Lezioni sull'Inferno dantesco a confronto: Pirandello e Bacchelli

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15.06.2013 Views

FRANCESCA FAGNANI Lezioni sull’Inferno dantesco a confronto: Pirandello e Bacchelli Tra le pagine dantesche più note si possono senza dubbio includere quelle relative all’episodio infernale che si svolge nella quinta bolgia dell’ottavo cerchio. Le vicende dei barattieri e dei loro aguzzini, oltre ovviamente ad offrire ai lettori il piacere della loro fruizione, hanno dato vita ad un acceso dibattito, nel quale si sono trovati coinvolti, ma verrebbe da dire “impegolati”, illustri esegeti e studiosi. Tra i motivi di maggior contesa nati intorno al testo, il più consistente è certamente quello relativo alla profusione o, viceversa, all’assenza di comicità nell’episodio in questione, che, come è noto, si estende ben oltre i confini del canto XXI, occupando tutto il XXII e parte del XXIII. La disamina, sia pure desultoria, delle focali posizioni ermeneutiche in merito alla cosiddetta «questione del comico dantesco» ha permesso di porre in evidenza il punto di partenza, a mio parere ingannevole e decettivo, intorno al quale ruotano le diverse proposte interpretative: sin dall’inizio, infatti, i critici si sono interrogati sull’opportunità di vedere, nell’episodio, il ghibellin fuggiasco ridere. Il fomite della interminabile (e infatti non terminata) disputa sulla comicità dantesca va ricercata, probabilmente, nella non facile conciliazione tra l’immagine austera e indignata (che è chiaramente retaggio romantico e risorgimentale) di un Dante con la fronte sempre aggrondata, «com’avesse il mondo in gran dispitto», «con l’andamento picaresco e con certa materia plebea del movimentato affresco» 1 . Ne conseguì un’annosa querelle, che trovò schierati da una parte quei critici che leggevano nel canto un’esplosione di comicità, dall’altra coloro, invece, che la escludevano non solo dalle pagine in questione, ma più in generale dall’animo del poeta. Corifeo di questa linea interpretativa è il romantico Francesco De Sanctis, secondo il 1 P. MAZZAMUTO, barattiere [voce], in Enciclopedia dantesca, a cura di U. Bosco, Roma, Istituto Enciclopedia Italiana, 1970, vol. I. 217

FRANCESCA FAGNANI<br />

<strong>Lezioni</strong> sull’Inferno <strong>dantesco</strong> a <strong>confronto</strong>:<br />

<strong>Pirandello</strong> e <strong>Bacchelli</strong><br />

Tra le pagine dantesche più note si possono senza dubbio includere quelle<br />

relative all’episodio infernale che si svolge nella quinta bolgia dell’ottavo cerchio.<br />

Le vicende dei barattieri e dei loro aguzzini, oltre ovviamente ad offrire ai<br />

lettori il piacere della loro fruizione, hanno dato vita ad un acceso dibattito, nel<br />

quale si sono trovati coinvolti, ma verrebbe da dire “impegolati”, illustri esegeti<br />

e studiosi.<br />

Tra i motivi di maggior contesa nati intorno al testo, il più consistente è certamente<br />

quello relativo alla profusione o, viceversa, all’assenza di comicità nell’episodio<br />

in questione, che, come è noto, si estende ben oltre i confini del canto<br />

XXI, occupando tutto il XXII e parte del XXIII. La disamina, sia pure desultoria,<br />

delle focali posizioni ermeneutiche in merito alla cosiddetta «questione del<br />

comico <strong>dantesco</strong>» ha permesso di porre in evidenza il punto di partenza, a mio<br />

parere ingannevole e decettivo, intorno al quale ruotano le diverse proposte interpretative:<br />

sin dall’inizio, infatti, i critici si sono interrogati sull’opportunità di<br />

vedere, nell’episodio, il ghibellin fuggiasco ridere. Il fomite della interminabile<br />

(e infatti non terminata) disputa sulla comicità dantesca va ricercata, probabilmente,<br />

nella non facile conciliazione tra l’immagine austera e indignata (che è<br />

chiaramente retaggio romantico e risorgimentale) di un Dante con la fronte sempre<br />

aggrondata, «com’avesse il mondo in gran dispitto», «con l’andamento picaresco<br />

e con certa materia plebea del movimentato affresco» 1 . Ne conseguì un’annosa<br />

querelle, che trovò schierati da una parte quei critici che leggevano nel<br />

canto un’esplosione di comicità, dall’altra coloro, invece, che la escludevano non<br />

solo dalle pagine in questione, ma più in generale dall’animo del poeta. Corifeo<br />

di questa linea interpretativa è il romantico Francesco De Sanctis, secondo il<br />

1 P. MAZZAMUTO, barattiere [voce], in Enciclopedia dantesca, a cura di U. Bosco, Roma,<br />

Istituto Enciclopedia Italiana, 1970, vol. I.<br />

217


Francesca Fagnani<br />

quale a Dante mancherebbe l’effettiva capacità di obbliarsi nell’oggetto comico.<br />

La schiera dei sostenitori dell’inattitudine dantesca alla comicità andò, dopo l’intervento<br />

dell’illustre critico, progressivamente ampliandosi, raccogliendo fra le<br />

sue fila illustri studiosi.<br />

La singolarità dell’episodio e la complessità della questione del comico ad<br />

esso legata, destò l’interesse e il coinvolgimento di un lettore veramente d’eccezione:<br />

Luigi <strong>Pirandello</strong>, il quale, infatti, proprio su questo argomento, il 3 febbraio<br />

1916 in Orsanmichele a Firenze, tenne una “lezione”. Non meraviglia affatto<br />

che l’interpretazione del canto data dal grande scrittore si distacchi per originalità<br />

e profondità dal panorama esegetico a lui coevo e generalmente dominato<br />

dall’assunzione pedestre e impersonale della linea desanctisiana.<br />

<strong>Pirandello</strong>, infatti, a differenza di moltri altri commentatori danteschi, non<br />

appiattì l’intera questione negli angusti termini di una domanda semplicisticamente<br />

posta (Dante ride o no nell’episodio dei barattieri?), ma spinse oltre il suo<br />

interesse critico: egli, infatti, trovandosi dinanzi un canto decisamente sbilanciato<br />

in direzione comico-realistica, si chiese quali fossero le intenzioni del poeta<br />

sottese al testo e di che natura fosse, dunque, la sua comicità, che sembrerebbe<br />

trovare in queste pagine ampio sfogo. Nell’analisi del canto XXI, lo scrittore<br />

prende le mosse proprio da alcune affermazioni di De Sanctis, con il quale si<br />

dichiara immediatamente in disaccordo, lì dove questi afferma che in Malebolge,<br />

considerato il regno del «comico», il poeta sembra caduto in un mondo non suo,<br />

in quanto «le situazioni sono comiche, ma il comico è rozzamente formato, e non<br />

è artistico; non ha la sua immagine che è la caricatura, né la sua espressione che<br />

è il riso» 2 . A queste affermazioni <strong>Pirandello</strong> replica: «a me sembra, e non a me<br />

soltanto, un teorizzare a vuoto, senza voler qui vedere l’animo del poeta e il suo<br />

mondo qual egli l’ha voluto e rappresentato», aggiungendo poco più avanti «ma<br />

vogliono proprio far ridere quei versi? […] ma vuole Dante spassarsi con l’oggetto<br />

comico? Ed è propriamente comico l’oggetto per Dante? Ci si vuole Dante<br />

obliare? Io confesso che non so vedere tutto questo comico che altri vede in<br />

Malebolge» 3 . In tal modo, lo scrittore prendeva le distanze tanto da chi sosteneva<br />

l’inattitudine dantesca alla comicità, tanto da chi, viceversa, leggeva nell’episodio<br />

un’esplosione di riso, quasi che l’autore si fosse preso una faceta vacanza<br />

morale, una pausa distensiva e diversiva rispetto al serissimo contesto itinerale.<br />

Egli rifiuta quello che definisce il mero «spasso d’artista»: non è possibile, infatti,<br />

che ci sia «castigo di riso dove son pene atroci per laidissime colpe. Dove non<br />

2 F. DE SANCTIS, La Commedia, in ID., Storia della Letteratura italiana, Milano, Feltrinelli,<br />

1964.<br />

3 L. PIRANDELLO, La commedia dei diavoli e la tragedia di Dante, in ID., Saggi poesie e<br />

scritti vari, Milano, Mondadori, 1973, pp. 343-61. Data la brevità del testo pirandelliano, non<br />

si farà ulteriore riferimento alle singole pagine nelle note successive.<br />

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<strong>Lezioni</strong> sull’Inferno <strong>dantesco</strong> a <strong>confronto</strong>: <strong>Pirandello</strong> e <strong>Bacchelli</strong><br />

c’è lo strazio, il raccapriccio, l’orrore la nausea, la paura, ci sarà lo scherno, il<br />

disprezzo, il sarcasmo, non il riso che castiga della commedia. Dante non può far<br />

che Dio scherzi punendo, né egli s’attenterebbe di scherzar comicamente dove<br />

Dio ha punito».<br />

Se quanto affermato da <strong>Pirandello</strong> può sembrare oggi pacifico, ben diversa<br />

era la prospettiva esegetica a lui contemporanea, che si protrasse per molti decenni<br />

ancora. Fino agli anni Settanta inoltrati, infatti, l’episodio dei barattieri continuò<br />

ad essere ritenuto da alcuni un momento di puro svago del poeta estrinseco<br />

all’architettura del poema, «un giorno di allegra noncuranza» come arrivò a definire<br />

un illustre dantista 4 .<br />

L’intuizione pirandelliana, sia pure rimasta allo stato germinale, della profonda<br />

«serietà del comico» <strong>dantesco</strong> costituì senza dubbio un primo passo nel<br />

superamento dell’impasse interpretativa, che impediva una reale comprensione<br />

del XXI canto. Egli, inoltre, specifica che non di comico si deve parlare per l’episodio<br />

in questione, ma di sarcasmo: «Non bisogna confondere il sarcasmo, l’ironia,<br />

lo scherno con il comico. Che se talvolta comica appare esteriormente la<br />

frase, non ne è mai comico il sapore, perché non è mai comica l’intenzione del<br />

poeta; e perciò non fa ridere. La frase comica sarà messa lì per ottenere un effetto<br />

di più cruda ripugnanza». Attraverso queste valutazioni, nulla affatto scontate,<br />

lo scrittore riesce a cogliere, direi per primo, il fulcro della questione: Dante nel<br />

XXI canto dell’Inferno dà fondo a tutte le risorse espressive messe a disposizione<br />

dalla tradizione retorica del comico non certo per creare momenti di spensierata<br />

ilarità, ma per dar voce alla «cruda ripugnanza» appunto, all’abiezione<br />

morale, alla degradazione della triste realtà di Malebolge e dei loro ospiti, dannati<br />

e diavoli, anch’essi come i primi eternamente sconfitti davanti a Dio.<br />

<strong>Pirandello</strong>, dunque, con eccezionale perspicacia riuscì ad capire, a differenza di<br />

molti illustri dantisti, che, attraverso la costruzione di un episodio fortemente<br />

proiettato in direzione comico-realistica, Dante stava esprimendo il proprio sentimento<br />

di disgusto e di riprovazione etica, che nulla ha a che fare con il riso<br />

gioioso attribuitogli dai più.<br />

Lo scrittore siciliano, tuttavia, non si fermò a queste riflessioni, ma approfondì<br />

ulteriormente la questione, interrogandosi sul motivo per cui qui più che<br />

altrove il poeta fa sentire, attraverso lo scherno e l’ironia, la sua forte ripugnanza<br />

verso colpa, colpevoli e torturatori. Qual è, dunque, la ragione di tanto sarcasmo?<br />

A questa domanda <strong>Pirandello</strong> rispose avanzando un’interessante ipotesi:<br />

«[...] è possibile che a Dante, fin da principio, nel predisporre la materia di questo<br />

canto dei barattieri, non si sia affacciata la sua condanna, il ricordo dell’indegna<br />

accusa? E che sentimento poteva destarsi in lui se non disprezzo per essa;<br />

4 A. MOMIGLIANO, Commento alla Divina Commedia, Inferno, Firenze, Le Monnier, 1947,<br />

p. 149.<br />

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Francesca Fagnani<br />

un disprezzo che arrivato al punto, dopo il primo sfogo innanzi al papa simoniaco,<br />

qui lo avrebbe mosso a far di quell’accusa, col riso, la più allegra vendetta?».<br />

Di «riso amaro», dunque, si tratterebbe a cui il poeta sarebbe stato indotto dall’urgenza<br />

dei ricordi personali, riemersi con forza tale da determinare la stesura<br />

dell’episodio. Dante, come è noto, fu confinato fuori dalla patria proprio con<br />

l’accusa di baratteria, reato di chi trae illeciti guadagni o profitti dalle cariche<br />

pubbliche di cui è stato investito. In realtà, è assai complicato stabilire quanto<br />

pesò sull’animo del poeta l’onta di un’accusa senza dubbio infamante, di cui tuttavia,<br />

si servivano, ormai abitualmente e vicendevolmente, le fazioni vittoriose<br />

come comodo strumento per allontanare i nemici della parte avversa. Ancora più<br />

difficile è stabilire in che misura la memoria personale agì nell’elaborazione dell’avventura<br />

che si svolge nella quinta bolgia. Tuttavia, la chiave di lettura, per<br />

così dire, biografica, fornita da <strong>Pirandello</strong> non va affatto trascurata, tanto più che<br />

essa si presenta circonstanziata e ricca di prove atte a confermarne la validità. In<br />

primo luogo, è interessante notare come la premessa a quella che egli definisce<br />

felicemente «allegra vendetta» sia da lui posta già nella terza bolgia, dove vengono<br />

puniti i simoniaci:<br />

Con una trovata tra le più felici, perché naturalissima, ma naturalissima come può essere una<br />

vipera piena di veleno, Niccolò scambia Dante per Bonifazio VIII, perché questi, ladro della chiesa,<br />

volle veramente in terra cambiar le carte; far comparire Dante ladro del comune, facendolo<br />

accusare dai Neri come reo di baratteria. Ed è qui una suprema irrisione dell’accusa. – Tu m’hai<br />

preso per te, tu hai creduto ch’io fossi come te, viene a dire Dante con questa sua finzione.<br />

Dopo un rapido excursus degli episodi che si svolgono nelle bolge precedenti la<br />

quinta, funzionale a mettere in evidenza come neppure in questi casi si possa parlare<br />

di «comico», <strong>Pirandello</strong> entra nel vivo del XXI canto, passando in rassegna tutti quei<br />

passi che conforterebbero la tesi della partecipazione memoriale-biografica dell’autore.<br />

Un primo indizio in tal senso andrebbe colto già nei versi che aprono il canto:<br />

Così di ponte in ponte, altro parlando<br />

che la mia comedìa cantar non cura<br />

<strong>Pirandello</strong> interrogandosi su quale potesse essere il discorso intercorso tra il<br />

discepolo e e il suo maestro, arriva a questa conclusione: «Sarà fren dell’arte<br />

anche qui? Non credo. Il poeta non direbbe che di quest’altro che parlava con<br />

Virgilio non cura cantare. Il discorso, alla fine del canto precedente, era sulla luna<br />

piena benigna a Dante smarrito negli orrori della selva, alcuna volta. Quando?<br />

Forse nella più triste delle sue vicende: nella fuga per l’esilio dopo l’infame accusa.<br />

Ecco che forse possiamo intendere di quale argomento parlavano oltre questo<br />

ponte della quinta bolgia». In realtà questa interpretazione, per quanto attraente,<br />

non sembra esente da dubbi, dal momento che si basa su dati aprioristici e non<br />

verificabili in alcun modo. L’intenzionale vaghezza dell’autore sembra, invece,<br />

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<strong>Lezioni</strong> sull’Inferno <strong>dantesco</strong> a <strong>confronto</strong>: <strong>Pirandello</strong> e <strong>Bacchelli</strong><br />

funzionale a conferire verosimiglianza alla finzione del viaggio, che in tal modo<br />

sembra svolgersi in un’estensione cronologica ininterrotta.<br />

Proseguendo nell’analisi testuale, pochi versi dopo (vv. 7-18) si apre la lunga<br />

e complessa similitudine istituita tra lo scenario che caratterizza l’arsenale veneto<br />

e quello che si offre agli occhi dei viatores appena giunti nella quinta bolgia;<br />

<strong>Pirandello</strong> ha letto nelle terzine in questione un significato riposto, strettamente<br />

correlato alla natura della colpa lì punita:<br />

forse non la pece soltanto è da vedere nel paragone, ma anche tutto il daffare che in vita si<br />

diedero i barattieri, che qui non possono stare a galla – che navicar non ponno – e in vita con<br />

ogni sorta di maneggi e d’intrighi rifecer nuova la loro fortuna, o guasta la racconciarono, la<br />

rimpalmarono, e turarono i buchi alla loro barca che faceva acqua, ribattendola da prora e da<br />

poppa, e cercarono tutti i mezzi per arrivare al loro scopo (i remi), tessendo insidie (volgendo<br />

sarte), or con grandi or con piccole imprese rappezzate (l’artimone e il terzeruolo) […]. Opera<br />

tenebrosa, cioè svolta copertamente, di cui fuori non si scorge che il ribollimento, cioè l’armeggio,<br />

che a tratti cessa, appena appena sorga il timore che abbia potuto destare un sospetto<br />

in chi sta a spiare e non scorge più nulla.<br />

L’interpretazione di <strong>Pirandello</strong>, in sintonia con quella data a suo tempo da<br />

Benvenuto da Imola 5 , si pone in antitesi con la proposta crociana di vedere nella<br />

celebre similitudine una «piccola lirica a sé» 6 o una «parentesi ariosa» come dissero<br />

altri studiosi. Sebbene oggi appaia eccepibile l’ipotesi di lettura secondo cui<br />

l’arzana veneto sia da considerare paradigma della corruzione, è tuttavia interessante<br />

notare come <strong>Pirandello</strong> giustamente abbia preso le distanze da tutti coloro,<br />

allora la maggioranza, che ritenevano la similitudine «un pezzo di maniera»,<br />

tramite cui l’autore avrebbe fatto sfoggio virtuosistico delle proprie capacità<br />

espressive. Che il principio dell’arte per l’arte corrisponda ad un habitus artistico<br />

e mentale del tutto estraneo al poeta non occorre qui ripetere, ma non così<br />

ovvio era evidentemente al tempo di <strong>Pirandello</strong>, a cui, al di là della validità della<br />

sua interpretazione, va comunque riconosciuto il merito di non aver isolato le<br />

terzine in questione dal contesto del canto.<br />

L’arrivo in volo del diavol nero dà avvio alle azioni fortemente drammatiche<br />

che si succederanno incalzanti dal canto XXI fino all’inizio del XXIII;<br />

<strong>Pirandello</strong>, a questo punto, si chiede «Vediamo un pò come si svolge questa<br />

nuova commedia, e se tutto sia in quel che appare…o se tutta questa commedia<br />

non sia invece una finzione che nasconde, sotto l’apparenza grottesca, il dramma<br />

più doloroso», che è ovviamente quello personale dell’autore. Da questo momen-<br />

5 Secondo Benvenuto «per arsenatum intellige omnem curiam comitatum, sive dominorum,<br />

et maxime mihi videtur vidisse optimum exemplum in curia papae». Cfr. La Divina<br />

Commedia nella figurazione artistica e nel secolare commento, a cura di G. Biagi e G. L.<br />

Passerini, E. Rostagno e U. Cosmo, Torino, UTET, 1924-39, vol. I p. 512.<br />

6 B. CROCE, La poesia di Dante, Bari, Laterza, 1921, p. 93.<br />

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Francesca Fagnani<br />

to in poi la lettura del canto fatta dallo scrittore è palesemente finalizzata a far<br />

emergere gli elementi del testo che ne confermerebbero l’ispirazione autobiografica,<br />

evidente, secondo lui, già in quel consiglio dato a Dante da Virgilio di<br />

nascondersi: «giù t’acquatta / dopo uno scheggio, che alcun schermo t’aia tra le<br />

sporgenze cioè dello scoglio. Ma perché? – Perché non paja che tu ci sii. – Che<br />

tu sii qua, dove spadroneggiano questi diavoli neri, che ti prenderanno per un<br />

barattiere e ti vorranno uncinare». Dinanzi a questa scena, in cui «la finzione<br />

acquista la stessa consistenza della realtà viva», lo scrittore siciliano ci ricorda<br />

che «ora più che mai non dobbiamo dimenticare quel che Dante stesso non vuole<br />

che sia dimenticato, perché canone della sua poetica, che cioè la finzione deve<br />

sussistere innanzi a noi anche con l’altro suo valore ideale, l’allegorico»; a questo<br />

proposito specifica che questo non è certo uno di quei casi in cui l’allegoria<br />

è incarico sovrapposto e «non fa lume all’arte e illumina un concetto guastando<br />

la rappresentazione […]. Qui la felicità stessa della rappresentazione, così mobile,<br />

agile e precisa, ci dimostra che vivissimo è il sentimento; e che non un concetto<br />

dunque si vuol nascondere sotto il simbolo pensato e voluto; ma se il simbolo<br />

sussiste, è lui, il sentimento qui nascosto, che spontaneamente lo anima e<br />

avvalora. Nessuna violenza insomma è da fare qui alla rappresentazione». In<br />

questo caso, quindi, non pare difficile indovinare la dottrina che s’asconde /<br />

sotto il velame de li versi strani: «Virgilio è la ragione che consiglia a Dante di<br />

nascondersi per non esser ghermito da quei diavoli neri», guardiani dei barattieri<br />

che, nota <strong>Pirandello</strong>, si mostrano tanto pratici di Lucca che sembra non si siano<br />

mai mossi da quella città, che era, appunto, quartier generale dei Guelfi Neri;<br />

altro elemento questo che avvalora la sua tesi.<br />

Dopo l’apparente esito favorevole della trattativa tra Malacoda, capo dei<br />

Malebranche, e Virgilio, Dante esce dal suo nascondiglio «non senza l’avvilimento<br />

della paura d’essere da un momento all’altro ghermito, arroncigliato, coi<br />

nemici attorno, addosso […] esasperato dall’onta di non potersi neanche fidare<br />

della ragione». Il pellegrino per esprimere il proprio stato d’animo dinnanzi l’orrenda<br />

decina, inserisce il ricordo di un’impresa militare a cui ha partecipato: così<br />

vid’io già temer li fanti / ch’uscivano patteggiati di Caprona (vv. 94-95). Questi<br />

versi vengono così commentati da <strong>Pirandello</strong>: «Non è senza rimorso, né senza<br />

ragione qui, questo ricordo…Ora egli sa ciò che vuol dire trovarsi alla mercè<br />

d’implacabili nemici, capaci d’ogni inganno e d’ogni frode». La citazione di un<br />

evento personale acquisterebbe, dunque, grande significatività in un contesto<br />

denso di allusioni biografiche.<br />

La lettura del canto si avvia al termine, il quadro degli indizi testuali è completato<br />

e <strong>Pirandello</strong> può ormai trarre le sue conclusioni:<br />

Ebbene, non dobbiamo credere d’aver qui una grottesca rappresentazione della condanna<br />

del poeta e del suo bando? Non sono qui rappresentati, senza parere tutti i vari sentimenti che<br />

dovettero sorgere e agitarsi nell’animo di lui allora; e soprattutto il disprezzo per l’infame<br />

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<strong>Lezioni</strong> sull’Inferno <strong>dantesco</strong> a <strong>confronto</strong>: <strong>Pirandello</strong> e <strong>Bacchelli</strong><br />

accusa? Tutto di questo disprezzo è impregnato di riso, il quale è perciò così grottesco, laido<br />

e sconcio, come l’accusa, la condanna, il bando. La suprema irrisione dell’accusa, l’abbiamo<br />

avuta là, nel canto XX, nello scambio delle parti che comicamente fa Niccolo III; qua ne<br />

abbiamo la grottesca rappresentazione.<br />

Il ricordo dell’accusa subita avrebbe, dunque, ispirato l’intero episodio, che<br />

ne rappresenta, sia dal punto di vista diegetico, che espressivo, l’estrema e grottesca<br />

caricatura. Tutto ciò è confermato, secondo <strong>Pirandello</strong>, da tutta una serie<br />

di spie narrative, che concorrono a determinare la partecipazione biografica di<br />

Dante alle vicende narrate:<br />

l’atteggiamento del poeta, gli atti che vi compie, quel suo nascondersi perché non paja<br />

che ci sia consigliato dalla ragione, perché non lo ghermiscano davvero come barattiere quei<br />

diavoli che son neri; il ricordo di Caprona, e quel suo partirsi senza fiducia verso l’inganno<br />

d’un ponte che faccia via, con quella scorta, che fa riscontro a ciò che dice il Villani che i banditi<br />

con Dante si partirono dalla città accompagnati dai loro avversarii; il gesto dei diavoli,<br />

quel cacciar fuori la lingua, come a dire sguajatamente «gliel’abbiamo fatta» e il bando sonato<br />

da Barbariccia. Come non pensare che questo sia la grottesca parodia dello squillo di tromba<br />

del banditore che andò a citarlo a nome del podestà?.<br />

È stato, in realtà, esaurientemente dimostrato qualche decennio dopo da<br />

Aurelio Roncaglia sulla scorta di Curtius, come la diversa cennamella di<br />

Barbariccia sia da inserire pienamente nella lunga serie dei riducula medievali<br />

che avevano una lunga e ormai codificata tradizione in ambito europeo.<br />

La lettura del canto data da Luigi <strong>Pirandello</strong> è senza dubbio suggestiva e<br />

caratterizzata da fine acume critico, che gli permette una capacità di penetrazione<br />

non comune neppure fra i dantisti, per così dire, «di professione». A differenza<br />

di molti commentatori che lo hanno preceduto, egli si è interrogato sulla natura,<br />

l’indole della comicità dantesca, che come ha intuito perfettamente, non poteva<br />

essere considerata tout court un compiaciuto e divertito momento di pura ilarità;<br />

si tratta, invece, di un riso impregnato di amarezza, perché tramite esso<br />

Dante, nel XXI canto, rivela la condizione di barattiere che gli era stata assegnata<br />

e per mezzo della trivialità, che caratterizza le azioni e le parole degli ospiti di<br />

quella quinta bolgia, esprime il suo risentimento verso i responsabili dell’accusa<br />

che gli fu imputata: «l’indole e la ragione del riso è tanto più triste in fondo,<br />

quanto più sguajato, più plebeo si rappresenta quel comico; e la turpitudine, la<br />

sguajataggine, la volgarità si riferiscono a chi la condanna bandì». Non può ridere<br />

Dante del motivo, per quanto specioso, che lo pose fuori da Firenze e non può<br />

ridere di tanta abiezione e trivialità:<br />

La crudezza appunto di questa rappresentazione che non si arresta innanzi ai particolari più<br />

sconci e triviali, anzi ci assalta con essi, dimostra che non c’è affatto la compartecipazione di<br />

Dante alla commedia, e che perciò essa non va considerata per sé, nella sua volgare sconcezza,<br />

ma in relazione col poeta che solo non né ride né può riderne; e non rideremo più neanche noi,<br />

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Francesca Fagnani<br />

allora, perché avremo inteso che qui c’è un sarcasmo; il sarcasmo che non è mai commedia, ma<br />

è sempre un dramma che non può rappresentarsi tragicamente come dovrebbe, poiché troppo<br />

buffi, indegni e meritevoli di disprezzo sono gli elementi e le ragioni ond’è determinato.<br />

Il riflesso delle vicende personali del poeta è, quindi, secondo <strong>Pirandello</strong>, l’unica<br />

chiave di lettura che consente di decifrare la natura di quella particolare<br />

forma di comicità profusa nel canto, che egli chiama sarcasmo. In realtà la reticenza<br />

dell’autore in merito (nessun accenno alla sua incriminazione compare,<br />

infatti, nel testo) non offre alcuna garanzia circa la validità di una lettura totalmente<br />

autobiografica dell’episodio. Del resto l’accusa di lucra illicita era al<br />

tempo di Dante un espediente giuridico molto usato dalle fazioni vincitrici, formulato<br />

in modo talmente cavilloso da vanificare ogni tentativo di difesa. Dante,<br />

dunque, doveva essere consapevole di quanto fosse pretestuosa tale imputazione;<br />

dall’altra parte, tuttavia, è presumibile che egli si sentisse offeso per l’infamia<br />

subita. Tale risentimento, morale e civile, dovette riaffiorare durante la stesura<br />

della narrazione che si svolge nella quinta bolgia, che tuttavia non costituisce<br />

l’occasione, non gli fornisce il destro per enunciazioni polemiche o apologetiche<br />

da parte dello scrittore; questi piuttosto sceglie di manifestare tutta la sua<br />

esecrazione per un peccato rispetto al quale non potrebbe sentirsi più alieno,<br />

attraverso la creazione di un linguaggio decisamente sbilanciato in direzione<br />

comico realistica. L’interpretazione di <strong>Pirandello</strong>, in eccezionale anticipo rispetto<br />

ai dantisti a lui coevi, si muove proprio in questa direzione. Bisogna, infatti,<br />

riconoscergli il merito di aver intuito la profonda serietà e amarezza del riso <strong>dantesco</strong>,<br />

che trova la sua ragion d’essere nello stretto legame intercorrente tra forma<br />

e contenuto, tra «comicità» e repulsione morale.<br />

La storia esegetica del XXI canto dell’Inferno vanta un altro nome illustre<br />

della tradizione letteraria italiana: Riccardo <strong>Bacchelli</strong>. Lo scrittore dedicò all’argomento<br />

un articolo dal titolo Da Dite a Malebolge: la tragedia delle porte chiuse<br />

e la farsa dei ponti rotti, comparso nel 1954 sul «Giornale Storico della<br />

Letteratura italiana» e confluito poi nella raccolta dei suoi saggi critici. Lo scritto<br />

relativo all’episodio dei barattieri sembra rispondere alla tipologia delle letture<br />

dantesche, a cui, fra l’altro, <strong>Bacchelli</strong> non era nuovo: nello stesso anno compare<br />

su un’altra rivista, «Paragone», la lectura del canto XXXIII del Paradiso.<br />

Per ciò che concerne l’articolo sul XXI canto, tuttavia, non compare alcuna testimonianza<br />

circa la sua derivazione da una precedente lettura pubblica, sebbene<br />

per molti aspetti ne abbia assolutamente le caratteristiche. Tuttavia l’incertezza<br />

dell’origine e l’assenza di prove che ne dimostrino il carattere pubblico e orale<br />

fanno sì che questo breve saggio di <strong>Bacchelli</strong> venga escluso dal tipo di seminario<br />

che stiamo conducendo. Credo, tuttavia, che l’interessante lettura del canto<br />

data dallo scrittore meriti almeno un rapido accenno, soprattutto perché il suo<br />

approccio al testo risulta essere profondamente diverso da quello di <strong>Pirandello</strong>.<br />

A differenza di questi, egli infatti si mostrò decisamente disinteressato a coglie-<br />

224


<strong>Lezioni</strong> sull’Inferno <strong>dantesco</strong> a <strong>confronto</strong>: <strong>Pirandello</strong> e <strong>Bacchelli</strong><br />

re nell’episodio eventuali riflessi delle vicende biografiche del poeta e si interrogò<br />

invece sul senso dell’episodio senza ricorrere a spiegazioni aprioristiche ed<br />

extra-diegetiche. Sin da ora si può dire che la sua proposta di lettura comportò,<br />

nella storia dell’esegesi del canto, una significativa variazione di prospettiva: egli<br />

infatti riuscì ad intuire la complessa tematica religiosa alla base dell’avventura<br />

che si svolge nella quinta bolgia, mettendola poi in relazione con un altro episodio<br />

dell’itinerario infernale per molti versi affine, verificatosi alle porte della<br />

città di Dite. Da ciò, quindi, giunse immediata la deduzione di <strong>Bacchelli</strong> che non<br />

ci si trovava, come ancora i più ritenevano, davanti ad un inserto faceto estrinseco<br />

all’architettura del poema; Dante, infatti, «non opera fuor dell’opera, non episodizza.<br />

E la beffa di Malacoda…non va spiegata neanch’essa come tanto o<br />

quanto non coerente episodio, ma come un momento particolare, e nella sua particolarità<br />

coerentissimo, della discesa all’inferno di Dante condotto da Virgilio» 7 .<br />

L’episodio costituisce, dunque, una tessera perfettamente inserita nel complesso<br />

mosaico dello schema itinerale, la sua singolarità trova la sua ragion d’essere<br />

nella grande libertà del poeta che «si esercita anche, e diciamo pure soprattutto,<br />

nei riguardi della e delle proprie invenzioni» e che si tratti di «libertà, non arbitrio,<br />

non incoerenza, anzi coerenza ed unità più profonde, intime e necessarie,<br />

non accade ripetere». <strong>Bacchelli</strong>, asserita la pertinenza dell’episodio al contesto<br />

del poema, torna a chideresi riguardo alla beffa dei Malebranche quale sia «il suo<br />

fine preciso e particolare rispetto al proseguimento del viaggio? Che sia predestinata<br />

e dannata a fallire, è detto, predetto, implicito, in tutti i modi; ma […] la<br />

sua teologica inutilità si tradurebbe in un’inutilità poetica, se, geniale e stupenda<br />

quanto si voglia nell’esecuzione, formalmente, fosse e rimanesse giuoco, divertimento,<br />

estro fantastico, fuor d’opera e del poeta e dei Malebranche». Allora<br />

«come mai Malacoda ordina una trama essenzialmente inutile?». La ragione c’è<br />

ed è strettamente legata al tessuto delle credenze cristiane: quella di Malacoda<br />

come quella di tutti i diavoli è una guerra perduta in eterno «ma irremissibile<br />

appunto per questo, e con una posta, con una vittoria, anche se questa non consegua<br />

altro che una sempre uguale e sempre maggior perdizione: il peccato, la<br />

possibile perdita dell’uomo, la tentazione, l’esercizio della tentazione perditrice»,<br />

che come afferma anche San Tommaso è la principale attività diabolica. Con<br />

incredibile acume critico, <strong>Bacchelli</strong> riesce, prima di tutti, ad intuire la complessità<br />

dei contenuti religiosi sottesi all’inganno ordito dal capo dei Malebranche.<br />

Dietro alla tentazione demoniaca ci sarebbe la volontà tramite «l’inganno e la<br />

tentazione, di indurre in errore la mente razionale, di traviare il libero arbitrio in<br />

peccato. Nel caso, distinguendo, l’inganno può esercitarsi anche verso Virgilio,<br />

la tentazione soltanto verso Dante. Virgilio, infatti, anima non può peccare: erra-<br />

7 R. BACCHELLI, Da Dite a Malebolge: la tragedia delle porte chiuse e la farsa dei ponti<br />

rotti, in «Giornale storico della letteratura italiana», CXXXI, 1954, pp. 1-32.<br />

225


Francesca Fagnani<br />

re sì come mente raziocinante; Dante, uomo vivente, può errare e peccare». Il<br />

peccato più pernicioso per il pellegrino è quello a cui può condurlo la paura, che<br />

come sagacemente sottolinea <strong>Bacchelli</strong> è «la disperazione, peccato capitale e teologale;<br />

è disperar della salvezza e del soccorso, della Grazia di Dio. È l’accidia<br />

nera»; la paura è quel peccato per cui «Dante può render vano e rifiutare il soccorso<br />

del cielo mosso a emendarlo […] questo peccato è umano, naturale, inevitabile:<br />

terribile e in sé per sé spaventoso, in quanto in esso l’uomo peccatore,<br />

Dante, può ancora sempre perdersi e ricusare la salute eterna, anche nel viaggio<br />

in cui Virgilio lo guida e assiste». Si tratta, dunque, a parere dello studioso di un<br />

dramma perpetuo ed implicito, che riemerge più volte durante il percorso oltremondano<br />

di Dante ed ha un’importanza strutturale, come dimostra l’importanza<br />

che esso assume nel II canto dell’Inferno. La paura di Dante e l’errore di Virgilio<br />

sono da <strong>Bacchelli</strong> assunti come chiavi fondamentali per comprendere il senso<br />

dell’episodio dei barattieri, che egli, ancora una volta per primo, mette in relazione<br />

con quanto accaduto davanti alle porte di Dite: «il perenne dramma della<br />

discesa in inferno, della paura e tentazione di Dante, in cotesti due momenti della<br />

renitenza diabolica, tragico davanti a Dite, comico sull’argine di Malebolge, propone<br />

infatti, uguale e ripetuto, e aggravato l’errore di Virgilio». Errore che egli<br />

giudica «teologicamente necessario», in quanto la sua scienza, che conosce tutto<br />

il conoscibile razionale, per ciò che «appartiene alla Grazia, alla Rivelazione, alla<br />

Redenzione, è limitata, non illuminata». Per le ragioni sopra dette non ci si può<br />

dilungare eccessivamente sull’intervento dello scrittore toscano, denso, fra l’altro,<br />

di interessanti suggerimenti esegetici, che si riveleranno ricchi di futuro.<br />

Quel che interessa ora evidenziare è come la lettura di <strong>Bacchelli</strong> abbia significato<br />

un momento di svolta nella storia ermeneutica del canto; egli, infatti, mettendo<br />

soprattutto in relazione l’avventura della quinta bolgia con quella che si svolge<br />

a Dite, comprese come nel tessuto diegetico del canto fossero presenti una<br />

serie di motivi riconducibili ad uno schema continuamente riccorrente all’interno<br />

del percorso infernale: qui, come altrove, il viator si trova di fronte ad una<br />

serie di difficoltà che gli impediscono di proseguire il suo viaggio; gli ostacoli<br />

che i due pellegrini devono affrontare sono determinati dalla tenace opposizione<br />

delle forze demoniache, che non è solo una componente narrativa fondamentale,<br />

ma è un modo attraverso cui il poeta dà voce al timore cristiano del cedimento,<br />

della resa al male. Questo motivo sempre presente nella catabasi infernale, è<br />

decisamente centrale davanti alla città di Dite e nella quinta bolgia: in entrambi<br />

gli episodi, infatti, trova ampio spazio il tema della paura, che <strong>Bacchelli</strong> sottolinea<br />

essere un peccato e per giunta gravissimo, in quanto porta alla «disperazione»,<br />

agendo quindi direttamente su quella che era considerata una virtù teologale<br />

fondamentale, ovvero la speranza, che Dante stesso definirà, interrogato da<br />

San Giacomo, uno attender certo / de la gloria futura (Pd. XXV, vv. 67-68).<br />

Grande merito di Riccardo <strong>Bacchelli</strong>, quindi, è stato quello di far luce sulla pluralità<br />

e profonda serietà dei significati religiosi, connessi all’avventura che ruota<br />

226


<strong>Lezioni</strong> sull’Inferno <strong>dantesco</strong> a <strong>confronto</strong>: <strong>Pirandello</strong> e <strong>Bacchelli</strong><br />

intorno all’inganno di Malacoda (in cauda venenum), che è l’ultima e più vana<br />

occasione per l’inferno di «pervertire ai suoi fini perversi l’operato stesso della<br />

Grazia»; dietro alla crudele beffa, il letterato ha individuato il desiderio demoniaco<br />

di vendetta sull’uomo, la volontà di fargli perdere la salvezza eterna, il<br />

timore umano che ciò avvenga, le pericolose conseguenze della paura, prima fra<br />

tutte la perdita della speranza e quindi dell’attesa del regno dei cieli. Questa lettura,<br />

oltre a fornire una nuova prospettiva di ricerca, servì, inoltre, a liberare il<br />

canto XXI da valutazioni legate a preconcetti romantici ed elucubrazioni psicologistiche,<br />

che impedirono per lungo tempo la reale comprensione del canto.<br />

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