Lezioni sull'Inferno dantesco a confronto: Pirandello e Bacchelli

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15.06.2013 Views

Francesca Fagnani to in poi la lettura del canto fatta dallo scrittore è palesemente finalizzata a far emergere gli elementi del testo che ne confermerebbero l’ispirazione autobiografica, evidente, secondo lui, già in quel consiglio dato a Dante da Virgilio di nascondersi: «giù t’acquatta / dopo uno scheggio, che alcun schermo t’aia tra le sporgenze cioè dello scoglio. Ma perché? – Perché non paja che tu ci sii. – Che tu sii qua, dove spadroneggiano questi diavoli neri, che ti prenderanno per un barattiere e ti vorranno uncinare». Dinanzi a questa scena, in cui «la finzione acquista la stessa consistenza della realtà viva», lo scrittore siciliano ci ricorda che «ora più che mai non dobbiamo dimenticare quel che Dante stesso non vuole che sia dimenticato, perché canone della sua poetica, che cioè la finzione deve sussistere innanzi a noi anche con l’altro suo valore ideale, l’allegorico»; a questo proposito specifica che questo non è certo uno di quei casi in cui l’allegoria è incarico sovrapposto e «non fa lume all’arte e illumina un concetto guastando la rappresentazione […]. Qui la felicità stessa della rappresentazione, così mobile, agile e precisa, ci dimostra che vivissimo è il sentimento; e che non un concetto dunque si vuol nascondere sotto il simbolo pensato e voluto; ma se il simbolo sussiste, è lui, il sentimento qui nascosto, che spontaneamente lo anima e avvalora. Nessuna violenza insomma è da fare qui alla rappresentazione». In questo caso, quindi, non pare difficile indovinare la dottrina che s’asconde / sotto il velame de li versi strani: «Virgilio è la ragione che consiglia a Dante di nascondersi per non esser ghermito da quei diavoli neri», guardiani dei barattieri che, nota Pirandello, si mostrano tanto pratici di Lucca che sembra non si siano mai mossi da quella città, che era, appunto, quartier generale dei Guelfi Neri; altro elemento questo che avvalora la sua tesi. Dopo l’apparente esito favorevole della trattativa tra Malacoda, capo dei Malebranche, e Virgilio, Dante esce dal suo nascondiglio «non senza l’avvilimento della paura d’essere da un momento all’altro ghermito, arroncigliato, coi nemici attorno, addosso […] esasperato dall’onta di non potersi neanche fidare della ragione». Il pellegrino per esprimere il proprio stato d’animo dinnanzi l’orrenda decina, inserisce il ricordo di un’impresa militare a cui ha partecipato: così vid’io già temer li fanti / ch’uscivano patteggiati di Caprona (vv. 94-95). Questi versi vengono così commentati da Pirandello: «Non è senza rimorso, né senza ragione qui, questo ricordo…Ora egli sa ciò che vuol dire trovarsi alla mercè d’implacabili nemici, capaci d’ogni inganno e d’ogni frode». La citazione di un evento personale acquisterebbe, dunque, grande significatività in un contesto denso di allusioni biografiche. La lettura del canto si avvia al termine, il quadro degli indizi testuali è completato e Pirandello può ormai trarre le sue conclusioni: Ebbene, non dobbiamo credere d’aver qui una grottesca rappresentazione della condanna del poeta e del suo bando? Non sono qui rappresentati, senza parere tutti i vari sentimenti che dovettero sorgere e agitarsi nell’animo di lui allora; e soprattutto il disprezzo per l’infame 222

Lezioni sull’Inferno dantesco a confronto: Pirandello e Bacchelli accusa? Tutto di questo disprezzo è impregnato di riso, il quale è perciò così grottesco, laido e sconcio, come l’accusa, la condanna, il bando. La suprema irrisione dell’accusa, l’abbiamo avuta là, nel canto XX, nello scambio delle parti che comicamente fa Niccolo III; qua ne abbiamo la grottesca rappresentazione. Il ricordo dell’accusa subita avrebbe, dunque, ispirato l’intero episodio, che ne rappresenta, sia dal punto di vista diegetico, che espressivo, l’estrema e grottesca caricatura. Tutto ciò è confermato, secondo Pirandello, da tutta una serie di spie narrative, che concorrono a determinare la partecipazione biografica di Dante alle vicende narrate: l’atteggiamento del poeta, gli atti che vi compie, quel suo nascondersi perché non paja che ci sia consigliato dalla ragione, perché non lo ghermiscano davvero come barattiere quei diavoli che son neri; il ricordo di Caprona, e quel suo partirsi senza fiducia verso l’inganno d’un ponte che faccia via, con quella scorta, che fa riscontro a ciò che dice il Villani che i banditi con Dante si partirono dalla città accompagnati dai loro avversarii; il gesto dei diavoli, quel cacciar fuori la lingua, come a dire sguajatamente «gliel’abbiamo fatta» e il bando sonato da Barbariccia. Come non pensare che questo sia la grottesca parodia dello squillo di tromba del banditore che andò a citarlo a nome del podestà?. È stato, in realtà, esaurientemente dimostrato qualche decennio dopo da Aurelio Roncaglia sulla scorta di Curtius, come la diversa cennamella di Barbariccia sia da inserire pienamente nella lunga serie dei riducula medievali che avevano una lunga e ormai codificata tradizione in ambito europeo. La lettura del canto data da Luigi Pirandello è senza dubbio suggestiva e caratterizzata da fine acume critico, che gli permette una capacità di penetrazione non comune neppure fra i dantisti, per così dire, «di professione». A differenza di molti commentatori che lo hanno preceduto, egli si è interrogato sulla natura, l’indole della comicità dantesca, che come ha intuito perfettamente, non poteva essere considerata tout court un compiaciuto e divertito momento di pura ilarità; si tratta, invece, di un riso impregnato di amarezza, perché tramite esso Dante, nel XXI canto, rivela la condizione di barattiere che gli era stata assegnata e per mezzo della trivialità, che caratterizza le azioni e le parole degli ospiti di quella quinta bolgia, esprime il suo risentimento verso i responsabili dell’accusa che gli fu imputata: «l’indole e la ragione del riso è tanto più triste in fondo, quanto più sguajato, più plebeo si rappresenta quel comico; e la turpitudine, la sguajataggine, la volgarità si riferiscono a chi la condanna bandì». Non può ridere Dante del motivo, per quanto specioso, che lo pose fuori da Firenze e non può ridere di tanta abiezione e trivialità: La crudezza appunto di questa rappresentazione che non si arresta innanzi ai particolari più sconci e triviali, anzi ci assalta con essi, dimostra che non c’è affatto la compartecipazione di Dante alla commedia, e che perciò essa non va considerata per sé, nella sua volgare sconcezza, ma in relazione col poeta che solo non né ride né può riderne; e non rideremo più neanche noi, 223

<strong>Lezioni</strong> sull’Inferno <strong>dantesco</strong> a <strong>confronto</strong>: <strong>Pirandello</strong> e <strong>Bacchelli</strong><br />

accusa? Tutto di questo disprezzo è impregnato di riso, il quale è perciò così grottesco, laido<br />

e sconcio, come l’accusa, la condanna, il bando. La suprema irrisione dell’accusa, l’abbiamo<br />

avuta là, nel canto XX, nello scambio delle parti che comicamente fa Niccolo III; qua ne<br />

abbiamo la grottesca rappresentazione.<br />

Il ricordo dell’accusa subita avrebbe, dunque, ispirato l’intero episodio, che<br />

ne rappresenta, sia dal punto di vista diegetico, che espressivo, l’estrema e grottesca<br />

caricatura. Tutto ciò è confermato, secondo <strong>Pirandello</strong>, da tutta una serie<br />

di spie narrative, che concorrono a determinare la partecipazione biografica di<br />

Dante alle vicende narrate:<br />

l’atteggiamento del poeta, gli atti che vi compie, quel suo nascondersi perché non paja<br />

che ci sia consigliato dalla ragione, perché non lo ghermiscano davvero come barattiere quei<br />

diavoli che son neri; il ricordo di Caprona, e quel suo partirsi senza fiducia verso l’inganno<br />

d’un ponte che faccia via, con quella scorta, che fa riscontro a ciò che dice il Villani che i banditi<br />

con Dante si partirono dalla città accompagnati dai loro avversarii; il gesto dei diavoli,<br />

quel cacciar fuori la lingua, come a dire sguajatamente «gliel’abbiamo fatta» e il bando sonato<br />

da Barbariccia. Come non pensare che questo sia la grottesca parodia dello squillo di tromba<br />

del banditore che andò a citarlo a nome del podestà?.<br />

È stato, in realtà, esaurientemente dimostrato qualche decennio dopo da<br />

Aurelio Roncaglia sulla scorta di Curtius, come la diversa cennamella di<br />

Barbariccia sia da inserire pienamente nella lunga serie dei riducula medievali<br />

che avevano una lunga e ormai codificata tradizione in ambito europeo.<br />

La lettura del canto data da Luigi <strong>Pirandello</strong> è senza dubbio suggestiva e<br />

caratterizzata da fine acume critico, che gli permette una capacità di penetrazione<br />

non comune neppure fra i dantisti, per così dire, «di professione». A differenza<br />

di molti commentatori che lo hanno preceduto, egli si è interrogato sulla natura,<br />

l’indole della comicità dantesca, che come ha intuito perfettamente, non poteva<br />

essere considerata tout court un compiaciuto e divertito momento di pura ilarità;<br />

si tratta, invece, di un riso impregnato di amarezza, perché tramite esso<br />

Dante, nel XXI canto, rivela la condizione di barattiere che gli era stata assegnata<br />

e per mezzo della trivialità, che caratterizza le azioni e le parole degli ospiti di<br />

quella quinta bolgia, esprime il suo risentimento verso i responsabili dell’accusa<br />

che gli fu imputata: «l’indole e la ragione del riso è tanto più triste in fondo,<br />

quanto più sguajato, più plebeo si rappresenta quel comico; e la turpitudine, la<br />

sguajataggine, la volgarità si riferiscono a chi la condanna bandì». Non può ridere<br />

Dante del motivo, per quanto specioso, che lo pose fuori da Firenze e non può<br />

ridere di tanta abiezione e trivialità:<br />

La crudezza appunto di questa rappresentazione che non si arresta innanzi ai particolari più<br />

sconci e triviali, anzi ci assalta con essi, dimostra che non c’è affatto la compartecipazione di<br />

Dante alla commedia, e che perciò essa non va considerata per sé, nella sua volgare sconcezza,<br />

ma in relazione col poeta che solo non né ride né può riderne; e non rideremo più neanche noi,<br />

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