Lezioni sull'Inferno dantesco a confronto: Pirandello e Bacchelli

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15.06.2013 Views

Francesca Fagnani un disprezzo che arrivato al punto, dopo il primo sfogo innanzi al papa simoniaco, qui lo avrebbe mosso a far di quell’accusa, col riso, la più allegra vendetta?». Di «riso amaro», dunque, si tratterebbe a cui il poeta sarebbe stato indotto dall’urgenza dei ricordi personali, riemersi con forza tale da determinare la stesura dell’episodio. Dante, come è noto, fu confinato fuori dalla patria proprio con l’accusa di baratteria, reato di chi trae illeciti guadagni o profitti dalle cariche pubbliche di cui è stato investito. In realtà, è assai complicato stabilire quanto pesò sull’animo del poeta l’onta di un’accusa senza dubbio infamante, di cui tuttavia, si servivano, ormai abitualmente e vicendevolmente, le fazioni vittoriose come comodo strumento per allontanare i nemici della parte avversa. Ancora più difficile è stabilire in che misura la memoria personale agì nell’elaborazione dell’avventura che si svolge nella quinta bolgia. Tuttavia, la chiave di lettura, per così dire, biografica, fornita da Pirandello non va affatto trascurata, tanto più che essa si presenta circonstanziata e ricca di prove atte a confermarne la validità. In primo luogo, è interessante notare come la premessa a quella che egli definisce felicemente «allegra vendetta» sia da lui posta già nella terza bolgia, dove vengono puniti i simoniaci: Con una trovata tra le più felici, perché naturalissima, ma naturalissima come può essere una vipera piena di veleno, Niccolò scambia Dante per Bonifazio VIII, perché questi, ladro della chiesa, volle veramente in terra cambiar le carte; far comparire Dante ladro del comune, facendolo accusare dai Neri come reo di baratteria. Ed è qui una suprema irrisione dell’accusa. – Tu m’hai preso per te, tu hai creduto ch’io fossi come te, viene a dire Dante con questa sua finzione. Dopo un rapido excursus degli episodi che si svolgono nelle bolge precedenti la quinta, funzionale a mettere in evidenza come neppure in questi casi si possa parlare di «comico», Pirandello entra nel vivo del XXI canto, passando in rassegna tutti quei passi che conforterebbero la tesi della partecipazione memoriale-biografica dell’autore. Un primo indizio in tal senso andrebbe colto già nei versi che aprono il canto: Così di ponte in ponte, altro parlando che la mia comedìa cantar non cura Pirandello interrogandosi su quale potesse essere il discorso intercorso tra il discepolo e e il suo maestro, arriva a questa conclusione: «Sarà fren dell’arte anche qui? Non credo. Il poeta non direbbe che di quest’altro che parlava con Virgilio non cura cantare. Il discorso, alla fine del canto precedente, era sulla luna piena benigna a Dante smarrito negli orrori della selva, alcuna volta. Quando? Forse nella più triste delle sue vicende: nella fuga per l’esilio dopo l’infame accusa. Ecco che forse possiamo intendere di quale argomento parlavano oltre questo ponte della quinta bolgia». In realtà questa interpretazione, per quanto attraente, non sembra esente da dubbi, dal momento che si basa su dati aprioristici e non verificabili in alcun modo. L’intenzionale vaghezza dell’autore sembra, invece, 220

Lezioni sull’Inferno dantesco a confronto: Pirandello e Bacchelli funzionale a conferire verosimiglianza alla finzione del viaggio, che in tal modo sembra svolgersi in un’estensione cronologica ininterrotta. Proseguendo nell’analisi testuale, pochi versi dopo (vv. 7-18) si apre la lunga e complessa similitudine istituita tra lo scenario che caratterizza l’arsenale veneto e quello che si offre agli occhi dei viatores appena giunti nella quinta bolgia; Pirandello ha letto nelle terzine in questione un significato riposto, strettamente correlato alla natura della colpa lì punita: forse non la pece soltanto è da vedere nel paragone, ma anche tutto il daffare che in vita si diedero i barattieri, che qui non possono stare a galla – che navicar non ponno – e in vita con ogni sorta di maneggi e d’intrighi rifecer nuova la loro fortuna, o guasta la racconciarono, la rimpalmarono, e turarono i buchi alla loro barca che faceva acqua, ribattendola da prora e da poppa, e cercarono tutti i mezzi per arrivare al loro scopo (i remi), tessendo insidie (volgendo sarte), or con grandi or con piccole imprese rappezzate (l’artimone e il terzeruolo) […]. Opera tenebrosa, cioè svolta copertamente, di cui fuori non si scorge che il ribollimento, cioè l’armeggio, che a tratti cessa, appena appena sorga il timore che abbia potuto destare un sospetto in chi sta a spiare e non scorge più nulla. L’interpretazione di Pirandello, in sintonia con quella data a suo tempo da Benvenuto da Imola 5 , si pone in antitesi con la proposta crociana di vedere nella celebre similitudine una «piccola lirica a sé» 6 o una «parentesi ariosa» come dissero altri studiosi. Sebbene oggi appaia eccepibile l’ipotesi di lettura secondo cui l’arzana veneto sia da considerare paradigma della corruzione, è tuttavia interessante notare come Pirandello giustamente abbia preso le distanze da tutti coloro, allora la maggioranza, che ritenevano la similitudine «un pezzo di maniera», tramite cui l’autore avrebbe fatto sfoggio virtuosistico delle proprie capacità espressive. Che il principio dell’arte per l’arte corrisponda ad un habitus artistico e mentale del tutto estraneo al poeta non occorre qui ripetere, ma non così ovvio era evidentemente al tempo di Pirandello, a cui, al di là della validità della sua interpretazione, va comunque riconosciuto il merito di non aver isolato le terzine in questione dal contesto del canto. L’arrivo in volo del diavol nero dà avvio alle azioni fortemente drammatiche che si succederanno incalzanti dal canto XXI fino all’inizio del XXIII; Pirandello, a questo punto, si chiede «Vediamo un pò come si svolge questa nuova commedia, e se tutto sia in quel che appare…o se tutta questa commedia non sia invece una finzione che nasconde, sotto l’apparenza grottesca, il dramma più doloroso», che è ovviamente quello personale dell’autore. Da questo momen- 5 Secondo Benvenuto «per arsenatum intellige omnem curiam comitatum, sive dominorum, et maxime mihi videtur vidisse optimum exemplum in curia papae». Cfr. La Divina Commedia nella figurazione artistica e nel secolare commento, a cura di G. Biagi e G. L. Passerini, E. Rostagno e U. Cosmo, Torino, UTET, 1924-39, vol. I p. 512. 6 B. CROCE, La poesia di Dante, Bari, Laterza, 1921, p. 93. 221

Francesca Fagnani<br />

un disprezzo che arrivato al punto, dopo il primo sfogo innanzi al papa simoniaco,<br />

qui lo avrebbe mosso a far di quell’accusa, col riso, la più allegra vendetta?».<br />

Di «riso amaro», dunque, si tratterebbe a cui il poeta sarebbe stato indotto dall’urgenza<br />

dei ricordi personali, riemersi con forza tale da determinare la stesura<br />

dell’episodio. Dante, come è noto, fu confinato fuori dalla patria proprio con<br />

l’accusa di baratteria, reato di chi trae illeciti guadagni o profitti dalle cariche<br />

pubbliche di cui è stato investito. In realtà, è assai complicato stabilire quanto<br />

pesò sull’animo del poeta l’onta di un’accusa senza dubbio infamante, di cui tuttavia,<br />

si servivano, ormai abitualmente e vicendevolmente, le fazioni vittoriose<br />

come comodo strumento per allontanare i nemici della parte avversa. Ancora più<br />

difficile è stabilire in che misura la memoria personale agì nell’elaborazione dell’avventura<br />

che si svolge nella quinta bolgia. Tuttavia, la chiave di lettura, per<br />

così dire, biografica, fornita da <strong>Pirandello</strong> non va affatto trascurata, tanto più che<br />

essa si presenta circonstanziata e ricca di prove atte a confermarne la validità. In<br />

primo luogo, è interessante notare come la premessa a quella che egli definisce<br />

felicemente «allegra vendetta» sia da lui posta già nella terza bolgia, dove vengono<br />

puniti i simoniaci:<br />

Con una trovata tra le più felici, perché naturalissima, ma naturalissima come può essere una<br />

vipera piena di veleno, Niccolò scambia Dante per Bonifazio VIII, perché questi, ladro della chiesa,<br />

volle veramente in terra cambiar le carte; far comparire Dante ladro del comune, facendolo<br />

accusare dai Neri come reo di baratteria. Ed è qui una suprema irrisione dell’accusa. – Tu m’hai<br />

preso per te, tu hai creduto ch’io fossi come te, viene a dire Dante con questa sua finzione.<br />

Dopo un rapido excursus degli episodi che si svolgono nelle bolge precedenti la<br />

quinta, funzionale a mettere in evidenza come neppure in questi casi si possa parlare<br />

di «comico», <strong>Pirandello</strong> entra nel vivo del XXI canto, passando in rassegna tutti quei<br />

passi che conforterebbero la tesi della partecipazione memoriale-biografica dell’autore.<br />

Un primo indizio in tal senso andrebbe colto già nei versi che aprono il canto:<br />

Così di ponte in ponte, altro parlando<br />

che la mia comedìa cantar non cura<br />

<strong>Pirandello</strong> interrogandosi su quale potesse essere il discorso intercorso tra il<br />

discepolo e e il suo maestro, arriva a questa conclusione: «Sarà fren dell’arte<br />

anche qui? Non credo. Il poeta non direbbe che di quest’altro che parlava con<br />

Virgilio non cura cantare. Il discorso, alla fine del canto precedente, era sulla luna<br />

piena benigna a Dante smarrito negli orrori della selva, alcuna volta. Quando?<br />

Forse nella più triste delle sue vicende: nella fuga per l’esilio dopo l’infame accusa.<br />

Ecco che forse possiamo intendere di quale argomento parlavano oltre questo<br />

ponte della quinta bolgia». In realtà questa interpretazione, per quanto attraente,<br />

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