senza l’illusione di un mercato in<br />

grado di sostenere e sviluppare il benessere collettivo privato<br />

dell’attenta vigilanza della collettività, quindi dello Stato.<br />

Ritrovare l’amico comune, lo Stato, aiuterà ad affrontare diversamente<br />

il cammino della globalizzazione, lungo il quale,<br />

è bene non farsi illusioni, saremo tutti chiamati a collaborare<br />

partendo da una considerazione, che poi rappresenta la chiave<br />

di lettura prossima futura: nel pensare ad un nuovo ruolo<br />

dello Stato dovremo avere la consapevolezza che questo<br />

dovrà essere riformulato su una diversa sovranità legislativa<br />

ed economica, il che vuol dire che lo Stato-nazione, già messo<br />

in discussione, troverà altre e diverse forme per esistere, ma<br />

non avrà più quelle caratteristiche ‘nazionaliste’ che lo hanno<br />

caratterizzato nel passato. Secondo Ulrich Beck ‘la politica è<br />

chiamata ad ispirare un nuovo modello di Stato, non più basato sulla<br />

sovranità territoriale, ma su una sovranità che risponderà a dei principi<br />

politici, economici e culturali glo-bali.’ Una risposta certa a tale affermazione<br />

ancora non è riscontrabile, ma possiamo ritenere<br />

che la necessità di creare un modello politico che vada oltre i<br />

confini dello Stato sia ormai, pur attraverso curve critiche,<br />

una risposta credibile per una corretta gestione<br />

sovranazionale della globalizzazione, le cui conseguenze<br />

saranno, come indica Benedetto XVI, un comune destino per<br />

tutti gli uomini, una comune responsabilità e una necessaria<br />

concezione positiva della solidarietà “leva concreta dello sviluppo<br />

umano integrale”.


link journal 1/<strong>2012</strong> globalizzazione<br />

Per quale democrazia?<br />

Tahrir, Puerta del Sol, Zuccotti Park:<br />

il risveglio della libertà<br />

“Sono preoccupato per il mio futuro!”, dice un<br />

manifestante newyorkese raccontando il<br />

proprio disagio davanti ad una delle centinaia<br />

di telecamere che registrano ormai<br />

quotidianamente (e moltiplicano) le ragioni<br />

di “Occupy Wall Street” il movimento<br />

americano partito il 17 Settembre nell’omonima<br />

area a sud di Manhattan …<br />

”Ma quale futuro? Non c’è futuro” si intromette<br />

un altro giovane, con convinto<br />

cinismo e gestualità molto italiana. La<br />

crescente paura che ci sia una generazione, forse due, che rischiano<br />

di ‘saltare un giro’ nella giostra della vita, sta inondando le<br />

Piazze del Mondo.<br />

Storie, economie, culture diverse. Diverse accentuazioni sulle<br />

ragioni più immediate delle rivolte o delle manifestazioni: i debiti,<br />

le storture e l’esistenza stessa di questo mercato finanziario<br />

negli States ed in Europa; la rivendicazione di democrazia, libertà,<br />

sviluppo, spesso di ‘pane’ nei Paesi Arabi. Ma ci sono<br />

metodi di lotta simili; linguaggi (web e altro) spesso comuni;<br />

una singolare contemporaneità che crea reciproche influenze;<br />

lo stesso disagio e voglia di affermare che il ‘modello’ (se c’è…)<br />

di governance globale non funziona più e va cambiato.<br />

La crisi economico-finanziaria unisce il Pianeta.<br />

Le ragioni di riflessione su questo anno formidabile arrivano<br />

come fiumi in piena. Nessun ‘idraulico’ per quanto di valore,<br />

potrebbe ancora riuscire ad irreggimentarli in un discorso, non<br />

dico coerente, ma neppure ordinato. Metterò allora solo in fila<br />

pochi titoli, brevissime considerazioni e alcune domande. È già<br />

troppo per Twitter, ma magari potrà scimmiottare un blog.<br />

Prendiamo spunto dalle recentissime elezioni egiziane.<br />

Il Movimento rivoluzionario di Piazza Tahrir, mentre tornava<br />

ad occupare la Piazza contro il Consiglio Supremo delle Forze<br />

Armate, accusato di volersi sostituire a Mubarak, senza cambiare<br />

la sostanza del regime, è stato piuttosto tentato, in molte<br />

sue componenti, dal boicottaggio e dall’astensione. “No al voto<br />

sotto tutela, la piazza decide”, uno degli slogan dopo aver avuto<br />

altre 42 persone morte sotto i colpi della repressione.<br />

Ma la gente è andata in massa alle urne. Il 70% degli aventi<br />

diritto, una percentuale mai raggiunta. Sono milioni di elettori.<br />

È popolo che ha esercitato la più evidente, la più formale, la<br />

meno ambigua’forma di ‘democrazia diretta’: il voto. Quasi il<br />

40% di egiziani si è schierato con i Fratelli Mussulmani, la mag-<br />

Maurizio Zandri, SudgestAid<br />

“Sono le onde<br />

che fanno le spiagge,<br />

ma lì per lì nessuno<br />

se ne accorge”<br />

51<br />

gioranza ‘moderata’ prevista. Ma almeno<br />

il 20 – 23% ha votato per i Salafiti di Al<br />

Nour, un gruppo che vuole l’introduzione<br />

della legge coranica come legge<br />

dello Stato e che dice che in nessun luogo<br />

pubblico potranno esserci uomini e<br />

donne seduti insieme.<br />

Ma allora, insieme al Web, a Twitter, forse<br />

un’altra rete ha lavorato in questi mesi,<br />

radicata nei quartieri e nelle campagne,<br />

che lanciava messaggi nei mercati, organizzava<br />

assistenza: la rete delle Moschee e quella delle forze<br />

musulmane organizzate. Anche questo è un ‘movimento’, ma<br />

ha una rappresentanza. E’ stato solo parzialmente protagonista<br />

nei media che parlavano di Piazza Tahrir. Ma oggi ha la maggioranza<br />

del Paese.<br />

A ben vedere questo esempio si presta ad alcune generalizzazioni<br />

e consente di porsi questioni per molti versi cruciali.<br />

Vediamo.<br />

1. Il ruolo dell’ organizzazione<br />

Quale rapporto può/deve avere un Movimento con la scelta<br />

della rappresentanza politica, con le elezioni, e, in fin dei conti,<br />

con l’organizzazione? Abbiamo visto che Tahrir è stata in grado<br />

di abbattere un dittatore (non senza un doppiogiochismo calcolato<br />

delle Forze Armate, è il caso di aggiungere). Vuole giocare<br />

un ruolo nel governare il dopo Mubarak? Organizzato<br />

come? Delegando chi?<br />

Senza rispondere alla fase 2 che ogni movimento rivoluzionario<br />

si trova davanti, quella di come consolidare il proprio successo,<br />

quello che normalmente accade è, sembrerebbe di poter dire,<br />

una di queste due cose:<br />

- chi è già organizzato può agevolmente fare proprio il<br />

patrimonio della ‘rivoluzione’, gestendolo per il proprio successo;<br />

- in mancanza di organizzazione non si convoglia la<br />

simpatia di chi è rimasto a casa, ‘della maggioranza silenziosa’,<br />

non gli si dà modo di esprimersi e chi si oppone alla “rivoluzione<br />

può agevolmente recuperare consenso”. In Spagna, ad<br />

esempio, gli Indignados che insistono sul nessuno ci rappresenta<br />

anche in polemica con una sinistra al Governo che li ha delusi,<br />

sono stati coerenti sino in fondo alle ultime elezioni: non hanno


52 globalizzazione link journal 1/<strong>2012</strong><br />

assolutamente pensato a delegare qualcuno. Il Centro Destra ha<br />

ottenuto il 44% dei voti.<br />

2. La delega<br />

Il ragionamento sull’organizzazione confina direttamente, come<br />

si è appena visto, con quello<br />

sulla delega. Ma si possono fare,<br />

in questo caso, delle considerazioni<br />

aggiuntive.<br />

A Zuccotti Park, dove ad esempio<br />

c’è molta organizzazione interna,<br />

si pratica volutamente<br />

l’assenza di qualsiasi delega sia<br />

all’interno che all’esterno. Ci si<br />

auto-costruisce un mondo simbolico<br />

che però vive davvero<br />

una sua realtà parallela. E’ la<br />

critica più decisa di un modello<br />

sociale controllato dall’1% di<br />

privilegiati, da coloro che hanno<br />

consolidato, delega dopo delega,<br />

un potere che va a vantaggio solamente<br />

di chi lo esercita. Ma è possibile governare senza delegare?<br />

É possibile vivere un’esperienza di testimonianza,<br />

praticare un esempio, isolare un caso e usarlo, nel tempo, per<br />

diffonderlo, come un virus ‘benigno’.<br />

É possibile diventare santi. Ma si potrà mai gestire, non dico<br />

una Nazione, ma un villaggio, un ospedale, attraverso Assemblee<br />

che votano all’unanimità?<br />

Bisogna temere la ‘democrazia rappresentativa’ che dà spesso<br />

rappresentazioni sconsolanti di sé?<br />

O si deve, forse, lavorare di più sulle sue regole, sulla sua<br />

trasparenza, sui controlli?<br />

Far convivere, interagire forme di democrazia diretta e<br />

democrazia rappresentativa non è un modo per garantire che<br />

la prima rafforzi, integri e controlli la seconda?<br />

3. Tra maggioranza e minoranza<br />

Quando a Tahrir come a Madrid, a Tunisi come a New York,<br />

sotto i colpi della repressione si vacilla, ma poi, anche eroicamente,<br />

si resiste; e poi si diviene famosi e si ottengono risultati<br />

inimmaginabili in poco tempo, allora si vive anche una stagione<br />

di esaltazione e orgoglio che finisce immancabilmente per far<br />

coincidere la propria immagine con quella del ‘popolo’, il<br />

Popolo Arabo al suo completo a Tharir, il 99% della popolazione<br />

del pianeta a Zuccotti. Poi si scopre che qualche milione,<br />

la quasi maggioranza di spagnoli è per la conservazione dello<br />

status quo e i rappresentanti di una cultura religiosa medioevale<br />

sono più numerosi di chi “chatta” al Cairo.<br />

E allora nascono frustrazione e riflusso. Negli anni, anche con<br />

l’esperienza diretta, ho maturato una similitudine. I movimenti<br />

di protesta, rivoluzionari, radicali o anche solo legati ad obiettivi<br />

specifici, forse sono un po’ come le onde del mare.<br />

Quando rifluiscono seguono la propria natura. Poi tornano.<br />

Il loro successo non si misura<br />

con la porzione di terra che<br />

inondano permanentemente,<br />

ma con i sedimenti che lasciano.<br />

Nel tempo, sono le onde che<br />

fanno le spiagge, ma lì per lì nessuno<br />

se ne accorge.<br />

Se i protagonisti dei movimenti<br />

limitassero il loro autorappresentarsi<br />

come soluzione alternativa<br />

permanente allo stato di<br />

cose esistente.<br />

Se sapessero prima che il movimento<br />

non è tutto e che l’assemblea<br />

è soltanto una delle tante<br />

forme di decisione. Che sono<br />

un elemento vitalissimo di<br />

democrazia; la via, molto spesso, della rottura di una situazione<br />

insostenibile, ma non la democrazia o il modello salvifico delle<br />

nuove relazioni sociali, ci sarebbe meno romanticismo, certo,<br />

ma anche meno delusioni e senso di sconfitta.<br />

4. Nuove alleanze e società intermedia<br />

Infine, bisognerebbe forse valorizzare la pluralità delle rappresentanze,<br />

gli innumerevoli passaggi dei processi decisionali di<br />

una società complessa.<br />

Consolidare in forme di associazionismo, in partiti, sindacati,<br />

la ricchezza di interessi della società è un formidabile antidoto<br />

contro il cortocircuito popolo-leader, mediato dai mezzi<br />

tradizionali di comunicazione di massa, che toglie protagonismo<br />

alla gente, portandola verso una deriva plebiscitaria in<br />

cui il ‘voto’ non è più una forma di democrazia ma di alienazione<br />

del proprio ruolo.<br />

Le infinite possibilità orizzontali dell’epoca di internet garantiscono<br />

non solo le autoconvocazioni di grandi assemblee di<br />

popolo e la loro autorganizzazione, ma anche la capacità di dialogo<br />

e organizzazione tra numerosi, diversi livelli intermedi. I<br />

movimenti sono spesso momenti di sintesi. Luogo di confluenza.<br />

Quando la loro carica di innovazione e rottura<br />

affievolisce, una società intermedia organizzata e ricca di forme<br />

di vivace vitalità permette di immagazzinare e utilizzare l’energia<br />

che hanno sprigionato.


link journal 1/<strong>2012</strong> globalizzazione<br />

IL CALENDARIO DI UN FORMIDABILE 2011<br />

Tutto parte, almeno in termini di avvenimenti, perché<br />

le ragioni affondano le radici assai più indietro, il 17<br />

Dicembre 2010, quando Mohammed Bouazizi si dà<br />

fuoco davanti al Municipio di Sidi Bouzid, nel cuore della<br />

Tunisia. La polizia gli aveva sequestrato il banco di frutta e<br />

verdura, sostenendo che non avesse la licenza per vendere.<br />

Il giovane aveva protestato ed era stato picchiato, tanto da<br />

dover essere portato in ospedale.<br />

Da quel fuoco, di fatto, parte un incendio che nessuno ha<br />

ancora spento.<br />

A guardarlo da vicino è un calendario sorprendente per la<br />

dimensione degli avvenimenti e la portata delle conseguenze<br />

politiche e istituzionali, che faranno del 2011 un<br />

anno che rimarrà nella storia del nuovo secolo, speriamo<br />

anche per aver trasformato l’inverno (la stagione vera dell’avvio<br />

di tutto) in una ‘Primavera’:<br />

- In Tunisia, dunque, già dal 18 Dicembre 2010, giovani<br />

laureati, studenti senza futuro e poi via via altri settori<br />

di èlite intellettuale e di popolo inondano le piazze della<br />

Capitale. Appena 28 giorni dopo, Ben Ali, il presidente -<br />

padrone per 24 anni della Tunisia - si dimette e ripara in<br />

Arabia Saudita.<br />

- Ancora meno tempo, solo 17 giorni dalla partenza<br />

del movimento il 25 <strong>Gennaio</strong> a Piazza Tahrir, ci mettono<br />

gli Egiziani a dare una spallata definitiva al Faraone Hosni<br />

Mubarak, 30 anni esatti di potere, chiusi formalmente l’11<br />

Febbraio.<br />

- Serve la Nato a dare una mano ai Libici inferociti<br />

contro Gheddafi che ha fatto sparare sulla folla a Bengasi<br />

il 17 febbraio, mentre si manifesta per l’arresto di un militante<br />

per i diritti civili. Ma alla fine, il 20 Ottobre, dopo 42<br />

anni di potere assoluto il Raìs viene catturato e ucciso.<br />

- Contemporaneamente il 14 febbraio l’opposizione<br />

yemenita prende coraggio e lancia la sua sfida ai 33 anni di<br />

potere ininterrotto di Ali Abdhalla Saleh. Il 23 novembre,<br />

dopo molti morti, spaccature nell’esercito, un attentato al<br />

Palazzo presidenziale dove rimane gravemente ferito, Saleh<br />

si dimette a conclusione di una lunga mediazione gestita<br />

dall’Arabia Saudita.<br />

- In altri Paesi, tra cui Bahrein, Algeria, lo stesso<br />

Iran, si sviluppano nello stesso periodo manifestazioni e<br />

proteste, alcune come in Bahrein represse nel sangue o<br />

sostanzialmente tenute sotto controllo, come in Algeria, dall’Esercito<br />

che governa direttamente il Paese.<br />

- In Siria, intanto, dopo l’uso di carri armati, 3500<br />

morti e la molto timida reazione occidentale, si è ancora,<br />

drammaticamente in attesa di un punto di svolta.<br />

- Dall’esempio arabo, prende le mosse il 15 Maggio<br />

con l’occupazione della Puerta del Sol a Madrid, il movimento<br />

degli indignados in Spagna. Ai colpi di una crisi economica<br />

e finanziaria che sconquassa l’Europa e rende molto<br />

incerto il futuro (a causa della quale già dal 2008 anche<br />

Atene è attraversata da moti di protesta che sconfinano nella<br />

ribellione aperta ai tagli imposti dall’Unione Europea e dalle<br />

banche creditrici), si unisce la rabbia per il fallimento dell’esperienza<br />

di governo socialista. “Nessuno sconto a chi<br />

governa, nessuno ci rappresenta” è il messaggio del movimento.<br />

- Londra, Berlino, Roma e molte altre Capitali del<br />

Vecchio Continente si riempiono di manifestanti, in un<br />

susseguirsi di azioni di protesta che si influenzano vicendevolmente,<br />

si scambiano ‘pratiche’ sul Web, si autoconvocano<br />

“perché non vogliamo pagare debiti che non abbiamo fatto”.<br />

- Nella Capitale della finanza mondiale, a New York,<br />

ci si prepara per mesi prima della data simbolo del 17 settembre<br />

in cui, come abbiamo visto, viene occupato Zuccotti<br />

Park. La crisi finanziaria americana esplosa nel 2008, ha<br />

visto il Governo e Obama, che certo molti partecipanti ad<br />

“Occupy Wall Street” hanno votato, intervenire rifinanziando<br />

le banche. OWS non è d’accordo. Dice che i soldi andrebbero<br />

dati alle famiglie, a chi non riesce a pagare il mutuo o<br />

gli interessi sulle carte di credito.<br />

Non si fa illusioni su obiettivi intermedi raggiungibili a<br />

breve. Guarda alla Primavera Araba ma sa che non ci sono<br />

spallate possibili in America.<br />

Parte e si consolida, allora, un’esperienza nuova, che pratica<br />

l’obiettivo, stabilisce sistemi di solidarietà interna che si<br />

vivono direttamente in piazza, organizza mense e librerie e<br />

soprattutto, anche pagando lo scotto di commissioni e assemblee<br />

che durano giorni, lancia il suo messaggio più radicale<br />

per un movimento, per la politica, per la società:<br />

Occupy Wall Street è ‘leaderless’! E con coerenza protestante<br />

non solo non si delega a leader, ma non ci sono<br />

neanche ‘portavoce’. L’Assemblea Generale non decide a<br />

maggioranza ma continua a discutere, deve puntare a decidere<br />

alla quasi unanimità. OWS è apartitica, aconfessionale,<br />

ci sono tutti i colors… E’ l’espressione “del 99% della<br />

popolazione contro l’1% ricco che esercita il potere”.<br />

53


54 globalizzazione link journal 1/<strong>2012</strong><br />

Lo sviluppo del commercio e la crisi del reddito<br />

Abbandoniamo<br />

il sogno dell’iperbole<br />

Esiste una stretta correlazione - come è noto - tra consumi<br />

e reddito e, quindi, tra produzione e possibilità<br />

di spesa. In questo legame deve essere ricercata la<br />

comprensione dei percorsi che possono essere intrapresi per<br />

interrompere il circolo vizioso che ha reso l’attuale crisi dei<br />

mercati un fenomeno non solo afferente gli equilibri finanziari<br />

delle Nazioni, ma anche e soprattutto le economie reali dei<br />

sistemi su cui si è abbattuta.<br />

La crisi globale, da un triennio a questa parte, appare tutt’altro<br />

che fenomenica, quanto piuttosto ciclica, con ritorni stagionali<br />

di varia intensità: come i tifoni asiatici o gli uragani americani,<br />

in realtà la crisi, o meglio, le crisi partono da lontano. Più precisamente,<br />

nel 2011 i Governi affrontano tempeste nate altrove<br />

e in altri tempi, in USA nel 2007, quando -<br />

improvvisamente, ma col senno di poi è scontato dirlo - si è<br />

cercato di arginare il temuto default di primarie banche, innescato<br />

a sua volta dal default di crediti concessi con eccessiva<br />

prodigalità, indebitando intere<br />

Nazioni, oggi esposte al default<br />

del Sistema Paese,<br />

qualunque Paese, tranne forse<br />

i Paesi creditori ‘ultimi’, come<br />

la Cina, che - dopo dieci anni<br />

di crescita ininterrotta - non piange<br />

ancora, ma ha senz’altro<br />

smesso di ridere. Ciò dimostra<br />

che, in un contesto globalizzato,<br />

il virus della crisi tocca<br />

immediatamente realtà economico-sociali<br />

di diversi Paesi, causando un effetto contagio,<br />

più o meno veloce, a seconda delle capacità di reazione dei<br />

singoli sistemi: si pensi al default dell’Argentina, in cui nell’ottobre<br />

2011 si sono rimborsati titoli del debito pubblico<br />

risalenti a quindici anni fa, al 30% del loro valore facciale, con<br />

una perdita di valore subita dagli investitori internazionali pari<br />

al 70%. Alla luce di tale esperienza, risulta ancor più attuale la<br />

minaccia di una distruzione di valore generalizzata.<br />

Cosa si possa fare per impedire il fallimento dei singoli Stati<br />

ed evitare il rischio di contagio all’economia mondiale -tutt’altro<br />

che scongiurato, visti gli andamenti dei mercati fi-<br />

Claudio Patalano, <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />

Lo sviluppo continuo<br />

è un modello<br />

non più attuabile, perché,<br />

molto semplicemente,<br />

non è più sostenibile<br />

nanziari mondiali - è il quesito ricorrente, quasi ossessivo, a<br />

cui non si trovano risposte passepartout.<br />

Il problema ha due corni, come il Diavolo nell’iconografia<br />

medievale: il debito e la crescita.<br />

Se è vero - come avrebbe detto Keynes - che in tempo di crisi<br />

servono investimenti pubblici anche solo per scavare buche<br />

e riempirle, così da generare reddito spendibile a sostegno<br />

della produzione, i Paesi si interrogano sulla validità dell’investimento<br />

a pioggia.<br />

Nella migliore delle ipotesi alimenta solo le cc.dd. ‘economie del<br />

trickle down’: a chi è assetato davvero arrivano solo le gocce di<br />

un flusso di marea che alimenta prevalentemente corruzione<br />

ed inefficienze. Nella peggiore delle ipotesi si traduce in<br />

spreco massivo, soprattutto se le buche riempite non sono sul<br />

patrio suolo.<br />

Peraltro, non può nascondersi che le politiche keynesiane non<br />

sono più perseguibili sic et simpliciter a livello mondiale, in<br />

quanto lo scenario operativo è<br />

fortemente mutato.<br />

Si prenda, ad esempio, l’Italia.<br />

La regolamentazione europea<br />

volta alla restrizione degli aiuti<br />

di Stato - pur con il pregio di<br />

stimolare la competizione e la<br />

libera concorrenza - ha vanificato<br />

in gran parte il tentativo di<br />

pianificare in modo strutturale<br />

gli investimenti pubblici<br />

affinché siano di beneficio agli<br />

operatori locali: per costruire cinquecento metri di Salerno-<br />

Reggio Calabria occorre bandire gare aperte a competitori europei,<br />

che - liberi di contrarre i prezzi perché non soggetti al<br />

‘controllo sociale’ delle comunità servite dall’autostrada - finiscono<br />

inevitabilmente per vincere la maggioranza delle gare,<br />

portando all’estero il valore creato, talvolta abbassando gli<br />

standard qualitativi del prodotto reso e costringendo i lavoratori<br />

a contratti capestro che ne riducono, fisiologicamente,<br />

motivazione e, quindi, produttività.<br />

La globalizzazione ha fatto il resto: l’esternalizzazione delle<br />

attività produttive all’estero ha distrutto ‘gli indotti’, in gran


link journal 1/<strong>2012</strong> globalizzazione<br />

parte dei settori manifatturieri, contribuendo all’impoverimento<br />

dei distretti specializzati e al trasferimento delle<br />

conoscenze/competenze e della cultura economica altrove.<br />

D’altronde, applicare politiche volte all’incremento della pressione<br />

fiscale - soprattutto sui redditi medio-alti - in assenza di<br />

un’avveduta negoziazione sui fattori di spesa, è divenuto un<br />

elemento di forte destabilizzazione degli equilibri politici,<br />

come dimostrato dagli Stati Uniti di Obama, alle prese con<br />

l’innalzamento del tetto del debito e il rischio default, che - per<br />

non scontentare i Tea Party, subendone i veti - hanno rinunciato<br />

a politiche espansive, finendo per esasperare, con tagli<br />

alla spesa sociale in assenza del necessario consenso, un’intera<br />

generazione, quella che in questi giorni manifesta e che si è<br />

organizzata nel movimento Occupy Wall Street.<br />

Si sarebbe tentati di dare al problema soluzioni di modello<br />

franco-tedesco, contenendo il debito sino all’azzeramento dei<br />

finanziamenti pubblici in molti settori: un approccio liberista,<br />

temperato da attenzione al welfare, che tuttavia genera non<br />

pochi problemi quando il Mercato, in preda ai propri demoni<br />

interni, Speculazione e Panico, non consente di governarne<br />

orientamenti e reazioni, inducendo a soluzioni drastiche,<br />

spesso impattanti sulle condizioni stesse per il rispetto di principi<br />

elementari di equità sociale.<br />

Probabilmente, dinnanzi a questa crisi, si dovrebbe pensare<br />

in modo non allineato alle tendenze prevalenti, senza subire<br />

il condizionamento della rigida dicotomia tra politiche espansive<br />

e restrittive.<br />

Coraggiosamente, si dovrebbe attuare un approccio<br />

‘omeopatico’, per così dire: intervenire sul sistema del credito,<br />

rinnovandone la vision, al contempo promuovendo<br />

politiche orientate alla crescita interna, sostenendo l’imprenditoria<br />

nella sua capacità di produrre reddito, riqualificando<br />

la spesa pubblica con rigore, ma evitando tagli ‘orizzontali’,<br />

solo apparentemente egalitari.<br />

Il percorso da intraprendere appare per certi versi incoerente:<br />

si vogliono incoraggiare le Banche, viste da tutti come la causa<br />

della crisi, e si vuole sostenere il reddito, quando tutti invitano<br />

a ‘tirare la cinghia’. Al contrario, osservazioni di tale segno appaiono<br />

fuori fuoco.<br />

Gran parte dei problemi dell’economia reale scaturisce dal c.d.<br />

credit crunch, ovvero dalla contrazione del mercato del credito,<br />

in cui un ruolo hanno giocato sia la mancanza di liquidità interbancaria,<br />

che un outlook negativo sull’economia reale.<br />

Basilea II ha completato l’opera con effetti indubitabilmente<br />

pro-ciclici, imponendo sistemi di valutazione più rigidi, che<br />

hanno penalizzato fortemente gli apprezzamenti dei valori intangibili<br />

delle aziende (si pensi alle start-up), nonché il mantenimento<br />

di rapporti costanti tra impieghi e raccolta che, in<br />

55<br />

un momento di scarsa capitalizzazione, ha finito per interrompere<br />

il normale flusso dell’erogazione del credito.<br />

Quanto alle politiche del reddito, forse sinora si è chiesto di<br />

‘tirare la cinghia sbagliata’: le politiche di gettito hanno imposto<br />

sacrifici alle famiglie e alle piccole e medie imprese, facendo<br />

poco o nulla per costringere l’economia a instradarsi su sentieri<br />

virtuosi, ad esempio permettendo l’emersione del ‘nero’<br />

e perseguendo l’evasione.<br />

Non deve stupire che l’Italia sia divenuta così fragile da essere<br />

preda della speculazione borsistica sui titoli di debito emessi<br />

dallo Stato: un Paese che non sa esattamente quali scelte compiere<br />

per il futuro, che dimostra scarsa fermezza nel superamento<br />

delle proprie debolezze, non offre grandi rassicurazioni<br />

sulla sua capacità di governare i fenomeni esogeni, quindi consente<br />

che i dubbi sulla sua tenuta si trasformino in panico e<br />

le aspettative sulla sua crescita in un gioco al ribasso.<br />

Intanto, i primi nove mesi del 2011 hanno messo al tappeto<br />

novemila imprese, circa trenta imprese al giorno, fallite nella<br />

peggiore delle ipotesi, o entrate in quell’area di disfacimento<br />

auto-alimentato che è la spirale della sofferenza bancaria.<br />

Coerentemente, il numero degli incagli e dei passaggi alle categorie<br />

di credito sotto osservazione sono esplosi, con un incremento<br />

che recenti studi di settore hanno quantificato in<br />

circa il 35,5% rispetto al 2009, quando si pensava che la crisi<br />

stesse lentamente rientrando. L’ultima relazione del Governatore<br />

della Banca d’Italia Draghi, infatti, pur minimizzando,<br />

parla esplicitamente di ‘lieve recessione’.<br />

Pertanto, si comprende come intervenire su una crisi finanziaria,<br />

come era quella del 2007, con approcci finanziari,<br />

senza tener conto degli effetti sull’economia reale, ha dimostrato<br />

di essere una scelta scarsamente proficua, se non<br />

addirittura disastrosa.<br />

Bisogna ripartire dal reddito, più che dal debito, pur conservando<br />

strategie che lo tengano sotto controllo: per fare ciò,<br />

ovvero sostenere la crescita senza indebitare ulteriormente lo<br />

Stato, si deve cominciare a ragionare in ottica di sostenibilità e<br />

di responsabile partecipazione di tutta la classe dirigente ed imprenditoriale.<br />

Se le banche non possono erogare credito perché sono prive<br />

di sufficienti mezzi patrimoniali, bisogna promuovere il<br />

risparmio delle famiglie in forma di deposito, senza motivare<br />

fughe dall’investimento bancario con un aggravio degli oneri<br />

fiscali. Quando le imprese non creano occupazione, occorre<br />

regolamentare meglio il mercato del lavoro, disincentivando<br />

precarizzazione e sperequazioni generazionali, motivando -<br />

con benefici anche fiscali - gli imprenditori ad investire nell’innovazione<br />

e nell’internazionalizzazione, per creare in Italia<br />

le condizioni di un miglioramento effettivo degli standard


56 globalizzazione link journal 1/<strong>2012</strong><br />

qualitativi di vita dei lavoratori, principali apportatori di reddito<br />

alla comunità, tramite la stabilizzazione delle aspettative<br />

positive sulla certezza e sul valore effettivo dello stipendio,<br />

con ovvi ritorni sulla propensione alla spesa.<br />

Infatti, far sì che il sistema economico investa in Italia il proprio<br />

capitale umano, tecnologico e finanziario, certo che la<br />

ricchezza prodotta per il Paese si tradurrà in un rafforzamento<br />

della domanda, può dare vigore alla crescita dei consumi.<br />

Molto ancora può fare lo Stato, investendo le poche risorse<br />

disponibili canalizzandole sulla ricerca, sulla competenza e sul<br />

merito. È mancata sinora una “mente economica”, cioè l’abilità<br />

di tenere insieme le varie anime del Leviatano e la capacità<br />

di riscrivere il “contratto sociale” in prospettiva di<br />

convergenza verso esigenze comuni, piuttosto che verso la<br />

Il Web: ‘agorà’ virtuale<br />

per il confronto<br />

e la partecipazione<br />

democratica<br />

Nelle elezioni presidenziali degli Stati Uniti, nell’ottobre<br />

del 2008, Bararak Obama batte l’avversario repubblicano<br />

McCain grazie alla mobilitazione al voto<br />

di settori tradizionalmente astensionisti, in particolare le minoranze<br />

e i giovani. Nel febbraio del 2011, dopo un trentennio<br />

al potere, Hosni Mubarak lascia la Presidenza dell’Egitto<br />

a seguito delle multitudinarie manifestazioni di protesta, simboleggiate<br />

dai giovani di piazza Tahrir. Fenomeni assai diversi<br />

tra loro, ma accomunati da un uso inedito della rete e dei social<br />

network come fattore agglutinante di mobilitazione e<br />

partecipazione.<br />

Internet incide oggi sui fenomeni di creazione del consenso,<br />

sulla partecipazione e perfino sull’organizzazione della<br />

protesta e muta profondamente le regole della comunicazione<br />

politica tradizionale. Per chi fa politica “abitare la<br />

rete” è oggi una grande sfida ed insieme un’opportunità. Gli<br />

strumenti che essa offre consentono di far circolare idee e<br />

proposte in modo interattivo ed ampio, di creare un dialogo<br />

inedito con i cittadini e le organizzazioni di base in grado di<br />

rafforzare una leadership politica oggi offuscata dal disin-<br />

Roberto Lippi - <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />

disaggregazione e lo scontro, visto che – mai come ora – si<br />

può ragionare su premesse condivisibili, se non fondate su<br />

ottiche concordi.<br />

In sintesi, bisognerebbe riscoprire le logiche della “classe<br />

media”, realtà socio-economica compressa entro angusti spazi<br />

dall’estremizzazione delle politiche degli ultimi anni, riprendendo<br />

la tradizione dei criteri dell’equilibrio e dell’armonia,<br />

fondati su approcci cc.dd. ‘stop & go’, che permettano di affrontare<br />

le urgenze una per volta, prioritizzandole per step<br />

progressivi di azione e consolidamento dei risultati delle scelte<br />

compiute.Lo sviluppo continuo, secondo curve verticali, è un<br />

modello non più attuabile, proprio perché, molto semplicemente,<br />

non è più sostenibile: bisogna abbandonare il sogno<br />

dell’iperbole.<br />

canto e da una distanza sempre più evidente tra il palazzo e<br />

le piazze. Ma facilitano anche la mobilitazione e l’organizzazione<br />

del dissenso, riconsegnando proprio alle piazze – virtuali<br />

o reali che siano - quel ruolo di pungolo della politica<br />

che sembrava sopito nell’ultimo decennio.<br />

Per molti oggi la rete equivale ad una enorme piazza virtuale,<br />

in cui i social network corrispondono alle moderne tribune,<br />

luoghi di discussione e di partecipazione democratica, spazi<br />

del confronto continuo e costante. Un potenziale dagli incredibili<br />

ritmi di crescita, quello della rete e dei nuovi social<br />

media, se è vero che la televisione ha impiegato 13 anni per<br />

raggiungere un audience di 50 milioni di persone, mentre<br />

Facebook ha raggiunto lo stesso risultato in pochi mesi, ed<br />

oggi conta oltre mezzo miliardo di utenti attivi.<br />

“L’ho visto su Facebook” è un’affermazione ormai comune<br />

negli uffici, nelle scuole, in autobus. La diffusione di quelli<br />

che vengono definiti “media conversazionali” è ormai tale<br />

che “esserci” si avvia a diventare molto più comune che “non<br />

esserci”. Quella che prima era stata definita “era dell’accesso”


link journal 1/<strong>2012</strong> globalizzazione<br />

è divenuta ormai “era della presenza”. La Rete<br />

non ha soltanto attuato un processo di rimediazione<br />

degli altri strumenti di comunicazione<br />

(televisione e carta stampata in primis) ma,<br />

trasformando l’utente da spettatore o lettore in<br />

vero e proprio interattore, sta profondamente e<br />

inesorabilmente mutando il sistema dei media<br />

ed il modo stesso di fare comunicazione, anche quella politica,<br />

che non può più essere unidirezionale.<br />

La diffusione massiccia del mezzo televisivo, appena pochi<br />

decenni fa, aveva già mutato profondamente le forme della<br />

comunicazione politica, un tempo veicolata dalle sezioni di<br />

partito. La TV è risultata essere un mezzo estremamente efficace<br />

per raggiungere il maggior numero di elettori, ma con<br />

il limite che pone tutto il pubblico su uno stesso piano, rivolgendosi<br />

alla generica categoria del “cittadino astratto”, senza<br />

alcun vero contraddittorio possibile. Ciò ha portato a concentrarsi<br />

più sugli aspetti legati alla personalità del leader politico<br />

che sui contenuti del suo discorso, esasperando i toni del dibattito<br />

e ricercando l’effetto annuncio per le proposte.<br />

L’avvento di Internet e degli strumenti propri di quello che è<br />

stato definito “web 2.0” destruttura e ridefinisce secondo<br />

nuove modalità il rapporto tra gli eletti e gli elettori, con una<br />

rinnovata centralità del cittadino-elettore, che pone il politico<br />

nella condizione di dover ripensare attentamente il rapporto<br />

e i contenuti della propria azione.<br />

Vari autori affermano che ci troviamo oggi di fronte a un contesto<br />

inedito dal punto di vista storico: la transizione dall’universo<br />

della televisione all’universo di Internet. Ovvero, il<br />

passaggio dalla “teledemocrazia” alla “cyberdemocrazia”.<br />

In contesti diversi dal nostro, come ad esempio quello degli<br />

Stati Uniti, la rete è già entrata a pieno titolo nelle strategie di<br />

comunicazione dei politici, tanto come strumento da adottare<br />

attivamente per una comunicazione più efficace, quanto come<br />

contesto da conoscere per evitarne le trappole e le minacce.<br />

Anche da noi alcuni leader politici stanno cogliendo i segnali<br />

di cambiamento e stanno entrando nella conversazione,<br />

guardando con maggior attenzione queste forme di comunicazione<br />

“dal basso”. Anche se va comunque sottolineato che,<br />

nonostante la portata e le profonde implicazioni della rivoluzione<br />

in atto, un impatto determinante dell’utilizzo della<br />

Rete sulle consultazioni elettorali non è ancora stato dimostrato<br />

e che molti analisti sostengono che ad oggi “Internet<br />

ancora non sposta voti”. Ma quali che siano gli effetti diretti<br />

sui processi elettorali odierni, nessuno pone in dubbio che la<br />

rete sia oggi un ambito strategico per amplificare il proprio<br />

discorso e rafforzare la capacità di convinzione presso l’elettorato<br />

di riferimento. E mano a mano che i “nativi digitali”<br />

diverranno cittadini-elettori, Internet e i social network in-<br />

57<br />

cideranno con sempre maggior determinazione<br />

sui processi di creazione del consenso, sulle capacità<br />

di far emergere leadership politica, sulle<br />

relazioni dinamiche tra la politica e i gruppi più<br />

o meno organizzati di interesse.<br />

Ignorare il ruolo della rete, allora, può portare<br />

con sé il rischio di perdere il legame con una<br />

parte significativa della società e con le sue forme di organizzazione,<br />

riducendo la capacità di costruire il consenso in<br />

modo consapevole o canalizzare il dissenso in forme costruttive<br />

di dialogo. Ciò è vero anche nel nostro Paese, dove negli<br />

ultimi anni si è assistito ad un allontanamento generalizzato<br />

dei cittadini, ed in particolare dei giovani, dalla politica, almeno<br />

nelle sue forme tradizionali. Di fatto, i partiti politici<br />

sembrano sempre meno capaci di svolgere la loro funzione<br />

di raccordo e mediazione tra cittadino ed istituzioni, di organizzare<br />

l'azione collettiva e di costruire identità politiche. Le<br />

nuove generazioni esprimono in maniera evidente l’allontanamento<br />

dalla dimensione pubblica. Allontanamento spesso accompagnato<br />

da fenomeni di disillusione e di erosione delle<br />

forme di legittimità riconosciuta alla classe politica nel suo insieme.<br />

Tendenza questa confermata dall’andamento decrescente<br />

della partecipazione ai momenti elettorali che si sono tenuti<br />

nell’ultimo quinquennio, dove - invertendo la tradizione storica<br />

del dopoguerra - si è visto un progressivo allineamento del<br />

nostro Paese alle percentuali di astensionismo tipiche di altre<br />

democrazie occidentali. Un astensionismo che si caratterizza<br />

come fenomeno politicamente rilevante in sè, ma che riveste<br />

caratteristiche di vero e proprio allarme, se si considera l’incidenza<br />

del fenomeno tra le giovani generazioni.<br />

D’altro canto, però, sia in Italia che all’estero - ed in primis<br />

nella cosiddetta “primavera araba” - la Rete e i social network<br />

hanno mostrato tutto il proprio potenziale in termini di organizzazione<br />

della protesta, cambiando fortemente il Dna<br />

delle forme di attivismo rispetto al passato. Modalità, luoghi<br />

e slogan sono sempre più affidati al passaparola telematico di<br />

Facebook, Twitter e degli altri social media. Youtube è stato<br />

utilizzato per diffondere i filmati degli eventi e delle manifestazioni,<br />

anche in circostanze di forte censura, filmati poi<br />

ripresi dai media tradizionali a diffusione mondiale. Insomma,<br />

l’era di Internet e dei cosiddetti “personal media” ha rinnovato<br />

e potenziato profondamente anche gli orizzonti comunicativi<br />

della protesta, organizzandone i contenuti e spesso<br />

facendo trascendere i confini locali o nazionali.<br />

É evidente che alcuni paradigmi quali la partecipazione e il<br />

consenso o il dissenso e la protesta, stanno cambiando nelle


58 globalizzazione link journal 1/<strong>2012</strong><br />

proprie modalità e forme di organizzazione anche in funzione<br />

della diffusione della rete.<br />

Ma se Internet è già stata ampiamente utilizzata nel fare politica<br />

in chiave “antisistema”, rimane oggi la sfida di utilizzarne<br />

il potenziale in chiave di riscatto sostantivo della politica. Una<br />

potenzialità inedita per costruire quel modello di democrazia<br />

poliarchica descritto da Dahl come forma di rinnovata partecipazione.<br />

Per comprendere e interpretare quali mutamenti<br />

la diffusione della rete e dei social network possono portare<br />

per il fare politica, è essenziale approfondire l’analisi su alcuni<br />

concetti chiave per l’azione politica quali sono la leadership,<br />

la legittimità, il consenso e la partecipazione.<br />

In questo contesto, la leadership politica va sempre più interpretata<br />

non soltanto come capacità di dare senso all’azione<br />

collettiva o di interpretare in maniera adeguata i fenomeni<br />

della realtà, ma anche e soprattutto<br />

come facoltà di indivi-duare e mostrare<br />

mete da perseguire, dar forma a ideali<br />

verso i quali convogliare le energie collettive<br />

e mobilitarle su azioni che trascendono<br />

gli interessi individuali. Ciò è tanto<br />

più efficace quanto più le mete proposte<br />

sono frutto di una reale costruzione collettiva,<br />

la cui spinta dal basso e “interpretata”<br />

in chiave politica.<br />

Il leader politico, in questa accezione, è tanto più effettivo<br />

quando tiene conto delle spinte e degli stimoli che vengono<br />

dall’elettorato, senza però cedere alla tentazione della mediazione<br />

continua, del piccolo vantaggio per tutti, del consenso<br />

ottenuto “per sottrazione” e non per “sommatoria”. In altre<br />

parole, colui o colei che fa della legittimità del consenso ottenuto<br />

la base per la propria azione politica. La legittimità è<br />

formalmente consegnata al politico attraverso i processi elettorali.<br />

Ma per la politica nel suo insieme, la legittimità<br />

sostanziale è data dalla capacità di interpretare le esigenze profonde<br />

degli elettori, di trasformarle in azioni e di riscontrarle<br />

con una visione di società. Ovvero, dalla capacità di costruire<br />

in forma amplia e partecipata il consenso politico, sia per l’immediato<br />

che per il futuro.<br />

Nei sistemi democratici il consenso è misurato in primo luogo<br />

dalla qualità della convivenza pacifica e della coesione sociale.<br />

In secondo luogo, però, esso si misura dalla qualità della partecipazione<br />

elettorale e dal responso delle urne come sostegno<br />

alle decisioni della propria classe dirigente. Per questo la politica<br />

esercita un ruolo di mediazione simbolica tra i valori di<br />

fondo di una comunità e le concrete esigenze espresse dalla<br />

società, che si traduce nell’azione di governo. Un ruolo tanto<br />

più effettivo quanto più riesce a rafforzare gli spazi di parte-<br />

cipazione e di cittadinanza attiva. Ovvero, è presupposto per<br />

una democrazia di qualità quello di poter contare su una partecipazione<br />

effettiva, su una cittadinanza informata, critica, capace<br />

di formare ed esprimere opinioni consapevoli.<br />

Dai cittadini del nostro tempo, caratterizzati da un aumentato<br />

livello di istruzione ed esposti ad un massiccio flusso di informazioni,<br />

ci si aspetterebbe quindi un crescente interesse<br />

per la politica. Al contrario, le più recenti ricerche sul rapporto<br />

tra cittadini e politica tracciano in tutta Europa una spiccata<br />

sfiducia nei confronti delle istituzioni politiche e dei partiti.<br />

E’ un fenomeno definito come “sindrome del cittadino<br />

critico”, ossia il prevalere di un atteggiamento critico diffuso,<br />

spesso di vera e propria insofferenza nei confronti dei processi<br />

di delega e di rappresentanza che porta a difficoltà oggettive<br />

nel tradurre le espressioni sociali in termini di consenso.<br />

Per ricostruire questo rapporto su basi rinnovate, la rete e gli<br />

strumenti del Web 2.0 possono offrire<br />

oggi canali di dialogo estremamente<br />

significativi. Un contesto ormai ampiamente<br />

diffuso che permette al leader<br />

politico di poter dar a conoscere le proprie<br />

priorità e scelte in modo permanente.<br />

Ma anche e soprattutto di<br />

accogliere e validare proposte, esigenze<br />

ed interessi presenti nel corpus sociale<br />

o nei territori di riferimento della propria<br />

azione di rappresentanza. Un cambio<br />

di paradigma nella sfera della politica, che ha portato un<br />

intellettuale del calibro di Stefano Rodotà ad affermare, con<br />

entusiasmo, che “Internet è il più grande spazio pubblico che l’umanità<br />

abbia conosciuto, dove si sta realizzando anche una grande redistribuzione<br />

di potere”… “Un luogo dove tutti possono prendere la parola,<br />

acquisire conoscenza, produrre idee e non solo informazioni, esercitare il<br />

diritto di critica, dialogare, partecipare alla vita comune e costruire un<br />

mondo diverso in cui tutti possano dirsi egualmente cittadini”.<br />

É ovvio che tutto ciò non può prescindere dall’elemento cruciale<br />

della volontà. Una volontà rinnovata di mutamento delle<br />

forme di costruzione del consenso e dell’azione politica nel<br />

suo insieme. Il rischio è altrimenti che attraverso le liturgie<br />

della rete si affermino forme di populismo del nostro tempo,<br />

che spingono verso forme di democrazia elettronica plebiscitaria,<br />

stigmatizzate con preoccupazione da alcuni analisti.<br />

“ La vera novità democratica della Rete - afferma ancora Rodotà - non<br />

consiste nel dare ai cittadini l’ingannevole illusione di partecipare alle<br />

grandi decisioni attraverso referendum elettronici. Consiste nel potere dato<br />

a ciascuno e a tutti di servirsi della straordinaria ricchezza di materiali<br />

messa a disposizione dalle tecnologie per elaborare proposte, controllare<br />

i modi in cui viene esercitato il potere, organizzarsi nella società”.<br />

La diffusione degli strumenti del Web 2.0, insomma, può of-


link journal 1/<strong>2012</strong> globalizzazione<br />

frire alla sfera politica nuove facoltà per costruire in maniera<br />

allargata e partecipativa l’agenda politica, in ambito locale,<br />

nazionale ed internazionale.<br />

Il Web non è un mero contenitore di informazioni “statiche”,<br />

ma quel luogo “dinamico” di integrazione e ibridazione continua<br />

dei contenuti.<br />

Un cambiamento di prospettiva rispetto alla produzione e<br />

fruizione dei contenuti, cui la politica non può sottrarsi. Alla<br />

Dialogo globale:<br />

i canoni<br />

della convivenza<br />

Le giovani generazioni, accompagnate dall’evoluzione<br />

sempre crescente e sempre più veloce dei mezzi di comunicazione,<br />

hanno una grande opportunità e corrono<br />

un grande rischio rispetto al tema dell’ integrazione<br />

culturale e religiosa.<br />

Il mondo è fortemente interrelato e persone di culture e di<br />

religioni diverse entrano in contatto senza soluzione di continuità,<br />

in un incontro inevitabile, quotidiano, che appartiene<br />

ormai alla normalità della vita di ciascuno di noi. Pensiamo,<br />

solo per fare un esempio, alle nostre città sempre più interetniche<br />

e ai loro quartieri sempre più caratterizzati dalla<br />

compresenza di etnie differenti.<br />

Chi oggi ha intorno a vent’anni, si dice, è nei fatti un cittadino<br />

globale e un nativo digitale. Si tratta di persone che, rispetto<br />

alle generazioni precedenti, hanno una naturale capacità nell’utilizzo<br />

di personal computer, social network, strumenti<br />

sempre più diretti e che immediatamente risolvono la necessità<br />

di superare le barriere che intercorrono con l’altro, con<br />

chi ancora non conosciamo, con chi è “spazialmente” (ma<br />

non umanamente) distante da noi.<br />

Tale facilità di approccio, dunque, semplifica le cose, riduce i<br />

tempi, permette una immediata comunicazione. Si tratta della<br />

grande opportunità che richiamavo all’inizio, la possibilità di<br />

ritrovarsi insieme e vicini, pur se distanti.<br />

Marco Emanuele - <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />

politica ed ai suoi leader è richiesto di entrare in contatto con lo<br />

spirito dei tempi. Di riattivare anche attraverso la Rete quel rapporto<br />

osmotico eletto/elettore che si è affievolito nel tempo.<br />

Di mobilitare nuove energie per la costruzione collettiva e riorganizzare<br />

il consenso in forme più partecipative ed ampie. Senza<br />

però cedere alla tentazione di cavalcare gli umori più immediati,<br />

di governare sul sondaggio permanente, che la Rete potrebbe<br />

ampliare e che tanto danno fa alla credibilità e alla capacità<br />

trasformatrice dell’azione politica in tutte le latitudini.<br />

In questi mesi, in particolare, abbiamo potuto constatare l’importanza<br />

“politico-strategica” della “rete”, le sue implicazioni<br />

nelle mobilitazioni che, da più parti a livello planetario, si sono<br />

affermate nella cronaca e nel dibattito.<br />

Da una parte all’altra del mondo si susseguono segnali importanti,<br />

soprattutto da parte delle giovani generazioni, a riprendere<br />

in mano una progettualità di convivenza non ancora<br />

compiutamente definita. Tentativi organizzati di ricostruire<br />

relazioni progettuali - ai livelli nazionale, regionale, globale -<br />

si muovono non solo all’interno di contesti particolari ma,<br />

ormai, a livello transregionale e transcontinentale.<br />

La sfida della riappropriazione della storia comune e del riorientamento<br />

della convivenza, tendenzialmente in senso democratico,<br />

è ben importante nell’attuale momento storico;<br />

dalle “primavere” arabe, all’uscita dall’ “oscurantismo” informatico<br />

in Paesi come la Cina, all’effetto domino dei movimenti<br />

degli “indignati” in diverse parti del mondo, le giovani<br />

generazioni sono impegnate - grazie a Internet - a ritrovarsi<br />

59


60 globalizzazione link journal 1/<strong>2012</strong><br />

intorno a progetti di cambiamento, cercando di<br />

finalizzare le differenti sensibilità ed esperienze<br />

ad un “fine” comune.<br />

Non possiamo ancora dire che tutto questo sia<br />

una nuova frontiera della politica anche se, a ben<br />

guardare, tali processi hanno effetti inevitabili<br />

sulle strutture politico-istituzionali dei Paesi e sui<br />

processi di convivenza, alimentando una spinta<br />

globale all’impegno per il rinnovamento.<br />

La globalizzazione è certamente l’artefice di tale<br />

opportunità, facilitando la diffusione dell’innovazione<br />

per la comunicazione e di strumenti<br />

sempre più capaci di permettere una “navigazione”<br />

efficace e diretta nel grande mare<br />

della “rete”.<br />

Se, da un lato, le evoluzioni negli strumenti di comunicazione<br />

e di condivisione della “rete” generano<br />

moblitazioni collettive (non sempre per<br />

creare “reti di dialogo” quanto spesso per contrapporsi<br />

giustamente ad inaccettabili disuguaglianze<br />

nella situazione planetaria), dall’altro<br />

lato e paradossalmente possono portare al rischio<br />

di una involuzione nei rapporti umani, alla<br />

incapacità di avvertire il bisogno dell’incontro,<br />

del confronto e del dialogo profondo con l’altro.<br />

In molte occasioni si ritrovano insieme giovani<br />

di diversa estrazione culturale e religiosa ed accomunati<br />

da intenzioni condivise, forti di una<br />

voglia di riscatto dalle ingiustizie e dalle mancate<br />

risposte sul loro futuro. Essi, però, sono ancora<br />

“acerbi” sulla capacità di fare comunità nella<br />

conoscenza reciproca, di unirsi a partire dalla<br />

comune “natura umana” – articolata nelle differenti<br />

esperienze e tradizioni – che è il processo<br />

necessario per stare insieme in maniera davvero<br />

integrata e non soltanto intorno ad un obiettivo,<br />

per quanto importante esso sia.<br />

Dunque, considerando quanto dicevamo all’inizio,<br />

dell’interrelazione globale che crea la<br />

normalità quotidiana della convivenza fra differenze,<br />

si rischia di comunicare e di incontrarsi<br />

senza conoscere, di vivere superficialmente processi<br />

complessi; si rischia di guardare all’altro<br />

come ad un compagno di viaggio senza cercarlo<br />

davvero, senza ritrovare in lui, attraverso i tratti<br />

che ci distinguono, il reciproco completamento.<br />

I giovani, io credo, hanno una grande spinta alla<br />

conoscenza umana nel cambiamento e tale ten-<br />

sione va preservata e valorizzata. L’unico antidoto<br />

alla “violenza” culturale e religiosa che discende<br />

dalla non conoscenza (o dalla conoscenza<br />

superficiale) dell’altro e dalla estremizzazione<br />

delle reciproche posizioni è l’apertura all’altro,<br />

anche attraverso la ricomposizione dell’esperienza<br />

nella conoscenza.<br />

Le ragioni della cultura e della fede, ben lo vediamo<br />

in giro per il mondo, possono rappresentare<br />

una straordinaria occasione di crescita<br />

personale e comune così come possono generare<br />

incomprensioni e scontri; è importante ricondurre<br />

a “relatività” tali ragioni e ritrovare una<br />

“nuova innocenza” nei pensieri e nelle azioni.<br />

Chi meglio dei giovani, artefici di futuro, può insegnarci<br />

a percorrere tale prospettiva?<br />

La formazione gioca in tutto questo un ruolo<br />

fondamentale; essa deve centrarsi sempre di più<br />

sull’integrazione fra i saperi e del sapere con l’operare,<br />

focalizzandosi sull’ “umanesimo integrale”<br />

dei giovani. Il dialogo è un percorso<br />

ineludibile e la conoscenza aiuta a respirare e a<br />

comprendere la dimensione globale della vita<br />

che, per sua natura, è relazione ed è nella relazione<br />

fra persone ‘in formazione’ ed ‘in<br />

conoscenza’.<br />

La formazione per la conoscenza è la sfida di un<br />

futuro che già percorre il nostro presente; si<br />

tratta di un processo permanente.<br />

Esso ha il ‘fine’ di far riappropriare ogni persona<br />

della globalità della vita, ritrovandosi in essa<br />

come “casa comune” dell’umanità. In essa si<br />

sviluppa l’integrazione fra differenze, che vive<br />

nel dialogo.<br />

Aprire le menti, allargare il proprio sguardo sulla<br />

realtà è ancora più necessario in questo tempo<br />

in cui sembrano dominare le chiusure e le separazioni,<br />

anche nei rapporti umani.<br />

Riprendiamo, in conclusione, alcune parole di<br />

Raimon Panikkar: “Oggi il dialogo non è un lusso o<br />

una questione secondaria. L’ubiquità della scienza e<br />

della tecnologia moderne, dei mercati mondiali, delle organizzazioni<br />

internazionali e delle corporazioni<br />

transnazionali, così come le innumerevoli migrazioni di<br />

lavoratori e la fuga di milioni di rifugiati […] rendono<br />

l’incontro di culture e religioni inevitabile e indispensabile<br />

insieme.”


link journal 1/<strong>2012</strong> globalizzazione<br />

Verso un progetto per la globalizzazione<br />

La complessità è connaturata con la vita e con la società<br />

umana, non è una scoperta moderna. Il nostro cervello<br />

è formato da 100 miliardi di cellule e da oltre 100.000<br />

miliardi di connessioni. Il nostro genoma, mappato qualche<br />

anno fa, è formato da circa tre miliardi di lettere: le basi TC-<br />

TAGATCAA ecc. sono come un libretto di istruzioni formato<br />

da circa un miliardo di parole pari a 5000 volumi di 300<br />

pagine, da cui nasce l’essere umano.<br />

Ma anche un’automobile è formata da circa 100.000 pezzi<br />

unici: se li pensiamo distribuiti su un pavimento abbiamo ancora<br />

una volta un esempio di sistema complesso.<br />

Ma come mai allora questo fiorire d’interesse verso la complessità?<br />

La mia opinione è che agli inizi degli anni novanta due eventi,<br />

uno tecnologico e l’altro politico, portarono il mondo a imboccare<br />

la strada verso una ‘nuova complessità’ attraverso un<br />

percorso non lineare denso di episodi emergenti che sembrano<br />

oggi rendere pericoloso il cammino e oscuro il futuro.<br />

Il 20 gennaio 1993 Bill Clinton fu eletto 42° presidente degli<br />

Stati Uniti d’America. Insieme a lui fu eletto come vicepresidente<br />

Al Gore che il 3 <strong>marzo</strong> 1993 lanciò il programma National<br />

Partnership for Reinventing Government. Tale<br />

iniziativa aveva l’obiettivo di far recuperare credibilità all’Amministrazione<br />

centrale nei confronti dei cittadini. Il programma<br />

prevedeva la completa informatizzazione degli uffici<br />

e dei servizi Federali e la contemporanea informatizzazione<br />

degli uffici degli Stati, oltre che l’avvio della realizzazione di<br />

backbone internet ad alta velocità.<br />

Pasquale Russo - <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />

61<br />

Tutti sanno che una cosa è<br />

impossibile da realizzare,<br />

finché arriva uno che non<br />

lo sa e la inventa.<br />

Albert Einstein<br />

Nello stesso periodo, nel giugno del 1993, Tim Berners Lee<br />

pubblicò formalmente il linguaggio HTML su cui è basato<br />

Internet ed il World Wide Web.<br />

Il Governo federale USA assunse rapidamente la nuova tecnologia<br />

che diventò in breve tempo la nuova e prevalente<br />

modalità di interazione tra la pubblica amministrazione americana,<br />

i cittadini e le imprese.<br />

L’investimento economico, tecnologico, formativo e informativo,<br />

pubblico e privato, fu di straordinaria rilevanza e caratterizzò<br />

le due presidenze Clinton.<br />

Nacque così in quegli anni la new economy, intesa come la possibilità<br />

di concludere transazioni economiche e commerciali<br />

attraverso sistemi basati su informatica, più telecomunicazioni,<br />

più microelettronica.<br />

L’introduzione di tali sistemi tecnologici consentì un incremento<br />

sostanziale del livello di complessità dei mercati, soprattutto<br />

quelli finanziari, perché la facilità della<br />

smaterializzazione della moneta rese possibile:<br />

• l’ampliamento della dimensione dei mercati;<br />

• la velocizzazione del funzionamento dei mercati.<br />

La possibilità che i processi economici e finanziari si potessero<br />

quindi svolgere con certezza in un mondo connesso ha generato<br />

una pressione sulle norme che avevano fino ad allora<br />

regolato le transazioni; tutto ciò ha portato al superamento<br />

delle barriere doganali per la finanza con la conseguente<br />

perdita del controllo da parte dei singoli Stati sul sistema finanziario.<br />

É mia opinione che l’irruzione della new economy nell’economia


62 globalizzazione link journal 1/<strong>2012</strong><br />

Edgar Morin<br />

“La cultura,<br />

ormai, non solo<br />

è frammentata<br />

in parti staccate,<br />

ma anche<br />

spezzata<br />

in due blocchi”<br />

occidentale e la conseguente diffusione pervasiva<br />

delle tecnologie web fu il momento fondante della<br />

globalizzazione.<br />

L’investimento USA, nato per migliorare la pubblica<br />

amministrazione, si trasformò in un progetto<br />

politico con l’obiettivo di far recuperare agli Stati<br />

Uniti la leadership tecnologica e finanziaria. Così,<br />

nelle università americane, si susseguirono scoperte<br />

e furono attratti cervelli, brevetti e innovazioni che<br />

hanno consentito che oggi, nel mondo, siano attivi<br />

oltre 5 miliardi di cellulari, quasi sette miliardi di connessioni<br />

telefoniche, oltre 2 miliardi di utenti internet.<br />

Inoltre, quasi 6 miliardi di foto vengono caricate<br />

ogni mese su Facebook e 375 miliardi di foto vengono<br />

scattate ogni anno a mappare la Terra, infine<br />

oltre 10 miliardi di SMS e 294 miliardi di e-mail<br />

vengono inviati ogni giorno. Google, la più grande<br />

azienda web al mondo, dal canto suo, ha 500.000<br />

server a cui si connette oltre un miliardo di utenti al<br />

giorno per fare decine di miliardi di ricerche.<br />

Eppure, tale complessità del mondo è vissuta più<br />

come un sistema caotico sfuggito al controllo, di cui<br />

non si conoscono le leggi, né il progetto, lo scopo o<br />

le finalità; tantomeno si ha un libretto di istruzioni<br />

che consenta di assemblare i pezzi di un mondo che<br />

sembra un insieme disarticolato e disarmonico di<br />

parti cangianti che non ambiscono a stare insieme.<br />

La mia opinione è che abbiamo necessità di trasformare<br />

il processo di globalizzazione in un progetto di globalizzazione<br />

definendone, appunto, lo scopo e le<br />

leggi che devono regolarlo e scrivendo in un libretto<br />

di istruzioni il modo per tenere insieme tutti i pezzi<br />

ora sparsi su un pavimento virtuale.<br />

Il G20 e le diverse aggregazioni locali di Stati nazionali<br />

(Unione Europea, Unasur, ecc) sono ancora<br />

timidi tentativi di raggiungere non<br />

una riduzione della complessità<br />

del mondo, perché ciò non<br />

potrebbe più essere, ma semplicemente<br />

per restituirle di nuovo una<br />

sua ragione.<br />

La complessità di una Ferrari è incommensurabilmente<br />

superiore a<br />

quella di una Cinquecento, ma è<br />

comprensibile, ha una sua forma<br />

definita, perché ha lo scopo di<br />

correre a 400 Km orari e vincere<br />

la Formula Uno. Dobbiamo dare senso ai nuovi<br />

complessi sistemi umani per trasformarli in una Ferrari.<br />

Questo che ho scritto è qualcosa in meno e qualcosa<br />

in più di una teoria; qualcosa in meno perché lo<br />

spazio è troppo poco per un’appropriata formalizzazione,<br />

qualcosa in più perché è parte del lavoro<br />

quotidiano della <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong> dove<br />

proviamo a rafforzare nei nostri studenti la<br />

percezione dei processi globali perché come Edgar<br />

Morin sostiene: ‘la cultura, ormai, non solo è frammentata<br />

in parti staccate, ma anche spezzata in due blocchi’: da una<br />

parte, la cultura umanistica che affronta la riflessione<br />

sui fondamentali problemi umani, stimola la riflessione<br />

sul sapere e favorisce l’integrazione personale<br />

delle conoscenze, dall’altra, la cultura scientifica che<br />

“separa i campi della conoscenza, suscita straordinarie scoperte,<br />

geniali teorie, ma non una riflessione sul destino umano<br />

e sul divenire della scienza stessa”. E ancora, l’indebolimento<br />

di una percezione globale conduce all’indebolimento<br />

del senso della responsabilità, poiché<br />

ciascuno tende a essere responsabile solo del proprio<br />

compito specializzato, così come all’indebolimento<br />

della solidarietà, poiché ciascuno percepisce solo il<br />

legame con la propria città: “la conoscenza tecnica è riservata<br />

agli esperti” e “mentre l’esperto perde la capacità di<br />

concepire il globale e il fondamentale, il cittadino perde il diritto<br />

alla conoscenza!”.<br />

Diceva Einstein: “Tutti sanno che una cosa è impossibile<br />

da realizzare, finché arriva uno che non lo sa e la inventa.”<br />

Speriamo che le prossime generazioni di giovani non<br />

si dibattano come noi nel tentativo di comprendere<br />

la complessità della globalizzazione ma semplicemente<br />

la inglobino. Prepariamo leaders per un<br />

mondo che evolve non per uno che semplicemente<br />

cambia.


link journal 1/<strong>2012</strong> globalizzazione<br />

mondo molto diverso da venti anni fa quello che<br />

si affaccia alla United Nations Conference on Sus-<br />

E'un<br />

tainable Development (UNCSD) il prossimo giugno<br />

a Rio de Janeiro. Il pianeta ed i suoi abitanti soffrono oggi più<br />

che mai le conseguenze dell'aggravamento della crisi ambientale<br />

globale, dell'aumento del divario tra elite ricche e masse<br />

Rio+20: una porta aperta<br />

sul futuro dello sviluppo sostenibile<br />

povere. A Rio, venti anni fa, la comunità internazionale cercò<br />

di consolidare un patto globale per affrontare in maniera<br />

nuova e "visionaria" il tema della tutela dell'ambiente, elaborando<br />

nuove matrici per coniugare tale esigenza con il diritto<br />

dei Paesi più poveri allo sviluppo. Lo ha fatto producendo<br />

una serie di documenti ed impegni che hanno costituito un<br />

importante tassello nella costruzione del diritto internazionale<br />

dell'ambiente e nella storia della diplomazia multilaterale. Ed<br />

è stato durante la Conferenza di Rio del 1992 - che fu anche<br />

detto Vertice sulla Terra, o Eco'92 - che fu scoperto il ruolo<br />

della società civile globale, capace di una mobilitazione sociale<br />

senza precedent, che produsse una decisa accelerazione negli<br />

obiettivi fin lì perseguiti dalle Nazioni Unite, spingendo il<br />

modello multilaterale emerso dopo la fine della guerra fredda<br />

a realizzare la Convenzione delle Nazioni Unite sulla diversità<br />

biologica e la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui<br />

cambiamenti climatici, la Dichiarazione sulle foreste e l'Agenda<br />

21. Si affacciava, insomma, a tre anni dalla caduta del<br />

Muro di Berlino, un mondo nuovo e pieno di speranze. Quella<br />

che sembrava l'alba di una storia fatta di pace e prosperità,<br />

con le mirabolanti promesse del modello vincente della globalizzazione<br />

neoliberista, divenne l'epifania delle nuove contraddizioni.<br />

Non più il rapporto tra i paesi dell'Ovest e quelli<br />

dell'Est, ma l'emersione di una dialettica Nord/Sud che, seppure<br />

profondamente mutata, segna di sé ancora la storia<br />

odierna.<br />

A dire il vero il 1992 è anche l'anno in cui si aprì qualche crepa<br />

in una delle istituzioni finanziarie che, più di altre, svolge un<br />

ruolo di primo piano nello sviluppo, la Banca Mondiale. Il<br />

colpo più duro, dopo alcuni grandi scandali, lo diede però<br />

Larry Summers allora Chief Economist della Banca e poi<br />

consigliere economico nell'amministrazione Clinton, che -<br />

proprio poco prima di Rio - ebbe ad ammettere che una delle<br />

maniere migliori per sbarazzarsi di tecnologie sporche fosse<br />

quella di esportarle in Paesi in via di sviluppo dove, grazie al<br />

basso indice di crescita economica, l'inquinamento era ancora<br />

a livelli<br />

Gennaro Migliore - <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />

63<br />

bassi. Era Rio il luogo dove con veemenza si rielaborò il conflitto<br />

tra Nord e Sud del mondo, con il ricco Nord che esigeva<br />

impegni stringenti per la tutela delle foreste tropicali, i polmoni<br />

verdi del Pianeta, ed il Sud che chiedeva risorse finanziarie addizionali,<br />

e trasferimento di tecnologia e know-how per<br />

crescere sulle stesse coordinate che stanno portando il pianeta<br />

al collasso. Purtroppo molte delle aspettative di allora sono rimaste<br />

disattese.<br />

A Rio, nel 1992, si segna uno spartiacque: si affermarono due<br />

principi nuovi, quello precauzionale, e quello delle responsabilità<br />

comuni ma differenziate, secondo il quale i Paesi che<br />

più contribuiscono agli squilibri ambientali dovranno svolgere<br />

un ruolo più incisivo sia nel riorientamento delle loro politiche<br />

interne che nel contribuire con mezzi e fondi affinché quelli<br />

meno sviluppati possano costruire le basi per lo sviluppo<br />

sostenibile. Se fino ad allora, e la diceva la stessa denominazione<br />

della Conferenza (UNCED, United Nations Conference<br />

on Environment and Development), ambiente e<br />

sviluppo erano ancora visti come principi separati, per i quali<br />

valeva al massimo un principio di scambio (quasi a voler segnalarne<br />

la tendenziale incompatibilità) da allora , anche se in<br />

maniera fin troppo abusata, entra nel lessico quotidiano il termine<br />

‘sviluppo sostenibile’, che non a caso diviene la definizione<br />

con cui si evolve il summit fino alla denominazione odierna.<br />

Lo ‘sviluppo sostenibile’ sta ad indicare un approccio olistico che<br />

lega appunto lo sviluppo (inteso per i più come crescita economica)<br />

all'ambiente (visto da molti esclusivamente come<br />

miniera di risorse naturali da usare in maniera oculata sul<br />

lungo periodo). Parallelamente alla visione ‘ufficiale’ del concetto<br />

di sviluppo sostenibile, se ne affiancano altre che danno<br />

maggior risalto alla giustizia sociale, alla critica del concetto<br />

stesso di sviluppo o alla finitezza delle risorse naturali. Del<br />

resto, questa tendenza a incorporare la dimensione sociale<br />

come elemento fondativo si propone proprio nel vertice<br />

Rio+10, che si tenne nel 2002 a Johannesburg, dove, anche<br />

in virtù della forte spinta dell'allora presidente sudafricano


64 globalizzazione link journal 1/<strong>2012</strong><br />

'Mbeki, si tese a sottolineare che il progresso economico di<br />

molte aree del mondo non si era accompagnato ad un corrispondente<br />

progresso sociale. I numeri confermano che<br />

quella preoccupazione di un decennio fa, oggi è diventata una<br />

certezza. Dal 1992 ad oggi il Pil mondiale è cresciuto del 60%!<br />

Venti anni di globalizzazione hanno prodotto, come ha ricordato<br />

anche recentemente il Segretario generale delle Nazioni<br />

Unite, Ban Ki-moon, una crescita straordinaria delle ricchezze,<br />

ma hanno anche stressato l'ambiente e persino messo in discussione<br />

alcuni ‘supporti vitali’ del pianeta. Inoltre, ricorda sempre<br />

Ban Ki-moon nel suo rapporto di preparazione al prossimo<br />

vertice UNCSD, all'allarme ambientale si è aggiunta una vera e<br />

propria esplosione della povertà. Una dimensione, quella della<br />

povertà, sia assoluta che relativa, che oggi lambisce il cuore dello<br />

sviluppato nord, in particolare a seguito della crisi economica<br />

e finanziaria che è iniziata nel 2008.<br />

Quindi, se nel 1992 si scoprì l'importanza di una ‘sinergia’ tra<br />

economia e ambiente, mentre nel 2002 si pose l'accento, almeno<br />

nei propositi, a colmare il gap sociale, nel prossimo vertice<br />

dovranno sempre più essere prese in considerazione le radici<br />

degli squilibri, non solo le loro manifestazioni epifenomeniche.<br />

Del resto, anche gli attori di questi vertici hanno profondamente<br />

mutato ruolo dopo venti anni di globalizzazione: se infatti<br />

si può con certezza affermare che, dalla globalizzazione,<br />

sono stati beneficiati alcuni grandi Paesi, in particolare quelli<br />

che hanno preso il nome di BRICS (Brasile, Russia, India, Cina<br />

e Sud Africa), non si può negare che le disparità sono aumentate<br />

e diventate strutturali, in particolare per quanto avviene nei<br />

cambiamenti climatici, per la perdita irrecuperabile della biodiversità<br />

e per la stessa interruzione del ciclo dell'azoto.<br />

Appare chiaro, quindi, che l'Onu abbia inteso organizzare<br />

l'UNCSD puntando ad una piena integrazione delle tematiche<br />

ecologiche e sociali, sulla base del mandato assegnato dalla<br />

risoluzione 64/236 dell'Assemblea generale. In particolare, si<br />

punterà l'attenzione sulla green economy, vista sia nel contesto<br />

dello sviluppo sostenibile e dello sradicamento della povertà,<br />

che in relazione al quadro istituzionale va sempre modificato<br />

ed aggiornato per sostenere nuove sfide globali. Determinare<br />

una convergenza tra green economy, sradicamento della povertà e<br />

aggiornamento del quadro istituzionale, diviene l'obiettivo fondamentale<br />

della Conferenza. In particolare, dopo il parziale fallimento<br />

del vertice sui cambiamenti climatici a Durban, che<br />

pure si è concluso con un impegno ad aggiornare entro il 2020<br />

il trattato di Kyoto, l'aspettativa sui risultati di Rio+20 è diventata<br />

molto più pressante. Inoltre, vale la pena di sottolineare il<br />

ruolo che intende svolgere Dilma Roussef, in particolare dopo<br />

lo straordinario discorso pronunciato per l'inaugurazione dell'ultima<br />

Assemblea generale delle Nazioni Unite sul tema della<br />

lotta alla povertà. La presidente brasiliana tenterà di ottenere<br />

degli impegni più concreti dalle nazioni del Nord del mondo<br />

sul piano ambientale, sebbene la sua formazione industrialista<br />

la stia facendo entrare in conflitto con i settori più avanzati dei<br />

movimenti ecologisti.<br />

Eppure, la questione fondamentale che sottende questi tipi di<br />

vertice è sempre la stessa: perché falliscono? E, se falliscono,<br />

ce ne è ancora bisogno nel nuovo contesto globale? Penso<br />

che sia doveroso partire dal secondo interrogativo, rispondendo<br />

affermativamente. I vertici sul clima e quello di Rio<br />

sono le uniche sedi nelle quali si discuta realmente del tema<br />

dell'uguaglianza e della convivenza del genere umano.<br />

Non accade così per i vertici dell'Omc o nelle agenzie delle<br />

Nazioni Unite. Si tratta di agende che mettono in campo una<br />

esigenza fondamentale, quella del trasferimento di ‘ricchezze’,<br />

siano esse materiali che di conoscenza, dai più ricchi ai più<br />

poveri. Le stesse procedure negoziali sono un terreno indispensabile,<br />

a maggior ragione nel tempo di questa crisi, per<br />

trattenere un filo di responsabilità comune tra le nazioni e per<br />

le future ge-nerazioni. Vanno tenuti anche secondo l'opinione<br />

della maggior parte dei movimenti che li contestano, che<br />

spesso ne rappresentano la vera essenza democratica (si pensi<br />

all'emergere del tema beni comuni, a partire dall'acqua come<br />

bene strategico in ogni contesto, nazionale e sovranazionale).<br />

Eppure sono quasi sempre falliti. La dinamica, cui accennavo<br />

in precedenza, si è cristallizzata negli anni: il nord ricco chiede<br />

al sud di ridurre le emissioni nocive (ed è vero che la Cina e<br />

l'India sono oramai i maggiori emettitori di inquinanti); il sud,<br />

in forte ascesa, ricorda che l'emissione pro capite e, soprattutto,<br />

quella storica, sono tutte ascrivibili al nord e che, per<br />

conseguire la fuoriuscita dalla povertà per miliardi di persone,<br />

non possono essere costretti a bloccare il proprio sviluppo<br />

economico. Inoltre, si registra un vero e proprio paradosso<br />

che ci racconta quanto siano inadeguati i meccanismi regolativi<br />

che conosciamo. Quando si incontrano i più potenti leader<br />

del pianeta non si riesce ad ottenere neanche un minimo impegno,<br />

mentre se ci si sposta a scale più ridotte, dai comuni<br />

alle regioni, le azioni virtuose possono determinare cambiamenti<br />

assai significativi.<br />

Sarà indispensabile, allora, che i temi affrontati dai prossimi<br />

vertici, a partire da Rio+20, divengano davvero il patrimonio<br />

di un dibattito da svolgersi su scala nazionale e globale, con<br />

un vero coinvolgimento delle società civili. Del resto, il principio<br />

su cui si fonda la green economy, sottratta dalle furbe manipolazioni<br />

di chi ne vede solo i margini di business, è proprio<br />

quello di favorire una prossimità ‘democratica’ del ciclo economico.<br />

Secondo l'Ocse gli investimenti verdi, l'ecoriforma<br />

fiscale (come per esempio la carbon tax), le energie rinnovabili,<br />

la sostenibilità agricola, l'internalizzazione del costo sociale e<br />

ambientale nei prezzi delle commodities (per ottenere ciò che<br />

si chiama ‘prezzo giusto’), la corretta gestione dei rifiuti, sono


link journal 1/<strong>2012</strong> globalizzazione<br />

tutt'altro che ostacoli alla crescita economica. Si tratta, invece,<br />

di veri e propri motori per lo sviluppo sostenibile. Bisogna,<br />

in definitiva, praticare davvero un approccio win-win, iniziando<br />

dallo smentire alcune bugie che, ideologicamente, vengono<br />

propinate per ridurre gli sforzi tesi ad ottenere un risultato<br />

positivo. Volete un esempio? Secondo uno studio dell'Ue in<br />

media si sovrastima l'impatto economico degli investimenti<br />

verdi, il doppio di quanto sia quello effettivo a rendiconto!<br />

Si tratta, quindi, di conquistare un vero spazio pubblico<br />

affinché i governi, spesso condizionati dalle esigenze di politica<br />

interna, possano discutere con i cittadini i caratteri<br />

fondamentali di scelte che avranno un impatto decisivo sul<br />

futuro. È un impegno che dovrebbe essere preso da ciascun<br />

abitante del pianeta, poiché non possiamo lasciare la terra<br />

peggio di come ce l'hanno consegnata i nostri padri.<br />

Rio de Janeiro Summit 1992<br />

United Nations Summit on<br />

Environment and Development<br />

RIO DECLARATION ON ENVIRONMENT<br />

AND DEVELOPMENT<br />

(Rio de Janeiro, 3-14 June 1992)<br />

La Conferenza delle Nazioni Unite sull'ambiente e lo sviluppo,<br />

Riunita a Rio de Janeiro dal 3 al 14 giugno 1992,<br />

Riaffermando la Dichiarazione della Conferenza delle Nazioni Unite<br />

sull'ambiente adottata a Stoccolma il 16 giugno 1972 e nell'intento di<br />

continuare la costruzione iniziata con essa,<br />

Allo scopo di instaurare una nuova ed equa partnership globale, attraverso<br />

la creazione di nuovi livelli di cooperazione tra gli Stati, i settori<br />

chiave della società ed i popoli,<br />

Operando in direzione di accordi internazionali che rispettino gli interessi<br />

di tutti e tutelino l'integrità del sistema globale dell'ambiente e<br />

dello sviluppo,<br />

Riconoscendo la natura integrale ed interdipendente della Terra, la<br />

nostra casa,<br />

proclama<br />

Principio 1<br />

Gli esseri umani sono al centro delle preoccupazioni relative allo<br />

sviluppo sostenibile. Essi hanno diritto ad una vita sana e produttiva<br />

in armonia con la natura.<br />

Principio 2<br />

Conformemente alla Carta delle Nazioni ed ai principi del diritto internazionale,<br />

gli Stati hanno il diritto sovrano di sfruttare le proprie<br />

risorse secondo le loro politiche ambientali e di sviluppo, ed hanno il<br />

65<br />

dovere di assicurare che le attività sottoposte alla loro giurisdizione o<br />

al loro controllo non causino danni all'ambiente di altri Stati o di zone<br />

situate oltre i limiti della giurisdizione nazionale.<br />

Principio 3<br />

Il diritto allo sviluppo deve essere realizzato in modo da soddisfare<br />

equamente le esigenze relative all'ambiente ed allo sviluppo delle generazioni<br />

presenti e future.<br />

Principio 4<br />

Al fine di pervenire ad uno sviluppo sostenibile, la tutela dell'ambiente<br />

costituirà parte integrante del processo di sviluppo e non potrà essere<br />

considerata separatamente da questo.<br />

Principio 5<br />

Tutti gli Stati e tutti i popoli coopereranno al compito essenziale di<br />

eliminare la povertà, come requisito indispensabile per lo sviluppo<br />

sostenibile, al fine di ridurre le disparità tra i tenori di vita e soddisfare<br />

meglio i bisogni della maggioranza delle popolazioni del mondo.<br />

Principio 6<br />

Si accorderà speciale priorità alla situazione ed alle esigenze specifiche<br />

dei paesi in via di sviluppo, in particolare di quelli più vulnerabili sotto<br />

il profilo ambientale. Le azioni internazionali in materia di ambiente e<br />

di sviluppo dovranno anche prendere in considerazione gli interessi e<br />

le esigenze di tutti i paesi.<br />

Principio 7<br />

Gli Stati coopereranno in uno spirito di partnership globale per conservare,<br />

tutelare e ripristinare la salute e l'integrità dell'ecosistema terrestre.<br />

In considerazione del differente contributo al degrado<br />

ambientale globale, gli Stati hanno responsabilità comuni ma differenziate.<br />

I paesi sviluppati riconoscono la responsabilità che incombe loro<br />

nel perseguimento internazionale dello sviluppo sostenibile date le<br />

pressioni che le loro società esercitano sull'ambiente globale e le tecnologie<br />

e risorse finanziarie di cui dispongono.<br />

Principio 8<br />

Al fine di pervenire ad uno sviluppo sostenibile e ad una qualità di vita<br />

migliore per tutti i popoli, gli Stati dovranno ridurre ed eliminare i modi<br />

di produzione e consumo non sostenibili e promuovere politiche demografiche<br />

adeguate.<br />

Principio 9<br />

Gli Stati dovranno cooperare al fine di rafforzare le capacità istituzionali<br />

endogene per lo sviluppo sostenibile, migliorando la comprensione<br />

scientifica mediante scambi di conoscenze scientifiche e tecnologiche<br />

e facilitando la preparazione, l'adattamento, la diffusione ed il trasferimento<br />

di tecnologie, comprese le tecnologie nuove e innovative.<br />

Principio 10<br />

Il modo migliore di trattare le questioni ambientali è quello di assicurare<br />

la partecipazione di tutti i cittadini interessati, ai diversi livelli. Al livello<br />

nazionale, ciascun individuo avrà adeguato accesso alle informazioni<br />

concernenti l'ambiente in possesso delle pubbliche autorità, comprese<br />

le informazioni relative alle sostanze ed attività pericolose nelle comunià,<br />

ed avrà la possibilità di partecipare ai processi decisionali. Gli Stati<br />

faciliteranno ed incoraggeranno la sensibilizzazione e la partecipazione<br />

del pubblico rendendo ampiamente disponibili le informazioni. Sarà<br />

assicurato un accesso effettivo ai procedimenti giudiziari ed amministrativi,<br />

compresi i mezzi di ricorso e di indennizzo.<br />

Principio 11<br />

Gli Stati adotteranno misure legislative efficaci in materia ambientale.<br />

Gli standard ecologici, gli obiettivi e le priorità di gestione dell'ambiente<br />

dovranno riflettere il contesto ambientale e di sviluppo nel quale si applicano.


66 globalizzazione link journal 1/<strong>2012</strong><br />

Gli standard applicati da alcuni Paesi possono essere inadeguati per altri<br />

Paesi, in particolare per i Paesi in via di sviluppo, e imporre loro un<br />

costo economico e sociale ingiustificato.<br />

Principio 12<br />

Gli Stati dovranno cooperare per promuovere un sistema economico<br />

internazionale aperto e favorevole, idoneo a generare una crescita economica<br />

ed uno sviluppo sostenibile in tutti i Paesi ed a consentire una<br />

lotta più efficace ai problemi del degrado ambientale. Le misure di politica<br />

commerciale a fini ecologici non dovranno costituire un mezzo<br />

di discriminazione arbitraria o ingiustificata o una restrizione dissimulata<br />

al commercio internazionale.<br />

Si dovrà evitare ogni azione unilaterale diretta<br />

a risolvere i grandi problemi ecologici<br />

transfrontalieri o mondiali dovranno essere<br />

basate, per quanto possibile, su un consenso<br />

internazionale.<br />

Principio 13<br />

Gli Stati svilupperanno il diritto nazionale<br />

in materia di responsabilità e risarcimento<br />

per i danni causati dall'inquinamento e altri<br />

danni all'ambiente e per l'indennizzo delle<br />

vittime. Essi coopereranno, in modo rapido<br />

e più determinato, allo sviluppo progressivo<br />

del diritto internazionale in materia di responsabilità<br />

e di indennizzo per gli effetti<br />

nocivi del danno ambientale causato da attività<br />

svolte nell'ambito della loro giurisdizione<br />

o sotto il loro controllo in zone<br />

situate al di fuori della loro giurisdizione.<br />

Principio 14<br />

Gli Stati dovranno cooperare efficacemente<br />

per scoraggiare o prevenire la ricollocazione<br />

o il trasferimento in altri Stati di tutte le attività<br />

e sostanze che provocano un grave degrado<br />

ambientale o si dimostrano nocive per<br />

la salute umana.<br />

Principio 15<br />

Al fine di proteggere l'ambiente, gli Stati applicheranno<br />

largamente, secondo le loro capacità,<br />

il metodo precauzionale. In caso di<br />

rischio di danno grave o irreversibile, l'assenza di certezza scientifica<br />

assoluta non deve servire da pretesto per differire l'adozione di misure<br />

adeguate ed effettive, anche in rapporto ai costi, dirette a prevenire il<br />

degrado ambientale.<br />

Principio 16<br />

Le autorità nazionali dovranno adoperarsi a promuovere l’internalizzazione<br />

dei costi per la tutela ambientale e l'uso di strumenti economici,<br />

considerando che, in linea di principio, è l'inquinatore a dover sostenere<br />

il costo dell'inquinamento, tenendo nel debito conto l'interesse pubblico<br />

e senza alterare il commercio e le finanze internazionali.<br />

Principio 17<br />

La valutazione d'impatto ambientale, come strumento nazionale,<br />

sarà effettuata nel caso di attività proposte che siano suscettibili<br />

di avere effetti negativi rilevanti sull'ambiente e dipendano dalla<br />

decisione di un'autorità nazionale competente.<br />

Principio 18<br />

Gli Stati notificheranno immediatamente agli altri Stati ogni catastrofe<br />

naturale o ogni altra situazione di emergenza che sia suscettibile di produrre<br />

effetti nocivi imprevisti sull'ambiente di tali Stati. La comunità<br />

internazionale compirà ogni sforzo per aiutare gli Stati così colpiti.<br />

Principio 19<br />

Gli Stati invieranno notificazione previa e tempestiva agli Stati potenzialmente<br />

coinvolti e comunicheranno loro tutte le informazioni pertinenti<br />

sulle attività che possono avere effetti transfrontalieri seriamente<br />

negativi sull'ambiente ed avvieranno fin dall'inizio<br />

con tali Stati consultazioni in buona<br />

fede.<br />

Principio 20<br />

Le donne hanno un ruolo vitale nella gestione<br />

dell'ambiente e nello sviluppo. La loro<br />

piena partecipazione è quindi essenziale per<br />

la realizzazione di uno sviluppo sostenibile.<br />

Principio 21<br />

La creatività, gli ideali e il coraggio dei giovani<br />

di tutto il mondo devono essere mobilitati<br />

per creare una partnership globale<br />

idonea a garantire uno sviluppo sostenibile e<br />

ad assicurare a ciascuno un futuro migliore.<br />

Principio 22<br />

Le popolazioni e comunità indigene e le altre<br />

collettività locali hanno un ruolo vitale nella<br />

gestione dell'ambiente e nello sviluppo grazie<br />

alle loro conoscenze e pratiche tradizionali.<br />

Gli Stati dovranno riconoscere la loro identità,<br />

la loro cultura ed i loro interessi ed accordare<br />

ad esse tutto il sostegno necessario a<br />

consentire la loro efficace partecipazione alla<br />

realizzazione di uno sviluppo sostenibile.<br />

Principio 23<br />

L'ambiente e le risorse naturali dei popoli in<br />

stato di oppressione, dominazione ed occupazione<br />

saranno protetti.<br />

Principio 24<br />

La guerra esercita un'azione intrinsecamente<br />

distruttiva sullo sviluppo sostenibile. Gli Stati rispetteranno il diritto internazionale<br />

relativo alla protezione dell'ambiente in tempi di conflitto<br />

armato e coopereranno al suo progressivo sviluppo secondo necessità.<br />

Principio 25<br />

La pace, lo sviluppo e la protezione dell'ambiente sono interdipendenti<br />

e indivisibili.<br />

Principio 26<br />

Gli Stati risolveranno le loro controversie ambientali in modo pacifico<br />

e con mezzi adeguati in conformità alla Carta delle Nazioni Unite.<br />

Principio 27<br />

Gli Stati ed i popoli coopereranno in buona fede ed in uno spirito di<br />

partnership all'applicazione dei principi consacrati nella presente<br />

Dichiarazione ed alla progressiva elaborazione del diritto internazionale<br />

in materia di sviluppo sostenibile.


link journal 1/<strong>2012</strong> globalizzazione<br />

Resolutions for Sustainable<br />

Development voted on in the UN<br />

General Assembly 23.12.2011<br />

The developing world’s vulnerability to the prevailing<br />

multiple global crises and preparations for the June <strong>2012</strong><br />

United Nations Conference on Sustainable Development<br />

were prominent among the concerns of the Second<br />

Committee (Economic and Financial) as the 42 draft<br />

resolutions and 4 draft decisions it had recommended<br />

for action by the General Assembly were adopted today.<br />

Among the texts adopted — all but four without a vote<br />

— were two brand new texts, the first titled “Towards<br />

global partnerships”, which called on the international<br />

community to continue promoting multistakeholder approaches<br />

to development. The second, “People’s empowerment<br />

and a peace-centric development model”,<br />

noted theproposal by the Prime Minister of Bangladesh<br />

to host an international conference on the subject during<br />

the first half of <strong>2012</strong>.<br />

However, the focus fell on sustainable development<br />

ahead of the upcoming Conference on Sustainable Development,<br />

known as “Rio+20”, with the Assembly<br />

adopting 16 draft resolutions and 2 draft decisions on<br />

the subject. One new text dealt with international cooperation<br />

and coordination for the rehabilitation and economic<br />

development of the Semipalatinsk region of<br />

Kazakhstan. Another noted the failure of donors to<br />

meet their commitments on official development assistance<br />

(ODA), stressing the vital importance of aid to financing<br />

for development, and of greater South-South<br />

cooperation.<br />

Another adopted text stressed the challenges posed by<br />

desertification, land degradation and drought, including<br />

to food security in developing countries, and emphasized<br />

the need for financial resources, technology transfer and<br />

capacity-building to meet them.<br />

Recorded votes were requested before action on two<br />

draft resolutions dealing with sustainable development.<br />

By the terms of one text, the Assembly requested for<br />

the sixth consecutive year that Israel compensate<br />

Lebanon and Syria for the pollution of their shores that<br />

followed the destruction of oil storage tanks near<br />

Lebanon’s El-Jiyeh power plant. Compensation was expected<br />

promptly and to be adequate to restore the marine<br />

environment and repair the environmental damage.<br />

The Assembly adopted that draft by a recorded vote of<br />

165 in favour to 8 against (Australia, Canada, Israel, Marshall<br />

Islands, Federated States of Micronesia, Nauru,<br />

Palau, United States), with 6 abstentions (Cameroon,<br />

Central African Republic, Colombia, Gabon, Panama,<br />

Tonga). (See Annex II for voting details).<br />

Adopted by a recorded vote of 141 in favour to 2 against<br />

(South Africa, Venezuela), with 33 abstentions was a text<br />

on agricultural technology for development. By its terms,<br />

the Assembly urged the strengthening of international<br />

efforts to develop sustainable agricultural technologies,<br />

and their transfer to developing countries under fair<br />

terms. It also requested that the United Nations promote,<br />

support and facilitate the exchange of experiences<br />

among Member States on ways to augment sustainable<br />

agriculture and management practices. (Annex III)<br />

On the subject of the International Strategy for Disaster<br />

Reduction, the Assembly adopted a draft resolution<br />

that expressed deep concern over the number<br />

and scale of disasters and their impact on sustainable<br />

development, especially in developing countries.<br />

67


68 globalizzazione link journal 1/<strong>2012</strong><br />

Why Youth?<br />

Centrale tra gli argomenti della Conferenza sarà il lavoro e la disoccupazione giovanile<br />

Jobs and the issue of Youth unemployment<br />

One of the critical issues<br />

on the agenda<br />

for Rio+20 is jobs.<br />

As member states start their<br />

negotiations on the first two<br />

sections of the zero draft-the<br />

Major Group of Children<br />

and Youth urge them not to<br />

forget the growing crisis of<br />

youth employment.<br />

Youth unemployment differs substantially from adult unemployment<br />

in both cause and solution. In 2010, an estimated<br />

75.1 million young people in the world struggled to find work,<br />

and youth were almost three times as likely as adults to be unemployed.<br />

Tackling youth unemployment and underemployment<br />

, by ensuring decent jobs will directly contribute to the<br />

promotion of environmentally-sustainable growth and<br />

poverty eradication. Hence, the youth bulge and associated<br />

labour market conditions should be critical factors in the evaluation<br />

of sustainable development policies, especially those<br />

designed to increase green jobs. Meaningful youth participation<br />

is paramount to design new programmes, and enhance<br />

existing ones that are effective and work for young people<br />

themselves. Young people should be involved as solid partners<br />

in all stages when planning policy and programmes.<br />

Tackling Youth Unemployment --Raising youth up in an economic<br />

down-turn Job creation programs and policy frameworks<br />

must mitigate the global economic downturn’s<br />

disproportionate impact on youth. Long term analysis has<br />

shown that part of the issue is a “transition” problem, with<br />

young people needing time to accumulate the experience and<br />

skills required to find good jobs . However, policy programs<br />

-- such as tax breaks for youth-hiring employers, vocational<br />

training programs, financial support for young entrepreneurs,<br />

and micro finance -- can greatly increase youth participation<br />

in the overall economy. Partnerships between the private sector,<br />

governments and civil society organizations are needed<br />

to improve the targeting of young workers, and the effective<br />

deployment of capacity building programs. To promote job<br />

growth, governments and the international community<br />

should also implement financial and macroeconomic measures,<br />

including bank and debt restructuring, and eliminate discriminatory<br />

regulations. Policy frameworks must emphasize<br />

the need for adequate labour market information, policy monitoring,<br />

and program evaluation to help provide better jobs<br />

for young people.<br />

Some initial recommendations:<br />

1. Including a Youth Guarantee in the social protection schemes, including<br />

the UN sponsored Social Protection Floor Initiative<br />

A Youth Guarantee will ensure that youth labour market inactivity<br />

would not exceed a period of four months. Such a<br />

policy measure will help young people keep in touch with the<br />

labour market and keep updating their skills and competences,<br />

and contributing to their employ-ability. A Youth Guarantees<br />

will offer a more tailored approach in helping young people<br />

deal with the structural failures of the labour market will<br />

eventually build trust and confidence, and are more likely to<br />

strengthen the labour market ties and participation rates for<br />

the future. This should become a standard feature in social<br />

protection schemes, especially when these are devised with<br />

the assistance of the UN.<br />

2. The creation of a Global Education Fund<br />

In many countries, globalisation and technological changes<br />

have created urgent demands for new forms of skill development<br />

to meet economic and social needs. The promotion<br />

of education for sustainable development, and the establishment<br />

of training institutions, vocational programs for professional<br />

development, as well as the recognition of non-formal<br />

education are crucial.<br />

A Global Education Fund must be co-managed by donors,<br />

recipient countries, non-governmental organizations, and experienced<br />

intergovernmental organisations such as UNESCO.<br />

The fund must include an independent secretariat with effective<br />

ownership of global education initiatives and ability to<br />

manage its own funding.<br />

3. Record and consider the impacts on youth of labour and macroeconomic<br />

policies<br />

Promoting labour-intensive sectors such as green jobs are key<br />

to generating employment opportunities for young persons,<br />

particularly in transition economies. Yet, governments cannot


link journal 1/<strong>2012</strong> globalizzazione<br />

fix what they cannot measure. An UN-sponsored collaboration<br />

between the ILO YEN, UNEP and other relevant agencies<br />

should systemically monitor how much youth are<br />

benefiting from these programs and provide assistance to national<br />

labour statistics agencies on tracking these data.<br />

4. Improving Youth Participation<br />

The Adoption of either one global, or several regional conventions<br />

based on principle 10 of the Rio Declaration .<br />

Such instrument could serve as a tool of enshrining participation<br />

as a right, and upgrade existing participation practices.<br />

Hence a compliance mechanism is crucial and could potentially<br />

be modeled to the compliance mechanism of the Aarhus<br />

Convention.<br />

The inclusion of civil society representatives and youth representatives<br />

in bureaus and boards of relevant bodies for<br />

youth development is necessary, regardless of its political<br />

process or implementing instrument nature. This could be inspired<br />

by different models already in existence, such as the<br />

UNAIDS Programme Coordinating Board or the Council of<br />

Europe’s Joint Council on Youth. In case a Sustainable Development<br />

Council is established, a strong youth-presence in<br />

the governance of the Council should be one of the criteria<br />

guiding its establishment.<br />

The support of young people and their organisations to participate<br />

in the decision-making process, though the recognition<br />

that participation is more than access and needs<br />

empowered actors. It is crucial to give an explicit mandate<br />

and adequate resources for UNDESA to empower young<br />

people to be involved into decision making. The de-facto inclusion<br />

of youth-representatives in the National Sustainable<br />

Development Councils (NSDCs). Youth are one of the<br />

Agenda 21 Civil Society Sectors that are too easily forgotten<br />

in the make-up of these NSDCs. In councils where young<br />

people are included, their membership is often limited to an<br />

observer role. Hence a balanced representation of the Agenda<br />

21 interests is crucial when redesigning the NSDCs. Where<br />

such councils already exist, they should be strengthened and<br />

provided with the adequate resources, political leverage and<br />

support by exchanging best-practices.<br />

5. Improving representation of young and future generations<br />

Furthermore, we call for the establishment of an independent<br />

Office of the UN High Commissioner for Future Generations.<br />

The High Commissioner would have both an agendasetting<br />

and advisory role with regard to the long-term<br />

environmental and social coherence and impacts of UN agencies,<br />

policies and programmes and other multilateral treaties.<br />

It would function in close cooperation with civil society. This<br />

office would also support the capacity of developing countries<br />

to establish effective mechanisms of intergenerational<br />

accountability.<br />

Please note this article is based on the UNCSD Major Group<br />

of Children and Youth's contribution to input for the Global<br />

69<br />

Sustainability Panel on youth unemployment and youth participation.<br />

We will soon have more on jobs...<br />

------------------------------------<br />

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the Council on Foreign Relations.


70<br />

Prof.<br />

Vincenzo Scotti<br />

Presidente<br />

<strong>Link</strong> <strong>Campus</strong><br />

<strong>University</strong><br />

Prof.<br />

Joseph Mifsud<br />

Presidente<br />

EMUNI<br />

<strong>University</strong><br />

Slovenia<br />

Prof. Ilan Chet<br />

Deputy<br />

Secretary-General<br />

of UfM<br />

Unione per il<br />

Mediterraneo<br />

Spagna<br />

Prof. José Antonio<br />

Cobacho Gómez<br />

Rettore<br />

Università<br />

di Murcia,<br />

Spagna<br />

Prof.<br />

Eduardo González<br />

Mazo<br />

Rettore<br />

Università<br />

di Cadiz<br />

Spagna<br />

Prof. José Antonio<br />

Cobacho Gómez<br />

Rettore<br />

Università<br />

di Murcia, Spagna<br />

Prof.<br />

David Faraggi<br />

Università<br />

di Haifa<br />

Israele<br />

Prof.<br />

CatherineVesprini<br />

Presidente<br />

Institut Euro-<br />

Méditerranéen<br />

en Science du Risque<br />

(IEMSR) Svizzera<br />

incontri<br />

Il futuro delle Università del Mediterraneo<br />

Incontro tra i Rettori<br />

sul ruolo delle Università<br />

nel cambiamento globale<br />

Nell’ambito della presentazione<br />

delle Borse di studio offerte<br />

dall’Inpdap, in collaborazione<br />

con l’Emuni e la <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong>,<br />

istituzioni da sempre impegnate sul tema<br />

della formazione nell’area euro mediterranea<br />

con particolare attenzione alla mobilità<br />

degli studenti e dei docenti ed allo<br />

scambio di esperienze accademiche ed<br />

istituzionali di alto profilo ai vari livelli, si<br />

è svolta una tavola rotonda con i rappresentanti<br />

di alcune Università del Mediterraneo<br />

dedicata al tema dell’ampliamento e<br />

della cooperazione culturale a favore delle<br />

giovani generazioni.<br />

Le Università hanno svolto un ruolo, sino<br />

ad oggi, tradizionale lungo tre direttrici :<br />

l’educazione, la ricerca e l’innovazione.<br />

Oggi sono obbligate ad ampliare lo sforzo<br />

per adattarsi al cambiamento globale e<br />

dare risposte sempre più incisive e reali.<br />

Non è più sufficiente avere buone tecniche<br />

di insegnamento per una buona formazione<br />

degli studenti, occorre coniugare<br />

la formazione con il mondo economico e<br />

la ricerca scientifica, non quale prospettiva<br />

ideale ma riuscendo a costruire una connessione<br />

stabile tra questi diversi fattori<br />

della società senza per questo eludere il<br />

complesso sociale e le altre discipline che<br />

lo regolano.<br />

Lo studente deve essere sempre più al<br />

centro dell’Università come futuro homo<br />

faber e preparato a lavori sempre più qualificati<br />

secondo le esigenze sociali e in base<br />

all’evoluzione costante del mondo del lavoro.<br />

Il legame Università/mondo del lavoro<br />

diverrà sempre più saldo perché<br />

deriva da una sentita esigenza sociale di<br />

link journal 1/<strong>2012</strong><br />

avere uomini sempre più preparati nei diversi<br />

settori.<br />

Nello svolgere questo compito le Università,<br />

oltre le necessità che pone o<br />

porrà la ricerca scientifica, avranno il<br />

compito, se non la responsabilità, di favorire<br />

un cambiamento della riflessione<br />

umana a favore di una società più giusta<br />

ed equilibrata, in cui, e questo vale anche<br />

per l’Europa, le diseguaglianze e le esclusioni<br />

sociali possano essere riassorbite in<br />

valori universalmente acquisiti.<br />

Sarà importante educare gli studenti, unitamente<br />

alle discipline accademiche scelte,<br />

ai valori di giustizia e uguaglianza e ciò al<br />

fine di predeterminare una società economicamente<br />

stabile e forte nel rispetto<br />

dei diritti umani.<br />

L’importanza di un raccordo tra le Università<br />

del Mediterraneo per favorire la libera<br />

circolazione sia dei docenti che degli studenti<br />

deriva dal fatto che sarà possibile<br />

creare un’unica area universitaria di vaste<br />

proporzioni che vedrà coinvolti i diversi<br />

atenei impegnati in finalità, inizialmente<br />

similari, per giungere ad un unico modello<br />

di insegnamento e sviluppo culturale.<br />

Sino ad oggi questa opportunità non è<br />

stata colta in ambito europeo perchè non<br />

si era capito che il lavoro congiunto favorisce<br />

l’integrazione, la creazione di<br />

nuovi posti di lavoro, maggiori opportunità<br />

per la ricerca e lo studio dei fenomeni<br />

complessi, sia sociali che economici, che<br />

permetterebbero all’Europa, attraverso<br />

una maggiore integrazione degli Istituti<br />

universitari, una più veloce integrazione<br />

tra i popoli grazie all’innovativo impegno<br />

dei giovani e dei docenti.


link journal 1/<strong>2012</strong> incontri<br />

Workshop on Internationalisation through <strong>University</strong> Cooperation<br />

in the Field of European Studies<br />

The Centre of Excellence Altiero Spinelli (CEAS) and<br />

the Euro-Mediterranean <strong>University</strong> (EMUNI <strong>University</strong>)<br />

as part of activities under the cooperation agreement,<br />

at the <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong> in Rome, held a working<br />

meeting dedicated to the development of proposals for post -<br />

graduate courses (Masters) and research projects in the field<br />

of European studies (Institutional and Political Integration,<br />

Economic, Social and Territorial Cohesion, European policies<br />

on immigration, european citizenship, security and justice, external<br />

action and policies Neighbourhood and Partnership),<br />

focused on the development of euro-Mediterranean relations,<br />

in order to facilitate mobility of students and teachers of the<br />

Mediterranean countries, particularly from the southern shore<br />

of the Mediterranean. The meeting, coordinated by prof. Luigi<br />

Moccia, President CeAS, and prof. Joseph Mifsud, President<br />

EMUNI, was held in the premises of the Centre and at the<br />

<strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> in Rome, David Faraggi, Rector of the <strong>University</strong><br />

of Haifa (Israel) and Juan María Vázquez Rojas, Vice-<br />

Chancellor, Research & Intl. <strong>Campus</strong>, <strong>University</strong> of Murcia<br />

(Spain) , Massimo Silvestri, Director of the ISSEA Research<br />

Institute, <strong>University</strong> Polytechnic of Lugano (Switzerland), Alejandro<br />

del Valle Galvez, Deputy Rector and Head Master Programmes<br />

of the <strong>University</strong> of Cadiz (Spain) and Catherine<br />

Vesperini, President of the Euro-Mediterranean Institute of<br />

Risk Science (France). Responding to the questions of the students,<br />

Prof. Ilan CHET, Vice-president of UfM on charge of<br />

higher education and research insisted on the important role<br />

of the universities to the peace process, he indicated that universities<br />

can help a lot this process because if it brings students<br />

from the south to get good education in the north and it will<br />

help their employability and mobility and this will increase the<br />

standing of living in the south. Prof. Ilan Chet indicated that<br />

meeting in universities and in institutions can help a lot in development<br />

projects, for example Palestinian authority suggested<br />

a project of salunation of water in Gaza, all the<br />

countries supported this project and also Israel because it is a<br />

humanistic project, so if they design a good project for the<br />

benefit of all the people this doesn't influence the differences<br />

in cultures or polical problems.And finally he insisted that the<br />

cooperation between the UfM and EMUNI in some studies<br />

programs in master and PhD in organization democratic, organization<br />

of students from different countries, in some fields<br />

as studying democratization, human rights, good governance,<br />

all this subjects can help today improve the situation and he<br />

thinks that now due to the Arab spring that the universities can<br />

fulfill what needed as far as culture and education. In her<br />

speech, Prof. Vesprini answered two fundamentals questions.<br />

First, the president of the Institute for Euro-Mediterranean<br />

of Sciences of Risk, showed that the management of natural<br />

71<br />

risk or natural disasters requires a comprehensive management<br />

and cannot be completed in an individual way, however this is<br />

facing financial problems (imbalance between the rich north<br />

and poor south) and also the lack of a culture of risk management<br />

in the countries of the Mediterranean , that's why the<br />

need and the importance of this institute in EMUNI to help<br />

and educate people in these countries regarding the importance<br />

of risk management. In addition, Prof. Vesprini stressed the<br />

importance of civil Security and she has set a good example<br />

of a civilian organization in this field in Italy. But this is insufficient<br />

because of the difficulty of communication in the population,<br />

for her, it is essential to train people in this area for<br />

the management of natural risks. In his intervention, Prof. Dr.<br />

David Faraggi, President of <strong>University</strong> of Haifa, points out<br />

the importance of integration between all people in his university,<br />

he precised that there is about 900 students from all<br />

the world, America, Europe, Asia and they study and live together<br />

without problems and they are a good friends of the<br />

university. The most important thing, as he said, the mobility<br />

of the students coming from all the places and meeting people<br />

both Palestinians and Israelian in the campus with different religions<br />

and cultures and after one year they come back with<br />

new view of the political situation. And he included that specially<br />

social integration is a part of life on the city of Haifa<br />

they really transform in a peace and quiet and they can go<br />

abroad as ambassadors of peace. Prof. E.G.Mazo, <strong>University</strong><br />

of Cadiz, précised that they had a long tradition with <strong>University</strong><br />

studies linked with America and Spanish from a big period,<br />

but now their objectives are focused in sciences of the sea disciplines<br />

and they focused specialization in this field which are<br />

multi-discipliners. In other hand, Prof. Mazo informed the students<br />

present in this meeting that they have more specialized<br />

items with their foundation <strong>University</strong>-Enterprise which<br />

adopts different kinds of studies; post-graduate studies, lifelong<br />

learning studies; for different situations they face now in<br />

this crises period.<br />

About the strategy of international relationship in the Mediterranean,<br />

he precised that their approach is now to work with<br />

the universities which are closer and on front of them as Tanja<br />

<strong>University</strong> and Tetwan <strong>University</strong> in administration and mobility<br />

of students and professors which give opportunity to<br />

work with them as a practical approach. And he believes that<br />

their specialization in Master in international and immigration<br />

needs to specialize students in this topic because they have<br />

bilingual master in English and Spanish. He suggests that Internationalization<br />

means that the master is in different languages,<br />

and immigration refer to co-problems of multicultural<br />

problem in Europe, and this gives opportunity for their students<br />

to talk and discuss and find solutions for this problems


iTest your <strong>University</strong> Choice:<br />

l’app per orientarsi nell’Università<br />

<strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong> lancia l’applicazione per iPhone, iPad<br />

e dispositivi Android: iTest your <strong>University</strong> Choice. Si tratta di<br />

uno strumento-gioco nuovo, efficace e semplice da usare, destinato<br />

a quanti si trovano alle prese con la scelta della facoltà universitaria<br />

a cui iscriversi.<br />

Grazie a questa nuova app, gli studenti potranno facilmente<br />

orientarsi nel mondo universitario e scoprire il percorso di studi<br />

più adatto a loro.<br />

Rispondendo ad una serie di domande, che permettono di evidenziare<br />

le abilità trasversali, gli interessi e gli hobby, iTest your<br />

<strong>University</strong> Choice sarà in grado di valutare le risposte e consigliare<br />

il corso più in linea con la personalità, i punti di forza e le<br />

capacità dello studente.<br />

L’app è un prodotto originale <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong> e offre un<br />

valido supporto nella scelta della facoltà più coerente con le attitudini<br />

e le aspirazioni professionali dei ragazzi.<br />

Semplicissimo da usare: inserendo i propri dati si accede al Test.<br />

Rispondendo a otto blocchi di domande (gate), vengono analizzate<br />

inclinazioni e potenzialità dell’utente, che ottiene una prima<br />

indicazione di orientamento universitario.<br />

Inoltre, inserendo il proprio numero di cellulare, l’utente riceve<br />

via SMS un profilo personalizzato.<br />

L’app è già disponibile sull’Android Market e dopo il 10 settembre<br />

sarà disponibile anche su iTunes Store. Trovi ulteriori informazioni<br />

e istruzioni per l’uso su universitychoice.net,<br />

orientamentouniversitario.net.<br />

La scelta del tuo futuro è una conquista importante. Orientati con<br />

noi!


link journal 1/<strong>2012</strong> <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />

<strong>Link</strong> <strong>Campus</strong><br />

<strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong>, in linea con la propria vocazione internazionale e con la tradizione di università che ambisce<br />

a formare i migliori professionisti per un mondo che cambia, sta realizzando un ambizioso programma di<br />

proiezione internazionale. In questo quadro, sono state inaugurate due rappresentanze prestigiose della <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong><br />

<strong>University</strong> a Lima (Perù) e a Cordoba (Argentina) e sono stati attivati importanti rapporti di collaborazione<br />

con un gruppo selezionato di Università in Europa, Mediterraneo ed America Latina.<br />

<strong>Link</strong> Canpus è l’Università del merito e, all’iscrizione, premia con borse di studio gli studenti migliori delle scuole superiori.<br />

Perchè <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />

√ Perchè il modello didattico è finalizzato alla formazione<br />

di professionisti e manager per il mondo che cambia capaci<br />

di progettare e governare processi innovativi.<br />

√ Perchè il valore aggiunto che rende particolare l’offerta<br />

<strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong> è costituito da:<br />

- formazione integrata fra università ed aziende;<br />

- largo spazio alla metodologia ed al problem solving;<br />

- studio in più lingue;<br />

- uso dei più avanzati strumenti informatici;<br />

- obbligo di frequenza;<br />

- certezza di sostenere gli esami nei tempi previsti grazie<br />

all’assistenza di tutor dedicati;<br />

- formazione individuale mirata allo sviluppo globale<br />

della personalità<br />

- collegamento con Università straniere di tutti i Paesi<br />

in cui svolgere un semestre di studio (Study Abroad);<br />

- Welfare & Student Affairs;<br />

- collegamento con le aziende per gli stage;<br />

- orientamento;<br />

- placement.<br />

73<br />

√ Perchè con il Programma Skills, attraverso alcuni moduli<br />

di insegnamento comuni a tutti i corsi di laurea, <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong><br />

<strong>University</strong> aiuta lo studente da un lato a valorizzare ogni aspetto<br />

della propria personalità e dall’altro ad acquisire le competenze<br />

e le abilità necessarie per operare con successo anche<br />

con organizzazioni pubbliche e private, a livello sia strategico<br />

che organizzativo.


76<br />

EURILINK EDITRICE<br />

Vincenzo Scotti Victoria Tauli-Corpuz Bruno Taralletto<br />

Si confrontano oggi due possibili<br />

letture; quella giudiziaria e<br />

quella storico-politica. Scotti affronta<br />

la lettura storico-politica<br />

e il conseguente giudizio sul<br />

comportamento delle istituzioni<br />

e della politica.<br />

Fermezza o Tolleranza?<br />

La scelta difficile contro la mafia<br />

pp. 240 euro 18,00<br />

Guendolyn S. Chabrier<br />

Dietro al filo spinato è il resoconto<br />

fedele e accuratamente<br />

documentato del clima sociale e<br />

politico della Germania prebellica,<br />

del disfacimento e della caduta<br />

di un popolo soggiogato<br />

dalla malia di Hitler.<br />

Dietro al filo spinato<br />

pp. 210 euro 18,00<br />

L’Autrice mette in risalto le incongruenze<br />

delle risoluzioni del<br />

terzo millennio che non tengono<br />

conto delle aspettative dei popoli<br />

indigeni, spingendoli così<br />

verso una completa marginalità.<br />

I popoli indigeni alle soglie<br />

del terzo millennio<br />

pp. 112 euro 14,00<br />

Riflettendo sull’ultimo scritto dedicato<br />

a Gramsci da Palmiro Togliatti,<br />

poche settimane prima di<br />

morire, si avrà modo di scoprire<br />

un tema attraente del quale finora<br />

ci si è scarsamente occupati.<br />

Tra Cremlino, Gramsci<br />

e Togliatti<br />

pp. 336 euro 18,00<br />

Luigi Paganetto, a cura di Luigi Paganetto, a cura di<br />

Luigi Paganetto, a cura di<br />

AA.VV<br />

AA.VV<br />

AA.VV.<br />

Chi deve pagare il<br />

costo della ricapitalizzazione<br />

delle banche<br />

e dello Stato?<br />

Debiti sovrani<br />

pp.140 euro 16,00<br />

Mezzogiorno<br />

tra crisi globale,<br />

Mediterraneo<br />

e federalismo<br />

fiscale<br />

pp.130 euro 14,00<br />

“La Casta” ha sconcertato i cittadini<br />

svelando nei particolari<br />

ciò che tutti già conoscevano in<br />

generale della inefficienza della<br />

Pubblica Amministrazione.“La<br />

Dissipazione” di Bruno Taralletto<br />

ci indica il passo successivo.<br />

La dissipazione<br />

pp. 200 euro 18,00<br />

Giuseppe Ruggiero Abdel Bari Atwan<br />

link journal 1/<strong>2012</strong><br />

L’unica intervista rilasciata da<br />

Osama Bin Laden ad un giornalista<br />

non residente nei territori<br />

di fede islamica.<br />

La storia segreta di AlQaeda<br />

pp. 304 euro 18,00<br />

La scelta del nucleare<br />

dipende dalla valutazione<br />

delle condizioni<br />

che rendono opportuno<br />

l’investimento rispetto<br />

alle altre fonti<br />

di energie.<br />

Nucleare come?<br />

pp.160 euro 15,00

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