Gennaio-marzo 2012 - Link Campus University
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link journal 1/<strong>2012</strong><br />
Inaugurazione Anno accademico 2011/<strong>2012</strong><br />
16 gennaio <strong>2012</strong><br />
Signor Presidente del Senato della Repubblica, Signore<br />
e Signori Membri del Parlamento, Magnifici Rettori,<br />
Autorità civili e religiose, Signore e Signori,<br />
anno accademico 2011 /<strong>2012</strong><br />
Saluto del Presidente della <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />
Prof. Vincenzo Scotti<br />
questo è il tredicesimo anno che noi, docenti e<br />
studenti della <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong>, insieme<br />
alle autorità e agli amici, manteniamo viva l’antica<br />
tradizione dell’inaugurazione solenne dell’anno<br />
accademico.<br />
La pur breve storia della <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> è segnata<br />
da costanti innovazioni, poco comunicate ma<br />
sempre presenti nei programmi di ricerca e di<br />
didattica, frutto dell’impegno della comunità accademica<br />
- studenti e docenti - e, soprattutto, della efficace<br />
cooperazione con eccellenti università<br />
internazionali europee e mediterranee, di cui alcune<br />
sono qui questa sera per la definizione di comuni programmi<br />
di ricerca e di comuni corsi di laurea nelle aree<br />
degli studi giuridici, strategici, diplomatici e di intelligence,<br />
di economia e di gestione delle imprese, di ingegneria<br />
dell’innovazione nel campo della sicurezza.<br />
La guida per lo studente di questo anno accademico vi<br />
offre una idea dell’ampiezza e della complessità del lavoro<br />
accademico di una università internazionale che<br />
non vuole essere mera copia delle altre università del<br />
nostro sistema nazionale. In tal senso essa si avvale di<br />
una pluralità di lingue di insegnamento e riconosce un<br />
ruolo fondamentale alla metodologia comparatistica la<br />
quale consente di focalizzare la formazione dei giovani<br />
sia sulla connessione tra culture diverse sia sulla interdipendenza<br />
tra pubblico e privato. L’obiettivo è quello<br />
di preparare una classe dirigente che possa operare nei<br />
diversi sistemi e Paesi e nei due ambiti dando così ai<br />
giovani, come abbiamo positivamente sperimentato in<br />
questi anni, le possibilità vincenti nella mobilità del<br />
mercato globale.<br />
Da questo punto di vista la <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> costituisce<br />
un ponte verso il cambiamento della nostra società.<br />
Una Università senza frontiere per rispondere alle sfide<br />
del cambiamento globale, particolarmente attenta alla<br />
lettura dei segni dei tempi nuovi: i grandi mutamenti<br />
planetari dei sistemi economici, sociali, politici e soprattutto<br />
culturali, l’evoluzione delle forme di organizzazione<br />
delle imprese del mondo globale e la nuova<br />
soggettività della “società civile”.<br />
Questa missione impegna i docenti a mantenere la didattica<br />
sulla frontiera della ricerca, a sviluppare un dialogo<br />
costante con gli studenti che, nel corso di ogni<br />
anno accademico, apprendono un metodo di studio, di<br />
ricerca e di approfondimento. Lo stesso Induction<br />
Course è pensato per trasmettere loro un’adeguata metodologia<br />
di apprendimento che li aiuti nel semestre di<br />
studi all’estero e nello stage di lavoro. Siamo, dunque,<br />
tutti impegnati a dare agli studenti un metodo di studio<br />
e di lavoro - ricongiungendo il sapere e il fare - con<br />
l’obiettivo di rendere i giovani professionalmente in<br />
grado di integrare saperi scientifici differenti per poter<br />
affrontare e risolvere efficacemente i problemi del fare;<br />
tali innovazioni necessarie qualificano, particolarmente,<br />
la nostra offerta nel campo delle Lauree Magistrali e<br />
dei Master post-lauream.<br />
Nel guardare alla guida per lo studente vorrei richiamare<br />
la vostra attenzione su alcune aree particolarmente<br />
innovative su cui la <strong>Link</strong> ha acquisito una<br />
particolare competenza; intendo riferirmi agli studi<br />
strategici e diplomatici che vedranno, da questo anno,<br />
la direzione di Franco Frattini e Michael Frendo, gli<br />
studi di analisi e intelligence che coinvolgeranno - tra<br />
gli altri - gli Ammiragli Battelli e Biraghi, i Generali<br />
Camporini e Jean, l’Ambasciatore Castellaneta, i Professori<br />
Savona, Lauro e Minniti.<br />
Signor Presidente, la Società di Gestione della <strong>Link</strong> sta<br />
lavorando a completare le strutture e i servizi necessari<br />
alla vita di una effettiva “comunità” universitaria con<br />
la realizzazione di un <strong>Campus</strong> della dimensione di 14<br />
ettari, dotato non solo delle attrezzature didattiche,<br />
1
2<br />
della biblioteca, delle residenze per studenti e professori stranieri,<br />
ma anche delle attrezzature per la vita sociale e sportiva,<br />
compreso un teatro e spazi espositivi all’aperto.<br />
Sapete, infatti, che parte integrante della Università è l’Accademia<br />
Internazionale di Arte Drammatica (<strong>Link</strong> Academy) diretta<br />
da Alessandro Preziosi che, in questo momento, è impegnato<br />
con un nuovo spettacolo (Cyrano) a cui partecipano sette studenti<br />
della nostra Accademia.<br />
La <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong>, inoltre, ha organizzato per i suoi ricercatori<br />
(docenti e studenti italiani e stranieri) una piccola ma molto vivace<br />
casa editrice, Eurilink Edizioni, e pubblica “<strong>Link</strong> Journal”,<br />
una rivista che sarà sempre di più la voce dell’intera comunità<br />
universitaria.<br />
La realizzazione del <strong>Campus</strong> si accompagna ad un rafforzamento<br />
della Società di Gestione con un azionariato diffuso e<br />
aperto anche ai nostri docenti e studenti oltre che agli amici,<br />
tutti consapevoli che non possiamo contare su alcun sostegno<br />
pubblico anche per non intaccare le disponibilità degli altri Atenei<br />
non statali e non volendo, nel contempo, uscire da una<br />
scelta inderogabile no profit.<br />
Contestualmente, abbiamo rivolto un invito ad importanti Fondazioni<br />
di ricerca per allargare la partecipazione alla Fondazione<br />
<strong>Link</strong> <strong>Campus</strong>, promotrice dell’Università. Vorrei fin d’ora ringraziare<br />
alcune delle Fondazioni che hanno accettato il nostro<br />
invito: la Fondazione De Gasperi, la Fondazione Rosselli, la<br />
Fondazione Biogem. Questo ci ha consentito di poterci avvalere<br />
del consiglio prezioso di Franco Frattini, Adriano De Maio,<br />
Riccardo Viale, Ortensio Zecchino, Gianni Pittella, Giustina<br />
Destro, Paolo Naccarato e Marco Minniti.<br />
La nascita e l’evoluzione della <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> è dovuta innanzitutto,<br />
come vedremo, alla lungimiranza del Rettore del tempo<br />
dell’Università di Malta, Roger Ellul Micalleff e di alcuni Presidi<br />
di Facoltà, all’impulso, al consiglio e al sostegno di due straordinari<br />
uomini di Stato, Francesco Cossiga e Guido de Marco,<br />
che noi consideriamo nostri padri fondatori, al lavoro di un<br />
gruppo di amici che, dando vita ad una Società di Gestione,<br />
hanno reso possibile il sogno di questa Università assumendosi<br />
il rischio; parlo in primo luogo di Vanna Fadini e di Pasquale<br />
Russo ma anche di una squadra di giovani, donne e uomini che,<br />
insieme a loro, non si risparmiano in nessun caso. Lasciatemi<br />
dire che il miracolo della <strong>Link</strong> è che non è soggetta a “nessun<br />
condizionamento”, è frutto solo dell’impegno libero di docenti<br />
e studenti; impegno reso possibile grazie all’intreccio tra progettualità<br />
accademica e forma giuridica.<br />
La <strong>Link</strong> non nasce, come detto, per aggiungersi al già importante<br />
sistema universitario italiano ma per integrarlo come università<br />
a specifica vocazione internazionale. Infatti noi siamo<br />
anno accademico 2011 / <strong>2012</strong> link journal 1/<strong>2012</strong><br />
nati alla fine degli anni ’90, quando i governi firmarono la convenzione<br />
di Lisbona, e precisamente l’11 aprile del ’97, con<br />
l’intento di favorire un processo di internazionalizzazione<br />
dell’alta formazione e così rispondere alle sfide dei cambiamenti<br />
planetari. Mentre si procedeva alla ratifica della Convenzione,<br />
il Parlamento italiano approvava, nel gennaio 1999, la<br />
prima normativa sulle filiazioni delle Università straniere operanti<br />
in Italia. Proprio su sollecitazione dell’allora ministro<br />
degli Esteri di Malta, Guido De Marco, con il sostegno del Presidente<br />
Emerito Francesco Cossiga, con un gruppo di docenti<br />
universitari - con noi ancora oggi e presenti in questa sala e<br />
permettetemi di ricordare il caro amico Luigi Coccioli recen-<br />
temente scomparso - concordammo con il Rettore della antica<br />
Università di Malta di aprire a Roma una filiazione di quell’Ateneo,<br />
per avviare la sperimentazione di una Università internazionale<br />
a Roma, fortemente “finalizzata” a rispondere, in<br />
termini di formazione, alle domande del mercato.<br />
Eravamo in attesa della normativa italiana sui requisiti che le<br />
Università straniere avrebbero dovuto possedere per consentire<br />
il riconoscimento dei titoli da essi rilasciati nel nostro Paese.<br />
Fu il Ministro Zecchino che, in base alla legge del 1999 sulle filiazioni,<br />
autorizzò a svolgere in Italia parte dei programmi accademici<br />
per gli studenti iscritti a Malta.
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La <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong>, con Decreto 27 novembre 1999 ed ai sensi<br />
dell’art. 2 della Legge 14 gennaio 1999 n. 4, viene riconosciuta<br />
quale filiazione in Italia dell’Università di Malta. Come tale<br />
svolge in Italia parte dei corsi dell’Ordinamento Universitario<br />
della Università di Malta per studenti iscritti a tale Università:<br />
al termine del percorso formativo il titolo accademico viene rilasciato<br />
dall’Università di Malta.<br />
Con Legge 148 dell’11 luglio 2002 l’Italia recepisce la Convenzione<br />
di Lisbona, 11 aprile 1997, che nella sezione VI punto 5<br />
stabilisce che ogni Stato, per consentire il riconoscimento dei<br />
titoli rilasciati da Istituti stranieri operanti sul proprio territorio<br />
deve indicare i requisiti che gli stessi devono possedere. Con<br />
D.M. 214 del 26 aprile 2004 l’Italia disciplina tale procedura indicando<br />
i requisiti che devono essere posseduti dagli Istituti<br />
stranieri affinché i titoli rilasciati ai propri studenti sul territorio<br />
italiano possano essere ammessi a riconoscimento presso le<br />
Università italiane ai sensi dell’art. 2 della citata Legge<br />
148/2002.<br />
La <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> avvia la procedura prevista dal D.M. 214. Ai<br />
sensi dell’art. 3 del suindicato decreto, il competente Ministero<br />
acquisisce i pareri del CUN, del CNVSU e della CRUL. Tale<br />
procedura è la stessa adottata per la emanazione da parte del<br />
Ministero del decreto di riconoscimento e autorizzazione a rilasciare<br />
titoli aventi valore legale di una Università degli Studi<br />
anno accademico 2011 /<strong>2012</strong><br />
dell’Ordinamento Universitario Italiano. Acquisiti i pareri favorevoli<br />
richiesti dalla normativa, con D.M. 4 luglio 2007, la<br />
<strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong> viene riconosciuta quale Università<br />
straniera operante in Italia, i cui titoli sono ammessi al riconoscimento<br />
presso le Università italiane.<br />
Nel 2010, a seguito del D.M. 23 dicembre 2010, n. 50, la <strong>Link</strong><br />
<strong>Campus</strong> <strong>University</strong> chiede di essere riconosciuta quale Università<br />
non statale legalmente riconosciuta dell’Ordinamento Universitario<br />
Italiano.<br />
Il Ministero competente attiva tutti gli atti previsti dalla procedura<br />
evidenziando a più riprese che trattasi dell’emanazione di<br />
un decreto che non istituisce un nuovo Ateneo, ma autorizza<br />
la trasformazione di un Ateneo straniero autorizzato a rilasciare<br />
titoli ammessi a riconoscimento in Ateneo non statale legalmente<br />
riconosciuto dell’Ordinamento Universitario Italiano.<br />
Con D.M. 21 settembre 2011, n. 374, del Ministro Gelmini, la<br />
Università <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> viene riconosciuta come Università<br />
non statale dell’Ordinamento Universitario Italiano.<br />
Tale Decreto, registrato alla Corte dei Conti, viene pubblicato<br />
nella Gazzetta Ufficiale - Serie Generale n. 268 del 17 novembre<br />
2011 - ed è stata solo la lungimiranza e il rigore di tre Ministri<br />
- Zecchino, Mussi e Gelmini - che hanno consentito di<br />
aprire “un’importante esperienza di internazionalizzazione”.<br />
La <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> non verrà meno alla missione che ha portato<br />
avanti in questi tredici anni. Intende portare avanti il lavoro di<br />
ricerca e di formazione non perdendo mai il suo carattere internazionale<br />
e la sua apertura alla collaborazione con le università<br />
italiane, soprattutto, con gli Atenei dell’area euro-mediterranea<br />
e dell’America Latina.<br />
La <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> ha una identità valoriale profonda ed una missione<br />
che sono a fondamento dei suoi programmi di ricerca e<br />
di didattica. Consentitemi di volgere lo sguardo indietro alla<br />
sera del lontano 29 novembre del 1999, quando coloro che consideriamo<br />
i due padri fondatori della nostra Università internazionale,<br />
il Presidente della Repubblica di Malta, Guido de<br />
Marco e il Presidente Emerito della Repubblica italiana, Francesco<br />
Cossiga, delinearono il nostro percorso e dichiararono<br />
aperto il primo anno di attività.<br />
Cossiga e de Marco, insieme, vollero che la missione della <strong>Link</strong><br />
attingesse il senso della sua ragione educativa da un insieme di<br />
riflessioni critiche sul Novecento; un tempo controverso, solcato<br />
da grandi tragedie, dallo scontro tra democrazia e totalitarismi,<br />
dalle guerre mondiali ma anche dalla vittoria della libertà<br />
e dalla rinascita dell’Europa accompagnata da uno straordinario<br />
sviluppo scientifico e sociale. In quella scelta c’era la consapevolezza<br />
che “la cultura non è asettica spettatrice degli eventi:<br />
anticipa e giustifica”. In tutto quello che è accaduto nel bene<br />
3
4<br />
che abbiamo avuto e nel male che abbiamo sofferto, ci ricordarono<br />
i nostri due Maestri, la cultura europea ha avuto grandi<br />
e terribili responsabilità.<br />
È stata una certa cultura ad aprire la strada ai colonialismi, al<br />
razzismo, ai totalitarismi che lasciano una macchia nera nell’inventario<br />
del secolo. Ed è stata un’altra cultura, quella democratica<br />
riformista o liberale, di ispirazione laica o cristiana, a<br />
guidare il riscatto morale degli europei. La <strong>Link</strong>, i suoi giovani,<br />
i suoi docenti, i suoi amici non potevano che indicare nelle libertà<br />
il valore fondante della conoscenza e della scienza. La<br />
“lectio magistralis” di Francesco Cossiga sui totalitarismi e sulla<br />
libertà racchiude per intero il significato della sua vita di cristiano,<br />
di liberale, di statista, di patriota, come si amava definire.<br />
“Ogni riflessione sul totalitarismo come ideologia e sui totalitarismi<br />
nella realtà storica produce un sentimento di profonda<br />
lacerazione nell’animo e nel pensiero di ogni uomo di oggi. Si<br />
tratta, cioè, di affrontare un paradosso insostenibile: il totalitarismo<br />
infatti, non è la negazione della libertà bensì è l’affermazione<br />
piena della libertà, così totale che non sopporta e non<br />
tollera altre libertà, la libertà degli altri. ... perciò parlare di totalitarismi<br />
significa affrontare realtà che grondano sofferenze e<br />
sangue”. E concludeva “il totalitarismo è la scomparsa della differenza<br />
tra errore e peccato. Se confondiamo errore e peccato,<br />
la libertà muore. La libertà è anche libertà di sbagliare. Con la<br />
democrazia non si decidono i valori. Vincere le elezioni significa<br />
avere il diritto - dovere di governare, non di avere e imporre il<br />
torto e la ragione”. Il Presidente de Marco, raccogliendo il senso<br />
profondo della riflessione del suo amico Francesco, ci ricordò<br />
che contro i totalitarismi antichi o risorgenti ci si può difendere<br />
ricorrendo soltanto ad una forte concezione liberale della democrazia<br />
che si realizza con la limitazione del potere attraverso<br />
regole condivise, per sconfiggere l’insidia della democrazia giacobina<br />
e totalitaria, su base messianica, che dà valore etico al<br />
potere. Parlando da Presidente dell’Assemblea Generale delle<br />
Nazioni Unite, l’anno successivo da ministro degli Esteri di<br />
Malta, quella sera alla <strong>Link</strong> de Marco ripeté, con la sua voce<br />
ferma e suadente: “Freedom first and foremost. That was the<br />
solid platform on which citizens worldwide stood their ground<br />
whenever authoritarian regimes sought to erode democracy ,<br />
human rights and the rule of law.”. Questa la pietra angolare<br />
sulla quale stiamo costruendo la nostra Università; la formazione<br />
dei nostri giovani per un umanesimo integrale si fonda<br />
proprio sui valori della libertà, della responsabilità, della coerenza<br />
tra il sapere e il fare, della eticità dei comportamenti, della<br />
solidarietà umana, del rispetto della legalità e dei diritti umani.<br />
Per conservare ben forte la lezione sulla libertà dei nostri fondatori<br />
abbiamo chiesto alla signora De Marco e ai suoi figlioli,<br />
anno accademico 2011/<strong>2012</strong><br />
link journal 1/<strong>2012</strong><br />
ad Annamaria e Giuseppe Cossiga di poter intitolare la biblioteca<br />
della <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong>, il cuore dell’Università, a questi due<br />
nostri grandi Maestri affinché i nostri studenti e docenti abbiano<br />
sempre presenti le radici culturali ed umane della nostra<br />
Università e del nostro lavoro comune.<br />
Una grande sintonia ha caratterizzato la esperienza umana di<br />
Francesco Cossiga a Guido de Marco. Due statisti euro-mediterranei,<br />
profondamente legati alle antiche isole mediterranee<br />
nelle quali sono nati, due raffinate menti giuridiche, due cristiani<br />
liberali legati alla grande figura di Thomas More, che - dietro<br />
loro sollecitazione - fu proclamato da Giovanni Paolo II protettore<br />
dei “politici”. Cossiga e de Marco erano profondi conoscitori<br />
della cultura europea ed atlantica ed erano consapevoli<br />
della dimensione mediterranea di questa cultura; erano uomini<br />
di una chiara e forte identità culturale e religiosa e proprio per<br />
questo erano uomini dell’incontro e del dialogo. Un misterioso<br />
disegno della Provvidenza li ha fatti tornare alla casa del Padre<br />
a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro. Sulle loro figure e sul<br />
tempo in cui fu dato loro di vivere, la <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong>, insieme ad<br />
altre Università ed Istituzioni prima tra tutte il Senato della Repubblica<br />
Italiana e il Parlamento di Malta, chiameranno studiosi<br />
e politici a riflettere nel corso di un seminario internazionale.<br />
Signor Presidente, questa sera abbiamo voluto chiedere a Lei,<br />
all’Emerito Rettore De Maio, al “già” Ministro Gelmini alcune<br />
brevi riflessioni sulle responsabilità di una comunità accademica<br />
chiamata a far avanzare “il sapere e il fare” della nuova classe<br />
dirigente del nostro Paese, a fronteggiare le crescenti sfide di<br />
un cambiamento a cui ha concorso il risultato “del sapere e del<br />
fare” delle precedenti generazioni attraverso la loro ricerca<br />
scientifica e la trasmissione dei loro risultati.<br />
Cari Amici, in conclusione vorrei ricordare e ringraziare il Santo<br />
Padre Benedetto XVI che nel corso dell’incontro con le Università<br />
romane del 15 dicembre scorso ha benedetto la targa<br />
della <strong>Link</strong>.<br />
Concludo ringraziando calorosamente ciascuno di Voi per<br />
avere accolto l’invito a partecipare a questa cerimonia e lo faccio<br />
a nome di tutti i colleghi che, in questo momento ed in attesa<br />
della costituzione degli organi statutari, fanno parte del Comitato<br />
Tecnico Ordinatore: a partire da Gianni Ricci che svolge<br />
le funzioni di Rettore, passando a Virginia Zambrano, Sergio<br />
Zoppi, Uberto Siola, Claudio Roveda, Pierluigi Matera, Michele<br />
Pizzo, Ian Refalo e Joseph Mifsud. Ed infine lasciate che dica<br />
grazie a Vanna Fadini, a Pasquale Russo, ad Achille Patrizi, a<br />
tutto il corpo docente, agli studenti e alle loro famiglie e a tutto<br />
il personale tecnico-amministrativo che formano sempre più la<br />
comunità della <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong>.
link journal 1/<strong>2012</strong> anno accademico 2011/<strong>2012</strong><br />
Prolusione del Prof. Adriano De Maio<br />
“L’Università<br />
di fronte alle sfide<br />
del cambiamento”<br />
Signor Presidente del Senato della Repubblica,<br />
Magnifici Rettori, colleghi, Autorità, cari Studenti, Signore e Signori,<br />
per me è stato un piacere quando il Presidente Vincenzo<br />
Scotti mi ha proposto di svolgere questa breve prolusione.<br />
Non temete, non sarà una lezione accademica. Si tratterà, invece,<br />
di alcuni stimoli e di alcuni spunti, così come mi è stato<br />
richiesto, che io mi accingo a porgervi. Avete sentito dire le<br />
ragioni per cui mi è piaciuto venire qui dalle parole del Presidente<br />
Scotti. Come si può non essere veramente felici dal profondo<br />
di poter parlare e poter dedicare alcune parole di<br />
introduzione a questa inaugurazione dell’anno accademico?<br />
Molto probabilmente sono stato chiamato anche per la mia<br />
lunga presenza nell’ambito accademico. Quando l’università<br />
funzionava meglio, si poteva diventare rettori giovani e soprattutto<br />
professori universitari giovani. Se riferisco adesso ai<br />
miei giovani colleghi quando sono diventato professore, si<br />
stupiscono, ma non ero un’eccezione. Non ero neppure la regola,<br />
ma ero tutt’altro che un’eccezione. Sono diventato professore<br />
a ventotto anni. Ho avuto poi un po’ di anni di<br />
rettorato, prima al Politecnico di Milano, poi alla LUISS e al<br />
CNR, quindi probabilmente per questa mia lunga carriera<br />
sono stato invitato a spendere alcune parole ispirate a un titolo.<br />
Il titolo era “L’università di fronte alle sfide del cambiamento”.<br />
Mi sono riproposto di partire da quali sono le sfide<br />
di cambiamento che dobbiamo esaminare.<br />
Ce ne sono tantissime, ma io dovevo scegliere quali sono, a<br />
mio avviso, quelle prioritarie su cui puntare l’attenzione per<br />
parlare di università e del ruolo dell’università. Ne ho scelte<br />
tre che, a mio avviso, sono le più rilevanti.<br />
In primo luogo, vi è l’accentuata mobilità. Noi abbiamo assistito<br />
in questi ultimi anni a una riduzione forte e drammatica<br />
delle barriere alla mobilità, non soltanto all’informazione, non<br />
soltanto alla ricerca - quelle ci sono sempre state - non sol-<br />
tanto all’aspetto finanziario, che si è accentuato e i cui effetti<br />
vediamo adesso in senso negativo, ma anche alle persone, alle<br />
attività produttive e alle aziende. Se questa mobilità si è diffusa,<br />
bisogna svolgere una riflessione. Soltanto una cosa è rimasta<br />
ferma: il territorio. L’Italia non si può muovere e<br />
nemmeno la Lombardia, l’Europa, Roma, il Lazio, ragion per<br />
cui il problema diventa come trattenere le risorse migliori e<br />
come attrarre da altri territori le risorse migliori. Io penso che<br />
per una persona che ha l’autorità e la responsabilità di governare<br />
un territorio questo debba essere tra i punti fondamentali<br />
della sua attività e la missione forse principale del suo governo.<br />
Senza le risorse più importanti un territorio declina<br />
inesorabilmente.<br />
La seconda sfida del cambiamento è l’aumento della complessità<br />
dei problemi che devono essere affrontati. Un tempo era<br />
molto più semplice e più banale farlo. Da un punto di vista<br />
più basso, quello delle tecnologie, c’era una tecnologia dominante<br />
per ogni prodotto, mentre adesso ciò non è più vero.<br />
In termini di connessioni fra aspetti tecnologici, scientifici,<br />
sociali, economici e giuridici ci sono una miscela e un mix di<br />
competenze e di complessità estremamente importanti.<br />
Quando mi hanno insegnato, molti anni fa, la differenza fra<br />
complicato e complesso, che noi talvolta usiamo come sinonimi,<br />
ciò mi è parso chiaro. Complicato è cum plica, “con la<br />
piega”. Un problema complicato, se lo si risolve, è spiegato e,<br />
quindi, occorre l’analisi specifica per tirar via un piegolino alla<br />
volta. Il complesso, viceversa, è un’intersezione, secondo il<br />
Prof. Adriano De Maio - Già Magnifico Rettore del Politecnico di Milano e dell’Università LUISS Guido Carli.<br />
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6 anno accademico 2011/<strong>2012</strong><br />
link journal 1/<strong>2012</strong><br />
verbo complector “abbracciare”, un’unione tale per cui, se noi<br />
tentiamo di prendere e sfilare i capi di un tessuto, non otteniamo<br />
più nulla. Un problema complesso va compreso e abbracciato<br />
con sintesi. Oltre all’analisi occorre, dunque, anche<br />
la sintesi.<br />
Il terzo elemento di cambiamento è il fatto che i problemi<br />
continuano a emergere e che la loro criticità continua a variare.<br />
C’è una novità assoluta di problemi che emergono. Purtroppo<br />
in questo periodo ce ne stiamo accorgendo.<br />
Rispetto a tutto ciò, perché ho scelto questi tre temi come i<br />
punti fondamentali dell’università? Sul primo penso che sia<br />
chiaro a tutti senza bisogno di dover spendere molte parole.<br />
L’università è un fattore fondamentale per aumentare la capacità<br />
di attrazione del territorio, la capacità di trattenere risorse migliori<br />
e la capacità di attrarre. Le risorse migliori sono le persone.<br />
Significa trattenere gli studenti migliori e far venire da<br />
tutte le parti del mondo gli studenti migliori, sviluppare la ricerca<br />
e basarsi sul fatto che dalla ricerca trovano linfa l’industria<br />
e le attività produttive, l’innovazione e le nuove imprese.<br />
Nell’ultima lezione dico sempre agli studenti di non porsi il<br />
problema di dove andare a lavorare, di quale sia il posto di lavoro.<br />
Chiedo loro di porsi il problema di quanti posti di lavoro<br />
potranno creare. Questo è il problema.<br />
Il secondo aspetto sull’aumento della complessità significa<br />
che l’università deve sapersi dotare di un approccio realmente<br />
multi e interdisciplinare. Se ne parla tanto, ma, quando poi si<br />
arriva al concreto, è molto facile trovare una specie di un nouvelle<br />
cuisine, in cui le singole parti e i singoli componenti sono<br />
magari ottimi, ma non si amalgamano. Noi, viceversa, abbiamo<br />
bisogno di un buon cibo amalgamato, come nella nostra<br />
tradizione culinaria italiana.<br />
Dobbiamo avere i prodotti di base, che devono essere buoni,<br />
ma è l’amalgama che fa la bontà del prodotto finito. Occorre<br />
un’università che punti sull’interdisciplinarietà e sul fatto che<br />
sia nella formazione, sia nella ricerca, ci sia la creazione di reti<br />
forti. Abbiamo sentito il Presidente Scotti, quando ha posto<br />
questo come uno degli elementi centrali. È importantissima<br />
la creazione di reti di connessione non soltanto fra università<br />
e reti di ricerca nazionali e internazionali, ma anche con il<br />
mondo produttivo in senso lato. Occorre stabilire questo legame,<br />
occorre far sì che molti professionisti nelle diverse<br />
branche dell’operazione possano partecipare come docenti.<br />
Abbiamo bisogno di questo stretto legame tra mondo pro-<br />
duttivo e mondo accademico.<br />
Per quanto riguarda i continui cambiamenti, abbiamo bisogno<br />
che l’università sia in grado di anticipare i problemi. Anticiparli,<br />
non seguirli. Essere leader, non follower. Dobbiamo riuscire<br />
a capire quali saranno i problemi tra cinque, sei o dieci<br />
anni, perché soltanto così possiamo creare curricula adeguati.<br />
Tra la creazione di un curriculum e il fatto che i professionisti<br />
possano operare passa una decina d’anni. Se noi non anticipiamo<br />
oggi i problemi che prevedibilmente ci saranno fra<br />
dieci anni, svolgiamo male il nostro compito.<br />
Un’università che si trovi di fronte a queste sfide di cambiamento<br />
deve organizzarsi. Abbiamo sentito il Presidente Scotti,<br />
il quale ci ha porto alcune illuminanti parole sulle modalità di<br />
organizzazione di un’università, che a me sembra rispondano<br />
a queste sfide. È un problema interno, un problema di come<br />
fare didattica, di come fare ricerca, di come selezionare i docenti<br />
e di come selezionare gli studenti. Non possiamo dimenticare,<br />
però, che, se questi sono problemi interni, e sono la<br />
gran parte – il primo elemento parte dall’interno. Medice, cura<br />
te ipsum, mi dicevano, quindi bisogna sempre guardarsi allo<br />
specchio e tentare di vedere che cosa si può fare –, esiste<br />
anche un contesto esterno. Spero di non turbarvi.<br />
L’università opera in Italia in un mercato protetto. Perché non<br />
liberalizziamo l’università, tra le tante liberalizzazioni? Noi<br />
operiamo in un mercato protetto e governato da corporazioni<br />
di tutti i generi, da leggi, leggine, procedure, norme che complicano<br />
la convivenza, soprattutto in un Paese culturalmente<br />
orientato come l’Italia, il cui motto è che ciò che non è esplicitamente<br />
permesso è vietato, in una cultura liberale dovrebbe<br />
essere esattamente il contrario.<br />
Cominciamo a partire con la liberalizzazione effettiva dell’università.<br />
Questo è un mio pallino, continuo a ripeterlo. Se c’è<br />
liberalizzazione, significa che devono aumentare l’autonomia<br />
e la responsabilità, la responsibility e l’accountability, la responsabilità<br />
e la rendicontazione. Bisogna render conto del proprio<br />
operato. Chi opera bene è premiato, chi opera male è punito,<br />
mentre da noi, viceversa, è todos caballeros. Si tenta di fare<br />
un discorso di merito, da parecchio tempo i ministri in primis<br />
hanno promulgato questo editto culturale, ma i fatti non sono<br />
seguiti. C’è la vischiosità della corporazione. Tutti affermano
link journal 1/<strong>2012</strong> anno accademico 2011/<strong>2012</strong><br />
che ci dobbiamo rendere autonomi, ma, poiché devono poi<br />
rispondere di ciò che fanno, sono molto attenti.<br />
Un elemento che sembrerà un pochino strano e che è stato<br />
sostenuto anche più volte, ma su cui poi si è tornati indietro,<br />
è l’eliminazione del valore legale del titolo. Io continuerò finché<br />
avrò voce a battermi in tal senso. Sono almeno venticinque<br />
anni che continuo a ripeterlo: si deve procedere<br />
all’eliminazione del valore legale del titolo. Ciò significa eliminare<br />
tutte le incrostazioni burocratiche.<br />
Pensate: l’università si sceglie i docenti, perché è responsabilità<br />
dell’ateneo, si sceglie gli studenti, perché è sua responsabilità.<br />
Ha un sistema di modalità di operare totalmente autonomo,<br />
di cui risponde. Se ci deve essere un contributo in termini di<br />
intervento pubblico, è possibile intervenire con la valutazione<br />
di merito effettivo. Svolgo l’ultima considerazione, che spero<br />
non venga considerata come eretica. Noi continuiamo a parlare<br />
del mercato. Perché non lo facciamo anche per l’università,<br />
perché non stabiliamo che sia il mercato a giudicare? Il<br />
mercato giudica nel senso che prende i laureati dell’università<br />
o non li prende, li valuta o non li valuta, ma questo concetto<br />
del mercato si può riportare anche a valle.<br />
Quando una scuola media superiore ha i propri studenti maturati<br />
che, mediamente, non hanno un buon successo, ciò significa<br />
che tale istituto di formazione superiore vale di meno.<br />
Diamo spazio alla liberalizzazione, diamo spazio all’autono-<br />
mia, alla responsabilità e al mercato.<br />
Concludo con due osservazioni, che non sono banali, ma su<br />
cui non c’è né il tempo, né la possibilità di approfondire. Noi<br />
parliamo molto spesso di università, di riforma universitaria,<br />
ma l’università è soltanto il terminale di tutta la filiera formativa<br />
che parte dalle scuole primarie o forse anche prima. Bisognerebbe<br />
affrontare questo problema seriamente. Quando<br />
parlo agli industriali, rilevo che tutti continuiamo a sostenere<br />
che le risorse umane sono il punto fondamentale; nella loro<br />
fabbrica, in un processo produttivo, se c’è una fase importantissima,<br />
fanno operare su di essa le persone di minor pregio e<br />
le pagano meno di tutti? No.<br />
Allora perché il sistema formativo, a partire dalle elementari,<br />
è trattato in questo modo e non ci sono una valutazione, una<br />
modalità retributiva adeguata? Se noi effettivamente non soltanto<br />
lo affermiamo – pensate a Lisbona – ma crediamo<br />
anche sinceramente che la risorsa umana sia il capitale vero<br />
di una nazione, se ciò è vero ed esiste la cosiddetta knowledge<br />
society, basata sulla ricerca, sullo sviluppo e sull’innovazione,<br />
perché alle parole non seguono i fatti?<br />
È una domanda, un dubbio che non ha mai trovato risposta.<br />
Forse dovremmo porci seriamente questo problema e tentare<br />
di affrontarlo con molta franchezza, potendo permettere<br />
quelli che possono essere errori, ma non peccati. Sicuramente<br />
io mi auguro di aver svolto molte considerazioni anche errate,<br />
ma senza peccato.<br />
7
8 anno accademico 2011/<strong>2012</strong><br />
link journal 1/<strong>2012</strong><br />
Il saluto del professor Joseph Mifsud<br />
Presidente dell’EMUNI<br />
Presidente, Eccellenze, Ministri, Colleghi, Studenti e Amici della <strong>Link</strong>.<br />
Oggi un maltese non poteva non parlare, anche perché “link”<br />
è una parola, anche se in inglese, scelta non a caso. Ricordo<br />
anche il giorno.<br />
Si è parlato del nostro molto compianto Presidente della Repubblica,<br />
Guido De Marco. Guido era un faro per il Mediterraneo,<br />
nonché per questa università, insieme ad altri. Si è<br />
parlato anche di Roger Ellul Micallef e di Ian Refalo, persone<br />
che, con il professor Scotti e con la squadra che ha a disposizione,<br />
hanno cercato di costruire questo faro maltese, come<br />
lo chiamava Guido. Chiamava Malta il Din l-art Helwa, ossia<br />
“questa bellissima terra”.<br />
Sono qui per rendere onore a questo grande personaggio, che<br />
è stata fondamentale per la <strong>Link</strong>. Sono anche molto contento<br />
che tantissimi studenti abbiano conosciuto la parola Malta –<br />
è presente il nostro ambasciatore Inguanez – non soltanto attraverso<br />
i siti di pubblicità o di storia, ma anche attraverso<br />
questa università.<br />
In questo momento sono Presidente dell’Università euromediterranea<br />
e sono qui con altri Rettori.<br />
Il Presidente Schifani ha parlato di flessibili e tale carattere è<br />
innato in questa Università, che oggi, è un “link” anche con<br />
il passato e col futuro. Con questo grande lavoro che ci<br />
aspetta io vorrei chiedere l’aiuto di tutti gli studenti, di tutti i<br />
professori, di tutte le famiglie e di tutti coloro che hanno contribuito<br />
a rendere grande questa iniziativa. Continuate ad aiutarci.<br />
Vorrei rivolgermi ora al professor Nabil Ayad. Il<br />
professor Ayad ha lavorato a stretto contatto con la <strong>Link</strong> per<br />
molti anni come direttore della Diplomatic Academy of London.<br />
Continueremo, con il sostegno del Presidente Frattini e<br />
del Presidente Michael Frendo, che oggi non ha potuto essere<br />
con noi, a lavorare in questo senso.<br />
Il saluto del Prof. Nabil Ayad<br />
Direttore della Diplomatic Academy di Londra<br />
Eccellenze, Professori, Onorati Ospiti,<br />
vorrei congratularmi con il professor Scotti per questa occasione,<br />
anche a nome dei miei Colleghi, Rettori e Vicerettori<br />
dell’Università Euromediterranea.<br />
La prima volta in cui ho avuto l’onore di incontrare il professor<br />
Scotti è stato a Londra, quando lo invitammo a intervenire<br />
come ospite per parlare del cinquantesimo anniversario del<br />
Trattato di Roma. Il tema della Conferenza erano le dimensioni<br />
europee dei valori umani e fu una grande occasione.<br />
Da allora abbiamo stabilito ottimi contatti con la <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong><br />
<strong>University</strong>. Nel maggio del 2008 abbiamo organizzato insieme<br />
una settimana diplomatica a beneficio degli studenti e<br />
dei membri del corpo diplomatico di Roma.<br />
Lo scorso settembre il professor Scotti è venuto a Londra,<br />
dove ha incontrato il Vicerettore, professor Edward Acton, e<br />
insieme abbiamo firmato un accordo di collaborazione per<br />
promuovere programmi diplomatici su sicurezza e diplomazia,<br />
comunicazione e diplomazia e anche business internazionale<br />
e diplomazia. Auspicabilmente, svilupperemo questi<br />
programmi a breve nei prossimi mesi.<br />
Avere un’università privata non è un elemento innovativo di<br />
per sé, ma è un grande successo, perché prevedo che tra pochi<br />
anni la maggior parte delle università statali diventeranno private.<br />
Congratulazioni, dunque, professor Scotti, per quest’iniziativa<br />
innovativa e ben realizzata.
Il Presidente del Senato Renato Schifani<br />
apre l’Anno Accademico 2011/<strong>2012</strong><br />
Presidente Scotti, Autorità, illustri Rettori<br />
e Professori, cari studenti,<br />
sono veramente lieto di essere con voi in occasione dell'inaugurazione<br />
dell'anno accademico della vostra piccola<br />
ma dinamica e valida Università che forma professionisti<br />
per il mondo che cambia e per le nuove professionalità richieste<br />
dal mercato del lavoro.<br />
La qualità della formazione che viene impartita in questo<br />
Ateneo è confermata dall'alta percentuale di laureati che<br />
hanno trovato rapida ed utile collocazione sul mercato del<br />
lavoro e che sono poi cresciuti rapidamente in responsabilità<br />
gerarchiche aziendali.<br />
Tutto questo è dovuto anche alla vostra alta vocazione internazionale,<br />
un punto di forza in più di questa università;<br />
vocazione che mai come oggi è così necessaria nel contesto<br />
della globalizzazione.<br />
Sono poi particolarmente lieto quando ho l'occasione di rivolgere<br />
un pensiero o una riflessione direttamente ai giovani,<br />
ed alle istituzioni chiamate al compito, essenziale in<br />
ogni comunità, di curare la formazione e salvaguardare la<br />
crescita umana e culturale, oltre che tecnica e scientifica dei<br />
nostri uomini del futuro.<br />
L'anno che si è chiuso ci ha visti impegnati a contrastare gli<br />
effetti, anche sulla situazione politica, di una grave e pervasiva<br />
crisi economica.<br />
Il sistema finanziario e quello politico ne hanno subito pesanti<br />
conseguenze sia sul bilancio pubblico che sull'agenda<br />
dei lavori parlamentari, impegnata in continue manovre di<br />
aggiustamento finanziario.<br />
La crisi purtroppo non è un fenomeno passeggero, non è<br />
una fluttuazione economica: è una discontinuità sistemica,<br />
un cambio di passo nell'evoluzione economica del pianeta<br />
che ciclicamente può presentarsi.<br />
La crisi che stiamo vivendo è figlia della globalizzazione, un<br />
evento che genera tante opportunità ma che al tempo stesso<br />
modifica tutte le chiavi di lettura tradizionali della realtà, soprattutto<br />
economica, attraverso anche una competizione<br />
sempre più dura. E che rischia di mettere in serio pericolo<br />
la nostra capacità di onorare il debito pubblico che si è accumulato<br />
nei decenni trascorsi.
10 anno accademico 2011/<strong>2012</strong><br />
link journal 1/<strong>2012</strong><br />
Da qui è nata l'esigenza di una ulteriore manovra economica,<br />
che ha visto alternarsi al precedente Governo, una<br />
nuova formazione tecnica con il sostegno di un'ampia ed<br />
inedita maggioranza politica.<br />
Questo Parlamento, consapevole e responsabile, ha saputo<br />
operare scelte coraggiose nell'esclusivo interesse del Paese.<br />
E in questa fase, mi preme sottolinearlo, abbiamo assistito<br />
ad una grande prova di maturità degli italiani.<br />
Altri compiti gravosi e non agevoli attendono Camera e Senato;<br />
sono quelli di concorrere alla nuova fase essenziale e<br />
decisiva di crescita del Paese.<br />
All'aumento della pressione fiscale deve seguire la riduzione<br />
di tutta la spesa pubblica, attraverso scelte che diminuiscano<br />
le uscite e creino nuove opportunità di occupazione.<br />
E' questa la giusta prospettiva che desidero fortemente si<br />
realizzi in un clima sereno, pacato e costruttivo di confronto<br />
leale ed autentico.<br />
Quello che si chiede sempre - ma soprattutto in un momento<br />
difficile come quello che stiamo attraversando - è<br />
l'abbandono di visioni miopi, è collaborazione, unità di intenti,<br />
seppure in un clima di dialettica sempre necessario<br />
che è il sale della democrazia, ma che deve essere finalizzato<br />
al raggiungimento di obiettivi non più differibili.<br />
Una sana contrapposizione, dove non esistano inutili esasperazioni,<br />
conduce a risultati positivi attenuando eventuali<br />
tensioni sociali; è foriera di un ritrovato clima di coesione<br />
sociale.<br />
Nessun debito pubblico deve essere ereditato dalle nuove<br />
generazioni: gli italiani si stringono nei sacrifici richiesti per<br />
evitare che i propri figli e nipoti debbano sopportare un<br />
peso oltremodo gravoso.<br />
Sono richieste che coinvolgono tutte le categorie sociali in<br />
misura proporzionale a ciascun reddito. Ma al contempo<br />
devono essere individuati quei posti di lavoro che abbiano<br />
i requisiti della stabilità: è questo il dovere della politica.<br />
In questo contesto, per contribuire alla crescita del Paese,<br />
anche il tema delle liberalizzazioni può divenire una opportunità<br />
alla quale tutti dobbiamo guardare con attenzione,<br />
ma che deve essere affrontato adottando criteri e metodi<br />
ben delineati.<br />
Sono scelte che devono apparire comprensibili agli italiani<br />
e che devono includere percorsi di grande respiro.<br />
E’ una riforma alla quale occorre accostarsi, con approccio<br />
complessivo e non parziale, possibilmente partendo dalle<br />
liberalizzazioni strategiche sui grandi settori dei servizi pubblici,<br />
dell'energia e degli ambiti economici di maggiore rilevanza,<br />
per poi includere quelle più settoriali.<br />
Solo attraverso questo percorso il Paese può essere indotto<br />
ad accettare un cambiamento così radicale che, all’apparenza<br />
e nell’immediatezza può sembrare foriero di ulteriori<br />
sacrifici, ma che alla distanza saprà valutare nei suoi effetti<br />
positivi.<br />
Un altro tema sul quale l’opinione pubblica viene giornalmente<br />
informata è quello della lotta all’evasione.<br />
Se, come è a tutti noto, omettere in tutto o in parte di dichiarare<br />
al fisco il proprio effettivo reddito, o peggio nasconderlo<br />
totalmente è un comportamento illegittimo e<br />
purtroppo diffuso, in un periodo come quello attuale di difficoltà<br />
economica, deve esserci la consapevolezza del danno<br />
che si crea a tutta la comunità nazionale. Perché se ciascuno<br />
di noi fa la sua parte, contribuiamo tutti insieme a raggiungere<br />
presto e bene quegli obiettivi che ci chiede l’Unione
link journal 1/<strong>2012</strong> anno accademico 2011/<strong>2012</strong><br />
Europea. La lotta all’evasione, allora, va inquadrata in questo<br />
giusto e corretto ambito e viene assimilata come un dovere<br />
civico; assume, allora, il valore di un esempio collettivo<br />
di osservanza della legge finalizzata al rilancio dell’economia<br />
ed al bene di tutta la cittadinanza.<br />
La lotta all'evasione, come la lotta alle grandi criminalità,<br />
non può e non deve costituire elemento di divisione tra le<br />
forze politiche e sociali, ma deve essere invece un obiettivo<br />
primario ed inderogabile al quale ciascuno di noi, in rela-<br />
zione alle rispettive funzioni che svolgiamo nella società, è<br />
chiamato a dare il giusto contributo.<br />
L'obiettivo prioritario di tutte le politiche pubbliche è anche<br />
quello di innalzare la qualità della formazione culturale e<br />
specialistica delle giovani generazioni.<br />
Il capitale umano è infatti un fattore determinante per la<br />
crescita, lo sviluppo e la competitività dei sistemi-Paese.<br />
Per la politica è un imperativo categorico individuare, ed<br />
anche con urgenza, tutte le misure più idonee a fare emergere<br />
quei giovani di talento e professionalmente attrezzati -<br />
devo dire che ce ne sono tanti - attraverso la formazione di<br />
università serie e responsabili.<br />
Sono questi i giovani che possono arricchire il pubblico, ma<br />
anche il privato, che possono contribuire responsabilmente<br />
a valorizzare il nostro Paese.<br />
Quello che serve è una selezione basata su criteri meritocratici<br />
e la politica deve tendere a questo, creando i presupposti<br />
per evitare che la competizione dei meritevoli venga<br />
svilita da facili scorciatoie di chi immeritatamente può raggiungere<br />
gli stessi risultati.<br />
La meritocrazia deve essere l'arma vincente per l'innovazione<br />
e la crescita sociale.<br />
Nei prossimi mesi saremo chiamati a corrispondere agli impegni<br />
assunti dinanzi all'Unione europea ed al mondo.<br />
Occorrerà una grande condivisione collettiva per raggiungere<br />
il risanamento finanziario e il rilancio del nostro Paese,<br />
evitando visioni di corto respiro.<br />
Non possono e non devono esserci dubbi nella comunità<br />
internazionale sulla volontà di futuro e di progetto dell’Italia<br />
e sulla sua capacità di mettere in atto adeguati provvedimenti.<br />
Il nostro patrimonio storico, culturale, artistico, intellettuale<br />
e scientifico ci impone di rendere fede al nostro<br />
grande Paese e di garantire alle nuove generazioni un futuro<br />
sostenibile. Siamo chiamati anche a consolidare in voi giovani<br />
la consapevolezza di una solida cultura democratica.<br />
Dobbiamo tenere nella massima considerazione il vostro<br />
giudizio e vi sprono, cari ragazzi, nel ricercare il domani, ad<br />
esigere sempre nuove idee.<br />
Non temete di esercitare il giusto e misurato spirito critico<br />
verso le scelte della politica che devono essere credibili e<br />
affidabili.<br />
Lo stesso Senatore e Presidente Emerito della Repubblica<br />
Italiana Francesco Cossiga, al quale intitolate oggi la vostra<br />
biblioteca, nei diversi ruoli svolti nel corso della sua lunga<br />
e intensa vita, riuscì sempre a far emergere il suo spirito critico,<br />
la sua dialettica e perfino la sua ironia e le sue provocazioni.<br />
Questa vostra impostazione dovrà tradursi però sempre più<br />
nell'attaccamento diffuso e consapevole alla centralità delle<br />
istituzioni rappresentative, e al loro ruolo insostituibile nel<br />
processo democratico.<br />
Solo le Istituzioni, infatti, sono in grado di assicurare che i<br />
cambiamenti nella società globalizzata avvengano in un<br />
orizzonte che contempli le insopprimibili e irrinunciabili<br />
esigenze di tutela dei diritti della persona.<br />
11
12 anno accademico 2011/<strong>2012</strong><br />
link journal 1/<strong>2012</strong><br />
In questa crisi economica, provocata da eventi esterni al nostro<br />
Paese, occorre poi consapevolezza rifuggendo gli atteggiamenti<br />
di difesa degli interessi corporativi e delle<br />
"rendite di posizione".<br />
Sarà così assicurata la stabilità ed il rafforzamento di quel<br />
bene supremo per la nostra civiltà che é il cuore del principio<br />
della democrazia e che solo il buon funzionamento delle<br />
assemblee rappresentative, e in primo luogo del Parlamento<br />
nazionale, sono in grado di assicurare.<br />
Per queste ragioni, ritengo che molto opportunamente e<br />
saggiamente avete voluto dedicare la lectio magistralis di<br />
quest'anno al tema dell'università di fronte alla sfida del<br />
cambiamento globale.<br />
Le università hanno giocato un ruolo decisivo nella storia<br />
della cultura occidentale.<br />
Questa istituzione fondamentale è nata in Italia e ha sempre<br />
avuto l’ideale di insegnare agli studenti non solo dottrine e<br />
saperi, ma anche il modo con cui quelle conoscenze sono<br />
state acquisite e progrediscono.<br />
Un ponte tra scuola e vita. Un compito centrale di illuminismo<br />
per l’uomo, nella intricata foresta della vita; un sistema<br />
di idee vive, che ogni epoca deve possedere e<br />
insegnare.<br />
Oggi le sedi di produzione dove si creano, si scambiano e<br />
si trasmettono i saperi sono molteplici.<br />
Le università, pertanto, devono essere più attente alle realtà<br />
in evoluzione immergendosi nelle componenti sociali e civili<br />
e nelle esperienze di vita.<br />
Oggi c'è necessità di maggiore duttilità ed elasticità delle<br />
Istituzioni di formazione per governare nuovi modelli e anticipare<br />
progetti.<br />
Il sistema degli atenei deve essere aperto alla piena attualità,<br />
operando immerso nel dinamismo della vita.<br />
Se cultura e professioni rimanessero isolate – con alterigia<br />
e presunzione – senza contatto con l’incessante fermento,<br />
il sapere diverrebbe anchilosato.<br />
La classe dirigente moderna deve avere capacità di prevedere,<br />
per quanto possibile, l'evoluzione dei mercati globali<br />
come pure degli ordinamenti politici e sociali.<br />
Ancora più che nel passato, oggi è infatti imprescindibile<br />
avere una solida preparazione universitaria per anticipare i<br />
sempre più repentini cambiamenti della società.<br />
Cari studenti, guardate con serenità al ruolo che potranno<br />
avere le istituzioni repubblicane per il futuro del nostro<br />
Paese. Solo dal loro corretto e soprattutto libero e partecipato<br />
funzionamento, potrà derivare anche in futuro la piena<br />
legittimazione delle Istituzioni pubbliche presso la nostra<br />
cittadinanza. Le vostre opinioni meritano la massima considerazione:<br />
saranno le idee della futura classe dirigente.<br />
Credete nella cultura e nella buona preparazione. Per questo<br />
vi sprono allo studio e all'impegno civile: sono le qualità essenziali<br />
per conseguire ogni traguardo di vita.<br />
Il futuro potrà esservi amico se sarà solido, se sarà credibile<br />
ma anche se torneranno a imperare quei valori come l'equità<br />
e la solidarietà che troppo spesso vengono oggi accantonati.<br />
Cari giovani, non fatevi mai prendere dallo sconforto; raggiungere<br />
certi obiettivi è un vostro diritto, ma è vostro dovere<br />
conquistarli, giorno dopo giorno, spesso con fatica e<br />
spirito di sacrificio. Non esistono successi facili, esistono<br />
mete da raggiungere e raggiungibili solo con impegno e<br />
grande volontà di riuscire. E non mi riferisco ad obiettivi<br />
necessariamente ambiziosi; ciascuno può scegliere quello<br />
che è più confacente alle proprie idee, alle proprie possibilità,<br />
alle proprie inclinazioni. Ma, scelta la via da seguire, va<br />
percorsa fino in fondo, con tenacia, determinazione, voglia<br />
di superare piccoli e grandi ostacoli, anche quelli che possono<br />
apparire insormontabili.<br />
Continueremo a dialogare insieme, allargheremo i nostri<br />
orizzonti, riusciremo a creare nuove prospettive. La politica<br />
è e deve essere sempre al vostro servizio.<br />
Se non riuscirà ad esserlo, avrà fallito nel suo principale<br />
scopo, e cioè quello di essere sensibile alle volontà ed<br />
istanze di cambiamento della società da parte della sua<br />
nuova classe dirigente, di cui voi sarete i rappresentanti.<br />
Vi formulo, infine, con sincera vicinanza, i miei più calorosi<br />
auguri per l'anno accademico che si apre.<br />
Dichiaro aperto l'anno accademico 2011/<strong>2012</strong>
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editoriale<br />
editoriale<br />
<strong>Link</strong> <strong>Campus</strong>:<br />
la conoscenza, il mondo<br />
Un treno affollato, una valigia di cartone legata,<br />
abbracci, lacrime, un’infinita tristezza.<br />
Abbiamo rivisto tante volte le<br />
scene della nostra emigrazione. Per vivere, riuscire<br />
a mangiare, si andava altrove. Lontano. Si cambiava<br />
spesso continente, sempre abitudini e cultura.<br />
Nel pieno di una crisi acuta che fa perdere posti<br />
di lavoro e reddito, che fa vacillare le certezze materiali<br />
e immateriali che ci siamo costruiti in tanti<br />
anni, potremmo riprendere il treno? Oggi in Italia<br />
mangiamo tutti, di solito molto più di un pasto al<br />
giorno. E i vestiti, una casa, magari modesta, non<br />
mancano. Ma la speranza di futuro un po’ si: opportunità<br />
di lavoro qualificato, soddisfazioni professionali,<br />
riconoscimento del merito, possibilità<br />
di migliorare la propria condizione, queste le aspirazioni<br />
spesso frustrate.<br />
E allora molti giovani, soprattutto se hanno studiato<br />
‘bene’ e vogliono continuare a farlo o intendono<br />
mettere a frutto la loro fatica accademica,<br />
sono tentati di andare a realizzare la loro speranza<br />
altrove, all’estero.<br />
Noi, che siamo sempre stati una Università internazionale,<br />
proprio in queste settimane siamo divenuti<br />
a tutti gli effetti una Università italiana,<br />
dopo averlo fortemente voluto ed esserci a lungo<br />
battuti per questo riconoscimento. Siamo impazziti?<br />
Che senso ha?<br />
Beh, intanto non smettiamo certo di essere una<br />
Università internazionale!... Ma non voglio limitarmi<br />
a questa risposta. Non si tratta di mantenere<br />
i piedi in due staffe o di utilizzare ‘due forni’ per<br />
cuocere il nostro pane. Voglio dire qualcosa di più,<br />
perché c’è di più, c’è che <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />
scommette sull’Italia.<br />
Vanna Fadini, Presidente della Società di Gestione della <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />
link journal 1/<strong>2012</strong><br />
Nessun ridicolo sciovinismo, ma alcune ragioni:<br />
innanzitutto, questo è un Paese con radici<br />
profonde e risorse umane capaci da sempre di risollevarlo<br />
da qualsiasi momento di crisi. E’ sempre<br />
stato tra i protagonisti della Storia. E’ un Paese ad<br />
identità forte, che trasmette ai suoi prodotti e che<br />
usa per attrarre. Generiamo seduzione. Non sarà<br />
sempre con la stessa intensità, ma nessuno è perfetto;<br />
poi, nel pieno di una omogeneizzazione<br />
delle economie, della globalizzazione dei mercati,<br />
esiste un ‘altrove’? Voglio dire che in questo<br />
mondo non tutti hanno il ‘giardino’ sotto casa, ma<br />
tutti, proprio tutti, hanno tracciati, sentieri, strade<br />
che possono raggiungerlo. Perché non incamminarci<br />
da casa nostra? Fuori di metafora, se l’Occidente<br />
ha destini intrecciati, interdipendenti, come<br />
le borse e i mercati ci ricordano ogni giorno, cosa<br />
cambia ad affrontare gli ostacoli per lo sviluppo<br />
qui da noi, con il vantaggio di usare strumenti, risorse,<br />
potenzialità che conosciamo bene? Hic rhodus,<br />
hic salta… senza troppe delocalizzazioni;<br />
ancora, non ‘emigrare’ non vuol dire stare<br />
fermi. L’esperienza del viaggio, dello scambio,<br />
dell’esperienza ‘lontano da casa’ è vitale per qualsiasi<br />
curriculum e <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> l’incoraggia,<br />
l’aiuta. Ma a noi piace Marco Polo. Anni di viaggio<br />
non lo hanno reso meno italiano e hanno portato<br />
grandi vantaggi all’economia veneziana. Non è diventato<br />
un ‘professionista’ cinese!<br />
Scommettere sull’Italia (e cercare di vincere la<br />
scommessa…) certo non è una passeggiata. C’è da<br />
fare molto lavoro per qualificare sempre di più le<br />
risorse umane di questo Paese, per tradurre in fatti<br />
le potenzialità. Se avrete la pazienza di dare uno<br />
sguardo alla tabella pubblicata, vi renderete conto<br />
di quanta strada ci sia da fare.
link journal 1/<strong>2012</strong> editoriale<br />
15<br />
Noi come Università formiamo laureati, classi dirigenti,<br />
ma questi sono i dati di partenza:<br />
la classe dirigente italiana rappresenta appena<br />
il 2% del numero totale degli occupati<br />
(450.311 su 22.422.017);<br />
le donne rappresentano solo il 20,1%, ad<br />
eccezione della dirigenza pubblica, dove la quota<br />
percentuale sale al 32,5%;<br />
i dirigenti ‘giovani’, quelli cioè con un’età<br />
inferiore ai 45 anni, rappresentano appena il<br />
37,8%;<br />
dulcis in fundo (si fa per dire…) sul fronte<br />
del titolo di studio, soltanto il 36% di coloro che<br />
sono quotidianamente chiamati ad assumere decisioni,<br />
dirigere, coordinare lo sviluppo del Paese è<br />
laureato! Certo, la percentuale di titolari di laurea<br />
o titolo di studio più elevato sfiora il 75% nell’alta<br />
dirigenza pubblica (anche perché solo la laurea da<br />
accesso a concorsi); ma essa non raggiunge neanche<br />
il 15% tra gli imprenditori e gli amministratori<br />
di grandi aziende.<br />
Quindi, in sintesi: poche donne, età media avanzata<br />
e qualificazione formativa non eccellente. Rispetto<br />
al resto d’Europa un forte gap da colmare.<br />
Però anche una grande opportunità da cogliere per<br />
gli studenti della <strong>Link</strong>, perché questi dati vogliono<br />
dire che il ‘mercato’ non manca. E’ forte, cioè, la<br />
domanda di nuovi laureati, di alta formazione, di<br />
classi dirigenti, e proprio qui in Italia!<br />
Mi permetto una considerazione finale. La crisi<br />
che attraversiamo non credo potrà essere superata<br />
senza che si tenga in maggiore conto le esigenze<br />
dei più deboli o di coloro che sono in maggiore<br />
difficoltà di sviluppo. Una diversa distribuzione<br />
della ricchezza, maggiore rispetto per le risorse naturali,<br />
più sobrietà nei comportamenti sono condizioni<br />
di un futuro sostenibile e di una riduzione<br />
dei conflitti.<br />
L’etica, in questa epoca, ha un valore sempre maggiore,<br />
anche economico. Sarebbe stupido non capire<br />
il valore che essere il centro di una delle grandi<br />
religioni monoteiste porta al contributo italiano<br />
per lo sviluppo.<br />
Un valore accresciuto anche da decenni di battaglie<br />
politiche, sindacali, popolari per la giustizia e<br />
la solidarietà, che invece di essere occasione di divisione<br />
dovrebbero sempre più divenire motivo di<br />
orgoglio.
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link journal<br />
<strong>Link</strong> Journal - Periodico di informazione della <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong> - Direttore responsabile: Antonio Suraci<br />
Comitato di redazione: Vanna Fadini, Marco Emanuele, Gerardo Lo Russo, Tommaso Mattei, Massimo Pistone,<br />
Maurizio Zandri - Segreteria di redazione: Titti Nicolellis - Grafica e impaginazione: <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> - Periodico<br />
a diffusione gratuita n.0/12 in attesa di autorizzazione - Tipografia: Empograph, Villa Adriana, Roma<br />
Inaugurazione<br />
Anno Accademico 2011/<strong>2012</strong><br />
1 Saluto del Prof. Vincenzo Scotti<br />
Presidente <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />
5 Prolusione Prof. Adriano Di Maio<br />
Già Rettore del Politecnico di Milano<br />
8 Saluto del Prof. Joseph Mifsud<br />
Presidente EMUNI<br />
8 Saluto del Prof. Nabil Ayad<br />
Direttore Diplomatic<br />
Academy of London<br />
9 Intervento del Sen. Renato Schifani<br />
Presidente del Senato<br />
editoriale<br />
14 Siamo una università italiana<br />
Vanna Fadini<br />
italia<br />
19 Sviluppo, da dove ripartire<br />
Claudio Roveda<br />
20 Immigrazione e (s)fiducia<br />
nella politica<br />
Anna Maria Cossiga<br />
europa<br />
22 Riflessioni sul Trattato<br />
di Lisbona<br />
Vincenzo Scotti<br />
24 Europa a rischio di cortocircuito<br />
Antonio Maria Rinaldi<br />
27 Rivedere le regole<br />
e i sistemi di vigilanza<br />
A. Vento / G.C. Vecchio<br />
internazionale<br />
28 L’importanza della memoria<br />
Andrea Villa<br />
30 Il millennio urbano dei<br />
popoli africani<br />
Osservatorio Africa<br />
indice<br />
sicurezza e intelligence<br />
37 Redes criminales<br />
Garay Salamanca<br />
Salcedo Albaran<br />
diritti umani<br />
40 Il dilemma del prigioniero<br />
innocente<br />
Gianni Ricci<br />
Focus<br />
‘Il paradosso<br />
della globalizzazione’<br />
44 Il paradosso<br />
della globalizzazione<br />
Dani Rodrik<br />
47 Verso una diplomazia<br />
partecipativa<br />
Giandomenico Magliano<br />
49 Le deboli democrazie<br />
alla ricerca di un nuovo<br />
modello di Stato<br />
Antonio Suraci<br />
51 Il risveglio della libertà<br />
Maurizio Zandri<br />
54 Abbandoniamo il sogno<br />
dell’iperbole<br />
Claudio Patalano<br />
56 Il Web: agorà virtuale<br />
per il confronto<br />
e la partecipazione democratica<br />
Roberto Lippi<br />
Foto di copertina gentilmente concessa da Sheila McKinnon - www. sheilamckinnon.com<br />
Una riflessione<br />
sul mondo di domani<br />
17<br />
59 Dialogo globale: definire<br />
i canoni della convivenza<br />
Marco Emanuele<br />
61 Verso un progetto<br />
per la globalizzazione<br />
Pasquale Russo<br />
63 Rio+20: una porta aperta<br />
Gennaro Migliore<br />
incontri<br />
70 Incontro tra i Rettori delle<br />
Università del Mediterraneo<br />
Perché <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong><br />
31 Un nuovo umanesimo<br />
per la futura città interetnica 73 iTest your <strong>University</strong> Choice<br />
Stefania Lazzari Celli<br />
74 I corsi <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong><br />
economia e diritto<br />
75 I Master <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong><br />
33 Aprire i mercati<br />
libri<br />
e rafforzare<br />
la concorrenza<br />
76 Le pubblicazioni Eurilink<br />
Piergiorgio Valente<br />
34 Non solo profitto<br />
Giuseppe Perrone<br />
35 La sostenibilità<br />
dei debiti sovrani<br />
Luigi Paganetto<br />
Abbiamo voluto dedicare questo<br />
secondo numero del <strong>Link</strong> Journal<br />
ai problemi sollevati dalla globalizzazione.<br />
Si ritiene che i processi<br />
di mondializzazione siano tutti<br />
forieri di un benessere finalizzato<br />
alla pace nel mondo e all’affermazione<br />
dei valori universali.<br />
L’enfasi posta ai processi di globalizzazione,<br />
purtroppo, non trova<br />
nei fatti quel riscontro etico la cui<br />
mancanza da più parti si lamenta.<br />
Il processo, che potremmo definire<br />
di iper-capitalismo, è caratterizzato<br />
essenzialmente da<br />
fattori economico-finanziari, ovvero<br />
da rapporti spesso di dipendenza<br />
conflittuale tra i mercati.<br />
Il forte impatto economico, a discapito<br />
dello sviluppo armonico<br />
tra le diverse aree del mondo,<br />
apre però, nel contempo, la possibilità,<br />
grazie alle nuove tecnologie<br />
globali, di realizzare relazioni<br />
nuove tra i popoli, tra le religioni<br />
e, quindi, tra le culture. Questo è<br />
l’aspetto da cogliere e da coltivare<br />
con ferma determinazione per allontanare<br />
il rischio, causa la debolezza<br />
degli Stati, di una<br />
conflittualità permanente.
in collaborazione con<br />
e la partecipazione di<br />
INFO<br />
p.oliviero@unilink.it<br />
caferri@sudgestaid.it<br />
Master in Cooperazione allo Sviluppo<br />
Anno Accademico 2011 / <strong>2012</strong><br />
La <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong> in collaborazione con Emuni, rete<br />
delle Università Europee e Mediterranee, SudgestAid e con la partecipazione<br />
di FormezPA organizza per l’anno accademico in corso<br />
due Master di secondo livello dedicati rispettivamente:<br />
h alla Cooperazione internazionale e all’economia dello sviluppo,<br />
soprattutto rivolto alle problematiche delle aree mediterranee e di<br />
quelle di crisi e post-conflitto;<br />
h alla Cooperazione internazionale e ai processi di partnership<br />
economica e commerciale, con particolare attenzione all’area Latino-<br />
Americana.<br />
I Master, indirizzati a laureati magistrali e/o vecchio ordinamento,<br />
sono finalizzati alla formazione di esperti in materia di economia<br />
dello sviluppo e di cooperazione internazionale. Il profilo<br />
professionale in uscita è volto a rispondere alle crescenti esigenze di<br />
figure specialistiche operanti a livello comunitario ed internazionale,<br />
in istituzioni pubbliche e private, organismi internazionali, NGO, in<br />
materia di programmazione, attuazione e valutazione delle politiche<br />
di sviluppo.
link journal 1/<strong>2012</strong> italia<br />
Sviluppo:<br />
da dove ripartire<br />
Nel tentativo di contribuire a dare una risposta a questo<br />
interrogativo fondamentale per il futuro del nostro<br />
Paese, non si intende entrare nella analisi e nella<br />
valutazione delle misure che il nuovo Governo nazionale intende<br />
proporre all’approvazione del Parlamento e soprattutto<br />
nel dibattito circa l’opportunità di una strategia di pareggio<br />
di bilancio alla luce di una (adeguata) politica monetaria a scala<br />
di Governo della Unione Europea.<br />
Se si guarda al di là dell’attuale situazione di crisi economica<br />
e finanziaria e al futuro a medio-lungo termine, non si può<br />
non condividere l’ipotesi che l’Italia deve svilupparsi e strutturarsi<br />
come una effettiva Società della Conoscenza.<br />
Anche se sono possibili diverse declinazioni<br />
del concetto di Società della Conoscenza, nondimeno<br />
sono assunti alcuni aspetti strutturali<br />
sui quali si fonda una tale Società: essa si caratterizza<br />
per il fatto che tutti i processi economici<br />
e sociali fanno un uso estensivo e<br />
approfondito di conoscenze avanzate (in particolare<br />
quelle di tipo tecnico-scientifico) ed<br />
esiste una diffusa propensione di tutte le componenti<br />
sociali alla generazione e all’utilizzo di<br />
tali conoscenze.<br />
L’implementazione in Italia di tale modello di<br />
Società appare irrinunciabile se si vuole evitare<br />
la marginalizzazione dell’economia nazionale<br />
nel contesto competitivo globalizzato, in cui i modelli produttivi<br />
‘tradizionali’, basati sull’efficienza delle operations e sull’innovazione<br />
incrementale, non risultano più sostenibili a<br />
fronte della concorrenza dei Paesi di nuova industrializzazione,<br />
che dispongono di non imitabili differenziali positivi<br />
nei costi del lavoro e delle materie prime.<br />
Perseguendo con tali modelli di business, si estenderebbero<br />
Claudio Roveda , <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />
Sviluppo<br />
L’implementazione<br />
di un nuovo modello<br />
di Società appare<br />
irrinunciabile<br />
se si vuole evitare<br />
la marginalizzazione.<br />
19<br />
in modo diffuso i processi di crisi aziendale, che hanno portato<br />
molte aziende, soprattutto di piccole e micro dimensioni,<br />
ad uscire dal mercato, con gravi ripercussioni negative sul<br />
piano dell’occupazione e del reddito. Appare quindi necessario<br />
modificare la struttura dell’economia e della società italiana<br />
secondo queste direttrici di fondo:<br />
• mantenere, all’interno del sistema produttivo nazionale,<br />
il ruolo strategico del manufacturing in quanto motore<br />
della dinamica, se non della stessa esistenza, degli altri settori,<br />
dall’agricoltura ai servizi;<br />
• fondare la capacità di offerta e la competitività di<br />
tutti i settori produttivi, sulla innovazione knowledge based, in<br />
particolare quella tecnico-scientifica;<br />
• assicurare, attraverso l’attività di ricerca, una<br />
“produzione” di conoscenze avanzate, rispondenti<br />
sia alle esigenze di sviluppo del sistema<br />
produttivo nella logica di sostenibilità sia alle<br />
aspettative di qualità della vita dei cittadini, sia<br />
alla soluzione delle grandi problematiche sociali<br />
(in particolare nei campi della salute, della<br />
sicurezza, dell’ambiente);<br />
• accrescere la dotazione di capitale<br />
umano qualificato, in grado sia di contribuire<br />
alla generazione di conoscenze avanzate sia<br />
all’utilizzo intelligente e consapevole delle soluzioni<br />
applicative realizzate a partire da tali conoscenze,<br />
in tutti i processi economici e sociali.<br />
Assunti questi elementi strutturali fondamentali della Società<br />
della Conoscenza che si intende costruire in Italia, è possibile<br />
delineare le strategie di azione che i diversi stakeholder della economia<br />
e della società nazionale, in primo luogo a livello di governo<br />
pubblico, sono chiamati a elaborare e implementare.<br />
Tali azioni devono svilupparsi prioritariamente per:<br />
• promuovere e sostenere lo sviluppo nelle imprese di<br />
un modello strategico di business, fondato sull’innovazione,
20<br />
in primo luogo tecnologica, quale leva di competitività nell’ottica<br />
della sostenibilità e dell’internazionalizzazione;<br />
• indirizzare e sostenere l’attività di ricerca scientifica,<br />
coerentemente con gli attuali modelli di innovazione tecnologica,<br />
e soprattutto l’utilizzo delle nuove conoscenze così generate<br />
a scopi applicativi nella molteplicità delle strutture e<br />
dei processi economici e sociali;<br />
• affrontare, attraverso la ricerca e l’innovazione, le<br />
grandi problematiche sociali, da quelle connesse all’invecchamento<br />
della popolazione a quelle della sicurezza a livello individuale<br />
e sociale;<br />
• ridefinire la struttura e le modalità operative del si-<br />
Il secolo appena iniziato sarà il secolo dello straniero per<br />
eccellenza. Ma chi è lo straniero? Il turista che visita il nostro<br />
Paese? Il migrante costretto a lasciare la propria patria<br />
a causa della povertà e delle guerre? O il malvivente in<br />
cerca di un luogo dove sia più facile delinquere e dove l’eventuale<br />
punizione sia meno dura che a casa sua?<br />
Il turista è certo straniero ma, a parte forse qualche inconveniente<br />
di viabilità nei nostri centri storici, non costituisce un<br />
problema quanto una risorsa. Gli immigrati invece, spesso<br />
identificati tout court con i delinquenti, un problema lo sono<br />
eccome. Lo sono soprattutto in quanto ‘diversi’ per il colore<br />
della pelle, la lingua, i costumi, i valori. Tutto ciò che li riguarda<br />
ci è estraneo ed è dunque, in qualche modo, pericoloso.<br />
L’antropologo Claude Lévi Strauss affermava che<br />
Anna Maria Cossiga, <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />
italia link journal 1/<strong>2012</strong><br />
stema dell’istruzione e della formazione a tutti i livelli, da<br />
quello primario a quello post-laurea, in modo da fornire le tipologie<br />
di conoscenze e di competenze richieste dalla Società<br />
della Conoscenza, riassumibili in termini di multidisciplinarietà,<br />
di orientamento alle metodologie e al problem solving, di<br />
integrazione fra processi di apprendimento ‘teorico’ e di applicazione<br />
in contesti ‘reali’.<br />
Preme sottolineare come la definizione e l’attuazione di queste<br />
linee di azione richiedano l’assistenza di una visione sul futuro<br />
a medio-lungo termine della società italiana, che sia condivisa<br />
da tutti i suoi stakeholder e ne indirizzi la formulazione di strategie<br />
e l’operatività.<br />
Immigrazione e (s)fiducia nella politica<br />
“l’atteggiamento più antico […] consiste nel ripudiare puramente e semplicemente<br />
le forme culturali – morali, religiose, sociali, estetiche – che<br />
sono più lontane da quelle con cui ci identifichiamo. Dire “Abitudini di<br />
selvaggi”, o “da noi non si fa così”, sono altrettanti reazioni grossolane<br />
che esprimono (…) la stessa repulsione di fronte a modi di vivere, di<br />
pensare o di credere che ci sono estranei”.<br />
Forse per questo, come sosteneva Rousseau, la civiltà è stata<br />
fondata da chi ha costruito il primo recinto. E non per raggruppare<br />
il bestiame, bensì per separare il proprio terreno da quello<br />
dell’altro, lo ‘straniero’, il possibile ‘nemico’.<br />
Eppure, come sostiene Jean Danielou, storico e teologo francese,<br />
il passo decisivo l’umanità lo ha fatto quando “lo straniero<br />
da nemico è divenuto ospite”.<br />
Sono questi i due atteggiamenti cui la politica, l’Arte di go-
italia<br />
link journal 1/<strong>2012</strong> 21<br />
vernare la società, si trova innanzi nell’affrontare il problema<br />
degli immigrati: accoglienza dell’ospite o difesa dal nemico?<br />
Dal 1986, anno in cui l’immigrazione ha cominciato ad essere<br />
‘un problema’ in Italia, i nostri governi hanno emanato leggi<br />
ed emendamenti per regolare il flusso degli stranieri nel nostro<br />
Paese, cercando di coniugare i diritti umani da una parte, e la<br />
sicurezza dei propri cittadini dall’altra. La soluzione, tuttavia,<br />
non solo non è facile, ma deve rispondere, come sempre accade<br />
in politica, al sentire degli elettori. Qualunque decisione<br />
si prenda accontenterà qualcuno ma, inevitabilmente, scontenterà<br />
qualcun altro e la fiducia o la sfiducia nella politica, in<br />
tema di regolamentazione dello status degli immigrati, aumenterà<br />
o diminuirà in base all’orientamento dei governi.<br />
In democrazia, però, la politica e i partiti hanno<br />
il compito, come ricorda Gustavo Zagrebelsky,<br />
di raccogliere le istanze sociali e trasformarle<br />
in proposte politiche. E ne hanno un altro, altrettanto<br />
importante: quello di tenere unita la<br />
società. A questo dovrebbe guardare la politica,<br />
più che ai risultati elettorali. La società, oggi, è<br />
costituita anche da quei milioni di lavoratori<br />
stranieri che giungono in Italia in cerca di una<br />
vita migliore e che sono una risorsa quanto i<br />
turisti che affollano le nostre strade. Anzi, sono<br />
una risorsa ben maggiore, perché molti di loro<br />
sono nati qui, parlano perfettamente la nostra<br />
lingua, studiano nelle nostre scuole e nelle nostre<br />
università. Insieme ai nostri figli, saranno gli italiani di domani.<br />
Da non poche parti, tuttavia, l’immigrato è ancora visto come<br />
il nemico da cui difendersi, l’irregolare che viene in Italia non<br />
per lavorare e per migliorare le sue prospettive di vita (anche<br />
noi italiani lo facevamo, un tempo), ma per delinquere. Così<br />
nasce il reato di immigrazione clandestina, che prevede un’ammenda<br />
da 5.000 a 10.000 euro per lo straniero che entra illegalmente<br />
nel territorio dello Stato; e che probabilmente non<br />
possiede nulla, perché tutto ciò che aveva lo ha speso per affrontare<br />
il ‘viaggio della speranza’.<br />
Eppure qualche spiraglio di speranza in questa complicata materia<br />
ci arriva in questi giorni dal Presidente della Repubblica.<br />
“E’ un'assurdità e una follia che dei bambini nati in Italia non diventino<br />
italiani”- ha dichiarato. “Non viene riconosciuto loro un diritto fondamentale”.<br />
Purtroppo, è ancora la politica a gettare legna sul<br />
fuoco, anziché mediare. L’onorevole Calderoli avverte che “la<br />
Immigrazione<br />
In democrazia<br />
la politica ha<br />
il compito<br />
di raccogliere<br />
le istanze sociali<br />
e trasformarle<br />
in proposte.<br />
Lega è pronta a fare le barricate in Parlamento e nelle piazze''; l’ex<br />
sottosegretario Giovanardi lamenta che “il Presidente Napolitano<br />
avrebbe fatto bene a stare zitto”, e l’ex ministro La Russa sostiene<br />
che “faremmo partorire qui le donne di tutta l’Africa, se bastasse nascere<br />
in Italia per avere la cittadinanza”.<br />
Forse ha ragione l'Alto Commissario delle Nazioni Unite per<br />
i Rifugiati, Antonio Guterres, quando afferma che “politici populisti<br />
ed esponenti irresponsabili dei media sfruttano timore e insicurezza<br />
per additare gli stranieri come capro espiatorio, per cercare di<br />
imporre l'adozione di politiche restrittive e per diffondere sentimenti razzisti<br />
e xenofobi”.<br />
Intanto, un campo rom piemontese viene<br />
dato alle fiamme perché, mentendo, una giovane<br />
torinese ha accusato due zingari di averla<br />
stuprata.<br />
Forse il nuovo governo, che della politica ha<br />
preso il posto per risolvere la nostra crisi economica,<br />
potrà fare qualcosa in materia di immigrazione.<br />
Il Ministro Riccardi commenta<br />
positivamente le parole del Presidente Napolitano<br />
e sottolinea che “l’Italia ha bisogno di una<br />
visione strategica, di cui l'integrazione degli immigrati<br />
è un capitolo importante”. Si affretta però ad aggiungere:<br />
“Non credo che sarà il Governo Monti a<br />
fare una legge sulla cittadinanza”.<br />
Ma, signor Ministro, se non ora, quando? E il Presidente Napolitano,<br />
il Governo Monti e Lei che cosa ci darete: una maggiore<br />
(s)fiducia nella politica?<br />
1Carmine Di Sante, Lo straniero nella Bibbia. Saggio sull’ospitalità,<br />
Città Aperta Edizioni, 2002, p.11.<br />
2Claude Lévi-Strauss, Antropologia strutturale 2, Il Saggiatore, Milano<br />
1990, pp. 371-372.<br />
3Jean Danielou, Pour un théologie de l’hospitalité, in VS 85 (1951),<br />
p.340.
22<br />
Riflessioni<br />
sul Trattato di Lisbona<br />
L’attuale crisi internazionale rappresenta, con tutta evidenza,<br />
una cartina di tornasole delle debolezze europee,<br />
occidentali in generale, nell’affrontare le<br />
difficoltà che sono sotto gli occhi di tutti. La crisi, generata<br />
dai ‘miti’ - rivelatisi estremamente negativi - di un mercato<br />
in grado di auto-riformarsi e di una finanza fondata su processi<br />
e su strumenti completamente distaccati dall’economia<br />
reale, ha colto di sorpresa l’occidente, pur avendo origini<br />
chiare negli Stati Uniti.<br />
Gli Stati Uniti e l’Europa stanno reagendo con grande lentezza<br />
alla crisi, in termini di comprensione del fenomeno e<br />
dell’adozione di strumenti per l’aggiustamento delle finanze<br />
pubbliche e per la crescita e lo sviluppo. Ciò, a ben guardare,<br />
rischia di incrementare il fossato fra l’occidente e il<br />
resto del mondo, lasciando la nostra parte del mondo in<br />
balìa del mare periglioso di una globalizzazione non governata<br />
politicamente, nel cambiamento radicale degli equilibri<br />
di forza globali. La tappa del trattato di Lisbona ha certamente<br />
rappresentato uno spartiacque fra la ‘vecchia’ Europa<br />
ed un approccio adatto, si dice, a reggere la globalizzazione,<br />
i processi del cambiamento globale che hanno cambiato e<br />
stanno cambiando profondamente il mondo.<br />
È veramente così ?<br />
Queste mie riflessioni ‘critiche’ partono dall’attualità e, in<br />
particolare, da due elementi:<br />
- l’affermarsi sulla scena del mondo di nuovi player globali;<br />
- le difficoltà del “sistema Europa”.<br />
L’Europa, a ben guardare, sembra aver smarrito la ‘passione’<br />
degli inizi, di quando i ‘fondatori’ diedero il via al<br />
grande progetto europeo per un mondo di pace. Se è vero,<br />
come è vero, che l’Europa ha rappresentato una concreta<br />
speranza per la pace (pur avendo avuto al suo interno pericolosi<br />
focolai di violenza e di conflitto, come i Balcani, non<br />
Vincenzo Scotti - Presidente <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />
europa link journal 1/<strong>2012</strong><br />
ancora del tutto spenti) essa sta mostrando limiti evidenti<br />
che, sempre più, vengono sottolineati dal fatto che l’Europa<br />
fatica ad affermarsi come ‘soggetto globale’ apparendo<br />
come la sommatoria di sovranità statuali e non invece come<br />
una realtà davvero federale in grado di esprimere la propria<br />
voce e di contribuire a decidere - a livello globale - negli ambiti<br />
politici, diplomatici, economici, finanziari.<br />
L’Europa appare piuttosto come un ‘problema’ agli occhi<br />
di un mondo che non aspetta le nostre lentezze ma che, al<br />
contrario, cavalca la crisi con decisione e con tassi di crescita<br />
che, pur nelle difficoltà, sono decisamente importanti.<br />
L’Europa resta appesa al suo passato, incapace di decidere<br />
e prigioniera del suo stesso allargamento, di fatto ingovernabile.<br />
L’Europa, per scelta strategica, ha cercato negli ultimi<br />
decenni un allargamento a nord e ad est ma, con<br />
grande miopia, ha trascurato il Mediterraneo, lasciando per<br />
troppo tempo il mare nostrum in balìa di regimi oppressivi<br />
con i quali non si sono fatti i conti politicamente e che, alla<br />
prova della storia, hanno mostrato le loro contraddizioni<br />
sotto la forte richiesta di giustizia e di libertà da parte delle<br />
popolazioni, mietendo violenze e provocando vittime come<br />
si vede ancora oggi nella evoluzione di ‘situazioni paese’<br />
particolarmente delicate.<br />
Prima il partenariato euro-mediterraneo siglato a Barcellona<br />
e poi l’Unione per il Mediterraneo non sono stati in grado<br />
di configurare il senso strategico di un rapporto necessario<br />
fra Europa e Mediterraneo.<br />
Un elemento secondo me fondamentale per costruire una<br />
solida ed efficace partnership euro-mediterranea è quello<br />
della formazione: la nostra Università, insieme ad EMUNI<br />
(l’Università euro-mediterranea), ha colto tale sfida e, da<br />
tempo, lavora per costruire un network di alto livello fra Atenei;<br />
ciò non solo dal punto di vista dell’offerta formativa e
europa<br />
link journal 1/<strong>2012</strong> 23<br />
dello scambio di studenti e docenti ma, soprattutto,<br />
come occasione e possibilità di incontro, di confronto e<br />
di dialogo fra differenti tradizioni culturali e religiose.<br />
Tale lavoro, altresì, diventa importante per permettere<br />
uno sviluppo equilibrato dell’area euro-mediterranea, offrendo<br />
possibilità di sviluppo e di occupazione soprattutto<br />
per le giovani generazioni che, legittimamente,<br />
chiedono concrete speranze di futuro. Intorno alla costruzione<br />
euro-mediterranea che, lo ricordo, è la chiave<br />
di volta per la pace globale, si fa molta retorica anziché<br />
allargare lo sguardo ed assumere decisioni politiche; si<br />
pensi alla Turchia, gigantesco ponte fra Oriente e Occidente<br />
e Paese centrale in molte realtà del mondo arabo,<br />
che sta mettendo in discussione l’ “elefante” europeo fin<br />
dal suo significato strategico; quale Europa dobbiamo<br />
pensare e realizzare nel cambiamento globale ?<br />
Oltre alla ‘mission’ euro-mediterranea, l’Europa sta perdendo<br />
terreno nei confronti di aree del mondo fortemente<br />
proiettate in avanti e portatrici di grandi<br />
potenzialità non solo economiche e finanziarie ma anche<br />
culturali e politiche. Penso in particolare al continente<br />
latino-americano che, dopo un periodo storico particolarmente<br />
difficile, è ormai emerso nella sua realtà complessiva<br />
e nelle realtà di paesi che, come il Brasile, sono<br />
all’avanguardia globale per sviluppo e per lotta alla povertà<br />
(e non solo). Paradossi della storia:<br />
alcune analisi ci dicono che, in termini<br />
d’integrazione continentale, l’America<br />
Latina guarda al modello europeo ma con<br />
una diversa spinta propulsiva, con la voglia<br />
di superare una crisi certamente globale,<br />
costruendo – non senza problemi –<br />
le condizioni per vivere il mondo che<br />
verrà nel presente planetario.<br />
L’Europa, invece, sembra gongolarsi su<br />
ciò che è stata, inevitabilmente perdendo<br />
smalto e posizioni nella competizione globale<br />
e nel veloce cambiamento dei rapporti<br />
di forza planetari. Evito, per sintesi<br />
necessaria, di guardare alle altre parti del<br />
mondo in forte crescita ma, ancora una<br />
volta, sottolineo l’importanza strategica di<br />
Mediterraneo e America Latina, nostri<br />
ambiti di interesse particolare come Università.<br />
Per concludere torno all’Europa<br />
e, con realismo, sottolineo alcune carenze<br />
che investono il “vecchio” (in tutti i sensi)<br />
continente. L’Europa non riesce a decidere; il metodo<br />
di governance intergovernativo mostra tutti i limiti di<br />
una ‘costruzione’ che non ha anima politica e che vive<br />
prigioniera dei rapporti di forza dei diversi paesi.<br />
Le Istituzioni europee sono in un rapporto sbilanciato<br />
fra di loro; quale è, infatti, l’incidenza effettiva del Parlamento<br />
europeo che, in quanto organo eletto, dovrebbe<br />
rappresentare le istanze dei popoli europei. L’euro è una<br />
moneta unica che non è accompagnata da un sistema<br />
europeo organizzato in un fisco comune, in politiche<br />
economiche ed industriali comuni, da una Banca Centrale<br />
che agisca come prestatore di ultima istanza.<br />
Non sono un euro-scettico, tutt’altro, e credo che i ‘rigurgiti’<br />
nazionalistici esprimano posizioni anti-storiche;<br />
mentre guardo con attenzione alle motivazioni di quanti<br />
chiedono condizioni di vita ‘degne’, pur considerando<br />
la “piazza” spesse volte una cattiva consigliera, credo che<br />
nel mondo ci sia bisogno di più Europa, ma di un’Europa<br />
diversa, politica, attenta alle dinamiche planetarie.<br />
Di un’Europa che ricominci a “sognare”, che esca dalle<br />
secche burocratiche nelle quali si trova, per determinare<br />
essa stessa cambiamento anziché, come accade in questi<br />
mesi, subendolo.
24 europa link journal 1/<strong>2012</strong><br />
La grande sbornia europea è passata e dopo dieci anni<br />
di convivenza con la moneta unica, da qualche mese<br />
stiamo assistendo al suo lato ‘oscuro’, il rovescio della<br />
medaglia, quello che non avevamo ancora capito, o più realisticamente<br />
quello che sarebbe un giorno inevitabilmente accaduto.<br />
Sono sempre stato un europeista convinto sin dalla<br />
prima ora, uno di quelli che ha sempre creduto come il grande<br />
progetto d’integrazione fosse l’unica via percorribile, però<br />
devo dire con la stessa sincerità che sono estremamente deluso<br />
per come poi sono andate le cose.<br />
Perché, vedete, la moneta unica è da considerarsi in ogni<br />
caso un’idea meravigliosa, geniale, coraggiosa, ma che è stata<br />
gestita nel peggiore dei modi possibile nella sua costruzione<br />
e nella sua conduzione, per non parlare poi di come noi italiani<br />
vi abbiamo aderito.<br />
Peggio di così non sarebbe stato possibile! Ormai si può apertamente<br />
dire: al momento dell’adesione al Trattato di Maastricht<br />
abbiamo accettato tutte le imposizioni<br />
franco-tedesche, ed in particolare sottolineo le tedesche, in<br />
modo supino, senza possibilità di negoziazione, legando il nostro<br />
Paese mani e piedi a regole ed a meccanismi rivelatesi capestro.<br />
Ci siamo completamente affidati al modello<br />
economico tedesco, teso esclusivamente al contenimento<br />
dell’inflazione ed all’espansione della base monetaria, senza<br />
tenere assolutamente conto delle esigenze insite del nostro<br />
sistema paese. Il Trattato di Maastricht è la certificazione di<br />
tutto questo.<br />
L’euro allo stato dei fatti è risultato essere più uno strumento<br />
di laboratorio, concepito in qualche stanza della Bundesbank,<br />
una sorta di prodotto transgenico, geneticamente modificato,<br />
ideale per fungere da volano a pure operazioni finanziarie e<br />
favorire aggregazioni societarie, che come mezzo a supporto<br />
dell’economia reale ed alle effettive esigenze di 330 milioni di<br />
cittadini europei. Ci siamo anche accorti troppo tardi che la<br />
moneta unica doveva essere il complemento finale ad una effettiva<br />
integrazione e non il mezzo per poterla raggiungere.<br />
Un po’ come quando si mette la ciliegina sulla torta, si mette<br />
sempre alla fine. A più di vent’anni dal progetto di aggregazione<br />
monetaria ancora non c’e nulla di integrato in quest’Europa.<br />
Sistemi fiscali, amministrativi, giudiziari e soprattutto politici<br />
ancora troppo distanti, legati solamente da una moneta che<br />
chiamiamo Euro, ma che in effetti è il marco a tutti gli effetti<br />
e governato come se lo fosse. L’impianto del Trattato di Maa-<br />
Antonio Maria Rinaldi, <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />
Europa<br />
a rischio<br />
cortocircuito<br />
L’impianto del Trattato di Maastricht,<br />
ed in particolare i primi due articoli,<br />
‘condannano’ le economie dei Paesi meno<br />
virtuosi, a rincorrere numeri storicamente<br />
non favorevoli.
link journal 1/<strong>2012</strong> europa<br />
25<br />
stricht, ed in particolare i primi due articoli, ‘condannano’<br />
le economie dei Paesi meno virtuosi, ed<br />
in primis il nostro, a rincorrere numeri storicamente<br />
non favorevoli. Tutta l’architettura per la<br />
nascita della nuova moneta e per il suo mantenimento<br />
si basa solo ed unicamente sui parametri<br />
che scaturiscono da due valori: il debito pubblico<br />
ed il Pil.<br />
Ormai da molto tempo il Pil non è più considerato<br />
un indicatore corretto per determinare la capacità,<br />
la forza di una nazione e le Università di<br />
mezzo mondo si sono cimentate in studi per definire<br />
un indicatore più realistico che tenga conto<br />
di elementi più vicini alla situazione economica di<br />
un Paese. Per il debito pubblico il discorso è<br />
molto più complesso. Per prima cosa, la parola<br />
debito per Maastricht e successivo Patto di Stabilità<br />
e Crescita, significa solo ed esclusivamente la<br />
somma dei deficit pubblici accumulati, ma non la<br />
situazione debitoria aggregata e reale di ciascun<br />
Paese. Cosa vuol dire? Vuol dire semplicemente<br />
che per i tecnici di Maastricht una nazione come<br />
l’Olanda è da considerare un Paese fra i più virtuosi,<br />
visto che il famoso rapporto debito pub-<br />
blico/Pil è molto vicino al 60%, per l’esattezza al<br />
63%, ma se aggiungiamo anche il debito detenuto<br />
dalle imprese pari al 96% del Pil e a quello delle<br />
famiglie pari al 74%, questo rapporto aggregato<br />
sale ad un più realistico 233%! Continuando in<br />
questo esercizio di riclassificazione, ci accorgiamo<br />
che l’Irlanda conquista il primo posto assoluto<br />
con un drammatico 316% (96%+133%+87%),<br />
eppure sempre per Maastricht il suo rapporto debito<br />
pubblico/Pil pari al 96%, nudo e crudo, non<br />
preoccupa più di tanto come invece quello italiano<br />
o greco. Ed ancora la Germania sfora il<br />
190%, sommando 83% + 47% + 60%, l’Italia arriverebbe<br />
al 221% con 118,6%+71%+32%, scendendo,<br />
dal secondo posto attuale, al settimo. La<br />
Francia al 184% sommando 82% + 52% + 50%.<br />
(Dati elaborati da Standard & Poor’s).<br />
Però il problema unico per Maastricht risiede solo<br />
ed unicamente nell’entità dei debiti pubblici, come<br />
se i debiti detenuti dalle imprese e dalle famiglie<br />
non fossero un altrettanto enorme problema,<br />
visto che gravano essenzialmente sul sistema bancario,<br />
il quale abbiamo visto poi essere sempre assistito<br />
prontamente con rapidi e generosissimi, e<br />
a volte silenziosi, aiuti statali. I tecnici di Bruxelles-Francoforte<br />
non ci hanno pensato a questa<br />
più ovvia, equa e realistica visione o ha fatto comodo<br />
a qualcuno questa dimenticanza? Ma soprattutto<br />
è possibile che nessuno dei nostri tanti<br />
rappresentati-negoziatori, che si sono avvicendati<br />
ai tavoli delle trattative, si sia mai rovinato i pugni<br />
sul tavolo per farlo presente agli altri ‘distratti’<br />
partners? L’attuale Patto di Stabilità e Crescita è<br />
rispettato solamente dal Lussemburgo, Finlandia<br />
e dalla new entry Estonia, e dai paesi ancora non<br />
euro dotati come Danimarca e Svezia, che mi risultano<br />
non essere mai stati troppo euroforici.<br />
E’ sulle caratteristiche di questi Paesi che abbiamo<br />
costruito l’intera unità monetaria? Altro elemento<br />
incomprensibile del Trattato stesso risiede nel<br />
fatto che ognuno deve gestire in proprio il debito<br />
pubblico, ma con politiche monetarie dettate<br />
esclusivamente e solo dalla B.C.E. Ora visto che<br />
il Trattato individua (secondo articolo) nel 60% il<br />
Maastricht<br />
Il Pil non è<br />
più considerato<br />
un indicatore<br />
corretto<br />
per determinare<br />
la capacità,<br />
la forza<br />
di una nazione
26 europa link journal 1/<strong>2012</strong><br />
limite massimo tollerabile del rapporto debito<br />
pubblico/Pil, sarebbe stato più logico,<br />
più credibile, che i titoli rappresentativi il<br />
debito pubblico di ciascuna nazione, fino<br />
al concorso per l’appunto del 60% in relazione<br />
al proprio Pil, fossero stati solidali,<br />
cioè garantiti da tutti i Paesi membri. Una<br />
sorta di Eurobond iniziale, titoli con il bollino<br />
blu di garanzia europea, uno zoccolo<br />
comune di debito pubblico, mentre l’eccedenza<br />
del 60% di ciascun Stato, sarebbe<br />
stato gestito autonomamente con precise<br />
e rigide regole. Certo da questa decisione<br />
ne avrebbero tutti tratto un vantaggio in<br />
termini di tassi più bassi, tranne naturalmente<br />
Germania e forse i virtuosi Lussemburgo,<br />
Finlandia ed ora Estonia,<br />
ritrovandosi a garantire in solido un monte<br />
titoli a tassi medi sicuramente più alti dei<br />
propri. Sarebbe stato un messaggio fortissimo<br />
al mondo e ai mercati finanziari sulla<br />
solidità e credibilità del progetto europeo.<br />
E non ognuno per sé e Dio per tutti come<br />
ora avviene, anche perché il risultato di<br />
questa mancata realizzazione è la creazione<br />
tardiva di strumenti come i vari<br />
Fondi Salva Stati, i cui esiti e costi sono ora<br />
molto più onerosi e incerti rispetto all’ipotesi<br />
sopra esposta. E poi che significato<br />
hanno questi Fondi Salva Stati? Infatti<br />
questi strumenti sono alimentati quota<br />
parte da tutti, Italia compresa, con la liquidità<br />
proveniente da emissioni di titoli pubblici.<br />
Praticamente si contraggono ulteriori debiti<br />
aumentando ancora di più le entità dei<br />
debiti pubblici per finanziare un fondo per<br />
comprare i titoli pubblici di Paesi in difficoltà.<br />
Un cortocircuito, una catena di<br />
S.Antonio in cui si fanno debiti per comprare<br />
altri debiti, drenando ulteriore liquidità,<br />
linfa vitale a supporto del sistema<br />
creditizio di Eurolandia. Ma chi le pensa<br />
queste cose? Non farebbero prima a stampare<br />
cartamoneta? Perché il problema è<br />
proprio questo. La Banca Centrale Europea<br />
è l’unica Banca Centrale al mondo a<br />
non avere il ruolo di prestatore di ultima<br />
istanza, cioè non contempla nei suoi regolamenti<br />
la possibilità di essere l’ultimo soggetto<br />
disposto, in caso di necessità di<br />
finanziamento di uno Stato, a mettere<br />
mano al portafoglio, creando per l’appunto<br />
cartamoneta. Lo erano tutte le Banche<br />
Centrali Nazionali dei Paesi pre-euro,<br />
Banca d’Italia compresa, e non si capisce<br />
come la fobia tedesca sulle paure inflattive<br />
e sul contenimento della base monetaria<br />
abbia avuto la meglio. Ma ci siamo mai<br />
chiesti perché è avvenuto tutto questo?<br />
Tutto è scaturito da una intesa, da un ‘baratto’<br />
fra la Francia di Mitterand e la Germania<br />
di Kohl dopo la caduta del Muro di<br />
Berlino. La Francia disponibile al nullaosta<br />
per la riunificazione in cambio di una forte<br />
integrazione economica anche monetaria.<br />
Il marco stava alla Germania come la<br />
bomba atomica nell’armamento militare<br />
francese.<br />
Questa è la ragione perché è sempre esistito<br />
un direttorio di fatto franco-tedesco<br />
sulla conduzione delle problematiche relative<br />
alla moneta unica, che ha sovrastato<br />
in ogni occasione le condivise istituzioni<br />
europee preposte, lasciando spazi decisionali<br />
sempre più ridotti, se non nulli, agli<br />
altri Paesi. Speranze per il futuro? Solo se<br />
si riuscirà finalmente a ‘piegare’ le arroganze<br />
teutoniche e riscrivere le regole per<br />
il mantenimento della moneta unica, unitamente<br />
alla ridefinizione dei compiti e<br />
delle mansioni della Banca Centrale con<br />
parametri più vicini alla realtà delle economie<br />
di tutti i Paesi, l’eurozona riconquisterà<br />
il grande ruolo che ci era stato<br />
promesso ed a cui abbiamo sempre fortemente<br />
creduto.<br />
In alternativa i Paesi ‘periferici’, con l’Italia<br />
in testa, continueranno a rincorrere sempre<br />
con più ampia difficoltà i dettami di<br />
Maastricht, ‘sparametrando’ eternamente<br />
gli unici numeri che oggi formalmente legano<br />
l’Europa.
link journal 1/<strong>2012</strong><br />
Crisi finanziaria e debiti sovrani<br />
Rivedere le regole<br />
e i sistemi di vigilanza<br />
La Grande Crisi Finanziaria avviatasi nel 2007, trasformatasi<br />
in crisi degli emittenti sovrani nel corso dell’ultimo<br />
biennio, si è contraddistinta rispetto alle<br />
numerose crisi economiche, finanziarie e valutarie del passato<br />
sotto diversi profili. Da un lato, la forte integrazione a livello<br />
globale dei sistemi finanziari ha dimostrato che oggigiorno<br />
nessun Paese e nessun segmento del sistema finanziario può<br />
essere considerato immune rispetto ad eventi che si ingenerano<br />
in contesti molto remoti, apparentemente poco rilevanti.<br />
La portata sistemica delle interrelazioni tra intermediari, mercati<br />
e strumenti di diversi Paesi è andata ben oltre le aspettative<br />
di qualsiasi modello teorico o scenario elaborato dalle<br />
Autorità di vigilanza.<br />
In secondo luogo, la crisi, proprio per la sua portata globale<br />
e sistemica, ha imposto interventi molto significativi, sia in<br />
termini di onerosità delle politiche e degli strumenti utilizzati,<br />
sia per quanto attiene all’originalità di talune scelte di policy.<br />
Vi è unanimità di vedute circa il fatto che le risposte monetarie<br />
e fiscali alla crisi determineranno effetti di lungo periodo, difficili<br />
da prevedere appieno. In tale contesto, appare opportuno<br />
delineare sinteticamente quali possano essere le più significative<br />
linee di azione per scongiurare il verificarsi di episodi simili<br />
in futuro. Per facilitare la trattazione, suddividiamo le<br />
criticità strutturali, riscontrabili in precedenza ed a prescindere<br />
dall’attuale crisi, dalle problematiche contingenti, che potrebbero<br />
acuire le difficoltà in cui versano attualmente i sistemi<br />
economici e finanziari.<br />
Con riguardo ai profili strutturali, appare opportuno stigmatizzare<br />
gli squilibri strutturali di lungo periodo che hanno caratterizzato<br />
alcune economie negli ultimi anni. Si fa<br />
riferimento, in primo luogo agli Stati Uniti, laddove i disequilibri<br />
della bilancia dei pagamenti e l’elevata propensione all’indebitamento<br />
delle famiglie, a prescindere dalla capacità di<br />
credito e di rimborso, sono stati oltremodo tollerati, se non<br />
incentivati, dalla Federal reserve e dai policy makers. Un maggior<br />
rigore ed una maggiore aderenza delle politiche monetarie<br />
ai “fondamentali” dell’economia, non soltanto negli USA,<br />
europa<br />
Gianfranco A. Vento e Gisela C. Vecchio, <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />
appaiono d’uopo se si vogliono evitare ulteriori crisi dai costi<br />
sociali e privati imprevedibili. Per altro aspetto, nel contesto<br />
europeo le recenti spirali ribassiste innescate dagli squilibri<br />
delle finanze pubbliche prima in Grecia, e poi nei Paesi dell’europa<br />
meridionale, impongono una riflessione attenta sulla<br />
necessità di tornare a dare impulso ad un disegno di un governo<br />
europeo dell’economia. Tale ambizioso progetto, rimasto<br />
incompiuto all’indomani della realizzazione dell’Unione<br />
economica e monetaria, risulta quanto mai attuale e cogente<br />
non soltanto in una prospettiva “difensiva”, nella misura in<br />
cui favorirebbe la realizzazione di politiche fiscali coerenti e<br />
consistenti a livello europeo, ma anche perché, ad avviso di<br />
molti, fornirebbe una percezione di maggiore “solidità” all’area<br />
dell’euro, favorendo l’afflusso di investimenti verso la<br />
stessa area e sostenendo la diffusione internazionale delle attività<br />
finanziarie denominate nella moneta unica. Infine, la<br />
realizzazione di un sistema finanziario maggiormente resiliente<br />
non può prescindere da una revisione delle regole e<br />
delle prassi di vigilanza. In tale ambito, a fianco di un insieme<br />
di nuove regole tese a ridurre la probabilità di insolvenza di<br />
un singolo intermediario, si sta facendo largo una visione macroprudenziale<br />
della vigilanza, finora trascurata, in base alla<br />
quale le autorità devono monitorare e prevenire anche gli effetti<br />
sistemici, nella consapevolezza che le crisi di singoli intermediari<br />
rappresentano eventi fisiologici nel sistema<br />
finanziario. Tuttavia, le regole da sole non garantiscono la stabilità<br />
del sistema finanziario; è necessario che esse siano applicate<br />
in maniera coerente e trasparente a livello globale. Al<br />
riguardo, a fianco delle numerosissime ipotesi di riforme attualmente<br />
dibattute, si ritiene che un impegno di maggiore disclosure<br />
da parte di tutte le autorità di vigilanza circa le<br />
politiche e le logiche sottostanti il proprio operato possa ingenerare<br />
una positiva social pressure, analogamente a quanto<br />
avviene per gli intermediari finanziari oggi sottoposti alla disciplina<br />
di mercato.Con riferimento alle criticità contingenti<br />
ed al loro potenziale impatto sulla stabilità del sistema finanziario<br />
negli anni a venire, è evidente come politiche monetarie<br />
e fiscali largamente espansive, quali quelle sopra accennate,<br />
ingenerano effetti distorsivi sull’economia, ad esempio alterando<br />
le decisioni di investimento, favorendo l’assunzione di<br />
maggiori rischi e determinando ingenti movimenti di capitale.<br />
Appare, quindi, opportuno un maggiore sforzo nel rafforzamento<br />
della cooperazione internazionale con i Paesi “emergenti”,<br />
nel coordinamento delle politiche economiche e nella<br />
condivisione delle regole e delle pratiche di vigilanza, nella<br />
consapevolezza che nell’eventualità di una nuova crisi, nessun<br />
soggetto economico può considerarsi immune.<br />
27
28<br />
“... dimostraste che la Patria non era morta. Anzi, con la vostra decisione,<br />
ne riaffermaste l’esistenza. Su queste fondamenta risorse l’Italia!<br />
I combattenti dell’isola dimenticata<br />
L’importanza della memoria<br />
come radice dell’identità europea<br />
Lo scorso 17 <strong>marzo</strong> il Presidente della Repubblica,<br />
Giorgio Napolitano, parlando davanti alle Camere riunite<br />
ha aperto la solenne celebrazione per i 150 anni<br />
dell’Unità d’Italia, ripercorrendo brevemente la storia della<br />
nostra giovane democrazia. Si è soffermato sul Risorgimento,<br />
ma anche sul periodo della seconda guerra mondiale e della<br />
Resistenza, indicandola come momento fondante sia della<br />
nuova Repubblica Italiana, che del percorso che nel giro di<br />
pochi anni avrebbe portato alla creazione della Comunità Europea.<br />
Nel 1944 venne fondato clandestinamente a Milano il<br />
Movimento federalista europeo, che sotto la spinta di Altiero<br />
Spinelli strinse contatti con gruppi di resistenti in varie nazioni<br />
d’Europa occupate dai nazisti, e iniziò la formazione politica<br />
di personaggi come Alcide De Gasperi, Konrad Adenauer e<br />
Robert Schuman. Questi ultimi, tutti cattolici, oppositori del<br />
totalitarismo e convinti europeisti, nel secondo dopoguerra si<br />
fecero promotori della creazione di una nuova Europa che<br />
fosse in grado di superare le fratture e gli odi di un conflitto<br />
Andrea Villa, <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />
europa link journal 1/<strong>2012</strong><br />
che l’aveva prostrata. Nonostante la centralità di tale periodo<br />
per la storia contemporanea va purtroppo evidenziata la persistenza<br />
di lacune e dimenticanze nella memoria collettiva e<br />
nella ricerca storiografica. In particolare a lungo è stato dimenticato<br />
il contributo di tanti militari italiani che, mantenendo<br />
fede al giuramento prestato, rifiutarono di arrendersi<br />
ai nazisti e morirono combattendo, non soltanto in Italia ma<br />
anche nei Balcani, in Corsica, nelle isole dell’Egeo e in altre<br />
località lontane presidiate dalle nostre truppe.<br />
Nel 2001 l’allora Capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi, si<br />
recò a Cefalonia per rendere omaggio alla Divisione Acqui e<br />
ne celebrò il sacrificio con queste parole: «dimostraste che la Patria<br />
non era morta. Anzi, con la vostra decisione, ne riaffermaste l’esistenza.<br />
Su queste fondamenta risorse l’Italia».<br />
Eppure diverse pagine di questa storia sono finite nel dimenticatoio<br />
e rimangono pressoché sconosciute ai più, a cominciare<br />
dalle vicende del presidio italiano sull’isola di Lero dove<br />
si verificò uno dei primi episodi di resistenza militare ai tedeschi<br />
e dove, per la prima volta, le truppe italiane e britanniche<br />
iniziarono a collaborare.<br />
Lero, isola dalle alte coste frastagliate che si trova di fronte<br />
alla Turchia, apparteneva all’Italia dal tempo della guerra italoturca<br />
del 1912 ed era stata annessa direttamente al Regno.<br />
Sfruttandone le insenature, simili a laghi circondati da alture,<br />
Mussolini aveva deciso di stabilirvi la più importante base aeronavale<br />
del Mediterraneo Orientale.<br />
Nella baia di Lakki, sulla costa occidentale, vennero create ex<br />
novo istallazioni in grado di ospitare idrovolanti e sommergibili<br />
e una città dotata di palazzine, torri civiche, un teatro e un palazzetto<br />
dello sport progettati dagli architetti Petracco e Bernabiti,<br />
secondo i canoni del Razionalismo. Nell’estate 1943 la<br />
base era presidiata da circa ottomila soldati italiani, tra ma
europa<br />
link journal 1/<strong>2012</strong> 29<br />
rinai, fanti e avieri. Dopo l’Armistizio dell’8 settembre e la<br />
capitolazione di Rodi e Kos, Lero, per la sua importanza strategica,<br />
divenne l’obiettivo primario dei tedeschi e degli inglesi:<br />
questi ultimi il 12 settembre vi sbarcarono in fretta e furia un<br />
contingente di un migliaio di uomini.<br />
Dal 26 i cacciabombardieri della Luftwaffe iniziarono cicli<br />
quotidiani di attacchi per colpire le postazioni di artiglieria sui<br />
monti, le batterie costiere ma anche i porti e le città, provocando<br />
ovunque distruzioni e morte. Dopo un mese di bombardamenti<br />
aerei i villaggi, le caserme, i campi, le colline erano<br />
sconvolti dalle esplosioni, la terra era disseminata di crateri e<br />
i difensori erano stremati. Il 12 novembre scattò l’attacco decisivo<br />
che ebbe culmine nello sbarco di un convoglio navale<br />
tedesco proveniente da Kos.<br />
Nel pomeriggio dello stesso giorno alcuni aerei da trasporto<br />
Ju52 sganciarono da bassa quota 500 paracadutisti, la metà<br />
dei quali perì ancor prima di toccare terra. Un secondo lancio<br />
consentì ai tedeschi di occupare il centro dell’isola, tagliando<br />
in due il sistema difensivo approntato da italiani e inglesi, i cui<br />
ufficiali peraltro faticavano a comprendersi e a collaborare. Si<br />
scatenarono scontri isolati che videro numerosi episodi di<br />
eroismo, testimoniati dall’impressionante numero di riconoscimenti<br />
concessi ai difensori: sette Ori al V.M., sessantacinque<br />
Argenti e numerose medaglie di bronzo. Gli italiani<br />
ebbero trecento caduti; dodici ufficiali furono fucilati dai tedeschi<br />
dopo la resa, per rappresaglia; gli ammiragli Mascherpa<br />
e Campioni vennero consegnati ai fascisti che con un processo<br />
farsa li condannarono a morte nel maggio 1944; mentre<br />
centinaia di prigionieri furono avviati alla deportazione nei<br />
Lager nazisti. L’Università <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> ha avviato una ricerca<br />
negli archivi italiani e inglesi per ricostruire la vicenda,<br />
che ha già offerto singolari risultati: tra tutti, il fatto che le lettere<br />
scritte dai soldati italiani e abbandonate sull’isola sono<br />
state salvate e conservate da cittadini greci che prima della<br />
guerra avevano frequentato le scuole, gestite dalle suore missionarie,<br />
e conosciuto le numerose famiglie di civili italiani che<br />
vivevano nei pressi della base.<br />
Un’altra importante fonte storica è rappresentata dai diari e<br />
dalle foto che numerosi tedeschi hanno di recente consegnato<br />
al piccolo museo di Lero. Si sono così avverate le parole che<br />
nel 1951 l’On. Leonetto Amadei, allora presidente della Corte<br />
Costituzionale, pronunciò incontrando i reduci dell’Egeo:<br />
«I fatti d’arme passano, i valori umani restano e sono questi che dobbiamo<br />
trasmettere ai giovani. Sull’isola era penetrata nell’animo di tutti<br />
noi l’idea forza di un domani di libertà, di progresso, di giustizia, di<br />
pace, in cui il nostro paese fosse amico degli altri, di nessun servo. Chi<br />
meglio di noi può parlare di pace, di collaborazione tra i popoli».
30<br />
Africa<br />
Il millennio urbano<br />
dei popoli africani<br />
Il 39% degli africani vive nelle città e 54 di queste superano il milione di abitanti. Nel 2030 sarà oltre il 50%.<br />
Il Continente africano è, rispetto all’estensione,<br />
un territorio che offre ancora ampi<br />
spazi per futuri insediamenti. I calcoli proiettici<br />
indicano che nel 2050 la popolazione africana<br />
raggiungerà 1miliardo e 850 milioni di<br />
abitanti. Ma quali sono, oggi, le tendenze di mobilità<br />
all’interno delle singole nazioni? I dati rilevano<br />
una costante, e in molti casi forte,<br />
emigrazione che si registra dalle campagne alle<br />
città. Ciò lascia presagire che nel prossimo futuro<br />
l’inurbazione e la crescita della popolazione<br />
andranno di pari passo. L’odierna analisi<br />
rileva che le moderne città africane si sono sviluppate<br />
su preesistenti insediamenti coloniali<br />
generando all’interno dei centri urbani una<br />
commistione di stili, anche architettonici, che<br />
danno vita ad una ‘africanizzazione’ di un tessuto<br />
urbano che in epoca coloniale si è sempre<br />
cercato di evitare. La paura di eventuali rivolte<br />
favoriva una emigrazione stagionale e non la<br />
stanzialità delle persone.<br />
L’attuale fenomeno migratorio verso le città,<br />
non potendo più essere impedito, porta con sé<br />
le tensioni che tutt’ora sussistono tra zone rurali<br />
e zone urbane, provocando, non di rado, fenomeni<br />
di rivolta se non favorendo, in alcuni casi,<br />
veri e propri colpi di Stato. L’urbanizzazione è<br />
un fenomeno irreversibile ma al momento le<br />
strutture sociali, sanitare e amministrative di<br />
gran parte degli Stati non sono in grado di favorire<br />
una integrazione tranquilla e programmata.<br />
Quella che noi nel nostro continente<br />
abbiamo definito ‘la fuga dalle campagne’ racchiude<br />
in se, anche per l’Africa, la motivazione<br />
della migrazione: la povertà. I nuovi cittadini<br />
non sono più pendolari ma sono divenuti stanziali<br />
senza, nella maggior parte dei casi, aver<br />
rotto i legami con la campagna d’origine, con<br />
la quale mantengono un forte legame tradizionale<br />
e di supporto economico. Ciò, però, genera<br />
l’impoverimento umano delle campagne<br />
con la conseguente perdita della forza lavoro.<br />
In molti casi il ricongiungimento dei nuclei familiari<br />
fa il resto. Ma questo inurbamento non<br />
Osservatorio Africa - <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />
internazionale link journal 1/<strong>2012</strong><br />
La maggior parte delle capitali africane<br />
si sviluppa nelle sedi delle vecchie città portuali di<br />
epoca coloniale. Alcuni Paesi hanno iniziato<br />
la costruzione di nuove ‘capitali’ poste al centro<br />
del territorio nazionale: tra queste la Nigeria, la<br />
Tanzania e la Costa d’Avorio.<br />
Attualmente gli stati africani, compreso il Sud<br />
Sudan, sono 54, con una popolazione complessiva<br />
di oltre 980 milioni di abitanti.<br />
è facilitato da un piano urbani-stico razionale<br />
né da una programmazione amministrativa;<br />
molti di questi nuovi immigrati si collocano alla<br />
periferia delle città, dove coltivano micro appezzamenti<br />
per sopperire alla nuova povertà urbana<br />
generando insediamenti privi di qualsiasi struttura<br />
igienicio-sanitaria. Molti scappano dalle<br />
campagne per motivi ambientali e sanitari e alcuni<br />
di questi trasmettono le malattie contratte<br />
altrove, nelle nuove realtà urbane. La nuova urbanizzazione,<br />
quindi, ha due aspetti: il primo<br />
che permette una maggiore qualificazione e<br />
specializzazione, soprattutto tecnologica, a fasce<br />
della popolazione sempre più ampie favorendo<br />
una diversificazione dell’economia. Il secondo,<br />
non potendo tutti seguire la strada della qualificazione<br />
genera una forte disoccupazione urbana<br />
raggiungendo elevati livelli di degrado. L’emarginazione<br />
provoca il fenomeno dell’aggregazione<br />
‘etnica’ o ‘tribale’ e le periferie sono un<br />
mosaico di culture e tradizioni assai diverse. Nonostante<br />
questi aspetti preoccupanti, ma che<br />
rientrano in uno sviluppo economico non programmato,<br />
le città africane sono un continuo laboratorio<br />
in cui, grazie agli investimenti stranieri<br />
e alla realizzazione di infrastrutture, si offrono<br />
opportunità di lavoro crescenti.<br />
Questa crescita, anche per l’innalzamento della<br />
media scolastica, favorisce l’affermazione, seppur<br />
oggi minoritario, di un ceto economico<br />
emergente, definibile ‘ceto medio’, che opera<br />
nel commercio e nei servizi offrendo possibilità<br />
di lavoro ai nuovi arrivati. La prossima sfida sarà<br />
quella di stabilizzare il fenomeno migratorio eliminando<br />
la precarietà e offrendo la possibilità<br />
di integrare le tante forze che attendono di essere<br />
impiegate. L’Unione Europea e l’Unione<br />
Africana collaborano attivamente alla soluzione<br />
dei problemi con investimenti mirati, anche in<br />
infrastrutture, ma, ripetendosi una storia a noi<br />
conosciuta, i problemi potranno essere portati<br />
a soluzione con l’aiuto di tutti gli Stati e, soprattutto,<br />
attraverso lo studio e la ricerca del mondo<br />
accademico e intellettuale europeo...
link journal 1/<strong>2012</strong> internazionale<br />
31<br />
Lo scenario mondiale tra globalizzazione e frantumazione<br />
necessita di una diversa interpretazione della<br />
convivenza nella città europea.<br />
Lo scenario mondiale è contrassegnato da profondi e rapidi<br />
processi di globalizzazione e frantumazione le cui conseguenze<br />
presentano un’incognita sull’assetto futuro dell’umanità.<br />
Siamo spettatori di una crisi epocale dell’economia<br />
mondiale, dell’ecologia mondiale e della politica mondiale<br />
che, unite alla mancanza di una visione completa per prevedere<br />
e progettare scenari di composizione sociale, suscita<br />
preoccupazioni profonde perché non consente di far fronte<br />
a diversi macroproblemi: l’interdipendenza economica globale,<br />
la diffusione delle nuove tecnologie info-telematiche,<br />
le questioni dell’urbanizzazione, quelle del nomadismo e<br />
quindi della città sempre più multietnica e multiculturale.<br />
Tutto ciò ha creato un problema senza precedenti: un universo<br />
globalmente costituito dal convergere di popoli, religioni,<br />
culture diversissime e uno spazio globale governato<br />
sempre dalle stesse leggi economiche, dagli stessi meccanismi<br />
e dagli stessi ritmi.<br />
Ma a questo spazio globale, come fa osservare Corrado Beguinot<br />
da diversi anni nelle sue approfondite pubblicazioni,<br />
non corrisponde una comunità globale, con le gravi conseguenze<br />
del disagio urbano e dell’insicurezza crescente. La realtà<br />
di oggi fa emergere l’esistenza di un sesto continente<br />
formato da uomini e donne che solcano i mari e gli oceani<br />
lasciando la loro terra in cerca del miglior vivere, in cerca di<br />
un po’ di dignità.<br />
Questo fenomeno è sicuramente la conseguenza di grandi<br />
squilibri a livello mondiale non solo in termini di ricchezza<br />
ma anche di assenza di democrazia e di diritti che la globalizzazione<br />
accelera e, in alcuni casi, esaspera: l’80% della po-<br />
Stefania Lazzari Celli - <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />
Un nuovo<br />
umanesimo<br />
per la futura città<br />
interetnica<br />
polazione del mondo consuma il 20% delle risorse e il restante<br />
20% - da solo - consuma l’80% delle risorse: questa<br />
differenza abissale mette in moto un meccanismo di crisi<br />
profonda delle popolazioni indigenti alla ricerca della sopravvivenza<br />
e della difesa dalla morte per fame e sete generando<br />
un fenomeno migratorio di proporzioni enormi.<br />
Questo mutamento profondo, osserva sempre Beguinot,<br />
porterà come conseguenza al fenomeno del meticciato; fenomeno<br />
che per alcuni rappresenta una risorsa mentre per<br />
altri costituisce un problema: di conflittualità, di disagio urbano,<br />
di forme deteriori della vita associata - tra cui il terrorismo<br />
e l’esasperazione delle differenze o il non rispetto delle<br />
differenze, di immigrazione accolta come emarginazione,<br />
come ghettizzazione.<br />
La città europea è stata sempre una città cosmopolita ma in<br />
passato lo è stata soprattutto nella sua classe dirigente: dai<br />
banchieri, ai produttori, agli scienziati, ai ricercatori. Oggi il<br />
fenomeno non è più questo; è, invece, quello della presenza<br />
di persone che cercano un lavoro, una speranza di vita e che<br />
sono colpiti dalle forme di benessere, spesso fittizio, che i<br />
mezzi di comunicazione di massa trasmettono e trasferiscono<br />
nei loro Paesi.<br />
Un problema terribilmente più complesso di quello del dialogo<br />
tra i popoli che vivono lontani: questa volta si tratta<br />
della convivenza di uomini che sono nello stesso palazzo,<br />
nello stesso quartiere, nella stessa piazza.<br />
I mutamenti sociali conseguenti ai grandi movimenti migratori<br />
dal sud verso il nord del mondo stanno - di fatto - cambiando<br />
le grandi città europee, all’interno delle quali si<br />
trovano a convivere cittadini di differenti etnie, culture e religioni.<br />
E questo pone il problema di come organizzare -<br />
nella città dei diversi - una coesistenza civile nel rispetto delle
32<br />
differenze e nella assoluta difesa delle peculiarità etniche.<br />
Il disagio urbano attuale che noi percepiamo in diverse città<br />
europee costituisce un segnale che dà ragione a quella parte<br />
di intellighenzia che considera il fenomeno dello stare insieme<br />
tra diversi un problema. Va sostenuta,<br />
invece, l’idea del fenomeno<br />
come una risorsa in grado di dare<br />
una prospettiva di sviluppo al vecchio<br />
continente, ma solo nella misura<br />
in cui si riesca a ridisegnare la<br />
città per renderla adeguata a questa<br />
nuova esigenza dello stare assieme<br />
tra diversi.<br />
Il compito affidato agli urbanisti, agli<br />
esperti di pianificazione territoriale,<br />
ai manager della città interetnica, è -<br />
allora - quello di studiare le trasformazioni<br />
non per subirle ma per progettarle<br />
e governarle. Per far questo<br />
occorre prima di tutto partire da un<br />
atteggiamento in cui la trasformazione<br />
deve essere vissuta come progresso,<br />
come qualcosa in cui si vuole<br />
intervenire pensando al futuro.<br />
D’altro canto, dalle origini, il mestiere<br />
di pianificatore è esattamente<br />
quello di pensare al futuro; l’esperto<br />
di pianificazione era un personaggio<br />
che, nel recente passato, cercava di<br />
capire le contraddizioni della società<br />
industriale di allora per risolvere il<br />
tema del rapporto città-campagna e<br />
delle forti migrazioni dalla campagna<br />
verso la città e quindi dei problemi<br />
connessi. La nuova figura professionale<br />
del manager della città interetnica<br />
mostra un parallelismo<br />
incredibile anche se le nostre campagne<br />
non sono più vicino a noi ma<br />
sono lontane, in altre nazioni.<br />
Le nostre città vivono del beneficio<br />
di campagne molto lontane e del<br />
contributo di altre etnie che vi si stabiliscono.<br />
La città che dobbiamo stu-<br />
internazionale<br />
link journal 1/<strong>2012</strong><br />
diare allora è quella che sta tra la città compatta e quella che<br />
forse è ancora campagna perché è lì che vive la popolazione<br />
attiva autoctona e straniera. Se quello è il luogo ignoto perché<br />
non è così indagato, quella è la nuova città che dobbiamo<br />
andare a vedere e nella quale dobbiamo<br />
costruire nuovi spazi pubblici<br />
sulla base della osservazione su<br />
come i nostri giovani e gli atri li<br />
usano. Da qui dovremo fare un confronto<br />
andando ad osservare le città<br />
di provenienza proprio per capire<br />
cosa significa vivere in una città dove<br />
tutti sono di un altro colore e vi sono<br />
condizioni di vita diverse. Se le migrazioni<br />
sono un dato strutturale e<br />
non emergenziale, l’inasprimento<br />
delle politiche di frontiera allungherà<br />
solo i percorsi di arrivo aumentando<br />
i costi umani ma non contribuirà<br />
certamente a fermare le grandi migrazioni.<br />
Ne consegue che il problema<br />
è che se vogliamo governare<br />
il fenomeno e trarne dei vantaggi c’è<br />
una grande battaglia culturale da fare<br />
contro leggi che, specie in Italia, criminalizzano<br />
l’immigrato invece di ritenerlo<br />
una componente necessaria<br />
e indispensabile per la crescita.<br />
Dobbiamo sgombrare il campo dall’ipocrisia<br />
culturale della ratio della sicurezza<br />
ai cittadini che crea più<br />
instabilità negli immigrati e ne impedisce<br />
il radicamento nel Paese; questo<br />
atteggiamento, infatti, è contraddittorio<br />
perché con la criminalizzazione<br />
dell’immigrato si crea una scissura<br />
culturale gravissima che nel tempo<br />
può portare dei problemi sociali seri.<br />
Il riscoprire un nuovo umanesimo<br />
centrato sui valori della città interetnica<br />
è la sfida del cambiamento dei<br />
prossimi anni nel quale coinvolgere<br />
oggi, domani e poi domani i nostri<br />
giovani.
link journal 1/<strong>2012</strong><br />
Aprire i mercati<br />
e rafforzare<br />
la concorrenza<br />
Il concetto di concorrenza fiscale può essere inteso come<br />
quel processo che vede gli Stati competere tra di loro al<br />
fine di attrarre investimenti, forza lavoro, capitali e, in generale,<br />
risorse, in funzione del potenziamento delle loro economie.<br />
È principio comunemente condiviso che la concorrenza fiscale<br />
può determinare, in ogni campo<br />
• un generale miglioramento qualitativo dell'intervento<br />
dello Stato;<br />
• un incremento dell'efficienza nell'erogazione dei<br />
servizi pubblici;<br />
• un livellamento verso il basso della pressione fiscale.<br />
Perché tali obiettivi possano essere raggiunti, tuttavia, la concorrenza<br />
deve essere leale e libera. Non a caso, la stessa Commissione<br />
delle Comunità europee ha riconosciuto una<br />
funzione positiva alla concorrenza fiscale quando essa agisce<br />
a vantaggio dei cittadini ed esercita una pressione al ribasso<br />
sulla spesa pubblica. Il principio di concorrenza ha una diretta<br />
relazione con quello della liberalizzazione del commercio e<br />
del mercato del lavoro. Nella recente manovra Monti (DL n.<br />
201/2011) è stato dato ancor più spazio alla liberalizzazione<br />
in materia di orari degli esercizi commerciali, chiedendo alle<br />
Regioni, in base alle loro competenze, di adeguare le proprie<br />
legislazioni a questo principio. Con l'obiettivo di promuovere<br />
la concorrenza, il suindicato decreto legge prevede interventi<br />
di liberalizzazione in alcuni comparti (esercizi commerciali,<br />
somministrazione di farmaci e trasporti), misure che ampliano<br />
i poteri dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato<br />
(AGCM), interventi di semplificazione delle procedure e per<br />
la riduzione dei tempi di realizzazione delle infrastrutture.<br />
Nel dettaglio, con le liberalizzazioni nei comparti delle farmacie,<br />
degli esercizi commerciali e dei trasporti vengono riavviati<br />
processi di riforma iniziati nella seconda metà dello scorso<br />
decennio; poteri di regolazione e monitoraggio vengono attribuiti<br />
ad Autorità indipendenti (che incorporano le Agenzie<br />
esistenti) nei comparti dell'acqua e dei servizi postali. È un<br />
percorso a cui già le manovre estive avevano dato un impulso<br />
significativo, con interventi relativi ai servizi professionali e<br />
ai servizi pubblici locali. La scelta del Governo di non intervenire<br />
immediatamente sulle questioni che riguardano la regolamentazione<br />
dei rapporti di lavoro e gli ammortizzatori<br />
sociali consentirà di raccogliere le istanze delle parti sociali.<br />
Piergiorgio Valente, <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />
economia e diritto<br />
33<br />
Interventi su queste<br />
materie sono<br />
tuttavia urgenti, in<br />
particolare per rendere<br />
possibile un<br />
accesso al lavoro<br />
da parte dei giovani<br />
più facile e sicuro e<br />
per garantire loro<br />
una non effimera progressione economica. La riforma degli<br />
ammortizzatori va inserita in una visione organica della protezione<br />
sociale ispirata a un principio ampio di sostegno, tanto<br />
per le imprese che per le famiglie. Ciò significa anche integrare<br />
gli strumenti di sostegno per coloro che perdono il lavoro con<br />
politiche attive di riqualificazione e reinserimento professionale.<br />
Dal <strong>2012</strong> è prevista la totale deducibilità dall'Ires e dall'Irpef<br />
dell'IRAP relativa alla quota imponibile delle spese per<br />
il personale dipendente e assimilato, con una riduzione di gettito<br />
stimata in 1,5 miliardi nel <strong>2012</strong>, 1,9 nel 2013 e 2,0 nel<br />
2014. Viene inoltre aumentata di 6.000 euro la deduzione dalla<br />
base imponibile dell'IRAP applicabile dalle imprese per ciascun<br />
lavoratore dipendente donna o di età inferiore a 35 anni<br />
assunto a tempo indeterminato. Tali misure, riducendo il<br />
costo del lavoro, potrebbero avere effetti positivi sulla competitività<br />
delle imprese e sulla partecipazione delle donne e<br />
dei giovani al mercato del lavoro. Anche a livello europeo e<br />
di Istituto bancario centrale tale tematica è sentita. “E' urgente<br />
che i Paesi dell'area euro attuino subito riforme strutturali tese ad aumentare<br />
la competitività, intervenendo in particolare sul mercato del lavoro<br />
e sulle liberalizzazioni”, è l'invito contenuto nel bollettino<br />
mensile della BCE. Sempre secondo quanto pubblicato nel<br />
bollettino, per accompagnare il riequilibrio dei conti pubblici,<br />
il Consiglio direttivo della BCE ha ripetutamente invocato riforme<br />
strutturali audaci e ambiziose.<br />
Procedendo di pari passo, il risanamento di bilancio e le riforme<br />
strutturali rafforzerebbero la fiducia, le prospettive di<br />
crescita e la creazione di nuovi posti di lavoro.<br />
Secondo la BCE, “Occorre dare immediata attuazione a riforme fondamentali<br />
per aiutare i paesi dell'area dell'euro ad accrescere la competitività,<br />
a promuovere la flessibilità delle loro economie e a migliorare il<br />
potenziale di crescita a più lungo termine. Gli esiti della riunione del<br />
Consiglio europeo dell'8-9 dicembre rappresentano un passo importante<br />
in questa direzione”. Sottolinea infine l’Eurotower che “le riforme<br />
del mercato del lavoro si dovrebbero incentrare sulla rimozione delle rigidità<br />
e su una più ampia flessibilità salariale. Quanto ai mercati dei<br />
beni e servizi, gli interventi di riforma dovrebbero vertere sulla piena<br />
apertura dei mercati al fine di rafforzare la concorrenza.”
34<br />
Non solo profitto<br />
Dalle azioni agli stakeholders<br />
La crisi detta nuove regole<br />
del capitalismo alla Jack Welch sembra volgere al<br />
termine: il boss della GE è stato considerato come<br />
L'era<br />
l'incarnazione dell'idea che l'unico obiettivo dell'impresa<br />
dovesse essere la massimizzazione del ritorno dell’investimento<br />
fatto dai propri azionisti. Questa idea ha dominato il<br />
business negli ultimi 25 anni, diffondendosi rapidamente in<br />
tutto il mondo fino a quando la crisi finanziaria non ha colpito.<br />
Lo stesso Welch ha espresso dubbi: “… il valore per gli azionisti<br />
è l'idea più stupida del mondo”, scrisse in un articolo e molti altri<br />
pensatori concordano sull’idea che le imprese non dovrebbero<br />
più concentrarsi solo sulla massimizzazione del valore delle<br />
azioni.<br />
Questa ossessione iniziò nel 1976, quando Jensen e Meckling,<br />
due economisti, pubblicarono un articolo sulla teoria dell'impresa<br />
ed il relativo comportamento manageriale in cui si sosteneva<br />
che l’obiettivo dell’azionista non si discostava molto da<br />
quello del manager professionista. Da allora, gli articoli accademici<br />
più citati hanno spinto per ottenere che i manager si<br />
concentrassero sulla creazione di valore per gli azionisti. Convertiti<br />
a questa fede hanno avuto poco tempo per gli altri stakeholders:<br />
clienti, dipendenti, fornitori, società civile in generale e<br />
così via. Americani e britannici, i più accessi massimizzatori del<br />
valore dell’azione hanno avuto un particolare disprezzo per il<br />
"capitalismo degli stakeholders", praticato nell’Europa continentale.<br />
Oggi si sostiene che il valore per gli azionisti dovrebbe cedere<br />
il passo al cosiddetto capitalismo orientato al cliente caratterizzato<br />
dall’attenzione delle imprese a massimizzare la soddisfazione<br />
dei clienti. Questa idea sta convertendo molti. Persino l’ Unilever,<br />
gigante dei beni di consumo, dichiara di non lavorare per<br />
l'azionista, ma per il consumatore. E’ il cliente a guidare il modello<br />
di business, e con questo si crea, di conseguenza, valore<br />
per gli azionisti. Una indagine svolta in Germania ha rilevato<br />
che la maggior parte delle imprese intervistate prevedono che<br />
seguiranno un approccio più collaborativo con i vari gruppi di<br />
stakeholder, compresi i fornitori e le istituzioni rappresentative<br />
dei lavoratori. Ed il cambiamento non si ferma qui: sono in<br />
tanti che addirittura arrivano ad assumere posizioni molto nette<br />
Giuseppe Perrone, <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />
economia e diritto link journal 1/<strong>2012</strong><br />
mettendo al primo posto fra i portatori di interessi i propri dipendenti.<br />
Possiamo allora dire che il modello ‘valore per l’azionista’ è davvero<br />
finito? Il crollo finanziario ha certamente minato due delle<br />
grandi idee ispirate da Jensen e Meckling: che la remunerazione<br />
dei top manager debba essere strettamente collegata al prezzo<br />
delle azioni delle imprese che gestiscono, e che il private equity,<br />
sostenuto da montagne di debiti, debba spingere i manager a<br />
massimizzarne il valore. Le bolle degli ultimi dieci anni nei mercati<br />
azionari e, più tardi, anche nel mercato delle obbligazioni<br />
societarie e del debito sovrano hanno evidenziato le gravi carenze<br />
di queste idee, o, almeno, del modo in cui esse sono state<br />
attuate.<br />
Il prezzo delle azioni in un dato giorno, manco a dirlo, può essere<br />
un indicatore molto errato nel definire il valore per gli azionisti<br />
nel lungo termine. Eppure la retribuzione dei boss era<br />
legata ai movimenti a breve dei prezzi delle azioni, e ciò li ha<br />
incoraggiati a lavorare per spingere in alto il prezzo delle azioni<br />
nel breve, piuttosto che a massimizzare il valore dell’impresa<br />
nel lungo periodo. Allo stesso modo, le imprese che si sono indebitate<br />
troppo durante la bolla del credito facile, approfittando<br />
di condizioni assurdamente generose, devono oggi fare tagli<br />
che distruggono valore.<br />
Ora si insiste sul fatto che non si vive di trimestre in trimestre.<br />
Un discreto numero di società sembrano mettere molto impegno<br />
sia nella gestione dei loro bilanci, che nel corteggiamento<br />
dei loro clienti. Ma questo non significa necessariamente che il<br />
concetto di valore per gli azionisti è sbagliato e che dovrebbe<br />
essere sostituito dal culto di qualche altra divinità. I due concetti<br />
non si escludono a vicenda, anzi, spesso si rafforzano a vicenda.<br />
Il valore per gli azionisti è uno dei sottoprodotti della particolare<br />
attenzione alla soddisfazione dei clienti ed al buon rapporto<br />
con i dipendenti. Per ironia della sorte gli stessi azionisti che,<br />
insieme con gli hedge fund e molti investitori istituzionali, hanno<br />
idolatrato i profitti a breve termine e gli aumenti di prezzo delle<br />
azioni devono ora influenzare il management ad avere una visione<br />
più a lungo, cambiando la governance delle aziende e selezionando<br />
capi azienda preparati in altro modo.
link journal 1/<strong>2012</strong><br />
economia e diritto<br />
La sostenibilità dei debiti sovrani<br />
e l’affidabilità dei mercati ‘volatili’<br />
Il rischio relativo al debito sovrano influenza il costo di finanziamento<br />
delle banche perché, nel momento in cui si<br />
producono perdite sul debito, aumenta la difficoltà di ottenere<br />
finanziamenti e, dunque, occorre sostenere un costo<br />
maggiore di quello precedente.<br />
Ciò accade di solito attraverso un downgrading del rating. Secondo<br />
David Morgan, responsabile del Putnam Global Financial<br />
Fund, la variazione di valore dei titoli pubblici detenuti<br />
in ampia misura dalle banche spagnole ed italiane, in particolare,<br />
ha già avuto e potrebbe avere ancor di più in futuro un<br />
impatto negativo sui loro bilanci.<br />
Nelle stime condotte da Hsbc le banche europee potrebbero<br />
trovarsi nella necessità di ricapitalizzare<br />
da un minimo di 98<br />
miliardi ad un massimo di 192<br />
miliardi.<br />
Le banche italiane e spagnole,<br />
che sarebbero le più colpite, tenendo<br />
conto delle perdite sul<br />
debito sovrano e delle regole di<br />
Basilea 3, si troverebbero a<br />
dover ricapitalizzare, rispettivamente<br />
le prime tra i 27 i 45,3<br />
miliardi e le seconde tra i 30 e<br />
i 38,5 miliardi di euro. Per Unicredit l’impegno sarebbe compreso<br />
tra i 10 e i 17 miliardi e per Intesa tra i 6 e i 12 miliardi.<br />
La ricapitalizzazione è una scelta risolutiva? La risposta non<br />
può che essere negativa intanto perché rimane insoluto il problema<br />
dell’intreccio tra bilanci pubblici e bilanci bancari. E<br />
poi perché le banche si finanziano con una serie di operazioni,<br />
come i prestiti interbancari e i depositi esteri, che hanno un<br />
costo legato all’andamento del mercato e, soprattutto, una dimensione<br />
che dipende dalla fiducia che ciascuna banca ha rispetto<br />
alle altre.<br />
La questione non è perciò soltanto quella della solvibilità dei<br />
debiti sovrani ma anche quella dell’incertezza sull’affidabilità<br />
delle operazioni da condurre in mercati assai volatili.<br />
Quest’ultimo aspetto ha un rilievo particolare rispetto alla li-<br />
Luigi Paganetto, Presidente CEIS, Università Tor Vergata<br />
35<br />
quidità del mercato.<br />
Non va mai dimenticato che il sistema bancario è quanto mai<br />
complesso e interconnesso, reso tale anche dall’operare degli<br />
intermediari non bancari e dal ruolo dei derivati.<br />
La crisi di liquidità del mercato interbancario è resa evidente<br />
dal premio al rischio che le banche esigono nel farsi reciprocamente<br />
prestiti.<br />
Nel nostro mercato la differenza tra il tasso interbancario ad<br />
un giorno e quello a tre mesi è aumentato da 30 a 90 punti<br />
base negli ultimi tre mesi. Allo stesso tempo è aumentato il<br />
ricorso al finanziamento, decisamente più costoso, via BCE.<br />
Questo scenario, nel suo complesso, indica che il sistema bancario<br />
si è trovato e si troverà<br />
assai probabilmente ad affrontare<br />
un aumento dei costi del<br />
suo finanziamento legato in<br />
generale al perdurare dell’incertezza<br />
della aspettative e, in<br />
particolare ma non solo alle<br />
esigenze di ricapitalizzazione.<br />
In questo contesto è inevitabile<br />
che i suoi problemi di efficienza<br />
tenderanno a scaricarsi,<br />
se non saranno affrontati tempestivamente,<br />
su famiglie e imprese sia in termini di credit<br />
crunch che di costo del denaro, anche se il sistema bancario<br />
prenderà atto, come già sta facendo, della riduzione della redditività<br />
della sua attività.<br />
Il debito pubblico ha raggiunto il punto di non ritorno?<br />
Il debito pubblico delle economie avanzate ha raggiunto livelli<br />
che Reinhart e Rogoff giudicano, in base alle loro stime, il più<br />
alto dalla fine della seconda guerra mondiale.<br />
Essi ritengono, come è noto, che i periodi di alto debito siano<br />
associati ad una inevitabile riduzione dello sviluppo economico.<br />
La relazione econometrica che trovano tra debito pubblico<br />
e crescita del PIL è debole finché il debito pubblico<br />
rimane al di sotto del 90% del PIL. Al di sopra di questa soglia<br />
la media della riduzione della crescita del PIL è, secondo i loro
36<br />
calcoli, decisamente maggiore dell’1%.<br />
La loro conclusione è che quando si arriva a una crisi finanziaria<br />
di queste dimensioni la fase successiva per i debiti sovrani<br />
è il default.<br />
Si tratta di una fase che, ovviamente, si cerca di evitare per gli<br />
enormi costi economici e sociali che comporta.<br />
L’alternativa è l’adozione di politiche di ‘repressione finanziaria’<br />
che consistono in interventi che ergono barriere verso<br />
l’operare dei meccanismi automatici del mercato, a cominciare<br />
dalla creazione di un mercato privilegiato per il debito nazionale<br />
attraverso l’acquisizione di quote di proprietà pubblica<br />
nel sistema bancario. La repressione finanziaria, fanno notare<br />
Reinhart e Rogoff, non vene esplicitamente dichiarata ma<br />
viene presentata sotto un ombrello più grande e protettivo<br />
come quello della ‘macroprudential regulation’.<br />
Il ruolo del debito rispetto allo sviluppo, assai poco considerato<br />
dagli economisti negli ultimi decenni, è tornato al centro<br />
dell’attenzione dopo gli eventi seguiti alla crisi finanziaria del<br />
2008.<br />
Un quadro complessivo del debito per l’insieme dei paesi<br />
Ocse mostra quanto esso sia cresciuto in complesso, soprattutto<br />
dal 1995 in poi. Il quadro evidenzia anche la circostanza,<br />
assai meno nota, del particolare aumento del debito delle famiglie<br />
e delle imprese, rispetto a quello del settore pubblico.<br />
Il risultato è,comunque, che il debito complessivo dei principali<br />
paesi Ocse si colloca su valori superiori rispetto al 300%<br />
del PIL con un picco del 450% nel caso del Giappone.<br />
Le differenze tra i paesi sono prevalentemente legate al peso<br />
relativo del debito di famiglie e imprese rispetto al debito pubblico<br />
che è dominante per la Grecia, l’Italia e il Giappone<br />
mentre per Belgio, Finlandia, Norvegia, Spagna e Svezia è il<br />
debito delle imprese a rappresentare più del 50% del debito<br />
complessivo.<br />
In Australia, Danimarca, Olanda, Portogallo, UK e Usa sono<br />
le famiglie ad essere particolarmente indebitate.<br />
La mancanza di sufficiente rigore nella spesa e nella tenuta<br />
dei conti, insieme agli effetti della crisi del 2008, ha senza dubbio<br />
favorito l’aumento del debito pubblico nella maggior parte<br />
dei paesi Ocse.È peraltro vero che la rimozione della gran<br />
parte dei vincoli che prima degli anni ‘70 limitavano i mercati<br />
finanziari e le innovazioni, tecnologiche e non, introdotte nella<br />
finanza abbiano favorito l’aumento dell’indebitamento.<br />
Allo stesso tempo l’introduzione dell’euro ha consentito a<br />
paesi europei come Spagna, Portogallo, Irlanda e Grecia di finanziare<br />
a un tasso d’interesse assai contenuto un importante<br />
processo di sviluppo che non avrebbero potuto altrimenti intraprendere.<br />
È stato così possibile finanziare un tasso di crescita<br />
dell’economia decisamente superiore alla media europea,<br />
senza dover sopportare l’onere di un premio al rischio. È<br />
economia e diritto<br />
link journal 1/<strong>2012</strong><br />
l’esatto opposto di quel che sta succedendo oggi con l’impennata<br />
degli spread rispetto al debito pubblico tedesco.<br />
Non c’è dubbio che, in principio e fino ad un certo livello, il<br />
debito sia un potente fattore di sviluppo. Il debito pubblico,<br />
in particolare, consente attraverso il trasferimento intergenerazionale,<br />
l’accrescimento del benessere delle future generazioni.<br />
Quest’ultimo si realizza con l’investimento in capitale<br />
umano e tecnologia reso possibile dalla rinuncia ad un maggior<br />
consumo di oggi.<br />
L’idea che ci sia una soglia non superabile di debito è controversa<br />
dal punto di vista teorico. Krugman sostiene che, con<br />
quest’argomento, si cerca di contrastare l’adozione di politiche<br />
espansive per combattere la disoccupazione, dimenticando<br />
che bisogna guardare alla composizione del debito. A livello<br />
interno, non solo il debito di qualcuno corrisponde al credito<br />
di qualcun altro, ma ci sono sempre alcuni operatori, imprese<br />
o famiglie, meno indebitati di altri. Quest’asimmetria tende a<br />
ridurre la domanda aggregata. Un aumento di debito pubblico<br />
che dia spazio di spesa ai meno indebitati non necessariamente<br />
riduce lo sviluppo, anzi lo può aumentare (Krugman,<br />
“Debt, Deleveraging and the Liquidity Trap, 2010). In ogni<br />
caso è fuor di dubbio che nelle economie avanzate siano all’opera<br />
tendenze demografiche che aumentando il peso degli<br />
anziani sul totale della popolazione creano pressioni crescenti<br />
sui bilanci pubblici per la spesa pensionistica e per quella per<br />
la salute. Il Giappone è il paese che si trova nella posizione<br />
più difficile ma i paesi europei e gli Usa stanno andando nella<br />
stessa direzione.<br />
Le proiezioni dei deficit pubblici secondo i trend correnti mostrano<br />
una crescita esponenziale.<br />
Anche se i paesi interessati introducessero significative correzioni,<br />
non c’è dubbio che negli anni a venire l’esigenza di<br />
una significativa azione di consolidamento fiscale non potrà<br />
essere elusa. Ciò significa realizzare avanzo primario di bilancio<br />
per i prossimi 5 anni compreso, secondo i calcoli di Cecchetti,<br />
tra il 5 e il 10% del GDP. Ci sono molte ragioni a<br />
sostegno dell’esigenza di contenere le dimensioni del debito<br />
pubblico. Quella più immediatamente evidente è l’aumento<br />
del costo del rinnovo del debito per effetto del crescente premio<br />
al rischio richiesto dai mercati.<br />
A ciò va aggiunto non soltanto l’aggravio del costo di finanziamento<br />
e, in qualche caso, la stessa sostenibilità del debito,<br />
ma anche una crescente difficoltà di mantenere immutati i servizi<br />
offerti ai cittadini dallo Stato. Nel caso in cui si voglia<br />
mantenere immutata l’offerta di servizi pubblici, la conseguenza<br />
diventa quella di un aumento della tassazione con effetti<br />
di distorsione sull’allocazione delle risorse, di<br />
spiazzamento degli investimenti privati e, in definitiva, una riduzione<br />
del tasso di crescita dell’economia.
link journal 1/<strong>2012</strong> sicurezza e intelligence<br />
37<br />
Redes criminales transnacionales<br />
que reconfiguran Estados<br />
Desde la década de los 90, cuando países de la extinguida<br />
Unión Soviética adoptaron la economía de<br />
mercado, se comenzó a hablar de un tipo de corrupción<br />
conocida como Captura del Estado. Esta corrupción<br />
sucede cuando grandes firmas legales<br />
manipulan la expedición de leyes, decretos y políticas<br />
públicas, para obtener beneficios económicos de<br />
largo plazo: licencias de funcionamiento, concesiones<br />
de explotación o exenciones tributarias, por ejemplo.<br />
Sin embargo, actualmente se cuenta con suficiente<br />
evidencia empírica para constatar que no sólo los<br />
agentes poderosos legales tienen interés en capturar<br />
el Estado.<br />
En países con intensa presencia de Redes Criminales<br />
Transnacionales (RCTs), especialmente influenciadas<br />
por el narcotráfico, los agentes ilegales<br />
también capturan y reconfiguran instituciones. Así,<br />
se ha constatado que las RCTs pueden usar mecanismos<br />
democráticos formales para infiltrar todos<br />
los niveles y ramas de la administración pública.<br />
Luego, en una etapa avanzada, esa infiltración se<br />
puede transformar en colaboración de doble vía, en<br />
cooptación, que conlleva hasta a una reconfiguración<br />
del Estado.<br />
Por la complejidad de este fenómeno y la necesidad<br />
de entender sus causas y consecuencias, se propuso<br />
el concepto de Reconfiguración Cooptada del<br />
Estado (RCdE) para definir una etapa ulterior a la<br />
tradicional Captura del Estado. Las RCdE consiste<br />
en: “la acción de organizaciones legales e ilegales, que mediante<br />
prácticas ilegales buscan sistemáticamente modificar<br />
desde adentro el régimen político e influir en la elaboración,<br />
modificación y aplicación de las reglas de juego y las políticas<br />
públicas. Estas prácticas se desarrollan con el propósito de<br />
obtener beneficios permanentes y asegurar que sus intereses sean<br />
validados política y legalmente, así como obtener legitimidad<br />
social en el largo plazo, aunque esos intereses no estén regidos<br />
por el principio fundamental del bienestar social” 1 .<br />
Una y otra vez, a lo largo del Hemisferio Occidental,<br />
de África e incluso de algunos países europeos, suceden<br />
procesos de RCdE, en los que una zona<br />
gris/opaca de colaboración entre lo legal y lo ilegal<br />
se vuelve más intensa. Ya no es el caso del “Crimen<br />
Ubicación y tamaño de nodos en función del indicador de betweenness. El<br />
nodo que representa al ex Presidente Portillo aparece en color oscuro.<br />
Se resalta el flujo de información que conecta (i) al narcotraficante Byron<br />
Bernganza (ICBB), (ii) al Director del Banco de Crédito Hipotecario Nacional<br />
de Guatemala, Llort, en el núcleo, y (iii) al ex Presidente Portillo<br />
(el más oscuro)<br />
Organizado” como un grupo de malhechores que<br />
confronta al Estado. Ahora es la historia de funcio-<br />
Luis Jorge Garay Salamanca -Director Académico de Fundación Vortex, Colombia – ljg@scivortex.org<br />
Eduardo Salcedo-Albaran - Director de Fundación Vortex, Colombia – esa@scivortex.org
38<br />
1 Garay-Salamanca, L.<br />
J. & Salcedo-Albarán,<br />
E. (25 de Nov. de<br />
2011). Institutional<br />
impact of criminal<br />
networks in Colombia<br />
and Mexico”. Crime,<br />
Law and Social Change.<br />
November.<br />
2 Entre los libros publicados<br />
por los autores<br />
vale mencionar<br />
algunos: Illicit networks<br />
reconfiguring States. Social<br />
network analysis of<br />
Colombian and Mexican<br />
cases. Bogotá, May,<br />
2010; La Captura y Reconfiguración<br />
Cooptada<br />
del Estado en Colombia.<br />
Transparencia por Colombia<br />
y Avina, Bogotá,<br />
Colombia,<br />
Septiembre, 2008.<br />
Reti criminali transnazionali<br />
che riconfigurano gli Stati<br />
A partire dagli anni ’90, quando i Paesi della scomparsa Unione<br />
Sovietica hanno adottato l’economia di mercato, si è cominciato<br />
a parlare di un tipo di corruzione conosciuta come Cattura dello<br />
Stato. Si ha questa forma di corruzione quando grandi aziende<br />
legali manipolano l’elaborazione di leggi, decreti e politiche<br />
sicurezza e intelligence<br />
narios públicos incluso de alta jerarquía que usan<br />
su legitimidad y papel institucional para promover<br />
intereses criminales. Se encuentra el caso del ex<br />
presidente de Guatemala, Alfonso Portillo, acusado<br />
de favorece a una red narcotraficantes. Dicho<br />
presidente nombró Director del Banco Crédito<br />
Hipotecario Nacional de Guatemala a un amigo<br />
cercano, quien luego utilizó el banco para lavar masivamente<br />
dinero del narcotráfico. Investigaciones<br />
de una corte de Estados Unidos encontraron millonarias<br />
cuentas del ex presidente y el Gobierno<br />
estadounidense pidió su extradición, acusándolo<br />
de colaborar en el lavado de casi 70 millones de<br />
dólares. La extradición fue aprobada por Guatemala<br />
en noviembre de 2011.<br />
También está el caso de narcoparamilitares en Colombia<br />
que legislaron en el Congreso de la República<br />
de Colombia entre 2002 y 2006. Las<br />
Autodefensas Unidas de Colombia, la mayor confederación<br />
de paramilitares ilegales en Colombia,<br />
estableció acuerdos con candidatos y líderes políticos<br />
en distintas regiones del país. Lograron que<br />
cerca del 40% del congreso nacional elegido en<br />
2002 legislara representando sus intereses criminales.<br />
Todo esto, en el marco de procesos electorales<br />
locales combinados con masacres y coerción<br />
a electores. Como si fuera poco, gobernadores, alcaldes<br />
y el director de la agencia nacional de inteligencia<br />
de Colombia (DAS), han sido condenados<br />
por la Sala Penal de la Corte Suprema de Justicia<br />
de Colombia y la Fiscalía General. Múltiples acuerdos<br />
y vínculos con las Autodefensas Unidas de<br />
Colombia han sido comprobados entre agentes ilegales<br />
y funcionarios públicos y políticos. La lista<br />
link journal 1/<strong>2012</strong><br />
de cooptación de instituciones democráticas a través<br />
de redes RCTs es extensa. En Perú, Montesinos,<br />
Director del Servicio de Inteligencia Nacional<br />
durante la presidencia de Fujimori, compró ilegalmente<br />
armas a traficantes internacionales en Jordania,<br />
para intercambiarlas por cocaína con la<br />
guerrilla más antigua del mundo: las Fuerzas Armadas<br />
Revolucionarias de Colombia, FARC. En<br />
México, en 2009 más de 30 funcionarios públicos<br />
del Estado de Michoacán, entre alcaldes y hasta un<br />
gobernador del Estado, fueron capturados y acusados<br />
de vínculos con la red criminal de La Familia<br />
Michaocana, ahora conocida como Caballeros Templarios.<br />
En Estados Unidos, por su parte, aumentan los registros<br />
de cómo la red criminal mexicana de Los<br />
Zetas no sólo opera a través de Mexicano y Guatemala,<br />
sino que soborna oficiales estadounidenses,<br />
con procedimientos que van desde pagos sexuales<br />
hasta reclutamiento de contra-espías. Al tiempo, la<br />
Familia Michaocana y Los Zetas envían drogas sintéticas<br />
a Europa a través de África, y lavan masivamente<br />
dinero con empresas ficticias ubicadas en<br />
España y en China.<br />
Por lo anterior, se debe profundizar la comprensión<br />
de los mecanismos criminales de infiltración<br />
y reconfiguración de instituciones democráticas; es<br />
indispensable entender que la democracia formal<br />
algunas veces es utilizada para fines criminales . Es<br />
indispensable avanzar en el Programa de Investigación<br />
sobre Reconfiguración Cooptada del<br />
Estado para entender que la historia de la estructuración<br />
de algunos Estados se está escribiendo<br />
con la pluma y la tinta de la ilegalidad.<br />
pubbliche per ottenere vantaggi economici a lungo termine:<br />
brevetti, autorizzazioni allo sfruttamento o agevolazioni fiscali,<br />
ad esempio.<br />
In ogni caso è abbastanza evidente che non solo potenti soggetti<br />
legali hanno interesse a catturare lo Stato.<br />
In Paesi con un’intensa presenza di Reti Criminali Transnazionali<br />
(RCT), particolarmente influenzati dal narcotraffico, anche<br />
i soggetti illegali catturano e riconfigurano le istituzioni. Pertanto<br />
si è potuto constatare che le RCT possono utilizzare
sicurezza e intelligence<br />
link journal 1/<strong>2012</strong> 39<br />
anche meccanismi democratici formali per infiltrarsi a tutti i livelli<br />
ed in tutti i rami dell’amministrazione pubblica. Successivamente,<br />
in una fase più avanzata, quell’infiltrazione può<br />
trasformarsi in una collaborazione a doppio senso, in forme<br />
di cooptazione, che possono arrivare fino ad una riconfigurazione<br />
dello Stato.<br />
A causa della complessità di questo fenomeno e della necessità<br />
di comprendere le sue cause e conseguenze, è stato proposto il<br />
concetto di Riconfigurazione Cooptata dello Stato (RCdS) per<br />
definire una tappa ulteriore del processo di Cattura dello Stato.<br />
La RCdS consiste “nell’azione di organizzazioni legali e illegali, che<br />
mediante pratiche illegali tentano sistematicamente di modificare dall’interno<br />
il regime politico ed influire sull’elaborazione, la modifica ed applicazione<br />
delle regole del gioco e delle politiche pubbliche.” Queste pratiche vengono<br />
svolte con l’intento di ottenere vantaggi permanenti e assicurare<br />
che i propri interessi vengano sostenuti politicamente<br />
e legalmente, nonché per ottenere legittimazione sociale nel<br />
lungo periodo, nono-stante tali interessi non siano sorretti dal<br />
fondamentale principio del benessere sociale.”<br />
Nell’Emisfero Occidentale, in Africa e anche in alcuni paesi europei<br />
avvengono dei processi di RCdS ed in tali paesi diviene<br />
sempre più intensa quella che è una zona grigia/opaca di collaborazione<br />
fra l’ambito legale e quello illegale.<br />
Già non si tratta più il Crimine Organizzato, inteso come un<br />
gruppo di malfattori che affronta lo Stato. Adesso abbiamo dei<br />
funzionari pubblici appartenenti anche all’alta gerarchia che utilizzano<br />
la loro legittimazione ed il loro ruolo istituzionale per<br />
promuovere interessi criminali.<br />
C’è il caso dell’ex Presidente del Guatemala, Alfonso Portillo,<br />
accusato di favorire una rete di narcotrafficanti. Quel presidente<br />
nominò un suo caro amico Direttore di una istituzione bancaria,<br />
il Banco Crédito Hipotecario Nacional de Guatemala;<br />
l’amico usò la Banca per riciclare massivamente il denaro del<br />
narcotraffico. Le indagini di una corte degli Stati Uniti trovarono<br />
conti milionari dell’ex presidente e quindi il Governo statunitense<br />
ne richiese l’estradizione, accusandolo di aver<br />
collaborato nel riciclaggio di quasi 70 milioni di dollari. L’estradizione<br />
è stata approvata dal Guatemala nel novembre 2011.<br />
Abbiamo anche il caso dei narcoparamilitari in Colombia che<br />
hanno legiferato nel Parlamento della Repubblica di Colombia<br />
tra il 2002 e il 2006. Le Autodefensas Unidas de Colombia, la<br />
maggiore confederazione di paramilitari illegali della Colombia,<br />
hanno stipulato accordi con candidati e leader politici in varie<br />
regioni del Paese, ottennendo che quasi il 40% del parlamento<br />
nazionale eletto nel 2002 legiferasse in rappresentanza dei loro<br />
interessi criminali.<br />
Tutto ciò, nell’ambito dei processi elettorali locali combinati<br />
con massacri e coercizione nei confronti degli elettori. Come<br />
se non bastasse, governatori, sindaci e il direttore dell’Agenzia<br />
Nazionale di Intelligence della Colombia (DAS) sono stati condannati<br />
dalla Sezione Penale della Corte Suprema di Giustizia<br />
e dalla Procura Generale della Colombia. Sono stati dimostrati<br />
molteplici accordi e legami tra agenti illegali e funzionari pubblici<br />
e politici con le Autodefensas Unidas de Colombia<br />
La lista della cooptazione di istituzioni democratiche attraverso<br />
le reti RCT è estesa. In Perù, Montesinos, Direttore del Servizio<br />
Nazionale di Intelligence durante la presidenza di Fujimori, ha<br />
acquistato illegalmente armi da trafficanti internazionali in<br />
Giordania, per commerciare cocaina con la guerrilla più antica<br />
del mondo: le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia,<br />
FARC.<br />
In Messico, nel 2009, oltre 30 funzionari pubblici dello Stato<br />
di Michoacan, tra loro sindaci e persino un governatore dello<br />
Stato, sono stati catturati e accusati di avere legami con la rete<br />
criminale della Familia Michaocana, conosciuta adesso come i<br />
Cavalieri Templari.<br />
Negli Stati Uniti, d’altra parte, aumentano le segnalazioni di casi<br />
che indicano che la rete criminale messicana Los Zetas, non si<br />
limita ad operare in Messico e in Guatemala, ma corrompe<br />
anche funzionari statunitensi, con metodi che vanno dai favori<br />
sessuali fino al reclutamento delle contro-spie. Contemporaneamente<br />
la Familia Michaocana e Los Zetas mandano droghe<br />
sintetiche in Europa attraverso l’Africa e ripuliscono massicciamente<br />
il denaro attraverso imprese fittizie ubicate in Spagna ed<br />
in Cina.<br />
Pertanto, da quanto detto, dobbiamo approfondire la comprensione<br />
dei meccanismi criminali di infiltrazione e riconfigurazione<br />
delle istituzioni democratiche; è indispensabile<br />
comprendere che i meccanismi della democrazia formale alcune<br />
volte vengono utilizzati per fini criminali.<br />
È, altresì, indispensabile procedere con il Programma di Ricerca<br />
sulla Riconfigurazione Cooptata dello Stato per comprendere<br />
che la storia di come si strutturano alcuni Stati viene scritta con<br />
la penna e con l’inchiostro dell’illegalità.
40<br />
Il dilemma<br />
del prigioniero<br />
innocente<br />
Premessa.<br />
Il 2 dicembre 2011 la <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong>, in collaborazione<br />
con la Comunità di S. Egidio e nell'ambito<br />
dell'iniziativa internazionale Cities for life 2011 contro la<br />
pena di morte, ha organizzato un incontro con Anthony<br />
Graves, già condannato a morte in Texas e poi dichiarato<br />
innocente e liberato dal braccio della morte.<br />
Nel 1992 Anthony Graves aveva 29 anni, una moglie e<br />
tre figli ma viveva nel Texas e la sua pelle era nera, come<br />
quella di coloro che, percentualmente, finiscono più facilmente<br />
in galera e, spesso, nel braccio della morte. Il<br />
18 agosto di quell’anno un agente di polizia penitenziaria,<br />
Robert Carter, si macchiò di un’orrenda strage, massacrando<br />
ben sei persone:<br />
Bobbie Davis, una donna di 45 anni, la figlia sedicenne<br />
di lei e quattro bambini, tra cui anche il figlio di appena<br />
quattro anni dello stesso Carter.<br />
Si pensò che l'omicida, reo confesso, non avesse compiuto<br />
da solo quel crimine, così iniziò il solito gioco al<br />
massacro fatto di minacce, ritorsioni e false promesse<br />
per riuscire a far sputare fuori almeno un nome. La polizia<br />
texana era molto abile in questo gioco e, alla fine,<br />
Carter confessò che Anthony Graves sarebbe stato il suo<br />
complice (era il cugino di una ragazza con la quale Carter<br />
aveva avuto una storia).<br />
Di colpo la vita di Graves precipitò in un baratro senza<br />
fondo e iniziò a sperimentare sulla sua pelle gli ingranaggi<br />
della macchina giudiziaria texana. La pubblica accusa<br />
prese talmente a cuore il caso che cercò, inventò e<br />
creò quanti più indizi di colpevolezza possibile. Non ci<br />
fu niente da fare, la sentenza di colpevolezza del 1994<br />
era già stata scritta.<br />
Per Graves si spalancarono le porte dell’inferno, fu<br />
strappato via alla sua famiglia e scaraventato nel famigerato<br />
braccio della morte texano. Intanto Carter ritrattò,<br />
facendo una dichiarazione giurata in cui scagionava completamente<br />
Graves. Persino sul letto di morte, con l’ago<br />
già infilato nel braccio, Carter ribadì l’innocenza di Gra-<br />
Gianni Ricci - <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />
diritti umani link journal 1/<strong>2012</strong><br />
ves ed esalò l’ultimo respiro, il 31 maggio del 2000.<br />
Anthony Graves ha visto la morte passargli accanto. Poi<br />
qualcosa di colpo cambiò. La professoressa Nicole Casarez<br />
dell’Università St. Thomas e i suoi studenti di giornalismo<br />
presero a cuore il suo caso e studiarono a fondo<br />
gli atti processuali arrivando alla convinzione che non ci<br />
fossero prove reali a carico di Anthony.<br />
Il lavoro svolto da Nicole e dai suoi studenti fu prezioso<br />
e concreto, non mollarono fino a quando, nel 2006, la<br />
Corte Federale d’Appello del Quinto Circuito annullò il<br />
processo a causa delle gravi irregolarità commesse dall'accusa.<br />
Lo Stato del Texas, nonostante la sentenza di<br />
annullamento del processo, è riuscito a tenere Graves in<br />
prigione per altri quattro anni.<br />
Finalmente, il 27 ottobre del 2010, Anthony Graves si è<br />
aggiunto alla schiera dei 138 ex condannati a morte riconosciuti<br />
innocenti e liberati, da quando nel 1976 gli<br />
Stati Uniti hanno ripristinato la pena di morte.<br />
Il dilemma del prigioniero vero<br />
Ho sempre pensato al dilemma del prigioniero come ad<br />
un modello teorico di gioco in grado di spiegare la differenza<br />
tra scelte individuali e scelte di gruppo, tra soluzioni<br />
ed equilibri; utile per descrivere schematicamente<br />
situazioni di conflitto attraverso una chiave di lettura che<br />
coinvolge anche la sfera psicologica di chi deve assumere<br />
una decisione. Ho sempre interpretato il dilemma del<br />
prigioniero come un legame tra matematica, economia<br />
e scienze sociali, come un’occasione per avvicinare la
link journal 1/<strong>2012</strong> diritti umani<br />
41<br />
matematica ai problemi concreti rivalutando le potenzialità<br />
applicative dell’odiata matematica.<br />
Ma oggi la testimonianza di Anthony Graves ha spostato<br />
il dilemma del prigioniero su un piano diverso, concreto<br />
e drammaticamente umano.<br />
Ascoltando Anthony Graves mi ha colpito il racconto<br />
dell’interrogatorio fatto nella stazione di polizia prima a<br />
Robert Carter e poi a lui; mi è sembrato di leggere Albert<br />
Tucker quando introduce il suo paradigma del dilemma<br />
del prigioniero:<br />
Due persone indicate con A e B vengono accusate (a ragione)<br />
di un crimine e, in attesa del processo, sono imprigionate<br />
in celle separate in modo che non sia possibile<br />
per i due arrestati comunicare tra loro; in assenza di<br />
prove certe vengono interrogate separatamente dal<br />
Commissario che a ciascuno promette uno sconto di<br />
pena se confessa la sua colpevolezza; la definizione della<br />
riduzione dipende dal comportamento dell’altro arrestato.<br />
A titolo esemplificativo l’interrogatorio con l’arrestato<br />
A si sviluppa nel seguente modo:<br />
• Se tu (A) confessi e il tuo “complice”(B) non<br />
confessa, allora tu sarai libero e il tuo complice verrà<br />
condannato, grazie alla tua deposizione, a 20 anni;<br />
• Se tu (A) e il tuo complice (B) confessate entrambi<br />
verrete condannati entrambi ad una reclusione di<br />
4 anni;<br />
• Se tu (A) e il tuo complice (B) non confessate<br />
verrete comunque condannati a 2 anni per un reato minore<br />
per il quale abbiamo già le prove.<br />
A/B confessa non confessa<br />
Confessa 4,4 0,20<br />
non confessa 20,0 2,2<br />
In modo assolutamente analogo si svolge l’interrogatorio<br />
con l’altro arrestato B.<br />
La situazione può essere descritta dalla bimatrice seguente:<br />
la scelta che ciascuno degli arrestati fa è quella<br />
di confessare, non per motivi etici, ma semplicemente<br />
perché non potendo A e B concordare la scelta comune<br />
di non confessare (che porterebbe A e B ad ottenere il<br />
migliore risultato per entrambi: trascorrere 2 anni in prigione),<br />
vogliono evitare la situazione peggiore (trascorrere<br />
20 anni in prigione). Questo tipo di soluzione<br />
(minimizzare il massimo del rischio) viene denominata<br />
min-max e privilegia la prudenza rispetto al rischio ed è<br />
il risultato di scelte individualiste.<br />
Antony Graves ha trascorso 18 anni in prigione<br />
per un crimine che non ha commesso<br />
Questa situazione si sviluppa secondo le modalità che<br />
abbiamo descritto in base ad una ipotesi fondamentale:<br />
i due arrestati sono colpevoli!<br />
Cosa succede se uno dei due arrestati, ad esempio B, è<br />
innocente?<br />
La consapevolezza di essere innocente porta B a dichiararsi<br />
non colpevole per cui A (che è colpevole e sa che<br />
B è innocente) si dichiarerà colpevole con la prospettiva<br />
di tornare libero, pur sapendo, in questo modo, di creare<br />
il massimo danno all’altro arrestato. E questo, dal racconto<br />
di Anthony Graves (l’arrestato B), è proprio quello<br />
che è successo per il comportamento egoistico di Robert<br />
Carter (l’arrestato A).
SudgestAid è una Società consortile italiana, senza scopo di lucro,<br />
partecipata da Agenzie pubbliche, impegnata nel promuovere e<br />
gestire progetti di sviluppo locale sostenibile prestando assistenza<br />
alle Pubbliche Amministrazioni e alla società civile dei Mezzogiorni<br />
d’Italia e del Mondo.<br />
Operiamo soprattutto nelle aree dove più gravi sono gli elementi di<br />
crisi e maggiori le difficoltà di sviluppo.<br />
La nostra azione, in questi ambiti, riguarda la qualificazione delle<br />
risorse umane; la pianificazione e programmazione socio-economica<br />
e territoriale; la difesa e valorizzazione delle risorse ambientali,<br />
idriche, del suolo e sottosuolo; l’innovazione tecnologica; il recupero<br />
della legalità e della coesione sociale; il rispetto e valorizzazione delle<br />
culture e delle pari opportunità.<br />
L’impegno di SudgestAid è rivolto a:<br />
• riqualificare i sistemi di governance accrescendo i livelli di responsabilità<br />
e le capacità tecniche, l’efficienza e l’efficacia delle Pubbliche<br />
Amministrazioni; aiutando il decentramento amministrativo, l’organizzazione<br />
delle Istituzioni e i processi di concertazione; rafforzando<br />
il rispetto della legalità e la trasparenza delle azioni pubbliche; promuovendo<br />
il coinvolgimento della società civile e degli stakeholders;<br />
promuovere lo sviluppo locale sostenibile valorizzando le risorse<br />
umane, le esperienze ed il patrimonio storico-culturale locale; programmando<br />
e pianificando gli interventi nel rispetto della capacità<br />
di carico del territorio e della rinnovabilità delle risorse ambientali;<br />
ampliando i diritti umani, i livelli di libertà, di partecipazione e consenso,<br />
garantendo l’equità e il rispetto delle diverse culture<br />
e delle pari opportunità.<br />
SudgestAid S.c.a.r.l.<br />
Via Nomentana, 335 - 00162 Roma<br />
Tel. +39 06 982641<br />
Fax +39 06 98264150<br />
Email: info@sudgestaid.it<br />
www.sudgestaid.it
Focus<br />
‘Il paradosso della globalizzazione’<br />
D. Rodrik, G. Magliano, A. Suraci, M. Zandri,<br />
C. Patalano, R. Lippi, M. Emanuele, P. Russo, G. Migliore
44 globalizzazione link journal 1/<strong>2012</strong><br />
Il paradosso<br />
della globalizzazione<br />
Dani Rodrik<br />
Dani Rodrik<br />
è professore<br />
di economia<br />
politica alla John<br />
F. Kennedy School<br />
of Government<br />
dell’Università<br />
di Harvard<br />
Ultimamente ho presentato il mio nuovo<br />
libro The Globalization Paradox (Il paradosso<br />
della globalizzazione, ndt) a diversi<br />
gruppi. Ormai sono abituato a qualsiasi tipo di<br />
commento da parte dell’audience, ma ad una recente<br />
presentazione del libro, l’economista al quale<br />
era stato chiesto di intervenire come relatore mi ha<br />
sorpreso con una critica inaspettata affermando,<br />
stizzito, la mia volontà di rendere il mondo più sicuro<br />
per i politici.<br />
Per timore che il messaggio si perdesse nel vuoto,<br />
ha poi spiegato ulteriormente il suo commento ricordando<br />
all’audience un ex ministro dell’agricoltura<br />
giapponese che sosteneva che il Giappone<br />
non potesse importare la carne di manzo in quanto<br />
l’intestino dei giapponesi è più lungo rispetto a<br />
quello degli abitanti degli altri Paesi.<br />
Il commento ha provocato qualche risata soffocata.<br />
Chi non si diverte con le barzellette sui politici?<br />
Ma il commento aveva uno scopo ben più serio ed<br />
Globalizzazione<br />
I mercati ben<br />
funzionanti sono<br />
sempre inseriti<br />
all’interno<br />
di meccanismi<br />
più ampi<br />
di governabilità<br />
collettiva<br />
L’articolo apre una riflessione che diverrà oggetto di altri interventi nel corso delle prossime pubblicazioni.<br />
era in modo evidente mirato ad evidenziare un errore<br />
fondamentale nella mia argomentazione. Il<br />
mio relatore ha trovato che fosse evidente l’assurdità<br />
dell’idea di dare maggior spazio di manovra ai<br />
politici, supponendo che l’audience sarebbe stata<br />
d’accordo ed implicando che la rimozione di qualsiasi<br />
limite posto ai politici potrebbe portare a interventi<br />
insensati che soffocherebbero i mercati e<br />
bloccherebbero il motore della crescita economica.<br />
Questa critica indica un grave fraintendimento<br />
della modalità di funzionamento dei mercati. Dato<br />
il bagaglio culturale fondato solo sui libri di testo<br />
senza alcuna menzione del ruolo delle istituzioni,<br />
gli economisti immaginano spesso che i mercati si<br />
sviluppino da soli senza alcuna azione collettiva e<br />
mirata. Adam Smith aveva ragione nell’affermare<br />
che “la propensione verso le relazioni, il baratto e lo scambio”<br />
è innata nell’uomo, ma un insieme di istituzioni<br />
esterne al mercato sono comunque<br />
necessarie per concretizzare questa propensione.<br />
Consideriamo tutti i requisiti necessari. I mercati<br />
moderni necessitano di infrastrutture per i<br />
trasporti, la logistica e la comunicazione che derivano<br />
in gran parte dagli investimenti pubblici.<br />
Necessitano inoltre di sistemi di esecuzione dei<br />
contratti e della protezione del diritto di proprietà,<br />
di regolamentazioni per permettere ai consumatori<br />
di prendere decisioni sulla base di informazioni<br />
adeguate, per internalizzare gli elementi esterni ed<br />
evitare abusi di potere. Hanno bisogno di banche<br />
centrali ed istituti finanziari per prevenire eventuali<br />
situazioni di panico finanziario e moderare i cicli<br />
del business. E necessitano infine di una rete di<br />
protezione sociale e di sicurezza per legittimare i<br />
risultati ottenuti tramite il processo di distribuzione.<br />
I mercati ben funzionanti sono sempre inseriti all’interno<br />
di meccanismi più ampi di governabilità<br />
collettiva. Ecco perché le economie più sane a livello<br />
mondiale, e con i sistemi di mercato più produttivi,<br />
dispongono anche di vasti settori pubblici.<br />
Una volta che abbiamo riconosciuto la necessità<br />
da parte dei mercati di avere delle regole, dobbiamo<br />
chiederci poi a chi far scrivere tali regole. Gli<br />
economisti che denigrano il valore della<br />
democrazia parlano a volte come se l’alternativa<br />
ad un governo democratico fosse un processo de-
link journal 1/<strong>2012</strong> globalizzazione<br />
cisionale portato avanti da filosofi platonici di alto spessore intellettuale,<br />
ovvero, idealmente, degli economisti!<br />
Ma questo scenario non è né rilevante, né auspicabile.<br />
Innanzitutto, più basso è il grado di trasparenza, rappresentatività<br />
e responsabilità del sistema politico, più è probabile che<br />
interessi specifici devino le regole a loro vantaggio. Ovviamente,<br />
anche i sistemi democratici possono cadere in questo<br />
rischio, ma rimangono comunque la forma migliore di tutela<br />
contro regole arbitrarie.<br />
Inoltre, creare delle regole non implica solo essere efficienti,<br />
ma può anche portare a dover bilanciare obiettivi sociali in<br />
competizione tra loro (ad esempio la stabilità contro l’innovazione),<br />
o a dover fare scelte legate al processo di distribuzione.<br />
Non sono compiti che vorremmo affidare agli<br />
economisti che possono sì conoscere il prezzo di una serie di<br />
elementi, ma non ne conoscono il valore.<br />
E’ vero che la qualità della governabilità democratica può essere<br />
migliorata riducendo il margine<br />
di discrezione dei rappresentanti<br />
eletti. Le democrazie ben funzionanti<br />
delegano spesso il potere<br />
istituzionale relativo alla<br />
definizione delle regolamentazioni<br />
a enti semi-indipendenti,<br />
in particolar modo quando le<br />
questioni in oggetto sono di<br />
natura tecnica e non comportano<br />
preoccupazioni di carattere<br />
distribuzionale, quando uno<br />
scambio di favori darebbe risultati<br />
poco ottimali per tutti o<br />
quando le politiche risultano<br />
miopi, con l’implicazione di una<br />
forte riduzione dei costi futuri.<br />
Le banche centrali indipendenti sono un ottimo esempio di<br />
questo meccanismo. Può anche spettare ai politici eletti determinare<br />
il target dell’inflazione, ma la decisione su quali mezzi<br />
utilizzare per raggiungere tale obiettivo viene lasciata ai tecnocrati<br />
delle banche centrali. Anche in questo modo le banche<br />
rimangono comunque responsabili nei confronti dei politici e<br />
tenute, quindi, a risponderne quando il target non viene raggiunto.<br />
Allo stesso modo, si possono emanare simili istanze di<br />
delega democratica alle organizzazioni internazionali. Gli accordi<br />
globali mirati a porre un tetto massimo sulle tariffe o a<br />
ridurre le emissioni tossiche sono senza dubbio fondamentali.<br />
Ma gli economisti hanno la tendenza a idolatrare questi limiti<br />
senza analizzare a fondo ed in modo esauriente le politiche da<br />
cui derivano. Una cosa è sostenere l’applicazione di limiti es-<br />
45<br />
terni che sottolineino la qualità delle considerazioni fatte a livello<br />
democratico evitando, ad esempio, scadenze a breve termine<br />
o pretendendo trasparenza, altra cosa è sovvertire la<br />
democrazia privilegiando interessi specifici a dispetto di altri.<br />
Sappiamo, ad esempio, che i requisiti globali del capitale individuati<br />
dal Comitato di Basilea rispecchiano ampiamente l’influenza<br />
della banche più importanti. Se fossero gli economisti<br />
e gli esperti finanziari a dover dettare le regole, i limiti sarebbero<br />
molto più severi. D’altro canto se le regole fossero lasciate in<br />
balia dei procedimenti politici interni, ci potrebbe essere una<br />
pressione contrastante da parte degli attori coinvolti in contrasto<br />
tra di loro (sebbene gli interessi finanziari siano molto<br />
forti anche a livello nazionale).<br />
Nonostante la retorica, molti degli accordi siglati dall’Organizzazione<br />
Mondiale per il Commercio non sono il risultato del<br />
perseguimento del benessere economico globale, bensì del<br />
potere di lobbying delle multinazionali in cerca di opportunità<br />
per ottenere profitto.<br />
Le regole internazionali sui<br />
brevetti e sul copyright rispecchiano<br />
l’abilità delle aziende farmaceutiche<br />
e di Hollywood, per<br />
dare due esempi, di averla vinta.<br />
Queste regole sono state fortemente<br />
denigrate dagli economisti<br />
in quanto hanno imposto<br />
una serie di limiti inibendo la<br />
possibilità delle economie in via<br />
di sviluppo di avere accesso ad<br />
opportunità a basso costo in<br />
campo farmaceutico e tecnologico.<br />
Pertanto, la scelta tra la<br />
cautela democratica interna ed i<br />
limiti imposti dall’esterno non è<br />
sempre tra politiche positive o negative. Anche quando il sistema<br />
politico interno non funziona bene, non c’è alcuna<br />
garanzia che le istituzioni globali funzionino meglio. Spesso la<br />
scelta è tra cedere ai rent-seeking nazionali o stranieri. Nel primo<br />
caso almeno l’affitto rimane in casa! Sostanzialmente, la questione<br />
riguarda chi dobbiamo investire della responsabilità di<br />
scrivere le regole che il mercato richiede. La realtà inevitabile<br />
della nostra economia globale è che il luogo principale in cui<br />
risiede la responsabilità legittima democratica è ancora lo Stato<br />
nazionale. Pertanto porgo prontamente le mie scuse rispetto<br />
alla critica mossa dall’economista che ha commentato il mio<br />
libro. In effetti è vero che voglio rendere il mondo più sicuro<br />
per i politici democratici e, sinceramente, ho seri dubbi nei confronti<br />
di chi non vuole farlo.
46 globalizzazione link journal 1/<strong>2012</strong><br />
The globalization paradox<br />
Ihave been presenting my new book The Globalization Paradox<br />
to different groups of late. By now I am used to all<br />
types of comments from the audience. But at a recent<br />
book-launch event, the economist assigned to discuss the book<br />
surprised me with an unexpected criticism. “Rodrik wants to<br />
make the world safe for politicians,” he huffed.<br />
Lest the message be lost, he then illustrated his point by reminding<br />
the audience of “the former Japanese minister of agriculture<br />
who argued that Japan could not import beef because<br />
human intestines are longer in Japan than in other countries.”<br />
The comment drew a few chuckles. Who doesn’t enjoy a joke<br />
at the expense of politicians?<br />
But the remark had a more serious purpose and was evidently<br />
intended to expose a fundamental flaw in my argument. My<br />
discussant found it self-evident that allowing politicians<br />
greater room for maneuver was a cockamamie idea – and he<br />
assumed that the audience would concur. Remove constraints<br />
on what politicians can do, he implied, and all you will get are<br />
silly interventions that throttle markets and stall the engine<br />
of economic growth. This criticism reflects a serious misunderstanding<br />
of how markets really function. Raised on textbooks<br />
that obscure the role of institutions, economists often<br />
imagine that markets arise on their own, with no help from<br />
purposeful, collective action. Adam Smith may have been<br />
right that “the propensity to truck, barter, and exchange” is<br />
innate to humans, but a panoply of non-market institutions<br />
is needed to realize this propensity. Consider all that is required.<br />
Modern markets need an infrastructure of transport,<br />
logistics, and communication, much of it the result of public<br />
investments. They need systems of contract enforcement and<br />
property-rights protection. They need regulations to ensure<br />
that consumers make informed decisions, externalities are internalized,<br />
and market power is not abused. They need central<br />
banks and fiscal institutions to avert financial panics and moderate<br />
business cycles. They need social protections and safety<br />
nets to legitimize distributional outcomes. Well-functioning<br />
markets are always embedded within broader mechanisms of<br />
collective governance. That is why the world’s wealthier<br />
economies, those with the most productive market systems,<br />
also have large public sectors. Once we recognize that markets<br />
require rules, we must next ask who writes those rules. Economists<br />
who denigrate the value of democracy sometimes talk<br />
as if the alternative to democratic governance is decisionmaking<br />
by high-minded Platonic philosopher-kings – ideally<br />
economists!<br />
But this scenario is neither relevant nor desirable. For one<br />
thing, the lower the political system’s transparency, representativeness,<br />
and accountability, the more likely it is that special<br />
interests will hijack the rules. Of course, democracies can be<br />
captured too. But they are still our best safeguard against arbitrary<br />
rule.<br />
Moreover, rule-making is rarely about efficiency alone; it may<br />
entail trading off competing social objectives – stability versus<br />
innovation, for example – or making distributional choices.<br />
These are not tasks that we would want to entrust to economists,<br />
who might know the price of a lot of things, but not<br />
necessarily their value.<br />
True, the quality of democratic governance can sometimes<br />
be augmented by reducing the discretion of elected representatives.<br />
Well-functioning democracies often delegate rulemaking<br />
power to quasi-independent bodies when the issues<br />
at hand are technical and do not raise distributional concerns;<br />
when log-rolling would otherwise result in sub-optimal outcomes<br />
for all; or when policies are subject to myopia, with<br />
heavy discounting of future costs. Independent central banks<br />
provide an important illustration of this. It may be up to<br />
elected politicians to determine the inflation target, but the<br />
means deployed to achieve that target are left to the technocrats<br />
at the central bank. Even then, central banks typically<br />
remain accountable to politicians and must provide an accounting<br />
when they miss the targets. Similarly, there can be<br />
useful instances of democratic delegation to international organizations.<br />
Global agreements to cap tariff rates or reduce<br />
toxic emissions are indeed valuable.<br />
But economists have a tendency to idolize such constraints<br />
without sufficiently scrutinizing the politics that produce<br />
them. It is one thing to advocate external restraints that enhance<br />
the quality of democratic deliberation – by preventing<br />
short-termism or demanding transparency, for example. It is<br />
another matter altogether to subvert democracy by privileging<br />
particular interests over others. For instance, we know that<br />
the global capital-adequacy requirements produced by the<br />
Basel Committee reflect overwhelmingly the influence of<br />
large banks. If the regulations were to be written by economists<br />
and finance experts, they would be far more stringent.<br />
Alternatively, if the rules were left to domestic political<br />
processes, there could be more countervailing pressure from<br />
opposing stakeholders (even though financial interests are<br />
powerful at home, too).
link journal 1/<strong>2012</strong> globalizzazione<br />
La politica estera è sempre<br />
più chiamata ad un<br />
approccio di coerenza e<br />
di pro-attività sui temi<br />
globali. La comunità internazionale<br />
sta evolvendo<br />
in un sistema<br />
composito ed a più velocità<br />
tra economie avanzate,<br />
“emerse” ed<br />
emergenti, i cui lineamenti<br />
sono in corso di<br />
definizione.<br />
La crisi finanziaria ha impresso<br />
forte accelerazione<br />
ad un processo<br />
strutturale verso un<br />
nuovo paradigma economico,<br />
ormai tale da<br />
mettere costantemente<br />
in discussione le analisi<br />
congiunturali macroeconomiche,<br />
condannate ad<br />
inseguire dinamiche<br />
rapide ed imprevedibili.<br />
Secondo alcune statistiche<br />
dello Institute for International Finance, dal 2007 al<br />
<strong>2012</strong> l’economia cinese risulterà cresciuta del 60%, le altre<br />
economie asiatiche del 50% e quelle dei Paesi G8 solo del 3%.<br />
Questo “shift of wealth and power from the West to the Rest”<br />
comporta un superamento delle tradizionali gerarchie fra<br />
Paesi nei fori internazionali, dal G8 al G20 e oltre.<br />
Contestualmente, stiamo assistendo ad un fenomeno di<br />
“deconcentrazione” del potere economico. Oggi l’attenzione<br />
della comunità internazionale è rivolta soprattutto ai grandi<br />
Paesi emergenti, i BRIC. Peraltro, nuove potenze economiche<br />
- più piccole in termini assoluti, ma con tassi di crescita comparabili<br />
- si stanno affacciando alla frontiera dell’economia<br />
globale, rappresentando già oggi l’ago della bilancia nel balance<br />
of power fra Paesi avanzati ed emergenti. Alcuni analisti preconizzano<br />
la costituzione di un “blocco unico”, il nuovo G7<br />
(integrando Brasile, Russia, India e Cina con Indonesia, Messico<br />
e Turchia), che entro il 2020 potrebbe sopravanzare il<br />
“vecchio” G7 in termini di PIL consolidato. Altri pensano ai<br />
paesi emergenti dell’acronimo CIVETS, cioè Colombia, Indonesia,<br />
Vietnam, Egitto, Turchia e Sudafrica.<br />
Un assetto più decentrato<br />
dell’economia globale rappresenta<br />
certamente uno<br />
sviluppo positivo.<br />
Il fatto che già nei<br />
prossimi vent’anni quasi<br />
il 60% del PIL mondiale<br />
potrebbe provenire dai<br />
Paesi emergenti significa<br />
anche poter contare su<br />
un più ampio novero di<br />
motori di crescita, più<br />
che mai necessari soprattutto<br />
nel caso di crisi,<br />
come quella attuale, che<br />
impatta in modo asimmetrico<br />
su economie<br />
avanzate ed emergenti.<br />
Al contempo, questa<br />
moltiplicazione dei poli<br />
economici sembra comportare<br />
- almeno nel<br />
breve periodo - una maggiore<br />
entropia nei processi<br />
decisionali. L’attuale<br />
fase di riequilibrio si sta<br />
accompagnando ad una dissociazione fra PIL e benessere: per<br />
la prima volta i Paesi più ricchi non coincidono con i Paesi<br />
più benestanti. I BRICS oggi rappresentano il 18% del PIL,<br />
il 30% della crescita globale e, tuttavia, anche il 52% della<br />
popolazione più povera del pianeta.<br />
Tale situazione presenta implicazioni anche per il sistema multilaterale<br />
nel suo insieme. Da un lato, l’agenda dei fori e delle<br />
istituzioni internazionali dovrà riflettere l’esigenza degli emergenti<br />
di conciliare il loro nuovo ruolo di global players con le<br />
loro agende interne in termini di sviluppo economico e<br />
riduzione della povertà. Dall’altro, i Paesi avanzati - ed in particolare<br />
i membri del G8 - hanno una opportunità comune<br />
nello stimolare le economie emergenti verso un ruolo più fattivo<br />
di responsible stakeholders dell’economia globale,<br />
tenendo peraltro presenti le esigenze di efficienza ma anche<br />
di equità e solidarietà verso la più vasta comunità internazionale.<br />
Nell’ambito dell’eurozona, lo stesso caso della crisi<br />
del debito sovrano ci dimostra che situazioni di crisi in<br />
economie apparentemente piccole e periferiche possono<br />
propagare i propri effetti su scala globale, soprattutto quando<br />
le risposte internazionali restano improntate alla logica del<br />
Verso una diplomazia<br />
“anticipativa”<br />
della globalizzazione<br />
Quali strumenti e quali formati<br />
per la politica estera italiana?<br />
Giandomenico Magliano, Ambasciatore, Direttore Generale per la Mondializzazione, Ministero degli Affari Esteri<br />
47
48 globalizzazione link journal 1/<strong>2012</strong><br />
‘’too little, too late’. Nell’ottica delle responsabilità condivise, un<br />
esempio interessante è rappresentato dalle prospettive programmatiche<br />
in capo al G20. Sono qui necessarie azioni incisive<br />
su tre fronti ai fini di quell’approccio complessivo,<br />
strutturato e cooperativo che è necessario per governare l’economia<br />
globale e i rischi che sottende.<br />
In primo luogo, le politiche per la crescita. Tutti i paesi devono<br />
partecipare allo sforzo comune con la medesima intensità. Ciò<br />
è essenziale in termini economici, ma anche politici, perché<br />
le riforme nazionali “difficili” si sostengono l’una con l’altra.<br />
Bisogna adoperarsi maggiormente per la rimozione degli<br />
squilibri globali: l’asimmetria tra gli impegni di bilancio (quantitativi<br />
e con scadenze puntuali) e quelli sulla crescita e sugli<br />
squilibri (vaghi e senza scadenze) è di tutta evidenza.<br />
In secondo luogo, il sistema monetario internazionale. Il<br />
mondo è cambiato ed il sistema monetario deve cambiare con<br />
esso, a quarant’anni da quel “Nixon Shock” che nell’agosto<br />
1971 portò all’abbandono della convertibilità del dollaro in<br />
oro ed all’avvio del “non-sistema” di cambi flessibili. Raccogliamo<br />
ora i primi frutti di un processo di riforma degli ultimi<br />
anni, ma occorre andare oltre. Questo riguarda in<br />
particolare la composizione e il ruolo dei Diritti Speciali di<br />
Prelievo: si tratta di un passaggio essenziale per costruire un<br />
sistema monetario che rifletta i nuovi pesi nell’economia globale.<br />
In terzo luogo, gli strumenti di prestito del Fondo Monetario<br />
e le risorse disponibili. Dobbiamo completare la<br />
riforma della “cassetta degli attrezzi” che è stata avviata nel<br />
biennio scorso. Il nuovo strumento di facility finanziaria del<br />
Fondo su cui si sta lavorando a breve termine rappresenta un<br />
passo importante, ma è possibile renderlo più incisivo. Il<br />
Fondo deve essere dotato di adeguate risorse per svolgere con<br />
efficacia il suo mandato.<br />
Quali sono le implicazioni di questo processo di rebalancing<br />
per le nostre direttrici di politica estera?<br />
Innanzitutto, dal momento che l’evoluzione dei fondamentali<br />
economici viaggia a ritmi più veloci di quella dell’adeguamento<br />
delle strutture di governance, è necessario che la diplomazia<br />
classica divenga diplomazia “anticipativa” (anticipatory<br />
diplomacy), in modo da prevenire le situazioni di vulnerabilità<br />
prima che esse si manifestino.<br />
A partire dal 2008 le agende dei principali Vertici, europei e<br />
multilaterali, si sono trovate prevalentemente a dover reagire<br />
all’andamento dei mercati finanziari, privilegiando il contingency<br />
planning rispetto alla definizione di soluzioni condivise<br />
e di lungo periodo. È ora opportuno superare l’approccio<br />
tradizionalmente “reattivo” e a “filiere verticali” (stabilità finanziaria,<br />
investimenti e crescita, commercio, ambiente, energia,<br />
nutrizione, salute, tecnologia, proprietà intellettuale, ecc.)<br />
che ancora contraddistingue molti ambiti negoziali, per passare<br />
ad un’impostazione anticipativa che integri i vari settori<br />
di policy in un contesto di interdipendenza e di maggiore coerenza.<br />
La prevedibile evoluzione del multilateralismo in direzione<br />
di un “plurilateralismo” a geometrie variabili sta<br />
rafforzando il ruolo dei fori informali ristretti - come il G20<br />
- rispetto ai processi decisionali strutturati propri delle istituzioni<br />
multilaterali formali. Di fronte a questa molteplicità<br />
di processi e di formati - spesso paralleli - una diplomazia veramente<br />
anticipativa deve sapersi inserire attraverso reticoli,<br />
alleanze e formule spesso fluidi e complessi per propiziare<br />
soluzioni se non ideali quantomeno a somma positiva.<br />
L’emergere di nuovi attori sulla scena internazionale - con<br />
agende differenziate rispetto a quei Paesi industrializzati - sta<br />
comportando l’affermazione di nuovi assetti. Parallelamente<br />
al consolidamento del G20 quale luogo di incontro paritario<br />
fra vecchi e nuovi protagonisti dell’economia globale, si affermano<br />
fori ristretti, rappresentativi di soli Paesi emergenti:<br />
il raggruppamento dei BRICS, nato nel 2003 come accattivante<br />
acronimo coniato da una banca d’affari che selezionava<br />
i titoli finanziari/paese, dal 2009 si è trasformato in BRICS<br />
con Vertici annuali dei Leader di Brasile, Cina, India, Russia<br />
nonché Sud Africa, ciò che ha determinato un importante<br />
luogo di azione collettiva, ad esempio come amplificatore<br />
delle richieste di rappresentatività dei grandi Paesi emergenti.<br />
Anche qui una diplomazia veramente anticipativa deve saper<br />
interloquire con i nuovi protagonisti dell’economia globale,<br />
coniugando le rispettive direttrici bilaterali di politica estera<br />
con la dimensione multilaterale.<br />
E ciò non solo con riferimento ai cinque Paesi BRICS, ma<br />
anche nei confronti di quei Paesi intermedi - i “linchpin<br />
States” - che già oggi svolgono un ruolo essenziale di cerniera<br />
fra le istanze dei Paesi avanzati e delle nuove economie<br />
emerse.<br />
In sintesi, la diplomazia della globalizzazione deve oggi assumere<br />
tre caratteristiche: capacità di anticipazione, per gestire<br />
un sistema di relazioni internazionali sempre più<br />
complesso e vulnerabile; fluidità ed integrazione, in modo da<br />
valorizzare al meglio le interazioni fra le agende dei fori informali<br />
dei leaders e quelle delle istituzioni multilaterali; inclusività,<br />
al fine di stimolare le economie emergenti a svolgere<br />
un ruolo costruttivo di responsible stakeholders dell’economia<br />
globale.
link journal 1/<strong>2012</strong> globalizzazione<br />
Le deboli democrazie alla ricerca<br />
di un nuovo modello di Stato<br />
La globalizzazione, la cui<br />
complessità lascia libero<br />
sfogo ad interpretazioni<br />
contrastanti, viene interpretata<br />
esclusivamente quale fenomeno<br />
che tende ad unire i diversi<br />
popoli della terra attraverso processi<br />
finanziari ed economici la<br />
cui mancanza di trasparenza, evidenziata<br />
dalla recente crisi mondiale,<br />
rende problematici i<br />
rapporti sia a livello nazionale<br />
che internazionale. Gli anni in cui<br />
veniva posta l’importanza di una<br />
governance internazionale, almeno tra quelle nazioni che si<br />
richiamano ai principi della democrazia liberale e che fanno<br />
parte di medesimi organismi internazionali, sembrano lontani.<br />
Le proposte tutt’oggi sul tavolo risentono di una impostazione<br />
protezionistica che inficia le finalità della stessa<br />
governance anche se il lavoro in tal senso non è affatto interrotto.<br />
Nella crisi attuale si notano diverse impostazioni che<br />
mirano a superare in una dubbia competizione finanziaria gli<br />
stessi partner della medesima organizzazione che, al contrario,<br />
dovrebbero interagire per univoche finalità. In sintesi, la rivalità<br />
tra dollaro ed euro, indebolendo quell’area internazionale<br />
basata su una condivisione di valori e di azioni, ha<br />
creato le condizioni per risposte alternative che vedono, oggi,<br />
la Cina ed il Giappone disponibili ad una politica monetaria<br />
che le avvicina senza la mediazione del dollaro o dell’euro. In<br />
questa dinamica ‘globale’ si muovono altri interessi che cercano<br />
anch’essi una propria autonomia e che sono rappresentati<br />
da quei Paesi un tempo considerati in via di sviluppo.<br />
Oggi, quei Paesi rappresentano delle forze in grado di competere<br />
finanziariamente e di condizionare la stessa tensione<br />
all’interno del sistema euroatlantico. Nel processo della globalizzazione,<br />
quindi, vi sono diversi attori con caratteristiche<br />
politiche non similari, ma espressioni di una forza economica<br />
la cui finalità è quella di condizionare lo sviluppo commerciale<br />
e finanziario del sistema internazionale. Tale libertà di movimento<br />
pone il problema dell’adeguatezza delle strutture internazionali,<br />
iniziando dal FMI e dal WTO, ma pone anche<br />
problemi di democrazia reale all’interno dei singoli Stati. Soprattutto<br />
in quelle nazioni che fanno riferimento alla<br />
democrazia liberale. Queste ultime sono apparse come le più<br />
esposte al fenomeno della violenza terroristica e alla crisi eco-<br />
Antonio Suraci - Direttore <strong>Link</strong> Journal<br />
49<br />
nomica mondiale, due aspetti<br />
della globalizzazione. Pur in<br />
grado di dare risposte concrete<br />
su entrambi i fronti, le democrazie<br />
liberali hanno subìto un<br />
affievolimento della forza che<br />
sino ad oggi avevano saputo e<br />
potuto esprimere.<br />
Il possedere una Costituzione, e<br />
far partecipare i cittadini alla<br />
scelta dei go-vernanti attraverso<br />
libere elezioni, oggi non appare<br />
più sufficiente per mantenere in<br />
essere la democrazia e ciò in<br />
quanto i processi decisionali, meno di ieri, sono alla portata<br />
del cittadino. Il fenomeno del terrorismo, aumentando i sistemi<br />
di controllo, ha in qualche misura ristretto le libertà fondamentali;<br />
la crisi economica, non causata dal corpo sociale<br />
ma dall’errato utilizzo della delega, ha coinvolto la cittadinanza<br />
esclusivamente sull’effetto debitorio penalizzandone la<br />
vita sociale, il livello di protezione e la stessa occupazione. In<br />
entrambi i casi, le decisioni sono state assunte senza alcun<br />
coinvolgimento della popolazione e spesso anche al di fuori<br />
delle stesse istituzioni rappresentative. Il mondo globale impone<br />
risposte veloci i cui tempi spesso non rispondono ai riti<br />
delle democrazie liberali. Vi sono molti Paesi che si definiscono<br />
democratici pur avendo sistemi decisionali simili ad un<br />
sistema che non richiede necessariamente, nella formazione<br />
della decisione, il coinvolgimento della popolazione ed anche<br />
se dotati di sistemi elettivi, non sono, in molti casi, paragonabili<br />
a quelli delle democrazie liberali. In questa competizione<br />
globale noi non esportiamo democrazia, ma subiamo,<br />
adeguandoci, la necessità di rispondere celermente alle pressioni<br />
o ad azioni globali, sacrificando lo spirito che sino a<br />
questa rivoluzione contemporanea ci ha caratterizzato.<br />
Se prendiamo in considerazione che per molti il nostro sistema<br />
ha rappresentato il miglior sistema tra i peggiori esistenti,<br />
la porta ad una riflessione alternativa è aperta. Non si<br />
tratta di considerare sistemi autoritari o totalitari, ma di vedere<br />
come la democrazia liberale possa, adeguandosi alle sfide<br />
globali, mantenere in essere i presupposti ideali che la caratterizzano.<br />
Occorre, a questo punto, valutare come e perchè -<br />
essendo la maggioranza dei cittadini costretta a subire decisioni<br />
che ne penalizzano l’esistenza - la lealtà verso lo Stato e
50 globalizzazione link journal 1/<strong>2012</strong><br />
la disponibilità a partecipare ai riti della democrazia si siano<br />
affievolite. In quasi tutti i Paesi occidentali la disaffezione<br />
verso la politica e quindi verso le istituzioni è calcolabile percentualmente<br />
dal dato di astensionismo elettorale e dal<br />
fenomeno di una contestazione, seppure non violenta, sempre<br />
più ampia e rilevabile anche attraverso la lettura dei social-network.<br />
Non vi è una data ‘storica’ da cui partire per definire l’indebolimento<br />
dello Stato, ma è possibile prendere in esame l’arco<br />
degli anni settanta, in cui iniziava ad essere predicata la<br />
parabola del ‘meno Stato, più mercato’. Il laissez-faire, riconducibile<br />
ad un liberismo radicale, ha preso il sopravvento con<br />
l’illusione che i servizi già resi dal pubblico sarebbero stati più<br />
qualificati e a minor costo se offerti dal privato in una libera<br />
competizione. Da questo momento tale pensiero economico,<br />
che diviene politico nelle proposte, crea una incrinatura tra<br />
cittadini e Stato, convinti - i primi - che avrebbero potuto fare<br />
a meno di una entità pubblica che si avviava sul viale del tramonto.<br />
Pur non sostenendo le ragioni dell’uno o dell’altro, è<br />
indubbio che le funzioni di uno Stato non adeguatamente attrezzato,<br />
e non in grado di continuare ad essere fonte di investimenti<br />
per una errata visione populista della propria<br />
missione, hanno generato un distacco costante e continuo dei<br />
cittadini, ancor più penalizzati da forme di ‘rappresentanza<br />
conservativa’ a livello istituzionale. Il risultato di questo combinato<br />
è stato ed è la inadeguatezza nell’elaborare un nuovo<br />
contratto sociale rispondente alle necessità di una mutata visione<br />
economica e politica del mondo. La globalizzazione impone<br />
questa riflessione e la risposta può provocare anche il<br />
radicale cambiamento dei rapporti interni ai singoli Stati.<br />
Partendo dalla recente esperienza, seguendo una riflessione<br />
di Eric J. Hobsbawn, di come ‘il mercato non sia stato complementare<br />
alla democrazia liberale’ e come ‘la partecipazione al mercato<br />
abbia sostituito la partecipazione alla politica’, possiamo ritenere<br />
che entrambe le cause abbiano prodotto un unico effetto: la<br />
partecipazione del cittadino all’economia come consumatore<br />
e fruitore di un benessere illusoriamente duraturo. Il cittadino<br />
si è trovato imbrigliato in un gioco economico senza potersi<br />
rendere conto che andava lentamente indebolendo quell’aggregazione<br />
sociale di cui era parte e della quale oggi sente la<br />
mancanza. Vi è anche un altro aspetto che ci riguarda ancora<br />
più da vicino ed è quello di prendere nella giusta considerazione<br />
l’appartenenza ad una istituzione sovranazionale<br />
quale l’Europa, sempre più pregnante nella vita delle diverse<br />
comunità che ne fanno parte. L’allargamento dei confini<br />
nazionali ha rappresentato un altro elemento di debolezza<br />
dello Stato, anziché di forza e di maggiore rispondenza agli<br />
interessi dei cittadini. Tutti fattori questi che hanno sbilanciato<br />
la politica a favore dell’economia, del mercato più aperto.<br />
Oggi molte voci si levano nel chiedere una diversa e più au-<br />
tonoma funzione dello Stato, un ruolo maggiormente protettivo.<br />
Come vediamo, nei momenti di crisi, come l’attuale,<br />
molti tendono a rinchiudersi e a chiedere ‘più Stato e meno mercato’.<br />
Ma il problema non è questo e chi lo solleva lo sa. Il raggio<br />
di azione dello Stato è profondamente cambiato così il<br />
suo ruolo che necessita di nuove regole interne e di nuove<br />
‘autorizzazioni’ per esercitare politicamente la propria funzione<br />
nella globalizzazione e nella vita sovranazionale in cui<br />
molti Stati hanno scelto da tempo di confluire. Il rapporto<br />
interno deve essere recuperato attraverso l’implementazione<br />
di nuove regole certe che mirino a tutelare lo sviluppo della<br />
vita sociale e l’economia privata con meccanismi di<br />
trasparenza e maggiore responsabilità per chi è chiamato a<br />
gestire questa nuova sfida. Lo Stato-nazione, che chiede una<br />
libertà d’azione sul piano globale, deve saper garantire al proprio<br />
interno la certezza delle regole attraverso un’etica dei<br />
comportamenti che sia guida per coloro che verranno chiamati<br />
a gestire la cosa pubblica. Ciò significa che la politica,<br />
ritrovando se stessa, può garantire quei processi di partecipazione<br />
alla vita nazionale in grado di far rivivere i principi e<br />
i valori della democrazia, anche se sarà necessario individuare<br />
nuovi sistemi e metodi di rappresentanza. Dalla qualità del<br />
nuovo Stato dipenderà la stabilità sociale e una diversa predisposizione<br />
del cittadino a partecipare costruttivamente ai<br />
processi di globalizzazione, senza l’illusione di un mercato in<br />
grado di sostenere e sviluppare il benessere collettivo privato<br />
dell’attenta vigilanza della collettività, quindi dello Stato.<br />
Ritrovare l’amico comune, lo Stato, aiuterà ad affrontare diversamente<br />
il cammino della globalizzazione, lungo il quale,<br />
è bene non farsi illusioni, saremo tutti chiamati a collaborare<br />
partendo da una considerazione, che poi rappresenta la chiave<br />
di lettura prossima futura: nel pensare ad un nuovo ruolo<br />
dello Stato dovremo avere la consapevolezza che questo<br />
dovrà essere riformulato su una diversa sovranità legislativa<br />
ed economica, il che vuol dire che lo Stato-nazione, già messo<br />
in discussione, troverà altre e diverse forme per esistere, ma<br />
non avrà più quelle caratteristiche ‘nazionaliste’ che lo hanno<br />
caratterizzato nel passato. Secondo Ulrich Beck ‘la politica è<br />
chiamata ad ispirare un nuovo modello di Stato, non più basato sulla<br />
sovranità territoriale, ma su una sovranità che risponderà a dei principi<br />
politici, economici e culturali glo-bali.’ Una risposta certa a tale affermazione<br />
ancora non è riscontrabile, ma possiamo ritenere<br />
che la necessità di creare un modello politico che vada oltre i<br />
confini dello Stato sia ormai, pur attraverso curve critiche,<br />
una risposta credibile per una corretta gestione<br />
sovranazionale della globalizzazione, le cui conseguenze<br />
saranno, come indica Benedetto XVI, un comune destino per<br />
tutti gli uomini, una comune responsabilità e una necessaria<br />
concezione positiva della solidarietà “leva concreta dello sviluppo<br />
umano integrale”.
link journal 1/<strong>2012</strong> globalizzazione<br />
Per quale democrazia?<br />
Tahrir, Puerta del Sol, Zuccotti Park:<br />
il risveglio della libertà<br />
“Sono preoccupato per il mio futuro!”, dice un<br />
manifestante newyorkese raccontando il<br />
proprio disagio davanti ad una delle centinaia<br />
di telecamere che registrano ormai<br />
quotidianamente (e moltiplicano) le ragioni<br />
di “Occupy Wall Street” il movimento<br />
americano partito il 17 Settembre nell’omonima<br />
area a sud di Manhattan …<br />
”Ma quale futuro? Non c’è futuro” si intromette<br />
un altro giovane, con convinto<br />
cinismo e gestualità molto italiana. La<br />
crescente paura che ci sia una generazione, forse due, che rischiano<br />
di ‘saltare un giro’ nella giostra della vita, sta inondando le<br />
Piazze del Mondo.<br />
Storie, economie, culture diverse. Diverse accentuazioni sulle<br />
ragioni più immediate delle rivolte o delle manifestazioni: i debiti,<br />
le storture e l’esistenza stessa di questo mercato finanziario<br />
negli States ed in Europa; la rivendicazione di democrazia, libertà,<br />
sviluppo, spesso di ‘pane’ nei Paesi Arabi. Ma ci sono<br />
metodi di lotta simili; linguaggi (web e altro) spesso comuni;<br />
una singolare contemporaneità che crea reciproche influenze;<br />
lo stesso disagio e voglia di affermare che il ‘modello’ (se c’è…)<br />
di governance globale non funziona più e va cambiato.<br />
La crisi economico-finanziaria unisce il Pianeta.<br />
Le ragioni di riflessione su questo anno formidabile arrivano<br />
come fiumi in piena. Nessun ‘idraulico’ per quanto di valore,<br />
potrebbe ancora riuscire ad irreggimentarli in un discorso, non<br />
dico coerente, ma neppure ordinato. Metterò allora solo in fila<br />
pochi titoli, brevissime considerazioni e alcune domande. È già<br />
troppo per Twitter, ma magari potrà scimmiottare un blog.<br />
Prendiamo spunto dalle recentissime elezioni egiziane.<br />
Il Movimento rivoluzionario di Piazza Tahrir, mentre tornava<br />
ad occupare la Piazza contro il Consiglio Supremo delle Forze<br />
Armate, accusato di volersi sostituire a Mubarak, senza cambiare<br />
la sostanza del regime, è stato piuttosto tentato, in molte<br />
sue componenti, dal boicottaggio e dall’astensione. “No al voto<br />
sotto tutela, la piazza decide”, uno degli slogan dopo aver avuto<br />
altre 42 persone morte sotto i colpi della repressione.<br />
Ma la gente è andata in massa alle urne. Il 70% degli aventi<br />
diritto, una percentuale mai raggiunta. Sono milioni di elettori.<br />
È popolo che ha esercitato la più evidente, la più formale, la<br />
meno ambigua’forma di ‘democrazia diretta’: il voto. Quasi il<br />
40% di egiziani si è schierato con i Fratelli Mussulmani, la mag-<br />
Maurizio Zandri, SudgestAid<br />
“Sono le onde<br />
che fanno le spiagge,<br />
ma lì per lì nessuno<br />
se ne accorge”<br />
51<br />
gioranza ‘moderata’ prevista. Ma almeno<br />
il 20 – 23% ha votato per i Salafiti di Al<br />
Nour, un gruppo che vuole l’introduzione<br />
della legge coranica come legge<br />
dello Stato e che dice che in nessun luogo<br />
pubblico potranno esserci uomini e<br />
donne seduti insieme.<br />
Ma allora, insieme al Web, a Twitter, forse<br />
un’altra rete ha lavorato in questi mesi,<br />
radicata nei quartieri e nelle campagne,<br />
che lanciava messaggi nei mercati, organizzava<br />
assistenza: la rete delle Moschee e quella delle forze<br />
musulmane organizzate. Anche questo è un ‘movimento’, ma<br />
ha una rappresentanza. E’ stato solo parzialmente protagonista<br />
nei media che parlavano di Piazza Tahrir. Ma oggi ha la maggioranza<br />
del Paese.<br />
A ben vedere questo esempio si presta ad alcune generalizzazioni<br />
e consente di porsi questioni per molti versi cruciali.<br />
Vediamo.<br />
1. Il ruolo dell’ organizzazione<br />
Quale rapporto può/deve avere un Movimento con la scelta<br />
della rappresentanza politica, con le elezioni, e, in fin dei conti,<br />
con l’organizzazione? Abbiamo visto che Tahrir è stata in grado<br />
di abbattere un dittatore (non senza un doppiogiochismo calcolato<br />
delle Forze Armate, è il caso di aggiungere). Vuole giocare<br />
un ruolo nel governare il dopo Mubarak? Organizzato<br />
come? Delegando chi?<br />
Senza rispondere alla fase 2 che ogni movimento rivoluzionario<br />
si trova davanti, quella di come consolidare il proprio successo,<br />
quello che normalmente accade è, sembrerebbe di poter dire,<br />
una di queste due cose:<br />
- chi è già organizzato può agevolmente fare proprio il<br />
patrimonio della ‘rivoluzione’, gestendolo per il proprio successo;<br />
- in mancanza di organizzazione non si convoglia la<br />
simpatia di chi è rimasto a casa, ‘della maggioranza silenziosa’,<br />
non gli si dà modo di esprimersi e chi si oppone alla “rivoluzione<br />
può agevolmente recuperare consenso”. In Spagna, ad<br />
esempio, gli Indignados che insistono sul nessuno ci rappresenta<br />
anche in polemica con una sinistra al Governo che li ha delusi,<br />
sono stati coerenti sino in fondo alle ultime elezioni: non hanno
52 globalizzazione link journal 1/<strong>2012</strong><br />
assolutamente pensato a delegare qualcuno. Il Centro Destra ha<br />
ottenuto il 44% dei voti.<br />
2. La delega<br />
Il ragionamento sull’organizzazione confina direttamente, come<br />
si è appena visto, con quello<br />
sulla delega. Ma si possono fare,<br />
in questo caso, delle considerazioni<br />
aggiuntive.<br />
A Zuccotti Park, dove ad esempio<br />
c’è molta organizzazione interna,<br />
si pratica volutamente<br />
l’assenza di qualsiasi delega sia<br />
all’interno che all’esterno. Ci si<br />
auto-costruisce un mondo simbolico<br />
che però vive davvero<br />
una sua realtà parallela. E’ la<br />
critica più decisa di un modello<br />
sociale controllato dall’1% di<br />
privilegiati, da coloro che hanno<br />
consolidato, delega dopo delega,<br />
un potere che va a vantaggio solamente<br />
di chi lo esercita. Ma è possibile governare senza delegare?<br />
É possibile vivere un’esperienza di testimonianza,<br />
praticare un esempio, isolare un caso e usarlo, nel tempo, per<br />
diffonderlo, come un virus ‘benigno’.<br />
É possibile diventare santi. Ma si potrà mai gestire, non dico<br />
una Nazione, ma un villaggio, un ospedale, attraverso Assemblee<br />
che votano all’unanimità?<br />
Bisogna temere la ‘democrazia rappresentativa’ che dà spesso<br />
rappresentazioni sconsolanti di sé?<br />
O si deve, forse, lavorare di più sulle sue regole, sulla sua<br />
trasparenza, sui controlli?<br />
Far convivere, interagire forme di democrazia diretta e<br />
democrazia rappresentativa non è un modo per garantire che<br />
la prima rafforzi, integri e controlli la seconda?<br />
3. Tra maggioranza e minoranza<br />
Quando a Tahrir come a Madrid, a Tunisi come a New York,<br />
sotto i colpi della repressione si vacilla, ma poi, anche eroicamente,<br />
si resiste; e poi si diviene famosi e si ottengono risultati<br />
inimmaginabili in poco tempo, allora si vive anche una stagione<br />
di esaltazione e orgoglio che finisce immancabilmente per far<br />
coincidere la propria immagine con quella del ‘popolo’, il<br />
Popolo Arabo al suo completo a Tharir, il 99% della popolazione<br />
del pianeta a Zuccotti. Poi si scopre che qualche milione,<br />
la quasi maggioranza di spagnoli è per la conservazione dello<br />
status quo e i rappresentanti di una cultura religiosa medioevale<br />
sono più numerosi di chi “chatta” al Cairo.<br />
E allora nascono frustrazione e riflusso. Negli anni, anche con<br />
l’esperienza diretta, ho maturato una similitudine. I movimenti<br />
di protesta, rivoluzionari, radicali o anche solo legati ad obiettivi<br />
specifici, forse sono un po’ come le onde del mare.<br />
Quando rifluiscono seguono la propria natura. Poi tornano.<br />
Il loro successo non si misura<br />
con la porzione di terra che<br />
inondano permanentemente,<br />
ma con i sedimenti che lasciano.<br />
Nel tempo, sono le onde che<br />
fanno le spiagge, ma lì per lì nessuno<br />
se ne accorge.<br />
Se i protagonisti dei movimenti<br />
limitassero il loro autorappresentarsi<br />
come soluzione alternativa<br />
permanente allo stato di<br />
cose esistente.<br />
Se sapessero prima che il movimento<br />
non è tutto e che l’assemblea<br />
è soltanto una delle tante<br />
forme di decisione. Che sono<br />
un elemento vitalissimo di<br />
democrazia; la via, molto spesso, della rottura di una situazione<br />
insostenibile, ma non la democrazia o il modello salvifico delle<br />
nuove relazioni sociali, ci sarebbe meno romanticismo, certo,<br />
ma anche meno delusioni e senso di sconfitta.<br />
4. Nuove alleanze e società intermedia<br />
Infine, bisognerebbe forse valorizzare la pluralità delle rappresentanze,<br />
gli innumerevoli passaggi dei processi decisionali di<br />
una società complessa.<br />
Consolidare in forme di associazionismo, in partiti, sindacati,<br />
la ricchezza di interessi della società è un formidabile antidoto<br />
contro il cortocircuito popolo-leader, mediato dai mezzi<br />
tradizionali di comunicazione di massa, che toglie protagonismo<br />
alla gente, portandola verso una deriva plebiscitaria in<br />
cui il ‘voto’ non è più una forma di democrazia ma di alienazione<br />
del proprio ruolo.<br />
Le infinite possibilità orizzontali dell’epoca di internet garantiscono<br />
non solo le autoconvocazioni di grandi assemblee di<br />
popolo e la loro autorganizzazione, ma anche la capacità di dialogo<br />
e organizzazione tra numerosi, diversi livelli intermedi. I<br />
movimenti sono spesso momenti di sintesi. Luogo di confluenza.<br />
Quando la loro carica di innovazione e rottura<br />
affievolisce, una società intermedia organizzata e ricca di forme<br />
di vivace vitalità permette di immagazzinare e utilizzare l’energia<br />
che hanno sprigionato.
link journal 1/<strong>2012</strong> globalizzazione<br />
IL CALENDARIO DI UN FORMIDABILE 2011<br />
Tutto parte, almeno in termini di avvenimenti, perché<br />
le ragioni affondano le radici assai più indietro, il 17<br />
Dicembre 2010, quando Mohammed Bouazizi si dà<br />
fuoco davanti al Municipio di Sidi Bouzid, nel cuore della<br />
Tunisia. La polizia gli aveva sequestrato il banco di frutta e<br />
verdura, sostenendo che non avesse la licenza per vendere.<br />
Il giovane aveva protestato ed era stato picchiato, tanto da<br />
dover essere portato in ospedale.<br />
Da quel fuoco, di fatto, parte un incendio che nessuno ha<br />
ancora spento.<br />
A guardarlo da vicino è un calendario sorprendente per la<br />
dimensione degli avvenimenti e la portata delle conseguenze<br />
politiche e istituzionali, che faranno del 2011 un<br />
anno che rimarrà nella storia del nuovo secolo, speriamo<br />
anche per aver trasformato l’inverno (la stagione vera dell’avvio<br />
di tutto) in una ‘Primavera’:<br />
- In Tunisia, dunque, già dal 18 Dicembre 2010, giovani<br />
laureati, studenti senza futuro e poi via via altri settori<br />
di èlite intellettuale e di popolo inondano le piazze della<br />
Capitale. Appena 28 giorni dopo, Ben Ali, il presidente -<br />
padrone per 24 anni della Tunisia - si dimette e ripara in<br />
Arabia Saudita.<br />
- Ancora meno tempo, solo 17 giorni dalla partenza<br />
del movimento il 25 <strong>Gennaio</strong> a Piazza Tahrir, ci mettono<br />
gli Egiziani a dare una spallata definitiva al Faraone Hosni<br />
Mubarak, 30 anni esatti di potere, chiusi formalmente l’11<br />
Febbraio.<br />
- Serve la Nato a dare una mano ai Libici inferociti<br />
contro Gheddafi che ha fatto sparare sulla folla a Bengasi<br />
il 17 febbraio, mentre si manifesta per l’arresto di un militante<br />
per i diritti civili. Ma alla fine, il 20 Ottobre, dopo 42<br />
anni di potere assoluto il Raìs viene catturato e ucciso.<br />
- Contemporaneamente il 14 febbraio l’opposizione<br />
yemenita prende coraggio e lancia la sua sfida ai 33 anni di<br />
potere ininterrotto di Ali Abdhalla Saleh. Il 23 novembre,<br />
dopo molti morti, spaccature nell’esercito, un attentato al<br />
Palazzo presidenziale dove rimane gravemente ferito, Saleh<br />
si dimette a conclusione di una lunga mediazione gestita<br />
dall’Arabia Saudita.<br />
- In altri Paesi, tra cui Bahrein, Algeria, lo stesso<br />
Iran, si sviluppano nello stesso periodo manifestazioni e<br />
proteste, alcune come in Bahrein represse nel sangue o<br />
sostanzialmente tenute sotto controllo, come in Algeria, dall’Esercito<br />
che governa direttamente il Paese.<br />
- In Siria, intanto, dopo l’uso di carri armati, 3500<br />
morti e la molto timida reazione occidentale, si è ancora,<br />
drammaticamente in attesa di un punto di svolta.<br />
- Dall’esempio arabo, prende le mosse il 15 Maggio<br />
con l’occupazione della Puerta del Sol a Madrid, il movimento<br />
degli indignados in Spagna. Ai colpi di una crisi economica<br />
e finanziaria che sconquassa l’Europa e rende molto<br />
incerto il futuro (a causa della quale già dal 2008 anche<br />
Atene è attraversata da moti di protesta che sconfinano nella<br />
ribellione aperta ai tagli imposti dall’Unione Europea e dalle<br />
banche creditrici), si unisce la rabbia per il fallimento dell’esperienza<br />
di governo socialista. “Nessuno sconto a chi<br />
governa, nessuno ci rappresenta” è il messaggio del movimento.<br />
- Londra, Berlino, Roma e molte altre Capitali del<br />
Vecchio Continente si riempiono di manifestanti, in un<br />
susseguirsi di azioni di protesta che si influenzano vicendevolmente,<br />
si scambiano ‘pratiche’ sul Web, si autoconvocano<br />
“perché non vogliamo pagare debiti che non abbiamo fatto”.<br />
- Nella Capitale della finanza mondiale, a New York,<br />
ci si prepara per mesi prima della data simbolo del 17 settembre<br />
in cui, come abbiamo visto, viene occupato Zuccotti<br />
Park. La crisi finanziaria americana esplosa nel 2008, ha<br />
visto il Governo e Obama, che certo molti partecipanti ad<br />
“Occupy Wall Street” hanno votato, intervenire rifinanziando<br />
le banche. OWS non è d’accordo. Dice che i soldi andrebbero<br />
dati alle famiglie, a chi non riesce a pagare il mutuo o<br />
gli interessi sulle carte di credito.<br />
Non si fa illusioni su obiettivi intermedi raggiungibili a<br />
breve. Guarda alla Primavera Araba ma sa che non ci sono<br />
spallate possibili in America.<br />
Parte e si consolida, allora, un’esperienza nuova, che pratica<br />
l’obiettivo, stabilisce sistemi di solidarietà interna che si<br />
vivono direttamente in piazza, organizza mense e librerie e<br />
soprattutto, anche pagando lo scotto di commissioni e assemblee<br />
che durano giorni, lancia il suo messaggio più radicale<br />
per un movimento, per la politica, per la società:<br />
Occupy Wall Street è ‘leaderless’! E con coerenza protestante<br />
non solo non si delega a leader, ma non ci sono<br />
neanche ‘portavoce’. L’Assemblea Generale non decide a<br />
maggioranza ma continua a discutere, deve puntare a decidere<br />
alla quasi unanimità. OWS è apartitica, aconfessionale,<br />
ci sono tutti i colors… E’ l’espressione “del 99% della<br />
popolazione contro l’1% ricco che esercita il potere”.<br />
53
54 globalizzazione link journal 1/<strong>2012</strong><br />
Lo sviluppo del commercio e la crisi del reddito<br />
Abbandoniamo<br />
il sogno dell’iperbole<br />
Esiste una stretta correlazione - come è noto - tra consumi<br />
e reddito e, quindi, tra produzione e possibilità<br />
di spesa. In questo legame deve essere ricercata la<br />
comprensione dei percorsi che possono essere intrapresi per<br />
interrompere il circolo vizioso che ha reso l’attuale crisi dei<br />
mercati un fenomeno non solo afferente gli equilibri finanziari<br />
delle Nazioni, ma anche e soprattutto le economie reali dei<br />
sistemi su cui si è abbattuta.<br />
La crisi globale, da un triennio a questa parte, appare tutt’altro<br />
che fenomenica, quanto piuttosto ciclica, con ritorni stagionali<br />
di varia intensità: come i tifoni asiatici o gli uragani americani,<br />
in realtà la crisi, o meglio, le crisi partono da lontano. Più precisamente,<br />
nel 2011 i Governi affrontano tempeste nate altrove<br />
e in altri tempi, in USA nel 2007, quando -<br />
improvvisamente, ma col senno di poi è scontato dirlo - si è<br />
cercato di arginare il temuto default di primarie banche, innescato<br />
a sua volta dal default di crediti concessi con eccessiva<br />
prodigalità, indebitando intere<br />
Nazioni, oggi esposte al default<br />
del Sistema Paese,<br />
qualunque Paese, tranne forse<br />
i Paesi creditori ‘ultimi’, come<br />
la Cina, che - dopo dieci anni<br />
di crescita ininterrotta - non piange<br />
ancora, ma ha senz’altro<br />
smesso di ridere. Ciò dimostra<br />
che, in un contesto globalizzato,<br />
il virus della crisi tocca<br />
immediatamente realtà economico-sociali<br />
di diversi Paesi, causando un effetto contagio,<br />
più o meno veloce, a seconda delle capacità di reazione dei<br />
singoli sistemi: si pensi al default dell’Argentina, in cui nell’ottobre<br />
2011 si sono rimborsati titoli del debito pubblico<br />
risalenti a quindici anni fa, al 30% del loro valore facciale, con<br />
una perdita di valore subita dagli investitori internazionali pari<br />
al 70%. Alla luce di tale esperienza, risulta ancor più attuale la<br />
minaccia di una distruzione di valore generalizzata.<br />
Cosa si possa fare per impedire il fallimento dei singoli Stati<br />
ed evitare il rischio di contagio all’economia mondiale -tutt’altro<br />
che scongiurato, visti gli andamenti dei mercati fi-<br />
Claudio Patalano, <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />
Lo sviluppo continuo<br />
è un modello<br />
non più attuabile, perché,<br />
molto semplicemente,<br />
non è più sostenibile<br />
nanziari mondiali - è il quesito ricorrente, quasi ossessivo, a<br />
cui non si trovano risposte passepartout.<br />
Il problema ha due corni, come il Diavolo nell’iconografia<br />
medievale: il debito e la crescita.<br />
Se è vero - come avrebbe detto Keynes - che in tempo di crisi<br />
servono investimenti pubblici anche solo per scavare buche<br />
e riempirle, così da generare reddito spendibile a sostegno<br />
della produzione, i Paesi si interrogano sulla validità dell’investimento<br />
a pioggia.<br />
Nella migliore delle ipotesi alimenta solo le cc.dd. ‘economie del<br />
trickle down’: a chi è assetato davvero arrivano solo le gocce di<br />
un flusso di marea che alimenta prevalentemente corruzione<br />
ed inefficienze. Nella peggiore delle ipotesi si traduce in<br />
spreco massivo, soprattutto se le buche riempite non sono sul<br />
patrio suolo.<br />
Peraltro, non può nascondersi che le politiche keynesiane non<br />
sono più perseguibili sic et simpliciter a livello mondiale, in<br />
quanto lo scenario operativo è<br />
fortemente mutato.<br />
Si prenda, ad esempio, l’Italia.<br />
La regolamentazione europea<br />
volta alla restrizione degli aiuti<br />
di Stato - pur con il pregio di<br />
stimolare la competizione e la<br />
libera concorrenza - ha vanificato<br />
in gran parte il tentativo di<br />
pianificare in modo strutturale<br />
gli investimenti pubblici<br />
affinché siano di beneficio agli<br />
operatori locali: per costruire cinquecento metri di Salerno-<br />
Reggio Calabria occorre bandire gare aperte a competitori europei,<br />
che - liberi di contrarre i prezzi perché non soggetti al<br />
‘controllo sociale’ delle comunità servite dall’autostrada - finiscono<br />
inevitabilmente per vincere la maggioranza delle gare,<br />
portando all’estero il valore creato, talvolta abbassando gli<br />
standard qualitativi del prodotto reso e costringendo i lavoratori<br />
a contratti capestro che ne riducono, fisiologicamente,<br />
motivazione e, quindi, produttività.<br />
La globalizzazione ha fatto il resto: l’esternalizzazione delle<br />
attività produttive all’estero ha distrutto ‘gli indotti’, in gran
link journal 1/<strong>2012</strong> globalizzazione<br />
parte dei settori manifatturieri, contribuendo all’impoverimento<br />
dei distretti specializzati e al trasferimento delle<br />
conoscenze/competenze e della cultura economica altrove.<br />
D’altronde, applicare politiche volte all’incremento della pressione<br />
fiscale - soprattutto sui redditi medio-alti - in assenza di<br />
un’avveduta negoziazione sui fattori di spesa, è divenuto un<br />
elemento di forte destabilizzazione degli equilibri politici,<br />
come dimostrato dagli Stati Uniti di Obama, alle prese con<br />
l’innalzamento del tetto del debito e il rischio default, che - per<br />
non scontentare i Tea Party, subendone i veti - hanno rinunciato<br />
a politiche espansive, finendo per esasperare, con tagli<br />
alla spesa sociale in assenza del necessario consenso, un’intera<br />
generazione, quella che in questi giorni manifesta e che si è<br />
organizzata nel movimento Occupy Wall Street.<br />
Si sarebbe tentati di dare al problema soluzioni di modello<br />
franco-tedesco, contenendo il debito sino all’azzeramento dei<br />
finanziamenti pubblici in molti settori: un approccio liberista,<br />
temperato da attenzione al welfare, che tuttavia genera non<br />
pochi problemi quando il Mercato, in preda ai propri demoni<br />
interni, Speculazione e Panico, non consente di governarne<br />
orientamenti e reazioni, inducendo a soluzioni drastiche,<br />
spesso impattanti sulle condizioni stesse per il rispetto di principi<br />
elementari di equità sociale.<br />
Probabilmente, dinnanzi a questa crisi, si dovrebbe pensare<br />
in modo non allineato alle tendenze prevalenti, senza subire<br />
il condizionamento della rigida dicotomia tra politiche espansive<br />
e restrittive.<br />
Coraggiosamente, si dovrebbe attuare un approccio<br />
‘omeopatico’, per così dire: intervenire sul sistema del credito,<br />
rinnovandone la vision, al contempo promuovendo<br />
politiche orientate alla crescita interna, sostenendo l’imprenditoria<br />
nella sua capacità di produrre reddito, riqualificando<br />
la spesa pubblica con rigore, ma evitando tagli ‘orizzontali’,<br />
solo apparentemente egalitari.<br />
Il percorso da intraprendere appare per certi versi incoerente:<br />
si vogliono incoraggiare le Banche, viste da tutti come la causa<br />
della crisi, e si vuole sostenere il reddito, quando tutti invitano<br />
a ‘tirare la cinghia’. Al contrario, osservazioni di tale segno appaiono<br />
fuori fuoco.<br />
Gran parte dei problemi dell’economia reale scaturisce dal c.d.<br />
credit crunch, ovvero dalla contrazione del mercato del credito,<br />
in cui un ruolo hanno giocato sia la mancanza di liquidità interbancaria,<br />
che un outlook negativo sull’economia reale.<br />
Basilea II ha completato l’opera con effetti indubitabilmente<br />
pro-ciclici, imponendo sistemi di valutazione più rigidi, che<br />
hanno penalizzato fortemente gli apprezzamenti dei valori intangibili<br />
delle aziende (si pensi alle start-up), nonché il mantenimento<br />
di rapporti costanti tra impieghi e raccolta che, in<br />
55<br />
un momento di scarsa capitalizzazione, ha finito per interrompere<br />
il normale flusso dell’erogazione del credito.<br />
Quanto alle politiche del reddito, forse sinora si è chiesto di<br />
‘tirare la cinghia sbagliata’: le politiche di gettito hanno imposto<br />
sacrifici alle famiglie e alle piccole e medie imprese, facendo<br />
poco o nulla per costringere l’economia a instradarsi su sentieri<br />
virtuosi, ad esempio permettendo l’emersione del ‘nero’<br />
e perseguendo l’evasione.<br />
Non deve stupire che l’Italia sia divenuta così fragile da essere<br />
preda della speculazione borsistica sui titoli di debito emessi<br />
dallo Stato: un Paese che non sa esattamente quali scelte compiere<br />
per il futuro, che dimostra scarsa fermezza nel superamento<br />
delle proprie debolezze, non offre grandi rassicurazioni<br />
sulla sua capacità di governare i fenomeni esogeni, quindi consente<br />
che i dubbi sulla sua tenuta si trasformino in panico e<br />
le aspettative sulla sua crescita in un gioco al ribasso.<br />
Intanto, i primi nove mesi del 2011 hanno messo al tappeto<br />
novemila imprese, circa trenta imprese al giorno, fallite nella<br />
peggiore delle ipotesi, o entrate in quell’area di disfacimento<br />
auto-alimentato che è la spirale della sofferenza bancaria.<br />
Coerentemente, il numero degli incagli e dei passaggi alle categorie<br />
di credito sotto osservazione sono esplosi, con un incremento<br />
che recenti studi di settore hanno quantificato in<br />
circa il 35,5% rispetto al 2009, quando si pensava che la crisi<br />
stesse lentamente rientrando. L’ultima relazione del Governatore<br />
della Banca d’Italia Draghi, infatti, pur minimizzando,<br />
parla esplicitamente di ‘lieve recessione’.<br />
Pertanto, si comprende come intervenire su una crisi finanziaria,<br />
come era quella del 2007, con approcci finanziari,<br />
senza tener conto degli effetti sull’economia reale, ha dimostrato<br />
di essere una scelta scarsamente proficua, se non<br />
addirittura disastrosa.<br />
Bisogna ripartire dal reddito, più che dal debito, pur conservando<br />
strategie che lo tengano sotto controllo: per fare ciò,<br />
ovvero sostenere la crescita senza indebitare ulteriormente lo<br />
Stato, si deve cominciare a ragionare in ottica di sostenibilità e<br />
di responsabile partecipazione di tutta la classe dirigente ed imprenditoriale.<br />
Se le banche non possono erogare credito perché sono prive<br />
di sufficienti mezzi patrimoniali, bisogna promuovere il<br />
risparmio delle famiglie in forma di deposito, senza motivare<br />
fughe dall’investimento bancario con un aggravio degli oneri<br />
fiscali. Quando le imprese non creano occupazione, occorre<br />
regolamentare meglio il mercato del lavoro, disincentivando<br />
precarizzazione e sperequazioni generazionali, motivando -<br />
con benefici anche fiscali - gli imprenditori ad investire nell’innovazione<br />
e nell’internazionalizzazione, per creare in Italia<br />
le condizioni di un miglioramento effettivo degli standard
56 globalizzazione link journal 1/<strong>2012</strong><br />
qualitativi di vita dei lavoratori, principali apportatori di reddito<br />
alla comunità, tramite la stabilizzazione delle aspettative<br />
positive sulla certezza e sul valore effettivo dello stipendio,<br />
con ovvi ritorni sulla propensione alla spesa.<br />
Infatti, far sì che il sistema economico investa in Italia il proprio<br />
capitale umano, tecnologico e finanziario, certo che la<br />
ricchezza prodotta per il Paese si tradurrà in un rafforzamento<br />
della domanda, può dare vigore alla crescita dei consumi.<br />
Molto ancora può fare lo Stato, investendo le poche risorse<br />
disponibili canalizzandole sulla ricerca, sulla competenza e sul<br />
merito. È mancata sinora una “mente economica”, cioè l’abilità<br />
di tenere insieme le varie anime del Leviatano e la capacità<br />
di riscrivere il “contratto sociale” in prospettiva di<br />
convergenza verso esigenze comuni, piuttosto che verso la<br />
Il Web: ‘agorà’ virtuale<br />
per il confronto<br />
e la partecipazione<br />
democratica<br />
Nelle elezioni presidenziali degli Stati Uniti, nell’ottobre<br />
del 2008, Bararak Obama batte l’avversario repubblicano<br />
McCain grazie alla mobilitazione al voto<br />
di settori tradizionalmente astensionisti, in particolare le minoranze<br />
e i giovani. Nel febbraio del 2011, dopo un trentennio<br />
al potere, Hosni Mubarak lascia la Presidenza dell’Egitto<br />
a seguito delle multitudinarie manifestazioni di protesta, simboleggiate<br />
dai giovani di piazza Tahrir. Fenomeni assai diversi<br />
tra loro, ma accomunati da un uso inedito della rete e dei social<br />
network come fattore agglutinante di mobilitazione e<br />
partecipazione.<br />
Internet incide oggi sui fenomeni di creazione del consenso,<br />
sulla partecipazione e perfino sull’organizzazione della<br />
protesta e muta profondamente le regole della comunicazione<br />
politica tradizionale. Per chi fa politica “abitare la<br />
rete” è oggi una grande sfida ed insieme un’opportunità. Gli<br />
strumenti che essa offre consentono di far circolare idee e<br />
proposte in modo interattivo ed ampio, di creare un dialogo<br />
inedito con i cittadini e le organizzazioni di base in grado di<br />
rafforzare una leadership politica oggi offuscata dal disin-<br />
Roberto Lippi - <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />
disaggregazione e lo scontro, visto che – mai come ora – si<br />
può ragionare su premesse condivisibili, se non fondate su<br />
ottiche concordi.<br />
In sintesi, bisognerebbe riscoprire le logiche della “classe<br />
media”, realtà socio-economica compressa entro angusti spazi<br />
dall’estremizzazione delle politiche degli ultimi anni, riprendendo<br />
la tradizione dei criteri dell’equilibrio e dell’armonia,<br />
fondati su approcci cc.dd. ‘stop & go’, che permettano di affrontare<br />
le urgenze una per volta, prioritizzandole per step<br />
progressivi di azione e consolidamento dei risultati delle scelte<br />
compiute.Lo sviluppo continuo, secondo curve verticali, è un<br />
modello non più attuabile, proprio perché, molto semplicemente,<br />
non è più sostenibile: bisogna abbandonare il sogno<br />
dell’iperbole.<br />
canto e da una distanza sempre più evidente tra il palazzo e<br />
le piazze. Ma facilitano anche la mobilitazione e l’organizzazione<br />
del dissenso, riconsegnando proprio alle piazze – virtuali<br />
o reali che siano - quel ruolo di pungolo della politica<br />
che sembrava sopito nell’ultimo decennio.<br />
Per molti oggi la rete equivale ad una enorme piazza virtuale,<br />
in cui i social network corrispondono alle moderne tribune,<br />
luoghi di discussione e di partecipazione democratica, spazi<br />
del confronto continuo e costante. Un potenziale dagli incredibili<br />
ritmi di crescita, quello della rete e dei nuovi social<br />
media, se è vero che la televisione ha impiegato 13 anni per<br />
raggiungere un audience di 50 milioni di persone, mentre<br />
Facebook ha raggiunto lo stesso risultato in pochi mesi, ed<br />
oggi conta oltre mezzo miliardo di utenti attivi.<br />
“L’ho visto su Facebook” è un’affermazione ormai comune<br />
negli uffici, nelle scuole, in autobus. La diffusione di quelli<br />
che vengono definiti “media conversazionali” è ormai tale<br />
che “esserci” si avvia a diventare molto più comune che “non<br />
esserci”. Quella che prima era stata definita “era dell’accesso”
link journal 1/<strong>2012</strong> globalizzazione<br />
è divenuta ormai “era della presenza”. La Rete<br />
non ha soltanto attuato un processo di rimediazione<br />
degli altri strumenti di comunicazione<br />
(televisione e carta stampata in primis) ma,<br />
trasformando l’utente da spettatore o lettore in<br />
vero e proprio interattore, sta profondamente e<br />
inesorabilmente mutando il sistema dei media<br />
ed il modo stesso di fare comunicazione, anche quella politica,<br />
che non può più essere unidirezionale.<br />
La diffusione massiccia del mezzo televisivo, appena pochi<br />
decenni fa, aveva già mutato profondamente le forme della<br />
comunicazione politica, un tempo veicolata dalle sezioni di<br />
partito. La TV è risultata essere un mezzo estremamente efficace<br />
per raggiungere il maggior numero di elettori, ma con<br />
il limite che pone tutto il pubblico su uno stesso piano, rivolgendosi<br />
alla generica categoria del “cittadino astratto”, senza<br />
alcun vero contraddittorio possibile. Ciò ha portato a concentrarsi<br />
più sugli aspetti legati alla personalità del leader politico<br />
che sui contenuti del suo discorso, esasperando i toni del dibattito<br />
e ricercando l’effetto annuncio per le proposte.<br />
L’avvento di Internet e degli strumenti propri di quello che è<br />
stato definito “web 2.0” destruttura e ridefinisce secondo<br />
nuove modalità il rapporto tra gli eletti e gli elettori, con una<br />
rinnovata centralità del cittadino-elettore, che pone il politico<br />
nella condizione di dover ripensare attentamente il rapporto<br />
e i contenuti della propria azione.<br />
Vari autori affermano che ci troviamo oggi di fronte a un contesto<br />
inedito dal punto di vista storico: la transizione dall’universo<br />
della televisione all’universo di Internet. Ovvero, il<br />
passaggio dalla “teledemocrazia” alla “cyberdemocrazia”.<br />
In contesti diversi dal nostro, come ad esempio quello degli<br />
Stati Uniti, la rete è già entrata a pieno titolo nelle strategie di<br />
comunicazione dei politici, tanto come strumento da adottare<br />
attivamente per una comunicazione più efficace, quanto come<br />
contesto da conoscere per evitarne le trappole e le minacce.<br />
Anche da noi alcuni leader politici stanno cogliendo i segnali<br />
di cambiamento e stanno entrando nella conversazione,<br />
guardando con maggior attenzione queste forme di comunicazione<br />
“dal basso”. Anche se va comunque sottolineato che,<br />
nonostante la portata e le profonde implicazioni della rivoluzione<br />
in atto, un impatto determinante dell’utilizzo della<br />
Rete sulle consultazioni elettorali non è ancora stato dimostrato<br />
e che molti analisti sostengono che ad oggi “Internet<br />
ancora non sposta voti”. Ma quali che siano gli effetti diretti<br />
sui processi elettorali odierni, nessuno pone in dubbio che la<br />
rete sia oggi un ambito strategico per amplificare il proprio<br />
discorso e rafforzare la capacità di convinzione presso l’elettorato<br />
di riferimento. E mano a mano che i “nativi digitali”<br />
diverranno cittadini-elettori, Internet e i social network in-<br />
57<br />
cideranno con sempre maggior determinazione<br />
sui processi di creazione del consenso, sulle capacità<br />
di far emergere leadership politica, sulle<br />
relazioni dinamiche tra la politica e i gruppi più<br />
o meno organizzati di interesse.<br />
Ignorare il ruolo della rete, allora, può portare<br />
con sé il rischio di perdere il legame con una<br />
parte significativa della società e con le sue forme di organizzazione,<br />
riducendo la capacità di costruire il consenso in<br />
modo consapevole o canalizzare il dissenso in forme costruttive<br />
di dialogo. Ciò è vero anche nel nostro Paese, dove negli<br />
ultimi anni si è assistito ad un allontanamento generalizzato<br />
dei cittadini, ed in particolare dei giovani, dalla politica, almeno<br />
nelle sue forme tradizionali. Di fatto, i partiti politici<br />
sembrano sempre meno capaci di svolgere la loro funzione<br />
di raccordo e mediazione tra cittadino ed istituzioni, di organizzare<br />
l'azione collettiva e di costruire identità politiche. Le<br />
nuove generazioni esprimono in maniera evidente l’allontanamento<br />
dalla dimensione pubblica. Allontanamento spesso accompagnato<br />
da fenomeni di disillusione e di erosione delle<br />
forme di legittimità riconosciuta alla classe politica nel suo insieme.<br />
Tendenza questa confermata dall’andamento decrescente<br />
della partecipazione ai momenti elettorali che si sono tenuti<br />
nell’ultimo quinquennio, dove - invertendo la tradizione storica<br />
del dopoguerra - si è visto un progressivo allineamento del<br />
nostro Paese alle percentuali di astensionismo tipiche di altre<br />
democrazie occidentali. Un astensionismo che si caratterizza<br />
come fenomeno politicamente rilevante in sè, ma che riveste<br />
caratteristiche di vero e proprio allarme, se si considera l’incidenza<br />
del fenomeno tra le giovani generazioni.<br />
D’altro canto, però, sia in Italia che all’estero - ed in primis<br />
nella cosiddetta “primavera araba” - la Rete e i social network<br />
hanno mostrato tutto il proprio potenziale in termini di organizzazione<br />
della protesta, cambiando fortemente il Dna<br />
delle forme di attivismo rispetto al passato. Modalità, luoghi<br />
e slogan sono sempre più affidati al passaparola telematico di<br />
Facebook, Twitter e degli altri social media. Youtube è stato<br />
utilizzato per diffondere i filmati degli eventi e delle manifestazioni,<br />
anche in circostanze di forte censura, filmati poi<br />
ripresi dai media tradizionali a diffusione mondiale. Insomma,<br />
l’era di Internet e dei cosiddetti “personal media” ha rinnovato<br />
e potenziato profondamente anche gli orizzonti comunicativi<br />
della protesta, organizzandone i contenuti e spesso<br />
facendo trascendere i confini locali o nazionali.<br />
É evidente che alcuni paradigmi quali la partecipazione e il<br />
consenso o il dissenso e la protesta, stanno cambiando nelle
58 globalizzazione link journal 1/<strong>2012</strong><br />
proprie modalità e forme di organizzazione anche in funzione<br />
della diffusione della rete.<br />
Ma se Internet è già stata ampiamente utilizzata nel fare politica<br />
in chiave “antisistema”, rimane oggi la sfida di utilizzarne<br />
il potenziale in chiave di riscatto sostantivo della politica. Una<br />
potenzialità inedita per costruire quel modello di democrazia<br />
poliarchica descritto da Dahl come forma di rinnovata partecipazione.<br />
Per comprendere e interpretare quali mutamenti<br />
la diffusione della rete e dei social network possono portare<br />
per il fare politica, è essenziale approfondire l’analisi su alcuni<br />
concetti chiave per l’azione politica quali sono la leadership,<br />
la legittimità, il consenso e la partecipazione.<br />
In questo contesto, la leadership politica va sempre più interpretata<br />
non soltanto come capacità di dare senso all’azione<br />
collettiva o di interpretare in maniera adeguata i fenomeni<br />
della realtà, ma anche e soprattutto<br />
come facoltà di indivi-duare e mostrare<br />
mete da perseguire, dar forma a ideali<br />
verso i quali convogliare le energie collettive<br />
e mobilitarle su azioni che trascendono<br />
gli interessi individuali. Ciò è tanto<br />
più efficace quanto più le mete proposte<br />
sono frutto di una reale costruzione collettiva,<br />
la cui spinta dal basso e “interpretata”<br />
in chiave politica.<br />
Il leader politico, in questa accezione, è tanto più effettivo<br />
quando tiene conto delle spinte e degli stimoli che vengono<br />
dall’elettorato, senza però cedere alla tentazione della mediazione<br />
continua, del piccolo vantaggio per tutti, del consenso<br />
ottenuto “per sottrazione” e non per “sommatoria”. In altre<br />
parole, colui o colei che fa della legittimità del consenso ottenuto<br />
la base per la propria azione politica. La legittimità è<br />
formalmente consegnata al politico attraverso i processi elettorali.<br />
Ma per la politica nel suo insieme, la legittimità<br />
sostanziale è data dalla capacità di interpretare le esigenze profonde<br />
degli elettori, di trasformarle in azioni e di riscontrarle<br />
con una visione di società. Ovvero, dalla capacità di costruire<br />
in forma amplia e partecipata il consenso politico, sia per l’immediato<br />
che per il futuro.<br />
Nei sistemi democratici il consenso è misurato in primo luogo<br />
dalla qualità della convivenza pacifica e della coesione sociale.<br />
In secondo luogo, però, esso si misura dalla qualità della partecipazione<br />
elettorale e dal responso delle urne come sostegno<br />
alle decisioni della propria classe dirigente. Per questo la politica<br />
esercita un ruolo di mediazione simbolica tra i valori di<br />
fondo di una comunità e le concrete esigenze espresse dalla<br />
società, che si traduce nell’azione di governo. Un ruolo tanto<br />
più effettivo quanto più riesce a rafforzare gli spazi di parte-<br />
cipazione e di cittadinanza attiva. Ovvero, è presupposto per<br />
una democrazia di qualità quello di poter contare su una partecipazione<br />
effettiva, su una cittadinanza informata, critica, capace<br />
di formare ed esprimere opinioni consapevoli.<br />
Dai cittadini del nostro tempo, caratterizzati da un aumentato<br />
livello di istruzione ed esposti ad un massiccio flusso di informazioni,<br />
ci si aspetterebbe quindi un crescente interesse<br />
per la politica. Al contrario, le più recenti ricerche sul rapporto<br />
tra cittadini e politica tracciano in tutta Europa una spiccata<br />
sfiducia nei confronti delle istituzioni politiche e dei partiti.<br />
E’ un fenomeno definito come “sindrome del cittadino<br />
critico”, ossia il prevalere di un atteggiamento critico diffuso,<br />
spesso di vera e propria insofferenza nei confronti dei processi<br />
di delega e di rappresentanza che porta a difficoltà oggettive<br />
nel tradurre le espressioni sociali in termini di consenso.<br />
Per ricostruire questo rapporto su basi rinnovate, la rete e gli<br />
strumenti del Web 2.0 possono offrire<br />
oggi canali di dialogo estremamente<br />
significativi. Un contesto ormai ampiamente<br />
diffuso che permette al leader<br />
politico di poter dar a conoscere le proprie<br />
priorità e scelte in modo permanente.<br />
Ma anche e soprattutto di<br />
accogliere e validare proposte, esigenze<br />
ed interessi presenti nel corpus sociale<br />
o nei territori di riferimento della propria<br />
azione di rappresentanza. Un cambio<br />
di paradigma nella sfera della politica, che ha portato un<br />
intellettuale del calibro di Stefano Rodotà ad affermare, con<br />
entusiasmo, che “Internet è il più grande spazio pubblico che l’umanità<br />
abbia conosciuto, dove si sta realizzando anche una grande redistribuzione<br />
di potere”… “Un luogo dove tutti possono prendere la parola,<br />
acquisire conoscenza, produrre idee e non solo informazioni, esercitare il<br />
diritto di critica, dialogare, partecipare alla vita comune e costruire un<br />
mondo diverso in cui tutti possano dirsi egualmente cittadini”.<br />
É ovvio che tutto ciò non può prescindere dall’elemento cruciale<br />
della volontà. Una volontà rinnovata di mutamento delle<br />
forme di costruzione del consenso e dell’azione politica nel<br />
suo insieme. Il rischio è altrimenti che attraverso le liturgie<br />
della rete si affermino forme di populismo del nostro tempo,<br />
che spingono verso forme di democrazia elettronica plebiscitaria,<br />
stigmatizzate con preoccupazione da alcuni analisti.<br />
“ La vera novità democratica della Rete - afferma ancora Rodotà - non<br />
consiste nel dare ai cittadini l’ingannevole illusione di partecipare alle<br />
grandi decisioni attraverso referendum elettronici. Consiste nel potere dato<br />
a ciascuno e a tutti di servirsi della straordinaria ricchezza di materiali<br />
messa a disposizione dalle tecnologie per elaborare proposte, controllare<br />
i modi in cui viene esercitato il potere, organizzarsi nella società”.<br />
La diffusione degli strumenti del Web 2.0, insomma, può of-
link journal 1/<strong>2012</strong> globalizzazione<br />
frire alla sfera politica nuove facoltà per costruire in maniera<br />
allargata e partecipativa l’agenda politica, in ambito locale,<br />
nazionale ed internazionale.<br />
Il Web non è un mero contenitore di informazioni “statiche”,<br />
ma quel luogo “dinamico” di integrazione e ibridazione continua<br />
dei contenuti.<br />
Un cambiamento di prospettiva rispetto alla produzione e<br />
fruizione dei contenuti, cui la politica non può sottrarsi. Alla<br />
Dialogo globale:<br />
i canoni<br />
della convivenza<br />
Le giovani generazioni, accompagnate dall’evoluzione<br />
sempre crescente e sempre più veloce dei mezzi di comunicazione,<br />
hanno una grande opportunità e corrono<br />
un grande rischio rispetto al tema dell’ integrazione<br />
culturale e religiosa.<br />
Il mondo è fortemente interrelato e persone di culture e di<br />
religioni diverse entrano in contatto senza soluzione di continuità,<br />
in un incontro inevitabile, quotidiano, che appartiene<br />
ormai alla normalità della vita di ciascuno di noi. Pensiamo,<br />
solo per fare un esempio, alle nostre città sempre più interetniche<br />
e ai loro quartieri sempre più caratterizzati dalla<br />
compresenza di etnie differenti.<br />
Chi oggi ha intorno a vent’anni, si dice, è nei fatti un cittadino<br />
globale e un nativo digitale. Si tratta di persone che, rispetto<br />
alle generazioni precedenti, hanno una naturale capacità nell’utilizzo<br />
di personal computer, social network, strumenti<br />
sempre più diretti e che immediatamente risolvono la necessità<br />
di superare le barriere che intercorrono con l’altro, con<br />
chi ancora non conosciamo, con chi è “spazialmente” (ma<br />
non umanamente) distante da noi.<br />
Tale facilità di approccio, dunque, semplifica le cose, riduce i<br />
tempi, permette una immediata comunicazione. Si tratta della<br />
grande opportunità che richiamavo all’inizio, la possibilità di<br />
ritrovarsi insieme e vicini, pur se distanti.<br />
Marco Emanuele - <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />
politica ed ai suoi leader è richiesto di entrare in contatto con lo<br />
spirito dei tempi. Di riattivare anche attraverso la Rete quel rapporto<br />
osmotico eletto/elettore che si è affievolito nel tempo.<br />
Di mobilitare nuove energie per la costruzione collettiva e riorganizzare<br />
il consenso in forme più partecipative ed ampie. Senza<br />
però cedere alla tentazione di cavalcare gli umori più immediati,<br />
di governare sul sondaggio permanente, che la Rete potrebbe<br />
ampliare e che tanto danno fa alla credibilità e alla capacità<br />
trasformatrice dell’azione politica in tutte le latitudini.<br />
In questi mesi, in particolare, abbiamo potuto constatare l’importanza<br />
“politico-strategica” della “rete”, le sue implicazioni<br />
nelle mobilitazioni che, da più parti a livello planetario, si sono<br />
affermate nella cronaca e nel dibattito.<br />
Da una parte all’altra del mondo si susseguono segnali importanti,<br />
soprattutto da parte delle giovani generazioni, a riprendere<br />
in mano una progettualità di convivenza non ancora<br />
compiutamente definita. Tentativi organizzati di ricostruire<br />
relazioni progettuali - ai livelli nazionale, regionale, globale -<br />
si muovono non solo all’interno di contesti particolari ma,<br />
ormai, a livello transregionale e transcontinentale.<br />
La sfida della riappropriazione della storia comune e del riorientamento<br />
della convivenza, tendenzialmente in senso democratico,<br />
è ben importante nell’attuale momento storico;<br />
dalle “primavere” arabe, all’uscita dall’ “oscurantismo” informatico<br />
in Paesi come la Cina, all’effetto domino dei movimenti<br />
degli “indignati” in diverse parti del mondo, le giovani<br />
generazioni sono impegnate - grazie a Internet - a ritrovarsi<br />
59
60 globalizzazione link journal 1/<strong>2012</strong><br />
intorno a progetti di cambiamento, cercando di<br />
finalizzare le differenti sensibilità ed esperienze<br />
ad un “fine” comune.<br />
Non possiamo ancora dire che tutto questo sia<br />
una nuova frontiera della politica anche se, a ben<br />
guardare, tali processi hanno effetti inevitabili<br />
sulle strutture politico-istituzionali dei Paesi e sui<br />
processi di convivenza, alimentando una spinta<br />
globale all’impegno per il rinnovamento.<br />
La globalizzazione è certamente l’artefice di tale<br />
opportunità, facilitando la diffusione dell’innovazione<br />
per la comunicazione e di strumenti<br />
sempre più capaci di permettere una “navigazione”<br />
efficace e diretta nel grande mare<br />
della “rete”.<br />
Se, da un lato, le evoluzioni negli strumenti di comunicazione<br />
e di condivisione della “rete” generano<br />
moblitazioni collettive (non sempre per<br />
creare “reti di dialogo” quanto spesso per contrapporsi<br />
giustamente ad inaccettabili disuguaglianze<br />
nella situazione planetaria), dall’altro<br />
lato e paradossalmente possono portare al rischio<br />
di una involuzione nei rapporti umani, alla<br />
incapacità di avvertire il bisogno dell’incontro,<br />
del confronto e del dialogo profondo con l’altro.<br />
In molte occasioni si ritrovano insieme giovani<br />
di diversa estrazione culturale e religiosa ed accomunati<br />
da intenzioni condivise, forti di una<br />
voglia di riscatto dalle ingiustizie e dalle mancate<br />
risposte sul loro futuro. Essi, però, sono ancora<br />
“acerbi” sulla capacità di fare comunità nella<br />
conoscenza reciproca, di unirsi a partire dalla<br />
comune “natura umana” – articolata nelle differenti<br />
esperienze e tradizioni – che è il processo<br />
necessario per stare insieme in maniera davvero<br />
integrata e non soltanto intorno ad un obiettivo,<br />
per quanto importante esso sia.<br />
Dunque, considerando quanto dicevamo all’inizio,<br />
dell’interrelazione globale che crea la<br />
normalità quotidiana della convivenza fra differenze,<br />
si rischia di comunicare e di incontrarsi<br />
senza conoscere, di vivere superficialmente processi<br />
complessi; si rischia di guardare all’altro<br />
come ad un compagno di viaggio senza cercarlo<br />
davvero, senza ritrovare in lui, attraverso i tratti<br />
che ci distinguono, il reciproco completamento.<br />
I giovani, io credo, hanno una grande spinta alla<br />
conoscenza umana nel cambiamento e tale ten-<br />
sione va preservata e valorizzata. L’unico antidoto<br />
alla “violenza” culturale e religiosa che discende<br />
dalla non conoscenza (o dalla conoscenza<br />
superficiale) dell’altro e dalla estremizzazione<br />
delle reciproche posizioni è l’apertura all’altro,<br />
anche attraverso la ricomposizione dell’esperienza<br />
nella conoscenza.<br />
Le ragioni della cultura e della fede, ben lo vediamo<br />
in giro per il mondo, possono rappresentare<br />
una straordinaria occasione di crescita<br />
personale e comune così come possono generare<br />
incomprensioni e scontri; è importante ricondurre<br />
a “relatività” tali ragioni e ritrovare una<br />
“nuova innocenza” nei pensieri e nelle azioni.<br />
Chi meglio dei giovani, artefici di futuro, può insegnarci<br />
a percorrere tale prospettiva?<br />
La formazione gioca in tutto questo un ruolo<br />
fondamentale; essa deve centrarsi sempre di più<br />
sull’integrazione fra i saperi e del sapere con l’operare,<br />
focalizzandosi sull’ “umanesimo integrale”<br />
dei giovani. Il dialogo è un percorso<br />
ineludibile e la conoscenza aiuta a respirare e a<br />
comprendere la dimensione globale della vita<br />
che, per sua natura, è relazione ed è nella relazione<br />
fra persone ‘in formazione’ ed ‘in<br />
conoscenza’.<br />
La formazione per la conoscenza è la sfida di un<br />
futuro che già percorre il nostro presente; si<br />
tratta di un processo permanente.<br />
Esso ha il ‘fine’ di far riappropriare ogni persona<br />
della globalità della vita, ritrovandosi in essa<br />
come “casa comune” dell’umanità. In essa si<br />
sviluppa l’integrazione fra differenze, che vive<br />
nel dialogo.<br />
Aprire le menti, allargare il proprio sguardo sulla<br />
realtà è ancora più necessario in questo tempo<br />
in cui sembrano dominare le chiusure e le separazioni,<br />
anche nei rapporti umani.<br />
Riprendiamo, in conclusione, alcune parole di<br />
Raimon Panikkar: “Oggi il dialogo non è un lusso o<br />
una questione secondaria. L’ubiquità della scienza e<br />
della tecnologia moderne, dei mercati mondiali, delle organizzazioni<br />
internazionali e delle corporazioni<br />
transnazionali, così come le innumerevoli migrazioni di<br />
lavoratori e la fuga di milioni di rifugiati […] rendono<br />
l’incontro di culture e religioni inevitabile e indispensabile<br />
insieme.”
link journal 1/<strong>2012</strong> globalizzazione<br />
Verso un progetto per la globalizzazione<br />
La complessità è connaturata con la vita e con la società<br />
umana, non è una scoperta moderna. Il nostro cervello<br />
è formato da 100 miliardi di cellule e da oltre 100.000<br />
miliardi di connessioni. Il nostro genoma, mappato qualche<br />
anno fa, è formato da circa tre miliardi di lettere: le basi TC-<br />
TAGATCAA ecc. sono come un libretto di istruzioni formato<br />
da circa un miliardo di parole pari a 5000 volumi di 300<br />
pagine, da cui nasce l’essere umano.<br />
Ma anche un’automobile è formata da circa 100.000 pezzi<br />
unici: se li pensiamo distribuiti su un pavimento abbiamo ancora<br />
una volta un esempio di sistema complesso.<br />
Ma come mai allora questo fiorire d’interesse verso la complessità?<br />
La mia opinione è che agli inizi degli anni novanta due eventi,<br />
uno tecnologico e l’altro politico, portarono il mondo a imboccare<br />
la strada verso una ‘nuova complessità’ attraverso un<br />
percorso non lineare denso di episodi emergenti che sembrano<br />
oggi rendere pericoloso il cammino e oscuro il futuro.<br />
Il 20 gennaio 1993 Bill Clinton fu eletto 42° presidente degli<br />
Stati Uniti d’America. Insieme a lui fu eletto come vicepresidente<br />
Al Gore che il 3 <strong>marzo</strong> 1993 lanciò il programma National<br />
Partnership for Reinventing Government. Tale<br />
iniziativa aveva l’obiettivo di far recuperare credibilità all’Amministrazione<br />
centrale nei confronti dei cittadini. Il programma<br />
prevedeva la completa informatizzazione degli uffici<br />
e dei servizi Federali e la contemporanea informatizzazione<br />
degli uffici degli Stati, oltre che l’avvio della realizzazione di<br />
backbone internet ad alta velocità.<br />
Pasquale Russo - <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />
61<br />
Tutti sanno che una cosa è<br />
impossibile da realizzare,<br />
finché arriva uno che non<br />
lo sa e la inventa.<br />
Albert Einstein<br />
Nello stesso periodo, nel giugno del 1993, Tim Berners Lee<br />
pubblicò formalmente il linguaggio HTML su cui è basato<br />
Internet ed il World Wide Web.<br />
Il Governo federale USA assunse rapidamente la nuova tecnologia<br />
che diventò in breve tempo la nuova e prevalente<br />
modalità di interazione tra la pubblica amministrazione americana,<br />
i cittadini e le imprese.<br />
L’investimento economico, tecnologico, formativo e informativo,<br />
pubblico e privato, fu di straordinaria rilevanza e caratterizzò<br />
le due presidenze Clinton.<br />
Nacque così in quegli anni la new economy, intesa come la possibilità<br />
di concludere transazioni economiche e commerciali<br />
attraverso sistemi basati su informatica, più telecomunicazioni,<br />
più microelettronica.<br />
L’introduzione di tali sistemi tecnologici consentì un incremento<br />
sostanziale del livello di complessità dei mercati, soprattutto<br />
quelli finanziari, perché la facilità della<br />
smaterializzazione della moneta rese possibile:<br />
• l’ampliamento della dimensione dei mercati;<br />
• la velocizzazione del funzionamento dei mercati.<br />
La possibilità che i processi economici e finanziari si potessero<br />
quindi svolgere con certezza in un mondo connesso ha generato<br />
una pressione sulle norme che avevano fino ad allora<br />
regolato le transazioni; tutto ciò ha portato al superamento<br />
delle barriere doganali per la finanza con la conseguente<br />
perdita del controllo da parte dei singoli Stati sul sistema finanziario.<br />
É mia opinione che l’irruzione della new economy nell’economia
62 globalizzazione link journal 1/<strong>2012</strong><br />
Edgar Morin<br />
“La cultura,<br />
ormai, non solo<br />
è frammentata<br />
in parti staccate,<br />
ma anche<br />
spezzata<br />
in due blocchi”<br />
occidentale e la conseguente diffusione pervasiva<br />
delle tecnologie web fu il momento fondante della<br />
globalizzazione.<br />
L’investimento USA, nato per migliorare la pubblica<br />
amministrazione, si trasformò in un progetto<br />
politico con l’obiettivo di far recuperare agli Stati<br />
Uniti la leadership tecnologica e finanziaria. Così,<br />
nelle università americane, si susseguirono scoperte<br />
e furono attratti cervelli, brevetti e innovazioni che<br />
hanno consentito che oggi, nel mondo, siano attivi<br />
oltre 5 miliardi di cellulari, quasi sette miliardi di connessioni<br />
telefoniche, oltre 2 miliardi di utenti internet.<br />
Inoltre, quasi 6 miliardi di foto vengono caricate<br />
ogni mese su Facebook e 375 miliardi di foto vengono<br />
scattate ogni anno a mappare la Terra, infine<br />
oltre 10 miliardi di SMS e 294 miliardi di e-mail<br />
vengono inviati ogni giorno. Google, la più grande<br />
azienda web al mondo, dal canto suo, ha 500.000<br />
server a cui si connette oltre un miliardo di utenti al<br />
giorno per fare decine di miliardi di ricerche.<br />
Eppure, tale complessità del mondo è vissuta più<br />
come un sistema caotico sfuggito al controllo, di cui<br />
non si conoscono le leggi, né il progetto, lo scopo o<br />
le finalità; tantomeno si ha un libretto di istruzioni<br />
che consenta di assemblare i pezzi di un mondo che<br />
sembra un insieme disarticolato e disarmonico di<br />
parti cangianti che non ambiscono a stare insieme.<br />
La mia opinione è che abbiamo necessità di trasformare<br />
il processo di globalizzazione in un progetto di globalizzazione<br />
definendone, appunto, lo scopo e le<br />
leggi che devono regolarlo e scrivendo in un libretto<br />
di istruzioni il modo per tenere insieme tutti i pezzi<br />
ora sparsi su un pavimento virtuale.<br />
Il G20 e le diverse aggregazioni locali di Stati nazionali<br />
(Unione Europea, Unasur, ecc) sono ancora<br />
timidi tentativi di raggiungere non<br />
una riduzione della complessità<br />
del mondo, perché ciò non<br />
potrebbe più essere, ma semplicemente<br />
per restituirle di nuovo una<br />
sua ragione.<br />
La complessità di una Ferrari è incommensurabilmente<br />
superiore a<br />
quella di una Cinquecento, ma è<br />
comprensibile, ha una sua forma<br />
definita, perché ha lo scopo di<br />
correre a 400 Km orari e vincere<br />
la Formula Uno. Dobbiamo dare senso ai nuovi<br />
complessi sistemi umani per trasformarli in una Ferrari.<br />
Questo che ho scritto è qualcosa in meno e qualcosa<br />
in più di una teoria; qualcosa in meno perché lo<br />
spazio è troppo poco per un’appropriata formalizzazione,<br />
qualcosa in più perché è parte del lavoro<br />
quotidiano della <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong> dove<br />
proviamo a rafforzare nei nostri studenti la<br />
percezione dei processi globali perché come Edgar<br />
Morin sostiene: ‘la cultura, ormai, non solo è frammentata<br />
in parti staccate, ma anche spezzata in due blocchi’: da una<br />
parte, la cultura umanistica che affronta la riflessione<br />
sui fondamentali problemi umani, stimola la riflessione<br />
sul sapere e favorisce l’integrazione personale<br />
delle conoscenze, dall’altra, la cultura scientifica che<br />
“separa i campi della conoscenza, suscita straordinarie scoperte,<br />
geniali teorie, ma non una riflessione sul destino umano<br />
e sul divenire della scienza stessa”. E ancora, l’indebolimento<br />
di una percezione globale conduce all’indebolimento<br />
del senso della responsabilità, poiché<br />
ciascuno tende a essere responsabile solo del proprio<br />
compito specializzato, così come all’indebolimento<br />
della solidarietà, poiché ciascuno percepisce solo il<br />
legame con la propria città: “la conoscenza tecnica è riservata<br />
agli esperti” e “mentre l’esperto perde la capacità di<br />
concepire il globale e il fondamentale, il cittadino perde il diritto<br />
alla conoscenza!”.<br />
Diceva Einstein: “Tutti sanno che una cosa è impossibile<br />
da realizzare, finché arriva uno che non lo sa e la inventa.”<br />
Speriamo che le prossime generazioni di giovani non<br />
si dibattano come noi nel tentativo di comprendere<br />
la complessità della globalizzazione ma semplicemente<br />
la inglobino. Prepariamo leaders per un<br />
mondo che evolve non per uno che semplicemente<br />
cambia.
link journal 1/<strong>2012</strong> globalizzazione<br />
mondo molto diverso da venti anni fa quello che<br />
si affaccia alla United Nations Conference on Sus-<br />
E'un<br />
tainable Development (UNCSD) il prossimo giugno<br />
a Rio de Janeiro. Il pianeta ed i suoi abitanti soffrono oggi più<br />
che mai le conseguenze dell'aggravamento della crisi ambientale<br />
globale, dell'aumento del divario tra elite ricche e masse<br />
Rio+20: una porta aperta<br />
sul futuro dello sviluppo sostenibile<br />
povere. A Rio, venti anni fa, la comunità internazionale cercò<br />
di consolidare un patto globale per affrontare in maniera<br />
nuova e "visionaria" il tema della tutela dell'ambiente, elaborando<br />
nuove matrici per coniugare tale esigenza con il diritto<br />
dei Paesi più poveri allo sviluppo. Lo ha fatto producendo<br />
una serie di documenti ed impegni che hanno costituito un<br />
importante tassello nella costruzione del diritto internazionale<br />
dell'ambiente e nella storia della diplomazia multilaterale. Ed<br />
è stato durante la Conferenza di Rio del 1992 - che fu anche<br />
detto Vertice sulla Terra, o Eco'92 - che fu scoperto il ruolo<br />
della società civile globale, capace di una mobilitazione sociale<br />
senza precedent, che produsse una decisa accelerazione negli<br />
obiettivi fin lì perseguiti dalle Nazioni Unite, spingendo il<br />
modello multilaterale emerso dopo la fine della guerra fredda<br />
a realizzare la Convenzione delle Nazioni Unite sulla diversità<br />
biologica e la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui<br />
cambiamenti climatici, la Dichiarazione sulle foreste e l'Agenda<br />
21. Si affacciava, insomma, a tre anni dalla caduta del<br />
Muro di Berlino, un mondo nuovo e pieno di speranze. Quella<br />
che sembrava l'alba di una storia fatta di pace e prosperità,<br />
con le mirabolanti promesse del modello vincente della globalizzazione<br />
neoliberista, divenne l'epifania delle nuove contraddizioni.<br />
Non più il rapporto tra i paesi dell'Ovest e quelli<br />
dell'Est, ma l'emersione di una dialettica Nord/Sud che, seppure<br />
profondamente mutata, segna di sé ancora la storia<br />
odierna.<br />
A dire il vero il 1992 è anche l'anno in cui si aprì qualche crepa<br />
in una delle istituzioni finanziarie che, più di altre, svolge un<br />
ruolo di primo piano nello sviluppo, la Banca Mondiale. Il<br />
colpo più duro, dopo alcuni grandi scandali, lo diede però<br />
Larry Summers allora Chief Economist della Banca e poi<br />
consigliere economico nell'amministrazione Clinton, che -<br />
proprio poco prima di Rio - ebbe ad ammettere che una delle<br />
maniere migliori per sbarazzarsi di tecnologie sporche fosse<br />
quella di esportarle in Paesi in via di sviluppo dove, grazie al<br />
basso indice di crescita economica, l'inquinamento era ancora<br />
a livelli<br />
Gennaro Migliore - <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />
63<br />
bassi. Era Rio il luogo dove con veemenza si rielaborò il conflitto<br />
tra Nord e Sud del mondo, con il ricco Nord che esigeva<br />
impegni stringenti per la tutela delle foreste tropicali, i polmoni<br />
verdi del Pianeta, ed il Sud che chiedeva risorse finanziarie addizionali,<br />
e trasferimento di tecnologia e know-how per<br />
crescere sulle stesse coordinate che stanno portando il pianeta<br />
al collasso. Purtroppo molte delle aspettative di allora sono rimaste<br />
disattese.<br />
A Rio, nel 1992, si segna uno spartiacque: si affermarono due<br />
principi nuovi, quello precauzionale, e quello delle responsabilità<br />
comuni ma differenziate, secondo il quale i Paesi che<br />
più contribuiscono agli squilibri ambientali dovranno svolgere<br />
un ruolo più incisivo sia nel riorientamento delle loro politiche<br />
interne che nel contribuire con mezzi e fondi affinché quelli<br />
meno sviluppati possano costruire le basi per lo sviluppo<br />
sostenibile. Se fino ad allora, e la diceva la stessa denominazione<br />
della Conferenza (UNCED, United Nations Conference<br />
on Environment and Development), ambiente e<br />
sviluppo erano ancora visti come principi separati, per i quali<br />
valeva al massimo un principio di scambio (quasi a voler segnalarne<br />
la tendenziale incompatibilità) da allora , anche se in<br />
maniera fin troppo abusata, entra nel lessico quotidiano il termine<br />
‘sviluppo sostenibile’, che non a caso diviene la definizione<br />
con cui si evolve il summit fino alla denominazione odierna.<br />
Lo ‘sviluppo sostenibile’ sta ad indicare un approccio olistico che<br />
lega appunto lo sviluppo (inteso per i più come crescita economica)<br />
all'ambiente (visto da molti esclusivamente come<br />
miniera di risorse naturali da usare in maniera oculata sul<br />
lungo periodo). Parallelamente alla visione ‘ufficiale’ del concetto<br />
di sviluppo sostenibile, se ne affiancano altre che danno<br />
maggior risalto alla giustizia sociale, alla critica del concetto<br />
stesso di sviluppo o alla finitezza delle risorse naturali. Del<br />
resto, questa tendenza a incorporare la dimensione sociale<br />
come elemento fondativo si propone proprio nel vertice<br />
Rio+10, che si tenne nel 2002 a Johannesburg, dove, anche<br />
in virtù della forte spinta dell'allora presidente sudafricano
64 globalizzazione link journal 1/<strong>2012</strong><br />
'Mbeki, si tese a sottolineare che il progresso economico di<br />
molte aree del mondo non si era accompagnato ad un corrispondente<br />
progresso sociale. I numeri confermano che<br />
quella preoccupazione di un decennio fa, oggi è diventata una<br />
certezza. Dal 1992 ad oggi il Pil mondiale è cresciuto del 60%!<br />
Venti anni di globalizzazione hanno prodotto, come ha ricordato<br />
anche recentemente il Segretario generale delle Nazioni<br />
Unite, Ban Ki-moon, una crescita straordinaria delle ricchezze,<br />
ma hanno anche stressato l'ambiente e persino messo in discussione<br />
alcuni ‘supporti vitali’ del pianeta. Inoltre, ricorda sempre<br />
Ban Ki-moon nel suo rapporto di preparazione al prossimo<br />
vertice UNCSD, all'allarme ambientale si è aggiunta una vera e<br />
propria esplosione della povertà. Una dimensione, quella della<br />
povertà, sia assoluta che relativa, che oggi lambisce il cuore dello<br />
sviluppato nord, in particolare a seguito della crisi economica<br />
e finanziaria che è iniziata nel 2008.<br />
Quindi, se nel 1992 si scoprì l'importanza di una ‘sinergia’ tra<br />
economia e ambiente, mentre nel 2002 si pose l'accento, almeno<br />
nei propositi, a colmare il gap sociale, nel prossimo vertice<br />
dovranno sempre più essere prese in considerazione le radici<br />
degli squilibri, non solo le loro manifestazioni epifenomeniche.<br />
Del resto, anche gli attori di questi vertici hanno profondamente<br />
mutato ruolo dopo venti anni di globalizzazione: se infatti<br />
si può con certezza affermare che, dalla globalizzazione,<br />
sono stati beneficiati alcuni grandi Paesi, in particolare quelli<br />
che hanno preso il nome di BRICS (Brasile, Russia, India, Cina<br />
e Sud Africa), non si può negare che le disparità sono aumentate<br />
e diventate strutturali, in particolare per quanto avviene nei<br />
cambiamenti climatici, per la perdita irrecuperabile della biodiversità<br />
e per la stessa interruzione del ciclo dell'azoto.<br />
Appare chiaro, quindi, che l'Onu abbia inteso organizzare<br />
l'UNCSD puntando ad una piena integrazione delle tematiche<br />
ecologiche e sociali, sulla base del mandato assegnato dalla<br />
risoluzione 64/236 dell'Assemblea generale. In particolare, si<br />
punterà l'attenzione sulla green economy, vista sia nel contesto<br />
dello sviluppo sostenibile e dello sradicamento della povertà,<br />
che in relazione al quadro istituzionale va sempre modificato<br />
ed aggiornato per sostenere nuove sfide globali. Determinare<br />
una convergenza tra green economy, sradicamento della povertà e<br />
aggiornamento del quadro istituzionale, diviene l'obiettivo fondamentale<br />
della Conferenza. In particolare, dopo il parziale fallimento<br />
del vertice sui cambiamenti climatici a Durban, che<br />
pure si è concluso con un impegno ad aggiornare entro il 2020<br />
il trattato di Kyoto, l'aspettativa sui risultati di Rio+20 è diventata<br />
molto più pressante. Inoltre, vale la pena di sottolineare il<br />
ruolo che intende svolgere Dilma Roussef, in particolare dopo<br />
lo straordinario discorso pronunciato per l'inaugurazione dell'ultima<br />
Assemblea generale delle Nazioni Unite sul tema della<br />
lotta alla povertà. La presidente brasiliana tenterà di ottenere<br />
degli impegni più concreti dalle nazioni del Nord del mondo<br />
sul piano ambientale, sebbene la sua formazione industrialista<br />
la stia facendo entrare in conflitto con i settori più avanzati dei<br />
movimenti ecologisti.<br />
Eppure, la questione fondamentale che sottende questi tipi di<br />
vertice è sempre la stessa: perché falliscono? E, se falliscono,<br />
ce ne è ancora bisogno nel nuovo contesto globale? Penso<br />
che sia doveroso partire dal secondo interrogativo, rispondendo<br />
affermativamente. I vertici sul clima e quello di Rio<br />
sono le uniche sedi nelle quali si discuta realmente del tema<br />
dell'uguaglianza e della convivenza del genere umano.<br />
Non accade così per i vertici dell'Omc o nelle agenzie delle<br />
Nazioni Unite. Si tratta di agende che mettono in campo una<br />
esigenza fondamentale, quella del trasferimento di ‘ricchezze’,<br />
siano esse materiali che di conoscenza, dai più ricchi ai più<br />
poveri. Le stesse procedure negoziali sono un terreno indispensabile,<br />
a maggior ragione nel tempo di questa crisi, per<br />
trattenere un filo di responsabilità comune tra le nazioni e per<br />
le future ge-nerazioni. Vanno tenuti anche secondo l'opinione<br />
della maggior parte dei movimenti che li contestano, che<br />
spesso ne rappresentano la vera essenza democratica (si pensi<br />
all'emergere del tema beni comuni, a partire dall'acqua come<br />
bene strategico in ogni contesto, nazionale e sovranazionale).<br />
Eppure sono quasi sempre falliti. La dinamica, cui accennavo<br />
in precedenza, si è cristallizzata negli anni: il nord ricco chiede<br />
al sud di ridurre le emissioni nocive (ed è vero che la Cina e<br />
l'India sono oramai i maggiori emettitori di inquinanti); il sud,<br />
in forte ascesa, ricorda che l'emissione pro capite e, soprattutto,<br />
quella storica, sono tutte ascrivibili al nord e che, per<br />
conseguire la fuoriuscita dalla povertà per miliardi di persone,<br />
non possono essere costretti a bloccare il proprio sviluppo<br />
economico. Inoltre, si registra un vero e proprio paradosso<br />
che ci racconta quanto siano inadeguati i meccanismi regolativi<br />
che conosciamo. Quando si incontrano i più potenti leader<br />
del pianeta non si riesce ad ottenere neanche un minimo impegno,<br />
mentre se ci si sposta a scale più ridotte, dai comuni<br />
alle regioni, le azioni virtuose possono determinare cambiamenti<br />
assai significativi.<br />
Sarà indispensabile, allora, che i temi affrontati dai prossimi<br />
vertici, a partire da Rio+20, divengano davvero il patrimonio<br />
di un dibattito da svolgersi su scala nazionale e globale, con<br />
un vero coinvolgimento delle società civili. Del resto, il principio<br />
su cui si fonda la green economy, sottratta dalle furbe manipolazioni<br />
di chi ne vede solo i margini di business, è proprio<br />
quello di favorire una prossimità ‘democratica’ del ciclo economico.<br />
Secondo l'Ocse gli investimenti verdi, l'ecoriforma<br />
fiscale (come per esempio la carbon tax), le energie rinnovabili,<br />
la sostenibilità agricola, l'internalizzazione del costo sociale e<br />
ambientale nei prezzi delle commodities (per ottenere ciò che<br />
si chiama ‘prezzo giusto’), la corretta gestione dei rifiuti, sono
link journal 1/<strong>2012</strong> globalizzazione<br />
tutt'altro che ostacoli alla crescita economica. Si tratta, invece,<br />
di veri e propri motori per lo sviluppo sostenibile. Bisogna,<br />
in definitiva, praticare davvero un approccio win-win, iniziando<br />
dallo smentire alcune bugie che, ideologicamente, vengono<br />
propinate per ridurre gli sforzi tesi ad ottenere un risultato<br />
positivo. Volete un esempio? Secondo uno studio dell'Ue in<br />
media si sovrastima l'impatto economico degli investimenti<br />
verdi, il doppio di quanto sia quello effettivo a rendiconto!<br />
Si tratta, quindi, di conquistare un vero spazio pubblico<br />
affinché i governi, spesso condizionati dalle esigenze di politica<br />
interna, possano discutere con i cittadini i caratteri<br />
fondamentali di scelte che avranno un impatto decisivo sul<br />
futuro. È un impegno che dovrebbe essere preso da ciascun<br />
abitante del pianeta, poiché non possiamo lasciare la terra<br />
peggio di come ce l'hanno consegnata i nostri padri.<br />
Rio de Janeiro Summit 1992<br />
United Nations Summit on<br />
Environment and Development<br />
RIO DECLARATION ON ENVIRONMENT<br />
AND DEVELOPMENT<br />
(Rio de Janeiro, 3-14 June 1992)<br />
La Conferenza delle Nazioni Unite sull'ambiente e lo sviluppo,<br />
Riunita a Rio de Janeiro dal 3 al 14 giugno 1992,<br />
Riaffermando la Dichiarazione della Conferenza delle Nazioni Unite<br />
sull'ambiente adottata a Stoccolma il 16 giugno 1972 e nell'intento di<br />
continuare la costruzione iniziata con essa,<br />
Allo scopo di instaurare una nuova ed equa partnership globale, attraverso<br />
la creazione di nuovi livelli di cooperazione tra gli Stati, i settori<br />
chiave della società ed i popoli,<br />
Operando in direzione di accordi internazionali che rispettino gli interessi<br />
di tutti e tutelino l'integrità del sistema globale dell'ambiente e<br />
dello sviluppo,<br />
Riconoscendo la natura integrale ed interdipendente della Terra, la<br />
nostra casa,<br />
proclama<br />
Principio 1<br />
Gli esseri umani sono al centro delle preoccupazioni relative allo<br />
sviluppo sostenibile. Essi hanno diritto ad una vita sana e produttiva<br />
in armonia con la natura.<br />
Principio 2<br />
Conformemente alla Carta delle Nazioni ed ai principi del diritto internazionale,<br />
gli Stati hanno il diritto sovrano di sfruttare le proprie<br />
risorse secondo le loro politiche ambientali e di sviluppo, ed hanno il<br />
65<br />
dovere di assicurare che le attività sottoposte alla loro giurisdizione o<br />
al loro controllo non causino danni all'ambiente di altri Stati o di zone<br />
situate oltre i limiti della giurisdizione nazionale.<br />
Principio 3<br />
Il diritto allo sviluppo deve essere realizzato in modo da soddisfare<br />
equamente le esigenze relative all'ambiente ed allo sviluppo delle generazioni<br />
presenti e future.<br />
Principio 4<br />
Al fine di pervenire ad uno sviluppo sostenibile, la tutela dell'ambiente<br />
costituirà parte integrante del processo di sviluppo e non potrà essere<br />
considerata separatamente da questo.<br />
Principio 5<br />
Tutti gli Stati e tutti i popoli coopereranno al compito essenziale di<br />
eliminare la povertà, come requisito indispensabile per lo sviluppo<br />
sostenibile, al fine di ridurre le disparità tra i tenori di vita e soddisfare<br />
meglio i bisogni della maggioranza delle popolazioni del mondo.<br />
Principio 6<br />
Si accorderà speciale priorità alla situazione ed alle esigenze specifiche<br />
dei paesi in via di sviluppo, in particolare di quelli più vulnerabili sotto<br />
il profilo ambientale. Le azioni internazionali in materia di ambiente e<br />
di sviluppo dovranno anche prendere in considerazione gli interessi e<br />
le esigenze di tutti i paesi.<br />
Principio 7<br />
Gli Stati coopereranno in uno spirito di partnership globale per conservare,<br />
tutelare e ripristinare la salute e l'integrità dell'ecosistema terrestre.<br />
In considerazione del differente contributo al degrado<br />
ambientale globale, gli Stati hanno responsabilità comuni ma differenziate.<br />
I paesi sviluppati riconoscono la responsabilità che incombe loro<br />
nel perseguimento internazionale dello sviluppo sostenibile date le<br />
pressioni che le loro società esercitano sull'ambiente globale e le tecnologie<br />
e risorse finanziarie di cui dispongono.<br />
Principio 8<br />
Al fine di pervenire ad uno sviluppo sostenibile e ad una qualità di vita<br />
migliore per tutti i popoli, gli Stati dovranno ridurre ed eliminare i modi<br />
di produzione e consumo non sostenibili e promuovere politiche demografiche<br />
adeguate.<br />
Principio 9<br />
Gli Stati dovranno cooperare al fine di rafforzare le capacità istituzionali<br />
endogene per lo sviluppo sostenibile, migliorando la comprensione<br />
scientifica mediante scambi di conoscenze scientifiche e tecnologiche<br />
e facilitando la preparazione, l'adattamento, la diffusione ed il trasferimento<br />
di tecnologie, comprese le tecnologie nuove e innovative.<br />
Principio 10<br />
Il modo migliore di trattare le questioni ambientali è quello di assicurare<br />
la partecipazione di tutti i cittadini interessati, ai diversi livelli. Al livello<br />
nazionale, ciascun individuo avrà adeguato accesso alle informazioni<br />
concernenti l'ambiente in possesso delle pubbliche autorità, comprese<br />
le informazioni relative alle sostanze ed attività pericolose nelle comunià,<br />
ed avrà la possibilità di partecipare ai processi decisionali. Gli Stati<br />
faciliteranno ed incoraggeranno la sensibilizzazione e la partecipazione<br />
del pubblico rendendo ampiamente disponibili le informazioni. Sarà<br />
assicurato un accesso effettivo ai procedimenti giudiziari ed amministrativi,<br />
compresi i mezzi di ricorso e di indennizzo.<br />
Principio 11<br />
Gli Stati adotteranno misure legislative efficaci in materia ambientale.<br />
Gli standard ecologici, gli obiettivi e le priorità di gestione dell'ambiente<br />
dovranno riflettere il contesto ambientale e di sviluppo nel quale si applicano.
66 globalizzazione link journal 1/<strong>2012</strong><br />
Gli standard applicati da alcuni Paesi possono essere inadeguati per altri<br />
Paesi, in particolare per i Paesi in via di sviluppo, e imporre loro un<br />
costo economico e sociale ingiustificato.<br />
Principio 12<br />
Gli Stati dovranno cooperare per promuovere un sistema economico<br />
internazionale aperto e favorevole, idoneo a generare una crescita economica<br />
ed uno sviluppo sostenibile in tutti i Paesi ed a consentire una<br />
lotta più efficace ai problemi del degrado ambientale. Le misure di politica<br />
commerciale a fini ecologici non dovranno costituire un mezzo<br />
di discriminazione arbitraria o ingiustificata o una restrizione dissimulata<br />
al commercio internazionale.<br />
Si dovrà evitare ogni azione unilaterale diretta<br />
a risolvere i grandi problemi ecologici<br />
transfrontalieri o mondiali dovranno essere<br />
basate, per quanto possibile, su un consenso<br />
internazionale.<br />
Principio 13<br />
Gli Stati svilupperanno il diritto nazionale<br />
in materia di responsabilità e risarcimento<br />
per i danni causati dall'inquinamento e altri<br />
danni all'ambiente e per l'indennizzo delle<br />
vittime. Essi coopereranno, in modo rapido<br />
e più determinato, allo sviluppo progressivo<br />
del diritto internazionale in materia di responsabilità<br />
e di indennizzo per gli effetti<br />
nocivi del danno ambientale causato da attività<br />
svolte nell'ambito della loro giurisdizione<br />
o sotto il loro controllo in zone<br />
situate al di fuori della loro giurisdizione.<br />
Principio 14<br />
Gli Stati dovranno cooperare efficacemente<br />
per scoraggiare o prevenire la ricollocazione<br />
o il trasferimento in altri Stati di tutte le attività<br />
e sostanze che provocano un grave degrado<br />
ambientale o si dimostrano nocive per<br />
la salute umana.<br />
Principio 15<br />
Al fine di proteggere l'ambiente, gli Stati applicheranno<br />
largamente, secondo le loro capacità,<br />
il metodo precauzionale. In caso di<br />
rischio di danno grave o irreversibile, l'assenza di certezza scientifica<br />
assoluta non deve servire da pretesto per differire l'adozione di misure<br />
adeguate ed effettive, anche in rapporto ai costi, dirette a prevenire il<br />
degrado ambientale.<br />
Principio 16<br />
Le autorità nazionali dovranno adoperarsi a promuovere l’internalizzazione<br />
dei costi per la tutela ambientale e l'uso di strumenti economici,<br />
considerando che, in linea di principio, è l'inquinatore a dover sostenere<br />
il costo dell'inquinamento, tenendo nel debito conto l'interesse pubblico<br />
e senza alterare il commercio e le finanze internazionali.<br />
Principio 17<br />
La valutazione d'impatto ambientale, come strumento nazionale,<br />
sarà effettuata nel caso di attività proposte che siano suscettibili<br />
di avere effetti negativi rilevanti sull'ambiente e dipendano dalla<br />
decisione di un'autorità nazionale competente.<br />
Principio 18<br />
Gli Stati notificheranno immediatamente agli altri Stati ogni catastrofe<br />
naturale o ogni altra situazione di emergenza che sia suscettibile di produrre<br />
effetti nocivi imprevisti sull'ambiente di tali Stati. La comunità<br />
internazionale compirà ogni sforzo per aiutare gli Stati così colpiti.<br />
Principio 19<br />
Gli Stati invieranno notificazione previa e tempestiva agli Stati potenzialmente<br />
coinvolti e comunicheranno loro tutte le informazioni pertinenti<br />
sulle attività che possono avere effetti transfrontalieri seriamente<br />
negativi sull'ambiente ed avvieranno fin dall'inizio<br />
con tali Stati consultazioni in buona<br />
fede.<br />
Principio 20<br />
Le donne hanno un ruolo vitale nella gestione<br />
dell'ambiente e nello sviluppo. La loro<br />
piena partecipazione è quindi essenziale per<br />
la realizzazione di uno sviluppo sostenibile.<br />
Principio 21<br />
La creatività, gli ideali e il coraggio dei giovani<br />
di tutto il mondo devono essere mobilitati<br />
per creare una partnership globale<br />
idonea a garantire uno sviluppo sostenibile e<br />
ad assicurare a ciascuno un futuro migliore.<br />
Principio 22<br />
Le popolazioni e comunità indigene e le altre<br />
collettività locali hanno un ruolo vitale nella<br />
gestione dell'ambiente e nello sviluppo grazie<br />
alle loro conoscenze e pratiche tradizionali.<br />
Gli Stati dovranno riconoscere la loro identità,<br />
la loro cultura ed i loro interessi ed accordare<br />
ad esse tutto il sostegno necessario a<br />
consentire la loro efficace partecipazione alla<br />
realizzazione di uno sviluppo sostenibile.<br />
Principio 23<br />
L'ambiente e le risorse naturali dei popoli in<br />
stato di oppressione, dominazione ed occupazione<br />
saranno protetti.<br />
Principio 24<br />
La guerra esercita un'azione intrinsecamente<br />
distruttiva sullo sviluppo sostenibile. Gli Stati rispetteranno il diritto internazionale<br />
relativo alla protezione dell'ambiente in tempi di conflitto<br />
armato e coopereranno al suo progressivo sviluppo secondo necessità.<br />
Principio 25<br />
La pace, lo sviluppo e la protezione dell'ambiente sono interdipendenti<br />
e indivisibili.<br />
Principio 26<br />
Gli Stati risolveranno le loro controversie ambientali in modo pacifico<br />
e con mezzi adeguati in conformità alla Carta delle Nazioni Unite.<br />
Principio 27<br />
Gli Stati ed i popoli coopereranno in buona fede ed in uno spirito di<br />
partnership all'applicazione dei principi consacrati nella presente<br />
Dichiarazione ed alla progressiva elaborazione del diritto internazionale<br />
in materia di sviluppo sostenibile.
link journal 1/<strong>2012</strong> globalizzazione<br />
Resolutions for Sustainable<br />
Development voted on in the UN<br />
General Assembly 23.12.2011<br />
The developing world’s vulnerability to the prevailing<br />
multiple global crises and preparations for the June <strong>2012</strong><br />
United Nations Conference on Sustainable Development<br />
were prominent among the concerns of the Second<br />
Committee (Economic and Financial) as the 42 draft<br />
resolutions and 4 draft decisions it had recommended<br />
for action by the General Assembly were adopted today.<br />
Among the texts adopted — all but four without a vote<br />
— were two brand new texts, the first titled “Towards<br />
global partnerships”, which called on the international<br />
community to continue promoting multistakeholder approaches<br />
to development. The second, “People’s empowerment<br />
and a peace-centric development model”,<br />
noted theproposal by the Prime Minister of Bangladesh<br />
to host an international conference on the subject during<br />
the first half of <strong>2012</strong>.<br />
However, the focus fell on sustainable development<br />
ahead of the upcoming Conference on Sustainable Development,<br />
known as “Rio+20”, with the Assembly<br />
adopting 16 draft resolutions and 2 draft decisions on<br />
the subject. One new text dealt with international cooperation<br />
and coordination for the rehabilitation and economic<br />
development of the Semipalatinsk region of<br />
Kazakhstan. Another noted the failure of donors to<br />
meet their commitments on official development assistance<br />
(ODA), stressing the vital importance of aid to financing<br />
for development, and of greater South-South<br />
cooperation.<br />
Another adopted text stressed the challenges posed by<br />
desertification, land degradation and drought, including<br />
to food security in developing countries, and emphasized<br />
the need for financial resources, technology transfer and<br />
capacity-building to meet them.<br />
Recorded votes were requested before action on two<br />
draft resolutions dealing with sustainable development.<br />
By the terms of one text, the Assembly requested for<br />
the sixth consecutive year that Israel compensate<br />
Lebanon and Syria for the pollution of their shores that<br />
followed the destruction of oil storage tanks near<br />
Lebanon’s El-Jiyeh power plant. Compensation was expected<br />
promptly and to be adequate to restore the marine<br />
environment and repair the environmental damage.<br />
The Assembly adopted that draft by a recorded vote of<br />
165 in favour to 8 against (Australia, Canada, Israel, Marshall<br />
Islands, Federated States of Micronesia, Nauru,<br />
Palau, United States), with 6 abstentions (Cameroon,<br />
Central African Republic, Colombia, Gabon, Panama,<br />
Tonga). (See Annex II for voting details).<br />
Adopted by a recorded vote of 141 in favour to 2 against<br />
(South Africa, Venezuela), with 33 abstentions was a text<br />
on agricultural technology for development. By its terms,<br />
the Assembly urged the strengthening of international<br />
efforts to develop sustainable agricultural technologies,<br />
and their transfer to developing countries under fair<br />
terms. It also requested that the United Nations promote,<br />
support and facilitate the exchange of experiences<br />
among Member States on ways to augment sustainable<br />
agriculture and management practices. (Annex III)<br />
On the subject of the International Strategy for Disaster<br />
Reduction, the Assembly adopted a draft resolution<br />
that expressed deep concern over the number<br />
and scale of disasters and their impact on sustainable<br />
development, especially in developing countries.<br />
67
68 globalizzazione link journal 1/<strong>2012</strong><br />
Why Youth?<br />
Centrale tra gli argomenti della Conferenza sarà il lavoro e la disoccupazione giovanile<br />
Jobs and the issue of Youth unemployment<br />
One of the critical issues<br />
on the agenda<br />
for Rio+20 is jobs.<br />
As member states start their<br />
negotiations on the first two<br />
sections of the zero draft-the<br />
Major Group of Children<br />
and Youth urge them not to<br />
forget the growing crisis of<br />
youth employment.<br />
Youth unemployment differs substantially from adult unemployment<br />
in both cause and solution. In 2010, an estimated<br />
75.1 million young people in the world struggled to find work,<br />
and youth were almost three times as likely as adults to be unemployed.<br />
Tackling youth unemployment and underemployment<br />
, by ensuring decent jobs will directly contribute to the<br />
promotion of environmentally-sustainable growth and<br />
poverty eradication. Hence, the youth bulge and associated<br />
labour market conditions should be critical factors in the evaluation<br />
of sustainable development policies, especially those<br />
designed to increase green jobs. Meaningful youth participation<br />
is paramount to design new programmes, and enhance<br />
existing ones that are effective and work for young people<br />
themselves. Young people should be involved as solid partners<br />
in all stages when planning policy and programmes.<br />
Tackling Youth Unemployment --Raising youth up in an economic<br />
down-turn Job creation programs and policy frameworks<br />
must mitigate the global economic downturn’s<br />
disproportionate impact on youth. Long term analysis has<br />
shown that part of the issue is a “transition” problem, with<br />
young people needing time to accumulate the experience and<br />
skills required to find good jobs . However, policy programs<br />
-- such as tax breaks for youth-hiring employers, vocational<br />
training programs, financial support for young entrepreneurs,<br />
and micro finance -- can greatly increase youth participation<br />
in the overall economy. Partnerships between the private sector,<br />
governments and civil society organizations are needed<br />
to improve the targeting of young workers, and the effective<br />
deployment of capacity building programs. To promote job<br />
growth, governments and the international community<br />
should also implement financial and macroeconomic measures,<br />
including bank and debt restructuring, and eliminate discriminatory<br />
regulations. Policy frameworks must emphasize<br />
the need for adequate labour market information, policy monitoring,<br />
and program evaluation to help provide better jobs<br />
for young people.<br />
Some initial recommendations:<br />
1. Including a Youth Guarantee in the social protection schemes, including<br />
the UN sponsored Social Protection Floor Initiative<br />
A Youth Guarantee will ensure that youth labour market inactivity<br />
would not exceed a period of four months. Such a<br />
policy measure will help young people keep in touch with the<br />
labour market and keep updating their skills and competences,<br />
and contributing to their employ-ability. A Youth Guarantees<br />
will offer a more tailored approach in helping young people<br />
deal with the structural failures of the labour market will<br />
eventually build trust and confidence, and are more likely to<br />
strengthen the labour market ties and participation rates for<br />
the future. This should become a standard feature in social<br />
protection schemes, especially when these are devised with<br />
the assistance of the UN.<br />
2. The creation of a Global Education Fund<br />
In many countries, globalisation and technological changes<br />
have created urgent demands for new forms of skill development<br />
to meet economic and social needs. The promotion<br />
of education for sustainable development, and the establishment<br />
of training institutions, vocational programs for professional<br />
development, as well as the recognition of non-formal<br />
education are crucial.<br />
A Global Education Fund must be co-managed by donors,<br />
recipient countries, non-governmental organizations, and experienced<br />
intergovernmental organisations such as UNESCO.<br />
The fund must include an independent secretariat with effective<br />
ownership of global education initiatives and ability to<br />
manage its own funding.<br />
3. Record and consider the impacts on youth of labour and macroeconomic<br />
policies<br />
Promoting labour-intensive sectors such as green jobs are key<br />
to generating employment opportunities for young persons,<br />
particularly in transition economies. Yet, governments cannot
link journal 1/<strong>2012</strong> globalizzazione<br />
fix what they cannot measure. An UN-sponsored collaboration<br />
between the ILO YEN, UNEP and other relevant agencies<br />
should systemically monitor how much youth are<br />
benefiting from these programs and provide assistance to national<br />
labour statistics agencies on tracking these data.<br />
4. Improving Youth Participation<br />
The Adoption of either one global, or several regional conventions<br />
based on principle 10 of the Rio Declaration .<br />
Such instrument could serve as a tool of enshrining participation<br />
as a right, and upgrade existing participation practices.<br />
Hence a compliance mechanism is crucial and could potentially<br />
be modeled to the compliance mechanism of the Aarhus<br />
Convention.<br />
The inclusion of civil society representatives and youth representatives<br />
in bureaus and boards of relevant bodies for<br />
youth development is necessary, regardless of its political<br />
process or implementing instrument nature. This could be inspired<br />
by different models already in existence, such as the<br />
UNAIDS Programme Coordinating Board or the Council of<br />
Europe’s Joint Council on Youth. In case a Sustainable Development<br />
Council is established, a strong youth-presence in<br />
the governance of the Council should be one of the criteria<br />
guiding its establishment.<br />
The support of young people and their organisations to participate<br />
in the decision-making process, though the recognition<br />
that participation is more than access and needs<br />
empowered actors. It is crucial to give an explicit mandate<br />
and adequate resources for UNDESA to empower young<br />
people to be involved into decision making. The de-facto inclusion<br />
of youth-representatives in the National Sustainable<br />
Development Councils (NSDCs). Youth are one of the<br />
Agenda 21 Civil Society Sectors that are too easily forgotten<br />
in the make-up of these NSDCs. In councils where young<br />
people are included, their membership is often limited to an<br />
observer role. Hence a balanced representation of the Agenda<br />
21 interests is crucial when redesigning the NSDCs. Where<br />
such councils already exist, they should be strengthened and<br />
provided with the adequate resources, political leverage and<br />
support by exchanging best-practices.<br />
5. Improving representation of young and future generations<br />
Furthermore, we call for the establishment of an independent<br />
Office of the UN High Commissioner for Future Generations.<br />
The High Commissioner would have both an agendasetting<br />
and advisory role with regard to the long-term<br />
environmental and social coherence and impacts of UN agencies,<br />
policies and programmes and other multilateral treaties.<br />
It would function in close cooperation with civil society. This<br />
office would also support the capacity of developing countries<br />
to establish effective mechanisms of intergenerational<br />
accountability.<br />
Please note this article is based on the UNCSD Major Group<br />
of Children and Youth's contribution to input for the Global<br />
69<br />
Sustainability Panel on youth unemployment and youth participation.<br />
We will soon have more on jobs...<br />
------------------------------------<br />
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Global Compact on Universal Education. Working Paper for<br />
the Council on Foreign Relations.
70<br />
Prof.<br />
Vincenzo Scotti<br />
Presidente<br />
<strong>Link</strong> <strong>Campus</strong><br />
<strong>University</strong><br />
Prof.<br />
Joseph Mifsud<br />
Presidente<br />
EMUNI<br />
<strong>University</strong><br />
Slovenia<br />
Prof. Ilan Chet<br />
Deputy<br />
Secretary-General<br />
of UfM<br />
Unione per il<br />
Mediterraneo<br />
Spagna<br />
Prof. José Antonio<br />
Cobacho Gómez<br />
Rettore<br />
Università<br />
di Murcia,<br />
Spagna<br />
Prof.<br />
Eduardo González<br />
Mazo<br />
Rettore<br />
Università<br />
di Cadiz<br />
Spagna<br />
Prof. José Antonio<br />
Cobacho Gómez<br />
Rettore<br />
Università<br />
di Murcia, Spagna<br />
Prof.<br />
David Faraggi<br />
Università<br />
di Haifa<br />
Israele<br />
Prof.<br />
CatherineVesprini<br />
Presidente<br />
Institut Euro-<br />
Méditerranéen<br />
en Science du Risque<br />
(IEMSR) Svizzera<br />
incontri<br />
Il futuro delle Università del Mediterraneo<br />
Incontro tra i Rettori<br />
sul ruolo delle Università<br />
nel cambiamento globale<br />
Nell’ambito della presentazione<br />
delle Borse di studio offerte<br />
dall’Inpdap, in collaborazione<br />
con l’Emuni e la <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong>,<br />
istituzioni da sempre impegnate sul tema<br />
della formazione nell’area euro mediterranea<br />
con particolare attenzione alla mobilità<br />
degli studenti e dei docenti ed allo<br />
scambio di esperienze accademiche ed<br />
istituzionali di alto profilo ai vari livelli, si<br />
è svolta una tavola rotonda con i rappresentanti<br />
di alcune Università del Mediterraneo<br />
dedicata al tema dell’ampliamento e<br />
della cooperazione culturale a favore delle<br />
giovani generazioni.<br />
Le Università hanno svolto un ruolo, sino<br />
ad oggi, tradizionale lungo tre direttrici :<br />
l’educazione, la ricerca e l’innovazione.<br />
Oggi sono obbligate ad ampliare lo sforzo<br />
per adattarsi al cambiamento globale e<br />
dare risposte sempre più incisive e reali.<br />
Non è più sufficiente avere buone tecniche<br />
di insegnamento per una buona formazione<br />
degli studenti, occorre coniugare<br />
la formazione con il mondo economico e<br />
la ricerca scientifica, non quale prospettiva<br />
ideale ma riuscendo a costruire una connessione<br />
stabile tra questi diversi fattori<br />
della società senza per questo eludere il<br />
complesso sociale e le altre discipline che<br />
lo regolano.<br />
Lo studente deve essere sempre più al<br />
centro dell’Università come futuro homo<br />
faber e preparato a lavori sempre più qualificati<br />
secondo le esigenze sociali e in base<br />
all’evoluzione costante del mondo del lavoro.<br />
Il legame Università/mondo del lavoro<br />
diverrà sempre più saldo perché<br />
deriva da una sentita esigenza sociale di<br />
link journal 1/<strong>2012</strong><br />
avere uomini sempre più preparati nei diversi<br />
settori.<br />
Nello svolgere questo compito le Università,<br />
oltre le necessità che pone o<br />
porrà la ricerca scientifica, avranno il<br />
compito, se non la responsabilità, di favorire<br />
un cambiamento della riflessione<br />
umana a favore di una società più giusta<br />
ed equilibrata, in cui, e questo vale anche<br />
per l’Europa, le diseguaglianze e le esclusioni<br />
sociali possano essere riassorbite in<br />
valori universalmente acquisiti.<br />
Sarà importante educare gli studenti, unitamente<br />
alle discipline accademiche scelte,<br />
ai valori di giustizia e uguaglianza e ciò al<br />
fine di predeterminare una società economicamente<br />
stabile e forte nel rispetto<br />
dei diritti umani.<br />
L’importanza di un raccordo tra le Università<br />
del Mediterraneo per favorire la libera<br />
circolazione sia dei docenti che degli studenti<br />
deriva dal fatto che sarà possibile<br />
creare un’unica area universitaria di vaste<br />
proporzioni che vedrà coinvolti i diversi<br />
atenei impegnati in finalità, inizialmente<br />
similari, per giungere ad un unico modello<br />
di insegnamento e sviluppo culturale.<br />
Sino ad oggi questa opportunità non è<br />
stata colta in ambito europeo perchè non<br />
si era capito che il lavoro congiunto favorisce<br />
l’integrazione, la creazione di<br />
nuovi posti di lavoro, maggiori opportunità<br />
per la ricerca e lo studio dei fenomeni<br />
complessi, sia sociali che economici, che<br />
permetterebbero all’Europa, attraverso<br />
una maggiore integrazione degli Istituti<br />
universitari, una più veloce integrazione<br />
tra i popoli grazie all’innovativo impegno<br />
dei giovani e dei docenti.
link journal 1/<strong>2012</strong> incontri<br />
Workshop on Internationalisation through <strong>University</strong> Cooperation<br />
in the Field of European Studies<br />
The Centre of Excellence Altiero Spinelli (CEAS) and<br />
the Euro-Mediterranean <strong>University</strong> (EMUNI <strong>University</strong>)<br />
as part of activities under the cooperation agreement,<br />
at the <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong> in Rome, held a working<br />
meeting dedicated to the development of proposals for post -<br />
graduate courses (Masters) and research projects in the field<br />
of European studies (Institutional and Political Integration,<br />
Economic, Social and Territorial Cohesion, European policies<br />
on immigration, european citizenship, security and justice, external<br />
action and policies Neighbourhood and Partnership),<br />
focused on the development of euro-Mediterranean relations,<br />
in order to facilitate mobility of students and teachers of the<br />
Mediterranean countries, particularly from the southern shore<br />
of the Mediterranean. The meeting, coordinated by prof. Luigi<br />
Moccia, President CeAS, and prof. Joseph Mifsud, President<br />
EMUNI, was held in the premises of the Centre and at the<br />
<strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> in Rome, David Faraggi, Rector of the <strong>University</strong><br />
of Haifa (Israel) and Juan María Vázquez Rojas, Vice-<br />
Chancellor, Research & Intl. <strong>Campus</strong>, <strong>University</strong> of Murcia<br />
(Spain) , Massimo Silvestri, Director of the ISSEA Research<br />
Institute, <strong>University</strong> Polytechnic of Lugano (Switzerland), Alejandro<br />
del Valle Galvez, Deputy Rector and Head Master Programmes<br />
of the <strong>University</strong> of Cadiz (Spain) and Catherine<br />
Vesperini, President of the Euro-Mediterranean Institute of<br />
Risk Science (France). Responding to the questions of the students,<br />
Prof. Ilan CHET, Vice-president of UfM on charge of<br />
higher education and research insisted on the important role<br />
of the universities to the peace process, he indicated that universities<br />
can help a lot this process because if it brings students<br />
from the south to get good education in the north and it will<br />
help their employability and mobility and this will increase the<br />
standing of living in the south. Prof. Ilan Chet indicated that<br />
meeting in universities and in institutions can help a lot in development<br />
projects, for example Palestinian authority suggested<br />
a project of salunation of water in Gaza, all the<br />
countries supported this project and also Israel because it is a<br />
humanistic project, so if they design a good project for the<br />
benefit of all the people this doesn't influence the differences<br />
in cultures or polical problems.And finally he insisted that the<br />
cooperation between the UfM and EMUNI in some studies<br />
programs in master and PhD in organization democratic, organization<br />
of students from different countries, in some fields<br />
as studying democratization, human rights, good governance,<br />
all this subjects can help today improve the situation and he<br />
thinks that now due to the Arab spring that the universities can<br />
fulfill what needed as far as culture and education. In her<br />
speech, Prof. Vesprini answered two fundamentals questions.<br />
First, the president of the Institute for Euro-Mediterranean<br />
of Sciences of Risk, showed that the management of natural<br />
71<br />
risk or natural disasters requires a comprehensive management<br />
and cannot be completed in an individual way, however this is<br />
facing financial problems (imbalance between the rich north<br />
and poor south) and also the lack of a culture of risk management<br />
in the countries of the Mediterranean , that's why the<br />
need and the importance of this institute in EMUNI to help<br />
and educate people in these countries regarding the importance<br />
of risk management. In addition, Prof. Vesprini stressed the<br />
importance of civil Security and she has set a good example<br />
of a civilian organization in this field in Italy. But this is insufficient<br />
because of the difficulty of communication in the population,<br />
for her, it is essential to train people in this area for<br />
the management of natural risks. In his intervention, Prof. Dr.<br />
David Faraggi, President of <strong>University</strong> of Haifa, points out<br />
the importance of integration between all people in his university,<br />
he precised that there is about 900 students from all<br />
the world, America, Europe, Asia and they study and live together<br />
without problems and they are a good friends of the<br />
university. The most important thing, as he said, the mobility<br />
of the students coming from all the places and meeting people<br />
both Palestinians and Israelian in the campus with different religions<br />
and cultures and after one year they come back with<br />
new view of the political situation. And he included that specially<br />
social integration is a part of life on the city of Haifa<br />
they really transform in a peace and quiet and they can go<br />
abroad as ambassadors of peace. Prof. E.G.Mazo, <strong>University</strong><br />
of Cadiz, précised that they had a long tradition with <strong>University</strong><br />
studies linked with America and Spanish from a big period,<br />
but now their objectives are focused in sciences of the sea disciplines<br />
and they focused specialization in this field which are<br />
multi-discipliners. In other hand, Prof. Mazo informed the students<br />
present in this meeting that they have more specialized<br />
items with their foundation <strong>University</strong>-Enterprise which<br />
adopts different kinds of studies; post-graduate studies, lifelong<br />
learning studies; for different situations they face now in<br />
this crises period.<br />
About the strategy of international relationship in the Mediterranean,<br />
he precised that their approach is now to work with<br />
the universities which are closer and on front of them as Tanja<br />
<strong>University</strong> and Tetwan <strong>University</strong> in administration and mobility<br />
of students and professors which give opportunity to<br />
work with them as a practical approach. And he believes that<br />
their specialization in Master in international and immigration<br />
needs to specialize students in this topic because they have<br />
bilingual master in English and Spanish. He suggests that Internationalization<br />
means that the master is in different languages,<br />
and immigration refer to co-problems of multicultural<br />
problem in Europe, and this gives opportunity for their students<br />
to talk and discuss and find solutions for this problems
iTest your <strong>University</strong> Choice:<br />
l’app per orientarsi nell’Università<br />
<strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong> lancia l’applicazione per iPhone, iPad<br />
e dispositivi Android: iTest your <strong>University</strong> Choice. Si tratta di<br />
uno strumento-gioco nuovo, efficace e semplice da usare, destinato<br />
a quanti si trovano alle prese con la scelta della facoltà universitaria<br />
a cui iscriversi.<br />
Grazie a questa nuova app, gli studenti potranno facilmente<br />
orientarsi nel mondo universitario e scoprire il percorso di studi<br />
più adatto a loro.<br />
Rispondendo ad una serie di domande, che permettono di evidenziare<br />
le abilità trasversali, gli interessi e gli hobby, iTest your<br />
<strong>University</strong> Choice sarà in grado di valutare le risposte e consigliare<br />
il corso più in linea con la personalità, i punti di forza e le<br />
capacità dello studente.<br />
L’app è un prodotto originale <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong> e offre un<br />
valido supporto nella scelta della facoltà più coerente con le attitudini<br />
e le aspirazioni professionali dei ragazzi.<br />
Semplicissimo da usare: inserendo i propri dati si accede al Test.<br />
Rispondendo a otto blocchi di domande (gate), vengono analizzate<br />
inclinazioni e potenzialità dell’utente, che ottiene una prima<br />
indicazione di orientamento universitario.<br />
Inoltre, inserendo il proprio numero di cellulare, l’utente riceve<br />
via SMS un profilo personalizzato.<br />
L’app è già disponibile sull’Android Market e dopo il 10 settembre<br />
sarà disponibile anche su iTunes Store. Trovi ulteriori informazioni<br />
e istruzioni per l’uso su universitychoice.net,<br />
orientamentouniversitario.net.<br />
La scelta del tuo futuro è una conquista importante. Orientati con<br />
noi!
link journal 1/<strong>2012</strong> <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />
<strong>Link</strong> <strong>Campus</strong><br />
<strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong>, in linea con la propria vocazione internazionale e con la tradizione di università che ambisce<br />
a formare i migliori professionisti per un mondo che cambia, sta realizzando un ambizioso programma di<br />
proiezione internazionale. In questo quadro, sono state inaugurate due rappresentanze prestigiose della <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong><br />
<strong>University</strong> a Lima (Perù) e a Cordoba (Argentina) e sono stati attivati importanti rapporti di collaborazione<br />
con un gruppo selezionato di Università in Europa, Mediterraneo ed America Latina.<br />
<strong>Link</strong> Canpus è l’Università del merito e, all’iscrizione, premia con borse di studio gli studenti migliori delle scuole superiori.<br />
Perchè <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong><br />
√ Perchè il modello didattico è finalizzato alla formazione<br />
di professionisti e manager per il mondo che cambia capaci<br />
di progettare e governare processi innovativi.<br />
√ Perchè il valore aggiunto che rende particolare l’offerta<br />
<strong>Link</strong> <strong>Campus</strong> <strong>University</strong> è costituito da:<br />
- formazione integrata fra università ed aziende;<br />
- largo spazio alla metodologia ed al problem solving;<br />
- studio in più lingue;<br />
- uso dei più avanzati strumenti informatici;<br />
- obbligo di frequenza;<br />
- certezza di sostenere gli esami nei tempi previsti grazie<br />
all’assistenza di tutor dedicati;<br />
- formazione individuale mirata allo sviluppo globale<br />
della personalità<br />
- collegamento con Università straniere di tutti i Paesi<br />
in cui svolgere un semestre di studio (Study Abroad);<br />
- Welfare & Student Affairs;<br />
- collegamento con le aziende per gli stage;<br />
- orientamento;<br />
- placement.<br />
73<br />
√ Perchè con il Programma Skills, attraverso alcuni moduli<br />
di insegnamento comuni a tutti i corsi di laurea, <strong>Link</strong> <strong>Campus</strong><br />
<strong>University</strong> aiuta lo studente da un lato a valorizzare ogni aspetto<br />
della propria personalità e dall’altro ad acquisire le competenze<br />
e le abilità necessarie per operare con successo anche<br />
con organizzazioni pubbliche e private, a livello sia strategico<br />
che organizzativo.
76<br />
EURILINK EDITRICE<br />
Vincenzo Scotti Victoria Tauli-Corpuz Bruno Taralletto<br />
Si confrontano oggi due possibili<br />
letture; quella giudiziaria e<br />
quella storico-politica. Scotti affronta<br />
la lettura storico-politica<br />
e il conseguente giudizio sul<br />
comportamento delle istituzioni<br />
e della politica.<br />
Fermezza o Tolleranza?<br />
La scelta difficile contro la mafia<br />
pp. 240 euro 18,00<br />
Guendolyn S. Chabrier<br />
Dietro al filo spinato è il resoconto<br />
fedele e accuratamente<br />
documentato del clima sociale e<br />
politico della Germania prebellica,<br />
del disfacimento e della caduta<br />
di un popolo soggiogato<br />
dalla malia di Hitler.<br />
Dietro al filo spinato<br />
pp. 210 euro 18,00<br />
L’Autrice mette in risalto le incongruenze<br />
delle risoluzioni del<br />
terzo millennio che non tengono<br />
conto delle aspettative dei popoli<br />
indigeni, spingendoli così<br />
verso una completa marginalità.<br />
I popoli indigeni alle soglie<br />
del terzo millennio<br />
pp. 112 euro 14,00<br />
Riflettendo sull’ultimo scritto dedicato<br />
a Gramsci da Palmiro Togliatti,<br />
poche settimane prima di<br />
morire, si avrà modo di scoprire<br />
un tema attraente del quale finora<br />
ci si è scarsamente occupati.<br />
Tra Cremlino, Gramsci<br />
e Togliatti<br />
pp. 336 euro 18,00<br />
Luigi Paganetto, a cura di Luigi Paganetto, a cura di<br />
Luigi Paganetto, a cura di<br />
AA.VV<br />
AA.VV<br />
AA.VV.<br />
Chi deve pagare il<br />
costo della ricapitalizzazione<br />
delle banche<br />
e dello Stato?<br />
Debiti sovrani<br />
pp.140 euro 16,00<br />
Mezzogiorno<br />
tra crisi globale,<br />
Mediterraneo<br />
e federalismo<br />
fiscale<br />
pp.130 euro 14,00<br />
“La Casta” ha sconcertato i cittadini<br />
svelando nei particolari<br />
ciò che tutti già conoscevano in<br />
generale della inefficienza della<br />
Pubblica Amministrazione.“La<br />
Dissipazione” di Bruno Taralletto<br />
ci indica il passo successivo.<br />
La dissipazione<br />
pp. 200 euro 18,00<br />
Giuseppe Ruggiero Abdel Bari Atwan<br />
link journal 1/<strong>2012</strong><br />
L’unica intervista rilasciata da<br />
Osama Bin Laden ad un giornalista<br />
non residente nei territori<br />
di fede islamica.<br />
La storia segreta di AlQaeda<br />
pp. 304 euro 18,00<br />
La scelta del nucleare<br />
dipende dalla valutazione<br />
delle condizioni<br />
che rendono opportuno<br />
l’investimento rispetto<br />
alle altre fonti<br />
di energie.<br />
Nucleare come?<br />
pp.160 euro 15,00