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FRANCESCO CRISCI IL FESTIVAL DI AVIGNONE: “UN ... - DIES

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<strong>FRANCESCO</strong> <strong>CRISCI</strong><br />

<strong>IL</strong> <strong>FESTIVAL</strong> <strong>DI</strong> <strong>AVIGNONE</strong>: <strong>“UN</strong> RÊVE QUE NOUS FAISONS<br />

TOUS!”. <strong>IL</strong> RACCONTO <strong>DI</strong> UN VIAGGIO NELLA FABBRICA<br />

DELLA CONOSCENZA ARTISTICA


«La logique mène à tout, à condition d’en sortir»<br />

(Alphonse Allais)<br />

«Tali son le chimere che ammaliano e sconvolgono all’alba della<br />

vita. Ho cercato di fissarle senza badare all’ordine, ma molti<br />

cuori mi comprenderanno. Le illusioni cadono l’una dopo l’altra,<br />

come scorze d’un frutto, e il frutto è l’esperienza. Il suo sapore è<br />

amaro; e tuttavia essa ha qualcosa di aspro che tonifica, – e mi si<br />

scusi questo stile antiquato».<br />

(“Sylvie”, di Gérard de Nerval, 1853)<br />

«Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus»<br />

(…)


1<br />

PROLOGO


I<br />

(Premessa per il lettore – impaziente)<br />

In cui l’autore chiederà al lettore di partecipare all’ambizioso progetto di elaborare una<br />

possibile teoria per la comprensione dei processi di produzione artistici nel caso del teatro<br />

contemporaneo, assumendo il punto di osservazione dei festival teatrali <br />

«“La vera filosofia è quella che ci permette di reimparare a<br />

vedere il mondo”; raccontando storie sui diversi modi in cui il<br />

mondo è stato visto lo si comprende “con la stessa profondità<br />

di un trattato di filosofia”»<br />

(Merleau-Ponty, citato da Ian Haking in apertura alla sua<br />

“Lezione inaugurale” al Collège de France nel 2001)<br />

Un paratesto è dato da “quell’insieme di messaggi che precedono, accompagnano o<br />

seguono un testo 1 ” (la definizione è di Gérard Genette), compresi quindi titoli,<br />

prefazioni, note, ecc., con lo scopo di fornire delle informazioni aggiuntive e di natura<br />

esplicativa che, teoricamente, non sono indispensabili al processo di interpretazione del<br />

testo vero e proprio. Questa sorta di prefazione, quindi, si configura come un paratesto,<br />

non fa parte direttamente del discorso narrativo di cui è composto questo saggio, ma<br />

vuole essere una sorta di “guida” per quel lettore pavido che, per motivi differenti, non<br />

voglia lanciarsi nella lettura senza un salvagente, un paracadute o altro strumento di<br />

sicurezza, a seconda che l’interpretazione di un racconto venga paragonata al tuffo in un<br />

immenso oceano spazzato dal vento, o ad un lancio da una alta montagna nel vuoto<br />

assoluto del cielo. Suggerimenti alla lettura, indicazioni (per la verità solo parziali) sugli<br />

obiettivi dello scritto, richiami alla sua architettura o spiegazioni sulla scelta del titolo,<br />

costituiscono i temi principali toccati in questa sorta di confessione sotto forma di<br />

vademecum.<br />

L’autore, in questo modo, vorrebbe venire incontro alle esigenze di quel lettore<br />

impaziente (e, per l’appunto, un po’ pavido) che dal documento si attende risposte<br />

precise e immediate con riferimento all’oggetto di questo lavoro e non può concedersi il<br />

tempo (e il lusso) di rielaborare e interpretare da solo le varie conoscenze che, sotto<br />

sembianze diverse, sono sparse in tutto il racconto.<br />

A quanti tra i lettori, invece, siano interessati alla storia e alle vicende narrate nella<br />

loro interezza, mantenendo inalterato lo spirito “interpretativo” del racconto, l’autore<br />

suggerisce di saltare la lettura di questa premessa. Questo è il consiglio dato dall’autore<br />

stesso al lettore impavido, colui che non ha timore di affrontare il testo senza una guida<br />

iniziale che lo metta in guardia dai tranelli e dai problemi della cooperazione<br />

interpretativa, fermo restando che lungo il racconto non mancheranno i punti in cui, tra<br />

le pieghe del testo, in modo più o meno esplicito, il lettore potrà trovare l’aiuto<br />

dell’autore.<br />

Quindi, caro lettore (a qualunque categoria tu appartenga) stai per cominciare a<br />

leggere un saggio originale (nel senso di “autentico”), «Il Festival di Avignone: “Un<br />

rêve que nous faisons tous!”. Il racconto di un viaggio nella fabbrica della conoscenza<br />

artistica» di F. C.: forse è una occasione buona per rilassarti, allontanando ogni<br />

pensiero e preoccupazione. Socchiudi la porta dell’ufficio, tanto oggi non è giornata di<br />

ricevimento studenti e non hai appuntamenti di lavoro; anzi, forse è meglio chiuderla, in<br />

corridoio c’è una confusa agitazione, forse a causa della sessione di esami in corso. Puoi<br />

1 Genette 1972, 1982.


avvisare i tuoi colleghi che non vuoi essere disturbato, e che comunque vi vedrete più<br />

tardi, alla solita ora per pranzare assieme, ma non prima. «Sto leggendo!», puoi<br />

giustificarti in questo modo. Assumi una posizione comoda: verosimilmente non puoi<br />

sdraiarti, quindi ti consiglio di stare seduto, di stendere le gambe e magari di allungare i<br />

piedi sul tavolo della scrivania; se è troppo alto, procurati un’altra sedia o uno sgabello,<br />

potrebbe essere sufficiente per sentirti più a tuo agio. Non avendo una poltrona, un pouf<br />

o una sedia a sdraio dovrai accontentarti dello schienale della sedia per appoggiare le<br />

spalle. Ma tanto la sedia è nuova ed è sicuramente più confortevole di quella vecchia<br />

seduta che ti avevano appioppato qualche tempo fa, uno scarto di magazzino di cui ti sei<br />

liberato recentemente: ora hai l’occasione per provare a sfruttare per intero la<br />

funzionalità della tua sedia da ufficio. Non c’è una posizione ideale per leggere:<br />

all’università e negli uffici pubblici non ci sono quasi più i vecchi leggii di una volta e<br />

oramai quasi più nessuno ha l’abitudine di leggere in piedi. Mi raccomando, regola la<br />

luce. Mettiti vicino alla finestra, soprattutto se c’è il sole: la luce naturale è sempre la<br />

migliore soluzione; oppure avvicinati ad una fonte luminosa, in modo tale che la pagina<br />

non resti in ombra. Ma attento, cerca di sistemarti in modo tale da non rimanere<br />

abbagliato: dal riflesso della luce contro la ciminiera d’acciaio che esce dal locale della<br />

caldaia all’interno del campus, sul lato del giardino che dà verso la strada; oppure dal<br />

riverbero delle finestre a specchio dell’edificio di fronte, inopinabile opera di cemento e<br />

vetro di un architetto temerario. Se fumi, prendi seriamente in considerazione l’ipotesi<br />

di smettere; ad ogni buon conto, non è il caso di deciderlo proprio ora e, quindi, porta<br />

vicino a te tabacco e posacenere, in modo tale da non doverti interrompere a lettura<br />

iniziata. Non è un romanzo di Calvino, quindi non farti troppe aspettative; in fondo sei a<br />

lavoro, e cosa pretendi che ti proponga? La lettura di un romanzo? Quindi, mettiti il<br />

cuore in pace: stai per leggere un saggio che avrebbe la pretesa di riflettere sui processi<br />

di produzione artistica e di metodologia della ricerca sociale, probabilmente in modo un<br />

po’ atipico rispetto a come, forse, sei abituato, ma è pur sempre un testo “serio” (potrei<br />

dire “scientifico”, ma non spetta a me giudicare). Mi sembra corretto avvisarti sulla<br />

natura dello scritto che hai tra le mani: in fondo, questo lavoro ti è stato mandato da<br />

parte di qualcuno che ti ha chiesto di leggerlo; non lo hai scelto tu e non è un libro che<br />

hai visto nella vetrina della tua libreria di fiducia; non ha una bella copertina (e forse<br />

non ce l’ha proprio) o non ha un formato grafico particolarmente accattivante (visto che,<br />

verosimilmente, si tratta di una riproduzione con una stampante laser non dissimile da<br />

quella del tuo ufficio); non è un articolo che hai scaricato volontariamente dalla banca<br />

dati on-line di una prestigiosa rivista in lingua inglese; e, altrettanto plausibilmente,<br />

prima d’ora, neanche conoscevi il tizio che dice di averlo scritto. Sono già un bel po’ di<br />

buone ragioni per “non” leggere le (tante) pagine che hai sotto gli occhi. Ma, d’altro<br />

canto e a pensarci bene, ti capita già di esercitare la lettura e il commento di tante<br />

brutture, ti passano tra le mani molte ricerche insipide e lotti quotidianamente con<br />

parecchi documenti incomprensibili: quindi, sapendo che fa parte dei rischi del mestiere<br />

quello di avere a che fare, spesso, con scritti inutili, tanto vale provare a leggere anche<br />

questo; eventualmente, il tuo cestino accoglierà altra carta in attesa di essere riciclata. Il<br />

rischio di una ennesima delusione non può essere poi così grave.<br />

Ma di cosa si tratta? Qualche chiarimento particolare merita soprattutto la prossima<br />

sezione, considerata come il “vocabolario” della costruzione teorica di questo studio:<br />

essa costituisce un “lungo” saggio di metodologia, ma questo, verosimilmente, già lo sai<br />

avendo sfogliato l’indice. Tali chiarimenti, una volta per tutte, ti renderanno più agevole<br />

muoversi all’interno dell’intera struttura successiva.<br />

VIII


Immagina, allora, un’epoca futura in cui la specie umana abitante sul pianeta<br />

chiamato Terra arrivi ad incontrare una popolazione umanoide che, come accade in una<br />

nota serie di film e telefilm, faccia della razionalità e del controllo delle emozioni,<br />

assieme alle tipiche orecchie a punta, le proprie caratteristiche principali. In quel futuro<br />

ipotetico, probabilmente i Terrestri avranno qualche difficoltà a far comprendere ai<br />

nuovi amici, venuti da un sistema solare vicino, che per un lungo periodo nella loro<br />

storia non era logicamente evidente ed univoco il modo in cui facevano della scienza, la<br />

maniera in cui la loro specie umana esplorava il mondo reale che viveva. Forse, in<br />

quello stesso futuro lontano, la proposta fenomenologica si sarà definitivamente ritirata<br />

dal dibattito sulla produzione di conoscenza (scientifica), e probabilmente termini come<br />

ermeneutica, agire comunicativo o interazionismo sibolico da un lato, pragmatismo e<br />

costruttivismo dall’altro, saranno diventati oggetto di “archeologia filosofica” per gli<br />

unici studiosi di fatti umani rimasti sul pianeta Terra, ovvero di antropologi, archeologi<br />

e filosofi. D’altro canto, in un mondo fantastico dove tutti comunicheranno con tutti,<br />

dove verrà meno un concetto di spazio di relazioni con dei confini “relativamente”<br />

ristretti, in cui l’economia viaggerà su binari globali come un sistema “automatico”<br />

senza più il problema della scarsità di risorse (energetiche ma soprattutto cognitive) e le<br />

decisioni politiche saranno prese a livello di macrosistemi interstellari: sono rimasti ben<br />

pochi fenomeni degni di attenzione per storici, linguisti, sociologi, economisti e<br />

politologi. Al più, i fenomeni da studiare sono quelli legati al passato (roba per<br />

archeologi e antropologi) e la filosofia da sola basta a garantire quel buon senso<br />

necessario per guidare le azioni future degli esseri che popoleranno quel mondo<br />

ipotetico, dominato piuttosto da ingegneri esperti di fisica quantistica e da conoscitori di<br />

“motori a curvatura” di materia-antimateria che, montati su navi stellari, permetteranno<br />

di creare subspazi attraversabili ad una velocità da trecento a seicento volte quella della<br />

luce.<br />

Questa parte, ma anche tutto il resto del lavoro è un viaggio virtuale nel tempo, un<br />

ritorno ad una linea temporale precedente al momento in cui i Terrestri avranno fatto la<br />

scelta di diventare troppo simili ai Vulcaniani, vale a dire, prima che, con gli occhi della<br />

maggior parte degli scienziati “naturali” (e non solo di quelli Vulcaniani, ma anche<br />

Terrestri), venga sancita la debolezza e il definitivo insuccesso delle scienze “sociali”<br />

ammettendo prove e adducendo dimostrazioni e giustificazioni che potrebbero diventare<br />

oggetto di seri rimpianti, decretandone prematuramente la sconfitta. Come direbbe<br />

Donald McCloskey, non si tratta di abbattere il razionalismo, o di sostituire<br />

l’irrazionalità al “cieco” modernismo prevalente negli studi economici: si tratta di<br />

convenire sul fatto che<br />

“l’oggettività dell’economia è cosa alquanto esagerata cui, soprattutto, viene data troppa<br />

importanza; […] la fecondità della scienza economica ha poco a che vedere con un razionalismo<br />

scientifico il quale ci consentirebbe di credere unicamente ad enunciati espliciti, fondati su dati<br />

verificabili e derivati da questi dati medesimi, in forza di un’influenza formale, costantemente<br />

disponibile alla verifica 2 » (p. 63)<br />

Per il mio lettore più attento alla teoria che ai fatti raccontati uscirò per un attimo<br />

dalla finzione (cinematografica e narrativa), e questo per rammentargli il punto di<br />

partenza delle mie riflessioni che seguono: i fattori di insuccesso delle c.d. scienze<br />

sociali rispetto alle scienze della natura sembra siano legati alla difficoltà di accettare<br />

2 McCloskey 1986.<br />

IX


l’idea che le prime siano in grado di formulare leggi generali e, quindi, di fare delle<br />

previsioni sul comportamento umano così come le seconde parrebbero capaci di<br />

proporre regole universali sul comportamento della materia organica e inorganica che<br />

compone l’universo. E che le scienze umane siano da considerare “giovani” rispetto alle<br />

scienze naturali costituisce un argomento evidentente falso o quanto meno debole per<br />

sostenere questa (ancora una volta, presunta) inferiorità (almeno metodologica) delle<br />

prime rispetto alle seconde: a ben vedere, le scienze dell’uomo sono “vecchie” tanto<br />

quanto quelle della natura, se non di più. Quindi è su altre prove e giustificazioni che<br />

filosofi e sociologi della scienza, scienziati della natura e scienziati sociali si sono<br />

affrontati per dibattere seriamente della questione del metodo scientifico, armandosi di<br />

quei sani dubbi circa la “Verità Assoluta” che ogni mente aperta dovrebbe coltivare,<br />

specie se si occupa, in un qualche modo, di Scienza. Con le parole di Nelson Goodman,<br />

citato anche da McCloskey, in quanto “tutt’altro che un nemico della razionalità”:<br />

«Lo scienziato che pensa di essere sinceramente votato alla verità inganna se stesso […] Egli<br />

cerca metodo, naturalezza, motivazione, e quando si ritiene soddisfatto riguardo a questi punti<br />

costruisce una verità che li rivesta. Egli stabilisce e scopre leggi che espone tanto quanto disegna e<br />

discerne i modelli che delinea 3 » (Goodman 1985, introduzione).<br />

Se la storia è la scienza degli uomini nel tempo (Bloch) e l’antropologia è la scienza<br />

degli uomini tout-court (Lévy-Strauss), la mia tesi è che il racconto possa costituire un<br />

interessante modo per avvicinare le due discipline su un piano teorico e metodologico,<br />

trattando la questione dell’azione umana e del trascorrere del tempo, sia negli aspetti<br />

diacronici che sincronici dello stesso fenomeno. Ecco dunque, che in questo quadro, si<br />

inseriscono le teorie letterarie e quindi la narrazione non solo come forma ma anche<br />

come struttura della conoscenza, con la proposta fenomenologica che sembra in grado<br />

di fare da tramite tra ermeneutica e antropologia. Tutto questo, a vantaggio degli<br />

studiosi di economia e management, alla ricerca di quella legittimazione teorica e<br />

metodologica (che potrebbe passare per l’idea di interpretazione) fino ad ora cercata<br />

guardando altrove, soprattutto alle scienze esatte e alle metafore (analogie – sic!) ad<br />

esse collegate. Non si tratta di affermare ancora una volta un principio secondo cui<br />

“l’erba del vicino è sempre più verde!”, ma più semplicemente si constata che<br />

l’economia sembra aver dimenticato il dialogo con le discipline “cugine”, con le altre<br />

scienze sociali.<br />

Se restringiamo il campo di interesse al caso dell’economia (e anche agli studi di<br />

organizzazione e management) Herbert Simon la vedeva in questi termini:<br />

«L’economia non dovrebbe studiare in modo astratto il comportamento razionale, ma ridefinirsi<br />

come lo studio empirico dei limiti della capacità di calcolo degli esseri umani e di come tali limiti<br />

influiscono sul comportamento reale…<br />

Se ci limitiamo [n.d.t.: si fa per dire!] ad analizzare la concreta capacità della mente umana di<br />

manipolare simboli e di creare modelli mentali della realtà […] allora c’è ancora molto spazio<br />

nello studio del comportamento reale degli individui, delle organizzazioni o meglio di quella<br />

complessa rete di azioni collettive che è l’azione umana»<br />

“Manipolare simboli e creare modelli mentali della realtà, al fine di studiare quella<br />

complessa rete di azioni collettive che è l’azione umana”: il lettore “professionale” non<br />

troverà nulla di particolarmente innovativo in queste parole, o nel presente tentativo di<br />

3 Parzialmente citato anche in McCloskey 1986, p. 81.<br />

X


mettere in pratica tale indicazione. In fondo, a volere semplificare il mio obiettivo, si<br />

tratta di ridare vigore ad una analogia fino ad ora poco o male utilizzata (se non<br />

addirittura svilita) negli studi di economia e management: l’analogia del testo, o il<br />

“paradigma dell’interpretazione testuale” (mi riferisco al significato che dà Paul<br />

Ricœur a questa espressione). Non è un caso che nell’ambito delle scienze dell’uomo,<br />

filosofi, storici e antropologi siano propensi a considerare che l’Uomo cominci a<br />

prendere coscienza della propria identità nel momento in cui si rappresenta<br />

liberamente e sulla base di (sempre nuove) convenzioni culturali nella sua vita<br />

quotidiana: ad esempio, a partire dal tardo Medioevo e per tutto il Rinascimento, questo<br />

aspetto è al centro del rilancio stesso della concenzione umana in tutte le discipline e<br />

che va sotto il nome di Umanesimo. Todorov, nei suoi saggi «Éloge de l’individu» e<br />

«Éloge du quotidien», considera come questo fenomeno si sia evoluto nella pittura<br />

(fiamminga nel primo caso e olandese nel secondo): in generale, quando gli uomini<br />

iniziano a “raccontarsi”, cominciano a sviluppare un’idea di “identità personale” che<br />

non è solo coscienza di sé intesa come propria esistenza («ipse», ovvero “in quanto se<br />

stesso”) ma anche di se-in-quanto-persona (sempre dal latino «idem», “proprio la stessa<br />

cosa”). Questa distinzione del concetto di identità personale permette di considerare (e<br />

interpretare) un passaggio di straordinaria importanza che ho ritrovato in modo<br />

particolare, ancora una volta, in Paul Ricœur: il passaggio dal linguaggio all’azione e<br />

quindi all’ascrizione di una azione ad un agente (in quanto colui che ha fatto una cosa) e<br />

all’imputazione allo stesso agente di una azione intesa queste volta in termini di giudizio<br />

(perché ha agito in quel modo, in quanto tale azione gli appartiene, gli è riconosciuta<br />

come propria). Questa distinzione può sembrare inultimente sottile ma risulta invece<br />

abbastanza pertinente per due aspetti: per capire come l’analisi del concetto di identità<br />

personale e quindi dell’azione degli individui passi per l’esigenza di mettere ordine<br />

nella “con-fusione” tra due intepretazioni contemporanee che possono essere date dello<br />

stesso concetto; e per capire quale contributo possa essere fornito dall’identità narrativa<br />

per uscire da questa impasse che riguarda l’identità personale e quindi l’azione umana<br />

(intesa, nel suo significato sociale, come rete di azioni collettive 4 ). In questo quadro è<br />

interessante pensare ad una nozione di identità narrativa a cui l’essere umano accede<br />

attraverso l’intermediazione della funzione narrativa (Ricœur):<br />

«[…] les vies humaines ne deviennent-elles pas plus lisibles lorsqu’elles sont interprétées en<br />

fonction des histoires que les gens racontent à leur sujet? Et ces “histoires de vie” ne sont-elles pas<br />

à leur tour rendues plus intellegibles lorsque leur sont applicués les modèles narratifs – les<br />

intrigues empruntés à l’histoire ou à la fiction (drame ou roman)?»<br />

Nella sostanza, caro lettore, tutto questo ragionamento serve a gettare un fondamento<br />

di ordine “filosofico” all’idea per cui sia possibile arrivare ad una intepretazione<br />

dell’agire umano attraverso la mediazione che può essere fornita dalla funzione<br />

narrativa, in quanto strumento particolarmente adatto perché gli esseri umani affrontino<br />

onestamente il problema della propria identità intesa in termini di capacità di agire<br />

(“chi” agisce e “perché”, o meglio “come”). E questo è, di tutta evidenza, un problema<br />

strettamente legato alle questioni che “stiamo” affrontando, visto che l’economia e il<br />

management, come ricorda lo stesso Simon, dovrebbero trattare proprio il tema dei<br />

limiti del comportamento umano. Certo, la costruzione dell’identità dell’agente è solo<br />

una delle possibili strade che possono essere intraprese per studiare il comportamento<br />

4 Czarniawska 1997, ma anche Latour 2006.<br />

XI


umano (e questo il lettore lo vedrà lungo tutto il racconto); ma, consapevole di questo,<br />

qui intendo semplicemente sottolineare che tale strada è, quanto meno, praticabile e<br />

sensata per l’analisi di specifici aspetti dell’agire umano e non va quindi tacciata a<br />

priori di colpe che non ha 5 .<br />

N. è il protagonista di tutto il racconto seguente: il narratore è un giovane ricercatore<br />

in formazione, impegnato in un progetto di ricerca sul Festival di Avignone e da tempo,<br />

tra l’Italia e la Francia, si sta dedicando alla fase di lavoro “sul campo” e della raccolta<br />

dei materiali per realizzare il suo lavoro. Il lettore lo troverà dapprima in una tappa di<br />

riflessione profonda su “come” redigere lo studio. Da quelle prime riflessioni, antiche,<br />

da dietro le quinte di uno spettacolo nascente, o recenti, rubate nel chiuso degli scaffali<br />

di una libreria, rientrerà in Francia o in Italia concludendo che il problema del “come”<br />

redigere la sua ricerca non può essere disgiunto dal contenuto della stessa, sia con<br />

riferimento all’oggetto del suo lavoro, sia per quanto riguarda gli specifici fenomeni che<br />

di quell’oggetto intende indagare.<br />

Il suo racconto porterà il lettore avanti e indietro nel tempo, seguendolo in quel<br />

sottile piacere della scoperta, lungo un percorso di ricerca in divenire, nel momento<br />

stesso del suo realizzarsi: da eventi accaduti anni or sono, a seguire la nascita di uno<br />

spettacolo teatrale da cui molto è sembrato avere inizio, fino a situazioni legate alla<br />

storia più lontana del Festival; oppure, attraverso riflessioni vecchie di qualche mese,<br />

quando, trascorrendo qualche ora dentro una libreria in Italia o in Francia, in una sorta<br />

di flusso di coscienza, rievoca le idee e i pensieri che gli suggeriscono la lettura di un<br />

manoscritto o di un anonimo testo capitatogli tra le mani, circondato da altri libri che in<br />

buona parte sono citati proprio all’interno del primo; o ancora ad Avignone, in estate, o<br />

a Parigi, in pieno inverno o da qualche altra parte in Italia, ma sempre lungo un percorso<br />

che, in alcuni anni, lo ha portato a maturare un progetto complessivo a cui, ora, sta<br />

cercando di dare struttura e forma, per condividerlo con il lettore stesso.<br />

Ma prima di cominciare ad affrontare le pagine che seguono, restando ancora<br />

all’interno di questa prima sezione dedicata al lettore impaziente, vorrei lasciare qualche<br />

altro piccolo riferimento su come è scritto questo lavoro in quanto è legittimo che il mio<br />

lettore sappia come il suo autore ha lavorato. Ma sul modo in cui il testo va letto, già ho<br />

detto più di quanto andava fatto e perciò il lettore dovrà sforzarsi il compiere il proprio<br />

lavoro.<br />

5 Il percorso che propongo al lettore a partire dalla sezione successiva e tramite la mediazione di N., il<br />

protagonista del racconto, mira ad analizzare la proposta metodologica del pensiero narrativo partendo<br />

dall’idea di interpretazione e considerando l’analisi degli aspetti tecnici per la realizzazione del materiale<br />

soggetto a interpretazione, per arrivare a definire cosa sia effettivamente un testo narrativo, allontanando<br />

il lettore dalla falsa credenza che una finzione narrativa sia un racconto su fatti dalla dubbia realtà e<br />

accuratezza e proponendo invece come elemento di analisi il concetto di testo scientifico realizzato<br />

attraverso tecniche narrative.<br />

XII


II<br />

(Introduzione-Incipit)<br />

In cui il lettore, continuando la lettura di questo paratesto, viene messo a parte delle<br />

(vere) intenzioni dell’autore, attraverso qualche suggerimento alla lettura, indicazioni (per<br />

la verità solo parziali), sugli obiettivi dello scritto, richiami alla sua architettura,<br />

spiegazione sulla scelta del titolo, … <br />

«“Lascio ai diversi futuri (non a tutti) il mio giardino dei<br />

sentieri che si biforcano”. Quasi immediatatamente compresi; il<br />

giardino dei sentieri che si biforcano era il romanzo caotico; le<br />

parole ai diversi futuri (non a tutti) mi suggerirono l’immagine<br />

della biforcazione nel tempo, non nello spazio. Una nuova<br />

lettura di tutta l’opera mi confermò in questa idea»<br />

(“Il giardino dei sentieri che si biforcano”<br />

di Jorge Louis Borges, 1941)<br />

Non ho velleità artistiche, da romanziere e non sono un letterato. Almeno su questo<br />

punto, non voglio che il lettore tragga conclusioni che sarebbero davvero lontane dalla<br />

realtà delle cose. Ciò che presento ora al lettore può al massimo manifestare una certa<br />

propensione o forse una sorta di attitudine di chi scrive al gusto per la citazione e per il<br />

collage. Tutt’al più, può essere considerato una sorta di pastiche letterario, una<br />

imitazione seriosa, maldestra e, a volte, goffa di testi narrativi altrui, per finalità<br />

tutt’altro che letterarie. Forse il mio tentativo di usare un testo narrativo per fare della<br />

ricerca sociale va al di là del travestimento o semplice tentativo di imitazione di grandi<br />

testi narrativi, o della trasposizione di un testo dal suo stile di origine ad un altro 6 . E<br />

questo, sempre ipoteticamente, fa di me al massimo uno “scrittore di fatti sociali”, un<br />

ipotetico e improvvisato narratore di storie organizzative, di questioni e problemi di<br />

management. Nulla di più, nulla di meno. Che, poi, fare ricerca in modo professionale e<br />

quindi non solo per il proprio personale diletto, comporti anche comunicare e scrivere,<br />

questo è talmente evidente da non potere essere oggetto di una qualsivoglia ammissione.<br />

Dunque, scrittore sì; ma non artista, letterato o romanziere. Lasciamo che ciascuno<br />

faccia il proprio lavoro: il mio è semplicemente quello di recuperare e cercare di<br />

trasmettere l’esperienza di ricerca di N., il vero protagonista del racconto.<br />

Questa mia precisazione ha anche un risvolto metodologico. Riprendo le frasi con cui<br />

Howard S. Becker comincia il suo “I mondi dell’arte”:<br />

«[…] Ho pensato che ci fosse un modo migliore [rispetto alle sociologie dell’arte<br />

convenzionali] per comprendere il coinvolgimento della società nella produzione dell’arte, ossia<br />

concentrarsi sul lavoro attraverso il quale si produce il romanzo o la sinfonia, piuttosto che sui<br />

prodotti stessi, intesi come oggetto a se stanti» (2004, p. 7).<br />

Come (forse) il lettore avrà modo di apprezzare in seguito, questo ragionamento non<br />

lo considero solo a me congeniale o più generalmente condivisibile per una questione<br />

di buon senso o di preferenze personali, ma sembra possa sgombrare il campo da<br />

alcune prospettive, da alcuni percorsi di ricerca e modi di parlare d’arte che, secondo<br />

la mia modesta opinione, bloccherebbero invece sul nascere un ragionevole<br />

6 Evidentemente il riferimento è a Genette 1982. Nel suo Palimpsestes lo studioso francese fornisce un<br />

interessante appoggio all’idea che l’autore sta cercando di spiegare in questa fase e che, tramite il<br />

contributo di N., approfondirà solo nelle pagine seguenti (il lettore può fare riferimento, in modo<br />

particolare, al successivo capitolo IV).<br />

XIII


confronto interdisciplinare sul tema della produzione artistica. L’esigenza di trovare<br />

un possibile punto di incontro tra sociologia dell’arte ed estetica, storia dell’arte ed<br />

economia, management e psicologia dell’arte, antropologia e semiotica, può essere<br />

cercato proprio nelle parole di Howard Becker:<br />

«[…] Mi è sembrato […] che il modo più adatto di riflettere sull’arte fosse guardare il lavoro<br />

svolto da tutte le persone coinvolte nelle attività di produzione di quelle opere che sì tanto<br />

ammiriamo e amiamo, per scoprire che cosa ha fatto ciascuno e come i diversi tipi di lavoro hanno<br />

reso possibile l’arte. E andare a vedere, inoltre, come le connessioni tra persone e organizzazioni<br />

influenzino l’attività degli artisti e come tali influenze si ritrovino nelle opere stesse» (ibidem, p.<br />

8).<br />

Le scienze sociali che si sono occupare in un qualche modo di arte, nella migliore<br />

delle ipotesi, hanno avuto la tendenza a considerarla come qualcosa di “speciale” da<br />

trattare con il dovuto rispetto oppure lontana dal proprio centro di interesse. Nel caso<br />

forse della sociologia o degli studi di storia dell’arte ciò ha portato a considerla con una<br />

sorta di “reverenza”, “come un’area di attività umane in qualche modo migliore della<br />

vita ordinaria”, in cui operano esseri sovrumani straordinariamente dotati (l’espressione<br />

e i termini in corsivo sono dello stesso Becker). D’altro canto, David Throsby introduce<br />

il possibile incontro tra economia ed arte come l’interazione tra «un uomo grasso,<br />

ipocondriaco, molto loquace e trasandato» con una «donna elegante, imprevedibile e<br />

con un non so che d’intrigante» (2001: introduzione). Come venirne fuori? Due<br />

“persone” così non dovrebbero avere nulla da spartire. E credo che, seppure nella mia<br />

breve esperienza, molti amici, studiosi ed esperti o operatori d’arte che ho avuto modo<br />

di incontrare sorriderebbero compiaciuti e condiscendenti ad una simile descrizione dei<br />

fatti e ad una tale conclusione. Ma queste stesse persone forse sanno anche come la<br />

penso a riguardo: se da un lato, vista l’attuale situazione del dibattito teorico e pratico,<br />

non posso che dar loro ragione; dall’altro non bisogna smettere di cercare una via per il<br />

“dialogo” e, sebbene non sia possibile fare miracoli, nutro ancora la speranza che sia<br />

possibile “dare una ripulita” al nostro personaggio e farlo incontrare con quella<br />

affascinante dama facendogli comprendere che forse non è così irraggiungibile come<br />

appare. Forse non è il caso di eccedere oltre con il gioco delle parti “antropomorfo”: ma<br />

il mio sospetto è che, preso atto di questa fascinazione reciproca e di questa sorta di<br />

attrazione più o meno infausta e inevitabile, di questo continuo rincorrersi, trovarsi e poi<br />

rinnegarsi, da entrambi i lati si stia un po’ perdendo di vista le regole di ogni buona<br />

relazione, a cominciare dalle buone maniere.<br />

***<br />

Qualche parola sulle logiche per la costruzione della struttura del testo e per<br />

comprenderne l’anatomia. La divisione in sezioni e in capitoli (nonché la divisione<br />

interna a questi) non è legata solo a questioni di natura tecnica e a specifici dettami<br />

narrativi. Naturalmente, anche questioni di contenuto hanno in qualche modo suggerito<br />

il percorso della storia. Compresa la prima sezione, che costituisce un paratesto e che<br />

risponde a specifiche esigenze legate al fatto che la narrazione fa riferimento a un testo<br />

scientifico, l’indice dell’intero lavoro prevede un percorso in cui si alternano differenti<br />

livelli di analisi che sembrano, dal mio punto di vista, ben coesistere tra loro: uno<br />

principale, dato dai contenuti delle sei sezioni; uno secondario, legato alla divisione in<br />

capitoli all’interno di ciascuna sezione, con la particolarità che i capitoli mantengono<br />

XIV


una loro continuità nella numerazione romana senza tenere conto del taglio operato<br />

dalla divisione in sezioni (indicate da numeri arabi).<br />

Ricorrendo all’idea di fabbrica della conoscenza (segnalata fin dal titolo), è possibile<br />

dire che si tratta di una costruzione che appoggia le sue fondamenta nella sezione 2 e<br />

che si sviluppa su due piani principali (la sezione 4 e la sezione 5) richiamando la<br />

metafora che guida le ipotesi del lavoro: il Festival di Avignone è paragonato ad uno<br />

spettacolo teatrale in cui, secondo gli studi di semiotica, è possibile distinguere il suo<br />

testo drammatico (ovvero le componenti della fiction) e il suo testo spettacolare (ovvero<br />

quanto avviene nella sala, una volta in scena, tra artisti e pubblico). La struttura di primo<br />

livello è completata dal lungo prologo iniziale (la sezione 3), che ne costituisce il piano<br />

terra, e l’epilogo (la sezione 6), il tetto di questa costruzione narrativa. Così come<br />

accennato in precedenza, all’interno di ciascun “piano” coesistono a volte anche diversi<br />

altri livelli interpretativi che si rivelano per nulla inconciliabili rispetto alla costruzione<br />

principale. Infatti, in primo luogo, lungo ciascun “piano” resta forte il legame con i<br />

concetti presenti nelle fondamenta del lavoro: se questa costruzione è paragonabile ad<br />

una fabbrica, in ciascun “piano” l’autore non farà altro che identificare, descrivere ed<br />

interpretare il funzionamento di quegli specifici macchinari della fabbrica della<br />

conoscenza (artistica) utilizzati a ciascun livello di analisi (ovvero all’interno di ciascun<br />

capitolo). In questo modo trovano posto nel testo e vengono utilizzate molteplici chiavi<br />

di lettura parallele che risultano però a supporto di quella principale: specifici<br />

stratagemmi interpretativi legati alla migliore comprensione di singoli aspetti del<br />

fenomeno più generale.<br />

A questo punto, il lettore si domanderà: “perché fare una scelta di questo tipo?”. La<br />

domanda è lecita e, in effetti, è legata ad una questione che potrebbe disorientare il<br />

lettore stesso che, preso dal panico, potrebbe considerare tutto lo studio come un<br />

racconto che contiene un “grosso pasticcio” teorico! Il principale livello di analisi di cui<br />

tenere conto è, quindi, quello legato alla prospettiva knowledge-based (secondo le<br />

posizioni assunte nei capitoli della seconda sezione e riprese nelle quattro sezioni<br />

successive) o, piuttosto, è quello di stampo semiotico, legato alla suddivisione tra le due<br />

sezioni centrali (la 4 e la 5) e in cui le altre componenti della struttura costituiscono un<br />

semplice “corollario” o completamento a supporto della descrizione degli eventi?<br />

C’è un qualche rapporto (magari di convergenza o di inclusione) tra queste due<br />

prospettive? Probabilmente sì, e lo stesso autore, magari intimamente, ne è<br />

profondamente convinto, ma: (i) non è in questa sede (in un “paratesto” – sic!) che egli<br />

ritiene di poter discutere di questo aspetto e, (ii) non è l’intenzione di chi scrive trovare<br />

(a tutti i costi) una qualche relazione tra le due prospettive, attraverso il loro (semplice)<br />

accostamento nella costruzione della struttura portante del presente studio.<br />

E’ opinione dell’autore che questa “complicazione” dei livelli di analisi sia<br />

necessaria (e sufficiente) a fornire un quadro plausibile (cioè ragionevolmente semplice<br />

e generale) del fenomeno che si intende esplorare. Tutto questo non ha fatto altro che<br />

materializzarsi nella principale tesi della presente ricerca, secondo cui, in effetti, un<br />

“buon” Festival altro non è che un produttore di “cultura” che gioca un ruolo specifico<br />

all’interno di un sistema organizzato di produzione di significati di cui è egli stesso<br />

parte e le cui relazioni egli tenta di gestire, assumendosi una responsabilità che gli è<br />

assegnata dalla storia e dal percorso (strategico) del sistema stesso.<br />

Un’ultima curiosità su questa parte. Al lettore interesserà sapere che: se è stato<br />

relativamente facile e immediato individuare nella teoria semiotica (e negli studi di<br />

antropologia culturale) il “normale” piano teorico per il primo problema di ordine<br />

XV


ontologico (la comprensione di quel particolare linguaggio umano che è l’arte); non è<br />

stato altrettanto agevole individuare una teoria (la prospettiva knowledge-based) che<br />

potesse mettere d’accordo tale prospettiva (e l’oggetto di analisi di questo lavoro) con<br />

quello che è il suo specifico “limite” (inteso semplicemente in termini di “confine<br />

naturale e politico” dello studio) ovvero il fatto di trattarsi pur sempre di una ricerca di<br />

organizzazione e management.<br />

***<br />

Detto della struttura, vorrei ora puntualizzare quattro aspetti di contenuto: 1) l’ambito<br />

della mia ricerca; 2) che valore abbia la nozione di opera aperta e la prospettiva<br />

knowledge based per lo studio dei processi di produzione e consumo dell’arte; 3) cosa<br />

significhi parlare di “struttura di un’opera aperta”, nonché di propagazione della<br />

conoscenza con riferimento ai fenomeni culturali; 4) infine, i limiti del mio “discorso”.<br />

1. Anzitutto, mi preme definire in modo più esplicito l’ambito di questo lavoro e<br />

della ricerca di cui fa parte. Questo è principalmente un saggio di management delle<br />

organizzazioni artistiche, e in particolare sui processi di produzione del teatro<br />

contemporaneo. Come il lettore potrà appurare, né io né il narratore del racconto che<br />

segue siamo studiosi di estetica, di semiotica, di storia o di sociologia dell’arte. Ma<br />

nonostante questo, nel titolo di questo saggio e in diverse sue parti, compaiono, bene in<br />

evidenza, termini come «testo drammatico e spettacolare», «programmazione<br />

artistica», «poetica». Può risultare sconvolgente che uno studioso di management<br />

intenda in un qualche modo occuparsi di questo tema, ma confido di svelare subito<br />

l’arcano e la prospettiva di ricerca che intendo qui proporre al mio lettore.<br />

Come sottolinea Eco nel suo “Opera aperta 7 ”: se «l’opera d’arte è un messaggio<br />

fondamentalmente ambiguo, una pluralità di significati che convivono in un solo<br />

significante» (p. 16); allora il filone più tradizionale degli studi di estetica definisce il<br />

termine poetica come «lo studio delle strutture linguistiche di un’opera letteraria» (p.<br />

17). Tale prospettiva può allargare «l’accezione di tale termine a tutti i generi artistici»,<br />

considerando la poetica come «le modalità di quell’atto di produzione che mira a<br />

costituire un oggetto in vista di un atto di consumazione» (ibidem: 17-18, corsivo<br />

originale). Dunque, la poetica può essere definita «come il programma operativo che<br />

volta a volta l’artista si propone, il progetto di opera a farsi quale l’artista esplicitamente<br />

lo intende» (p. 18); e una ricerca sulle poetiche dovrebbe fondarsi tanto sulle<br />

«dichiarazioni espresse degli artisti» quanto «su una analisi delle strutture dell’opera, in<br />

modo che, dal modo in cui l’opera è fatta, si possa dedurre come voleva essere fatta» (p.<br />

18). Recuperare l’idea che non sia possibile tenere lecitamente distinti il processo dal<br />

suo risultato ha dei risvolti importanti con riferimento all’oggetto di questo lavoro:<br />

permette di introdurre una prospettiva “estetica” per cui «un’opera è al tempo stesso la<br />

traccia di ciò che voleva essere e di ciò che di fatto è»; la qual cosa non è troppo lontana<br />

da una concezione “teorica” di produzione che riteniamo particolarmente congeniale<br />

alla prospettiva di ricerca (di management) che costituisce l’ossatura, l’architettura<br />

stessa, dell’intero progetto in cui questo studio si inserisce. In altri termini, ciò ci<br />

permette (e forse costringe lo studioso di economia e di management interessato alla<br />

7 I numeri di pagina si riferiscono all’“introduzione alla II edizione”, presente nella edizione del 2004 di<br />

“Opera aperta”, per i Tascabili Bompiani.<br />

XVI


produzione artistica) di introdurre l’idea di produzione di conoscenza come «un<br />

processo circolare, [in cui] l’output deve rigenerare le proprie premesse; […] ma non<br />

deve riprodurre il suo input, deve innovare per giustificare la propagazione 8 ». Inoltre,<br />

l’accostamento tra produzione artistica e processi di produzione (cognitivi) analizzati da<br />

quella particolare prospettiva manageriale passa anche e soprattutto per lo studio dei<br />

processi di consumo (artistici), in quanto parte integranti della definizione stessa di<br />

“poetica” (leggi di “produzione artistica”).<br />

2. Quel che è possibile anticipare, a tal proposito, è che per creare un progetto serio<br />

per la comprensione della produzione artistica mi è sembrato determinante accostare<br />

una teoria che permettesse di comprendere quel particolare linguaggio umano che è<br />

l’arte, con una teoria che fosse in grado di interpretarne i processi di produzione (e in<br />

questo caso di creazione di significati) all’interno della “fabbrica” demandata a creare e<br />

diffondere tale linguaggio sotto forma di “prodotti culturali”. Secondo Umberto Eco 9<br />

per un uso antropologicamente corretto del termine “cultura” è infatti necessario<br />

mettere assieme almeno tre fenomeni (culturali) differenti per arrivare a comprendere a<br />

pieno il concetto principale: (i) la produzione e l’uso di oggetti (sotto forma di<br />

conoscenze) che, assumendo varie forme (cognitive), trasformano la relazione uomonatura;<br />

(ii) la diffusione di quelli che diventano prodotti “cognitivi” (nel significato<br />

economico-manageriale del termine); (iii) le relazioni (sociali e si potrebbe dire<br />

organizzative) all’interno di rapporti istituzionalizzati e la regolamentazione di tali<br />

relazioni (su basi cognitive). Assieme alla nascita di un linguaggio, questi tre fenomeni<br />

sembrano essere costitutivi di ogni “cultura”. Riletto in questi termini, lo scopo della<br />

mia ricerca è esplorare le possibilità teoriche di uno studio in chiave organizzativa e<br />

manageriale dei fenomeni di produzione artistica, identificando e descrivendo il caso<br />

specifico dello spettacolo teatrale come un particolare fenomeno di significazione e di<br />

comunicazione (un mediatore cognitivo e un tipo di conoscenza connettiva) la cui<br />

produzione avviene all’interno di un sistema (sociale) di regole che è dato dalla sua<br />

filiera (cognitiva). La struttura di questo più complessivo progetto di ricerca per lo<br />

studio dei processi di produzione artistici (e questo lavoro ne costituisce solo una<br />

tappa), ha seguito, quindi, due esigenze specifiche: (i) da un lato permettere di intendere<br />

la cultura stessa come un fenomeno di significazione e di comunicazione, assumendo<br />

una prospettiva semiotica (e antropologica) per la comprensione della produzione<br />

artistica quale esempio particolare di studio della “cultura” 10 ; (ii) e dall’altro,<br />

considerare fino in fondo i risvolti legati alla formula “creare conoscenza attraverso<br />

altra conoscenza 11 ”, permettendo di allargare la prospettiva di ricerca degli studi di<br />

management a livelli di analisi per certi versi non completamente percorsi da tale<br />

disciplina.<br />

3. Una coerente propettiva knowledge-based dei processi di produzione passa per<br />

lo sviluppo dell’idea che 12 : (a) «[…] la conoscenza viene ad essere, nello stesso tempo,<br />

il principale fattore produttivo, ma anche il principale prodotto ottenuto dai processi<br />

produttivi […]»; (b) che «la materia prima, da cui parte il processo di produzione, è<br />

8<br />

Rullani 2004b: 23-24, il corsivo è nostro.<br />

9<br />

Eco 1975.<br />

10<br />

Ad esempio, Eco 1975 in generale, e Elam 1980 nel caso specifico del teatro.<br />

11 Rullani 2004a e 2004b.<br />

12 Rullani 2004b: 24.<br />

XVII


fornita da conoscenze precedenti che mettono a disposizione informazioni,<br />

rappresentazioni, metodi e significati di partenza»; (c) e che «sono sempre le precedenti<br />

conoscenze a fornire le “macchine” richieste dalle lavorazioni cognitive, ossia quei<br />

dispositivi logici e metodologici che consentono di “lavorare” le conoscenze possedute,<br />

mettendole a confronto con quanto di nuovo viene osservato o sperimentato».<br />

In attesa di fare incontrare Umberto Eco (e “sua” concezione di opera aperta) ed Enzo<br />

Rullani (con la “sua” fabbrica dell’immateriale), affinché ci possano dare la loro<br />

interpretazione “autentica”, nel senso di “autorevole”, circa l’attribuzione di significato<br />

a questi termini e il collegamento tra questi concetti, il lettore indulgente si accontenterà<br />

della mia interpretazione “letterale” e “autentica”, nel senso di “originale”, che vorrò<br />

darne. In breve, il passaggio chiave del mio ragionamento è stato che il “dialogo”<br />

ipotetico tra le due prospettive richiamate nel punto precedente – la i) e ii) – oltre che<br />

possibile, può risultare estremamente interessante e utile per affiancarle nello studio di<br />

quei particolari processi che costituiscono la produzione artistica 13 . Soprattutto con<br />

riferimento al ruolo dei consumatori 14 , ovvero a quel rapporto tra opera e fruitore caro<br />

anche agli studi di sociologia e psicologia dell’arte oltre che di estetica, sembra<br />

possibile riscoprire «il momento di una dialettica tra la struttura dell’oggetto, come<br />

sistema fisso di relazioni, e la risposta del consumatore come libera inserzione e attiva<br />

ricapitolazione di quello stesso sistema» (p. 20, il corsivo è nostro). E il passo verso una<br />

prospettiva knowledge-based degli studi economici e della fabbrica dell’immateriale<br />

per gli studi di management non pare eccessivamente lungo qualora si prenda<br />

seriamente in considerazione l’idea che anche il consumatore, all’interno di una filiera<br />

cognitiva, sia anch’egli un “creatore di conoscenza a mezzo di altra conoscenza”. Ciò<br />

presuppone la possibilità di sgombrare il campo da molti dei problemi di ordine<br />

“ontologico” (oltre che teorico), che altre prospettive di ricerca (economiche ma anche<br />

di management) hanno riscontrato nell’affrontare i fenomeni artistici in tutta la loro<br />

casualità, indeterminatezza, aleatorietà, ambiguità, plurivalenza. In sostanza, quella<br />

dell’opera aperta è qualcosa di più di una analogia particolarmente forte rispetto al<br />

concetto di propagazione della conoscenza: per certi versi ne costituisce un caso<br />

esemplare in quanto utilizza contemporaneamente e in modo piuttosto efficace, molte<br />

delle possibili strategie di trasformazione di una conoscenza originaria e in questo<br />

processo adotta macchinari e lavorazioni piuttosto singolari rispetto ai casi ideal-tipici<br />

che possono essere rintracciati nei tradizionali campi di indagine degli studi di<br />

economia e management. E sono proprio queste particolarità a farne un adattamento<br />

(teorico e pratico) straordinariamente dimostrativo.<br />

4. Sempre secondo Eco, l’ambiguità è insita nel messaggio dell’opera d’arte e<br />

l’ambiguità è collegata alla dialettica (al discorso) tra la sua forma e la sua apertura. A<br />

tale rapporto dialettico, come parte integrante del concetto stesso di “poetica”, partecipa,<br />

attivo più che mai rispetto ad altre attività umane, il consumatore d’arte il quale<br />

dovrebbe avere a disposizione l’opera intesa come «[…] un oggetto dotato di proprietà<br />

strutturali definite, che permettano ma coordinino l’avvicendarsi delle intepretazioni, lo<br />

spostarsi delle prospettive» (p. 16).<br />

L’opera aperta e un “adeguato” approccio allo studio dei processi produttivi<br />

attraverso la conoscenza costituiscono dei modelli ipotetici per affrontare il fenomeno<br />

13 Crisci 2006a, 2006b.<br />

14 Sherry 1983; Belk 1988; Celsi, Rose, Leigh 1993; Holt 1995; Schouten, McAlexander 1995;<br />

Valliquette, Murray, Creyer 1998; Dalli, Romani 2003; Joy, Sherry 2003.<br />

XVIII


della produzione artistica con in più la particolarità legata al fatto che «tali nozioni non<br />

indicano tanto come i problemi artistici vengono risolti, ma come vengono posti» (p.<br />

19); altrimenti detto, studiare il processo piuttosto che il suo risultato costituisce un<br />

cambiamento di prospettiva non facile da sostenere fino in fondo. Infatti, se a suo tempo<br />

ha scandalizzato «[…] applicare il modello fruitivo dell’opera aperta sia a un quadro<br />

informale che a un dramma di Brecht» (p. 20, il corsivo è nostro); altrettanto avventato<br />

potrebbe apparire, oggi, l’applicazione della propagazione della conoscenza tanto alla<br />

lettura storica della fabbrica fordista quanto alla interpretazione attuale del capitalismo<br />

delle reti 15 . I parallelismi non sono però solo in negativo: come, infatti, il modello<br />

dell’opera aperta può risultare utile all’individuazione di una forma comune al<br />

fenomeno dell’arte contemporanea; così quello della propagazione della conoscenza<br />

può contribuire ad una interpretazione contemporanea del concetto reale di creatività e<br />

di valore nella produzione economica 16 .<br />

In termini di linguaggio specifico, di seguito parlerò dell’opera come “forma” e cioè:<br />

«[…] di un tutto organico che nasce dalla fusione di diversi livelli di esperienza<br />

precedente (idee, emozioni, disposizioni ad operare, materie, moduli d’organizzazione,<br />

temi, argomenti, stilemmi prefissati e atti d’invenzione). Una forma è un’opera riuscita,<br />

il punto di arrivo di una produzione e il punto di partenza di una consumazione che –<br />

articolandosi – torna a dar vita sempre e di nuovo, da prospettive diverse, alla forma<br />

iniziale» (p. 21, il corsivo è nostro). Il concetto di opera riuscita può essere raffrontato a<br />

quello di conoscenza connettiva che utilizza Rullani: se la prima è un’esperienza che è<br />

al contempo punto di arrivo e punto di partenza di una forma che si rinnova<br />

continuamente attraverso il suo consumo; la seconda altro non è che «un’esperienza<br />

originale assimilata e incorporata in una conoscenza [di partenza] che ha la qualità di<br />

essere valida, riproducibile, distribuita e integrata» divenendo così pronta all’uso in<br />

altri contesti diversi da quello di partenza 17 .<br />

In breve: lo schema che propongo risponde a tutte le domande circa la natura e la<br />

funzione del teatro contemporaneo, del teatro in generale e dell’arte tout court?<br />

Certamente no. L’architettura del presente saggio, che poggia le sue fondamenta su un<br />

certo modello teorico, non intende riprodurre una presunta struttura oggettiva del<br />

fenomeno che tratta, sia esso quello del pubblico dei festival o, quello più generale, dei<br />

processi di produzione artistici e del ruolo dei consumatori in tale processo. Ogni<br />

ulteriore obiettivo potrebbe risultare fuorviante e concettualmente scorretto.<br />

Un’ultima questione: perché anche questa sezione e, soprattutto, la prossima sono<br />

costruite come un racconto, come una sorta di diario di lavoro (seppur in una forma<br />

molto semplice)? Era veramente necessario che assumessero questa struttura e questa<br />

forma? Di fatto, sono qui con l’intento di riprodurre parte di una storia cominciata negli<br />

ultimi anni, per recuperare l’aspetto processuale di azioni e pensieri nati, sviluppatisi e<br />

sedimentatisi negli ultimi due anni ma anche prima, e che, quasi senza averne coscienza,<br />

hanno preso forma in pochi mesi e settimane. La produzione del sapere, la nascita di<br />

una idea, lo sviluppo di un progetto comportano, anche, organizzarne in quelche modo<br />

la forma: quello che cercherò di dimostrare è che anche la storia raccontata in questa<br />

parte del lavoro è funzionale al suo contenuto; anche in questo caso storia, racconto e<br />

narrazione sono tra loro collegati da un filo rosso che, in parte, sta al lettore trovare. E,<br />

15 Rullani, 2004b: capitoli 7, 8, 9 e 10.<br />

16 Rinviamo a quanto già sottolineato nella nota n. 2 a pagina 3.<br />

17 Rullani 2004b, p. 58.<br />

XIX


in fin dei conti, viaggiando tra l’Italia e la Francia, tra uno spettacolo teatrale e la<br />

polvere degli uffici nelle università, credo che anche al mio lettore possa fare piacere<br />

comprendere parte di quel misterioso processo creativo che è la nascita di una idea, di<br />

un pensiero, di una ricerca (o, meglio, di una parte di esso!).<br />

Ma adesso è davvero giunta l’ora, caro lettore, di lasciarti compiere il tuo destino, e<br />

non mi resta davvero che augurarti buona lettura; e, siccome ogni testo è “una<br />

macchina pigra” che richiede il tuo contributo per mettersi in moto, non posso che dirti<br />

anche buon lavoro!<br />

Francesco Crisci<br />

Dip. Sc. Economiche e CRG-PREG<br />

Udine e Parigi, 2005-2007<br />

XX


2<br />

UN PERCORSO <strong>DI</strong> RICERCA PER LA COMPRENSIONE DEI<br />

PROCESSI <strong>DI</strong> PRODUZIONE DELLA CONOSCENZA<br />

(ARTISTICA). <strong>IL</strong> VOCABOLARIO DELLO STU<strong>DI</strong>O


III<br />

(Prologo. Racconto della nascita di uno spettacolo teatrale: “produrre conoscenza (artistica) a mezzo di<br />

conoscenza”)<br />

In cui, attraverso il racconto della nascita di uno spettacolo teatrale, il lettore<br />

comprende cosa significa “produrre conoscenza a mezzo di altra conoscenza” <br />

Oggi, da qualche parte a Udine.<br />

«Le operazioni richiedono e un materiale e dei mezzi<br />

strumentali includenti così gli arnesi di lavoro come le<br />

tecniche. Quanto più i materiali e i mezzi strumentali vengon<br />

preparati in anticipo in vista del loro operare congiuntamente<br />

come mezzi per i risultati da raggiungersi, tanto meglio le<br />

operazioni effettuate sono suscettibili di controllo. […]<br />

L’esemplificazione è tratta dai processi delle tecniche<br />

industriali. Ma il principio si applica anche ai processi<br />

d’indagine»<br />

(«Logica, teoria dell’indagine»,<br />

di John Dewey, 1949: 48)<br />

DORN «Come sono tutti nervosi! Come sono tutti nervosi! E<br />

quanto amore… Oh, lago stregone!»<br />

(«Il Gabbiano», atto I, di Anton Cechov)<br />

«Naturalmente un manoscritto», mi verrebbe da dire. In effetti, non si trattava<br />

veramente di un manoscritto e non era neppure un antico volume che narrava la<br />

“terribile storia” di un qualche monaco del Medioevo alle prese con gli oscuri delitti di<br />

una abbazia. Ad ogni modo, alla fine del 2002 navigando sulla rete delle reti, tra i siti di


editori i più vari, il fortuito rinvenimento di un testo mi riportò alla mente il ricordo di<br />

una piacevole esperienza che ebbi modo di vivere un paio di estati prima. Il libro in<br />

questione era “Il Gabbiano secondo Nekrosius” di Cristian Giammarini, per l’editore<br />

Ubulibri e costituiva il resoconto, il “diario di bordo”, trascritto da uno dei partecipanti,<br />

di un laboratorio teatrale itinerante. Per il secondo anno consecutivo quello stage,<br />

realizzato con i giovani attori dell’allora Ecole des Maîtres, veniva tenuto dal maestro<br />

Eimuntas Nekrosius che, in quella occasione, si era impegnato in un progetto di<br />

approfondimento e di preparazione basato, per l’appunto, su “Il Gabbiano” di Anton<br />

Cechov.<br />

La mia mente volò dapprima a Venezia dove, durante l’estate del 2001, lo spettacolo<br />

venne presentato per la prima volta e poi, ancora più indietro, a ricomporre il ricordo del<br />

precedente periodo, all’inizio dell’estate, durante la quale assistetti alla nascita di quello<br />

spettacolo che sarebbe divenuto un successo. Debbo la scoperta di Nekrosius agli amici<br />

del teatro di Udine; e debbo infinita gratitudine tanto al primo quanto ai secondi per<br />

avermi dato l’opportunità di esplorare un mondo, quello dello spettacolo dal vivo, da<br />

una prospettiva inusuale e che ancora oggi, da spettatore interessato e professionale,<br />

tanto mi affascina.<br />

I fatti su cui la mia memoria divagava accaddero, appunto, qualche anno fa e non<br />

ricordo, nel dettaglio, come quell’ennesimo fortunato incontro si sia reso possibile.<br />

Spesso gli atelier di pittori e scultori, le sale-prova di musicisti e ballerini, i palcoscenici<br />

durante le ripetizioni di uno spettacolo teatrale, non sono luoghi facilmente accessibili ai<br />

non-addetti-ai-lavori; altrettanto spesso il pubblico potenziale non è neppure a<br />

conoscenza che qualcosa di misterioso e, secondo alcuni, di sacro sta avvenendo in un<br />

qualche spazio cittadino non distante dai luoghi della propria vita quotidiana. Ma,<br />

d’altro canto, chi può dire dove si trovi, in un dato momento, un artista per produrre la<br />

sua arte, quell’essere che nella visione popolare è, per principio, in modo a volte<br />

aforistico, sfuggevole ed enigmatico? Il mistero dell’arte pare essere legato al fatto che<br />

in un qualunque luogo e momento si può assistere ad una qualche manifestazione di<br />

creatività artistica, trovandosi immersi in una fase di un più ampio processo produttivo<br />

che è al contempo personale, sociale e istituzionale-relazionale. Un movimento<br />

apparentemente inconsulto su un palcoscenico, una pennellata isterica su una tela o una<br />

improvvisazione alla ricerca della corretta melodia sono isolati atti creativi che presi<br />

singolarmente, tanto da un osservatore esterno quanto dallo stesso artista che li realizza,<br />

possono avere ben poco senso essendo parte di un tutto che è ancora in divenire e quindi<br />

effimero, e che tra l’altro conserva tale carattere di transitoria fugacità anche una volta<br />

giunto a completamento. Quanto di ore ed ore di prove per uno spettacolo entrerà a far<br />

parte di una sua rappresentazione? Quante idee, quanti pensieri di una giornata di lavoro<br />

si tradurranno in una sola nota o in un solo colpo di scalpello? E quanta parte di un<br />

lavoro lungo, singolare e collettivo, arriverà mai ad un pubblico per divenire anche<br />

relazione e, quindi, farsi sostenibile?<br />

L’argomento di questa parte del mio racconto è, comunque, uno spettacolo con una<br />

genesi tanto felice quanto particolare: una idea sviluppata lungo oltre un anno di lavoro,<br />

seppur non continuo, e di fatto ripresa e sviluppata in poche settimane; tutto questo<br />

all’interno di un contesto professionale particolare, più formativo che produttivo, come<br />

nel caso di un laboratorio di perfezionamento internazionale quale era l’allora “Ecole<br />

des Maîtres”, ed è tutt’oggi con il nome di “Progetto Thierry Solmon”. I laboratori<br />

teatrali, gli stage, i corsi di perfezionamento sono momenti particolari di “creazione”,<br />

luoghi di sperimentazione in cui, probabilmente, si concentra l’essenza stessa della<br />

4


produzione artistica in campo teatrale: incontri, spesso temporanei e parzialmente<br />

fortuiti, tra artisti e professionisti del teatro, riuniti in uno spazio, spesso nuovo, inedito<br />

o originale, che ospita la fase produttiva fino alla eventuale rappresentazione di uno<br />

spettacolo o di saggi, spezzoni di una performance che forse non vedrà mai la luce in<br />

forma compiuta.<br />

Dicevo di non ricordare come venni a conoscenza che il teatro e il palcoscenico più<br />

grandi della città, solitamente tristemente vuoti al termine della stagione teatrale,<br />

avrebbero ospitato il lavoro di un centro di produzione di quel capoluogo. Ma saputo<br />

dell’arrivo di inediti ospiti, non mi ci volle molto a concepire un collegamento tra i<br />

possibili e per me, appunto, inattesi utilizzatori e quello straordinario spazio produttivo<br />

al momento sgombro e disponibile e che, più umilmente, io stavo frequentando da<br />

laureando, per motivi, ai miei occhi, meno rilevanti e nobili rispetto a quelli della<br />

creazione artistica.<br />

Subito dopo l’entusiasmo per il ritrovamento di quel “diario” carico di questi<br />

ricordi, l’eccitazione mentale e fisica venne dirottata altrove: dove era il mio materiale,<br />

raccolto durante le prove dello spettacolo a cui assistetti, le mie osservazioni, i miei<br />

appunti, le trascrizioni degli eventi che si realizzavarono sotto i miei occhi, in<br />

anteprima, praticamente per me solo? Per quanto fossero sedimentati nella mia memoria<br />

tanto da diventare inconsciamente motivo di continue riflessioni negli anni seguenti,<br />

quelle considerazioni e quei pensieri, di fatto, non li avevo ancora compiutamente<br />

utilizzati e, fino a poco tempo fa, resi completamente di pubblico dominio. Che<br />

sciagurato avvenimento sarebbe averli persi…!<br />

Parigi, autunno 2005<br />

Lasciamo N. alle prese con la ricerca del suo materiale di lavoro. Intanto, assieme,<br />

ripercorriamo alcune riflessioni posteriori, che molto devono a quella esperienza.<br />

Erano trascorsi quasi cinque anni da quei primi avvenimenti che, più o meno,<br />

coincisero al periodo in cui cominciai ad interessarmi a queste mie ricerche, al momento<br />

in cui mi ci sono dedicato con continuità. Si potrebbe concludere che quella estate del<br />

2001, in particolare, ebbe un ruolo determinante nell’indirizzare le mie scelte<br />

professionali successive. Ad ogni buon conto, il ricordo di quanto accadde durante<br />

buona parte del mese di giugno di quell’anno, della mia appartata frequentazione della<br />

barcaccia del teatro più grande di Udine, quel ricordo, faceva il paio con la mie recenti<br />

presenze in Francia, tra Avignone e Parigi, sulle tracce del Festival che gli appassionati<br />

di teatro considerano “un sogno che facciamo noi tutti”.<br />

Mentre mi trovavo a Parigi, ospite del più prestigioso politecnico, tra ottobre e<br />

novembre fui impegnato nell’elaborazione di quello che tecnicamente, in ambito<br />

accademico, è chiamato un working paper: mai come in quel caso il termine era il più<br />

corretto! In effetti, mi era stato chiesto di tenere un seminario, una discussione<br />

universitaria di un paio d’ore, sulle nascenti idee che stavo sviluppando per la mia<br />

recente ricerca sul Festival di Avignone.<br />

Riporto qui di seguito due ampi stralci di quello scritto, l’introduzione e il paragrafo<br />

iniziale, così come mi venne di elaborarli in quella occasione. La forma e il contenuto di<br />

queste annotazioni rispecchiano il fatto che fossero destinate a quello specifico contesto.<br />

Dall’introduzione:<br />

5


«Come avviene il processo di creazione artistica? Anche per gli stessi artisti è<br />

difficile spiegarlo:<br />

“Quale autore potrà mai dire come e perché un personaggio gli sia nato nella fantasia? Il<br />

mistero della creazione artistica è il mistero stesso della nascita naturale. Può una donna, amando,<br />

desiderare di diventar madre; ma il desiderio da solo, per intenso che sia, non può bastare. Un bel<br />

giorno ella si troverà a esser madre, senza un preciso avvertimento di quando sia stato. Così un<br />

artista, vivendo, accoglie in sé tanti germi della vita, e non può mai dire come e perché, a un certo<br />

momento, uno di questi germi vitali gli si inserisca nella fantasia per divenire anch'esso una<br />

creatura viva in un piano di vita superiore alla volubile esistenza quotidiana. / Posso soltanto dire<br />

che, senza sapere d'averli punto cercati, mi trovai davanti, vivi da poterli toccare, vivi da poterne<br />

udire perfino il respiro, quei sei personaggi che ora si vedono sulla scena. E attendevano, lì<br />

presenti, ciascuno col suo tormento segreto e tutti uniti dalla nascita e dal viluppo delle vicende<br />

reciproche, ch’io li facessi entrare nel mondo dell'arte, componendo delle loro persone, delle loro<br />

passioni e dei loro casi un romanzo, un dramma o almeno una novella. / Nati vivi, volevano<br />

vivere […]”.<br />

(Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, Prefazione)<br />

Molteplici discipline si sono interessate, soffermandosi su specifici punti di vista, a<br />

questo argomento tanto affascinante proprio perché, spesso, alcuni suoi processi e<br />

determinanti sono avvolti dal “mistero”: studiosi di estetica e di storia del teatro,<br />

antropologi, psicologi e sociologi dell’arte, artisti/teorici. Recentemente, tra le scienze<br />

sociali, anche gli studi economici e manageriali hanno cercato di fornire il loro<br />

contributo alla comprensione del fenomeno della creazione artistica considerando i suoi<br />

risvolti economici, nel significato formale e sostanziale del termine 1 .<br />

Nel presente lavoro ho cercato di considerare i fenomeni artistici sotto una<br />

prospettiva manageriale proponendo una analisi dei relativi processi produttivi. In altri<br />

termini: «In quale modo è possibile sprigionare il “valore” (economico ed estetico) di<br />

un prodotto artistico “imbrigliato” nella sua componente fisica e di servizio (uno<br />

spettacolo teatrale o un concerto di musica, un dipinto o una scultura) e come avviene la<br />

creazione di un vantaggio competitivo con riferimento alle organizzazioni implicate nei<br />

processi di produzione artistica?». L’obiettivo, quindi, è introdurre una prospettiva di<br />

analisi che possa fornire un quadro generale del fenomeno della produzione artistica in<br />

un’ottica manageriale. La creazione del valore attraverso l’arte e l’ottenimento di un<br />

vantaggio competitivo da parte delle organizzazioni implicate nei processi di<br />

produzione artistica vengono interpretati in una prospettiva knowledge-based, ovvero<br />

prendendo in considerazione la straordinaria varietà di conoscenze (o meglio di forme<br />

differenti di conoscenza) necessarie all’ottenimento di altra conoscenza (artistica)<br />

(Rullani 2004a, 2004b).<br />

Parlare oggi di economia della conoscenza (e di proposta knowledge-based) può<br />

risultare, però, fuorviante o, quanto meno, controverso (OECD, 1996), specie se tale<br />

ragionamento viene inserito nel contesto attuale della “vecchia” economia (seppur in<br />

transizione) basata ancora sull’accumulazione di “risorse” che restano scarse per<br />

definizione o che sono divenute, al massimo, più o meno materiali (e deperibili). Non è<br />

dato sapere (se non a posteriori) se nella storia dell’uomo ci siano (da tempo? – sic!) i<br />

segnali per una economia reale di tipo “diverso” rispetto a quella trainata<br />

dall’accumulazione delle risorse e dei classici fattori produttivi della tradizione<br />

1 Negli ultimi due decenni molti studiosi hanno cominciato ad interessarsi dei fenomeni manageriali<br />

collegati ai processi artistici: dagli aspetti organizzativi a quelli strategico-operativi; dal marketing<br />

all’accountability; dalla governance al fund-raising (Aimac 1999, 2003, 2005).<br />

6


economica (Rullani 2001, 2002a, 2002b). Ma, che ci sia posto per una visione<br />

alternativa dell’evoluzione dei medesimi processi economici, questo, sembra essere un<br />

fatto assodato: dalle corporazioni alla nascita dei mercati; dallo sviluppo della gerarchia<br />

all’interno del fenomeno delle organizzazioni alla grande impresa americana;<br />

dall’impresa multinazionale ai distretti industriali (Habermas 1986; Grandinetti, Rullani<br />

1996; Beck 1999; Brown, Duguid 1991; Pine, Gilmore 2000; Grandinetti, Tabacco<br />

2003). E’ necessario quindi intenderci sul significato che intendiamo dare a questa<br />

proposta teorica.<br />

Il problema attuale è che la “nuova” economia della conoscenza, nei termini proposti<br />

dall’attuale dibattito micro e macro economico (OECD, 1996), sembra poggiare le sue<br />

fragili fondamenta (o le sue robuste convinzioni, a seconda dei punti di vista) sul<br />

sabbioso arenile delle ricerche di frontiera della “vecchia” teoria economica fondata,<br />

prima, sul “cavallo-vapore e sul petrolio” ed ora “sull’informazione e sulla<br />

specializzazione territoriale”, col rischio di venire effettivamente sepolta dalla prima<br />

mareggiata senza ancora aver sprigionato tutto il suo effettivo potenziale esplicativo<br />

(Rullani 2002a, 2002b, 2004a).<br />

Fuor di metafora, il problema di costruire un quadro teorico relativamente plausibile<br />

dell’economia della conoscenza ed una rappresentazione in chiave cognitiva dei relativi<br />

processi gestionali sembra essere strettamente legato ad un radicale cambiamento dei<br />

principi cardine dell’economia tradizionale così come la conosciamo oggi. In altri<br />

termini, i medesimi fenomeni del passato (almeno dalla rivoluzione industriale ad oggi)<br />

possono già essere riletti alla luce di una visione, per così dire, knowledge-based delle<br />

loro determinanti: dall’economia “cognitiva” del capitalismo liberale all’economia<br />

“cognitiva” del fordismo; dall’economia “cognitiva” della fase di transizione attuale con<br />

la riscoperta del capitale sociale e dei territori all’evoluzione verso l’economia<br />

“cognitiva” del capitalismo comunicativo 1 (Rullani, 2004b). Ma la semplice aggiunta<br />

dell’aggettivo “cognitivo” a questi fenomeni di ampia portata mette a dura prova<br />

principi e concetti chiave come la proprietà delle risorse e la loro scarsità quali<br />

determinanti per l’individuazione del loro valore economico. Tali principi, “[…]<br />

rischiano di dover essere radicalmente ripensati per adattarli alle caratteristiche di una<br />

risorsa che non si consuma con l’uso e che dunque non dà luogo ad un gioco a somma<br />

zero tra gli users” (Rullani, 2004b: 27).<br />

Intendiamoci. C’è già molto di “cognitivo” nell’ambito di diverse teorie economiche<br />

e in alcuni programmi di ricerca di organizzazione e management. In effetti il panorama<br />

teorico delle discipline economico-manageriali già da tempo si sta spostando verso<br />

posizioni parzialmente knowledge-based, ognuna partendo da prospettive diverse ma,<br />

nella sostanza, confluendo verso l’idea che i fenomeni reali sono ben altra cosa rispetto<br />

a quelli che abbiamo descritto per circa due secoli con le teorie e i modelli a nostra<br />

disposizione.<br />

Non è obiettivo di scrive, né tanto meno, oggetto del presente contributo entrare nel<br />

merito della questione di un possibile e necessario salto paradigmatico: ma in questa<br />

sede è sufficiente sottolineare che accettare l’ipotesi, apparentemente ragionevole e<br />

innocua, secondo cui la “nuova” economia si basi sull’idea di “produzione di<br />

conoscenza attraverso conoscenza” (Rullani 2004b), sembra comportare un tuffo in un<br />

mare di problematiche (di ordine epistemologico e teorico) legate al rovesciamento di<br />

non pochi principi cardine della teoria economica così come la conosciamo oggi.<br />

1 Per una analisi dettagliata di questi aspetti si rinvia a Rullani 2004b, capitoli 7-10, pp. 143-228.<br />

7


Come collegare, dunque, l’emergere di una teoria sull’economia della conoscenza<br />

con i processi di produzione artistica analizzati a livello di filiera teatrale? Il passo, in<br />

effetti, è meno lungo di quanto possa apparire.<br />

La presente riflessione si basa su un’idea accattivante: probabilmente, la produzione<br />

artistica costituisce un buon esempio attraverso cui “esplorare” le caratteristiche<br />

emergenti dell’economia della conoscenza. In altri termini, tra le molte attività legate<br />

alla storia economica dell’uomo, i processi di produzione artistici sono quelli che più di<br />

altri (anche con riferimento alla stessa produzione scientifica) sembrano aver mantenuto<br />

relativamente inalterati alcuni elementi ed avere anche sviluppato dei caratteri nuovi che<br />

oggi ben si prestano ad essere riletti alla luce di quelle caratteristiche dell’economia<br />

della conoscenza che cercheremo di delineare e di esplorare nelle pagine seguenti. In<br />

più, il caso dell’economia dell’arte è particolarmente interessante per comprendere cosa<br />

ha comportato cercare di applicare i principi dell’economia tradizionale al caso di un<br />

settore che invece poteva risultare uno straordinario laboratorio in cui sperimentare i<br />

principi di una “nuova” teoria economica, che fosse in grado veramente di cogliere<br />

problematiche che solo ora si stanno evidenziando nei settori tradizionalmente oggetto<br />

di analisi di economisti e studiosi di management.<br />

Cominciamo con l’assumere un differente punto di osservazione del fenomeno della<br />

produzione artistica. La normale prospettiva per l’analisi degli aspetti cognitivi dei<br />

processi di produzione, non è più quello organizzativo, ma diventa quello della filiera<br />

cognitiva: nell’ambito di quest’ultima, ovvero all’interno della “fabbrica della<br />

conoscenza artistica”, molteplici attori diversi ma interdipendenti svolgono<br />

contemporaneamente o in modo sempre più specialistico lavorazioni cognitive diverse<br />

che permettono alla conoscenza originale di diventare dapprima connettiva (lo<br />

spettacolo teatrale) e, successivamente, applicativa in contesti d’uso diversi rispetto a<br />

quella di origine (Rullani 2004b). Nello specifico, la discussione verte sulla principale<br />

tesi che sto cercando di sviluppare nella ricerca attualmente in corso: all’interno della<br />

filiera cognitiva del teatro contemporaneo, assumendo il punto di osservazione del<br />

Festival di Avignone, cercherò di verificare come essa opera, nonché se e quanto<br />

specifica e importante sia una delle “lavorazioni cognitive” svolte dal Festival stesso,<br />

l’integrazione della conoscenza.<br />

Il paragrafo 2[*] introduce gli aspetti più teorici dell’economia della conoscenza à la<br />

Rullani (2004a, 2004b), analizzandone i principi attraverso una parziale<br />

contrapposizione con il documento OECD del 1996, considerato quale esempio<br />

dell’attuale dibattito economico sul tema della conoscenza. Il paragrafo 3[*] prende in<br />

considerazione gli aspetti legati alla produzione teatrale come esempio (un archetipo?)<br />

di quella effettiva “alleanza tra modernità, comunicazione ed estetica” (Rullani 2004b)<br />

che costituisce la principale determinante dei discorsi di management legati al<br />

paradigma dell’economia della conoscenza. Lungo tale trattazione, le problematiche di<br />

maggiore interesse legate alla propagazione della conoscenza artistica sono declinate<br />

con riferimento al progetto di ricerca sul Festival di Avignone e il ruolo che esso gioca<br />

nell’ambito della filiera del teatro contemporaneo. A tal proposito, l’idea di “Teatro<br />

popolare”, cara al fondatore del Festival, viene riletta come particolare strategia di<br />

trasformazione della conoscenza (artistica) con riferimento alla filiera “cognitiva” del<br />

teatro contemporaneo (§ 3.1[*]). Nel successivo paragrafo 3.2[*], (dal § 3.2.1[*] al §<br />

3.2.4[*]) vedremo in che modo opera la propagazione della conoscenza nell’ambito<br />

delle relazioni tra attori che partecipano alla filiera cognitiva. Dunque, cercheremo di<br />

ricostruire il ruolo e le attività di ciascun “reparto-organizzazione” di questa ipotetica<br />

8


“fabbrica della conoscenza” (artistica) che è la filiera del teatro contemporaneo. A sua<br />

volta, analizzeremo le caratteristiche strutturali dei “macchinari” che compongono<br />

questi reparti. I macchinari, differenti da quelli della “fabbrica fordista”, a ciascun<br />

livello della filiera permettono di manipolare la risorsa-conoscenza attraverso particolari<br />

“lavorazioni”; è in questo modo che si costituisce il “ciclo produttivo di trasformazione<br />

dell’immateriale” ovvero “uno spazio organizzato in cui la conoscenza viene<br />

trasformata, differenziata, riprodotta e trasferita in modo da aumentarne il valore”<br />

(Rullani, 2004b: 22-24, corsivo nostro). Nelle conclusioni, infine, riprenderemo i<br />

principi e i concetti utilizzati per analizzare la “fabbrica della conoscenza”: il caso della<br />

produzione teatrale, legato alla ricerca sul Festival di Avignone, è collegato al<br />

“capitalismo comunicativo” che Rullani individua come quella forma di propagazione<br />

della conoscenza che è basata sulle “reti di condivisione e interazione comunicativa”<br />

(Rullani 2004b)».<br />

***<br />

[Per ragioni che il lettore prontamente comprenderà, nei paragrafi ripresi in<br />

precedenza e di seguito, ho mantenuto il richiamo alle sezioni successive del testo<br />

originale qui parzialmente riprodotto, vale a dire del working paper che N. realizzò e<br />

presentò a Parigi. Tali notazioni sono accompagnate dal simbolo [*]. Mi sono preso la<br />

libertà di omettere, per il momento, le restanti parti di quel manoscritto proprio perché<br />

la struttura del working paper costituisce anche l’architettura dei restanti capitoli di<br />

questa sezione. Buona parte del § 2, una sorta di introduzione, è riportata qui di<br />

seguito, e i contenuti sono ripresi nella vicenda raccontata nella successiva sezione 3 di<br />

questo lavoro. I temi di riflessione presenti nel § 3.1 il lettore li ritroverà spalmati e<br />

ridiscussi nei successivi capitoli V e VI di questa sezione. I capitoli VII, VIII, XIX e X,<br />

invece, costituiscono un commento esteso di quanto era presente nei quattro<br />

sottoparagrafi che costituirono il § 3.2 di quel documento. Il capitolo IV, per contro,<br />

rappresenta una lunga parentesi, omogenea, ma a sé stante. Inoltre, questa nota tende a<br />

ricordare al lettore che i termini e gli argomenti trattati in questa sezione costituiscono<br />

pur sempre la struttura teorica fondante di tutto il lavoro e il “vocabolario” per<br />

comprendere il “linguaggio” utilizzato lungo tutto il racconto, in particolare, nelle<br />

sezioni 4, 5 e 6.<br />

Il materiale grezzo e gli esempi che utilizzerò di seguito per fornire al mio lettore<br />

una iniziale panoramica su teoria e principi cardine dei processi produttivi<br />

dell’economia della conoscenza (à la Rullani) saranno costituiti proprio da quel<br />

lontano episodio, seguendo una parte del lavoro di laboratorio con Nekrosius. Queste<br />

riflessioni, seppur posteriori rispetto al momento in cui realizzai quella esperienza, mi<br />

permisero di cominciare a tradurre le prime intuizioni relative allo studio della filiera<br />

dello spettacolo dal vivo in questa prospettiva: quindi, fermo restando che solo in<br />

seguito affronterò compiutamente il viaggio lungo l’intera fabbrica della conoscenza<br />

artistica; in questa fase, di volta in volta, non mancheranno di confondersi tra loro i<br />

collegamenti tra il nascente spettacolo di Nekrosius e la filiera dello spettacolo dal vivo<br />

così come stava cominciando a manifestarsi, osservandola attraverso il Festival di<br />

Avignone. Un ultimo suggerimento di natura meramente pratica: onde evitare di<br />

turbare il lettore nel suo esercizio di lettura, i capitoli dal III al X, escluso il IV, sono<br />

strutturati in modo tale da tenere divisi i ricordi delle due distinte situazioni richiamate<br />

(il ricordo dello spettacolo di Nekrosius e i ragionamenti di Parigi). Ciascuna delle due<br />

9


parti in cui ciascun capitolo è diviso (e il lettore non avrà difficoltà ad individuarle)<br />

può essere letta in sequenza anche se consiglierei al lettore una lettura “orizzontale” di<br />

ciascuna parte, per poi tornare indietro a leggere l’altra. Resta inteso che, seppure in<br />

modo all’apparenza estroso, i due testi sono tra loro intimamente “collegabili”. Se, con<br />

questo stratagemma, ho voluto porgere un aiuto alla lettura, vorrei anche lasciare al<br />

lettore la libertà di impratichirsi e assuefarsi al linguaggio utilizzato: libero di trovare<br />

da sé ogni collegamento che ritenga insolito e che si rivelerà utile per interpretare il<br />

seguito del racconto. L’Autore].<br />

Dal paragrafo 2:<br />

***<br />

«Nella lecture tenuta in occasione della consegna del Premio Nobel per l’Economia<br />

del 1978, Herbert A. Simon comincia le sue conclusioni con questa frase:<br />

“There is a saying in politcs that “you can’t beat something with nothing”. You can’t defeat a<br />

measure or a candidate simply by pointing to defects and inadequacies. You must offer an<br />

alternative”.<br />

Simon ha cercato di applicare questo principio al caso delle teorie scientifiche, con<br />

esplicito riferimento al fatto che in generale, il tentativo di salvare una teoria dagli<br />

attacchi inferti dall’evidenza empirica risulta ragionevole fino al momento in cui quelle<br />

teorie (nello specifico le teorie economiche classiche e neoclassiche) diventano oggetto<br />

di revisione nelle proprie ipotesi di partenza (nella logica di approssimazioni successive<br />

alla verità) e fino a quando le discrepanze non vanno a colpire i fondamenti stessi della<br />

teoria. Oltre non sembra lecito andare. Nella parte introduttiva del presente lavoro, più<br />

modestamente, provo a fare altrettanto con riferimento allo sviluppo delle molteplici<br />

visioni alternative dell’economia della conoscenza: cerco di fornire una alternativa alle<br />

distorsioni che mi sembrano essere presenti in alcuni discorsi economici su questo tema<br />

teorico.<br />

“La conoscenza è rimasta a lungo assente dal campo analitico che la teoria<br />

economica (e in particolare la teoria neoclassica) si è ritagliato” (Rullani 2004a). In<br />

termini forse meno radicali, è possibile dire che essa è rimasta una sorta di forza latente.<br />

Cercando di sgombrare il campo da possibili dubbi e fraintendimenti, la novità<br />

dell’economia della conoscenza è soprattutto di natura “teorica” (Rullani, 2004a: 57).<br />

Nell’economia “reale”, infatti, per decenni abbiamo utilizzato la conoscenza per<br />

produrre valore economico, ma solo recentemente ce ne stiamo accorgendo, e per cause<br />

di natura del tutto strumentali e contingenti (se non opportunistiche): all’improvviso<br />

(ri)scopriamo la conoscenza come prima forza produttiva in quanto i modelli economici<br />

tradizionali non ci permettono più di spiegare i fenomeni attuali e di garantire una<br />

crescita costante e sostenibile all’economia mondiale, così come avvenuto in altri<br />

momenti storici. Introdurre la conoscenza come variabile endogena nelle leggi<br />

economiche, potrebbe permettere a economisti e policy maker di “aggiornare” i modelli<br />

di crescita e i relativi programmi di politica economica in modo tale da rendere un po’<br />

meno nefaste le previsioni sul futuro andamento dello sviluppo mondiale.<br />

Ecco dunque che, sull’onda dell’entusiasmo, l’economia basata sulla conoscenza<br />

entra di prepotenza nel dibattito economico e politico mondiale, senza però che venga<br />

presa seriamente in considerazione la sua specificità: infatti, invece di ammette la<br />

10


“discontinuità” teorica che tale concetto comporta, studiosi di economia e management<br />

cercano di aggiornare i modelli di analisi tradizionali invece di “rimuovere le ragioni<br />

che hanno, finora, scavato un solco tra storia pratica della conoscenza e la storia<br />

teorica” (Rullani 2004a: 56); la teorica economica, invece, cerca di difendere un<br />

paradigma emerso in un’epoca in cui l’economia stessa, in quanto scienza della scarsità,<br />

aveva concentrato le sue attenzioni e i suoi sforzi analitici sul problema dell’ottima<br />

allocazione di risorse di provenienza esogena.<br />

Analizzare l’economia reale (concepita veramente come economia della<br />

conoscenza), i processi di creazione del valore e la creazione del vantaggio competitivo<br />

assumendo una prospettiva knowledge-based coerente, potrebbe significare<br />

l’accettazione di una diversa “focalizzazione” dell’intera disciplina economica. La tesi<br />

di fondo della parte introduttiva del presente lavoro è che l’economia della conoscenza,<br />

nell’attuale quadro teorico dell’economia tradizionale, costituisce una contraddizione di<br />

termini.<br />

Rimuovere le ragioni che impedirebbero una corretta evoluzione dei discorsi<br />

sull’economia della conoscenza significa far fronte ad alcuni pregiudizi che rischiano di<br />

generare visioni distorte dell’economia reale concepita come economia cognitiva.<br />

Rullani (2004a: introduzione) individua quattro principali pregiudizi. Ricordiamoli<br />

brevemente.<br />

- Un pregiudizio settoriale: secondo cui le economie moderne identificano l’economia<br />

della conoscenza con i soli settori knowledge intensive e cioè, come vedremo, settori<br />

che utilizzano preferibilmente alcune forme di sapere, quelle dai contenuti<br />

prevalentemente codificati e a forte valenza intellettuale.<br />

- Un pregiudizio storico: la conoscenza non coincide con l’innovazione, per quanto i<br />

due concetti siano legati tra loro. L’innovazione genera valore addizionale attraverso<br />

l’impiego di conoscenza in usi alternativi della stessa. Ecco dunque che<br />

l’innovazione costituisce un punto specifico del circuito cognitivo, ovvero è<br />

quell’atto che trasforma un potenziale cognitivo in valore aggiunto. Mentre<br />

l’economia dell’innovazione è interessata a questo specifico momento del processo<br />

di produzione della conoscenza; l’economia cognitiva guarda il circuito di<br />

produzione nella sua interezza, analizzando anche il processo che “prepara le<br />

singole innovazioni e che le segue, per adattarle al contesto” (Rullani 2004a). In<br />

questo modo, entrano in gioco non solo gli innovatori “schumpeteriani”, ma anche<br />

tutti coloro che in un qualche punto di una filiera imparano qualcosa di nuovo in<br />

attesa di metterlo a disposizione di altre filiere cognitive 1 .<br />

- Un pregiudizio competitivo: considerare la conoscenza come risorsa chiave dei<br />

processi produttivi non significa alimentare l’ulteriore pregiudizio secondo cui il<br />

produttore sarebbe l’unico soggetto in grado di trarre un vantaggio diretto rispetto<br />

all’utilizzatore di conoscenza già esistente. «Non si può dire che si produce<br />

conoscenza e si investe in apprendimento solo se la conoscenza a cui si lavora è di<br />

1 Rullani definisce questo come “pregiudizio storico” in quanto l’economia dell’innovazione è costruita<br />

“contrapponendo nuovo e vecchio”. Legato al punto precedente sul pregiudizio settoriale, questo aspetto<br />

ha alimentato l’idea che l’economia della conoscenza fosse sovrapposta alla new economy. In effetti, è<br />

possibile dire che la new economy è invece l’etichetta che possiamo dare all’evoluzione dell’economia<br />

della conoscenza legata al settore dei mezzi di calcolo e di comunicazione. Ma questo specifico caso non<br />

esaurisce assolutamente tutti i possibili fenomeni reali analizzabili in una prospettiva cognitiva: «Nessuna<br />

economia della conoscenza “reale” sta infatti nascendo ex-novo generando lo stupore generale!» (Rullani<br />

2004a: 74).<br />

11


tipo scientifico-tecnologico, codificata, finalizzata all’exploration e all’high tech.<br />

Anche gli altri soggetti della filiera producono conoscenza e investono in<br />

apprendimento» (ibidem: 74); la differenza che conta a livello competitivo non è tra<br />

produttori di conoscenza (visto che questa è una attività che fanno tutti gli attori<br />

della filiera) ma riguarda piuttosto la qualità e le caratteristiche specifiche dei<br />

processi e dei prodotti cognitivi che ciascun attore della filiera cognitiva sviluppa.<br />

- Un pregiudizio epistemologico: infine, strettamente collegato al punto precedente,<br />

non può essere attribuito un primato alla ricerca (di nuova conoscenza) rispetto alla<br />

propagazione di quella già esistente. Così come proposto da March (1991),<br />

l’exploration (del nuovo) deve andare di pari passo con l’exploitation (del già noto)<br />

e nell’ambito di questo circuito di “propagazione”, l’uso migliore che si possa fare<br />

della conoscenza è il suo re-impiego continuo per la generazione di nuova (ulteriore)<br />

conoscenza (David, Foray 2003).<br />

Nella prima parte di questo paragrafo, utilizzo, apparentemente in modo forzato ma<br />

spero non scorretto, un documento pubblicato dall’Organizzazione per la Cooperazione<br />

e lo Sviluppo Economico (OECD) nel 1996: per ogni aspetto evidenziato in precedenza,<br />

gli spunti del documento OCDE sono diversi e interessanti ma, come vedremo assieme,<br />

in alcuni casi vi sono elementi contradditori legati a ciascuno dei quattro pregiudizi di<br />

fondo che rendono controverso il dibattito sull’economia della conoscenza.<br />

Successivamente, prendo in considerazione come il fenomeno artistico possa fungere da<br />

“laboratorio” per sperimentare il tipo di impatto che tali pregiudizi hanno generato<br />

nell’analisi dei processi di produzione. A tal proposito richiamerò, brevemente, il caso<br />

del “morbo di Baumol” (Baumol, Bowen 1966; Trimarchi, 1993; Towse 1997).<br />

Nel documento OCDE, nella sua versione francese, si legge:<br />

“[…] les “économies fondées sur le savoir” […] reposent directement sur la production, la<br />

diffusion et l’utilisation du savoir et de l’information. Cela se reflète dans la tendece à la<br />

croissance des économies de l’OCDE dans l’investissment et les industries de haute technologie,<br />

l’utilisation d’une main-d’œuvre hautement qualifiée et des gains de productivité qui en résulte. Si<br />

la connissance est depuis longtemps un facteur important dans la croissance économique, les<br />

économistes s’interrogent désormais sur les moyens d’intégrer plus directement le savoir et la<br />

technologie à leurs théories et modèles. La “nouvelle théorie de croissance” est rélévatrice de cet<br />

effort de compréhension du rôle du savoir et de la technologie comme moteur de la croissance<br />

économique et de la productivité. À cet égard, les investissements consacrés à la recherchedéveloppement,<br />

à l’eseignement et à la formation, et à de nouvelles structures d’organisation du<br />

travail dans une optique de gestion sont fondamentaux” (OCDE 1996, introduzione).<br />

In questo passaggio introduttivo sono presenti tutti i punti principali del dibattito<br />

sull’economia della conoscenza richiamati in precedenza: l’economia della conoscenza<br />

sembra collegabile ad alcuni settori in cui, più di altri, si assiste ad una crescita<br />

economica sostenuta; il problema degli economisti, per spiegare questi fenomeni<br />

specifici, sembra essere quello di far diventare la conoscenza una variabile “endogena”<br />

nei loro modelli, in modo tale da garantire una “nuova teoria della crescita”; l’unico<br />

modo per operare questo “aggiornamento” nei modelli è quello di incorporare la<br />

conoscenza nel capitale umano (nella manodopera altamente qualificata) e nel capitale<br />

fisico (generando un guadagno nella produttività), così come avviene nel caso dei settori<br />

knowledge intensive; la conoscenza, ancora, coincide con gli investimenti in ricerca e<br />

sviluppo, in formazione e nelle nuove forme di organizzazione del lavoro (quindi in<br />

innovazione di prodotto e di processo); la tecnologia e la conoscenza nuova sono i<br />

protagonisti principali della crescita economica e della produttività.<br />

12


Se l’economia della conoscenza si basa sul sapere come principale fattore produttivo,<br />

ebbene, nel quadro teorico che sto cercando di ri-costruire ciò significa considerare fino<br />

in fondo l’ipotesi per cui quello che l’economia produce è conoscenza attraverso altra<br />

conoscenza (Rullani, 2004b). Nel successivo passaggio del documento OCDE si<br />

propone invece una ricetta differente nella forma e nella sostanza, alimentando quel tipo<br />

di pregiudizio che abbiamo definito come epistemologico:<br />

“Ces tendances nous amènent à revoir certaines théories et certains modèles économiques, car<br />

l’analyse suit la réalité. Les économistes continuent à chercher les fondements de la croissance<br />

économique. Les “fonctions de production” traditionnelles sont axées sur le travail, le capital, les<br />

matériaux et l’énergie; le savoir et la technologie influent sur la production de l’extérieur. On<br />

élabore aujourd’hui des approches analytiques qui permettent d’inclure plus directement le savoir<br />

dans les fonctions de production. Les investissements dans le savoir peuvent accroître la capacité<br />

productive des autres facteurs de production ou les transformer en nouveaux produits et procédés.<br />

Et, comme ces investissements dans le savoir se caractérisent par des rendements croissants (plutôt<br />

que décroissants), il sont la clef de la croissance économique à long terme” (p. 10).<br />

Gli economisti stanno ancora cercando i fondamenti della crescita economica perché<br />

forse si ostinano a guardare nella direzione sbagliata o meglio cercano di salvaguardare<br />

un paradigma basato su principi che male si adattano al nuovo quadro che essi stessi<br />

cercano di spiegare. Se il tentativo principale è quello di “includere” il sapere nella<br />

funzione di produzione, l’unico modo plausibile è quello di considerare tutti gli input<br />

del processo di produzione come una particolare forma di conoscenza; parallelamente,<br />

tutto ciò che la conoscenza produce come output altro non è che “forme, versioni,<br />

varianti della base di conoscenza da cui ha preso origine” (Rullani, 2004: 24). Per<br />

quanto questa assunzione possa apparire “innocua”, ciò comporta un completo<br />

rovesciamento nel punto di osservazione dei processi produttivi. Il sapere non accresce<br />

la capacità produttiva di altri fattori produttivi (come la manodopera), ma la conoscenza<br />

è l’unico fattore produttivo che genera un valore economico attraverso una<br />

combinazione di alcuni fattori specifici (Rullani li chiamerà “drivers”), messi in moto<br />

all’intervento di strumenti specifici (che chiameremo “mediatori cognitivi”) con il<br />

compito di fungere da mezzi di condivisione e codificazione cognitiva (Rullani 2004b).<br />

Nel passaggio successivo, si sottolineano ulteriormente il pregiudizio di tipo storico e<br />

quello epistemologico:<br />

“Dans la nouvelle théorie de la croissance, le savoir peut accroître la rentabilité de<br />

l’investissement, laquelle peut, à sont tour, contribuer à l’accumulation de connaisances du fait<br />

qu’elle encourage l’adoption de méthodes plus efficientes d’organisation de la production ainsi<br />

que l’amélioration des produits et des services. Cela peut ainsi donner lieu à un accroissement<br />

durable de l’investissement qui peut se traduire par une progression continue du taux de<br />

croissance d’un pays. Le savoir peut aussi avoir des retombées, d’une entreprise ou d’une branche<br />

industrielle à une autre, en favorisant l’exploitation répétée de nouvelles idées pour un coût<br />

supplémentaire minime. De telles retombées peuvent atténuer les entraves à la croissance que fait<br />

naître la rareté du capital” (p. 11: corsivo nostro).<br />

Si parla infatti di accumulazione di conoscenze che accrescono la redditività di<br />

investimenti nell’innovazione, sottolineando che l’innovazione stessa dovrebbe essere<br />

in grado, da sola, di garantire quei tassi di crescita che in quest’ultimo decennio i paesi<br />

sviluppati non sono più in grado di raggiungere. Nell’ultimo paragrafo, poi, si accetta<br />

l’importanza di fenomeni di exploitation ma in termini di vantaggio competitivo del<br />

produttore rispetto all’utilizzatore della conoscenza, ricordando, a tutti gli effetti, un<br />

caso di innovazione di tipo neo-schumpeteriano, in quanto tali ricadute dall’impresa al<br />

13


settore industriale sono intese in termini di miglioramento della produttività del capitale<br />

investito. Ma in questo modo, vengono introdotti altri passaggi teorici per nulla banali.<br />

Il passo successivo è particolarmente illuminante:<br />

«Le progrès technologique accrît la productivité marginale du capital par l’éducation et la<br />

formation de la main d’œuvre, les investissements en recherche-développement et la création de<br />

nouvelles structures de gestion et d’organisation du travail. […] L’investissement dans le savoir et<br />

les capacités se caractérisent par des rendements croissants (et non décroissants). Ces<br />

conclusions militent en faveur d’une modification des modèles d’équilibre néoclassiques – qui<br />

étaient conçus pour appliquer à la production, à l’échange et à l’utilisation des biens – en vue<br />

d’analyser la production, l’échange et l’utilisation du savoir.<br />

Intégrer le savoir aux fonctions de production économiques standard n’est pas chose facile,<br />

dans la mesure où ce facteur défie certains principes économiques fondamentaux, comme le<br />

principe de la rareté. Le savoir et l’information sont plutôt du côté de l’abondance; ce qui est rare,<br />

c’est la capacité de les exploiter de façon constructive. Le savoir n’est pas non plus facilement<br />

transformé en un objet de transactions économiques standard. Il est difficile d’acheter du savoir et<br />

de l’information car, par définition, l’information sur les caractéristiques de ce qui est acheté est<br />

inégalement réparti entr le vendeur et l’acheteur. Certains types de savoir peuvent être facilement<br />

reproduits à peu de frais au profit d’un vaste éventail d’utilisateurs, ce qui tend à mettre à mal la<br />

propriété privée. D’autres types de savoir ne peuvent être transférés d’une organisation à une autre,<br />

ou entre des individus, sans que s’établissent des liens complexes sous la forme de relations de<br />

réseau ou d’apprentissage ou bien que ne soient investies des ressources considérables dans la<br />

codification et la transformation de ce savoir en information» (pp. 12-13).<br />

Ammettendo che il principio della scarsità male si adatta alle caratteristiche della<br />

conoscenza (per altro, per nulla esplicitate nel documento preso in esame) il passaggio<br />

precedente dimostra quanto sia facile cadere nel paradosso dovuto al fatto che, dal punto<br />

di vista teorico, si “resta a metà del guado”: si parla di produzione, scambio e utilizzo<br />

del sapere all’interno di un sistema in cui però, senza il principio della scarsità, non è<br />

possibile individuarne il valore economico. Nel paragrafo finale, a parte il tentativo di<br />

spiegare la difficoltà dello scambio della conoscenza in termini di asimmetrie<br />

informative, si introducono alcune problematiche che nel proseguo del presente lavoro<br />

saranno oggetto della nostra attenzione: la questione della codificazione e alla<br />

condivisione di forme differenti di conoscenza (§ 3.1[*]); il problema della<br />

“riproducibilità” di certi tipi di conoscenza (che noi chiameremo “virtualizzazione”) (§<br />

3.3[*]); il tema della “distribuzione” di flussi materiali di sapere (§ 3.4[*]); il problema<br />

delle reti per l’integrazione della conoscenza prodotta (§ 3.5[*]); o ancora l’analisi di<br />

una particolare forma di conoscenza che è l’informazione (problema che di seguito<br />

chiameremo “strutturazione”) (§ 3.2[*]).<br />

Come accennato, Rullani (2004a) propone uno schema con tre fattori (“drivers”) che<br />

consentono di trasformare la conoscenza in valore. Questi fattori sono: l’efficacia (v) del<br />

singolo uso di conoscenza; la numerosità (n) degli usi; il grado di appropriazione (p)<br />

del lavoro cognitivo. Ciascuna combinazione (v, n, p) genera un valore V e identifica un<br />

modo specifico di convertire conoscenza in valore economico (Rullani 2004a). Gli<br />

strumenti più importanti che mettono in moto la trasformazione della conoscenza in<br />

valore sono i “mediatori cognitivi”, attraverso cui è possibile la condivisione e la<br />

codificazione cognitiva (v. infra § 3[*]). Questa costruzione teorica potrebbe permettere<br />

di risolvere un problema fondamentale: come è possibile individuare il valore<br />

economico di qualcosa che non si consuma con l’uso e che quindi non è scarso, e che<br />

invece di accumularsi sulla base di rendimenti marginali decrescenti si moltiplica per<br />

propagazione? Il problema dell’economia tradizionale è che cerca di misurare il valore<br />

solo di singoli aspetti della conoscenza prodotta, in quanto, ad oggi, il tasso di crescita<br />

14


di un paese è determinato sulla base delle sole forme di conoscenza (“materiali”) facili<br />

da misurare attraverso gli strumenti di cui disponiamo. Il passaggio successivo è<br />

particolarmente interessante:<br />

“Quatre grandes raisons expliquent donc porquoi les indicateurs du savoir, pour soigneusement<br />

étlablis qu’ils soient, ne peuvent prétendre à la couverture systématique des indicateurs<br />

économiques classiques:<br />

- il n’existe pas de formules ou de “modeles” stables qui permettent de coonvertir des entrées<br />

(apports à la création de savoir) en sorties (production de savoir);<br />

- les apports à la création de savoir (entrées) sont difficiles à localiser et à retracer car il<br />

n’existe pas de comptes du savoir à l’image des comptes nationaux habituels;<br />

- il n’existe pas de système de détermination des prix applicable au savoir susceptible de servir<br />

de base à l’agrégation d’éléments de savoir qui, par essence, sont uniques;<br />

- la formation de savoir nouveau n’est pas nécessairement un apport net au stock de<br />

connaissances et on ne sait rien de l’éventuelle obsolescence des éléments qui forment le stock de<br />

connaissances.<br />

La difficulté d’établir de nouveaux indicateurs est elle-même révélatrice de la singularité de<br />

l’économie fondée sur le savoir. Serions-nous confrontés à des modification pratiques du système<br />

comptable classique que la solution pourrait se limiter à l’ajout de quelques mesures<br />

supplémentaires. Pour appréhender pleinement le fonctionnement d’une économie fondée sur le<br />

savoir, de nouveaux concepts et de nouvelles mesures économiques s’imposent pour rendere<br />

compte des phénomènes au-delà des transactions habituelles sur le marché” (p. 31).<br />

I “quattro grandi motivi” che impedirebbero di individuare degli indicatori accettabili<br />

per la misurazione della conoscenza non sono altro che il risultato di premesse teoriche<br />

nuove per la costruzione di un quadro concettuale che si discosta da quello<br />

dell’economia tradizionale. Infatti, il vero problema è che non è possibile trovare<br />

indicatori di performance nell’ambito dell’attuale paradigma economico e questo per il<br />

semplice fatto che essi non sono concepibili: l’economia tradizionale ha semplicemente<br />

centrato la sua attenzione su alcuni fenomeni “cognitivi” tralasciandone altri (in modo<br />

più o meno consapevole), producendo quindi teorie e modelli adatti ai fenomeni che<br />

voleva (e poteva) osservare. Nell’ambito delle sue specificità, invece, l’economia della<br />

conoscenza produce valore che va analizzato attraverso indicatori di performance<br />

adeguati e che richiamano i suoi “drivers” di trasformazione, vale a dire: l’efficacia<br />

della conoscenza nel singolo uso, ovvero nell’ambito dell’interpretazione che il singolo<br />

utilizzatore attribuisce alla situazione d’utilizzo che sta vivendo e dai significati<br />

assegnati alla sua “esperienza”; la moltiplicabilità, intesa come nomerosità di ri-usi<br />

della stessa base di conoscenza che la propagazione rende disponibile nel tempo e nello<br />

spazio attraverso la filiera cognitiva; e il coefficiente di propagazione, legato alle regole<br />

di organizzazione della filiera e che rendono sostenibile il processo nel tempo.<br />

Nell’esempio che propongo in questo lavoro, l’evoluzione della produzione artistica<br />

sembra abbia “sperimentato” in anteprima (o comunque in tempi non sospetti) i caratteri<br />

dell’economia della conoscenza, almeno fino a quando non si è cercato di inquadrare<br />

questi stessi fenomeni nell’ambito dell’economia tradizionale attraverso gli studi di<br />

economia dell’arte (Mossetto 1993; Trimarchi 1993). Riprendendo in parte i punti<br />

precedenti evidenziati dal documento OECD e i principi dell’economia della<br />

conoscenza à la Rullani, si possono riassumere come segue gli aspetti particolarmente<br />

controversi relativi al funzionamento di una ipotetica “fabbrica della conoscenza<br />

artistica”, quale esempio di filiera cognitiva che opera nell’ambito di una “vera”<br />

economia della conoscenza:<br />

15


- non ci sono settori che sono più knowledge intensive di altri e, come vedremo, il<br />

caso della produzione artistica ci permette di evidenziare come in ogni settore ci<br />

siano conoscenze con qualità intrinseche diverse, che generano valore e vantaggi<br />

competitivi in modi differenti;<br />

- ciò rafforza l’idea che la produzione di valore attraverso la conoscenza non è un<br />

dato nuovo, ma piuttosto un elemento costitutivo dei fenomeni moderni; anche nel<br />

caso della produzione artistica sono cambiate le strutture cognitive ma vedremo che<br />

tali cambiamenti non sono legati agli stessi fattori (tecnologici) che rendono carichi<br />

di pregiudizi i discorsi che vengono fatti in altri settori dell’attività umana;<br />

- la conoscenza artistica utile è quella che genera vantaggi sia per i produttori che per<br />

gli utilizzatori, e questo è particolarmente vero per dei prodotti che, per la loro stessa<br />

esistenza (dal punto di vista cognitivo, estetico) hanno bisogno della contemporanea<br />

presenza, in un dato luogo, di produttori (agli artisti sul palcolscenico) e di<br />

utilizzatori (gli spettatori in platea);<br />

- infine, la ricerca in campo artistico (intesa, ad esempio, in termini di linguaggi e<br />

espressioni teatrali) ha la stessa importanza della propagazione (considerata come<br />

innovazione nelle pratiche e nelle competenze degli artisti), e questo per fattori<br />

storici legati all’organizzazione stessa della produzione artistica (specie nel caso<br />

delle performing arts).<br />

Vista in questi termini, nella ricerca in corso cerco di analizzare l’efficacia, la<br />

capacità moltiplicativa e di propagazione della conoscenza artistica lungo la filiera<br />

cognitiva del teatro contemporaneo, prendendo in considerazione il punto di vista di un<br />

particolare attore di tale filiera, il Festival di Avignone, e la sua specifica strategia di<br />

trasformazione cognitiva identificabile nella formula del “teatro popolare”, cara al suo<br />

fondatore (a tal proposito, rinvio alla fine del § 3.1[*]).<br />

In sostanza, il più importante punto di contatto tra la produzione artistica e<br />

l’economia della conoscenza è legato alla conclamata difficoltà attraverso cui i processi<br />

di produzione artistici e quelli della “fabbrica della conoscenza” si lasciano<br />

“maneggiare” all’interno delle attuali teorie economiche. All’interno dell’economia<br />

della cultura, un interessante esempio di cosa significhi cercare di “imbrigliare” il<br />

fenomeno della conoscenza artistica all’interno dei meandri stretti dell’economia<br />

tradizionale è legato agli studi sul c.d. “morbo di Baumol”.<br />

Quanto mi accingo a scrivere si limita, per il momento, a qualche riflessione generale<br />

che vorrei, comunque, lasciare al lettore. Forse, nelle pagine che seguono qualcuno<br />

troverà spunti ulteriori e, perfino, delle chiavi di lettura di una qualche utilità. Per<br />

quanto mi riguarda, si tratterebbe già di un apprezzabile risultato. Lascio ad altri,<br />

invece, il giudizio sulla validità di questi ragionamenti.<br />

L’economia della cultura nasce in modo piuttosto particolare: quale derivazione degli<br />

studi economici “tradizionali”, “chiamata al capezzale dell’arte”, doveva fornire<br />

argomenti scientifici (e quindi, per definizione, validi e inconfutabili) per “spiegare” la<br />

necessità dell’intervento pubblico nel settore, vista la conclamata impossibilità, per le<br />

istituzioni culturali, di reggersi sulle proprie gambe dal punto di vista finanziario (tra gli<br />

altri: Baumol, Bowen 1965, 1966; Netzer 1978; Mossetto 1993; Trimarchi 1993; Towse<br />

1997; Throsby 2001).<br />

Nelle ricerche di William J. Baumol 1 lo studioso a cui il famoso “morbo” deve il<br />

nome, emergevano dati eclatanti con riferimento al trend (storico) dei costi di<br />

1 Il pionieristico lavoro di William J. Baumol, uno dei più importati e stimati economisti contemporanei,<br />

ha quantomeno gettato le basi per una ricchissima agenda di ricerca che, ancora oggi, a quaranta anni di<br />

16


produzione delle performarce teatrali e, in particolare, con riferimento al caso dei costi<br />

per il personale artistico. Nel caso specifico della ricerca commissionata dal Twentieth<br />

Century Fund, Baumol analizza:<br />

“[the] rates of change in the costs of a performance and their relationship to trends in the general<br />

proce level. The behavior of these variables constitutes a direct test of our central analytic<br />

hypotesis, for, if it valid, we would expect costs per performance to rise more rapidly than the<br />

over-all price level.<br />

[…] Our investigation of costs has also permitted us to undertake a somewhat more ambitious<br />

analysis. We have sufficient information on the major orcherstras to investigate how costs per unit<br />

(cost per concert) vary with the scale of activity. Knowledge of this relationship enables us to<br />

determine the extent to which performing organizations have available to them the economies of<br />

large-scale production: whether it is true for them, as it is for many industries, that the increase in<br />

output can yield a reduction in cost per uniut of output”<br />

Nel famoso articolo scritto con Bowen nel 1965 e apparso sulla prestigiosa American<br />

Economic Review, lo stesso Baumol anticipa alcuni risultati dell’indagine pubblicata<br />

l’anno successivo:<br />

“Before we turn to the special economic properties of the performing arts, it is useful to devote<br />

some discussion to the economics of non-profit-making organizations in general […] as a group<br />

share at least two characteristics: (1) they earn no pecuniary return on invested capital and (2) they<br />

claim to fulfill some social purpose”.<br />

E da un punto di vista gestionale:<br />

“The desire to provide a product of as high a quality as possible and to distribute the product in a<br />

manner other than that which maximizes revenue combine to produce a situation which is unusual<br />

in yet another respect. For such an enterprise a substantial increase in the demand for its product<br />

may well worsen the organisation’s finacial health! Marginal cost may well exceed marginal<br />

revenues over the relevant interval”.<br />

Quando passa al caso specifico delle performing arts Baumol introduce la celebre<br />

distinzione tra settori economici a produttività crescente e a produttività stagnante:<br />

“[…] To understand the prospective developments on the cost side, it is necessary to digress<br />

briefly and consider in general terms the implications of differential rates of growth in productivity<br />

within the economy for the relative costs of its various outputs. Let us think of an economy<br />

divided into two sectors: one in which productivity is rising and another where productivity is<br />

stable. As an illustration, let us suppose that where technological improvements are possible they<br />

lead to an increase in output per man-hour of 4 percent per annum, but that output per man-hour<br />

remains absolutely constant in the stable productivity sector. If these sectors are assigned equal<br />

weights in the construction of an economy-wide productivity index, the aggregate rate of increase<br />

distanza, è ben lontana dal considerarsi esaurita. L’aspetto curioso è la casualità degli avvenimenti che<br />

hanno portato Baumol ad interessarsi a questo tipo di ricerche, un ulteriore esempio di “serendipity”<br />

scientifica (Barber, Merton 1958). Nella sua autobiografia, Baumol scrive: «Sheer misunderstanding led<br />

to my involvement in the economics of performing arts. In about 1960, the Twentieth Century Fund and<br />

John D. Rockefeller III had decided that the time was auspicious for a systematic study of that subject. On<br />

enquiry they were told of an economist of Princeton who was knowledgeable about the arts as well as<br />

economics. The person who had steered them to me had, of course, confused my activities in painting and<br />

sculpture with knowledge of the finances and organization of opera, theatres, orchestras and dance<br />

companies. My father had instilled in me a great love of the performing arts, but little konwledge of the<br />

economic side of these activities accompanied my wife’s [n.d.t.: Linda Baumol] and my frequent<br />

attendance […]». Per riprendere questi aspetti si rinvia all’introduzione del libro di Ruth Towse (1997).<br />

17


in output per man-hour will be 2 percent per annum. For the moment les us assume that there is<br />

only one grade of labor, that labor is free to move back and forth between sectors, and that the real<br />

wage rate rises pari passu with the aggregate rate of change of productivity, at 2 percent per<br />

annum. Finally, let us suppose that the money supply and the level of aggregate demand are<br />

controlled in such way that the price level is kept stable. Assuming that there are no changes in the<br />

shares of capital and labor, this means that money wages also increase at the rate of 2 percent a<br />

year.<br />

The implications of this simple model for costs in the two sectors are straightforward. In the rising<br />

productivity sector, output per man-hourincreases more rapidly than the money wage rate and<br />

labor costs per unit must therefore decline. However, in the sector where productivity is stable,<br />

there is no offsetting improvement in output per man-hour, and so every increase in money wages<br />

is translated automatically into an equivalent increase in unit labor costs – 2 percent per annum in<br />

our example. It should be noted that the extent of the increase in costs in the stable productivity<br />

sector varies directly with the economy-wide rate of increase in output per man-hour. The faster<br />

the general pace of technological advance, the greater will be the increase in the overall wage level<br />

and the greater the upward pressure on costs in those industries which do not enjoy increades<br />

productivity. Faster technological progress is no blessing for laggards, at least as far as their costs<br />

are concerned 1 ” (Baumol, Bowen 1965: 500)<br />

Evidentemente, le performing arts appartengono al settore a produttività stagnante.<br />

Questo è il quadro teorico presentato dall’economia “tradizionale” quando affronta la<br />

produzione artistica: l’utilizzo di tecnologie “obsolete” (o comunque “regressive” nel<br />

linguaggio di Baumol) e la scarsa propensione all’innovazione di “prodotto” e<br />

“organizzativa” sono tali da non rendere “profittevole” una attività che presenta una<br />

funzione di produzione con le caratteristiche “strutturali” di quella artistica.<br />

Ma allora, anche spostando la questione su aspetti di natura gestionale, dove sta la<br />

“creazione di valore” nel caso della produzione teatrale? Il fatto che la teoria economica<br />

non sia in grado di fornire una spiegazione plausibile non significa che bisogna smettere<br />

di cercare. In effetti, però, la stessa teoria non si è posta il problema di comprendere se<br />

parlare di accumulazione di risorse (soprattutto umane) nel caso di processi produttivi<br />

che utilizzano particolari “macchinari” e “lavorazioni” possa risultare fuorviante. In altri<br />

termini, forse, il “valore” economico della produzione artistica sta altrove rispetto a<br />

dove siamo stati abituati a cercarlo (e a misurarlo) fino ad ora. Ad esempio, su questo<br />

tema David Throsby sottolinea che:<br />

“If we are serious about striving tof theoretical completeness, and eventually for operational<br />

validity in decision-making, it is essential that cultural value be adtmitted alongside economic<br />

value in the consideration of the overall value of cultural goods and services” (1997: 41).<br />

Ma, alla conclusione del suo lavoro, nel tentativo di spiegare quanto fondamentale<br />

sia la teoria del valore per cercare di comprendere le relazioni tra economia e cultura,<br />

ammette che, se i concetti di “preferenze” e di “scelta” sembrano costituire un comune<br />

punto di partenza per formulare una qualche ipotesi sul concetto di valore, è nel<br />

momento in cui si passa all’elaborazione “pratica” di tale nozione che economia e<br />

cultura continuano a divergere, costringendo i teorici a tenere separati i due concetti:<br />

1 Baumol e Bowen concludono così la loro ricerca: «Ciò che è stato mostrato non suonerà, temiamo,<br />

rassicurante a coloro per i quali la pronta disponibilità degli spettacoli costituisce un obiettivo importante<br />

della società. Se il nostro modello è valido, e se, come si potrebbe sospettare, vi sono limiti alle somme<br />

che possono essere ottenute da donatori privati, si dovrà trovare un maggior sostegno da altre fonti se il<br />

settore degli spettacoli deve continuare a svolgere il suo ruolo attuale nella vita culturale di questo paese<br />

[gli Stati Uniti] e specialmente se si ha lo scopo di consentire l’espansione del loro ruolo e il loro<br />

prosperare» (in Trimarchi 1993).<br />

18


“[…] it is no exaggeration to say that a theory of value is the foundation stone upon which<br />

economic theory si built, and by the same token a viable concept of cultural value is foundamental<br />

to any systematic analysis of culture and cultural activity.<br />

We have proposed that economic and cultural value must been seen as distinct concepts in<br />

assessing the entire range of phenomena under consideration, from the definition of cultural goods<br />

as a class of commodities to the specification of the objectives of public policy. Economic value is<br />

measured for private goods, somewhat imperfectly, by price, and for public goods, again<br />

imperfecly, as willingness to pay (WTP). It embodies a wide variety of sources of individual<br />

desire for different commodities and reduces those desires, via preference orderings between<br />

commodities, to a single quantifiable metric. Cultural value, on the other hand, has no common<br />

unit of account and is multidimensional, shifting and probably includes some components<br />

expressible only in non-quantifiable terms. But the difficulties of this articulation and evaluation<br />

do not diminish its importance in identifying the distinctive claims to attention of the cultural<br />

phenomena which embody or produce it” (Throsby, 1997: 158-159).<br />

Nel momento in cui si cerca di proporre un paradigma nuovo definito come<br />

“economia della conoscenza”, il punto di partenza degli economisti della cultura e<br />

dell’analisi di Baumol, diventa controverso: si cerca di utilizzare gli stessi strumenti per<br />

analizzare un fenomeno (la conoscenza artistica) con caratteristiche che si sono rivelate<br />

“evidentemente” diverse rispetto alle categorie logiche che gli economisti sono abituati<br />

a trattare. Siccome l’economia dell’arte non può esistere all’interno di un paradigma<br />

economico basato sull’accumulazione delle risorse e sulla definizione di mercato<br />

concorrenziale, allora viene giustificata la creazione di un “mercato interventista” o di<br />

“nuove categorie logiche” (l’idea di cultural value che va tenuta distinta da quella di<br />

economic value) specifici per le organizzazioni culturali, ma che continuano ad essere<br />

fondati sulle stesse basi teoriche che si sono rivelate non in grado di spiegarli.<br />

Non si vuole mettere qui in discussione il ruolo fondamentale del finanziamento<br />

pubblico per la produzione artistica né, tanto meno, la correttezza delle teorie<br />

economiche dominanti. Semplicemente, richiamando il pregiudizio epistemologico a<br />

cui si è accennato in apertura, si vuole sottolineare come si sia giunti alla conclusione<br />

che, nel caso dell’arte, bisogna mettere da parte alcune regole di quella costruzione<br />

teorica che è il “mercato” e la “teoria del valore”, senza mettere prima in discussione gli<br />

strumenti teorici e metodologici utilizzati per arrivare a quella conclusione. Nella<br />

sostanza, si è cercato di modificare la realtà dei processi di produzione artistici affinchè,<br />

in qualche modo, potessero essere inquadrati all’interno di categorie logiche note ma<br />

difficilmente accostabili al caso dell’arte: il concetto di valore, quello di utilità<br />

marginale o della produttività legato al numero di ore-lavoro per unità di prodotto; la<br />

funzione di produzione che deve avere costi unitari decrescenti; il ruolo “progressivo”<br />

della tecnologia e dell’innovazione con riferimento ai processi produttivi 1 .<br />

Nell’ambito di una proposta teorica knowledge-based, la tecnologia adottata da una<br />

filiera per la produzione artistica è effettivamente “obsoleta” o è piuttosto così<br />

all’avanguardia (se considerata da un punto di vista cognitivo) tanto da utilizzare<br />

“strutture logiche” che solo oggi cominciamo a “ri-scoprire” (nel caso dell’economia e<br />

del management) come i linguaggi e le pratiche, i codici e i contesti? Ha senso parlare<br />

1 Non è solo la teoria economica ad avere affrontato in modo “ortodosso” il tema della produzione<br />

artistica. Anche nel caso dei problemi di gestione legati alle organizzazioni artistiche, questa visione ha<br />

prodotto risultati a volte nefasti, portando ad un cattivo uso della “retorica del management” (Zan 2003),<br />

ovvero cercando di “generalizzare” a volte in modo sconsiderato problemi che, in effetti, si sono rivelati<br />

non facilmente generalizzabili all’interno delle categorie logiche con cui siamo abituati a ragionare come<br />

la misurazione del profitto, la concorrenza, la creazione di un vantaggio competitivo, la gestione della<br />

gerarchia, un approccio al mercato per i prodotti culturali, il rapporto con gli utenti/consumatori, ecc.<br />

19


ancora di “accumulazione di risorse scarse” (più o meno materiali che siano) quando si<br />

introduce in modo serio, nel dibattito attuale, una risorsa “particolare” come la<br />

conoscenza?<br />

A ben vedere, una ipotetica revisione del morbo di Baumol in una prospettiva<br />

“knowledge-based” potrebbe andare incontro a ben altri problemi se tale logica venisse<br />

applicata fino in fondo: probabilmente si arriverebbe a concludere che all’artista e al<br />

sistema artistico nel suo complesso non viene “attribuito” il suo effettivo valore<br />

economico perché i relativi processi (cognitivi) di produzione non sarebbero “misurati”<br />

all’interno di un adeguato sistema (epistemologico) di regole capace di intepretarne fino<br />

in fondo il funzionamento effettivo. In altri termini, il valore creato dall’arte all’interno<br />

di una logica di misurazione di tipo “fordista” (statistico-matematico o positivista, o<br />

comunque legata alla tradizione economica neoclassica) non sarebbe lo stesso se lo<br />

stesso valore venisse invece “misurato” all’interno di un sistema di regole differente<br />

come quello dell’economia cognitiva che adotta strutture logiche diverse per<br />

“interpretare” fenomeni cognitivi con caratteristiche differenti (Rullani 1994)».<br />

***<br />

In quelle riflessioni parigine già erano presenti alcuni richiami al Festival di<br />

Avignone che cominciai a frequentare, fin dall’estate precedente, da osservatore<br />

parziale e interessato. Nonostante rischiassero di confondersi, nel mio immaginario, con<br />

i recenti “dietro le quinte”, ricordi quanto mai vividi, degli spettacoli che, in molti<br />

luoghi diversi, vidi rappresentanti in gran quantità al Festival; ora posso ammettere, con<br />

tutta sincerità, che per realizzare quelle note furono costantemente presenti nel mio<br />

animo, benché più lontani nel tempo, i ricordi del “dietro le quinte” dello spettacolo di<br />

Nekrosius.<br />

A tal proposito, prima di proseguire, una ulteriore nota di orientamento, con<br />

riferimento al testo che segue: siccome i materiali che sono stati di seguito messi a<br />

profitto, attraverso la stesura del racconto, fin da subito potrebbero intrecciarsi, fin quasi<br />

a confondersi tra loro, laddove compaia una notazione tra parentesi con il numero di<br />

pagina, è da intendersi che il riferimento relativo sia il diario di bordo “ufficiale” del<br />

laboratorio teatrale tenuto da Nekrosius nel 2000; in caso contrario e in assenza di<br />

ulteriori notazioni, postille o appunti a piè di pagina, è da intendersi che si tratti di<br />

materiale di prima mano che probabilmente N. è riuscito a ritrovare nell’allegro<br />

guazzabuglio della sua stanza di lavoro in Italia.<br />

***<br />

Prima, però, è il caso di aprire una parentesi all’interno del racconto di questi<br />

avvenimenti, in modo tale da collegare quelle riflessioni ad altri temi. Qualora il lettore<br />

accettasse di buon grado questa inopinata interruzione, probabilmente un po’ più<br />

articolata di una parentesi, e nella speranza di non intaccare troppo la sua pazienza, in<br />

cambio potrò promettergli una migliore comprensione di quanto accadrà in seguito.<br />

Dunque, lasciamo N. alle prese con i giovani artisti all’opera con la messa in scena<br />

secondo Nekrosius de Il Gabbiano e continuiamo a seguirne le tracce, qualche anno<br />

dopo, da Parigi a Udine, subito dopo quel seminario di ricerca che tenne al<br />

Polytechnique. Credo che abbia da raccontarci alcune questioni di non poco conto.<br />

20


IV<br />

(“Passessaggiare nei boschi narrativi”: una proposta metodologica interdisciplinare per le scienze sociali)<br />

Dove il lettore prende confidenza con il vocabolario della ricerca e con l’idea che i<br />

fenomeni artistici vanno studiati in un “regime di condominio” tra filosofia e storia,<br />

sociologia e antropologia, linguistica generale e semiotica, economia e psicologia… <br />

Dove vengono prese in considerazione le problematiche di ordine metodologico di un tale<br />

programma di ricerca. <br />

Natale 2005, da qualche parte a Udine.<br />

«Lettore, è tempo che la tua sballottata navigazione trovi un<br />

approdo. Quale porto può accoglierti più sicuro d’una grande<br />

biblioteca? Certamente ve n’è una nella città da cui eri partito e<br />

cui ha fatto ritorno dopo il tuo giro del mondo da un libro<br />

all’altro. Ti resta ancora una speranza, che i dieci romanzi che<br />

si sono volatilizzati tra le tue mani appena ne hai intrapreso la<br />

lettura, si trovino in questa biblioteca».<br />

(“Se una notte di inverno un viaggiatore”,<br />

di Italo Calvino, 1994).<br />

Uscivo dalla solita libreria a metà di via Vittorio Veneto, dal lato degli antichi portici<br />

che conducono direttamente verso la centralissima Piazza Libertà, racchiusa a destra<br />

dalla salita del Castello e dalla Torre dell’Orologio che ricorda il passaggio della<br />

“Serenissima”, e a sinistra dalla Loggia gotica del Lionello. È difficile restare<br />

indifferenti al caotico spettacolo che si presenta dinnanzi al cliente-lettore che entra<br />

nella libreria: cataste di libri si accumulano tanto sui tavoli a sinistra dell’ingresso e sul<br />

bancone a destra, quanto tutt’attorno, fino al retrobottega, negli alti scaffali di legno. Ed<br />

è difficile restare delusi in questo posto che sa ancora di antico, in cui si può restare<br />

indisturbati per ore a rubare pagine e pagine di libri senza essere considerati come<br />

occupatori molesti di spazi commerciali o vagabondi e perditempo che mai<br />

acquisteranno qualcosa.<br />

Avevo trascorso parte del pomeriggio esplorando dei ripiani che da tempo mi<br />

incuriosivano e a cui non avevo ancora dedicato completamente la mia attenzione, in<br />

uno degli angoli più remoti della libreria. Rimasi a lungo circondato, tra gli altri, da<br />

Gérard Genette, Tzvetan Todorov, Paul Ricœur, Roland Barthes, Michail Bachtin,<br />

Umberto Eco, Fréderic Saussure, Wolfgang Iser, Charles Baudelaire, Marcel Proust,<br />

Italo Calvino: avevo appena acquistato un libro preso proprio da quegli scaffali e mi<br />

compiacevo di quanto incredibile fosse stato avere un’intero ripiano che sembrava<br />

interamente dedicato ai miei recenti interessi.<br />

Lasciamo per un istante N., che ci guiderà nell’esplorare i suoi nuovi scaffali e<br />

ricomponiamo i ricordi della nascita di un progetto di ricerca a cui io sto dedicandomi 1 .<br />

Negli ultimi dodici, o forse diciotto mesi, a più riprese mi sono sentito attratto da una<br />

idea a cui, col passare del tempo, ho prestato sempre maggiore attenzione in quanto la<br />

considero una strada meritevole di essere percorsa fino in fondo: nell’ambito dei metodi<br />

di ricerca definiti genericamente di tipo qualitativo, che ruolo gioca il racconto e il<br />

pensiero narrativo? Posta in questi termini la questione non è oltremodo nuova né<br />

1 Il Narratore, in questo caso, si riferisce allo specifico progetto di ricerca che, col passare del tempo,<br />

aveva assunto la denominazione con cui il lettore ora ne prende conoscienza: «La fabbrica della<br />

conoscenza artistica. Raccontare il Festival di Avignone: “Un rêve que nous faisons tous!”» (N.d.A.).<br />

21


particolarmente interessante: il lettore potrebbe eccepire che delle c.d. war stories, di<br />

case studies o case histories, delle saghe organizzative, e di racconti di vario tipo se ne<br />

parla da tempo ed io stesso, nella mia seppur breve attività di ricerca, ne ho fatto (ampio<br />

e distorto?) uso 1 . Quindi, cosa c’è di nuovo sotto il cielo della metodologia qualitativa<br />

negli studi di management e organizzazione, tanto da meritare ulteriore attenzione e, più<br />

modestamente, da dedicare a questo soggetto il presente saggio-pamphlet?<br />

Di fatto questo è vero: di narrazione si parla da tempo negli studi di management; ma<br />

probabilmente il mio tentativo di rinnovare l’interesse per questo tema parte da una<br />

sorta di sopraggiunta insoddisfazione per come affrontiamo la prospettiva narrativa dal<br />

punto di vista teorico e pratico 2 . Da un lato, infatti, non mi sembra venga prestata la<br />

dovuta attenzione alle giustificazioni teoriche ed epistemologiche legate all’utilizzo<br />

delle teorie letterarie nella produzione scientifica, e questo sia da parte dei “detrattori”<br />

che dei “sostenitori” più o meno attenti della prospettiva narrativa (o dell’analogia<br />

testuale); dall’altro, ed è una questione di natura metodologica strettamente collegata al<br />

punto precedente, chi utilizza i case studies, le storie organizzative, una etnografia<br />

tradizionale o altri generi di testo non sembra considerare completamente gli aspetti di<br />

natura tecnica e “stilistica” collegati alla produzione di conoscenza attraverso “veri”<br />

testi narrativi, a cominciare dall’idea stessa di cooperazione interpretativa 3 . E che cosa<br />

io intenda per testo narrativo spero che sia il lettore stesso a comprenderlo attraverso la<br />

lettura delle pagine che seguono, al termine di questa mia apologia dell’approccio<br />

narrativo.<br />

1 Il lettore può fare riferimento, tra gli altri, a: Barley, Orr 1997; Barley, Kunda 2004; Czarniawska 1997,<br />

2004; Gagliardi, Czarniawska 2003; Garfinkel 1984; Glaser, Strauss 1967; Kunda 1992; Orr 1996; Van<br />

Maanen 1988. Un recente numero della Revue française de gestion è interamente dedicato a “Recits et<br />

management” , il n. 31 (159) del novembre-décembre 2005. Oltre alla vasta bibliografia citata in quel<br />

numero speciale, tra gli articoli di maggior interesse possono essere citati: Chanal 2005; Kahane 2005;<br />

Giroux, Marroquin 2005; Zeleznik 2005; Lumineau, Landais 2005; de La Ville, Mounoud 2005;<br />

Czarniawska 2005 (N.d.T.).<br />

2 Non mancano, anche nel campo delle ricerche economiche, coraggiosi tentativi di (ri)evocare l’uso del<br />

racconto per quelli che, però, si risolvono spesso in esercizi di scrittura che poco hanno a che vedere con<br />

il pensiero narrativo. Un passaggio determinante di questa insoddisfazione, sempre meno latente e sempre<br />

più palese, per l’andamento di sedicenti approcci narrattivi fu un recente seminario a cui N. ebbe il<br />

piacere di partecipare presso il CRG della prestigiosa Ecole Polytechnique di Parigi, su un approccio<br />

denominato Analitic Narratives e proposto da Bates e colleghi (Bates et al., 1992). N. ebbe la possibilità<br />

di ascoltare e discutere direttamente con uno degli co-autori di quel testo, il prof. Jean Laurean Rosenthal,<br />

e, a dire il vero, durante il suo seminario, restò perplesso quando questi scritti vennero presentati come<br />

tentativi considerati particolarmente innovativi per impiegare la forma narrativa, “comunemente” usata<br />

negli studi storici, combinandola con gli strumenti “comunemente” impiegati in economia e nelle scienze<br />

politiche: «Our approach is narrative; it pays attention to stories, accounts, and context. It is analytic in<br />

that it extracts explicit and formal lines of reasoning, which facilitate both exposition and explanation» (p.<br />

10). Come se la narrazione, anche storica, non fosse normalmente in grado di facilitare la complensione di<br />

fenomeni attraverso l’esposizione di linee di ragionamento esplicite e formali; o altrimenti detto, come se<br />

raccontare la Storia non comporti l’utilizzo di ragionamenti formali e espliciti, che sembrerebbero invece<br />

appannaggio dell’economia (sic!) (N.d.T.).<br />

3 Tra gli studiosi di economia e management, il massimo della cooperazione che l’autore concede al<br />

lettore sembra essere quella legata alla “sindrome del pubblicitario”: uno scritto scientifico che utilizzi il<br />

racconto come “forma” si ridurrebbe sostanzialmente alla “descrizione di una serie di accidenti possibili<br />

ma evitabili” (l’espressione come la metafora sono di Umberto Eco). Questi autori, quindi, decidono che<br />

è giusto dare al lettore esattamente quello che egli vuole, si scelgono un “target” come, appunto, fanno i<br />

pubblicitari: e, come il lettore può immaginare, è difficilissimo chiedere la cooperazione ad un bersaglio<br />

che, per definizione, si attende di essere colpito, al massimo restando immobile! (N.d.T.).<br />

22


Parole, immagini, invenzioni, ricordi: l’interesse per il racconto inteso nelle sue varie<br />

componenti come storia, discorso e narrazione 1 sembrava derivare, ancora una volta, da<br />

quella sorta di fertile incontro tra gli studi di management e l’oggetto prevalente delle<br />

mie ricerche, col risultato di influenzare il metodo per indagare su questi stessi<br />

fenomeni. Affermare che per lo studio dei fenomeni artistici, anche assumendo una<br />

prospettiva economico-manageriale, la narrazione costituisca il normale strumento di<br />

indagine, potrebbe rappresentante già una motivazione sufficiente e autoevidente a<br />

giustificare questa mia attenzione o predilizione di ordine metodologico. Ma c’è di più.<br />

In primo luogo, il primo problema è quello di cercare di applicare una metodologia o<br />

una strategia di ricerca (la narrazione) per lo studio in chiave manageriale di<br />

organizzazioni che per loro stessa natura “raccontano storie” utilizzando testi, immagini,<br />

rappresentazioni e simboli con lo scopo ultimo di produrre “cose” che genericamente<br />

definiamo cultura. Ecco che il primo aspetto controverso, o meglio peculiare, del mio<br />

campo di indagine può essere riassunto con frasi di questo tipo: intendo studiare<br />

attraverso le narrazioni organizzazioni che producono “istituzionalmente” altre<br />

narrazioni sotto forma di arte; oppure, allo stesso modo, desidero studiare attraverso la<br />

“cultura” (se il lettore lo preferisce, con una prospettiva simbolico-culturale)<br />

organizzazioni che producono cultura sotto forma di arte 2 .<br />

Questa prima stravaganza o questo modo apparentemente ridondante di esprimere il<br />

mio punto di osservazione dei fenomeni che intendo prendere in considerazione, mi<br />

porta ad evidenziare non solo una questione di ordine pratico e metodologico. Infatti, mi<br />

sembra che gli studiosi di economia e di management possano riscontrare un importante<br />

problema di ordine “ontologico” (oltre che “epistemologico”) nell’affrontare tale tema<br />

di ricerca o, al più, possano manifestare un atteggiamento quanto meno schizofrenico<br />

per quanto riguarda l’oggetto stesso delle loro ricerche in questo ambito: in quale modo<br />

rispondono alla domanda «che cosa, effettivamente, essi studiano di tali fenomeni?». I<br />

processi produttivi e organizzativi (il “come?” e il “dove?”) che fanno capo alle<br />

istituzioni artistico-culturali (il “chi?”) e/o il risultato di questi processi (vale a dire, il<br />

“cosa?” e il “perché?”), cioè l’opera d’arte, lo spettacolo teatrale, o il loro<br />

raggruppamento in collezioni e programmi artistici?<br />

Il “chi produce arte?”, il “cosa è prodotto?”, il “perché?” e il “come viene prodotto?”<br />

diventano importanti questioni se applicate agli studi di management delle<br />

organizzazioni artistiche e dare importanza o partire da una domanda piuttosto che da<br />

un’altra (fermo restando che a tutte e tre bisognerebbe dare una risposta) comporta un<br />

cambiamento di prospettiva notevole.<br />

Assumendo un profilo basso o, altrimenti detto, in modo modesto, economisti e<br />

studiosi di management potrebbero limitare il proprio campo di interesse alle regole di<br />

funzionamento e ai processi di produzione delle organizzazioni artistiche, cioè al “come<br />

viene prodotta arte?” e successivamente al “chi produce arte?”: dal punto di vista<br />

formale e sostanziale il problema economico nel caso dei fenomeni artistici si<br />

ridurrebbe ad una distribuzione di risorse tra sistemi economici differenti (il problema<br />

del finanziamento dell’attività artistica e del “come?”) e, all’interno del sistema<br />

produttivo artistico, della gestione efficace ed efficiente delle risorse che le singole<br />

organizzazioni riescono a farsi attribuire in questo processo di allocazione di risorse<br />

scarse per definizione (il problema del “chi?” e del “perché?”). Limitarsi a questa<br />

prospettiva (già di per sé irta di ostacoli) risulterebbe necessario per una questione<br />

1 Genette 1972; Iser 1978; Genette, Todorov 1986 (N.d.A.).<br />

2 Crisci, Moretti 2004; Strati 2004; Sicca 2000a, 2000b; March 1991; Weick, Browning 1986 (N.d.A.).<br />

23


puramente pratica, in quanto nel momento in cui l’economia si trova ad avere a che fare<br />

con il prodotto dei processi artistici e col problema del “cosa è prodotto?” (quello che<br />

potrebbe essere definito come prodotto culturale, nelle sue varie manifestazioni<br />

“cognitive”), gli studiosi di tale disciplina si trovano di fronte ad un “oggetto<br />

misterioso” che risulta quanto meno difficile da inquadrare attraverso schemi e teorie<br />

che sono proprie della “retorica economica” (o se il lettore preferisce, del linguaggio e<br />

degli strumenti) che sono ad essa più congeniali 1 . A questo punto, delle due l’una: o<br />

arrancano (come “stiamo” facendo) cercando nel loro arsenale improbabili concetti e<br />

teorie che possano delineare il fenomeno artistico in termini di risultato (“cosa”) di un<br />

processo produttivo/creativo (“chi”), adottando le letture più varie del fenomeno del<br />

“come” e del “perché” (mercato dell’arte, industria culturale, prodotto culturale, filiera<br />

produttiva, distretto culturale. ecc.); oppure, ancora più modestamente, potrebbero<br />

mettersi all’ascolto di studiosi e professionisti di altre discipline che (anche nell’ambito<br />

delle stesse scienze sociali) già da qualche tempo hanno provato ad affrontare il<br />

problema (questo sì tutto di ordine ontologico) legato alla definizione di “arte” nelle sue<br />

varie componenti e forme (estetica, sociologia e piscologia dell’arte, storia dell’arte,<br />

critica e teorie letterarie, ecc.).<br />

A dire il vero, ci sarebbe anche un’altra strada, ma molto più complicata, difficile da<br />

percorrere se si tengono conto di tutte le implicazioni e le conseguenze che essa<br />

comporterebbe in quanto lastricata di insidie e ostacoli di ordine teorico. Vale a dire,<br />

posti di fronte a teorie “inefficaci” per studiare (contemporaneamente) il “chi, il cosa, il<br />

come e il perché”, si potrebbero (ri)cercare nuovi fondamenti teorici che permettano a<br />

economia e management di affrontare in modo completo e più consapevole lo studio<br />

tanto dei processi di produzione artistici quanto del risultato di tali processi, nonché di<br />

poter trovare un linguaggio “appropriato” per alimentare il “discorso” con altre<br />

discipline sociali. Non è questa la sezione in cui si affronterà compiutamente tale tema,<br />

a cui invece è dedicato per intero la restante parte del presente lavoro. Al momento il<br />

lettore dovrà accontentarsi di sapere che secondo il sottoscritto, questa terza via<br />

costituirebbe per le discipline economico-manageriali un vero e proprio salto<br />

paradigmatico à la Kuhn: come per altri aspetti del fenomeno artistico, lo studio di<br />

queste organizzazioni potrebbe fare dell’economia, così come la conosciamo oggi, una<br />

vittima illustre nel panorama delle scienze sociali, o ridimensionandone parecchio l’idea<br />

stessa di scientificità (strada che trovo, a dire il vero, non coerente) o prospettando un<br />

ribaltamento completo di alcuni dei fondamenti su cui poggia l’economia stessa come<br />

scienza (percorso che considero più interessate, fermo restando che una cosa non è detto<br />

che escluda l’altra). Già alcune teorie economiche stanno spostando le proprie ipotesi<br />

fondanti in questa direzione, restando però ancorate ad alcuni capisaldi (si pensi ai<br />

principi della scarsità delle risorse e alla logica della accumulazione delle stesse risorse,<br />

scarse per definizione, al concetto di preferenza come fattore esogeno, ecc.) che, nati un<br />

paio di secoli fa o sviluppatisi negli ultimi cinquanta o sessanta anni, oggi risultano<br />

anacronistici di fronte ai fenomeni “moderni” (e non solo di fronte al tentativo di<br />

studiare in particolare i fenomeni artistici). In altri campi che sono più “normalmente”<br />

oggetto di indagine per la scienza economica, si sono introdotti nel dibattito termini<br />

nuovi e al momento non ancora sviscerati nella loro interezza: mi riferisco qui a<br />

quell’espressione tanto geniale nella forma quanto diabolica con riferimento alla sua<br />

composizione ed essenza che è «l’economia fondata sulla conoscenza» o knowledge<br />

1 Ad esempio: Becker 1982; Bourdieu 1992; Moulin 1992; Genette 1998, 1999; Eco 2004b (N.d.A.).<br />

24


economy, altrimenti detto, il più formidabile e affascinante ossimoro che sia stato<br />

concepito dalla letteratura economica dell’ultimo secolo. Al momento, ciò che andrai a<br />

leggere è il risultato (necessariamente parziale…) di un intero progetto di ricerca<br />

dedicato allo studio dei processi di produzione dello spettacolo dal vivo in una<br />

prospettiva knowledge based che mi piace definire “più coerente” rispetto al tenue<br />

dibattito attuale in altri settori economici 1 . Ed è ad alcuni dei risultati di quel progetto di<br />

ricerca che ora rinvio il lettore paziente, fiducioso del fatto che quanto stai leggendo<br />

esattamente in questo momento costituisce una tappa di avvicinamento di quello stesso<br />

studio 2 . Ora è di metodo che vorrei parlarti.<br />

***<br />

Intanto, avevamo lasciato N. all’interno della sua libreria.<br />

In pochi metri lineari di libri, erano stati concentrati, in una fortunata selezione, testi<br />

che non mi era stato facile rintracciare, trattandosi in alcuni casi, anche di edizioni<br />

vecchie di oltre quindici o venti anni, vale a dire, seppur non antiche, apparse comunque<br />

in un’altra era geologica, se si considera il ritmo incalzante dell’industria editoriale<br />

moderna. Tra i tanti, quasi subito mi capitò tra le mani proprio quel piccolo libro che ho<br />

appena acquistato e che cominciai a sfogliare per lungo tempo ancora all’interno della<br />

libreria: «[…] la finzione narrativa è necessariamente, fatalmente rapida, perché –<br />

mentre costruisce un mondo, coi suoi eventi e i suoi personaggi – di questo mondo non<br />

può dire tutto. Accenna, e per il resto chiede al lettore di collaborare colmando una serie<br />

di spazi vuoti. […] Del resto … ogni testo è una macchina pigra che chiede al lettore di<br />

fare parte del proprio lavoro» (p. 3). Vale la pena continuare, mi dissi. Qualche riga più<br />

avanti, dopo la simpatica storiella di “Gedeone e il cocchiere 3 ”, a testimoniare cosa può<br />

comportare in un racconto dire di più o di meno di “quel che si dovrebbe dire”, trovai<br />

1 Un primo chiarimento (o richiamo) per il lettore. La struttura del progetto di ricerca complessivo di N.<br />

per lo studio dei processi di produzione artistici (v. cap. III e successivi capitoli dal V al X) ha seguito due<br />

esigenze specifiche: (i) da un lato, considerare fino in fondo i risvolti legati alla formula “creare<br />

conoscenza attraverso altra conoscenza” (Rullani 2004b), permettendo di allargare la prospettiva di<br />

ricerca degli studi di organizzazione e gestione a livelli di analisi per certi versi non completamente<br />

percorsi da tale disciplina; (ii) e dall’altro, permettere di intendere la cultura stessa come un fenomeno di<br />

significazione e di comunicazione (Eco 1975), assumendo una prospettiva semiotica (e antropologica) per<br />

la comprensione della produzione artistica quale esempio particolare di studio della “cultura” (N.d.A.).<br />

2 Quel che è possibile anticipare, a tal proposito, è che per creare un progetto serio per la comprensione<br />

della produzione artistica a N. è sembrato determinante accostare una teoria che permettesse di<br />

comprendere quel particolare linguaggio umano che è l’arte (quale forma di cultura) con una teoria che<br />

fosse in grado di interpretarne i processi di produzione (e in questo caso di creazione di significati)<br />

all’interno della “fabbrica” demandata a creare e diffondere tale linguaggio sotto forma di “prodotti<br />

cognitivi”. Secondo un uso antropologicamente corretto del termine “cultura” è infatti necessario mettere<br />

assieme almeno tre fenomeni (culturali) differenti per arrivare a comprendere a pieno il concetto<br />

principale (Eco 1975): (i) la produzione e l’uso di oggetti (sotto forma di conoscenze) che, assumendo<br />

varie forme (cognitive), trasformano la relazione uomo-natura; (ii) la diffusione di quelli che diventano<br />

prodotti “cognitivi” (nel significato economico-manageriale del termine); (iii) le relazioni (sociali e si<br />

potrebbe dire organizzative) all’interno di rapporti istituzionalizzati e la regolamentazione di tali relazioni<br />

(su basi cognitive). Assieme alla nascita di un linguaggio, questi tre fenomeni sembrano essere costitutivi<br />

di ogni cultura. Riletto in questi termini, lo scopo della ricerca di N. è esplorare le possibilità teoriche di<br />

uno studio in chiave organizzativa e manageriale dei fenomeni di produzione artistica, identificando e<br />

descrivendo il caso specifico dello spettacolo teatrale come un particolare fenomeno di significazione e di<br />

comunicazione (un mediatore cognitivo) la cui produzione avviene all’interno di un sistema (sociale) di<br />

regole che è dato dalla sua filiera (cognitiva) (N.d.A.).<br />

3 Si tratta di un pezzo tratto da un racconto del grande scrittore comico Achille Campanile (N.d.T.).<br />

25


un altro capoverso che cominciava con una metafora di Borges: «[…] in un bosco non<br />

ci sono sentieri tracciati, ciascuno può tracciare il proprio percorso decidendo di<br />

procedere a destra o a sinistra di un certo albero e così via, facendo una scelta a ogni<br />

albero che si incontra. In un testo narrativo il lettore è costretto a ogni momento a<br />

compiere una scelta» (p. 7). Pensai: il solito angosciato tormento di Borges per i<br />

labirinti…<br />

Ad ogni buon conto, si stava parlando di quella importante attività umana che è la<br />

lettura di testi narrativi e, quindi, anche dei relativi processi di scrittura. In questo caso,<br />

l’idea di partenza era che quanto il narratore dice al lettore serve proprio perché<br />

quest’ultimo possa farsi, seppur inconsciamente, delle ragionevoli aspettative e<br />

anticipazioni su come si svolgerà l’azione.<br />

Quindi, il protagonista di quel testo sembrava essere il lettore: ero io, come chiunque<br />

altro. Che felice coicidenza: vi erano spiegati in modo semplice e accattivante alcuni dei<br />

richiami teorici più noti nell’ambito delle teorie letterarie, ad esempio, quella tra Lettore<br />

Modello e Lettore Empirico da una parte e tra Autore Modello e Autore Empirico<br />

dall’altra. Ricordavo di aver già letto molto su quel tema. Il lettore empirico è chiunque<br />

legga un testo, senza che vi sia una legge e una regola data circa i modi in cui possa<br />

essere esercitata l’attività di lettura: il testo può essere considerato come un “contenitore<br />

per le proprie passioni”. Il lettore modello, invece, è quello che non solo collabora col<br />

testo che sta leggendo ma che si lascia creare dal testo stesso, prendendo coscienza e<br />

accettando le regole del gioco che questo gli propone. Il primo tipo di lettore si limita a<br />

usare il testo; il secondo, invece, lo interpreta. In altri termini, ci sono delle regole del<br />

gioco e «il lettore modello è colui che sa stare al gioco».<br />

Tornerò ampliamente sulla natura delle regole del gioco, in quanto costituiscono il<br />

fondamento stesso delle “regole metodologiche” dell’approccio narrativo che intendo<br />

proporre, in questo caso, per gli studi di gestione e organizzazione. Al momento vorrei<br />

soffermare l’attenzione del lettore su due questioni: chi è che impone al lettore modello<br />

le “regole del gioco” e che tipo di “gioco” è l’interpretazione di un testo narrativo.<br />

Procedendo nella lettura N. trova alcune interessanti soluzioni che gli propone l’autore<br />

del libro.<br />

Dopo aver distintino tra lettore empirico e lettore modello «[…] dovremmo pensare<br />

all’autore come a un personaggio empirico che scrive la storia e decide, forse per<br />

ragioni incofessabili e note solo al suo psicanalista, quale lettore modello occorra<br />

costruire?». La domanda dell’autore del mio libro era lecita e la sua risposta teorica era<br />

altrettanto interessante: «[…] Vi dico subito che a me dell’autore empirico di un testo<br />

narrativo (in verità, di ogni testo possibile) importa assai poco». Mi fermai un attimo a<br />

ragionare: anche nel caso dell’analisi del processo di produzione di un testo scientifico<br />

mi sembra che questa sia una impostazione accettabile. Nella maggioranza dei casi,<br />

nell’attività di lettura di un articolo scientifico pubblicato in una autorevole rivista<br />

anglosassone di management, la biografia dell’autore si limita, nel migliore dei casi, a<br />

poche righe in testa o in calce al testo e le informazioni più rilevanti sono il “nome”<br />

(inteso anche in termini di prestigio) dell’Università in cui l’autore lavora e il<br />

Dipartimento a cui afferisce. Al massimo, ultimamente, si aggiunge l’indicazione<br />

dell’indirizzo di posta elettronica. Così come per un romanzo, la notorietà dell’autore o<br />

dell’editore, nonché l’abilità di marketing e la capacità di legittimarsi di quest’ultimo,<br />

sono parametri più che sufficienti affinchè il lettore potenziale decida di attivarsi<br />

nell’esercizio della lettura dell’articolo di un famoso studioso pubblicato su una rivista<br />

di prestigio. In più, se a Proust, Dostoevskij o Jane Austen hanno dedicato diverse<br />

26


iografie, pensai, non molti scienziati possono vantare pubblicazioni dedicate alla<br />

propria vita e a cui il lettore possa fare riferimento: mi veniva in mente John Nash,<br />

Albert Einstein, lo stesso Herbert Simon e qualche altro premio Nobel o grandi<br />

pensatori morti e sepolti da qualche tempo.<br />

Rileggendo le ultime righe, in effetti, nel mio ruolo di “autore empirico” di un<br />

ipotetico testo narrativo, credevo accetabile che nessuno si sarebbe mai preso il fastidio<br />

di scrivere una biografia sul sottoscritto e con me, la grande maggioranza di studiosi di<br />

management e di organizzazione non si vedranno mai dedicare uno scritto da parte di<br />

qualche giornalista che ritenga “interessante” la sua esistenza o le sue ricerche. Ma nella<br />

proposta teorica richiamata, ad esempio, da Umberto Eco, questa non dovrebbe essere<br />

cosa grave: come l’autore del mio libro, introducendo la distinzione tra autore empirico<br />

e autore modello, Eco rassicura sul fatto che è relativamente poco interessante<br />

conoscere vita, morte e miracoli del primo, mentre risulta assai più utile, conveniente e<br />

intrigante ai fini interpretativi analizzare l’operato del secondo. E questo con gran<br />

sollievo dei ricercatori/scrittori che potranno così sperare di ritagliarsi uno spazio nella<br />

storia delle idee non esclusivamente per il fatto che l’Università dove lavorano è<br />

“particolarmente” alla moda e prestigiosa in un dato momento o perché sia stato<br />

realizzato un film che racconta il periodo trascorso presso una clinica psichiatrica in<br />

seguito al divorzio con la prima moglie, un tempo famosa attrice di soap opera.<br />

Era interessante questa convergenza di punti di vista rispetto al testo che avevo tra le<br />

mani: dal punto di vista dell’autore (e mi dicevo come questo fosse particolarmente<br />

evidente in un testo narrativo ma molto meno in un testo scientifico), e riprendendo la<br />

distinzione di Umberto Eco, di Gérard Genette o di altri studiosi di teorie narrative 1 , in<br />

un racconto o in ogni testo, sono presenti (più o meno visibili) tre entità diverse anche<br />

con riferimento specifico all’autore: l’autore empirico, ovvero l’io in quanto colui che<br />

fisicamente scrive ed è indicato sulla copertina come responsabile di quanto scritto, che<br />

cerca di costruire il “suo” lettore modello; il narratore, ovvero colui che dice “io” nel<br />

racconto e che non coincide con colui che di fatto scrive, in quanto ha un compito ben<br />

preciso che il primo, strategicamente, gli assegna; infine, simmetrico al lettore modello,<br />

è possibile paralre dell’autore modello, che a sua volta non coincide con il narratore<br />

nella misura in cui costituisce una costruzione narrativa nelle mani del lettore e potrebbe<br />

essere rintracciato in quella “voce anonima”, in quell’io, che inizia un racconto e che si<br />

rivolge al lettore ma che, ancora, nel corso del racconto stesso evolve per mano del<br />

lettore modello che gli assegna caratteri e compiti specifici (potrebbe essere visto come<br />

il lettore che si “riflette” all’interno del racconto, ma questa è già una mia possibile<br />

interpretazione).<br />

Nel caso mi dedicassi ad una ricerca sulle strategie di integrazione della filiera<br />

cognitiva dello spettacolo dal vivo, in cui applicare quanto mi propongono i sostenitori<br />

degli approcci narrativi 2 , sarò in grado di realizzare una così complessa costruzione<br />

narrativa che preveda, tra le altre cose, di mettere in gioco questa famosa “trinità<br />

narrativa” di cui sto leggendo, ovvero di collegare autore, narratore e lettore?<br />

1<br />

Barthes 1970, 1985; Eco 1975, 2004a, 2004b; Genette 1972, 1982, 1998, 1999; Iser1978; Todorov<br />

1997, 2004 (N.d.A.).<br />

2<br />

Il lettore può fare riferimento a Czarniawska 1997, 2004; Gagliardi, Czarniawska 2003. Il primo<br />

contatto con questo tema applicato agli studi di management era collegato al sapiente uso con cui Karl<br />

Weick aveva utilizzato lo straordinario materiale “narrativo” del libro di Norman Maclean (Maclean1992)<br />

per il suo articolo sul disastro di Mann Gulch (Weick 1993) (N.d.A.).<br />

27


Richiamavo alla mente le mie esperienze estive di ricerca sul campo, al Festival di<br />

Avignone. Come considerare, su un piano squisitamente tecnico, una proposizione<br />

costruita in questo modo?<br />

«E mentre il nostro Osservatore sale la scalinata del Palais des Papes e assiste allo spettacolo<br />

di apertura del Festival, ricomponiamo i ricordi del tempo in cui Jean Vilar decide il nuovo destino<br />

della Cours d’honneur»<br />

Nel caso della frase che mi ero appena immaginato, il lettore poteva giustificare la<br />

presenza di: (i) un “io” come autore empirico che mi invento un personaggio “reale”<br />

che parla in prima persona e di (ii) un “io-narratore” (l’io quale osservatore dei “fatti”<br />

del Festival come organizzazione); in modo tale da lasciare al primo la possibilità di<br />

“far dialogare” i fatti raccontanti dal secondo con le “teorie emergenti” che, ancora, il<br />

primo raccoglie, mette assieme o elabora nel momento dell’osservazione dei fenomeni<br />

che il secondo sta raccontando sotto forma di storia. In questo modo, attraverso una<br />

strategia “fittizia” potevo preservare la “realisticità” e l’immediatezza della storia che<br />

avrei potuto raccontare sul Festival di Avignone, facendo comprendere al lettore che le<br />

teorie per l’interpretazione di quei fatti nascevano nel momento stesso in cui i vari<br />

“autori empirici” dialogavano tra loro: l’uno riportando all’altro le storie raccolte dal/sul<br />

campo e quest’ultimo trasferendo al primo le chiavi di lettura per “leggere” quelle stesse<br />

storie. In tutta questa architettura narrativa, entrambi gli autori empirici giocano con il<br />

lettore coinvolgendolo direttamente in questa sorta di messa in scena “catottrica” in cui<br />

ciascun elemento della triade si riflette l’uno nell’altro. E tutto questo doveva avvenire<br />

grazie anche al contributo diretto del lettore, il quale ricostruisce le caratteristiche che<br />

dovrebbe avere l’autore modello.<br />

Proseguendo nella lettura mi accorsi che in quel libro c’era un esempio, a me<br />

familiare, su cosa potrebbe comportare per il lettore il fatto che l’autore sia in grado di<br />

controllare con maestria il compito di ciascuna di queste “entità narrative”: si trattava di<br />

un frammento tratto da “Sylvie”, un racconto breve di Gérard de Nerval, pseudonimo di<br />

Gérard Labrunie, pubblicato nel 1853. Ne avevo trovato e letto casualmente un’edizione<br />

economica, in uno scaffale del quarto piano, nella “sezione tascabili”, di una delle<br />

librerie Gibert Jeunes che si affacciano su Place Saint Michel, a Parigi. Seppure alcuni<br />

accorgimenti e stratagemmi narrativi mi avessero reso faticosa la lettura, la perizia<br />

nell’uso dei verbi e l’incredibile gioco di “scatole cinesi” tra presente e passato, con<br />

continui salti e richiami ad eventi accaduti in tempi e luoghi diversi, mi avevano<br />

affascinato.<br />

Solo successivamente, approfondendo la conoscenza del racconto e del suo autore,<br />

appresi con mia grande soddisfazione che prima di me anche illustri letterati erano<br />

rimasti “colpiti” dal racconto allucinato e apparentemente confuso di Nerval: ad<br />

esempio, Marcel Proust e Umberto Eco avevano dedicato molte attenzioni a questa<br />

storia, il primo considerando Nerval/Labrunie come una specie di maestro da cui<br />

attingere teoria e tecniche per avventurarsi nella sua “Recherche”, e il secondo<br />

consacrando al testo diversi studi e seminari in tutto il mondo, facendone quasi una<br />

ossessione, fino a curarne una puntuale traduzione in italiano nel 1999.<br />

Questo era il brano ripreso nel libro che stavo sfogliando: «[…] E mentre la carrozza<br />

sale lungo i pendii, ricomponiamo i ricordi del tempo in cui ci venivo tanto spesso» (p.<br />

28). Nella lettura delle pagine precedenti avevo già trovato, in altri punti, dei riferimenti<br />

a «Sylvie», e questo forse mi aveva portato ad immaginare la “mia” frase così come<br />

l’avevo espressa poco prima, con riferimento ad una situazione di ricerca sul campo<br />

28


vissuta durante la mia permanenza ad Avignone. Ma il caso volle che, voltata la pagina<br />

su cui mi ero soffermato per le mie riflessioni a latere, mi dovessi imbattere proprio<br />

nella frase originale, in quella che avevo letto e accuratamente tradotto dall’edizione<br />

francese di «Sylvie». Era evidente che quest’ultima mi era rimasta talmente impressa da<br />

usarla, più o meno inconsciamente, come modello per costruire quell’esempio ipotetico<br />

che mi ero immaginato prima. Ad ogni modo, l’analisi che lessi subito dopo questo bel<br />

caso di serendipity, mi colpì molto: «Chi è che pronunzia (o scrive) questa frase [n.d.t.:<br />

quella originale, non la mia!], chi ci comunica questo avvetimento? Il narratore? Ma il<br />

narratore, che sta parlando di un viaggio svoltosi anni prima, quando era salito su quella<br />

carrozza, dovrebbe dire qualcosa come “Mentre la carrozza saliva lungo le balze, io<br />

ricomposi – o iniziai a ricomporre, o mi dissi, ‘Suvvia, ricomponiamo’ – i ricordi del<br />

tempo in cui ci venivo tanto spesso”. Chi sono – anzi, chi siamo – invece quei “noi”<br />

che, insieme, dobbiamo ricomporre delle memorie, e quindi accingerci a compiere un<br />

nuovo viaggio verso il passato? Noi che dobbiamo farlo ora (mentre la carrozza sta<br />

viaggiando nello stesso momento in cui leggiamo) e non “allora”, quando la carrozza<br />

stava andando, nel momento passato in cui il narratore ci parla?» (p. 28). E qui<br />

intervenne magistralmente l’autore: «Questo non è un monologo, è la battuta di un<br />

dialogo tra tre persone: Nerval che si inserisce surrettiziamente nel discorso del<br />

narratore; noi che siamo chiamati in causa altrettanto surrettiziamente, mentre<br />

credevamo di poter assistere alla vicenda dal di fuori […]; e il narratore, che non viene<br />

lasciato fuori, perché è lui che in quei luoghi veniva così spesso» (p. 29).<br />

Pagina successiva: «Autore e lettore modello sono due immagini che si definiscono<br />

reciprocamente solo nel corso e alla fine della lettura. Si costruiscono a vicenda. Credo<br />

che questo sia vero non solo per le opere di narrativa ma per ogni tipo di testo» (p. 30).<br />

Visto ciò che mi ero messo in testa da mesi, questa frase da sola costituiva una specie di<br />

consacrazione e un invito a continuare.<br />

Il termine “stile” non è sufficiente ad evidenziare quegli elementi tecnici che hanno<br />

alle spalle anche importanti aspetti di ordine strutturale e che sono stati sviscerati in<br />

modo approfondito dalla letteratura teorica sulla narrativa (Barthes, Genette, Eco,<br />

Todorov, Iser, e gli altri, di cui mi ero circondato durante le ora nella libreria).<br />

Evidenziare l’esistenza stessa di «un lettore fittizio ritratto nel testo» mi sembrava<br />

strettamente legato al compito principale dell’interpretazione di un testo che è appunto<br />

quello di incarnarne l’esistenza stessa.<br />

Prima di affrontare l’episodio succesivo, mi venne questa riflessione: non è facile a<br />

dirsi come mai questi aspetti siano spesso dimenticati o non siano particolarmente<br />

evidenti e presi in considerazione quando viene redatto un testo scientifico “moderno 1 ”.<br />

Non credo che si tratti di una “povertà intrinseca” del testo scientifico rispetto al testo<br />

narrativo per quanto concerne l’aspetto linguistico. Azzardai una soluzione “tecnica”: si<br />

potrebbe pensare che il linguaggio usato dalla scienza nell’ultimo mezzo secolo (o poco<br />

più) sia andato livellandosi (appiattendosi?) dal punto di vista della sintassi e richiami<br />

una semantica ben precisa, quella di un presunto paradigma dominante; ma per porre<br />

attenzione soprattutto a quest’ultima si è in parte persa di vista la prima, creando<br />

proposizioni (per lo più secondo le logiche matematiche) che avessero un forte legame<br />

semantico con le regole teoriche da cui derivano, senza curare il modo in cui gli<br />

elementi lessicali venivano messi in rapporto tra loro. In modo un po’ caustico, Donald<br />

McCloskey argomentò che all’interno della gerarchia presente nella stanza dei bottoni<br />

1 Tra gli altri: Lyotard 2004, McCloskey 1986 (N.d.A.).<br />

29


della produzione delle teorie economiche, al livello più basso esista un “metodo, con la<br />

m minuscola, sempre umile e servizievole” che soccorre gli economisti suggerendo,<br />

«piuttosto male, come scrivere prosa scientifica» e mettendo assieme una cassetta degli<br />

strumenti che:<br />

«[…] sono costituiti dalla teoria economica nella sua forma verbale e in quella matematica,<br />

dalla teoria statistica e dalle sue applicazioni, dalla familiarità con alcune convenzioni contabili e<br />

con le fonti statistiche, e da un bagaglio fatto di esperienza e di conoscenza dei principali eventi<br />

storici. L’uso di questi strumenti nell’elaborazione di ragionamenti solidi ancorché limitati<br />

costituisce il métier dell’economista, il suo metodo» (McCloskey 1986: 46).<br />

Per quanto un po’ caricaturale, l’immagine della figura professionale dell’economista<br />

“moderno”, all’interno del paradigma attuale, non era poi molto lontana da quella<br />

fornitami da McCloskey: era evidente che quello specifico arsenale teorico e operativo<br />

“scelto” dagli economisti non può non impattare sullo stile del linguaggio scritto e su<br />

quello che egli stesso chiamava il “modo di conversare” usato in una comunità che si<br />

riconosce in quel tipo di mestiere. McCloskey proseguiva nella sua costruzione<br />

“gerarchica” della produzione teorica in economia:<br />

«Molto più in alto del metodo con la m minuscola, al massimo livello del comportamento<br />

erudito, troviamo le norma che contraddistiguono il modo di conversare civile. […] Esse sono le<br />

regole che vengono adottate nel momento in cui si prende parte a una conversazione, sia che<br />

questa abbia luogo tra economisti ed abbia come oggetto la gestione dell’economia, sia che si<br />

svolga tra genitori e riguardi il tema di come trattare con gli adolescenti. […] Il più grave peccato,<br />

dal punto di vista accademico, non consiste nell’essere illogici o male informati ma nel mostrare<br />

un cinico disinteresse per le norme della conversazione» (p. 47).<br />

Ma questa immagine “borghese” delle metodologia economica non terminava lì,<br />

essendoci anche lo scalino gerarchico che sta a metà tra i primi due:<br />

«come un manager di media importanza vestito di grigio, troviamo la Metodologia. […] Non è<br />

metodo, perché non può ritenersi un modo specifico di rivolgere suggerimenti pratici agli<br />

economisti, così come agli infelici in amore. Non è Sprachethik [etica cognitivista del parlare,<br />

secondo Habermas – citato da McCloskey] perché non pretende di costituire un modo generale per<br />

esprimersi correttamente nella nostra cultura, o in economia. Ritiene invece di costituire<br />

l’universalizzazione da scienze particolari a una generale scienza delle scienze. […] La [sua]<br />

comicità sta nella sua duplice posizione, di serva e signora allo stesso tempo, incline quindi<br />

all’ipocrisia e all’ambiguità, umile e allo stesso tempo pretenziosa» (p. 47).<br />

La visione di McCloskey poteva apparire un po’ stucchevole, ma di fatto il dibattito<br />

sull’uso distorto della metodologia e dell’epistemologia (in economia) non sembrano, a<br />

volte, essere particolarmente persuasive per chi assuma una posizione, quanto meno, di<br />

attento distacco. E’ difficile non essere d’accordo con quella posizione scettica quando:<br />

«la metodologia e il suo corollario, “il problema della demarcazione” (Che cosa è Scienza? In<br />

che modo la si deve distinguere dalla non-scienza?), sono mezzi per troncare una conversazione<br />

limitandola a quelle persone che si trovano dalla nostra parte della linea di demarcazione» (p. 49).<br />

La scelta della “grammatica”, quindi, era anche una questione di “discorsi”, di<br />

“retorica 1 ” e non poteva che generare un livellamento “stilistico e tecnico”. Accettabile.<br />

1 McCloskey, 1986; Lyotard 2004; Zan 2003, 2004 (N.d.A.).<br />

30


Ma riflettendo: il problema è che il metodo rischia di essere confuso con la sua<br />

rappresentazione e quindi con il rispetto di tecniche di forma e di poche regole di<br />

sostanza (appunto, l’attenzione alla semantica e all’idea di “verità oggettiva”),<br />

distogliendo l’attenzione su altri aspetti di forma (la scrittura e lo stile, nonché il<br />

rapporto con il lettore) e su ben più importanti aspetti di sostanza (la costruzione teorica<br />

e la oggettiva realisticità dei fatti spiegati). L’evoluzione di uno specifico “genere”<br />

letterario negli studi di economia rischiava di confondersi con il vero problema<br />

metodologico che dovrebbe consistere, pur sempre, nel comprendere come nascono le<br />

teorie che dovrebbero spiegare (e possibilmente prevedere, secondo i più ottimisti) il<br />

comportamento economico reale di individui e organizzazioni 1 .<br />

Mentre cammino, a proposito di giochi linguistici, mi viene in mente che Lyotard<br />

esplora una citazione di Wittgenstein che propongo al lettore così come io l’avevo<br />

trovata:<br />

«Il nostro linguaggio può essere considerato come una vecchia città: un dedalo di stradine e di<br />

piazze, di case vecchie e nuove, e di case con parti aggiunte in tempi diversi; e il tutto circondato<br />

da una rete di nuovi sobborghi con strade dritte e regolari, e case uniformi» (citato in Lyotard: p.<br />

74).<br />

E come Wittgenstein, Lyotard si domanda: “E quante case o strade ci vogliono<br />

perché una città cominci ad essere città? 2 ”. La “città linguistica” di Wittgenstein altro<br />

non è che una rappresentazione dei tanti linguaggi con cui si possono ragionevolmente<br />

affrontare i discorsi sul sapere 3 : in questa esplosione di linguaggi “nessuno parla tutte<br />

queste lingue”; non esiste un “metalinguaggio universale”; e “le mansioni del lavoro di<br />

1 Per quanto riguarda le teorie sui generi narrativi: Genette, Todorov 1986. Per un richiamo esplicito<br />

all’idea che la conoscenza “moderna” sia collegabile ad un genere di scrittura specifico: McCloskey 1986,<br />

Lyotard 2004. Per un richiamo alle questioni di filosofia dell’economia di stampo dichiaratamente<br />

“razionalistico”: Guala 2006 (N.d.A.).<br />

2 Lyotard 2004: 74 (N.d.A.).<br />

3 Qui anche N. si dimostra un po’ “scettico”, almeno quanto McCloskey, nel riportare un esempio del<br />

paradosso del sorite (Russell 2004), racchiuso della domanda provocatoria che si fa Wittgenstein e che<br />

viene riproposta da Lyotard. Il modo “moderno” di “fare scienza” comporta l’affollamento ulteriore dei<br />

grands boulevards in cui già si accalcano tante teorie basate tutte sullo stesso linguaggio, mentre altri<br />

quartieri della città diventano sempre più poveri e malfamati. Eccolo il paradosso: quante “nuove” case o<br />

strade bisogna aggiungere affinché la “lingua dominante” dei grands boulevards si legittimi<br />

ulteriormente? Come nella analogia di Latour col gioco del rugby, ognuno degli scienziati “moderni”<br />

riceve la palla da qualcuno che sta davanti a lui, senza porsi il problema delle regole del gioco che non sta<br />

a lui controllare; se il pallone gli è arrivato e nessuno ha fischiato un fallo, allora è ragionevole pensare<br />

che l’azione (la produzione di scienza) sia regolare (e nessuno si prende il disturbo di verificare). Il<br />

destino dei fatti è nelle mani di chi li utilizza per ultimo: quando vengono utilizzati, la loro qualità è solo<br />

la conseguenza di un’azione collettiva più o meno estesa. In tutta la scienza (e più che mai nel caso delle<br />

scienze sociali) assume un ruolo determinante il passaggio delle idee da una persona all’altra: dal suo<br />

creatore all’ultimo degli utilizzatori. Se si prova ad applicare questo esempio sportivo al caso delle<br />

citazioni nella letteratura tecnico-scientifica, si comprende come la retorica debole della letteratura<br />

(Latour 1997) sia determinante in quanto l’ultimo che cita il lavoro precedente del collega rimette in<br />

gioco il secondo utilizzandolo come alleato, spesso senza curarsi troppo (essendo una ricostruzione<br />

difficile da realizzare) di come la palla gli sia arrivata. Ma la metafora rugbystica finisce qui perché: se in<br />

quello sport terribile ma in cui domina la lealtà, la qualità del gioco è fondamentale e guadagnare campo è<br />

importante almeno quanto la fiducia che ciascun giocatore ripone nel compagno e nell’avversario; si può<br />

dire altrettanto nel caso della scienza moderna, con le sue regole, le sue roccaforti e le sue reti sociali?<br />

(Latour 1989, 1991). Come dice Musil, intanto “la scienza sorride sotto i baffi”, insegnandoci , in alcuni<br />

casi, una versione distorta della “rude sobrietà del realismo” (Lyotard: 76). O forse, nel caso della cattiva<br />

scienza, del suo cinico oggettivismo (N.d.A.).<br />

31


icerca si sono moltiplicate trasformandosi in mansioni parcellizzate che nessuno è in<br />

grado di padroneggiare [per intero] 1 ”.<br />

Ma sapevo già che nelle pagine seguenti avrei trovato altro da sottopporre al lettore<br />

per argomentare su questa e su altre tesi collegate.<br />

***<br />

«Ci sono due modi per passeggiare in un bosco. Nel primo modo ci si muove per<br />

tentare una o molte strade […]; nel secondo modo ci si muove per capire come sia fatto<br />

il bosco, e perché certi sentieri siano accessibili e altri no. Ugualmente ci sono due modi<br />

per percorrere un testo narrativo. Esso si rivolge anzitutto a un lettore modello di primo<br />

livello, che desidera sapere (e giustamente) come la storia vada a finire […]. Ma il testo<br />

si rivolge anche a un lettore modello di secondo livello, il quale si chiede quale tipo di<br />

lettore quel racconto gli chiedesse di diventare, e vuole scoprire come proceda l’autore<br />

modello che lo sta istruendo passo per passo. […] Solo quando i lettori empirici avranno<br />

scoperto l’autore modello e avranno compreso (o anche iniziato a comprendere) quello<br />

che Esso voleva da loro, essi saranno diventati il lettore modello a pieno titolo» (p. 33-<br />

34). In una mezza pagina ecco riassunta la puntata precedente. Indubbiamente l’autore<br />

modello del libro che stavo sfogliando ci sapeva fare. Poi apparve “l’effetto nebbia”:<br />

quale fortunata espressione! L’autore, infatti, stava riprendendo il caso di «Sylvie» (si,<br />

ancora lei: cominciava a diventare una ossessione, ma a quel punto chi scriveva non<br />

faceva altro che alimentare sapientemente la mia curiosità di saperne di più su quel<br />

racconto): con quella espressione egli aveva riassunto in modo straordinario quel<br />

«qualcosa d’indefinito e ossessionante come il ricordo… un’atmosfera bluastra e<br />

purpurea» (p. 36) tipica del racconto di Nerval. Nelle mie ricerche successive venni a<br />

scoprire che Nerval/Labrunie aveva trascorso gli ultimi anni della sua vita entrando e<br />

uscendo da case di cura (aveva frequenti crisi nervose) e, in particolare, «Sylvie» fu<br />

scritta proprio in questi ultimi anni di vita, prima che Labrunie, nel gennaio del 1855,<br />

venisse trovato impiccato ad una inferriata di rue de la Vieille Lanterne, a Parigi 2 . Ma<br />

come visto in precedenza, ignorare questo dettaglio biografico non mi aveva impedito di<br />

apprezzare le straordinarie qualità di scrittore di Gérard de Nerval, cosa che<br />

evidentemente aveva ben poco a che vedere con la triste esistenza negli ultimi anni di<br />

vita di Gérard Labrunie.<br />

In fondo a pagina 36 ecco che l’autore spiegava un’altra particolarità del testo di<br />

Nerval: «Il meccanismo fondamentale di «Sylvie» si basa su una continua alternanza di<br />

sguardi all’indietro e sguardi in avanti (ovvero di quei due movimenti narrativi che<br />

Genette ha chiamato analessi e prolessi) e su certi gruppi di analessi a scatole cinesi» (il<br />

corsivo è originale). Geniale: anche su questo punto mi trovava concorde. Avevo infatti<br />

già letto alcuni classici testi di teorie letterarie e di semiotica e, seppure non<br />

padroneggiando completamente il lessico specifico, conoscevo alcuni termini e le<br />

questioni che appartengono alla retorica classica 3 : metafora e metonomia, analessi e<br />

prolessi, fabula e intreccio, legami tra storia, racconto e narrazione, eccetera. La vicenda<br />

raccontata in «Sylvie» potrebbe apparire piuttosto banale: «Il narratore ama un’attrice,<br />

1<br />

Ibidem: 75 (N.d.T.).<br />

2<br />

Il lettore incuriosito dalla vicenda, non si scomodi a cercarla, in quanto questa via non esiste più<br />

(N.d.T.).<br />

3<br />

N. si riferisce qui a testi quali: Genette 1972, 1982; Ricœur 1986, 1991 (vol. I, II, III), 2000; Barthes<br />

1970, 1985; Eco 2004a, 2004b (N.d.A.).<br />

32


senza sapere se il suo amore potrebbe essere corrisposto. La pagina di un giornale gli<br />

rievoca d’improvviso la propria infanzia, torna a casa e in una sorta di dormiveglia si<br />

ricorda di due fanciulle, Sylvie e Adrienne. Adrienne era stata come una visione,<br />

bionda, alta e slanciata, “miraggio di gloria e di bellezza…”, mentre Sylvie appariva<br />

come una “petite fille” del villaggio vicino, una contadina dagli occhi neri e “dalla pelle<br />

leggermente abbrunita”, infantilmente gelosa dell’attenzione che il narratore riserva ad<br />

Adrienne. Dopo alcune ore insonni il narratore decide di prendere una carrozza e di<br />

recarsi nel luogo dei suoi ricordi» (p. 38). Le analessi cominciavano a diventare<br />

incalzanti: Adrienne appariva di tanto in tanto, come una sorta di ricordo nel ricordo,<br />

mentre Sylvie era «folgoramente viva e reale». Smessi gli abiti della piccola contadina<br />

riapparve talmente bella e affascinante da risultare «[…] adorna di tutte le grazie che il<br />

narratore fanciullo attribuiva ad Adrienne» (p. 38). Forse il narratore, prima di tornare a<br />

Parigi, era ancora in tempo per soddisfare il suo bisogno d’amore, tant’è che «la<br />

commovente visita alla zia di Sylvie» con l'innocente travestimento da fidanzati<br />

«sembra prefigurare la loro possibilie felicità» (p. 39). In effetti, pensai, lo stesso<br />

narratore riappare subito dopo, con la breve parentesi proprio su quella carrozza che sta<br />

risalendo i pendii, e appena prima di rilanciarsi in un altro tuffo nel passato, ritrovandosi<br />

a Loisy «mentre sta concludendosi la festa dell’arco [dove] ritrova Syvie…». Questo<br />

episodio, successivo a quello della visita alla zia, permette al narratore di capire che<br />

molto è cambiato rispetto ai luoghi della sua infanzia ed anche la giovane donna è<br />

diversa: lavora, è colta e sempre più seducente, e «[…] sta per sposarsi con il fratello di<br />

latte e amico d’infanzia del narratore, il quale comprende che il tempo dell’incanto è<br />

irrecuperabile, ed egli ha mancato un giorno la sua occasione (p. 39)».<br />

Non voglio che N. racconti tutto di «Sylvie» di Nerval; in fondo, lui, il racconto lo<br />

aveva letto per intero e in francese prima di averlo trovato come modello teorico nel<br />

libro che stava per acquistare: il rischio è che, preso dalla mano, finisca col dire più di<br />

quanto sia riportato come esempio nel testo che ha tra le mani, rovinando così il piacere<br />

del lettore che sta cominciando ad appassionarsi alla storia e vorrebbe intraprenderne<br />

autonomamente la lettura. Apriamo, così, una breve parentesi per riassumere il punto<br />

cruciale delle riflessioni che, in quel momento, N. stava facendo utilizzando come<br />

canovaccio il suo libro: «L’apparente incertezza sui tempi e sui luoghi che costiutisce il<br />

fascino di Sylvie (e mette in crisi il lettore di primo livello) si regge su una strategia<br />

narrativa e su una tattica grammaticale perfetta come il meccanismo di un orologio –<br />

che però può apparire solo agli occhi del lettore modello di secondo livello» (p. 40).<br />

Qui il libro presentava la distinzione tra fabula e intreccio: introdotta teoricamente<br />

dai “formalisti russi”, fin dalle scuole medie ci insegnano quanto importante sia<br />

articolare e comprendere l’evolversi degli eventi di un racconto distinguendone<br />

“contenuto” (fabula e intreccio) ed “espressione” (ovvero il discorso). Ma al di là dei<br />

miei ricordi scolastici, la questione si stava ora facendo stimolante ma più complessa.<br />

«Fabula e intreccio non sono una questione di linguaggio» in quanto «sono strutture<br />

quasi sempre traducibili anche in un altro sistema semiotico» (p. 44) e quindi, pensai,<br />

anche in un testo scientifico “tradizionale”. Quando l’autore modello si manifesta nel<br />

testo, esso non ha quindi il compito di organizzare la fabula attraverso un intreccio (a<br />

questo ci pensa la voce narrante), ma si propone di operare sulla fabula intervenendo<br />

direttamente sul discorso narrativo e quindi sul linguaggio.<br />

Per spiegare come questo, anche dal punto di vista delle teorie narrative, non sia solo<br />

un problema di stile ma anche di contenuti, mi veniva in mente, tra gli altri, Gérard<br />

Genette. Bastava alzare lo sguardo e sicuramente lo avrei trovato in quello scaffale.<br />

33


La lettura di quelle righe mi portò direttamente alle riflessioni sulla nozione di<br />

“racconto” di questo importante teorico della narrazione: quando usiamo il termine<br />

racconto lo facciamo spesso senza preoccuparci della sua «ambiguità, a volte senza<br />

percepirla 1 ». Presente negli stessi studi di narratologia, tale confusione, forse, non fa<br />

che alimentare lo scompiglio anche in quel gran guazzabuglio che è la questione<br />

metodologica nelle scienze sociali. Quale specialista della materia (letteraria), con<br />

estrema chiarezza, Genette proponeva tre nozioni del termine racconto: inteso come<br />

“enunciato narrativo” come discorso (orale o scritto) che “assume la relazione d’un<br />

avvenimento o di una serie di avvenimenti”; inteso come contenuto narrativo e “designa<br />

la successione di avvenimenti, reali o fittizi, che formano l’oggetto del discorso, e le<br />

loro varie relazioni di concatenamento, opposizione e ripetizione, ecc.”; inteso come<br />

atto del narrate, “designa ancora una volta un avvenimento [ma] non più però<br />

l’avvenimento narrato, bensì quello consistente nel fatto che qualcuno racconta<br />

qualcosa 2 ”.<br />

Sempre con le parole di Genette:<br />

“l’analisi del discorso narrativo, dal mio punto di vista, implica costantemente da un lato, lo<br />

studio delle relazioni fra questo discorso e gli avvenimenti che esso riferisce (senso 2 di racconto),<br />

d’altro lato quello delle relazioni fra il medesimo discorso e l’atto che lo produce, nella realtà e<br />

nella finzione: senso 3 del racconto”. Per evitare equivoci e difficoltà nell’uso del linguaggio,<br />

propongo di chiamare “storia il significato o contenuto narrativo […], racconto propriamente<br />

detto il significante, enunciato, discorso o testo narrativo stesso, e narrazione l’atto narrativo<br />

produttore e, per estensione, l’insieme della situazione reale o fittizia in cui esso si colloca”<br />

(ibidem: 75).<br />

Il termine racconto, dunque, andava ristretto al discorso/testo narrativo ma ciò non<br />

toglie che ci siano dei legami forti tra storia, racconto e narrazione: “senza atto narrativo<br />

[…] non è possibile nessun enunciato, e a volte persino nessun contenuto narrativo 3 ”.<br />

Lo studio del discorso narrativo, quindi, andrebbe legato direttamente allo studio “[…]<br />

delle relazioni fra racconto e storia, fra racconto e narrazione, fra storia e narrazione (in<br />

quanto entrambe si iscrivono nel discorso del racconto) 4 ” (figura 1). Ma nonostante<br />

questo, era paradossale che recentemente si sia perso di vista il problema<br />

dell’enunciazione (e questo vale per la teoria del racconto e, in modo particolarmente<br />

evidente, per l’uso del racconto come metodologia nelle scienze sociali) a discapito<br />

dell’enunciato (soprattutto nel caso del racconto nelle scienze sociali) e del suo<br />

contenuto 5 .<br />

1 Genette,1976: 73 (N.d.A.).<br />

2 Ibidem: 73-74 (N.d.A.).<br />

3 In un altro punto del suo lavoro Genette è estremamente chiaro su questo aspetto: «Per noi, quindi,<br />

storia e narrazione esistono solo per intermediario del racconto. Ma, viceversa, il racconto, il discorso<br />

narrativo può essere tale solo in quanto narra una storia: in mancanza di ciò non sarebbe narrativo; e in<br />

quanto proferito da qualcuno: in mancanza di ciò esso non sarebbe, in sé, un discorso. In quanto narrativo,<br />

esso vive del suo rapporto con la storia raccontata; in quanto discorso, vive del suo rapporto con la<br />

narrazione che lo proferisce» (1975: 76) (N.d.T.).<br />

4 Ibidem: 76 (N.d.A.).<br />

5 Nella sua analisi della Recherche di Proust, Genette adopera questa terminologia recuperando un<br />

concetto che ho espresso in precedenza circa la scarsa importanza di conoscere nel dettaglio l’autore<br />

empirico di un testo. Genette dice: «Non posso certo negare […] che il contenuto narrativo della<br />

Recherche per me non sia affatto senza rapporto con la vita dell’autore: semplicemente, un simile<br />

rapporto non è di natura tale da poter utilizzare la seconda per un’analisi rigorosa del primo (non più del<br />

contrario). In quanto poi alla narrazione produttrice di questo racconto, l’atto di Marcel che racconta la<br />

34


Fig. 1 - Storia, racconto e narrazione<br />

fonte: nostra elaborazione<br />

Tempo, modi del racconto e voce narrativa (o “aspetto” nel linguaggio, termine usato<br />

da Todorov, un altro studioso di teorie letterarie) costituivano tre categorie collegabili<br />

all’analisi del discorso narrativo e che sembravano in grado di mettere in relazione da<br />

un lato storia e racconto (attraverso le categorie tempo e modi) e da un altro narrazione e<br />

racconto e narrazione e storia (attraverso la categoria della voce) 1 . Nella sezione che<br />

stavo leggendo questi concetti erano presenti, seppur tra le righe: ad esempio il mio<br />

autore ammoniva sul fatto che «Nerval non voleva soltanto che noi sentissimo che i<br />

tempi erano confusi, voleva anche che comprendessimo in che modo era riuscito a<br />

confonderli» (p. 47). Detto altrimenti, con termini che ora dovrebbero essere familiari al<br />

mio lettore, e con una espressione usata da Eco in uno dei suoi tanti saggi su «Sylvie», il<br />

lettore modello trovava e attribuiva all’autore modello quello che l’autore empirico<br />

aveva forse scoperto per pura serendipità.<br />

Ma vediamo cosa si nascondeva tra le righe dei discorsi che stavo leggendo, ancora<br />

con l’aiuto determinante di Gérard Genette.<br />

«Dato che qualsiasi racconto è una produzione linguistica che assume la relazione di uno o più<br />

avvenimenti, riesce forse legittimo trattarlo come uno sviluppo dato ad una forma verbale, nel<br />

senso grammaticale del termine: l’espansione di un verbo.<br />

[…] Tale argomento ci autorizza forse a organizzare […] i problemi dell’analisi del discorso<br />

narrativo secondo categorie derivate dalla grammatica del verbo, destinate a ridursi a tre classi<br />

fondamentali di determinazioni: quelle dipendenti dalle relazioni temporali fra racconto e diegesi,<br />

da noi classificata nella categoria del tempo; quelle dipendenti dalle modalità (forme e gradi) della<br />

“rappresentazione” narrativa, e quindi ai modi del racconto; e per finire quelle dipendenti dal modo<br />

in cui la narrazione stessa […] si trova implicata nel racconto, e viene dunque a coincidere con la<br />

situazione o istanza narrativa, e con essa i suoi due protagonisti: il narratore e il suo destinatario<br />

reale o virtuale […]. Il termine è quello di voce definita, ad esempio, […] “aspetto dell’azione<br />

verbale nei suoi rapporti col soggetto”» (p. 78-79).<br />

sua vita passata, d’ora in poi si eviterà di confonderlo con l’atto di Proust che scrive La recherche du<br />

temps perdu […]. Quindi è il racconto stesso, ed esclusivamente il racconto, a informarci – in questo caso<br />

– da un lato sugli avvenimenti che riferisce, d’altro lato sull’attività che, presumibilmente, lo produce<br />

[…]» (Genette, 1975: 76) (N.d.T.).<br />

1 Questa parentesi che N. apre sull’analisi del discorso del racconto permette a lui e al lettore di<br />

inquadrare il problema della fabula e dell’intreccio, nonché quello dell’uso del tempo in un testo<br />

narrativo, nell’ambito di una proposta teorica complessiva. Fabula e intreccio sono quindi elementi<br />

determinanti il contenuto del racconto e fanno riferimento diretto al collegamento tra questo e la storia<br />

raccontata; ma mentre «la fabula viene comunicata attraverso un discorso narrativo» (p. 44) e, assieme al<br />

discorso, essa non può mai mancare, l’intreccio può anche non essere presente in modo articolato<br />

(N.d.A.).<br />

35


La categoria grammaticale del tempo sembra legata in modo connaturato al discorso<br />

narrativo, e lo vedremo nel seguito del racconto di N.; per quanto riguarda invece il<br />

modo verbale, questo può apparire un problema privo di importanza: è di tutta evidenza<br />

che se la funzione di un racconto è narrare una storia e quindi “riferire dei fatti (reali o<br />

fittizi)”, il modo logico per farlo è l’utilizzo dell’indicativo 1 . Questa è però una<br />

semplificazione eccessiva.<br />

Infatti, introducendo solo due categorie particolari, che definiva distanza e<br />

prospettiva, Genette dimostrava come potesse cambiare la regolazione<br />

dell’informazione narrativa «esattamente come la mia visione di un quadro dipende, per<br />

la precisione, dalla distanza che mi separa da esso, e per l’estensione, dalla mia<br />

posizione nei confronti di un eventuale ostacolo parziale che gli faccia più o meno da<br />

schermo» (p. 209: il corsivo è mio):<br />

«[…] il racconto può fornire al lettore maggiori o minori particolari, e in maniera più o meno<br />

diretta, e sembrare così […] a più o meno grande distanza da quel che esso racconta; può anche<br />

scegliere di dosare l’informazione che esso fornisce, non più servendosi di questa specie di filtro<br />

uniforme, ma a seconda della capacità di conoscenza di questa o quella parte beneficiaria della<br />

storia (personaggio o gruppo di personaggi), di cui adotterà (o fingerà di adottare) quello che<br />

generalmente è chiamato la “visione” o il “punto di vista”, dando allora l’impressione di adottare<br />

una prospettiva di un tipo o di un altro nei confronti della storia» (ibidem: 209, corsivo originale).<br />

A seconda che fosse il poeta/autore a parlarci, senza sotterfugi, o che egli stesso si<br />

sforzi di convincere il lettore che sia un qualche personaggio a pronunciare le parole<br />

scritte, Genette recuperava l’antica distinzione tra racconto puro – nel primo caso – e<br />

mimesi (o imitazione in senso stretto) – nel secondo: nel ripensare a questo, gli esempi<br />

del mio libro, soprattutto sul “caso Nerval”, cominciavano a brillare di luce propria! Ma<br />

torniamo alla teoria: le distinzioni si complicheranno, ma credo che, con un po’ di<br />

pazienza, anche il mio lettore ne apprezzerà l’utilità.<br />

Nel caso di “parole riportate”, la distinzione precedente (tra “racconto puro” e<br />

“mimesi”) risulta sufficiente: le parole sono pronunciate dallo stesso autore o da<br />

qualche personaggio. Ma cosa accade quando si tratta d’altro: «non di parole, ma di fatti<br />

e azioni mute? Come funziona allora la mimesi, e in che modo il narratore ci fornirà<br />

“l’illusione di non essere lui a parlare?”» (p. 211). Genette recuperava quindi la<br />

distinzione tra racconto di avvenimenti e “racconto di parole”.<br />

Nel primo caso, si tratta pur sempre di una «trascrizione del (supposto) non-verbale<br />

in verbale [in cui però] la mimesi è sempre illusoria [e] dipende da un rapporto<br />

eminentemente variabile tra l’emittente e il ricevente». Due lettori potranno “captare” in<br />

modi opposti uno stesso testo, considerandolo o “intensamente mimetico” o di<br />

“scarsissima espressività”. Ciò dipenderà anche dall’evoluzione in epoche storiche<br />

differenti dei vari generi narrativi. Nell’ambito dei due fattori considerati da Genette (la<br />

quantità di informazione narrativa – più o meno praticolareggiata – da un alto, nonché,<br />

l’assenza – o presenza minima – dell’informatore/narratore dall’altro), cambiava il<br />

rapporto tra mimesi e diegesi: «“Mostrare” [showing], può equivalere soltanto a un<br />

certo modo di narrare, modo che consiste nel dire il più possibile, e, in pari tempo, nel<br />

dire questo più il meno possibile» (p. 213), vale a dire, far dimenticare al lettore che è il<br />

narratore a raccontare.<br />

1 Genette 1972: 208 (N.d.A.).<br />

36


In un’altra felice coincidenza, sia Genette che il mio autore proposero lo stesso<br />

esempio: un caso emblematico in cui il narratore era contemporaneamente presente<br />

come “fonte, che garantisce e organizza il racconto, in quanto analizzatore e<br />

commentatore, in quanto stilista (“scrittore” […]) e, in particolare – lo sappiamo bene –<br />

in quanto produttore di “metafore”» (p. 214). Ovviamente, il caso era quello di Marcel<br />

Proust ne “La Recherche du temps perdu”: come parte integrante del racconto, egli<br />

stava al confine tra lo “showing” e il “telling” (anzi, a volte travalicandoli, specie<br />

quanto sembra dimenticare o disinteressarsi della storia da raccontare), e a volte il suo<br />

racconto somiglia di più ad una sorta di “talking”. Straordinario caso in cui la distanza<br />

connessa alla narrazione restrospettiva in prima persona non veniva evitata o ridotta, ma<br />

mantenuta e segretamente coltivata dall’autore:<br />

«il miracolo del racconto proustiano […] è che questa distanza temporale fra storia e istanza<br />

narrativa non porta con sé nessuna distanza modale fra storia e racconto: nessuna perdita, nessun<br />

affiovolimento dell’illusione mimetica. Mediazione estrema, e in pari tempo estrema<br />

immediatezza» (ibidem: p. 216).<br />

«Se l’imitazione verbale di fatti non verbali è solo utopia e illusione», il “racconto di<br />

parole” potrebbe risultare talmente normale per un racconto da essere condannato a<br />

forme di “imitazione assoluta”. Ancora un esempio tratto da Proust e proposto da<br />

Genette:<br />

«Quando nell’ultima pagina di Sodome et Gomorrhe, Marcel dichiara a sua madre: “E’<br />

assolutamente necessario che io sposi Albertine”, fra l’enunciato nel testo e la frase ovviamente<br />

pronunciata dal protagonista, la sola differenza esistente è quella dovuta al passaggio dall’orale<br />

allo scritto. Il narratore non racconta la frase del protagonista, possiamo a stento dire che la imita:<br />

la ricopia, e in tal senso non si può parlare qui di racconto» (ibidem: p. 216).<br />

Esistevano quindi due possibili realizzazioni del discorso di un personaggio: “riferito<br />

(nella finzione) come si presume sia stato pronunciato dal personaggio”; e<br />

“narrativizzato, cioè trattato come un evento fra tanti e assunto come tale dal narratore<br />

stesso”. In termini di “distanza narrativa” Genette distingueva tre stati del discorso: il<br />

discorso narrativizzato, o raccontato, il “più distante e il più riduttivo”, che<br />

nell’esempio di Sodome et Gomorrhe suonerebbe così: «Informai mia madre della mia<br />

decisione di sposare Albertine» o, se si volesse sottolineare più il pensiero che le parole<br />

del protagonista: «Decisi di sposare Albertine»; il discorso trasposto, con uno stile<br />

indiretto: «Dissi a mia madre che era assolutamente necessario che sposassi Albertine»<br />

o, nel caso di un discorso interiore: «Pensai che per me era assolutamente necessario<br />

sposare Albertine»; infine, la forma più “mimetica” come la definiva Genette, in cui il<br />

narratore “finge di cedere letteralmente la parola al suo personaggio: «Dissi a mia<br />

madre (o: pensai): è assolutamente necessario che io sposi Albertine». Quello era il<br />

discorso riferito, tipico dell’epopea (di Omero) come del romanzo moderno, che può<br />

addirittura arrivare alla sua estrema versione di discorso immediato, in cui viene a<br />

mancare qualsiasi introduzione dichiarativa tipico di un flusso di coscienza o del<br />

monologo interiore (come nel famoso «Ulysses» di Joyce).<br />

Sempre nell’ambito della categoria del «modo del racconto», anche la definizione di<br />

«prospettiva» mi risultava familiare e utile. In primo luogo Genette voleva sottolinare<br />

una distinzione solo apparentemente sottile:<br />

37


«la maggior parte dei lavori teorici su questo argomento […] soffrono, a mio parere, di una<br />

fastidiosa confusione fra quanto chiamo qui modo e voce, cioè fra la domanda qual è il<br />

personaggio il cui punto di vista orienta la prospettiva narrativa?, e la domanda, completamente<br />

diversa: chi è il narratore? – o, per parlare più sinteticamente, fra la domanda chi vede? e la<br />

domanda chi parla?» (p. 233, il corsivo è originale).<br />

Fatta questa distinzione, il problema della prospettiva poteva essere ricondotto al<br />

termine di “focalizzazione”, basato su una tipologia che mi era cara fin dalle scuole<br />

dell’obbligo: “il racconto con narratore onniscente”, in cui il narratore ne sa di più del<br />

personaggio; il racconto in cui il narratore dice solo quello che sa il personaggio in<br />

questione; e, infine, il racconto in cui il narratore ne dice meno di quanto ne sappia il<br />

personaggio” (p. 236). Naturalmente, quando si affronta la questione in modo più<br />

approfondito, le categorie teoriche si complicano e diventano (necessariamente) più<br />

articolate. Ecco che, introducendo il termine “focalizzazione”, Genette non si<br />

accontentava delle tre categorie “scolastiche”. Se il primo tipo di racconto era definito<br />

non-focalizzato (o a focalizzazione zero); il secondo tipo (col narratore che ne sa più del<br />

personaggio), poteva assumere ben tre forme di focalizzazione interna, a seconda che<br />

essa fisse fissa (in cui non si abbandona il punto di vista del protagonista), variabile (in<br />

cui cambia il personaggio focale) e multipla (in cui “lo stesso avvenimento può essere<br />

evocato varie volte a seconda del punto di vista di numerosi personaggi corrispondenti”<br />

– come avviene, tipicamente, nei romanzi epistolari). Il terzo tipo di racconto era a<br />

focalizzazione esterna: il protagonista agisce in modo “misterioso”, cioè senza che il<br />

lettore sia messo al corrente dei suoi pensieri e sentimenti.<br />

Come suggeriva Genette, in generale la focalizzazione (specie dell’ultimo tipo) “non<br />

resta costante per tutta la durata di un racconto” e spesso tecniche diverse si intrecciano<br />

di continuo. Questo generava il fenomeno che prende il nome di “alterazione”: ecco<br />

che le «variazioni di “punto di vista” che si producono lungo un racconto, possono<br />

essere analizzate come cambiamenti di focalizzazione» (p. 242). Questo cosa<br />

comportava? L’autore, ad un certo punto, potrebbe decidere di «dare meno informazioni<br />

di quanto non sia, in teoria, necessario, oppure nel darne più di quanto non sia, in teoria,<br />

autorizzato dal codice di focalizzazione che determina l’insieme». Il primo tipo di<br />

alternazione aveva un nome specifico derivante dalla tradizione della retorica ed è la<br />

parallissi (o omissione laterale) – che il lettore incontrerà anche con riferimento<br />

all’analisi del fattore tempo. Il secondo tipo, Genette lo battezzava parallessi trattandosi<br />

di un caso in cui si prende e si dà “una informazione che si dovrebbe lasciare da parte” 1 .<br />

Detto del “punto di vista” (cioè del “chi vede?” nel racconto), si trattava ora di<br />

completare le categorie logiche del discorso narrativo rispondendo alla domanda: “chi è<br />

il narratore?”, ovvero “chi parla?”. Sfogliando gli scritti di Genette (e di altri teorici<br />

della narrazione) si arrivava ad una soluzione specifica, quella che Genette definiva<br />

“voce”:<br />

«La scelta del romanziere non si verifica fra due forme grammaticali, ma fra due atteggiamenti<br />

narrativi (le forme grammaticali ne sono quindi solo la meccanica conseguenza): far raccontare la<br />

1 Un paio di precisazione per il lettore che potrebbe trovarsi in difficoltà rispetto ad alcuni dei concetti<br />

espressi nel libro di N. e che lui stesso collega alle teorie di Genette. Primo aspetto: l’informazione data<br />

da un racconto focalizzato non va confusa con l’interpretazione che il lettore è chiamato a dare e, quindi,<br />

con quella che nel libro di N. viene definita cooperazione intepretativa (si veda, ancora, Eco 1975, 2004a,<br />

2004b). Secondo punto: come avverte lo stesso Genette, «l’uso della “prima persona”, altrimenti detto<br />

indentità di persona tra narratore e protagonista, non implica affatto una focalizzazione del racconto sul<br />

protagonista» (Genette 1972: 246) (N.d.A.).<br />

38


storia da uno dei “pesonaggi” o da un narratore estraneo alla storia stessa. [Poi] Dato che il<br />

narratore può, ad ogni momento, intervenire come tale nel racconto, qualunque narrazione è, per<br />

definizione, virtualmente fatta in prima persona […]. Il vero problema è sapere se il narratore ha o<br />

no l’occasione di usare la prima persona per designare uno dei suoi personaggi» (p. 292, il corsivo<br />

è originale).<br />

In questo caso, quindi, la distinzione era tra un racconto con “narratore assente dalla<br />

storia raccontata” e con “narratore presente come personaggio nella storia raccontata”<br />

(il primo è un racconto che i teorici chiamano eterodiegetico, e il secondo<br />

omodiegetico).<br />

La presenza più o meno evidente e forte del narratore porta i teorici a discutere anche<br />

delle varie funzioni che esso può, di volta in volta, assumere. E Genette, dalla sua<br />

appassionata ricerca su Proust, ne riconosceva almeno cinque (che non andavano prese<br />

però “con uno spirito eccessivamente rigido”) 1 : dalla prima funzione, quella<br />

“propriamente narrativa […], nessun narratore può allontanarsi senza perdere<br />

contemporaneamente la sua qualità”; la seconda funzione era legata alla struttura,<br />

all’organizzazione stessa del “testo narrativo”, attraverso cui il narratore, in sostanza,<br />

fornisce delle “indicazioni di regia”; la “funzione di comunicazione” faceva riferimento<br />

alla situazione narrativa in quanto tale (e al rapporto tra narratario e narratore), ed è<br />

tipica, quindi, del narratore-raccontatore che si preoccupa direttamente della relazione<br />

con il suo pubblico; quando il narratore informa (ad esempio su rapporti affettivi, su<br />

posizioni morali o intellettuali) oppure indica le fonti delle sue informazioni o il livello<br />

di precisione dei suoi ricordi (in sostanza fornisce delle “attestazioni” su quanto<br />

afferma) assumeva una “funzione testimoniale”; infine, alcuni interventi (diretti o<br />

indiretti) in rapporto alla storia raccontanta potevano assumere una “funzione<br />

ideologica”, di “commento autorizzato dall’azione”.<br />

Dopo quella carrellata teorica, non si può, in fondo, che essere d’accordo con quanto<br />

lo stesso Genette afferma:<br />

«Penso quindi che tutta questa tecnologia, indubbiamente barbara per gli amanti delle Belle<br />

Lettere – prolessi, analessi, iterativi, focalizzazione, paralessi, metadiegetico, ecc. – domani<br />

apparirà come strumento fra i più rozzi, e andrà a raggiungere altri imballaggi perduti fra gli scarti<br />

della poetica» (p. 311).<br />

Certo, è che se tale dovrà essere il destino degli strumenti che, Genette come altri, ci<br />

mettono a disposizione, l’augurio che posso fare loro è che ciò avvenga solo dopo che<br />

qualcuno abbia fatto tesoro di tali suggerimenti, e che quindi questi abbiano avuto “una<br />

qualche transitoria utilità” che lo stesso Genette si auspica. E chissà che non siano<br />

proprio gli scienziati sociali, quegli sbadati (fino ad ora) utilizzatori di tecniche<br />

narrative, a riappropriarsi di insegnamenti che solo i più grandi letterati possono avere la<br />

sfrontantezza di far cadere nell’oblio.<br />

Nel mio libro, in preda all’entusiasmo, forse proprio per il tentativo di recuperare<br />

“tra gli scarti della poetica” prima che vadano veramente perduti, continuai a trovare<br />

innumerevoli collegamenti tra le mie letture più o meno recenti e quel commento a<br />

«Sylvie»: quella atmosfera che Proust aveva definito “bluastra e purpurea”, «non sta<br />

nelle parole, bensì tra una parola e l’altra. Infatti questa atmosfera è creata dal rapporto<br />

tra fabula e intreccio, ed è questo rapporto che governa le stesse scelte lessicali a livello<br />

del discorso. […] Questi scambi tra imperfetto, presente o passato remoto giungono<br />

1 Genette 1972: 304 (N.d.A.).<br />

39


apparentemente inattesi, talora sono impercettibili, ma non sono mai immotivati» (p.<br />

53). Ciò che guidava Nerval erano evidentemente i giochi di analessi e prolessi, vale a<br />

dire, utilizzando il linguaggio tecnico di Genette e dei teorici, andando ad operare sul<br />

fattore tempo e, in modo particolare, sull’ordine degli eventi: o raccontanto/evocando in<br />

anticipo un avento successivo; o facendo riferimento ad un evento anteriore rispetto al<br />

momento della storia in cui ci si trova. Inoltre, l’uso grammaticale dei verbi gli<br />

permetteva di giocare sapientemente con quelle che Genette e i teorici avevano<br />

chiamato modo e voce del racconto: alterando la distanza dagli eventi raccontati<br />

servendosi di scelte lessicali differenti; modificando continuamente la prospettiva del<br />

racconto e la sua focalizzazione; facendo entrare e uscire insistentemente il narratore<br />

dalla scena, assegnandogli di volta in volta compiti specifici. Detto altrimenti: quando la<br />

tecnica è veramente strumentale al contenuto!<br />

A pensarci ora, nulla mi vieterebbe di (ri)considerare un testo scientifico come un<br />

particolare “testo” in cui l’intervento dell’autore può manifestarsi anche utilizzando<br />

“espressioni e forme” differenti rispetto al linguaggio statistico-matematico, e questo<br />

senza inficiare la “qualità” del suo contenuto, solitamente ancorato ad una fabula che si<br />

vorrebbe “logico-razionale” (o almeno ragionevole) in quanto legata ad un intreccio che<br />

si appiattisce verso una “architettura” del racconto scritto considerata oramai “standard”<br />

se non addirittura atrofizzata. Se «Sylvie» può essere «un testo che dice come sia<br />

impossibile ricostruire una fabula» (al di là del linguaggio usato), rendendo complicato<br />

distinguere «sogno, memoria e realtà»; non può essere che la narrazione, nelle sue<br />

forme tecnicamente più articolate, possa erigersi a interessante “strumento teorico” (e<br />

non solo stilistico) per ricostruire almeno in parte quelle complesse “fabule”, più o<br />

meno “intrecciate”, che sono i pensieri e le azioni umane, o quelle reti di azioni<br />

collettive che sono le organizzazioni 1 ?<br />

Nella mia borsa di tela avevo la mia moleskine per appunti e, matita alla mano,<br />

ancora dentro la libreria, improvvisai uno schema della fabula della mia ricerca.<br />

Ovviamente mi ispirai al mio libro, che proponeva una rapprentazione della fabula<br />

implicita di «Sylvie» che l’autore aveva ricostruito per i suoi lettori. Io, almeno, avevo il<br />

vantaggio di potermela inventare… La tabella 1 propone al lettore una elaborazione<br />

degli appunti presi da N. in quella occasione.<br />

Il racconto/ricerca sarebbe stato scritto in un “oggi” atemporale e generico (nel<br />

2006), ma già mi prefiguravo un narratore che riconduceva le vicende al maggio del<br />

2005, periodo del mio arrivo e della mia prima lunga permanenza ad Avignone, ospite<br />

della Maison Jean Vilar. L’inizio (finzionale) della storia poteva essere ricondotta a<br />

quella vicenda dell’annullamento dell’edizione del 2003 del Festival. In fin dei conti, il<br />

mio interesse per Avignone era cominciato domandandomi cosa fosse successo in<br />

quell’anno disgraziato; e arrivato ad Avignone, quasi due anni dopo, uno dei primi<br />

incontri strani che feci fu proprio con quella particolare categoria di lavoratori, una<br />

esclusività francese, che sono gli intermittents du spectacle. Come in una lunga<br />

anticipazione, si trattava di un modo semplice per drammatizzare un po’ il racconto e<br />

1 Czarniawska 1997, 2004. Questa è di tutta evidenza una visione “costruzionista” della realtà:<br />

ovviamente non possiamo dire a cuor leggero che le organizzazioni siano realmente come gli individui<br />

che le compongono. La visione “antropomorfa” che ne deriva è una semplificazione, una metafora come<br />

un’altra. L’idea di reti d’azioni collettive richiama invece quanto espresso chiaramente da Barbara<br />

Czarniawska: si tratta di «seguire l’ignorato suggerimento linguistico della parola stessa (organizzazione),<br />

che evidenzia che l’organizzazione è una attività e non l’oggetto che ne risulta» (p. 60, il corsivo è<br />

originale) (N.d.A.).<br />

40


per far fare conoscenza al lettore con un mondo davvero particolare, cominciando da<br />

una vicenda recente del Festival e da un evento che ne stava profondamente cambiato la<br />

storia.<br />

Tab. 1 - Una ricostruzione della struttura dell’intrigo ipotizzata da N. per la sua ricerca<br />

41


Molti altri argomenti potevano essere trattati, con lo scopo di ripercorrere quel<br />

misterioso processo di produzione artistica che circonda una organizzazione teatrale,<br />

studiando i reparti e i macchinari di quella affascinante fabbrica della conoscenza<br />

artistica 1 . In un gioco continuo di anticipazioni ed evocazioni di avvenimenti anteriori<br />

(alcuni dei quali anche più lontani rispetto alla nascita del Festival) avrei potuto trattare:<br />

dell’istituzione-Festival e del suo funzionamento in quasi sessanta anni di storia; del<br />

mito del suo fondatore, Jean Vilar, e di quello degli antichi spazi scenici di Avignone,<br />

dalla Cour d’Honeur del Palais des Papes alla Carrière de Boulbon; dell’impronta<br />

degli altri direttori nonché della nuova formula dei direttori artistici associati;<br />

dell’impatto della programmazione del Festival e delle scelte artistiche sulla produzione<br />

e distribuzione teatrale; della storica formula del Téâtre popoulaire e del punto di vista<br />

del pubblico del Festival, dei suoi “spettatori professionali” e degli incontri “ufficiali” in<br />

quello che era l’appuntamento forse più importante al mondo per il teatro<br />

contemporaneo.<br />

Ma, prima di tutto questo, ci voleva anche un prologo, una sorta di paratesto, in cui<br />

poteva essere proposto il “vocabolario dello studio”, a supporto del lettore. E questo<br />

lungo prologo, con una funzione così importante, poteva cominciare nel 2001, con il<br />

racconto della nascita di una specifico spettacolo teatrale. Infine, come in ogni racconto,<br />

era necessario ipotizzare anche la presenza di un epilogo, una sorta di capitolo finale<br />

che riconducesse il lettore al giorno d’oggi, per farlo riflettere su tutte le esigenze e le<br />

difficoltà future di una organizzazione con una storia che stava, comunque,<br />

continuando.<br />

La struttura a cui stavo pensando, oramai da mesi, mi si stava componendo in testa<br />

come un puzzle, seguendo un segreto ordine logico che a mio avviso era estremamente<br />

rigoroso 2 : una fabula ed un intreccio ben precisi, il sapiente gioco di specchi della mia<br />

“triade narrativa” e le distorisioni temporali che collegavano il tempo della storia (l’asse<br />

orizzontale con l’ampiezza e la portata dell’arco di tempo considerato in ciascun<br />

segmento storico) con il tempo del racconto (i capitoli e i paragrafi indicati sull’asse<br />

verticale, con la lunghezza dei segmenti che ne stabiliscono indicativamente la<br />

suddivisione temporale artificiale), potevano contribuire a far diventare il mio racconto<br />

una potente macchina interpretativa veramente al servizio del lettore.<br />

Come giustificare, quindi, le mie velleità di “scrittore scientifico”, di racconta-storie<br />

“organizzative” dei tempi moderni? Intimamente, come un novello Leonardo, i miei<br />

sforzi e la mia curiosità mi spingevano a proseguire nell’organizzare la mia piccola<br />

impresa scientifica lungo quella direzione. In fondo, dal punto di vista narrativo, in<br />

ciascun periodo storico sembrano essersi sviluppati generi e correnti prevalenti: è<br />

possibile dire che il genere del romanzo possa essere considerato come il più<br />

caratteristico testo narrativo dei tempi moderni, così come la scienza sembra abbia<br />

sviluppato un proprio “genere letterario” legato, guarda caso, ad una corrente divenuta<br />

dominante. Ma, se come scrive Lyotard, “[…] il sapere non si identifica con la scienza,<br />

soprattutto nella sua forma contemporanea 3 ”, allora il pensare in modo narrativo non è<br />

1 In questo caso la metafora “manifatturiera” di N. richiamava esplicitamente l’espressione di Rullani, il<br />

cui approccio costituiva parte dell’ossatura teorica principale (Rullani 2004a, 2004b) che avrebbe<br />

applicato per l’analisi del contesto artistico e per l’osservazione della filiera produttiva del teatro<br />

contemporaneo dal punto di osservazione del Festival (in parte, si veda Crisci, Moretti 2004; ma<br />

soprattutto, Crisci 2005) (N.d.A.).<br />

2 Il lettore può collegare queste prime anticipazioni sulla struttura del futuro progetto di ricerca di N. con<br />

le precedenti note 1 e 2 di pag. 14, relative ad aspetti di ordine teorico (N.d.A.).<br />

3 Lyotard 1988 (N.d.A.).<br />

42


solo una questione di espressione e quindi di stile e costituisce piuttosto una esigenza di<br />

tipo strumentale: dimenticare questo aspetto credo abbia generato soprattutto un cattivo<br />

utilizzo del racconto anche laddove si sia cercato di recuperarlo come metodo di ricerca<br />

(scientifico), come avviene, ad esempio in alcuni studi di caso applicati alle ricerche di<br />

management 1 . Considerare la narrazione “una modalità di conoscenza e una modalità di<br />

comunicazione” (l’espressione è, ancora una volta, di Barbara Czarniawska 2 ) mi<br />

permetterebbe di procedere considerandola anche come uno strumento fondamentale<br />

per lo studio di aspetti diversi delle organizzazioni. Mi venne in mente Jerome Bruner e<br />

la sua idea di pensiero paradigmatico:<br />

«il pensiero logico-scientifico (che d’ora innanzi chiamerò paradigmatico) si occupa delle<br />

cause di ordine generale e del modo per individuarle, e si serve di procedure atte ad assicurare la<br />

verificabilità referenziale e a saggiare la verità empirica. Il suo linguaggio è regolato dai requisiti<br />

della coerenza e della non contraddizione. Il sui ambito è costituito non solo dalle realtà<br />

osservabili a cui si riferiscono i suoi asserti fondamentali, ma anche dall’insieme dei mondi<br />

possibili che si possono produrre logicamente e confrontare con le realtà osservabili; e ciò perché<br />

il pensiero paradigmatico è guidato da ipotesi basate su principi» (p. 17).<br />

Per contro, esiste un modo di pensare che, appunto attraverso il suo “uso creativo”,<br />

produce «buoni racconti, drammi avvincenti e quadri storici credibili, sebbene non<br />

necessariamente “veri”»:<br />

«Il pensiero narrativo si occupa delle intenzioni e delle azioni proprie dell’uomo o a lui affini,<br />

nonché delle vicissitudini e dei risultati che ne contrassegnano il corso. Il suo intento è quello di<br />

calare i propri prodigi atemporali entro le particolarità dell’esperienza nel tempo e nello spazio»<br />

(2005: 18).<br />

A “raccontare qualcosa sono capaci tutti”, ma la differenza la fanno coloro che<br />

riescono a traformare “delle intuizioni in espressioni che rientrano in un sistema<br />

simbolico, sia esso il linguaggio naturale o una sua forma artificiale” (p. 21). Ben venga<br />

dunque che ci siano degli studiosi che si occupino della “grammatica del racconto”, vale<br />

a dire della sua struttura minima, definendone e descrivendone gli elementi costitutivi.<br />

***<br />

L’immagine della statua “La Storia e il Dio alato Kronos” avrebbe aperto<br />

magistralmente la discussione sul concetto principale di quella sezione del libro che<br />

stavo leggendo. Ubicata originariamente presso il Monastero di Wiblingen, nell’antica<br />

città imperiale di Ulm (tra l’altro, luogo di nascita di Albert Einstein: interessante<br />

coincidenza!), vidi una immagine di quella statua all’inizio di “La mémoire, l’histoire,<br />

l’oubli 3 ”, di Paul Ricœur. La pagina che riproduceva la foto della statua era preceduta<br />

da una bella descrizione:<br />

1 Un caso particolare di racconto che meriterebbe una trattazione approfondita alla luce di quanto stiamo<br />

considerando, è quello utilizzato nei c.d. case studies, nella loro versione anglosassone (ovvero come<br />

elemento didattico-formativo diventato col tempo una vera e propria proposta di metodo): il riferimento<br />

principale, sempre citato nei lavori che si richiamano a questo filone, è Robert Yin, autore di diverse<br />

pubblicazioni su questo argomento: Yin 1989, 2005 (N.d.A.).<br />

2 Czarniawska 1997: 24 (N.d.A.).<br />

3 Esiste una recente traduzione in italiano di questo libro, La memoria, la storia, l’oblio. N. fa qui<br />

riferimento all’edizione “poche” in francese del libro e alla figura proposta sia in copertina che<br />

all’interno, in apertura del capitolo iniziale (N.d.T.).<br />

43


«[…] C’est la figure double de l’histoire. À l’avant, Chronos le dieu ailé. C’est un vieillard au<br />

front ceint; la main gauche agrippe un grand livre duquel la droite tente d’arracher un feuillet. À<br />

l’arrière et en surplomb, l’histoire même. Le regard est sérieux et scrutateur; un pied renverse une<br />

corne d’abondace d’où s’échappe une pluie d’or et d’argent, signe d’instabilité; la main gauche<br />

arrête le geste du dieu, tandis que la droite exhibe les instruments de l’histoire: le livre, l’encrier, le<br />

stylet»<br />

Contrarre o espandere i livelli della fabula generava un interessante fenomeno che<br />

Umberto Eco, tra gli altri, chiama “passeggiate inferenziali”: “se […] un testo narrativo<br />

è una macchina pigra che si appella al lettore perché faccia una parte del suo lavoro,<br />

perché un testo indugia, rallenta, prende tempo 1 ?”. Nel mio libro, tale termine veniva<br />

introdotto utilizzando ancora una volta la metafora del bosco «[…] siccome in un bosco<br />

si può anche passeggiare senza meta, e talora proprio per il gusto di perdere la giusta<br />

via, mi occuperò di quelle passeggiate che il lettore è indotto a fare dalla strategia<br />

dell’autore» (p. 62). Nel linguaggio teorico, gli studiosi sono soliti distinguere “il tempo<br />

della cosa raccontata e il tempo del racconto (tempo del significato e tempo del<br />

significante 2 )”: la distinzione tra tempo della storia e tempo del racconto permette di<br />

apprezzare tutte le “distorsioni temporali” che possono essere riscontrare nei racconti.<br />

Ma il mio interlocutore di allora, giustamente, si domandava: «Come fa un testo a<br />

imporre un tempo di lettura al lettore?» (p. 72). Sempre Genette introduceva in questi<br />

termini il problema:<br />

“Non si tratta ora di identificare lo statuto del racconto scritto (letterario o no) con quello del<br />

racconto orale: la sua temporalità è, in qualche modo, condizionale o strumentale; prodotto, come<br />

qualsiasi cosa, nel tempo, esiste nello spazio, e il tempo necessario a «consumarlo» è quello<br />

necessario a percorrerlo e ad attraversarlo, come una strada o un campo. Il testo narrativo, come<br />

ogni altro testo, ha come unica temporalità quella derivata, metonimicamente, dalla sua lettura”<br />

(ibidem: 82).<br />

Vediamo di rintracciare questi aspetti teorici all’interno del libro di N. Quella sezione<br />

del libro, ad un certo punto, ritornò ancora su Nerval e «Sylvie» per spiegare come<br />

l’indugio potesse servire a molti scopi: «il narratore [siamo nel capitolo 2 di «Sylvie»],<br />

dopo una notte insonne spesa a rievocare i suoi anni giovanili, decide di partire per<br />

Loisy, in piena notte. Ma non sa che ora sia. Possibile che un giovane ricco, educato,<br />

amante del teatro, non abbia in casa un orologio? Non ce l’ha. Ovvero, ce l’ha, ma è un<br />

orologio che non funziona, e Nerval spende una pagina per descriverlo» (p. 85). La<br />

spiegazione era evidente: «Ecco un caso in cui l’indugio non serve tanto a rallentare<br />

l’azione, per spingere il lettore ad appassionate passeggiate inferenziali, ma per dirgli<br />

che deve approntarsi a entrare in un mondo in cui la misura normale del tempo conta<br />

pochissimo, in cui gli orologi si sono rotti, o liquefatti, come in un quadro di Dalì» (p.<br />

86). In questa prospettiva, inoltre, Nerval era anche il gran maestro del «tempo dello<br />

smarrimento»: i lunghi indugi di cui «Sylvie» è zeppa sembrano essere messi lì per non<br />

dire nulla, o «nulla almeno che riguardi la fabula» e tutto questo «[…] solo per dire che<br />

tempo, sogno e memoria possono fondersi e che il dovere del lettore è di perdersi nel<br />

gorgo della loro indistinzione» (p. 87).<br />

Poi si passava ad un lungo e preciso richiamo all’apertura de “I promessi sposi” di<br />

Manzoni, con la famosa scena di don Abbondio in procinto di incrociare i bravi che lo<br />

1 Eco, 2004a (N.d.A.).<br />

2 Genette 1972: 81 (N.d.A.).<br />

44


attendevano lungo la stradina su quel “ramo del lago di Como”. Manzoni termina quei<br />

lunghi paragrafi con un eloquente “Che fare?”. Ed ecco come il mio autore vedeva in<br />

questo un bell’esempio di passeggiata inferenziale: «Che fare? Notate che questa<br />

domanda è direttamente indirizzata non solo a don Abbondio, ma al lettore. Manzoni è<br />

maestro nel mescolare la sua narrazione a subitanei, sornioni appelli ai suoi lettori, e<br />

questo è tra i meno sornioni. Che cosa avreste fatto voi al posto di don Abbondio?<br />

Questo è un esempio tipico di come l’autore modello, o il testo, invitano il lettore a fare<br />

una passeggiata inferenziale. L’indugio serve per stimolare questa passeggiata. Si noti<br />

inoltre che il lettore, evidentemente, non si sta chiedendo cosa fare, perché è chiaro che<br />

don Abbondio non ha alcuna via di scampo. Il lettore si infila anche lui due dita nel<br />

collare, ma non per guardare indietro, bensì per guardare avanti allo sviluppo della<br />

vicenda: viene invitato a chiedersi che cosa possano volere due bravi da quell’uomo<br />

tranquillo e innocuo […]» (p. 66).<br />

Trovai strabiliante quell’esempio. Così come giudicai interessante l’altro richiamo ai<br />

“Promessi sposi”, al termine del capitolo, con il commento a quello che forse è il più<br />

noto incipit della storia della letteratura italiana, “Quel ramo del lago di Como, che<br />

volge a mezzogiorno…”. Il mio autore così introduceva quell’esempio: «c’è un altro<br />

modo di indugiare nel testo, e perdervi tempo, per rendere lo spazio. Una delle figure<br />

retoriche meno definite e analizzate è l’ipotiposi. Come fa un testo verbale a mettere<br />

qualcosa sotto gli occhi, come se lo vedessimo?». L’autore fece propria una delle<br />

domande che più affliggono i lettori (soprattutto italiani) dei «Promessi sposi»: perché<br />

perdere tanto tempo a descrivere il lago di Como? «Possiamo perdonare a Proust di<br />

descrivere in trenta pagine il suo indugio prima del sonno, ma perché Manzoni deve<br />

spendere una pagina abbondante per dirci “C’era una volta un lago, e qui prende inizio<br />

la mia storia”?» (p. 87). Proseguiva, ovviamente, fornendo una “logica” risposta ad una<br />

domanda altrettanto sensata: «Se provassimo a leggere questo brano tenendo sotto gli<br />

occhi una carta geografica, vedremmo che la descrizione procede associando due<br />

tecniche cinematografiche, zoom e rallentatore. Non ditemi che un autore del XIX<br />

secolo non conosceva la tecnica cinematografica: è che i registi cinametografici<br />

conoscono le tecniche della narrativa del XIX secolo» (p. 88). Il primo movimento della<br />

cinepresa di Manzoni, dall’alto al basso, era legato ad una dimensione “geografica”;<br />

successivamente la dimensione diventava “topografica”, in quanto si cominciavano a<br />

distinguere ponti e fiumi. Procedendo da nord verso sud «seguendo appunto il corso di<br />

generazione del fiume», l’ottica si ribaltava e «i monti vengono visti di profilo, come se<br />

li guardasse un essere umano». Arrivati a questo punto, «il lettore può distinguere i<br />

torrenti, i pendii e i valloncelli, sino all’arredamento minimo delle strade e dei viottoli,<br />

ghiaia e ciottoli, descritti come se fossero “camminati”, con suggestioni non solo visive,<br />

ora, ma anche tattili» (p. 89). E come in un moderno documentario, Manzoni passava<br />

dalla geografia alla storia e «inizia a narrare la storia del luogo or ora descritto<br />

geograficamente. Dopo la storia verrà la cronaca, e finalmente incontreremo, per uno di<br />

quei viottoli, don Abbondio che si avviava al fatale incontro coi bravi» (p. 90).<br />

L’uso sapiente delle tecniche narrative, ancora una volta, permetteva di inserire<br />

conoscenze sotto forma di informazioni, rappresentanzioni o simboli in grado esprimere<br />

concetti solo apparentemente insignificanti e soprattutto in modo estremamente efficace.<br />

L’effetto zoom della descrizione geografica di quel micro-cosmo di relazioni sociali che<br />

erano il lago di Como e la società italiana del XVII secolo, le informazioni storiche sui<br />

bravi, le due dita nel colletto di don Abbondio e quel “che fare?” come simboli<br />

d’incertezza legati a quella angosciante dominazione straniera: erano tutti esempi di<br />

45


come Manzoni «ci fa attendere spasmodicamente l’evento a venire [ma] non perde<br />

tempo sull’inessenziale», essendo quelle pagine, di solito saltate dal lettore, utili a<br />

comprendere il seguito delle azioni. «Alla fine del romanzo – se non durante – il lettore<br />

dovrebbe rendersi conto che egli ci sta narrando una storia che non è solo la storia di<br />

uomini, ma la storia della Provvidenza Divina, che dirige, corregge, salva, e risolve.<br />

L’inizio dei Promessi Sposi non è un esercizio di descrizione paessagistica: è un modo<br />

per preparare subito il lettore a leggere un libro il cui principale protagonista è qualcuno<br />

che guarda dall’alto le cose del mondo» (p. 90).<br />

L’immagine di Kronos e quella degli orologi liquefatti di Dalì: da un lato, la<br />

rappresentazione del tempo nel racconto costituisce una componente determinante e per<br />

certi versi implicita delle strutture narrative e dell’azione come mediazione simbolica 1 ;<br />

dall’altro lato, la distinzione tra passato e presente è anche una operazione fondamentale<br />

“della coscienza e della scienza storica 2 ”. Il problema, così come posto in quelle pagine,<br />

era evidentemente come riprodurre il tempo della storia raccontata: nell’esempio di<br />

Manzoni e della sua straordinaria panoramica “cinematografica” con cui comincia i<br />

«Promessi sposi», si potrebbe immaginare che un ipotetico osservatore posizionato su<br />

un elicottero, per osservare quell’angolo del lago di Como, potrebbe impiegare più o<br />

meno lo stesso tempo che utilizza il lettore nel leggere la descrizione dei medesimi<br />

spazi, salvo poi soffermarsi su dettagli specifici. Ma torniamo brevemente da N. nella<br />

sua libreria. Come ricordava il mio autore nelle pagine precedenti, non sempre tempo<br />

del racconto e tempo della storia coincidono, e questo non solo per amore di realismo<br />

ma per specifiche esigenze “narrative”. Lo sdoppiamento tra enunciazione ed enunciato<br />

(o tra significante e significato) che avevo riscontrato nelle definizioni di racconto di<br />

Genette si ripercuoteva quindi sulla natura stessa della narrazione e la legava a filo<br />

doppio al metodo che viene utilizzato dagli storici.<br />

Cosa comporta tutto questo su un piano teorico? Come sottolinea Jacques Le Goff<br />

nell’introduzione alla splendida e monumentale biografia su San Luigi:<br />

«Ho ritrovato in questa mia ricerca biografica, uno degli interessi essenziali dello storico,<br />

quello per il tempo. L’ho ritrovato nella sua forma plurale, quella della diversità dei tempi, che, a<br />

mio parere, noi oggi viviamo di nuovo, dopo una fase nella quale l’Occidente fu dominato dal<br />

tempo unificato dell’orologio meccanico, pubblico o privato: un tempo oggi ridotto in briciole<br />

dalla crisi delle nostre società e da quella delle scienze sociali. San Luigi visse in un’epoca<br />

anteriore a quella del tempo in via di unificazione, sul quale il principe cerca di stabilire il proprio<br />

potere. Non esiste, nel XIII secolo, un tempo del re, ma molti tempi del re. […] Il tempo del potere<br />

ha ritmi suoi propri: di impiego del tempo, di viaggi, di esercizio del potere. […] Ma il mio lavoro<br />

di biografo mi ha soprattutto insegnato a prendere in considerazione un genere di tempo al quale<br />

non ero abituato: il tempo di vita, che per un re e per il suo storico non si confonde con quello del<br />

regno. […] La giovinezza, la maturità e la vecchiaia de re, le vicende del suo comportamento<br />

prima e dopo la malattia del 1244, prima e dopo il suo ritorno dalla crociata nel 1254, furono<br />

diversamente scandite dal ritmo di quei grandi avvenimenti [di cui egli fu contemporaneo],<br />

segnando talvolta un picco, spesso un’armonia, altre volte uno scarto temporale. Quel ritmo<br />

sembra a volte affrettare la storia, a volte frenarla» (Le Goff 1996: XXVI).<br />

Alla questione del “tempo nel racconto”, vale a dire all’affermazione dell’identità<br />

strutturale tra storiografia e racconto narrativo, Paul Ricœur dedica un’intera opera in<br />

1 Ricœur 1991, vol. I (N.d.A.).<br />

2 L’espressione è tratta da Le Goff 1988, ma il lettore può trovare concetti del tutto simili anche in Le<br />

Goff 1996 o in Bloch 1998 (N.d.A.).<br />

46


tre volumi (per l’appunto «Temps et Recit»): lungo tutta questa opera del filosofo<br />

francese,<br />

“une présupposition domine toutes les autres, à savoir que l’enjeu ultime aussi de l’identité<br />

structurale de la fonction narrative que de l’exigence de vérité de toute œuvre narrative, c’est le<br />

caractère temporel de l’expérience humaine”. […] Le temps devient temps humain dans la mesure<br />

où il est articulé de manière narrative” (vol. I: p. 18, il corsivo è mio).<br />

Come afferma Ricœur, il collegamento circolare tra narratività e temporalità non è un<br />

circolo vizioso, ma è la struttura portante in cui le due metà della relazione si rinforzano<br />

reciprocamente. Approfondendo le questioni pratiche collegate a questo concetto, il<br />

lettore troverà ancora un valido supporto in Gérard Genette, oramai nostra guida<br />

infaticabile in questo viaggio tra le tecniche narrative. Come il lettore avrà notato, nella<br />

sezione precedente erano già stati introdotti i concetti che risultano ora utili all’analisi<br />

delle relazioni tra tempo della storia e tempo del racconto: si tratta delle categorie<br />

specifiche per l’analisi del tempo, vale a dire l’ordine di successione degli avvenimenti<br />

nell’ambito della diegesi (della struttura del racconto) e della loro disposizione<br />

all’interno del racconto, il rapporto tra la durata di tali avvenimenti e la lunghezza del<br />

testo ad essi dedicata, infine la frequenza intesa come relazione tra le ripetizioni della<br />

storia e quelle del racconto.<br />

«Un’anacronia, nel passato o nell’avvenire [analessi e prolessi], può andare più o meno lontano<br />

dal “momento presente”, cioè dal momento della storia in cui il racconto si è interrotto per farle<br />

posto: questa distanza temporale, la chiameremo portata dell’anacronia. A sua volta, essa può<br />

coprire una durata di storia più o meno lunga: si tratta di quanto chiameremo la sua ampiezza» (p.<br />

96).<br />

Se il “racconto primo” è il livello temporale rispetto al quale si definisce l’anacronia,<br />

nel caso dell’analessi (“qualsiasi evocazione, a fatti compiuti, d’un evento al punto<br />

della storia in cui ci si trova”), il desiderio di precisione spinge i teorici a distinguerne di<br />

tre tipi: è esterna l’analessi la cui ampiezza resta estranea al “racconto primo” e non<br />

interferisce con esso in quanto ha la funzione di completarlo “fornendo al lettore lumi<br />

su questo o quel ‘precedente’”; per contro, è interna l’analessi “il cui campo temporale<br />

è compreso in quello del racconto primo, presentando un rischio evidente di ridodanza o<br />

di collisione” (p. 98); infine, sono possibili anche analessi miste in cui “il punto di<br />

portata è anteriore e il punto d’ampiezza posteriore rispetto all’inizio del racconto<br />

primo 1 ” (p. 97).<br />

Una attenzione particolare meritano alcune analessi interne in quanto queste possono<br />

colmare a posteriori una lacuna anteriore del racconto «il quale si organizza così tramite<br />

omissioni provvisorie e riparazioni più o meno tardive, secondo una logica narrativa<br />

parzialmente indipendente dal trascorrere del tempo» (p. 99). Queste “lacune anteriori”<br />

possono assumere la forma dell’ellissi temporale, vale a dire di semplici “buchi” nella<br />

continuità del racconto. Ma, come forse il lettore attento ricorderà, può anche succedere<br />

che non venga tagliato un “segmento diacronico”, ma che venga omesso “un elemento<br />

costitutivo della situazione, in un periodo teoricamente coperto dal racconto” (p. 100).<br />

1 Per quanto riguarda quest’ultimo caso, per nulla inconsueto, si tratta di analessi che anticipano l’inizio<br />

del racconto vero e proprio per quanto riguarda la portata, ma che continuano anche dopo il momento di<br />

inizio, superandolo in ampiezza dal punto di vista temporale. In questo modo, il lettore è portato a<br />

conoscere alcuni antecedenti e a protarre queste informazioni aggiuntive non solo fino all’inizio della<br />

storia, ma anche oltre (N.d.T.).<br />

47


In questo caso, “il racconto non passa sopra a un momento (come nell’ellissi), passa a<br />

lato di un dato” (p. 100). Questa è esattamente la parallissi che il lettore aveva già<br />

incontrato nelle alterazioni del punto vista del racconto: trattandosi di una lacuna nata<br />

dal fatto di aver tolto informazioni al lettore, si presta benissimo a lasciare dei buchi che<br />

potranno essere colmati “retrospettivamente”, riproducendo così una modalità d’azione<br />

che alcuni studiosi di organizzazione considerano assolutamente innata dei processi<br />

decisionali umani 1 .<br />

Ad esempio, le righe che stai leggendo in questo momento, possono essere<br />

considerate una sorta di parallissi: lasciato per un attimo N., poco prima della citazione<br />

di Le Goff è iniziato un intervento diretto dell’autore, il quale ora viene interrotto in<br />

quanto io ho deciso di tornare al libro di Genette e ad alcune classificazioni teoriche<br />

omesse in precedenza. In questo modo sto recuperando delle informazioni che N. non<br />

ha dato: vuoi perché non le ha trovate nel suo libro; vuoi perché, forse, sfogliando il<br />

libro di Genette, lo stesso N., le ha saltate. Trattandosi, però, di informazioni che io<br />

ritengo utili per il lettore (e per la completezza del ragionamento tecnico sul racconto<br />

che stiamo facendo), ho deciso di aprire questa finestra temporale che è successiva sia<br />

alla presenza di N. nella libreria, sia al ritorno dell’autore empirico verso il suo ufficio,<br />

dopo aver acquistato il libro.<br />

Dopo questo esempio, diciamo, in presa diretta, torniamo nella “finzione narrativa” e<br />

completiamo la distinzione teorica avviata in precedenza. Esistono, infatti, anche delle<br />

analessi interne che, sotto forma di “richiami”, assumono il compito di fare ritornare<br />

letteralmente il racconto sui propri passi, non sfuggendo così ad una sorta di ridondanza<br />

o ripetizione. Le reminiscenze dovute alla memoria involontaria (anche qui Proust è<br />

maestro, ma, prima di lui ce ne ha dato esempio anche il nostro Nerval), hanno spesso<br />

una loro importanza nell’economia del racconto (e ancora una volta, come nel caso delle<br />

parallissi e di altre tecniche, sono utilissime per riportare quei comportamenti<br />

enigmatici ma assolutamente reali e comuni nell’agire e nel pensare umani).<br />

Passando alla prolessi (ovvero all’anticipazione di une evento ulteriore), questa è<br />

probabilmente meno frequente rispetto all’analessi, ma risulta estremamente comune se<br />

inserita in alcune fasi del racconto per fare “delle allusioni al futuro”, anche e<br />

soprattutto, nel caso di racconti “in prima persona”, che meglio si prestano (per il loro<br />

carattere tipicamente retrospettivo) a questo tipo di giochi temporali. Come nel caso<br />

delle analessi, si possono distinguere due particolari tipi di prolessi interne: in un caso si<br />

tratterà di descrizioni anticipate, evocazione del seguito di eventi già accaduti,<br />

l’annuncio del ripetersi in futuro di eventi passati; nel secondo caso, invece che dei<br />

“richiami”, avremo delle brevi allusioni al futuro, un effetto “preannuncio” con il quale<br />

si rifererisce “[…] in anticipo un evento che, al momento opportuno, verrà raccontato<br />

per esteso” (p. 121).<br />

Ma come in una musica, sarebbe sbagliato pensare che la questione del tempo sia<br />

collegabile solo all’ordine degli eventi; significherebbe, ad esempio, dimenticare il<br />

ritmo o l’iterazione (nel caso della narrazione la durata e frequenza): «[…] sarebbe<br />

totalmente vano pretendere di trarre conclusioni definitive dalla sola analisi delle<br />

1 Qui N. si riferisce, evidentemente, al concetto di sensemaking/organizing che lo seguirà per tutto il suo<br />

progetto di ricerca. Il lettore può richiamarsi, naturalmente, a Weick 1979, 1995. Non è un caso che Karl<br />

Weick consideri la narrazione una struttura cognitiva particolarmente adatta per riprodurre la sua idea di<br />

sensemaking e le caratteristiche peculiari del concetto stesso (ad esempio: Weick, Browning 1986, Weick<br />

1993). Il lettore di lingua italiana può anche fare riferimento all’intervista riportata in calce alla edizione<br />

italiana del suo «The Social Psychology of Organizing» (N.d.A.).<br />

48


anacronie, che si limitano a illustrare uno dei caratteri essenziali della temporalità<br />

narrativa» (133).<br />

Mi appoggiai ad uno scaffale: tornai indietro, al mio libro, e rilessi due volte quelle<br />

ultime pagine da cui erano scaturite tante connessioni, forse perché erano nuovamente<br />

dedicate a «Sylvie» e, anche, per il piacere di rileggere «I promessi sposi» come forse<br />

non li avevo mai letti; e leggere di indistinzione, indeterminatezza e “infinito” che, se<br />

saggiamente impiegati, risultano in grado di “spiegare” ben più di quanto lascino<br />

presagire, mi portò a riflettere sulla realisticità e sull’accuratezza della “finzione<br />

narrativa” (ed anche le riflessioni di Ricœur mi portavano in quella direzione). Ripiegai<br />

allora su un altro ricordo, richiamando alla mente quello che forse è il massimo<br />

esponente nella storia del pensiero umano dell’idea di vago e di indeterminato, colui<br />

che ne ha fatto una questione di vita: noi italiani conosciano Giacomo Leopardi per<br />

averlo studiato a scuola ma non è un caso che gli stranieri lo conoscano per quello che<br />

forse è il suo poema più bello, l’Infinito, per l’appunto. L’idea di evocare Leopardi su<br />

questo punto non era mia ma di Italo Calvino che, in una di quelle sue famose “lezioni<br />

americane” che non ebbe il tempo di tenere 1 , discusse in modo appassionato proprio il<br />

tema dell’esatezza e della accuratezza nella narrazione 2 . Ma non era tanto ne L’Infinito<br />

che egli esplicita le questioni legate a quella idea; era grazie ad un altro testo, altrettanto<br />

straordinario, che Leopardi entrava nell’Olimpo degli “sfocati”, facendoci gustare la<br />

bellezza dell’indefinito, dell’impreciso, del vago, ovvero nel suo «Zibaldone».<br />

Descrivere l’infinito aveva comportato per Leopardi una straodinaria capacità<br />

linguistica e attenzione per i dettagli narrativi. Poteva sembrare paradossale ma, come<br />

evidenziato da Calvino, per esprimere una delle emozioni più impalpabili e darci una<br />

immagine del concetto più vago e immaginativo, nei testi dello «Zibaldone» su questo<br />

soggetto, Leopardi aveva esibito una incredibile accuratezza e perizia, dosando<br />

sapientemente indugio e rapidità, lasciando il lettore in uno stato di indicibile<br />

soddisfazione per avere, anche se solo per un istante, avuto la possibilità di cogliere<br />

l’ineffabile, ciò che sembrava indefinibile: era una questione di stile e di tecnica, ma ora<br />

potevo apprezzare anche l’idea che non si trattava solo di quello.<br />

Barbara Czarniawksa 3 , introducendo il ruolo della narrazione negli studi<br />

organizzativi, riprendeva l’idea che l’imprevedibilità (che può essere considerata come<br />

una caratteristica tutta umana e la causa principale della specificità delle scienze sociali)<br />

non implicava l’inesplicabilità dei fenomeni, in quanto una qualche possibilità di<br />

interpretazione delle vicende umane c’era pur sempre. Era in questo quadro che le<br />

narrazioni potevano essere estremamente utili alla scienza. Mi venne in mente anche<br />

una frase del filosofo morale Alasdair MacIntyre 4 in cui sottolineava che una “inchiesta<br />

narrativa” non si prefigge di cercare qualcosa che esiste già, ma si occupa piuttosto di<br />

creare il proprio obiettivo e non di scoprirlo. Interessante prospettiva, mi dissi: i “boschi<br />

di Loisy” di nervaliana memoria stavano per diventare i “boschi possibili” all’interno<br />

1 N. si riferisce qui all’edizione italiana di “Six Memos for the Next Millennium” di Italo Calvino. Nel<br />

giugno del 1984 lo scrittore italiano venne invitato ufficialmente dall’Università di Harvard per tenere un<br />

ciclio di sei conferenze nell’ambito delle prestigiose Charles Eliot Norton Poetry Lectures. Le conferenze<br />

si dovevano tenere nell’anno 1985-1986 ma al momento di partire per gli Stati Uniti solo cinque delle sei<br />

lezioni erano scritte. Avendo già raccolto tutto il materiale di cui aveva bisogno, Calvino aveva deciso di<br />

scrivere l’ultima lezione una volta arrivato a Harvard. Come forse è noto al lettore, Calvino morirà a<br />

Siena nella notte tra il 18 e il 19 settembre del 1985, poco prima di partire per gli Stati Uniti (N.d.A.).<br />

2 Calvino 1988 (N.d.A.).<br />

3 Mi riferisco qui all’edizione italiana del 2000 del suo libro del 1997 (N.d.A.).<br />

4 MacIntyre 1988, ampiamente citato in Czarniawska 1997 (N.d.A.).<br />

49


dei quali “approssimare” i mondi reali. Ma allora, quanto “finzionali” erano i boschi di<br />

Loisy se rapportati ad una realtà (narrativa) che ci acconteremmo fosse almeno<br />

“verosimile”?<br />

Storia e narrazione; realisticità e indeterminatezza; tempo e racconto: l’utilizzo<br />

sapiente della “triade narrativa”, descritta come un gioco di specchi tra autore, narratore<br />

e lettore, e le relative problematiche tecniche che ciò comporta, a partire dalle tipiche<br />

“distorsioni temporali” della realtà narrativa: tutti questi elementi costituivano quindi un<br />

interessante strumento per “riprodurre” in modo oggettivo e “non relativistico” il<br />

concetto stesso di riflessività nelle ricerche di management (in forma scritta). Si trattava<br />

di qualcosa che andava al di là della ricchezza semiotica che ruota attorno al tema dello<br />

“specchio”, e alla straordinaria ricchezza di “immagini” (prego il lettore di scusare<br />

questo facile gioco di parole – sic!) che suscita la metafora basata su tale seducente<br />

oggetto 1 . In questo senso, il pensiero narrativo può essere utilizzato al meglio delle<br />

proprie potenzialità, può cioè essere “relativo” senza cadere in un’ingiusta e infamante<br />

accusa di “relativismo”.<br />

In una delle mie frequentazioni di quell’istituzione tanto straordinaria quanto atipica<br />

che è il Collége de France, mi capitò tra le mani un estratto dell’ultima lezione che<br />

Pierre Bourdieu tenne, nell’ambito della sua cattedra di Sociologia, il 27 marzo del 2001<br />

(un anno prima della sua scomparsa): quel ciclo di lezioni sarebbe stato raccolto e<br />

pubblicato col titolo «Science de la science et réflexivité». In quel documento veniva<br />

riportato anche tutto il suo rilievo che quell’evento comportava: il nuovo anfiteatro<br />

dedicato a Margherita di Navarra era gremito con oltre cinquecento persone per<br />

ascoltare l’eminente sociologo discutere de “La sociologie du champ scientifique et la<br />

réflexivité”. Si trattava proprio della questione della “storicizzazione della ragione<br />

evitando lo storicismo assoluto” e questa veniva strettamente collegata proprio all’idea<br />

di trovare un sano concetto di “oggettività”, integrando storicismo e razionalità: non si<br />

tratta di infliggere colpi mortali alla scienza assumendo una prospettiva “postmoderna”<br />

che finisca in modo assurdo per “tomber dans l’antiscientisme”. In fondo, come diceva<br />

Lyotard:<br />

«Non è eslcuso che il ricorso al narrativo [da parte del non narrativo] sia inevitabile; almeno<br />

fino a quando il gioco linguistico della scienza esiga la verità dei propri enunciati e non sia in<br />

grado di legittimarla autonomamente. Se ciò è vero, dovremmo riconoscere l’esigenza di un<br />

bisogno di storia irriducibile, il quale, […] non sarebbe da interpretare come un bisogno di<br />

ricordare e di progettare (bisogno di storicità, di accento), ma al contrario come un bisogno di<br />

oblio (di metro – vale a dire di tecnica). [Ma queste sono] Conclusioni premature […]» (p. 53-54).<br />

“Relativity Without Relativism” era anche il titolo, allettante, di un articolo di<br />

Cynthia Hardy e Stewart Clegg 2 in cui venivano richiamati alcuni elementi interessanti<br />

1 Negli studi di economia e di management e, in generale nelle scienze sociali (per il momento lasciamo<br />

in pace gli scienziati naturali), alcuni studiosi si comportano a volte come il lettore zelate di Umberto Eco<br />

o dimenticano quanto importante sia per un ricercatore fungere onestamente da “specchio” dei fenomeni<br />

che intendono analizzare: ad esempio, senza il timore di cadere nel relativismo: cercano dai loro dati più<br />

“spiegazioni” di quanti questi possano loro fornire sui “fatti” a cui fanno riferimento; sviano l’attenzione<br />

del lettore su elementi secondari (di natura formale), ad esempio, di una analisi econometrica; sviliscono<br />

un po’ le capacità “analitiche” dello strumento utilizzato nascondendosi a volte dietro il linguaggio<br />

matematico; il risultato è che ne risulta svalutata anche la capacità di attingere dalle proprie esperienze del<br />

lettore, prendendolo un po’ in giro (o facendolo sentire “preso in giro”) o, peggio, abusando della sua<br />

pazienza (N.d.T.).<br />

2 Hardy, Clegg 1997 (N.d.A.).<br />

50


del dibattito su “riflessività e relativismo” negli studi di management, vale a dire: il<br />

modo in cui le teorie separano esse stesse dalle pratiche degli individui che operano nei<br />

“laboratori” in cui le prime vengono create; i modi in cui le teorie “conoscono se stesse”<br />

per sapere di che tipo sono e che cosa esse non sono; le pratiche “retoriche” attraveso<br />

cui si generano comunità teoriche che dovrebbero essere pluralistiche piuttosto che<br />

monolitiche, aperte al dibattito piuttosto che all’isolamento dei “rivali” o ignorando i<br />

dissidenti 1 .<br />

A questo punto dovremmo cercare un concetto di oggettività “storicizzato e non<br />

storicistico” (come direbbero Bourdieu e Lyotard) e che, quindi, non sia usato in modo<br />

fazioso e pregiudizievole: l’oggettività dovrebbe cioè fare riferimento a quella capacità<br />

della conoscenza di mostrare, a livelli differenti, le condizioni stesse della propria<br />

esistenza. E’ in questi termini che possiamo tentare di “giudicare” una posizione teorica,<br />

ragionando liberi da preconcetti 2 .<br />

Ma in queste riflessioni il mio lettore trova ora una vera e propria prolessi rispetto al<br />

percorso che mi stava proponendo il mio autore. Non a caso era nella successiva sezione<br />

che troveremo ulteriori spunti su questo tema.<br />

***<br />

Stavo ancora rievocando la “lezione” di Italo Calvino dedicata all’esattezza e al suo<br />

richiamo a Leopardi, pensiero bruscamente interrotto dall’affiorare del problema della<br />

realisticità della “finzione narrativa”:<br />

«Nelle sue riflessioni due termini vengono continuamente messi a confronto: indefinito e<br />

infinito. Per quell’edonista infelice che era Leopardi, l’ignoto è sempre più attraente del noto, la<br />

speranza e l’immaginazione sono l’unica consolazione dalle delusioni dai dolori dell’esperienza.<br />

L’uomo proietta dunque il suo desiderio nell’infinito, prova piacere solo quando può immaginarsi<br />

che esso non abbia fine. Ma poiché la mente umana non riesce a concepire l’infinito, anzi si ritrae<br />

spaventata alla sola sua idea, non le resta che contentarsi dell’indefinito, delle sanzioni che<br />

confondendosi l’una con l’altra creano un’impressione d’illimitato, illusoria ma comunque<br />

piacevole».<br />

E mentre riflettevo nuovamente sull’indefinito, cercai di ricomporre il punto in cui<br />

avevo lasciato il mio libro, mentre mi parlava di Manzoni nel momento stesso in cui<br />

egli cominciava i «Promessi sposi» e stava letteralmente costruendo il “suo” mondo<br />

narrativo, il “suo” mondo possibile, aggrappandosi però, per quanto riguardava le “cose<br />

non dette” a quel mondo reale che in parte il lettore già conosceva. Il titolo di quella<br />

sezione del libro («i boschi possibili») era evocativo e mi ricordava una storia che avevo<br />

trovato citata da Bruner 3 :<br />

1 Nella considerazione della scienza come fatto sociale, nella questione dell’identità delle teorie e quindi<br />

del modo in cui queste vengono diffuse all’interno delle comunità di cui fanno parte i loro “inventori” il<br />

mio lettore avrà ritrovato alcuni dei cavalli di battaglia di molti studiosi di epistemologia, sociologia della<br />

conoscenza e metodologia che, a vari livelli, hanno preso in considerazione questo tema collegandolo alle<br />

scienze sociali. Tra gli altri: Berger, Luckmann 1969; Bruner 2005; Goodman 1985; Latour 1997, 2006;<br />

Luhmann 1990; Lyotard 2004; Merton 1970; Morin 1986; Simon 1981, 1991a,1991b (N.d.A.).<br />

2 Il problema del “realismo” e dell’oggettività in narrazione mi richiamava alla mente la famosa diatriba,<br />

questa sì tutta legata a questioni di metodologia in economia, sul irrealismo delle ipotesi che secondo<br />

Milton Friedman costituisce l’ossatura dei ragionamenti e delle terie economiche (McCloskey 1986;<br />

Guala 2006) (N.d.A.).<br />

3 Si tratta dell’inizio del capitolo 2 di Bruner 2005 (N.d.A.).<br />

51


«Nella primavera del 1924 il giovane fisico tedesco Werner Heisenberg, in compagnia del<br />

grande Niels Bohr, si trovò a fare una passeggiata in Danimarca, patria di quest’ultimo. Ecco come<br />

Heisenberg riferisce le parole pronunciate da Bohr quando giunsero nei pressi del castello di<br />

Kronberg.<br />

Non è strano quanto cambi questo castello non appena uno pensa che Amleto è vissuto qui?<br />

Come scienziati noi crediamo che un castello sia fatto solo di pietre e ammiriamo il disegno<br />

secondo cui l’architetto le ha messe insieme. I sassi, i tetti verdi con la loro patina antica, le<br />

sculture lignee della cappella: il castello è tutto qui. Il fatto che Amleto vi sia vissuto non dovrebbe<br />

cambiare nulla; invece cambia tutto, e completamente. Improvvisamente la mura e i bastioni<br />

parlano un’altra lingua. Il cortile diventa un mondo vero e proprio; un angolo buio ci fa pensare<br />

alle oscurità dell’animo umano e noi sentiamo il monologo di Amleto: “Essere o non essere?”.<br />

Eppure, tutto quello che sappiamo con certezza di Amleto è che il suo nome ricorre in una cronaca<br />

del tredicesimo secolo. Nessuno è in grado di dimostrare che egli veramente sia vissuto qui. Tutti,<br />

però, conosciamo le domande che Shakespeare ha posto sulle sue labbra, le segrete profondità<br />

umane di cui l’ha reso interprete. Ed è per questo che doveva trovare anche lui un posto sulla terra,<br />

qui, a Kronberg» (Bruner 2005: 57).<br />

Quella storia si collegava ad un altro recente ricordo, questa volta teatrale: la pièce di<br />

Michael Frayn «Copenaghen», uno straodinario spettacolo che avevo visto messo in<br />

scena a Milano 1 . Lo spettacolo ruotava attorno ad un altro incontro tra Bohr e il suo<br />

allievo Heisenberg, sempre a Copenaghen ma ben diciasette anni dopo l’incontro citato<br />

da Bruner, durante l’occupazione nazista della Danimarca. Ma non era solo la<br />

coincidenza legata ai protagonisti dell’incontro che mi soprese: la mia mente mi portava<br />

direttamente a fondere il contenuto dei due colloqui. Solo pochi anni dopo l’incontro al<br />

castello di Kronberg, Heisenberg formulerà il suo principio di indeterminazione; e la<br />

fatalità della guerra volle che i due si incotrassero di nuovo, a distanza di quasi venti<br />

anni, con Heisenberg a capo del progetto nucleare tedesco e il suo maesto Bohr a<br />

richiamare il brillante allievo sulle responsabilità morali dei progressi della fisica. La<br />

metafora dei “castelli possibili”, così straordinariamente calzante nel brano proposto da<br />

Bruner (con Heisenberg che si stava preparando a fornire un contributo miliare agli<br />

studi sulla meccanica quantistica), diventava ancora più evocativa ripensando a quanto<br />

efficacemente Frayn era riuscito a rendere la tragicità dei discorsi affrontanti dai due<br />

grandi scienziati: non vi erano più maestri e allievi; non vi era più il contesto<br />

“incantato” del castello di Kronberg; eppure c’erano pur sempre due uomini ancora una<br />

volta di fronte alle loro incertezze, ai loro dubbi, di fronte alla Storia che si stava<br />

svolgendo sotto i loro occhi.<br />

Non è dato di sapere se e come si siano svolti gli incontri tra Heisenberg e Bohr. In<br />

particolare, per quanto il racconto di Frayn abbia un fondamento storico, nessuno seppe<br />

mai cosa i due si dissero, in quanto solo la moglie di Bohr era presente all’incontro.<br />

Questo mi portava ad affrontare il primo concetto presentato in quella sezione del mio<br />

libro: «La regola fondamentale per affrontare un testo narrativo è che il lettore accetti,<br />

tacitamente, un patto finzionale con l’autore […]. Il lettore deve sapere che quella che<br />

gli viene raccontata è una storia immaginaria, senza per questo ritenere che l’autore dica<br />

1 Per il lettore incuriosito, si tratta dell’opera teatrale “Copenaghen”, di Michael Frayn, nella messa in<br />

scena co-prodotta dal CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia e la Fondazione Emilia<br />

Romagna Teatri. Lo spettacolo ha debuttato a Udine già nel novembre del 1999 per la regia di Mauro<br />

Avogadro, con Umberto Orsini (nei panni di Bohr), Massimo Popolizio (che impesona Heisenberg) e<br />

Giuliana Lojodice (che è Margrethe, moglie di Bohr). In seguito, lo spettacolo ebbe una fortunata e lunga<br />

tournée nazionale. Verosimilmente, il ricordo di N. è legato ad una delle ultime riprese dello stesso<br />

spettacolo, a Milano, nell’ambito della stagione del Piccolo Teatro (N.d.A.).<br />

52


una menzogna» (p. 91). Il primo esempio proposto richiamava un divertente caso<br />

relativo al «Pendolo di Foucault» di Umberto Eco: «[…] nel capitolo 115, il<br />

personaggio Casaubon, nella notte tra 23 e 24 giugno 1984, dopo aver assistito a una<br />

cerimonia diabolica nel Conservatoire des Arts et Métiers di Parigi, percorre, come<br />

invasato, tutta Rue Saint-Martin, attraversa rue aux Ours, arriva al Centre Beaubourg e<br />

poi alla chiesa di Saint-Merri, e di lì prosegue per varie strade, tutte nominate, sino alla<br />

Place des Voges» (p. 92). Umberto Eco, per scrivere quel capitolo, aveva percorso di<br />

notte quelle stesse strade registrando su nastro quel che vedeva e le sue impressioni,<br />

preoccupandosi anche di verificare se quella notte ci fosse stata la luna. Direttamente<br />

dal racconto di Eco:<br />

«Dopo che avevo pubblicato il romanzo ho ricevuto una lettera di un signore che<br />

evidentemente era andato alla Bibliothèque Nationale a leggersi tutti i giornali del 24 giugno 1984.<br />

E aveva scoperto che, all’angolo di Rue Réaumur, che io non avevo nominato, ma che di fatto<br />

incrocia a un certo punto Rue Saint-Martin, dopo la mezzanotte, più o meno all’ora in cui passava<br />

Casaubon, c’era stato un incendio – un incendio di notevoli dimensioni, se i giornali ne avevano<br />

parlato. Il lettore mi chiedeva come avesse fatto Casaubon a non vederlo»<br />

Fino a che punto era lecito il comportamento del lettore di Eco? Per quanto questo<br />

esempio costituisca un caso limite, palesemente esagerato, domandarsi fino a che punto<br />

sia lecito adeguare completamente una vicenda “immaginaria” al “mondo reale” apriva<br />

un problema che non è così semplice da risolvere come può apparire a prima vista 1 .<br />

Come ammoniva lo stesso autore, prima di condannare questo lettore zelante, era<br />

necessario fare qualche riflessione sul collegamento tra “mondo reale” e la sua<br />

“approssimazione finzionale”: «i mondi narrativi sono parassiti del mondo reale. Non<br />

c’è una regola che prescriva il numero degli elementi finzionali accettabili […]. Ma<br />

tutto quello che il testo non nomina e descrive espressamente come diverso dal mondo<br />

reale, deve essere sottointeso come corrispondente alle leggi e alla situazione del mondo<br />

reale» (p. 101). Gli esempi proposti erano dei richiami a quanto scritto nelle pagine<br />

precedenti. Nel brano di Achille Campanile 2 su Gedeone e il cocchiere, la parte comica<br />

della vicenda, di per se paradossale, era legata al fatto che il protagonista, dubbioso<br />

sulle possibili azioni di quel cocchiere, nel chiedere una carrozza precisava di “portare<br />

anche il cavallo” al luogo dell’incontro. D’altro canto, un’altra carrozza già incontrata<br />

nel libro, ovviamente, era quella che in «Sylvie» sale sui pendii verso Loisy: benché il<br />

cavallo non sia mai nominato, nessun lettore si sognerebbe di dubitare della sua<br />

“normale” presenza davanti alla carrozza, con tanto di morso, finimeni e redini; al<br />

contrario, nel caso in cui il narratore avesse proposto una versione fantasiosa del brano,<br />

magari dicendo di essersi accorto, una volta arrivato a Loisy, che la sua carrozza non era<br />

stata trainata da alcun cavallo «[…] qualsiasi lettore sensibile avrebbe un moto di<br />

sorpresa, e si riaffretterebbe a leggere il libro dall’inzio, perché si era disposto a seguire<br />

una storia di sentimenti delicati e impalpabili, nel migliore spirito romantico, e invece<br />

doveva evidentemente avere iniziato una Gothic Novel […]» (p. 102).<br />

1 E nel caso richiamato da Bruner e completato da N.: quanto senso aveva l’immagine del castello<br />

proposta ad Heisenberg dal suo maestro, nel primo incontro? Quanto importante fu quell’episodio per la<br />

successiva esplicitazione del principio di indeterminatezza? E il successivo incontro in Danimarca, quale<br />

impatto ebbe per il più importante scienziato tedesco a capo di uno dei progetti più ambiziosi ma anche<br />

più terrificanti? E fino a che punto è possibile considerare come “verosimile” la storia che ci propone<br />

Frayn nella finzione teatrale? (N.d.A.).<br />

2 Vedasi nota n. 3 a pag. 25 (N.d.A.).<br />

53


Il passaggio successivo meritava attenzione: «Sembra quindi che il lettore debba<br />

conoscere troppe cose sul mondo reale per poterlo assumere come sfondo di un mondo<br />

fittizio. Se così fosse un universo narrativo sarebbe una strana terra: da un lato, in<br />

quanto ci narra solo la storia di alcuni personaggi, di solito in un luogo e un tempo<br />

definiti, dovrebbe apparire come un piccolo mondo, infinitamente più limitato del<br />

mondo reale; ma in quanto contiene il mondo reale come sfondo, aggiungendovi<br />

soltanto alcuni individui e alcune proprietà ed eventi, è più vasto del mondo nella nostra<br />

esperienza. In un certo senso, un universo finzionale non finisce con la storia che<br />

racconta, ma si estende indefinitamente» (p. 104).<br />

Probabilmente varrebbe la pena prendere seriamente questo suggerimento del mio<br />

autore, intendendosi sul termine fiction: i mondi organizzativi che gli studiosi di<br />

management dovrebbero (ri)creare nelle loro ricerche potrebbero avere quella stessa<br />

caratteristica della plausibilità tipica delle narrazioni; in altri termini, le organizzazioni<br />

intese come reti d’azioni colletive non sono meno “finzionali” di un racconto costruito<br />

“realmente” con le tecniche narrative ed anzi, queste ultime, proprio per le loro capacità<br />

intrinseche, sembrano in grado di riprodurre al meglio quei caratteri “finzionali” della<br />

della vita “reale/naturale”.<br />

In un testo scientifico è evidente che il lettore si aspetta un certo livello di realismo<br />

da parte dell’autore, ma è il grado di “approssimazione alla realtà” (e quindi il livello di<br />

“fiction” accettabile) a garantire la qualità della teoria costruita da/su quei fatti<br />

raccontati. In altri termini, ci sono molti “modi” di approssimare la realtà e l’astrazione<br />

è, a ben vedere, una forma di finzionalità non dissimile da quella dei modelli statisticomatematici:<br />

ma mentre questi ultimi sembra che ci dicano poco del “non detto” (o<br />

meglio del “non spiegato”), concentrando l’attenzione del lettore su quello che<br />

intendono spiegare; il racconto, almeno, aggiunge al “non detto” sul mondo reale<br />

quanto è necessario e ragionevolmente utile attendersi perché il lettore cotruisca quello<br />

specifico mondo “fittizio”, narrativo. In altri termini, il racconto come “modo di<br />

conoscere” si sofferma (apparentemente) sui dettagli appunto perché ciò che non è detto<br />

dal/nel racconto, sulla base del patto finzionale tra autore e lettore, quest’ultimo è<br />

perfettamente in grado di trovarlo da solo, aspettandosi che tali caratteri “generali” (non<br />

esplicitati) facciano ragionevolmente già parte di quel mondo reale a cui il mondo<br />

narrativo si sta aggrappando. Per dirla con le parole del mio autore, così come le lessi<br />

quella sera «i mondi della finzione sono, sì, parassiti del mondo reale, ma mettono tra<br />

parentesi la massima parte delle cose che sappiamo su di esso, e ci permettono di<br />

concentrarci su un mondo finito e conchiuso, molto simile al nostro, ma più povero.<br />

Poiché non possiamo uscire dai suoi limiti, siamo spinti ad esplorarlo in profondità»,<br />

proprio come nel tentativo da parte dell’uomo di superare quella sua pavida ricerca di<br />

comprensione dell’infinito attraverso la sua approssimazione dell’indefinito, di cui ci<br />

aveva così magistralmente parlato Calvino citando Leopardi.<br />

Passeggiare nei boschi narrativi, quindi, aveva veramente «la funzione che riveste il<br />

gioco per un bambino. […] Leggere racconti significava fare un gioco attraverso il<br />

quale si impara a dar senso alla immensità delle cose che sono accadute e accadono e<br />

accadranno nel mondo reale. Questa è la funzione terapeutica della narrativa e la<br />

ragione per cui gli uomini, dagli inizi dell’umanità, raccontano storie» (p. 107).<br />

Ma nell’affermare questo il mio autore, che pareva essere persona ragionevole e<br />

attenta, non si nascondeva un ulteriore passaggio critico dal punto di vista teorico:<br />

«Sino a ora il mio discorso è stato dominato dallo spettro della Verità, che non è cosa da<br />

prender sottogamba. [S]i è molto discusso su cosa voglia dire che una asserzione sia<br />

54


vera in un mondo narrativo. La risposta più ragionevole è che essa è vera nel quadro del<br />

Mondo Possibile di quella data storia» (p. 107).<br />

Nel riflettere con l’autore su queste cose, mi venne in mente un’altra metafora<br />

“urbanistica”, quella di “che cosa vuol dire conoscere una città?” usata da Enzo Rullani<br />

nel suo libro «La fabbrica dell’immateriale 1 ». La “città” di Rullani aveva qualcosa di<br />

illuminante se riletta alla luce delle suggestioni sul rapporto tra “mondo reale” e<br />

“mondo finzionale”.<br />

«Che cosa vuol dire conoscere una città? Certo non significa aver fatto esperienza diretta di<br />

alcuni punti (α) di essa, come fa un qualunque turista. Conoscere una città significa avere, con<br />

l’ambiente urbano, una familiarità sufficiente a rendere possibile l’uso intelligente della città<br />

stessa, in tutte le sue risorse e varianti che sono rilevanti per il soggetto considerato, coprese quelle<br />

su cui non si è fatta alcuna esperienza diretta.<br />

Del resto, se si vuole usare la città in futuro non si può certo immaginare di limitare le proprie<br />

possibilità di rapporto con il sistema urbano ai punti α già visti: le esperienze, infatti, non si<br />

ripetono mai uguali. Sarebbe probabilmente impossibile, e sicuramente inutile, ripercorrere passo<br />

per passo il percorso già fatto» (Rullani, 2004b: 41).<br />

Collegata a quanto avevo letto, mentre continuavo a dirigermi verso il mio ufficio,<br />

questa moderna parabola della città aveva una morale piuttosto interessante 2 : ci sono<br />

molti modi per conoscere una città e per rendere trasferibile ad altri soggetti una<br />

conoscenza (che Rullani definirebbe connettiva), tanto di un punto di essa quanto di più<br />

luoghi, proveniente da una esperienza originaria compiuta da qualcuno; il nuovo<br />

utilizzatore, poi, sarà in grado di impiegarla in modo personale e soprattutto in ambiti di<br />

applicazione (per esempio a fini turistici) anche diversi da quello di partenza,<br />

sganciandosi (in tutto o in parte) dal contesto originale (che ad esempio era di tipo<br />

lavorativo). Questo processo può essere paragonato ad un’onda che si propaga come nel<br />

caso di un sasso lanciato al centro di uno stagno (l’immagine non è mia ma è una<br />

interpretazione originale fornita dallo stesso Rullani).<br />

Ad esempio, pensai, chi si fermasse a Parigi, almeno per qualche mese e per un<br />

qualunque motivo professionale, verosimilmente si troverebbe a frequentare alcuni<br />

arrondissements piuttosto che altri: un uomo d’affari internazionale sarebbe diviso tra<br />

gli Champs Elysées, tra gli show room delle grandi marche automobilistiche o le<br />

Maisons dell’alta moda, e il moderno quartiere de La Défense dove, tra il Pont de<br />

Neuilly e la Grande Arche, due milioni e mezzo di metri quadrati di uffici fanno da sede<br />

a centinaia e centinaia di grandi società multinazionali; un politico si troverebbe a<br />

visitare spesso la riva sinistra della Senna, all’interno del 7° o dell’8° arrondissement,<br />

tra il Palais Bourbon, l’Hôtel Matignon o l’Hôtel Boisgelin, lungo rue du Bac e rue<br />

Varenne, nel quartiere delle ambasciate e di molti ministeri; un giovane ricercatore o<br />

uno studente trascorrerebbero buona parte della loro giornata tra il 5° e il 6°<br />

arrondissement, nell’antico Quartiere Latino, tra il Pont des Arts che collega l’Institut<br />

1 Rullani 2004b (N.d.A.).<br />

2 L’esempio è utilizzato da Rullani per aiutare il suo lettore a comprendere quanti modi diversi ci siano<br />

per “conoscere” e come tale processo possa essere interpretato in modo del tutto particolare in termini di<br />

propagazione di una conoscenza originaria che si trasforma in conoscenza connettiva pronta, a sua volta,<br />

a diventare sapere applicativo per un utilizzatore finale di un’altra filiera cognitiva, all’origine di un altro<br />

processo produttivo. Per quanto quella di Enzo Rullani sia una proposta che mira ad analizzare i fenomeni<br />

economici in chiave knowledge-based, essa può essere considerata come un vero e proprio modo<br />

alternativo di vedere il mondo, riassumibile nel principio, solo apparentemente innocuo e ingenuo,<br />

secondo cui “la produzione di conoscenza avviene attraverso altra conoscenza” (Rullani 2004b) (N.d.A.).<br />

55


de France al Louvre e i moderni edifici dell’Istituto del Mondo Arabo, tra place Saint-<br />

Michel e i giardini del Luxembourg, nei vecchi quartieri degli editori e delle università,<br />

nelle numerose librerie o nella monumentale Bibliothèque François Mitterand, sede<br />

principale della Bibliothèque Nationale; un cineasta si dividerebbe tra il quartiere di<br />

Monparnasse o gli Champs Elysées, con le innumerevoli sale cinematografiche delle<br />

grandi società di distribuzione; un attore o un operatore dello spettacolo dal vivo<br />

lavorerebbero lungo i Grands Boulevards a nord di Parigi, sulla riva destra, tra il 9° o il<br />

10° arrondissement, dove si succedono decine e decine di storici teatri, cabaret e sale<br />

private; ancora, tra Montmartre, in place du Tertre o rue Lepic, o il Marais, tra rue<br />

Vieille du Temple e rue des Francs Bourgeois, tra il Centre Pompidou e Place des<br />

Vosges, si potrebbero concentrare pittori o galleristi.<br />

In ogni caso, ciascun ospite della Ville lumière avrà una esperienza personale,<br />

specifica e distintiva di alcuni punti della città piuttosto che di altri. Tale esperienza<br />

originaria potrà assumere strutture cognitive differenti. Durante la giornata di lavoro, il<br />

nostro professionista in trasferta potrebbe affidarsi all’utilizzo di una mappa turistica o<br />

limitarsi alla sola piantina della metropolitana fornita dagli uffici della RATP,<br />

restringendo il campo d’azione al tragitto dal proprio alloggio all’ufficio. Terminato il<br />

lavoro e desideroso di allargare i propri interessi alle zone limitrofe al proprio ufficio,<br />

alla ricerca di un buon ristorante tipico, potrebbe affidarsi ai racconti di una coppia di<br />

amici venuti a Parigi per il viaggio di nozze, rischiando magari di finire in uno degli<br />

scadenti locali del turistico e inflazionato quartiere di Saint-Michel, o dare fiducia alla<br />

guida del Touring Club Italiano acquistata preventivamente per l’occasione. Sempre il<br />

nostro professionista, per una ipotetica passeggiata domenicale nel suo quartiere o alla<br />

ricerca di una farmacia aperta, potrebbe seguire le indicazioni delle guide ai servizi della<br />

città forniti dall’Hotel de Ville o dal numero domenicale de Le Parisien, o accedere ad<br />

informazioni via internet sul clima o la viabilità nel caso decidesse di muoversi in<br />

automobile per trascorre il fine settimana nel verde dei boschi di Chantilly. In<br />

alternativa, e nel tentativo di dare un senso ad itinerari e percorsi sognati da tempo tra la<br />

lettura di un romanzo e la visione di una fiction televisiva, potrebbe decidere alternative<br />

diverse: seguire le orme di Casaubon alla ricerca del tragitto da questi realizzato dopo<br />

l’esperienza, tra il perverso e l’onirico, al Conservatoire des Arts et Métiers, magari<br />

dando un senso nuovo alle stesse strade che percorre durante la giornata di lavoro;<br />

oppure dedicarsi alla ricerca dei luoghi cari a Marcel Proust, recuperando una Parigi che<br />

in parte non esiste più; o, ancora, ricreare il percorso seguito dal protagonista di quel<br />

giallo di serie B che ha letto ultimamente, dal Louvre all’Ile de la Cité, magari alla<br />

ricerca delle location ufficiali della versione cinematografica; in alternativa, potrebbe<br />

ricostruire le tracce degli spazi dove si consumò la profonda e complessa relazione<br />

artistica e umana tra Pablo Picasso e Dora Maar, nei dieci anni che precedettero la fine<br />

della seconda guerra mondiale. In questo modo si forma la materia prima di un processo<br />

cognitivo che non termina con la conoscenza personale di punti specifici della città. Il<br />

nostro professionista, infatti, attraverso un meccanismo di “categorizzazione”, si può<br />

creare delle aspettative nei confronti dei luoghi frequentati: tale struttura cognitiva può<br />

essere rafforzata nel caso in cui l’aspettativa venga ogni volta confermata quando fa<br />

esperienza di altri luoghi; oppure può essere sottoposta a continue revisioni nel caso in<br />

cui ogni nuova esperieza risulti in grado di creare delle sorprese che permettono di<br />

aggiornare i frames precedenti 1 .<br />

1 In generare il lettore può fare riferimento al classico Neisser 1976; nel caso degli studi di organizzazione<br />

e management, il lettore può fare riferimento, tra gli altri, a: Weick 1979. Tra gli autori italiani che hanno<br />

56


A quel punto, con la sua conoscenza originale della città e con gli schemi di<br />

riferimento che riguardano anche punti di Parigi non direttamente “conosciuti” come gli<br />

altri, egli potrebbe avere il desiderio di trasferire questo sapere che è stato estratto da<br />

alcuni aspetti della sua esperienza personale ed esteso, nella sua “validità”, da tale<br />

esperienza diretta a quella di altri luoghi, per l’appunto non direttamente oggetto di<br />

esplorazione. E così come egli può aver fatto una esperienza di Parigi in molti modi<br />

differenti, alcuni complementari, altri tendenzialmente incompatibili o contradditori;<br />

altrettanto diversamente potrà trasferire questa conoscenza di quello “spazio aperto di<br />

possibilità” che è la “sua” città, ad altre persone che magari utilizzeranno quella<br />

conoscenza per altre applicazioni, attivando così un nuovo circuito cognitivo, di un’altra<br />

filiera (come detto, ad esempio, quella turistica). Ciò potrà avvenire, appunto,<br />

condividendo la sua mappa della città con un collega, magari arricchita di segni e<br />

percorsi alternativi tracciati con un evidenziatore colorato; oppure prestando a degli<br />

amici la sua guida turistica con molteplici note a margine; o ancora, scrivendo ad un<br />

amico di quella caratteristica cave, risalendo in rue Mouffetard, poco prima di prendere<br />

rue Descartes, dove ha trascorso delle splendide serate in compagnia di altri amici e<br />

colleghi nonché di quell’avvenente ricercatrice sétoise dell’Ecole des Mines,<br />

degustando gli ottimi vini francesi; oppure, suggerendo alla stessa coppia di sposi che lo<br />

avevano spedito in un ristorante di scadente qualità, di riscoprire gli antichi sapori di<br />

Parigi in quella trattoria ai piedi di Montmartre, a due passi dal “Lapin Agile”, dove una<br />

coppia di simpatiche sorelle parigine coltivano la tradizione culinaria d’Oltralpe; e<br />

magari, potrebbe indicare a quegli stessi amici di precedere la cena scoprendo, poco più<br />

a nord, anche la storia dei re di Francia e dell’evoluzione socio-politica di tutto il Paese,<br />

attraverso la visita di quel luogo carico di misterioso fascino che è la Basilica di Saint-<br />

Denis, raccomandando di chiedere espressamente alla biglietteria che sia l’effervescente<br />

Nicolas (grande esperto della Francia medievale) a far loro da guida.<br />

Lasciamo, per un attimo, N. ai suoi probabili ricordi parigini e alla parabola di<br />

Rullani: lo ritroveremo giusto alla fine di questo capitolo. Jerome Bruner, che già N.<br />

aveva interpellato altrove, la vedeva in modo del tutto simile, probabilmente spingendo<br />

fino in fondo la logica dei mondi possibili:<br />

«dal momento che è la mente stessa a costruire, di volta in volta, teorie scientifiche,<br />

spiegazioni storiche e interpretazioni metaforiche dell’esperienza mediante specifiche forme di<br />

costruzione del mondo, la vecchia discussione [tra scienza e umanesimo] si è spostata dal piano<br />

dei prodotti della ricerca scientifica e umanistica a quello dei processi della ricerca stessa. […]<br />

Attualmente è delle procedure che ci si occupa. Scienza e discipline umanistiche hanno finito per<br />

esser viste entrambe come prodotti artificiali della mente umana, come creazioni che scaturiscono<br />

da diversi modi di usarla. […] Entrambi sono, nel senso della logica modale moderna, collezioni di<br />

mondi possibili» (2005: 57, corsivo originale).<br />

Poco oltre, era ancora più esplicito: “per comprendere la condizione umana, capire<br />

quali sono i modi in cui gli esseri umani producono i loro mondi (e i loro castelli) è<br />

molto più importante che stabilire lo status ontologico dei prodotti di tali processi 1 ”.<br />

Quello che ci diceva Bruner circa la comprensione della condizione umana era<br />

strettamente legato a quella che Rullani chiama, appunto, “efficacia” della<br />

propagazione della conoscenza; in altri termini, questa: “deriva dall’interpretazione che<br />

introdotto la metafora evolutiva negli studi di management: Di Bernardo, Rullani 1985, 1990; Warglien<br />

1990 (N.d.A.).<br />

1 Bruner, 2005: 58 (N.d.A.).<br />

57


il soggetto dà della situazione in cui si trova e delle conoscenze di cui dispone.<br />

L’interpretazione è un atto autonomo del soggetto, che assegna valore ad una certa<br />

conoscenza in base alla sua capacità di definirne potenzialità e significati 1 ”.<br />

Tra le varie proprietà della conoscenza una di quelle più interessanti era quindi quella<br />

che fa diventare la generazione di valore un fenomeno endogeno al processo di<br />

produzione della conoscenza stessa. Questa andava vista, sostanzialmente, come “una<br />

esperienza riflessiva capace di retroagire sulle sue premesse 2 ”. In più punti del testo, in<br />

forma più o meno esplicita, il lettore si era già trovato di fronte al quesito: “in che modo<br />

le persone (e le organizzazioni) costruiscono la propria identità, situandola in un mondo<br />

che viene costruito allo stesso tempo? 3 ”. Soprattutto alla luce di quanto N. aveva fino ad<br />

ora inteso nelle pagine del suo libro, per discutere della riflessività ad un livello almeno<br />

intuitivo vorrei proporre al lettore un altro esempio proveniente dal mondo delle arti<br />

visive 4 .<br />

Nella stanza n° 12, al primo piano del Palazzo Villanueva di Madrid, sede delle<br />

collezioni d’arte del Museo del Prado, il visitatore potrà ammirare una grande tela ad<br />

olio (3,18 x 2,76 m.): l’osservatore attento vi riconoscerà uno dei capolavori della<br />

pittura spagnola del Seicento, il famoso “Las Meninas” di Diego Velázquez de Silva<br />

(figura 2).<br />

Questo dipinto costituisce un “caso” già piuttosto noto agli storici dell’arte ed ha<br />

incuriosito parecchio anche importanti filosofi e studiosi di estetica, non da ultimo<br />

Michel Foucault che lo ha commentato a fondo nel suo “Le parole e le cose” 5 .<br />

Anche dal mio punto di vista esso rappresenta una eccellente metafora per quel<br />

concetto di riflessività che è rimasto così a lungo sullo sfondo della trattazione nelle<br />

pagine precedenti:<br />

«Il pittore si tiene leggermente discosto dal quadro. Dà un’occhiata al modello; si tratta forse di<br />

aggiungere un ultimo tocco, ma può anche darsi che non sia stata stesa la prima pennellata. Il<br />

braccio che tiene il pennello è ripiegato sulla sinistra, in direzione della tavolozza; è, per un istante,<br />

immobile fra la tela e i colori. L’abile mano è legata allo sguardo; e lo sguardo, a sua volta, poggia<br />

sul gesto sospeso. Tra la sottile punta del pennello e l’acciaio dello sguardo lo spettacolo libererà il<br />

cuo volume» (p. 17).<br />

1 Rullani 2005b: 31, il corsivo è mio (N.d.T.).<br />

2 L’espressione è ancora di Rullani. Non è in questa sede che è possibile discutere in modo approfondito<br />

l’impatto della riflessività nelle scienze sociali: ad ogni buon conto, prendere seriamente in<br />

considerazione questa caratteristica della produzione di conoscenza, nella sua estensione alla metodologia<br />

economica, comporta fare a botte con una buona parte delle ipotesi fondanti del modello economico<br />

prevalente. In altri termini, argomentare intorno al tema della riflessività significa prendere seriamente in<br />

considerazione una caratteristica cognitiva che la maggior parte dei metodologi ortodossi, invece,<br />

apprezzano come il fumo negli occhi! Per una analisi su questo tema, quindi, si rinvia alla vastissima<br />

letteratura di metodologia e filosofia dell’economia: Guala 2006 (N.d.A.).<br />

3 Rullani 2004b: 346, il corsivo è mio (N.d.T.).<br />

4 Nella fase di utima stesura del presente lavoro, dopo aver già utilizzato questo esempio per completare<br />

le riflessioni su quella sezione del libro di N., trovai per caso un articolo di due studiosi, John B. Davis e<br />

Matthias Klaes, che, guarda caso, utilizzavano lo stesso esempio per introdurre il tema della riflessività<br />

negli studi di metodologia applicati all’economia. Il loro articolo, apparso sul Journal of Economic<br />

Methodology (n. 10, vol. 3, September 2003), si intitolava proprio: “Reflexivity: curse or cure?”. Il<br />

lettore potrà trovarci degli utili richiami ed una interessante trattazione sul principio di riflessività in<br />

economia (N.d.A.).<br />

5 Non è per caso che un particolare del dipinto appaia in copertina, tanto nell’edizione Gallimard<br />

originale dell’opera, quanto nella sua vecchia traduzione italiana – mi riferisco all’edizione della Rizzoli<br />

del 1967 (N.d.T.).<br />

58


Al primo livello del quadro (A), occupando tutta la parte sinistra, lo spettatore<br />

osserva ed è osservato dall’artista che si trova a destra del quadro a cui sta lavorando.<br />

Lo stesso osservatore, del quadro non può vedere che il retro e l’impalcatura che lo<br />

sostiene.<br />

Fig. 2 – <strong>DI</strong>EGO VELÁZQUEZ DE S<strong>IL</strong>VA, «Las Meninas», 1656, (Olio su tela, 3,18 x 2,76 m.), Madrid,<br />

Museo National del Prado.<br />

fonte: nostra elaborazione da immagine internet.<br />

Lo spazio in cui si svolge la scena non è particolarmente complicato. Probabilmente<br />

si tratta dello studio del pittore:<br />

«In apparenza, questo luogo è semplice; è di pura reciprocità: guardiamo un quadro da cui un<br />

pittore a sua volta ci contempla. Null’altro che un faccia a faccia, occhi che si sorprendono,<br />

sguardi dritti che incrociandosi si sovrappongono. E tuttavia questa linea sottile di visibilità<br />

avvolge a ritroso tutta una trama complessa d’incertezze , di scambi, di finte. Il pittore dirige gli<br />

59


occhi verso di noi solo nella misura in cui ci troviamo al posto del suo soggetto. Noi altri spettatori<br />

siamo di troppo» (p. 18).<br />

Ma a questo punto, quale è il soggetto del dipinto? Proviamo a spostare l’attenzione<br />

su un altro dettaglio: la finestra all’estrema destra del quadro ha la particolarità di essere<br />

percepita dell’osservatore pur non essendo visibile. Possiamo immaginare che ci sia in<br />

quanto un fascio di luce attraversa tutto il primo piano della rappresentazione:<br />

«La luce, inondando la scena (intendo la stanza non meno della tela, la stanza rappresentata<br />

sulla tela e la stanza in cui la tela è posta), avvolge personaggi e spettatori e li trascina, sotto lo<br />

sguardo del pittore, verso il luogo in cui il pennello li rappresenterà. Ma questo luogo ci è sottratto.<br />

Ci guardiamo guardati dal pittore e resi visibili ai suoi occhi dalla stessa luce che ce lo fa vedere»<br />

(p. 20).<br />

Ora il mio lettore-osservatore, in modo un po’ disattento, potrebbe farsi ingannare<br />

dal titolo dell’opera e potrebbe immaginare che Velázquez si limiti a giocare con lo<br />

spettatore, rappresentandosi mentre rappresenta ciò che noi vediamo in primo piano: la<br />

luce da destra arriva direttamente sul viso della bambina in primo piano, al centro della<br />

scena e rischiara le altre figure che la circondano. Di fatto, “las meninas” sono le figlie<br />

degli appartenenti alle famiglie della nobiltà spagnola e sono le dame di compagnia<br />

dell’infanta di Spagna: e la bambina in primo piano che si atteggia a piccola dama, la<br />

centro della tela, è effettivamente Margarita, figlia di Filippo IV e di Marianna<br />

d’Austria (livello B). Ma c’è di più: perché Velázquez dovrebbe rappresentare le<br />

damine e l’Infanta di Spagna visto che esse gli porgono le spalle? Forse vuole dirci che<br />

lui sta rappresentando ciò che “noi” e anche un “lui-esterno-al-quadro” stiamo vedendo?<br />

A ben vedere, i personaggi del quadro che abbiamo di fronte e in primo piano sono per<br />

lo più rivolti verso ciò che sta avvenendo davanti a loro. La messa in scena di<br />

Velázquez non convince quindi del tutto: chi è guarda chi? E in effetti, per<br />

comprenderla meglio è necessario alzare lo sguardo e cambiare “punto di vista”,<br />

esplorare il resto di questa stanza dalle alte pareti e con una accurata rappresentazione<br />

della profondità:<br />

«Ora, esattamente dirimpetto agli spettatori – a noi stessi –, suo mero che costituisce il fondo<br />

della stanza, l’autore ha rappresentato una serie di quadri; ed ecco che fra tutte queste tele sospese<br />

una brilla di singolare furore. La sua cornice è più larga, più scura di quella degli altri; ma una<br />

sottile linea bianca la ripete verso l’interno diffondendo su tutta la sua superficie una luce ardua da<br />

collocare, poiché non emana da alcun luogo se non da uno spazio che ad essa sia interno. In questa<br />

luce strana si mostrano due figure e sopra di esse, leggermente arretrato, un greve sipario<br />

porpora».<br />

L’arcano è presto svelato: non è un quadro, è uno specchio e questo spiega il motivo<br />

per cui i quadri attorno “lasciano vedere solo qualche macchia più pallida al margine”,<br />

mentre in quel contorno le due figure riconoscibili “si scagliano in un chiarore che<br />

appartiene soltanto ad esso” (livello C):<br />

«Vi sono è vero alcune teste che si presentano di profilo: ma nessuna è girata abbastanza per<br />

guardare, in fondo alla sala, questo specchio desolato, piccolo rettangolo lucente, che altro non è<br />

se non visibilità, ma prima di sguardi che possono farsene padroni, renderla attuale e godere del<br />

frutto all’improvviso maturo del suo spettacolo» (p. 21).<br />

60


È uno specchio che né il pittore né i personaggi i primo piano possono “vedere”,<br />

nonostante la sua centralità e le sue ipotetiche dimensioni che gli permettono di cogliere<br />

delle immagini che sono “oltre il quadro, nella regione necessariamente invisibile che<br />

ne forma la facciata esterna” (p. 21). Ancora con le parole di Foucault:<br />

«Anziché indugiare presso gli oggetti visibili lo specchio traversa l’intero campo della<br />

rappresentazione trascurando ciò che potrebbe captarne, e restituisce la visibilità a ciò che si<br />

mantiene fuori da ogni sguardo. L’invisibilità che esso supera non è quella di ciò che è occultato:<br />

non aggira un ostacolo, non svia una prospettiva, si rivolge a quanto è reso invisibile sia dalla<br />

struttura del quadro sia dalla sua esistenza come dipinto. Ciò che in esso si riflette è ciò che tutti i<br />

personaggi della tela stanno fissando, lo sguardo dritto davanti a sé; è dunque ciò che potrebbe<br />

essere veduto se la tela si prolungasse anteriormente scendendo ancora fino ad avvolgere i<br />

personaggi che servono da modelli al pittore» (p. 22).<br />

La riflessività è tutta racchiusa in questo esempio: “in fondo alla stanza, da tutti<br />

ignorato, lo specchio inatteso fa splendere le figure cui guarda il pittore (il pittore nella<br />

sua realtà rappresentata, oggettiva, di pittore al lavoro); ma altresì le figure che al<br />

pittore guardano (nella realtà materiale che linee e colori hanno deposto sulla tela)” (p.<br />

22: il corsivo è mio).<br />

In breve, Velázquez aveva realizzato un quadro che lo ritraeva nel suo studio (o forse<br />

in una sala dell’Escoriale) mentre dipingeva i due personaggi dello specchio, e a cui<br />

l’infanta Margherita veniva a porgere omaggio assieme a governanti, damigelle d’onore,<br />

cortigiani e nani (la bizzarra figura a destra, dietro il cane): i due modelli del pittore, a<br />

quel punto, non potevano che essere re Filippo IV e sua moglie Marianna.<br />

Un vivido esempio di struttura logica riflessiva, a cui Michel Foucault aveva dato<br />

forma attraverso l’interpretazione contenuta nel suo racconto.<br />

In sostanza, l’idea, neanche troppo celata, che anche il mio autore intendeva<br />

recuperare al termine di quella sezione, era che la narrazione, con le parole di Umberto<br />

Eco, «è un modo confortevole” di pensare alla realtà 1 »; ovviamente, il mio interesse,<br />

ora, restava quello di farne un “metodo” che risulti quanto meno funzionale allo studio<br />

della realtà organizzativa e dei problemi di gestione, esaltando quella caratteristica (la<br />

riflessività) che i più vedono come un ostacolo all’emancipazione scientifica del<br />

racconto.<br />

***<br />

Il 2001 doveva essere stato un anno particolarmente ricco di iniziative al Collége de<br />

France: sempre in una sua lezione di apertura, Hacking aggiunse che «[…] Quando<br />

discuto di scienze, filosofia e storia s’intrecciano».<br />

Tra gli epistemologi analitici Ian Hacking è un personaggio indefinibile e<br />

estremamente ineffabile, amante come egli è di quella sorta di approccio “storico” che<br />

lui stesso attribuisce a Michel Foucault, e quando introduce gli “stili di ragionamento”<br />

come modi nuovi di trovare la verità:<br />

«sono convinto che in materia di prova e di dimostrazione [della verità] ogni stile introduca un<br />

proprio tipo di criteri e determini le condizioni di verità proprie degli ambiti ai quali si applica Ciò<br />

mi porta a tesi decisamente radicali sulla verità e sull’oggettività, e sulla realtà degli oggetti<br />

scientifici stessi. Ritengo addirittura che uno stile crei i propri criteri di verità. Si autogiustifica».<br />

1 Eco 2005: 144 (N.d.A.).<br />

61


Uno dei saggi di Clifford Geertz, raccolti in “Antropologia Intepretativa 1 ”, aveva un<br />

titolo piuttosto evocativo: “Generi confusi: la rappresentazione allegorica del pensiero<br />

sociale”. Egli parlava di «mescolamento di generi e di stili di vita intellettuali 2 » e nella<br />

sostanza non faceva che argomentare ulteriormente su quella questione degli “stili di<br />

ragionamento”. Più in particolare faceva riferimento agli scienziati sociali: «[…] le<br />

analogie tratte dalle discipline letterarie stanno per giocare nella teoria sociologica il<br />

ruolo che la tecnologia e la maestria artigianale hanno a lungo giocato in quella fisica 3 ».<br />

Poco oltre, egli sottolineava come gli scienziati sociali, liberati dall’assurda ossessione<br />

di dover «mimare i fisici o essere astratti come gli umanisti», potevano dedicarsi alla<br />

loro vocazione e dare alle proprie opere (scritte) la forma che fosse più congeniale alle<br />

«loro necessità intrinseche piuttosto che secondo le idee ricevute su quello che<br />

dovrebbero o non dovrebbero fare 4 ». Il risultato era stato che:<br />

«[così] molti hanno utilizzato un approccio ermeneutico o, se questa parola ci spaventa<br />

rievocandoci immagini di zeloti biblici, di falsi intellettuali e di professori teutonici, un approccio<br />

“interpretativo”. […] Ma il cambiamento in direzione di una concezione della cita sociale come<br />

organizzata in termini di simboli […], i cui significati […] devono essere compresi se si vuole<br />

capire quell’organizzazione e formularne i principi, è oggi cresciuto in modo formidabile. Il<br />

campo è affollato di interpreti volenterosi» (ibidem: 28, il corsivo è mio).<br />

In quello scritto, il grande antropologo di Princeton fissava la provenienza di alcune<br />

delle analogie che, nell’ambito delle scienze sociali, stavano andando per la maggiore:<br />

l’analogia del gioco, quella del teatro e quella testuale 5 . Nel ricordare questo particolare,<br />

mi ritornò in mente un altro passo interessante nel suo ragionamento:<br />

«La chiave per il passaggio da un testo ad un testo analogico, dallo scrivere come discorso<br />

all’azione, è, come è stato definito da Paul Ricœur, il concetto di “trascrizione”: la fissazione del<br />

signigicato.<br />

[…] Il grande pregio dell’estendere il concetto di testo oltre le cose scritte sulla carta o incise<br />

nella pietra è che esso concentra l’attenzione precisamente su questo fenomeno: su come avviene<br />

la trascrizione dell’azione, quali sono i suoi veicoli e come funzionano e su quali implicazioni<br />

derivano per l’interpretazione sociologica della fissazione del significato sal fluire degli eventi – la<br />

storia da quanto è successo, il pensiero dal pensare, la cultura dal comportamento» (p. 40).<br />

1<br />

Qui N. si riferisce alla più recente edizione italiana, del 2004 (N.d.A.).<br />

2<br />

Geertz 2004: 25 (N.d.A.).<br />

3<br />

Ibidem: 25 (N.d.A.).<br />

4<br />

Ibidem: 27 (N.d.A.).<br />

5<br />

E’ indubbio che oggi una delle analogie che meglio “funzionano” negli studi di economia è quella del<br />

“gioco”. Ed è altrettanto interessante notare che alcuni dei filoni di ricerca più interessanti degli ultimi<br />

quattro o cinque decenni l’economia li abbia sviluppati con un dialogo serrato con un’altra scienza molto<br />

particolare come la psicologia, nell’ambito della c.d. “economia sperimentale”. Ad esempio, il lettore può<br />

fare riferimento alla scuola di pensiero di Amos Tversky e Daniel Kahneman, con i loro ingegnosi<br />

esperimenti sulla formazione delle aspettative e sull’aggiornamento delle credenze dei decisori in<br />

condizioni di incertezza: secondo le ricerche dei due studiosi, il giudizio umano in condizioni di<br />

incertezza diverge sistematicamente (e quindi anche in modo prevedbile) dalle leggi della probabilità<br />

solitamente utilizzate dalla teoria economica tradizionale (leggi neoclassica) (Motterlini, Guala 2005).<br />

Daniel Kahneman verrà insignito del premio Nobel per l’economia nel 2002, assieme a Veron L. Smith. I<br />

titoli delle Nobel Lectures dei due studiosi sono particolarmente significati: «Maps of Bounded<br />

Rationality: A Perspective on Intuitive Judgment and Choise» per Kahneman; «Constructivist and<br />

Ecological Rationality in Economics» per Smith. Non è neppure un caso che un altro “psicologo”, in<br />

tempi non sospetti (nel 1978), sia stato insignito del Nobel per l’economia, vale a dire Herbert A. Simon.<br />

A tal proposito sembra che la tendenza si stia confermando (N.d.A.).<br />

62


Nel fare questi collegamenti, la mia mente correva proprio a quell’aspetto solo<br />

accennato da Geertz, e che ritenevo fosse importante per la costituzione del concetto<br />

stesso di testo (narrativo) distinguendolo dai discorsi orali: mi riferivo alla funzione<br />

della lettura rispetto alla scrittura 1 . Ed è proprio questo collegamento tra lettura e<br />

scrittura che, al di là delle questioni di stile, permetterebbe l’ulteriore passaggio, solo<br />

anticipato nelle riflessioni precedenti, verso il concetto di interpretazione. Come<br />

evidenziava Paul Ricœur, il rapporto scrivere-leggere non era un caso particolare del<br />

rapporto parlare-rispondere. Il discorso scritto era legato all’intenzione del dire e la<br />

scrittura era un’iscrizione diretta di questa intenzione: nel momento in cui, storicamente<br />

e psicologicamente, la scrittura si metteva al posto della parola, questo segnava l’atto di<br />

nascita del testo quale oggetto meritevole di attenzione e di analisi 2 .<br />

Qualche precisazione, rispetto ai brevi richiami fatti da N.<br />

In «Tempo e Racconto» (vol. I), Ricœur sottolinea che la composizione dell’intrigo è<br />

radicato in quella che egli chiama “pre-comprensione” del mondo dell’agire,<br />

distinguendo le strutture intelleggibili, le risorse simboliche e il carattere temporale<br />

dell’azione. Se l’intrigo è, sostanzialmente, una imitazione dell’agire umano, per la sua<br />

interpretazione è richiesta una prima capacità di identificarne i caratteri “generali”<br />

attraverso i suoi tratti strutturali. Ciò è collegabile a quella che potrebbe essere definita<br />

come “semantica dell’azione”. In secondo luogo, se “imitare” comporta l’elaborazione<br />

di un significato “articolato” dell’azione stessa, l’attitudine a identificare ciò che siamo<br />

soliti chiamare mediatori simbolici dell’azione è direttamente collegabile all’adozione<br />

di una prospettiva che è tipica dell’antropologia culturale. Infine, le stesse articolazioni<br />

simboliche dell’azione sono portatrici di un altro tratto caratteristico più propriamente<br />

temporale, da cui deriva la capacità dell’azione ad essere “raccontata” e, forse, il<br />

bisogno stesso di raccontarla 3 .<br />

Elementi strutturali, simbolici e temporali richiamano quindi alla natura<br />

fenomenologica dell’azione umana 4 . Ciò è particolarmente interessante in quanto la<br />

fenomenologia potrebbe costruire un ponte tra antropologia ed ermeneutica, passando<br />

agli studi del linguaggio e a quelli, particolarmente interessanti, di semiotica.<br />

Recuperando l’idea di Ricœur, Barbara Czarniawska la riassume efficacemente in questi<br />

termini 5 :<br />

1<br />

E’ soprattutto in Paul Ricœur che ho ritrovato questi concetti. L’espressione specifica usata nel testo da<br />

N. si riferisce a Ricœur 1986: 155 (N.d.A.).<br />

2<br />

Ricœur 1986 (N.d.A.).<br />

3<br />

Con riferimento al progetto di ricerca di N., c’è un qualche rapporto (magari di convergenza o di<br />

inclusione) tra queste due prospettive (antrologica e ermeneutica)? Probabilmente sì, e lo stesso autore,<br />

magari intimamente, ne è profondamento convinto, ma: (i) non è in questa sede che egli ritiene di poter<br />

discutere di questo aspetto e, (ii) non è l’intenzione di chi scrive trovare (a tutti i costi) una qualche<br />

relazione tra le due prospettive, attraverso il loro (semplice) accostamento nella costruzione della struttura<br />

portante del suo studio (N.d.A.).<br />

4<br />

In un famoso colloquio tra un altro antropologo, Lévy-Strauss, e alcuni filosofi, tra cui lo stesso Ricœur,<br />

negli anni Sessanta, venne approfondita la ricerca di un punto di incontro tra linguistica e antropologia,<br />

passando per la fenomenologia. Ne emerse come la fenomenologia, essendo stata in grado di dialogare<br />

con la filosofia analitica o con i tentativi di oggettivazione del significato dei testi (operati attraverso<br />

dall’ermeneutica), poteva offrire anche il terreno di incontro e sintesi tra l’esperienza del significato e<br />

l’affermazione “logica” e “ontologica” del vero, o meglio, per trovare una soluzione accettabile al<br />

dilemma tra senso e verità. Recentemente quell’incontro è stato ripubblicato dalla rivista … (N.d.A.).<br />

5<br />

L’attenzione del lettore, in questo caso, dovrebbe soffermarsi sulla questione dell’infinita diatriba tra<br />

spiegare e comprendere o tra spiegare e interpretare. Benchè sia più comune e frequente che i termini del<br />

63


«la “comprensione” può essere riconciliata con la “spiegazione” nell’interpretazione di un testo<br />

(combinando l’ermeneutica e la semiotica), allo stesso modo in cui le “motivazioni” si possono<br />

riconciliare con le “cause” nell’interpretazione dell’azione umana. All’interno del mondo logico<br />

scientifico di sapere si ottiene una spiegazione riconoscendo un evento come un caso di una legge<br />

generale, o come appartenente a una certa categoria. All’interno del modo narrativo di sapere, una<br />

spiegazione consiste nel collegare un evento a un progetto umano» (Czarniawska 2000: 27, il<br />

corsivo è mio).<br />

Piuttosto che restare a metà del guado oscillando tra una direzione e l’altra a seconda<br />

della convenienza del momento, svilendo approcci diversi, si può perseguire un utile<br />

collegamento nel porsi il problema del linguaggio e del senso, ovvero tra la logica<br />

dell’interpretazione che può essere data ad un testo, la sua struttura di senso (derivante<br />

dalla cooperazione da parte tra l’autore e il “suo” lettore modello) e quella<br />

dell’intenzionalità che guida l’agire di un attore sociale. Ma torniamo in libreria,<br />

quando, tra gli scaffali di legno, venuto buio, N. cercava conforto in un po’ di luce<br />

artificiale.<br />

Tutti questi riferimenti scaturirono direttamente dalla questione così come la trovai<br />

ben espressa in una pagina del mio libro: «Un problema che ha fatto versare fiumi di<br />

inchiostro a logici e filosofi, è quello dello status ontologico dei personaggi, e degli<br />

oggetti che appaiono in un romanzo, e di che cosa significa dire “p è vero” quando p è<br />

una proposizione che non riguarda il mondo reale ma un mondo finzionale» (p. 128).<br />

Avevo già trovato un cenno a questo aspetto, nel capitolo precedente ma in effetti, il<br />

continuo intrecciarsi degli eventi riportati nel mio libro mi portava ora a ritornare su<br />

quel tema e ad approfondirne un aspetto differente: «che cosa accade quando in un testo<br />

narrativo l’autore pone, come un elemento del mondo reale (che fa da sfondo al mondo<br />

possibile della finzione) qualcosa che nel mondo reale non esiste e non si è mai<br />

verificato?» (p. 124). A quel punto, per completare il quadro era necessario fare un<br />

ulteriore passo per esplicitare due degli elementi più controversi legati alla produzione<br />

di sapere attraverso il racconto. La questione, posta in modo un po’ fazioso, era la<br />

seguente: la finzione narrativa era uno dei possibili modi di strutturare la conoscenza?<br />

E se si, per quale motivo l’interpretazione di fenomeni economici reali, realizzata<br />

attraverso il racconto, dovrebbe essere considerata meno “realistica” e veritiera della<br />

spiegazione dello stesso fenomeno attraverso la finzione derivante, ad esempio,<br />

dall’elaborazione di dati sotto forma di formule econometriche?<br />

Sul primo aspetto N. avrebbe riflettutto a partire dal “caso di Rue Servandoni”, che<br />

l’autore del testo aveva riscontrato dalla lettura dei «Tre moschettieri» di Dumas. La<br />

seconda questione… sarebbe stata logica conseguenza della prima.<br />

«Non appena arrivato a Parigi d’Artagnan prende alloggio in Rue des Fossoyeurs, la<br />

casa di Monsieur Bonacieux (capitolo 1). Il palazzo del signor di Tréville, in cui si reca<br />

dibattito siano gli ultimi due (vale a dire spiegazione e intepretazione), io preferisco rifarmi a quanto<br />

afferma, tra gli altri, Paul Ricœur e ricondurmi alla distinzione tra spiegazione e comprensione. E questo<br />

per una chiara scelta “di campo” che N. sta cercando di proporci. Nella sostanza, se si considera come<br />

punto di partenza degli studi di economia e di management l’interesse per aspetti differenti del<br />

comportamento umano e per l’azione (o l’agire) intenzionale tra attori che operano in un dato “sistema di<br />

relazioni” (in questo caso, di tipo economico), quando si fa ricorso all’idea più ampia di<br />

“interpretazione”, anche nelle scienze sociali e negli studi di management risulta possibile fare dialogare<br />

tra loro almeno tre diverse tradizioni di ricerca che abbracciano discipline specifiche: ermeneutica<br />

letteraria, fenomenologia e pragmatismo, con i collegamenti alla sociologia e all’interazionismo<br />

simbolico da una parte e gli studi antropologici e l’etnometodologia dall’altra (N.d.A.).<br />

64


subito dopo, è in Rue du Vieux Colombier (capitolo 2). Solo nel capitolo 7 apprendiamo<br />

che in quella stessa via abita anche Porthos, mentre Athos abita in Rue Férou. Oggi Rue<br />

du Vieux Colombier traccia il lato nord dell’attuale Place Saint-Sulpice, mentre Rue<br />

Férou si innesta perpendicolarmente sul lato sud, ma al tempo in cui svolgono i Tre<br />

moschettieri la piazza non esisteva ancora [figura 3].<br />

Dove abitava quell’individuo reticente e misterioso che era Aramis? Lo scopriamo<br />

nel capitolo 11, dove veniamo a sapere che abita su un angolo di Rue Servandoni, e se<br />

guardate una mappa di Parigi […] vi accorgerete che Rue Servandoni è la prima via<br />

parallela a est di Rue Férou» (p. 124).<br />

La complicazione del capitolo di Dumas era legata ad un incontro fortuito che<br />

d’Artagnan fece proprio all’angolo di Rue Servandoni. Infatti, «dopo aver fatto visita al<br />

signor di Trénville, in Rue du Vieux Colombier, d’Artagnan (che non vuole rientrare a<br />

casa propria, ma vuole passeggiare pensando con tenerezza all’amata Madame<br />

Bonacieux) ritorna – dice il testo – prendendo il cammino più lungo. Ma noi non<br />

sappiamo dove sia Rue des Fossoyeurs e se guardiamo la mappa di Parigi attuale non la<br />

troviamo. Seguiamo allora d’Artagnan [che] gira per Rue du Cherche Midi (che allora,<br />

avverte Dumas, si chiamava Chasse-Midi), passa per una stradina che si apriva dove c’è<br />

oggi Rue d’Assas, e che doveva essere Rues des Carmes, sfiora Rue de Vaugiard, poi<br />

gira a sinistra perché “la casa dove abitava Aramis si trovata situata tra Rue Cassette e<br />

Rue Servandoni”.<br />

Probabilmente da Rue des Carmes d’Artagnan taglia per alcuni terreni che si<br />

distendevano accanto al convento dei carmelitani scalzi, incrocia Rue Cassette, imbocca<br />

Rue des Messiers (oggi Mezières) e dovrebbe in qualche modo attraversare Rue Férou<br />

(allora Ferrau), dove abita Athos, senza rendersene neppure conto […]. Se la casa di<br />

Aramis si trovava tra rue Cassette e Rue Servandoni, dovrebbe essere stata in Rue du<br />

Canivet, anche se pare che nel 1625 Rue du Canivet non fosse stata ancora aperta. Ma<br />

doveva essere esattamente all’angolo di Rue Servandoni […] perché d’Artagnan,<br />

proprio di fronte alla casa dell’amico, vede un’ombra (si scoprirà poi che era Madame<br />

Bonacieux) uscire da Rue Servandoni» (p. 125-126).<br />

Ma dove stava il problema che il mio autore voleva sottolineare? Ebbene, nel<br />

capitolo in cui l’intrigo doveva complicarsi, Dumas aveva commesso un errore piuttosto<br />

pacchiano, lui che fino a quel momento era stato così preciso e impeccabile nel<br />

raccontarci la “verità”. Aramis non poteva infatti abitare all’angolo di Rue Servandoni<br />

nel 1625: Giovanni Niccolò Servandoni, essendo nato nel 1695, disegnò la splendida<br />

facciata della chiesa di Saint-Sulpice nel 1733 e quella via gli sarà dedicata solo nel<br />

1806. Forse non era un caso che proprio il capitolo 11 dei «Tre moschettieri», laddove<br />

c’era la svista su Rue Servandoni, si intitoli “L’intrigue se noue”, vale a dire “L’intrigo<br />

si complica”: «si potrebbe ipotizzare che l’allusione a Rue Servandoni non fose un<br />

errore, ma un indizio.<br />

Dumas aveva disseminato quella “traccia” ai “margini” del testo; voleva farci capire<br />

che ogni testo di finzione contiene una contraddizione fondamentale per il fatto stesso<br />

che cerca disperatamente di far coincidere un mondo fittizio con quello reale. Dumas<br />

voleva dimostrare che ogni finzione è autocontradditoria.<br />

Il titolo del capitolo, “L’intrigue se noue”, non si riferiva solo agli amori di<br />

d’Artagnan o della regina, ma alla natura stessa della narratività» (p. 138). Ma c’era di<br />

più nascosto tra le righe, un problema “filosofico” ben più sottole e affascinante.<br />

65


Fig. 3 - Una mappa della Parigi moderna e il possibile percorso di d'Artagnan<br />

fonte: Eco 2005<br />

66


«Dov’era Rue des Fossoyeurs in cui abitava d’Artagnan? Ora, questa via esisteva nel<br />

XVII secolo e oggi non c’è più per un fatto semplicissimo: la vecchia Rue des<br />

Fossoyeurs era quella che oggi si chiama Rue Servandoni. Dunque (i) Aramis abitava in<br />

un luogo che nel 1625 non esistenva con quel nome, (ii) d’Artagnan abitava nella stessa<br />

via di Aramis senza saperlo, anzi si trovava in una situazione ontologicamente assai<br />

curiosa: credeva che esistessero nel suo mondo due vie con due nomi diversi mentre –<br />

nella Parigi del 1625 – esisteva una sola via con un solo nome» (p. 129: il corsivo è<br />

mio). Una precisazione importante: «Nel testo dei Tre moschettieri non ci dice che<br />

d’Artagnan era arrivato a quella che egli “credeva” essere Rue Servandoni. Il testo ci<br />

dice che d’Artagnan era arrivato a quella che il lettore deve ritenere che fosse davvero<br />

Rue Servandoni» (p. 131).<br />

Per uscire da questa specie di impasse, era sufficiente abbandonare il problema<br />

«dell’ontologia dei mondi possibili» per tornare a discutere della «posizione del lettore»<br />

(p. 131). Per questo passaggio l’autore richiamava un altro concetto legato al problema<br />

dell’interpretazione dei testi narrativi: «Per sapere chi era Servandoni occorre una buona<br />

cultura artistica, e per sapere che Rue des Fossoyeurs era Rue Servandoni occorre una<br />

cultura molto specialistica. E’ impossibile che il testo di Dumas, che si presenta<br />

stilisticamente e narrativamente come un romanzo storico popolare, si rivolga a un<br />

lettore talmente sofisticato 1 » (p. 132). Il problema, dunque, «non riguarda l’ontologia<br />

dei personaggi che abitano mondi narrativi, ma il formato dell’Enciclopedia del lettore<br />

modello» (p. 133: il corsivo è mio). I termini della questione erano facilmente<br />

riassumibili con l’espressione di Umberto Eco “la compentenza del destinatario non è<br />

necessariamente quella dell’emittente 2 ”.<br />

Trovai interessante quel caso di via Servandoni ne «I tre moschettieri» collegato<br />

all’incendio nella Parigi del «Pendolo di Foucault» e all’esempio utilizzato da Rullani<br />

per introdurre l’analisi del ciclo di produzione della conoscenza: e l’interesse non era<br />

legato solo alla omogeneità nell’oggetto (l’esempio della città) e a questioni di storia<br />

dell’urbanistica e di toponomastica (vie che formano un tragitto, che esistono,<br />

scompaiono o riappaiano nel tempo).<br />

Storia e teorie letterarie, richiami più o meno espliciti a teorie del linguaggio,<br />

semiotica e antropologia, esortazioni, nascoste tra le righe, a collegare sociologia e studi<br />

di management: a prima vista, il lettore potrebbe trovare tutto questo una sorta di gran<br />

1 In un’altra parte del testo, l’autore sottolinea: «Perché non accetteremmo che d’Artagnan svoltasse per<br />

via Bonaparte e invece accettiamo che svolti per via Servandoni? E’ ovvio: perché quasi tutti sanno che<br />

era impossibile che nella Parigi del XVII secolo esistesse una Rue Bonaparte, mentre pochissimi sanno<br />

che non poteva esistere Rue Servandoni, e la prova è che non lo sapeva neppure Dumas. […] Il lettore<br />

modello previsto dai Tre moschettieri ha curiosità e gusto per la ricostruzione storica non erudita, conosce<br />

Bonaparte, ha un’idea abbastanza vaga della differenza tra il regno di Luigi XIII e quello di Luigi XIV,<br />

tanto che l’autore gli fornisce molte informazioni sia all’inizio sia nel corso del racconto, non intende<br />

andare negli archivi nazionali per controllare se esistesse davvero all’epoca un conte di Rochefort» (p.<br />

133-134) (N.d.T.).<br />

2 Eco 2004a: 53. Inoltre, nel suo “Trattato”, Eco sottolinea come il modello comunicativo “tradizionale”<br />

con un Emittente, un Messaggio e un Destinario, dove il messaggio viene sia generato che interpretato<br />

sulla base di un codice, costituisce uno schema utile ma abbastanza semplificato. Oramai sappiamo che i<br />

codici del destinario possono variare, totalmente o in parte, dai codici dell’emittente, che il codice non è<br />

un’entità semplice ma più spesso “un complesso sistema di sistemi di regole” (1975), e il teatro ne è un<br />

buon esempio (Elam 1988), che il codice linguistico (da solo) non è sufficiente per comprendere un<br />

messaggio linguistico (N.d.A.).<br />

67


calderone teorico, un minestrone filosofico e interdisciplinare apparentemente “senza<br />

senso”. Per mettere un po’ d’ordine, proporrei uno schema che mi parve interessante 1 .<br />

Riprendendo la parabola della città e adottando la prospettiva di Enzo Rullani, questi<br />

ci suggeriva che linguaggi e pratiche altro non sono che alcuni dei possibili “materiali<br />

cognitivi” che, attraverso specifici “macchinari” (linguaggi e pratiche), vengono usati<br />

per una delle possibili “lavorazioni” specifiche della conoscenza, vale a dire per la sua<br />

“strutturazione”. Tali macchinari non farebbero altro che usare altre strutture cognitive<br />

come materia prima (conoscenza originaria) per validare altra conoscenza, in quello che<br />

è un processo “riflessivo”, in cui la conoscenza finale (applicativa) ha la caratteristica di<br />

essere in grado di rendere conto della sua produzione: l’oggettività farebbe quindi<br />

riferimento a questa capacità “interpretativa” della conoscenza di mostrare, a livelli<br />

differenti, le condizioni stesse della propria esistenza.<br />

Nel caso del nostro professionista che aveva soggiornato a lungo a Parigi, prima che<br />

questi possa propagare la “sua” conoscenza della città rendendola disponibile ad un<br />

gruppo di amici perché questi ultimi la possano utilizzare, ad esempio, per fini turistici,<br />

era necessario che trasformasse la sua conoscenza originaria dei luoghi della città che<br />

aveva frequento in “conoscenza connettiva” sulla stessa: dapprima, dando una struttura<br />

particolare alla “sua” specifica conoscenza di alcuni luoghi della città, ad esempio,<br />

privilegiandone i significati più simbolici; quindi riproducendo tale conoscenza, ad<br />

esempio, dandole la forma di un racconto o considerando gli aspetti estetici e culturali<br />

derivanti dai linguaggi che ha utilizzato per interpretare tali simboli; poi, diffondendola<br />

attraverso i suoi canali personali e la conoscenza diretta degli amici a cui decide di<br />

raccontare il suo soggiorno o di mostrare i souvenirs in cui egli ha “reificato” parte degli<br />

aspetti simbolici che aveva catturato; infine, rendendo “sostenibile” tale trasferimento<br />

facendo “dono” della sua conoscenza al gruppo ristretto degli amici, sicuro di fare in<br />

questo modo un investimento di tipo affettivo e relazionale.<br />

La rappresentazione della figura 4, che mi portavo dietro da tempo, disegnata su un<br />

foglio oramai logoro con i margini quasi sbocconcellati, può fornire al lettore un quadro<br />

complessivo del fenomeno della strutturazione (cioè della “validazione”) della<br />

conoscenza su cui stava ragionando N.<br />

L’analisi di quella fase specifica (quella della strutturazione) del processo di<br />

produzione della conoscenza così come me la proponeva Rullani (e così come la<br />

auspicano Bruner e altri studiosi), mi sembrava collegata direttamente alla questione<br />

della qualità dei contenuti del discorso narrativo 2 .<br />

La “validità” del pensiero narrativo e del pensiero paradigmatico, per usare il<br />

linguaggio di Bruner, andrebbe quindi considerata a partire dalla qualità dei mediatori<br />

logici (dati, informazioni, rappresentazioni, funzioni, significati e senso) che vengono<br />

1 Ora, il mio punto di osservazione cambia e, sebbene legato ad alcuni richiami di ordine epistemologico,<br />

tralascia volutamente gli aspetti legati ai principi di validazione del sapere scientifico (lasciamo che<br />

filosofi della scienza facciano il loro lavoro) e cerco di posizionarmi ad un livello probabilmente più<br />

banale e scontato, osservando come “funziona il processo” piuttosto che di capire perché funziona così –<br />

la qual cosa può anche implicare la prima… ma è il punto di partenza del ragionamento che conta e che<br />

vorrei ribaltare. Il lettore attento avrà già obiettato che io stesso, prendendo questa posizione, non farò<br />

altro che proporre una “teoria” su come voglio osservare le cose: ne sono consapevole, ma al momento<br />

non riesco a trovare modo migliore per abbordare la questione che intendo porre alla sua attenzione. Ma<br />

seguiamo N. nel suo racconto, mentre fa dialogare tra loro testi diversi, partendo dalle pagine del suo<br />

libro (N.d.A.).<br />

2 Più avanti nel testo il lettore ritroverà questa rappresetanzione per l’analisi di aspetti del tutto collegati a<br />

quelli evidenziati qui (N.d.A.).<br />

68


utilizzati negli specifici processi di trasformazione che rendono connettiva la<br />

conoscenza originaria, diventando quindi pronta ad essere trasferita ad un campo di<br />

applicazione diverso da quello di partenza.<br />

Fig. 4 - La strutturazione della conoscenza, secondo Rullani<br />

fonte: nostra elaborazione da Rullani 2004b<br />

Con le parole di Barbara Czarniawska:<br />

«Il punto non è dimostrare che l’interpretazione può essere una versione del paradigma<br />

positivista [anzi!]. La differenza sta nel percepire come “naturale” il linguaggio dei numeri (che<br />

stanno quindi senza dubbio per dei referenti nella realtà), e nel trattarlo come convenzionale,<br />

insieme con il linguaggio letterario. In quest’ultima prospettiva, la scelta tra numeri e parole è né<br />

più né meno una scelta comunicativa» (p. 91).<br />

Non è un caso che, nella sua rappresentazione, Rullani tagli lo schema in due assi<br />

distinguendo strutture cognitive naturali/artificiali o riflessive/lineari: i dati, quale<br />

materia prima da cui derivano, per inferenza, le leggi causali, non è un mediatore logico<br />

meno “naturale” del senso attribuito ad una esperienza e del significato semantico che<br />

ne permette il racconto, con i quali condivide l’innato collegamento con il reale che<br />

hanno anche le pratiche e i linguaggi; ma in effetti, rispetto a questi ultimi due, i dati<br />

non sono in grado di rendere conto completamente dell’inclusione dell’osservatore nel<br />

contenuto delle conoscenze che vorrebbe esplorare/ricercare (come le strutture<br />

riflessive), in quanto hanno natura tendenzialmente oggettiva rispetto al mondo<br />

osservato (strutture lineari).<br />

Nessuna delle possibili strutture cognitive che il nostro amico poteva scegliere<br />

all’inizio per “conoscere” Parigi era, “a posteriori” e in assoluto, la migliore; ed era<br />

una questione abbastanza inutile domandarsi “quali” materie prime vengano adottate o<br />

sia meglio adottare dalle/nelle due prospettive di Bruner (narrativa e paradigmatica).<br />

Utilizzare come sistema di demarcazione la discriminazione sul tipo di materie prime<br />

utilizzate mi appariva decisamente un “metodo” povero per capire chi produce<br />

conoscenza più vera, ovvero “buona conoscenza” dal punto di vista scientifico. Più<br />

69


interessante, ragionevole e pragmatico mi sembrava, invece, domandarsi quali<br />

trasformazioni subissero (quindi quale processo portava alla trasformazione della<br />

conoscenza) le migliori materie prime selezionate dalle esperienze “reali”, utilizzando<br />

al meglio le “lavorazioni tecniche” specifiche: nel nostro caso, le lavorazioni del sapere<br />

sono di tipo narrativo, e per arrivare a fare di un’esperienza “vera” (una conoscenza<br />

originaria) un racconto “coinvolgente” da cui l’autore e il lettore possano trarre una<br />

interpretazione (una teoria, e quindi una conoscenza applicativa) direttamente dai fatti<br />

narrati, è necessario tenere conto tanto della qualità dei significati che essa “genera”<br />

quanto della qualità del “linguaggio” che è espressione di tali significati.<br />

Se doveva essere la questione del “metodo” a dover discriminare tra la buona e la<br />

cattiva produzione di conoscenza, ebbene, era il controllo di qualità sul processo di<br />

lavorazione della conoscenza che meritava di essere analizzato e non il risultato: infatti,<br />

il punto di partenza di ogni processo di produzione di conoscenza era una qualche altra<br />

struttura cognitiva che a sua volta non mi sembrava più o meno “realistica” di altre 1 .<br />

Ciò a cui stavo dando rilievo in quel momento era che l’idea di riflessività fosse<br />

particolarmente evidente e assumesse un ruolo forte nel caso della teoria costruita come<br />

narrazione. Quindi lo stile e la tecnica (il linguaggio) non erano fini a se stessi e<br />

risultavano assolutamente strumentali alle questioni epistemologiche di fondo, tant’è<br />

che per essere coerenti con quel modo (e con i vari modi) “di costruire la teoria<br />

attraverso una narrazione” era necessario essere in grado di adoperare al meglio alcuni<br />

accorgimenti (di metodo), né più e né meno che per il caso dell’elaborazione di una<br />

legge causale attraverso il trattamento dei dati o per la costruzione di un algoritmo a<br />

partire dalla trasformazione di informazioni, in cui era necessario padroneggiare il<br />

linguaggio e le tecniche statistico-matematiche.<br />

A questo punto forse il lettore sarà meno ingenuo e farà maggiore attenzione quando<br />

si troverà ad analizzare il modo in cui è scritto un testo scientifico: coerenza tra metodo<br />

e teoria, tra tecnica e approccio epistemologico sottostante (tra mediatori logici e<br />

strutture cognitive nel linguaggio di Rullani) non vanno valutati aprioristicamente, in<br />

modo naif o sulla base di pregiudizi; l’oggettività dei fatti oggetto di interpretazione<br />

passa (anche) per il controllo del metodo ma questo significa essere capaci di<br />

maneggiare con cura e padroneggiare le relative tecniche per strutturare “al meglio”<br />

saperi differenti 2 .<br />

Ma «quale è la morale di questa storia? Che i testi finzionali vengono in soccorso<br />

della nostra pochezza metafisica. Noi viviamo nel gran labirinto del mondo […] di cui<br />

1 In altri termini, non è l’analisi di un racconto nel suo aspetto finale o la forma più o meno complessa di<br />

un algoritmo a definire la validità del sapere da essi prodotto, ma sono la qualità della materia prima che<br />

essi utilizzato come struttura cognitiva e dei processi di trasformazione di queste conoscenze fondanti a<br />

dover essere sottoposti ad analisi. Ciò che conta è: da un lato, l’attenzione nell’ottenimento e nella<br />

manipolazione dei dati e delle informazioni utilizzati nonché nelle regole attraverso cui vengono elaborati<br />

sotto forma di leggi causali o di algoritmi; e dall’altro lato, ciò che conta sono le esperienze oggetto di<br />

narrazione e la qualità delle tecniche narrative (e linguistiche) con cui vengono manipolate per portare<br />

all’interpretazione del racconto (N.d.T.).<br />

2 L’interesse spasmodico per il metodo (ovvero per l’individuazione di criteri di demarcazione tra<br />

“buona” e “cattiva” conoscenza) sembra aver lasciato in secondo piano l’aspetto veramente centrale del<br />

processo: quello che dovrebbe essere un aspetto strumentale (appunto le “pratiche” per la validazione del<br />

sapere), sta prendendo il sopravvento sulla questione principale (la struttura del sapere prodotto),<br />

causando un inconsapevole (forse) predilizione per quelle strutture del sapere che si lasciano “validare”<br />

più facilmente, vale a dire, il c.d. pensiero scientifico, o paradigmatico (per usare l’espressione di Jerome<br />

Bruner) a scapito di strutture cognitive come il pensiero narrativo, più difficili da “maneggiare” con gli<br />

strumenti “metodologici” (leggi di “validazione”) di cui disponiamo (N.d.T.).<br />

70


non solo non abbiamo ancora individuato tutti i sentieri, ma neppure riusciamo a<br />

esprimere il disegno totale» (p. 141). La metafisica del lettore di primo livello, ad<br />

esempio, di un romanzo poliziesco (che tanto sembra essere tornato di moda oggi), ma<br />

anche di un testo scientifico “moderno”, è legata alla fatidica domanda “Chi è stato?”.<br />

Ma «il lettore di secondo livello si chiede di più: come debbo identificare (per<br />

congettura) o addirittura come debbo costruire l’autore modello perché la mia lettura<br />

abbia un senso?» (p. 142).<br />

Quel capitolo, il penultimo, si concludeva con due paragrafi che consegno<br />

all’attenzione del mio lettore: «[…] questa interrogazione [continua], benché<br />

potenzialmente infinita, viene limitata dal formato ridotto dall’Enciclopedia richiesta da<br />

un’opera di finzione, mentre non siamo affatto sicuri che il mondo reale, con tutte le sue<br />

infinite possibili repliche, sia finito e illimitato o infinito e limitato. Ma c’è anche<br />

un’altra ragione per cui la narrativa ci fa sentire a nostro agio rispetto alla realtà. C’è<br />

una regola aurea per ogni criptoanalista o descrittore di codici segreti, e cioè che ogni<br />

messaggio può essere decrittato purché si sappia che si tratta di un messaggio. Il<br />

problema col mondo reale è che ci stiamo chiedendo da millenni se ci sia un messaggio<br />

e se questo messaggio abbia un senso. Con un universo narrativo noi sappiamo per certo<br />

che esso costituisce un messaggio e che un’autorità autoriale sta dietro a esso, come sua<br />

origine e come insieme di istruzioni per la lettura» (p. 143).<br />

Se il lettore prova a riflettere su questo passo, solo apparentemente scritto da un<br />

sofista, si potrebbe provare a rileggere in modo un po’ più critico e attento la logica<br />

“modernista” che domina gli attuali discorsi sul metodo nelle scienze economiche,<br />

secondo cui “noi conosciamo solo ciò di cui non possiamo dubitare e non possiamo<br />

sapere per certo ciò che ci trova semplicemente d’accordo 1 ”.<br />

***<br />

Alla luce di quanto avevo letto fino a quel momento, affermare che un testo narrativo<br />

fosse «[…] un prodotto la cui sorte interpretativa deve far parte del proprio meccanismo<br />

generativo 2 » costituiva indubbiamente una buona definizione. Visto in questi termini,<br />

un racconto era qualcosa di più di una “approssimazione” alla realtà e la cooperazione<br />

del lettore era una condizione fondamentale per l’attualizzazione di un testo, costituito<br />

nella sua forma linguistica (superficiale) da una catena di artifici espressivi 3 . Il pensiero<br />

narrativo di Bruner si occupava, guarda caso:<br />

“delle intenzioni e delle azioni proprie dell’uomo o a lui affini, nonché delle vicissitudini e dei<br />

risultati che ne contrassegnano il corso. Il suo intento è quello di calare i propri prodigi atemporali<br />

entro le particolarità dell’esperienza nel tempo e nello spazio” (2005: 18).<br />

Cominciai a considerare quanto seria fosse la proposta che veniva chiaramente<br />

avanzata nell’ultima sezione del mio libro: “leggere la realtà come se fosse finzione e la<br />

finzione come se fosse realtà”, cosa che, sempre come suggerisce Umberto Eco,<br />

generava quella “con-fusione” di pratiche che potrebbero permettere di cogliere ciò che<br />

egli stesso definisce come “la piacevole innocenza o la tragica preoccupazione” che<br />

sono propri del realistico agire umano.<br />

1<br />

La definizione non è mia ma è ripresa da Donald McCloskey: McCloskey, 1986: 19 (N.d.A.).<br />

2<br />

Eco 2004 (N.d.A.).<br />

3<br />

Eco 2004a, Bruner 2005, Genette 1972, Isler 1978 (N.d.A.).<br />

71


Come collegare allora, l’idea di interpretazione dei fenomeni con la logica del<br />

pensiero narrativo quale fondamentale dimensione cognitiva dell’uomo che si<br />

preoccupa di studiare i fenomeni stessi nei contesti (di ricerca) di cui gioco forza egli<br />

stesso è parte? L’autore del libro si poneva nella sostanza delle questioni non dissimili<br />

da quelle che legavano, tra gli altri, Bruner, Eco, Rullani e (più modestamente) il<br />

sottoscritto: «Se i mondi narrativi sono così confortevoli perché allora non tentare di<br />

leggere lo stesso mondo reale come se fosse un romanzo? Oppure, se i mondi della<br />

finzione narrativa sono così piccoli e ingannevolmente confortevoli, perché non cercare<br />

di costruire mondi narrativi che siano complessi, contradditori e provocatori come il<br />

mondo reale?» (p. 145). Riprendendo un altro esempio dal mondo della pittura, questa<br />

volta di Jerome Bruner, è la stessa posizione di quei maestri che, come Manet, si<br />

battevano contro il “figurativismo accademico” che pretendeva ci fosse un modo solo o<br />

un modo migliore per rappresentare pittoricamente la natura: il compito di quegli artisti<br />

era quello di far comprendere che un “mondo costruito” dovrebbe sfidare “la nostra<br />

prospettiva o il nostro punto di vista”, creando e sviluppando ipotesi da cui fare<br />

scaturire una molteplicità di prospettive e di mondi possibili capaci di essere verosimili<br />

rispetto a quelle prospettive 1 .<br />

In un suo vecchio saggio del 1946 che mi capitò di trovare in una rivista francese,<br />

recentemente riproposto in una nuova traduzione, Alfred Schütz prendeva in<br />

considerazione lo straodinario esempio del «Don Quichotte» di Cervantes per esplorare<br />

il problema della realtà, giungendo a queste conclusioni sul protagonista:<br />

«[…] Après avoir soutenu vigoureusement son choix originel à travers toutes ses aventures,<br />

après avoir développé un système scientifique – ou peut-être même une sorte de théologie –<br />

trainant des activités magiques des enchanteurs, et dont l’objet était de réconcilier les schèmes<br />

d’interprétations contradictoires, il perd sa foi dans ce principe fondamental de sa métaphusique et<br />

de sa cosmogonie. Il se retrouve à la fin comme un être humain qui rentre à la maison dans un<br />

monde auquel il n’appartient pas, inséré dans la réalité quotidienne comme dans une prison, et<br />

torturé par le plus cruel des geôliers: la raison de sens commun qui est cosciente de ses propres<br />

limites. L’intrusion du trascendantal dans ce monde de la vie quotidienne est ou bien niée, ou bien<br />

dissimulée par la raison commune. Mais elle rélève sa force invincible dans notre expérience<br />

commune, du fait que le monde de la vie quotidienne avec ses choses et ses événements, ses<br />

connexions causales de lois naturelles, ses faits sociaux et institutions nous est imposé, que nous<br />

ne pouvons le comprendre et le maîtriser que dans une mesure limitée, que le futur demeure<br />

ouvert, non rélévé et invérifiable, et que notre seul espoir et notre seul guide (guidance) sont la<br />

croyance que nous pourrons faire face à ce monde pour tous les buts (purposes) pratiques, si nous<br />

nous comportons comme les autres se comportent, si nous prenons pour allant de soi ce que les<br />

autres croient être hors du questionnement. Tout cela présuppose notre foi dans le fait que les<br />

choses continueront à être ce qu’elles ont été jusqu’à présent et que ce que notre expérience d’elles<br />

nous a enseigné supportera également l’épreuve dans le futur 2 ».<br />

In un passaggio ulteriore il mio autore rammentava che «siamo portati a mescolare<br />

finzione e raltà, a leggere la realtà come se fosse finzione e la finzione come se fosse<br />

realtà. [Di più] alcune di queste pratiche sono piacevoli e innocenti, altre del tutto<br />

necessarie, e altre ancora tragicamente preoccupanti» (p. 147); infatti, “il romanzo<br />

contemporaneo come enciclopedia”, sosteneva Italo Calvino, va visto “come metodo di<br />

1 Bruner 2005 (N.d.A.).<br />

2 La versione originale di questo scritto è in inglese, mentre quella che ho utilizzato è una traduzione<br />

francese (apparsa recentemente in una rivista francofona). Dopo essere pervenuto a quest’ultima non sono<br />

però stato in grado di rintracciare l’articolo che ha costituito la base per la traduzione. Il riferimento per il<br />

lettore è: Alfred Schütz, Social Research, n. 13(4), del 1946. (N.d.T.).<br />

72


conoscenza, e soprattutto come rete di connessione tra i fatti, tra le persone, tra le cose<br />

del mondo 1 ”. Ancora una volta mi vennero in mente due passaggi tratti da Actual<br />

Minds, Possible Worlds, di Jerome Bruner (tra l’altro, mi domandai perché mai, nella<br />

traduzione italiana del titolo – La mente a più dimensioni – non si fosse cercato di<br />

mantenere il senso così forte e puntuale dell’espressione originale):<br />

“[…] noi sappiamo che, se vogliamo gustare e comprendere un racconto immaginario (come,<br />

del resto, anche una ipotesi immaginaria), dobbiamo ‘sospendere l’incredulità’ e accettare quello<br />

che ci viene raccontato per tutto il tempo che vogliamo restare nell’ambito di una realtà ad un<br />

tempo fittizia e creativa. In campo scientifico, noi alla fine esigiamo una verifica (ossia una prova<br />

contro la falsificazione). In campo letterario, come sul terreno della spiegazione dell’agire umano,<br />

esigiamo invece che, sulla scorta di un’attenta riflessione, la trattazione rientri in una prospettiva<br />

che possiamo immaginare o ‘sentire’ come corretta. La scienza è orientata verso l’esterno, verso<br />

un mondo che sta fuori di noi, le altre discipline sono orientate verso l’interno, verso una<br />

prospettiva e un punto di vista sul mondo. Di fatto, si tratta di due forme di un’illusione di realtà e<br />

di due forme molto diverse” (Bruner 2005: 65).<br />

E ancora:<br />

“Quanto alle arti e alle discipline umanistiche, anch’esse sono vincolate ai tipi di ipotesi che<br />

elaborano, ma non nel senso che le debbano tradurre, come le scienziato, in termini che le rendano<br />

verificabili, e nemmeno nel senso che debbano andare alla ricerca di ipotesi che si rivelino vere<br />

entro una gamma molto vasta di prospettive umane. Al contrario […] il loro obiettivo è che quelle<br />

ipotesi si armonizzino con diverse prospettive umane e siano riconoscibili come ‘centrate su<br />

un’esperienza possibile’: insomma, che siano verosimili” (ibidem: 66).<br />

Visto che il compito del poeta, come sosteneva Aristotele nella sua Poetica (II.9),<br />

“non è quello di descrivere cose realmente accadute, ma di dire quali possono accadere<br />

in determinate condizioni 2 ”, questo spiegherebbe il motivo per cui, in fondo, i tiranni<br />

nutrano maggior timore e odio verso romanzieri, pittori e teatranti rispetto agli<br />

scienziati: questi ultimi creano, sì, dei mondi possibili, ma “nelle loro creazioni non<br />

lasciano spazio di sorta a possibili prospettive alternative su quei mondi” rispetto ai<br />

primi; gli scienziati, quindi, risultano più facilmente controllabili e malleabili mentre gli<br />

artisti (di solito – sic!) sono difficili da imbavagliare e censurare 3 . Il motivo di questa<br />

“forza” della narrazione era ben esplicitato nel mio testo: «spesso non si decide di<br />

entrare in un mondo finzionale: ci si trova dentro, e a un certo punto ci si accorge e si<br />

decide che quello che accade è un sogno. [Così] nella finzione narrativa si mescolano in<br />

modo [talmente] stretto riferimenti esatti al mondo reale che, dopo avere soggiornato in<br />

un romanzo, e averne confuso, come è giusto, elementi fantastici e riferimenti alla<br />

realtà, il lettore non sa più esattamente dove si trovi» (p. 155: il corsivo è originale).<br />

Gli eventi che si generavano erano molteplici: per esempio, si proiettava «il modello<br />

finzionale sulla realtà e cioè, in parole povere, [si crede] all’esistenza reale di<br />

personaggi ed eventi fittizi» (p. 155); o, in secondo luogo, «il prendere sul serio i<br />

personaggi fittizi produce anche narrativa intertestuale, dove l’ingresso – in un romanzo<br />

o in un dramma – del personaggio di un altro romanzo funziona persino come segnale di<br />

veridicità» (p. 156). Questi elementi produrrebbero una sorta di affrancamento dal<br />

racconto per i fatti e i personaggi fittizi, che quindi «acquistano diritto di cittadinanza<br />

1 Calvino 1985: 103 (N.d.A.).<br />

2 Passo citato anche in Bruner 2005, Ricœur 2000 (N.d.A.).<br />

3 Bruner 2005 (N.d.A.).<br />

73


nel mondo reale», e diventano “verosimili” come ci diceva Bruner. Quasi senza<br />

accorgermene, continuavano i collegamenti tra queste riflessioni – tra me e il mio autore<br />

– e l’ultima delle lezioni americane di Calvino 1 . Da quel momento in poi, i due testi si<br />

arruffarono sempre di più, divenendo quasi inestricabili. Ancora una volta, gli esempi<br />

che entrambi mi portavano era del tutto simili, a partire dal caso di Carlo Emilio Gadda<br />

che «cercò per tutta la vita di rappresentare il mondo come garbuglio. O groviglio, o<br />

gomitolo, di rappresentarlo senza attenuarne affatto l’inestricabile complessità, o per<br />

meglio dire la presenza simultanea degli elementi più eterogenei che concorrono a<br />

determinare ogni evento». Gadda aveva elaborato uno stile che, non fine a se stesso,<br />

corrispondeva “alla sua complessa epistemologia”. «Come nevrotico, [egli] getta tutto<br />

se stesso nella pagina che scrive, con tutte le sue angosce e ossessioni, cosicché spesso<br />

il disegno si perde, i dettagli crescono fino a coprire tutto il quadro. […] si può dire che<br />

tutti i suoi romanzi siano rimasti allo stato di opere incompiute o di frammenti, come<br />

rovine d’ambiziosi progetti, che conservano i segni dello sforzo e della cura meticolosa<br />

con cui furono concepite 2 ».<br />

Ma è soprattutto dai testi brevi dello scrittore milanese che secondo il mio autore e<br />

Calvino sembra si riesca a cogliere al meglio quella straordinaria “costruzione<br />

compiuta” che sono i suoi racconti, dove ogni oggetto “è visto come il centro d’una rete<br />

di relazioni che lo scrittore non sa trattenersi dal seguire”, facendo allargare il discorso<br />

fino a “comprendere orizzonti sempre più vasti” che sembrano svilupparsi in ogni<br />

direzione pronti ad abbracciare “l’intero universo 3 ”. In un altro passaggio, poco dopo,<br />

Calvino riportava le seguenti frasi: «Per Gadda questa conoscenza delle cose in quanto<br />

“infinite relazioni, passate e future, reali o possibili, che in esse convergono”, esige che<br />

tutto sia esattamente nominato, descritto, ubicato nello spazio e nel tempo. Ciò avviene<br />

mediante lo sfruttamento del potenziale semantico delle parole, di tutta la varietà di<br />

forme verbali e sintattiche con le loro connotazioni e coloriture e gli effetti il più delle<br />

volte comici che il loro accostamento comporta. […] Prima ancora che la scienza avesse<br />

ufficialmente riconosciuto il principio che l’osservazione interviene a modificare in<br />

qualche modo il fenomeno osservato 4 , Gadda sapeva che “conoscere è inserire<br />

alcunché nel reale; è, quindi, deformare il reale 5 ”».<br />

Pensai che quelle poche righe potevano considerarsi una sorta di “manifesto” della<br />

ricerca nelle scienze sociali. Gli esempi che portava Calvino erano molto convincenti e<br />

si innestavano alla perfezione nei ragionamenti che portavo avanti tra le righe del mio<br />

libro, sotto la guida sapiente del mio autore. E restò molto persuasivo anche nel<br />

riportare il caso di un altro scrittore che, anche senza essere il Gadda-ingegnere, aveva<br />

cercato di produrre il suo “romanzo-enciclopedia” basandolo su una conoscenza<br />

tecnologica che nulla aveva da invidiare a quella dello stesso Gadda o di Musil: anche<br />

Proust aveva infatti un disegno ben preciso per la realizzazione della «Recherche», ed<br />

anche Proust era affascinato dall’idea della rete che lega ogni cosa, anche se nel suo<br />

caso “questa rete è fatta di punti spazio-temporali […]. Il mondo si dilata fino a<br />

diventare inafferrabile, e per Proust la conoscenza passa attraverso la sofferenza di<br />

questa inafferrabilità 6 ”.<br />

1 Calvino 1985 (N.d.A.).<br />

2 Ibidem: 104 (N.d.A.).<br />

3 Calvino 1985: 105 (N.d.A.).<br />

4 Gadda nacque nel 1893 e morì nel 1973 (N.d.T.).<br />

5 Ibidem: 105, il corsivo è mio (N.d.T.).<br />

6 Calvino 1985: 108, il corsivo è mio (N.d.T.).<br />

74


Ma se da un lato Gadda, Musil e Proust, seppure in modo diverso, incarnavano il<br />

testo narrativo che ha “l’ansia di contenere tutto il possibile” non riuscendo così a dargli<br />

una forma e un contorno definiti; dall’altro alto, Calvino era affascinato da quei testi<br />

narrativi che procedono «per aforismi, per lampeggiamenti puntiformi e discontinui» (p.<br />

114), una letteratura che, seguendo l’ideale estetico che egli attribuiva a Paul Valéry,<br />

«abbia fatto proprio il gusto dell’ordine mentale e della esattezza, l’intelligenza della<br />

poesia e nello stesso tempo della scienza e della filosofia» (p. 115). Anche qui seppe<br />

essere molto persuasivo: ogni testo di Jorge Luis Borges, infatti, «contiene un modello<br />

dell’universo o d’un attributo dell’universo: l’infinito, l’innumerabile, il tempo, eterno o<br />

compresente o ciclico; […] sono sempre testi contenuti in poche pagine, con una<br />

esemplare economia d’espressione; […] spesso i suoi racconti adottano la forma<br />

esteriore d’un qualche genere della letteratura popolare, forme collaudate da un lungo<br />

uso, che ne fa quasi delle strutture mitiche» (p. 115). Ad esempio, il Giardino dei<br />

sentieri che si biforcano, tratto da «Finzioni», è praticamente un saggio “vertiginoso”<br />

sul tempo, in cui, in poche righe Borges riesce ad enunciare (in modo più o meno<br />

evidente) tutte le sue ipotesi: «un’idea di tempo puntuale, quasi un assoluto presente<br />

soggettivo […]; poi una idea di tempo determinato dalla volontà, in cui il futuro si<br />

presenti irrevocabile come il passato; e infine l’idea centrale del racconto: un tempo<br />

plurimo e ramificato in cui ogni presente si biforca in due futuri, in modo di formare<br />

“una rete crescente e vertiginosa di tempi divergenti, convergenti e paralleli)”» (p. 116).<br />

In uno dei numerosi seminari a cui presi parte nella solenne atmosfera degli edifici<br />

dell’Ecole Polytechnique rimasti nel cuore di Parigi, spesso era emerso il problema<br />

della lunghezza delle narrazioni, problema di “economicità” che potrebbe rendere<br />

ancora più complicato fare accettare testi narrativi per la pubblicazione internazionale 1 .<br />

All’epoca non avevo ancora letto quanto avevo tra le mani, ma in quelle discussioni<br />

richiamai spesso Calvino, riferendomi soprattutto al suo “elogio della rapidità” (la sua<br />

seconda lezione americana). A quel punto, avrei potuto aggiungere qualcosa di più alle<br />

mie argomentazioni: se la brevità era legata ad una questione tecnica e di stile; ora,<br />

“l’elogio della molteplicità” di questa ultima lezione dello stesso Calvino, e la<br />

comprensione di cosa questo comporti approfondendo le teorie letterarie e sulla<br />

produzione dei testi narrativi, mi permettevano di ancorare ancora più saldamente la<br />

questione stilistica ai contenuti di un racconto. Essi, in quanto “protocolli fittizi” di un<br />

testo narrativo, permettono di catturare «l’esattezza nell’immaginazione e nel<br />

linguaggio, costruendo opere che rispondono alla rigorosa geometria del cristallo e<br />

all’astrazione d’un ragionamento deduttivo 2 ». La struttura, intesa in questo caso come<br />

“forma fisica” che assume il racconto, costituisce essa stessa l’ossatura, l’architettura di<br />

1 Hervé Dumez e Alain Jeunemaître, sempre al Laboratorio del CRG, dell’Ecole Polytechnique, animano<br />

tuttora il dibattito su questi aspetti legati alla narrazione: il racconto come costruzione di un passaggio da<br />

uno stato di equilibrio ad un altro (in cui l’ultimo non è mai identito al primo); il rapporto con il fattore<br />

tempo; stabilire lo stato di conoscenze degli attori al momento in cui essi agiscono; l’equilibrio tra<br />

completezza e parsimonia; l’applicazione del principio di simmetria (ad esempio, Dumez, Jeunemaître<br />

2005). In molti interessanti dibattiti abbiamo avuto modo di sottolineare l’efficienza della proposta<br />

narrativa quando si tratta di esplorare i fenomeni nella loro prospettiva processuale (prospettiva che è<br />

dinamica per definizione). In un’ottica costruttivista, raramente gli attori si fermano a domandarsi se<br />

l’azione si sia basata su una decisione (o su una procedura decisionale) giusta o sbagliata. Nella migliore<br />

delle ipotesi, gli agenti si costruiscono retrospettivamente una giustificazione plausibile (in termini di<br />

sensemaking) del loro operato. Oltre a quella di Weick (1979, 1995), in questo il lettore riconoscerà<br />

senz’altro anche la posizione, ad esempio, di Barbara Czarniawska (1997) (N.d.T.).<br />

2 Calvino 1985: 115 (N.d.A.).<br />

75


un progetto ben preciso, di un disegno che (sia si tratti di testi narrativi brevi che di<br />

racconti lunghi), in ogni caso, assume senso solo alla luce del contenuto e del discorso,<br />

in quanto storia, racconto e narrazione non possono prescindere l’uno dall’altro.<br />

A questo punto, pensai, ammesso (e non concesso) che il pensiero narrativo sia un<br />

modo di produrre (buona) conoscenza, attraverso il racconto era ragionevole pensare di<br />

poter riproporre quell’ambiguità e ricchezza di segnali deboli, quell’idea di vago e<br />

contraddittorio che sembrano contraddistinguere il mondo sociale visto come “reti di<br />

azioni collettive 1 ”.<br />

Descrivere e interpretare il funzionamento di queste reti d’azioni diventa allora<br />

possibile se si prova a dare libero sfogo all’idea stessa di finzione, sul cui significato<br />

oramai il mio lettore avrà preso confidenza, non intendendo con ciò il raccontare “cose<br />

false”. L’azione dotata di significato sembra condividere le caratteristiche costitutive di<br />

quello che sino ad ora abbiamo definito come “testo narrativo 2 ”: e, dal punto di vista<br />

teorico, se un testo è un qualunque discorso fissato attraverso la scrittura 3 , allora la<br />

scrittura è essa stessa costitutiva del testo. Con le parole di Calvino: «Sono giunto al<br />

termine di questa mia apologia del romanzo come grande rete. Qualcuno potrà obiettare<br />

che più l’opera tende alla moltiplicazione dei possibili più s’allontana da quell’unicum<br />

che è il self di chi scrive, la sincerità interiore, la scoperta della propria verità. Al<br />

contrario, rispondo, chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinatoria<br />

d’esperienza, d’informazioni, di letture, d’immaginazioni? Ogni vita è un’enciclopedia,<br />

una biblioteca, un inventario d’oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere<br />

continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili» (p. 120).<br />

Era tardi, e immaginavo che a breve la libreria avrebbe chiuso. Uscii allora<br />

dall’angolo in cui mi ero rifugiato. Non mi sorpresi di vedere che c’era ancora molta<br />

gente, ma ad ogni modo dovevo ritornare in facoltà. Mi avvicinai al bancone: «Lo<br />

compro», dissi. La signora si avvicinò alla cassa, prendendo in mano il libro che le<br />

avevo lasciato: «Molto bene. Dunque, sono 7 euro e 20». «La ringrazio, ma non serve la<br />

busta. Lo metto qui, nella mia borsa di tela. Buona serata e buon Natale»; «Buon Natale<br />

anche a lei». Uscendo accarezzai il cagnolino che non aveva smesso un istante di farmi<br />

compagnia. Forse avevo occupato l’angolo della stanza in cui amava rifugiarsi.<br />

Chiudendomi la porta alle spalle ero contento: mi accorsi che aveva smesso di piovere e<br />

potevo tenere tra le mani il libro appena acquistato. Dopo Natale sarei ritornato a Parigi:<br />

ne dovevo assolutamente parlare con gli amici del Laboratorio, magari nei seminari con<br />

Hervé e Alain e sicuramente con Denis, che è molto attento a questo tema. Chissà se i<br />

miei amici d’oltralpe avevano già letto in questo modo le lezioni americane di Umberto<br />

Eco, raccolte in queste Sei passeggiate nei boschi narrativi che tenevo tra le mani<br />

assieme all’ombrello?<br />

1 Latour 2006, ma l’espressione “originale” e l’applicazione più compiuta di questa logica resta, per me,<br />

quella di Barbara Czarniawska, 2000: 60 (N.d.A.).<br />

2 Czarniawska 2000, ma anche Ricœur 1986 (N.d.A.).<br />

3 Ricœur 1986 (N.d.A.).<br />

76


V<br />

(La fabbrica della conoscenza artistica. Le strategie di trasformazione della conoscenza tra codificazione<br />

e condivisione: identità e linguaggi; territori, comunità e reti)<br />

In cui si propone un programma interdisciplinare, basato sull’idea di conoscenza, per lo<br />

studio dei fenomeni artistici in una prospettiva manageriale E in cui l’autore introduce la<br />

metafora tra spettacolo teatrale e organizzazione-festival <br />

77


Ancora dal manoscritto del working paper al seminario di Parigi.<br />

La prospettiva knowledge-based che prospetto in questo lavoro è tutta raccolta nella<br />

felice formula proposta da Rullani (2004b): studiare i fenomeni economici da un punto<br />

di vista cognitivo significa prendere seriamente in considerazione cosa significa<br />

“produrre conoscenza a mezzo di conoscenza”. Quest’ultima non va considerata solo<br />

come il principale fattore produttivo delle “moderne” organizzazioni, ma essa è anche il<br />

risultato dei processi produttivi che l’hanno generata. Come rimarcato in precedenza,<br />

questa assunzione, apparentemente ragionevole e innocua, potrebbe avere importanti<br />

risvolti se calata nell’attuale dibattito sull’evoluzione delle teorie economiche<br />

tradizionali (Rullani 2004a) e, di conseguenza, sullo studio dei processi produttivi<br />

(Rullani 2004b).<br />

Una delle idee chiave di questa proposta teorica è quella di considerare la “fabbrica<br />

della conoscenza artistica” come una fabbrica “diffusa 1 ” in cui per trasformare in valore<br />

la conoscenza di origine questa viene sottoposta a lavorazioni successive all’interno di<br />

una filiera con reparti diversi, col fine ultimo di renderla disponibile a livelli intermedi<br />

d’uso (conoscenza connettiva) fino a raggiungere (sotto forma di prodotto teatrale)<br />

l’utilizzare finale (il pubblico), per essere applicata ai più vari contesti di vita<br />

(conoscenza applicativa) (Figura 1).<br />

La conoscenza “originale” è quella degli artisti: l’idea si “trasforma” in un progetto<br />

in cui intervengono spesso altri artisti, ma non solo; il progetto, attraverso il contributo<br />

di singoli pezzi di conoscenza di vario tipo, ovvero di “rivoli di sapere” provenienti da<br />

altri reparti della fabbrica e con caratteri specifici (dagli attori ai tecnici di una<br />

compagnia, dai manager ai singoli impiegati amministrativi di una organizzazione di<br />

produzione – Benghozi 1995), si prepara per passare ad altri reparti della filiera stessa<br />

dove subisce ulteriori trasformazioni (ad esempio un distributore o un festival)<br />

assumendo una forma fisica estremamente particolare, “fluida”, come il prodotto<br />

teatrale (Moretti, 1999; Crisci, Moretti 2004). Non si tratta di una semplice<br />

“reificazione” della conoscenza in uno spettacolo: utilizzando il linguaggio di Rullani,<br />

lo spettacolo si appresta a diventare “conoscenza connettiva”, ovvero un’esperienza<br />

cognitiva che, grazie a determinate condizioni, è pronta ad essere propagata in un<br />

campo condiviso, in un contesto intermedio in cui entra in contatto per la prima volta<br />

con il pubblico finale, cosa che può avvenire tanto alla “prima” di una stagione teatrale<br />

quanto durante un festival o altre manifestazioni temporanee.<br />

A questo punto, molti altri operatori intervengono al fine di “storicizzare” (Sicca<br />

2000) lo spettacolo teatrale presentato per la prima volta, ovvero di diffonderlo in modo<br />

più o meno ampio: la conoscenza sotto forma di rappresentazione teatrale è ancora un<br />

prodotto cognitivo “incompleto” (Moretti, 1999; Crisci, Moretti, 2004) che necessita di<br />

essere trasformato in conoscenza veramente connettiva, ovvero pronta a fare il balzo<br />

verso uno dei possibili campi di “applicazione”. Alcuni degli operatori che<br />

intervengono a questo livello si limitano a “trasferire” la conoscenza attraverso la<br />

distribuzione di “elementi” dello spettacolo (ad esempio, fornendo servizi “logistici” di<br />

natura fisica o servizi complementari); altri operatori, cercano appunto di (ri)dare un<br />

“senso” a quella conoscenza inserendola all’interno di una programmazione, ovvero<br />

inquadrandola in una processo di categorizzazione che la renda generalizzabile (si pensi,<br />

1 Gli artisti, le organizzazioni di produzione teatrale, la critica, i distributori, lo stesso pubblico sono tutti<br />

“produttori di conoscenza” e ciascuno, a modo proprio, realizza specifici processi di “lavorazione” della<br />

materia prima-conoscenza che riceve da altri livelli e contesti utilizzando di volta in volta i “macchinari”<br />

(i mediatori cognitivi) che sono per loro più convenienti, più congeniali (N.d.A.).<br />

78


appunto, ad un festival o ad una stagione teatrale); altri, ancora, cercano di “validare” e<br />

in qualche modo di “legittimare” quella stessa conoscenza (come ad esempio la critica<br />

teatrale) nell’ambito di un sistema di regole più o meno comune che sia condiviso da<br />

comunità di pratiche o da istituzioni specifiche (si pensi alle accademie, o ancora ai<br />

festival e ai concorsi, alle istituzioni pubbliche chiamate a fornire il “quadro normativo”<br />

del settore, come nel caso delle Direzioni generali dei ministeri).<br />

Tutto questo ha lo scopo ultimo di far giungere all’utilizzatore finale (in modo<br />

particolare, al pubblico) una conoscenza che non sia solo legata ad un contesto<br />

“connettivo” (ovvero relativa all’ambito artistico in cui è stata prodotta e da cui ha tratto<br />

origine) ma che sia comunque conoscenza applicativa, ovvero conoscenza utile (e<br />

utilizzabile) in contesti anche molto diversi, nella vita di tutti i giorni (Rullani, 2004b;<br />

Grandinetti, Moretti, 2004).<br />

Essendo la conoscenza un fenomeno da studiare a livello di filiera, nel caso specifico<br />

della filiera teatrale è stato assunto un punto di osservazione che si è ritenuto<br />

particolarmente strategico: quello dei festival teatrali, studiando il caso del Festival di<br />

Avignone. Ipotizzando infatti che i festival siano degli “agglomerati densi” di<br />

conoscenza artistica (il programma concentra rappresentazioni teatrali nel tempo e nello<br />

spazio) e degli “addensamenti spazio-temporali” della filiera teatrale (il contesto e il<br />

territorio concentrano persone e relazioni, nel tempo e nello spazio), è ipotizzabile che<br />

attraverso l’osservazione di ciò che accade in questo specifico “reparto” della fabbrica<br />

della conoscenza teatrale sia possibile ricostruire un quadro complessivo dei processi<br />

che servono alla comprensione del più generale fenomeno della produzione teatrale<br />

contemporanea. Dalle due precedenti ipotesi generali discende, in particolare, la tesi che<br />

i festival teatrali svolgano, all’interno della filiera “cognitiva” del teatro, il ruolo di<br />

integrare le relazioni intersoggettive che si stabiliscono tra un numero crescente di attori<br />

tra loro autonomi ma sempre più interdipendenti (Rullani, 2004b).<br />

Perché tutto questo percorso sia svolto in modo tale da garantire l’efficacia, la<br />

moltiplicazione e la propagazione della conoscenza, è necessario che la filiera cognitiva<br />

condivida determinate strategie per la sua trasformazione: nel passaggio dalla<br />

conoscenza originale (quella degli artisti) alla conoscenza finale (quella dello spettatore)<br />

il contesto ha un ruolo determinante in quanto la conoscenza è tipicamente un fenomeno<br />

da esso condizionata (Biggiero, Sammarra 2002). La conoscenza “connettiva” dello<br />

spettacolo teatrale presentato in scena per la prima volta è infatti conoscenza che in<br />

qualche modo è riuscita a sganciarsi (in tutto o, più realisticamente, in parte) dal<br />

contesto in cui nasce per rendere possibile l’estensione della sua “applicazione” ad altri<br />

campi.<br />

Il programma del Festival di Avignone, visto da una prospettiva organizzativa e<br />

strategica, è strettamente collegato ai processi produttivi (ai progetti artistici) che,<br />

storicamente, vengono realizzati dal e per il Festival, nei luoghi in cui gli spettacoli<br />

vengono “ideati”, “creati” e “presentati”. Dal programma del 1996 si legge una buona<br />

descrizione del processo di selezione degli spettacoli:<br />

«Le Festival est donc en majorité composé de spectacles qui ont été retenus, par la direction<br />

artistique, sur projet. Le Festival n’est donc pas la colletion de spectacles vus ailleurs et invités<br />

ensuite. C’est dir la part de risque pris chaque année, en étroite coopération avec les metteurs en<br />

scène et les chorègraphes. Il y a chaque soir au Festival, une, deux, trois, voire quatre “premières”<br />

ce qui justifie la curiosité de tant de critiques et de professionnels présents à Avignon. Le choix<br />

des spectacles est le résultat d’un long processus commencé 18 mois plus tôt, par l’étude de projets<br />

reçus par le Festival ou initiés par lui. […] Le Festival n’est pas une structure d’accueil et de<br />

répartition de spectacles existants, comme on le ferait pour l’allocation de stands dans une foire<br />

79


commerciale. C’est le résultat d’une sélection différente chaque année, comportant un ou des<br />

thèmes majeurs, mais toujours attentive à la qualité du projet en tant que tel (qu’il s’agisse du<br />

texte, des intentions de mise en scène, de la distribution, de la scènographie, etc.)<br />

Plusieurs centaines de projets sont reçus et examinés par la direction du Festival, dont les<br />

responsables s’efforcent, par de constant voyages en France et ailleurs, et les conseils de<br />

professionnels multiples, voire de correspondants à l’Étranger, de connaître les travaux antérieurs,<br />

en cours ou à venir, des metteurs en scène et chorégraphes» (corsivo nostro).<br />

Questo ha una duplice valenza:<br />

- da un lato, il programma costituisce la modalità per attivare processi di sensemaking<br />

tutti interno dall’organizzazione del Festival la quale “[…] sa quello che pensa<br />

(solo) quando vede quel che dice” (Weick 1979), attraverso gli spettacoli teatrali che<br />

presenta (creando così una identità comune) (Berger, Luckmann 1969; Gagliardi<br />

1986; Kunda 1992);<br />

- dall’altro, attorno al programma si addensano i processi di sensemaking “collettivo”<br />

dei vari operatori teatrali, che incontrandosi fisicamente e attraverso gli spettacoli,<br />

condividono con il resto della filiera senso e significati (ovvero “linguaggi” e<br />

“pratiche” a livello di comunità di riferimento) (Lave, Wenger 1991; Brown,<br />

Duguid, 1991; Haas, 1992; Micelli 2000; Wenger, 1998, 2000).<br />

Intuitivamente, non vi è nulla di più contestuale e unico della conoscenza collegata<br />

ad un’opera d’arte. Ma il messaggio estetico (Eco 1975) costituisce solo una<br />

componente del potenziale cognitivo di un prodotto artistico: e per quanto resti l’aspetto<br />

probabilmente più importante, un prodotto artistico “incorpora” tipologie di conoscenze<br />

con “strutture cognitive” (v. infra § 3.2) estremamente varie che necessitano di essere<br />

organizzate nell’ambito della filiera teatrale. Come sottolinea Weick (1979),<br />

l’organizzare altro non è che “[…] una grammatica convalidata consensualmente per la<br />

riduzione dell’ambiguità attraverso comportamenti interdipendenti dotati di senso” (p.<br />

14). Il materiale grezzo dell’organizing/sensemeking della filiera teatrale è naturalmente<br />

la rappresentazione teatrale, ed è tramite questa che si crea l’identità comune (si veda la<br />

figura 2) (March, Sproull, Tamuz 1991; Gagliardi, Czarniawska 2003).<br />

Dal punto di vista degli spettatori, invece, cosa accade ad uno spettacolo teatrale<br />

“nato” nella Cour d’honneur del Palazzo dei Papi 1 , ad Avignone, presentato, spesso per<br />

la prima volta al Festival e sottoposto al “confronto” con il suo pubblico “professionale”<br />

(anche questo unico nel suo genere con riferimento a quel luogo e a quel momento<br />

1 La Cour d’honneur del Palazzo dei Papi, ad Avignone, costituisce lo spazio teatrale storico del Festival<br />

di Avignone, oramai carico di significati simbolici che hanno assunto la natura del “mito” per quanti<br />

realizzano o assistono alle rappresentazioni teatrali che vi si tengono durante il Festival (N.d.T.).<br />

80


specifico)? Quali altre “conoscenze” sono necessarie affinché lo spettacolo teatrale<br />

presentato nel suo contesto di origine, al Festival di Avignone, possa “trasformarsi” in<br />

conoscenza “connettiva” pronta ad essere “distribuita” in altri contesti d’uso?<br />

Festival, critica teatrale e distributori entrano in gioco ben prima che lo spettacolo<br />

raggiunga il vasto pubblico delle tournée internazionali o nazionali. In altri termini, nel<br />

momento in cui uno spettacolo teatrale, dopo la “prima”, viene diffuso in un circuito più<br />

ampio, la conoscenza che incorpora (e che lungo il tragitto ne ha permesso la<br />

realizzazione) ha subito tali e tante lavorazioni differenti e altamente specialistiche da<br />

averne modificato profondamente l’aspetto iniziale e originario. Al momento,<br />

considerare lo spettacolo teatrale come esempio di conoscenza contestuale risulta utile<br />

per recuperare l’idea che “persone, oggetti materiali, ambiente fisico e tessuto di<br />

relazioni” (Rullani 2004b) presenti in quel dato momento e in quel luogo siano elementi<br />

chiave per manifestare il suo “valore”. Ma questo, in effetti, non basta. Ciò che genera<br />

veramente valore è la differenza utile che la conoscenza artistica mediata dallo<br />

spettacolo teatrale produce rispetto al contesto di origine. Non è assolutamente detto che<br />

la stessa idea dello stesso artista trasportata in un altro contesto funzioni altrettanto bene<br />

applicandosi a persone, oggetti, ambiente fisico e tessuto di relazioni diversi (e questo<br />

sia nella fase connettiva che in quella applicativa della conoscenza) (Herriot, Levinthal,<br />

March 1985; Levitt, March 1988; Levinthal 1991, 1997; Levinthal, March 1993).<br />

Per rendere lo spettacolo teatrale conoscenza “connettiva” pronta ad affrontare un<br />

campo di applicazione più vasto, fino a diventare effettivamente conoscenza utilizzabile<br />

in contesti diversi da quello “artistico”, è necessario attuare strategie che (seppur<br />

parzialmente) permettano di superare l’unicità del contesto di origine conferendo alla<br />

conoscenza una capacità di azione più ampia. A tal proposito, è possibile dire che, in<br />

ogni reparto della filiera, l’organizzazione della conoscenza connettiva (e nello<br />

specifico dello spettacolo teatrale) avviene utilizzando delle strategie che sono<br />

all’interno di un continum che ai suoi estremi assume i connotati della “perfetta<br />

codificazione” o della “perfetta condivisione” della conoscenza stessa (Cowan, David,<br />

Foray 1998, 2000; Rullani 2004b). Intuitivamente, stiamo ipotizzando che sia possibile<br />

pensare alla conoscenza contestuale in termini di linguaggio più o meno standard e noto<br />

ad una comunità di riferimento, piuttosto che ad una sovrapposizione di esperienze<br />

condivise tra un numero crescente di attori (Lave, Wenger 1991; Brown, Duguid 1991,<br />

2000; Haas 1992; Lomi 1997b; Wenger 1998, 2000). Nel caso del teatro, la conoscenza<br />

connettiva è più o meno legata al suo contesto di orgine con riferimento al “luogo” in<br />

cui lo spettacolo nasce e viene presentato per la prima volta.<br />

La seguente riflessione di Paul Puaux (successore di Jean Vilar alla testa del Festival<br />

di Avignone dal 1971 al 1979), richiama l’idea che anche (e forse soprattutto) uno<br />

spazio divenuto “mitico” come la Cour d’Honneur del Palazzo dei Papi ad Avignone,<br />

possa diventare un problema di fronte alle tendenze teatrali differenti dei primi anni ’70<br />

del Novecento 1 :<br />

«[…] La Cour devenait un problème, la tendence allant plutôt aux lieu de plus en plus intimes.<br />

Cela nous a conduits à développer la programmation de la dance et à inviter des metteurs en scène<br />

étrangers comme Otomar Krejca et Benno Besson. Mais nous avons aussi invité le mime Marceau<br />

1 La Cour d’Honneur, pur subendo nel tempo diverse sistemazioni differenti tanto con riferimento al<br />

palcoscenico quanto ai posti per il pubblico, ha comunque mantenuto inalterate le sue caratteristiche<br />

abbastanza atipiche per quanto concerne le sue dimensioni. Con i suoi 540 mq di palcoscenico e quasi<br />

2000 posti, all’interno delle poderose mura medievali del Palazzo dei Papi, la Cour costituisce ancora<br />

oggi una sfida appassionante per registi e coreografi, scenografi e artisti (N.d.A.).<br />

81


pour montrer que, contrairement à ce que disaient certaines metteurs en scène, cette Cour ne posait<br />

pas un problème de nombre de figurants, de quantité de hallebardiers, mais de talent de quelques<br />

interprèt. Marceau le démontrait au plus haut point, comme Judith Jamison ou Carolyn Carlson.<br />

Nous voulions délivrer les metteurs en scène de cette idée que, pour remplir la Cour, il fallait une<br />

armée» (Cahier de la Maison Jean Vilar).<br />

Codificazione e condivisione costituiscono due strategie per la gestione dei saperi<br />

basate sul trattamento della conoscenza in modo più impersonale (codificazione ad<br />

esempio attraverso, documenti, informazioni, database, ecc.) o più personalizzato<br />

(conoscenze tacite, uniche, relazionali, ecc.) (Polanyi 1966; Cohen, Levinthal 1989,<br />

1990; Kogut, Zander 1992, 1996; Teece, Pisano, Shuen 1997). Entrambe queste<br />

strategie, nonché tutte le possibili combinazioni contenute tra i due estremi di questo<br />

ipotetico continuum, richiamano l’idea di un rapporto diverso che la conoscenza di<br />

origine continua ad avere con il suo contesto di partenza. I linguaggi e le esperienze<br />

regolano in modo differente l’accesso della conoscenza ad ogni eventuale users.<br />

La condivisione delle esperienze permette di “allargare”, nel tempo e nello spazio, i<br />

contesti di partenza fino a sovrapporli con quelli delle persone e delle organizzazioni<br />

che vi prendono parte. L’estensione nello spazio è legata allo sviluppo di esperienze<br />

condivise tra persone e organizzazioni che provengono da storie e riferimenti diversi.<br />

Nel caso del Festival di Avignone, la straordinaria ricchezza delle esperienze artistiche è<br />

legata alla realizzazione di progetti che vedono impegnati gruppi diversi di artisti e di<br />

organizzazioni teatrali. Attraverso l’incontro e le attività di co-produzione artisti e<br />

organizzazioni provenienti da contesti di vita e di lavoro differenti hanno la possibilità<br />

di allineare “la visione del mondo esterna e il senso del proprio lavoro”, partecipando<br />

alla progettazione e interpretazione della medesima esperienza. Questo avviene non solo<br />

con riferimento al ruolo ufficiale dell’artista associato del Festival di Avignone ma<br />

costituisce da sempre una prerogativa del festival di “creazione” così come lo aveva<br />

pensato Jean Vilar, suo fondatore nel lontano 1947.<br />

L’estensione delle esperienze nel tempo rende ancora più evidente il discorso relativo<br />

al programma del festival come esempio di sensemaking organizzativo. Infatti, ciò<br />

avviene mantenendo costanti le linee di pensiero e l’identità nel corso del tempo,<br />

creando non solo una “tradizione” che rende diversi dall’esterno e unisce all’interno, ma<br />

anche un “linguaggio” che “allinea i significati dei termini e rende affidabile la<br />

collaborazione” così come descritta in precedenza (Rullani, 2004; Ring, Van de Ven<br />

1992; Lomi 1992, 1997a, 1997b; Salvemini, Soda 2001). Nella sostanza, si creano punti<br />

di riferimento comuni, o per lo meno convergenti, sul significato delle esperienze fatte<br />

nell’ambito di ciascuna edizione del Festival, creando così quel contesto in cui opera più<br />

facilmente la conoscenza connettiva pronta a collegare la conoscenza originaria a quella<br />

applicata (March, Sproul, Tamuz, 1991; Narduzzo, Warglien 1996; Winter, Szulanski<br />

2001). Questo oltre a ripercuotersi sulla capacità creativa e sulle possibilità di<br />

innovazione delle singole organizzazioni che partecipano al Festival, si ripercuote a<br />

cascata su tutto il resto della filiera cognitiva, fino ad arrivare al pubblico che riceve<br />

dalla manifestazione “conoscenza” condivisa pronta all’uso di cui comprende e<br />

condivide tutti processi precedenti (Warglien 1990; Kogut, Zander 1992, 1996;<br />

Levinthal, 1991, 1997; Levinthal, March 1993). Ciò non significa che un buon Festival<br />

è (solo) quello che riesce a mettere d’accordo tutti sulla “qualità” della sua proposta<br />

artistica. Senza dubbio, secondo una prima ipotesi, è possibile considerare un “buon”<br />

festival quello che riesce ad avere il rilevante compito di (ri)creare continuamente e di<br />

trasmettere la propria identità, la cui “reificazione” è appunto data dal suo programma;<br />

82


ancora, l’identità del Festival viene a coincidere con l’identità comune di tutti gli<br />

operatori che permettono la realizzazione della manifestazione, compreso il ruolo che<br />

può avere il pubblico nel ricevere “correttamente” il messaggio per poterne fare un “uso<br />

consapevole” in qualsivoglia contesto di applicazione (Frey 1986, 2000; Falcone,<br />

Moretti 2004). Quindi:<br />

Ipotesi #1: i festival teatrali sono “agglomerati densi” del fenomento artistico dello spettacolo dal<br />

vivo e, non essendo dei semplici contenitori di eventi artistici (un insieme di eventi nell’evento),<br />

costituiscono essi stessi un prodotto teatrale.<br />

Ma questo non basta, come la sola la strategia della condivisione non è sufficiente a<br />

comprendere tutte le possibili strategie di trasformazione della conoscenza originaria<br />

che possono essere attuate nel caso del Festival di Avignone e lungo tutta la filiera<br />

cognitiva del teatro contemporaneo. Se la condivisione punta a superare le differenze tra<br />

i contesti di partenza, riducendo le distanze tra persone e organizzazioni; la<br />

codificazione mira a definire ex-ante e dall’alto gli standard a cui contesti ed esperienze<br />

devono uniformarsi. Non si lascia alle persone il tempo e la possibilità di imparare a<br />

cooperare e ad allineare le proprie visioni (Ring, Van de Ven 1992). Alcuni specialisti<br />

definiscono le condizioni standard necessarie per raggiungere l’effetto voluto in termini<br />

di trasformazioni cognitive. Nel momento in cui gli specialisti definiscono le condizioni<br />

fissandole in un codice, ovvero in un insieme di prescrizioni e di significati privo di<br />

ambiguità, gli attori costruiscono il contesto materiale prescritto dal codice stesso,<br />

allineandosi con tutti gli altri operatori che avranno seguito il medesimo<br />

comportamento. Nel caso del teatro, ad alcuni specialisti (come Festival e critica<br />

teatrale, seppur in forme differenti) viene chiesto un preventivo apprendimento del<br />

codice comune legato a specifiche espressioni teatrali e un successivo tentativo di<br />

rispettarne le prescrizioni nel momento della sua diffusione. Il pubblico riconosce<br />

determinate forme della contemporaneità in differenti contesti artistici attraverso due<br />

forme di “categorizzazione” o codificazione: attraverso il ruolo dei festival che<br />

permettono la determinanzione delle forme teatrali esplorando (exploration) di volta in<br />

volta i linguaggi del teatro contemporaneo e fissandone i caratteri nella loro<br />

programmazione; attraverso il ruolo di “codificazione” e di ricerca (exploitation) svolto<br />

dalla critica teatrale che permette di rendere accessibile la complessità del linguaggio<br />

teatrale, avvicinando il contesto di partenza degli artisti al contesto d’uso del pubblico<br />

(March 1991).<br />

In questo modo, la conoscenza può essere espressa attraverso un linguaggio formale<br />

(codice) che permette di “registrala” su un particolare medium per conservarla e, in un<br />

certo modo, trasferirla (Cowan, David, Foray 1998, 2000; Levitt, March 1988).<br />

Ovviamente, nel caso del teatro, il “materiale” su cui lavorano gli specialisti è la<br />

rappresentazione teatrale, ovvero qualcosa di particolarmente fluido e dinamico dal<br />

punto di vista del linguaggio utilizzato. Ma la rappresentazione teatrale, in questo senso,<br />

non è ancora (o non completamente) un medium utilizzabile direttamente e con poco<br />

sforzo da tutti gli utilizzatori della filiera. Festival e critica, con forme e modalità<br />

differenti, cercano di creare delle categorie, dei framework, all’interno dei quali<br />

“registrare” le singole esperienze artistiche e in cui lo spettatore possa più agevolmente<br />

muoversi e riconoscersi.<br />

Anche in questo caso la codificazione permette lo sviluppo di comunità di persone<br />

che si riconoscono di una particolare espressione artistica impegnandosi a usare quel<br />

codice comune: l’uso di un linguaggio comune (l’espressione artistica) e di un medium<br />

83


condiviso (lo spettacolo teatrale), assieme a fini convergenti, costituiscono un legame<br />

rilevante anche tra persone che non si conoscono, parlano lingue differenti, non hanno<br />

mai condiviso fino ad ora una esperienza comune, ma si identificano in un ruolo a cui la<br />

comunità “professionale” assegna senso e valore (Lave, Wenger 1991; Haas 1992).<br />

Quindi:<br />

Ipotesi #2: i festival teatrali sono “addensamenti temporali” degli attori della filiera teatrale e i<br />

processi organizzativi e gestionali legati alla loro realizzazione sembrano essere strettamente<br />

collegati all’esigenza di coltivare e sviluppare il capitale di relazioni che si deposita (ed è quindi<br />

embedded) nei luoghi del festival.<br />

Mischiando strategie di codificazione e di condivisione, si può giungere ad una idea<br />

di Teatro popolare “originale”, così come forse cercava di proporla Jean Vilar in tempi<br />

non sospetti. Quando ogni componente della filiera cognitiva, ogni reparto, svolge a<br />

pieno il proprio compito “lavorando” la conoscenza che gli arriva secondo strategie<br />

specifiche, una straordinaria concomitanza di eventi genera un risultato strabiliante:<br />

quanto è stato “pensato” dall’artista giunge al più vasto pubblico possibile (coefficiente<br />

di efficacia) in tutto il suo potenziale esplicativo che lo rende utile in ogni re-impiego<br />

fatto dall’utilizzattore finale (effetto moltiplicativo), arricchito in modo esponenziale dai<br />

rivoli di conoscenza differenti raccolti lungo tutti i reparti attraversati (coefficiente di<br />

appropriazione). In questo modo, la conoscenza “applicabile” arriva allo spettatore<br />

sotto forma di conoscenza “valida”, “riproducibile”, “distribuita” e “integrata”, dopo<br />

aver subito una trasformazione logica, riproduttiva, logistica e relazionale. La tesi di<br />

fondo del presente lavoro è dunque la seguente:<br />

(proposizione teorica) i festival teatrali che svolgono efficacemente la loro funzione di<br />

integrazione della filiera cognitiva teatrale sembrano essere quelli che condividono meglio con il<br />

proprio contesto di riferimento i “significati” che essi stessi generano.<br />

Che ruolo ha in tutto questo il Festival di Avignone? Da un lato, ha creato, nel<br />

tempo, una sorta di comunità di pratica in cui si è creato un habitat particolarmente<br />

favorevole alla condivisione di conoscenze artistiche (nell’ambito di processi di<br />

produzione artistici e all’interno di reti lunghe di collaborazione). Dall’altro, tale<br />

comunità si riunisce di volta in volta attorno ad progetto comune (il programma) che<br />

viene legittimato dal fatto che la comunità e la filiera tutta imparano a padroneggiare il<br />

codice artistico comune. Non si tratta di una aggregazione apparente, ma di un legame<br />

forte attorno ad una comunità epistemica che diventa quindi anche semantica.<br />

Utilizzando il linguaggio di Rullani, il progetto in divenire di “Teatro popolare” di Jean<br />

Vilar potrebbe portare la filiera del teatro contemporaneo ad operare come una rete di<br />

interazione comunicativa:<br />

“una filiera cognitiva i cui membri si riconoscono a vicenda come interdipendenti e si attrezzano<br />

per governare la loro interdipendenza, vincolandosi in qualche misura al rapporto reciproco. Ciò<br />

richiede lo sviluppo (oneroso) di linguaggi e standard comuni di comunicazione. Servono inoltre<br />

mezzi logistici per facilitare il trasferimento di cose, persone e informazioni, ma anche sistemi di<br />

affidamento e di garanzia che consentono ai soggetti della rete di fidarsi l’uno dell’altro” (Rullani,<br />

2004b: 220).<br />

Identità dell’organizzazione-Festival e linguaggi attraverso cui comunicano tutti gli<br />

operatori della filiera cognitiva, ovvero esperienze e codici: strategie ibride, due modi di<br />

organizzare la conoscenza connettiva che coesistono tranquillamente quando la<br />

84


complessità da gestire (in termini di varietà, variabilità e prevedibilità relativa dei<br />

fenomeni – Di Bernardo, Rullani 1985, 1990) è così grande a livelli diversi della stessa<br />

filiera cognitiva.<br />

***<br />

La prima settimana: lunedì 31 luglio – domenica 6 agosto 2000.<br />

L’organizzazione del laboratorio internazionale del progetto “Ecole des Maîtres”<br />

(oggi “Progetto Thierry Solmon”) era oramai una macchina perfettamente rodata: era<br />

il teatro di produzione di Udine a gestire tutti gli aspetti organizzativi e logistici della<br />

fase italiana dello stage, a cominciare dalla sistemazione dei giovani attori e a quella<br />

del Maestro di turno, con tutti i collaboratori di cui aveva bisogno. Da tempo il luogo<br />

di incontro italiano era sempre lo stesso: giusto perché il lettore possa trovare un<br />

orientamento, questa prima fase di lavoro si svolse tra le colline del Friuli, a Fagagna,<br />

in particolare in una luminosa stanza di Palazzo Pico, il recente centro polifunzionale<br />

della cittadina.<br />

«Il ricordo dello stage dello scorso anno è molto bello, è per questo motivo che sono<br />

qui ed è con piacere che sono tornato. Chissà come sarà quest’anno?».<br />

Più o meno furono queste le prime parole con cui accolse gli attori seduti in<br />

semicerchio per terra, attorno a lui. Un Eimuntas Nekrosius quasi nostalgico e che<br />

forse non t’aspetti: lui, con quell’aspetto così severo, da “uomo dell’est Europa”.<br />

Semmai fosse possibile individuare un ideal-tipo umano, un identikit da film poliziesco,<br />

lui lo incarnerebbe perfettamente: o meglio, a incrociarlo per strada, incontrando il<br />

suo sguardo apparentemente privo di morbidezza, seguendo le fattezze del viso, la<br />

fronte spaziosa e i capelli rasati, la sua figura alta… molti arriverebbero alla medesima<br />

conclusione, “quest’uomo non può che venire da un paese del nord-est della vecchia<br />

Europa”. Dalla Lituania. In effetti Nekrosius è lituano.<br />

«Lo scorso hanno abbiamo lavorato soltanto per sedici giorni», disse, «mentre<br />

quest’anno lavoreremo insieme per due mesi, e non è facile stare assieme per due mesi:<br />

[…] nel frattempo dovremo accettarci e conoscerci a vicenda.<br />

Prima di tutto devo dirvi che io non ho una grande esperienza di laboratori…; io<br />

non sono uno di quei registi a cui piacciono le teorie, sono più un uomo pratico,<br />

semplicemente un regista che lavora con gli attori, non sono un pedagogo, non ho un<br />

sistema, una metodologia; se mi chiedete quale sia il mio metodo, non potrei che<br />

rispondere “Non lo so”. Io sono convinto che il processo creativo non abbia bisogno di<br />

un sistema o di una scuola: solo attraverso la concretezza del lavoro si arriva a un<br />

risultato».<br />

Poi, qualche chiarimento sulle modalità di lavoro.<br />

«Il mio lavoro con voi sarà diverso da quello con i miei attori» annunciò Nekrosius<br />

«in Lituania nel mio teatro: là dobbiamo tendere allo spettacolo, a un risultato ben<br />

preciso, e perciò uso tutti i mezzi possibili, anche quelli meno consigliabili; qui sarà un<br />

po’ diverso perché le circostanze di lavoro sono diverse e quindi le aspettative saranno<br />

diverse.<br />

[Innanzitutto], perché ho scelto Il gabbiano? … perché mi piace molto, anche dal<br />

punto di vista teorico, e poi perché è molto difficile metterlo in scena. E’ un testo molto<br />

concreto, molto ricco, molto pericoloso. … Vi ho già detto che non amo troppo la teoria<br />

e quindi non vorrei sin da subito parlare troppo del testo; certamente sarebbe utile ma<br />

85


per me è molto noioso: preferisco il lavoro concreto e lasciare che tutto avvenga<br />

naturalmente. Per esempio», guardandosi attorno, «potremmo cominciare a<br />

riorganizzare lo spazio per crearci le condizioni migliori, ma prima ancora è<br />

necessario che io vi conosca meglio: ho letto i vostri curriculum ma la carta rimane<br />

carta… Insomma [ditemi] tutto ciò che volete, presentatevi in modo irresponsabile!».<br />

I ragazzi, giovani attori, giovani professionisti che provengono da prestigiose scuole<br />

di teatro e da notevoli esperienze passate, hanno una età che va dai 24 ai 30 anni.<br />

Vengono da Italia (Vanessa, Pia, Paolo, Laura, Alessandro e Fausto), dal Portogallo<br />

(Ana Isabel, Ana Margarida, Amândio e Pedro), dal Belgio (Bénédicte, Sylvie, Alberto,<br />

Stéphane, Mélanie e Chistophe) e dalla Francia (Hélène, Xavier, Grégory, Gaël,<br />

Caroline e Sabine).<br />

Poi nuovamente Nekrosius, con voce cadenzata: «Vorrei farvi subito una domanda:<br />

chi di voi pensa veramente alla carriera? Chi di voi è determinato ad andare fino in<br />

fondo? La parola “carriera” io non la evito come spesso accade e non le attribuisco un<br />

significato negativo, al contrario… Cechov stesso, proprio qui nel Gabbiano, dice<br />

qualcosa a proposito nelle parole di Dorn a Treplev alla fine del primo atto:<br />

“Nell’opera d’arte ci deve essere un’idea chiara, precisa. Dovete sapere perché<br />

scrivete, altrimenti, se seguite questo affascinante cammino senza uno scopo definito, vi<br />

perderete e il vostro talento vi distruggerà”.<br />

Nella mia esperienza di lavoro in teatro ho visto che alcuni si fermano e altri vanno<br />

avanti… Recentemente ho lavorato per dieci giorni a Berlino con un gruppo di giovani<br />

attori come voi e c’era un ragazzo che era molto passivo, debole rispetto agli altri; per<br />

questo gli ho affidato un ruolo semplice all’interno del lavoro, perché sembrava che<br />

non potesse fare niente di più, e lui, negli ultimi quattro giorni è riuscito, nonostante la<br />

parte piccola, a sorprendere tutti; allora gli ho proposto di lavorare su di un lungo<br />

monologo e dopo la presentazione finale del lavoro gli ho chiesto perché non si fosse<br />

aperto prima, non avesse mostrato le sue reali capacità. Lui mi ha raccontato che tre o<br />

quattro anni prima era un attore abbastanza conosciuto, che lavorava molto e con<br />

differenti registi importanti, e che poi ha incontrato un regista con cui non è riuscito a<br />

lavorare bene (probabilmente il regista non era alla sua altezza), lo offendeva,<br />

censurava la sua creatività, minando la fiducia in se stesso; e così, dopo<br />

quell’esperienza negativa, il ragazzo si è bloccato …finché non è arrivato, quasi per<br />

caso, allo stage con me. Poco tempo fa mi ha scritto una lettera in cui diceva di aver<br />

ritrovato la fiducia in se stesso, di aver di nuovo molte offerte di lavoro che affronta,<br />

come prima, con grinta e convinzione».<br />

«Alla fine del lavoro presenteremo soltanto delle scene o l’intero testo?» domandò,<br />

poco dopo, uno dei ragazzi.<br />

«Vedremo, ma tenterei di arrivare a un risultato finale completo, dalla A alla Z»<br />

rispose Nekrosius:<br />

E ancora: «Per quanto riguarda la lingua?».<br />

«Non so ancora, decideremo più avanti» disse «ma potremo prevedere due versioni<br />

dello spettacolo: una in italiano, una in francese. Del resto preferirei non mischiare le<br />

due lingue, non voglio giocare troppo, sperimentare con questo testo…».<br />

Tra l’altro, nel momento in cui decideranno di fare diventare quel laboratorio uno<br />

spettacolo vero e proprio, per Nekrosius sarà la prima produzione in un a lingua<br />

diversa dal lituano: nonostante i suoi spettacoli girino il mondo, i suoi attori recitano<br />

esclusivamente in lituano…<br />

E sempre sulle questioni della riproduzione: «E quindi avremo dei costumi?».<br />

86


«Avremo qualcosa già tra qualche giorno» disse Nekrosius «non saranno come negli<br />

spettacoli veri e propri ma ci saranno. Vorrei riuscire anche a rispettare l’epoca, per<br />

quel che sarà possibile». E di lì ad un anno proprio quei costumi diventeranno dei<br />

“veri” costumi di scena.<br />

«E’ previsto del lavoro fisico?», domandò qualcuno.<br />

«No, non occorre: siete giovani, il vostro corpo è già agile e allenato» disse «Non<br />

capisco mai veramente cosa servano questi esercizi di respirazione e o di training. La<br />

mia esperienza mi ha portato a essere scettico al riguardo… [Certo] io ci tengo alla<br />

forma fisica, alla resitenza, alla forza, e le reputo necessarie per i miei attori, ma non<br />

sono certo io a insegnargliele o a farli allenare… I miei spettacoli sono sempre<br />

fisicamente faticosi e pericolosi per gli attori: nell’Otello, per esempio, Valdas B.,<br />

l’attore protagonista, ha cinquanta anni e io mi rendo conto che alcune volte si sente<br />

troppo debole per lo spettacolo, rispetto agli altri che sono tutti più giovani di lui, ma<br />

non servirebbe certo l’esercizio fisico a cambiare questa sensazione…<br />

Domani prenderemo in mano il testo, non lo leggeremo assieme, passeremo già<br />

oltre: voglio sentire le vostre sensazioni, le vostre opinioni e soprattutto i vostri desideri<br />

riguardo ai ruoli che vorreste interpretare».<br />

«Per oggi basta così, domani alle 10.00».<br />

Il giorno successivo, Gaël annunciò di dover tornare a casa per motivi di salute.<br />

Poi cominciarono a lavorare, sul testo.<br />

«Non sarebbe vero se vi dicessi di conoscere Cechov molto bene» disse Nekrosius in<br />

quella fase di avvio del lavoro «esistono trentadue volumi di sue opere e sarebbe<br />

davvero impossibile ricordare tutto quello che un uomo ha scritto in quarantaquattro<br />

anni di vita. …La maggior parte degli scrittori russi ha bruciato la propria vita per<br />

scrivere e così ha fatto anche Cechov. Io ho lavorato tre volte su di lui e ogni volta è<br />

stato come una festa, ma allo stesso tempo non mi sentivo sicuro; le sue opere sono<br />

speciali, per il regista non è facile brillare, altri testi te lo permettono di più […].<br />

Con Cechov, come attori, avrete la possibilità di esprimervi al massimo, di sfruttare<br />

al cento per cento le risorse del vostro arsenale; non potrete nascondervi, sarete esposti<br />

in piena luce, non potrete rifugiarvi dietro le spalle del regista, qua tutto è aperto,<br />

chiaro come su un palmo di una mano che comunque resta pieno di particolari da<br />

decifrare».<br />

Una sfida interpretativa era quel che Nekrosius offriva ai suoi giovani talenti.<br />

Dovuta anche al fatto che di Cechov si sa molto, forse tutto ed è «probabilmente<br />

l’autore più amato e rappresentato nel mondo». E aggiunse «non saprei spiegare<br />

questo fatto se non semplicemente perché ciò che ha scritto è scritto molto bene, tutto<br />

ciò che ha scritto è un capolavoro; Cechov, come anche Puskin, ha la mano leggera: è<br />

come se le parole che lui scrive fossero nate da sole, in modo spontaneo, e ogni parola,<br />

da sola, trovasse naturalmente il suo posto, e a te che leggi non resta che ammirare<br />

questo miracolo in cui tutto sembra facile».<br />

Il ritratto che Nekrosius fece di Cechov era estremamente spassoso ma curato, ogni<br />

apparente dettaglio aveva una sua importanza: «altezzoso e con un gran caratteraccio»<br />

ma «aveva un talento enorme»; «non era troppo intellettuale, aveva molti lati negativi».<br />

Era un alcolista, come molti artisti; era un medico, «e la sua vita era divisa tra<br />

l’interesse per la medicina e la passione per l’arte»; e non a caso nella sua opera<br />

letteraria «compaiono imponenti figure di dottori e la descrizione di un personaggio<br />

assume a volte le caratteristiche di una vera e propria autopsia».<br />

87


Parlando della Russia, di quella di oggi ma anche di quella di cui scriveva Cechov,<br />

Nekrosius ricordava di continuo «la sua grande anima»: «anche chi abita in un piccolo<br />

paese ha la sensazione si quanto sia vasto il territorio di cui fa parte, e anche chi vive<br />

isolato in un raggio di cento chilometri, non si sente solo, ma partecipe di un unico<br />

grande respiro».<br />

Poetico, indubbiamente. Ma anche tremendamente importante, a suo dire, per capire<br />

Cechov e l’anima dei suoi personaggi e di quelli de Il gabbiano. Inoltre, «per i russi<br />

non sono importanti le cose materiali, e così anche lavorando con Cechov la cosa più<br />

importante saranno i sentimenti. I sentimenti sono la sola cosa al mondo a essere<br />

preziosa senza costare niente; e per me anche in teatro i sentimenti e le emozioni sono<br />

la cosa che mi sta più a cuore: è impossibile farne a meno!».<br />

«E’ complicato lavorare con le emozioni e riuscire a comunicarle al pubblico»<br />

aggiunse, con tono serio «…Nel nostro lavoro le cose più importanti sono le emozioni e<br />

la sincerità. Cercheremo come degli uccelli i venti caldi per innalzarci di più e<br />

permettere alla nostra anima di volare: l’aria calda è la condizione necessaria per<br />

sollevarsi e volare, e l’atmosfera calda fa bene anche in teatro, quindi tra noi i venti<br />

freddi meglio evitarli».<br />

Raccontò poi un altro dettaglio biografico, per nulla insignificante: «Cechov morì in<br />

Germania. Poco prima che morisse fu chiamato un dottore tedesco che lo visitò e,<br />

sapendo che Cechov era dottore, non mentì sul suo reale stato di salute; allora Cechov<br />

chiese dello champagne, arrivò un barman con la bottiglia, il medico la stappò e il<br />

tappo esplose come uno sparo. Dopo aver bevuto, Cechov ha pronunciato le sue ultime<br />

parole: “Io muoio”, mentre il cameriere di nascosto rubava il tappo della bottiglia,<br />

forse consapevole di essere testimone in quell’istante di un grande avvenimento. …Ed è<br />

così che ogni volta che penso al racconto della sua morte, non riesco a separare il<br />

particolare del tappo esploso dallo sparo di Teplev nel finale del Gabbiano, trovando<br />

un ennesimo elemento, più o meno suggestivo, che testimonia lo stretto rapporto che c’è<br />

tra la sua opera e la sua esistenza».<br />

Non è dato di sapere, in anticipo, da dove possa venire l’ispirazione o per quale via<br />

sia possibile giungere ad una possibile interpretazione del reale.<br />

I racconti di Nekrosius spaziarono da Cechov alla sua opera, dalle messinscena del<br />

Gabbiano che aveva visto, alle sue messinscena dei testi di Cechov. Ad un certo punto<br />

ammonnì: «La pericolosità del Gabbiano consiste proprio nel fatto che qui si parla<br />

dell’arte sull’arte, dell’arte nell’arte; si raccontano le storie di attrici e letterati, e<br />

quindi, lavorandoci, si deve affrontare uno dei problemi più difficili della messinscena:<br />

quello di rappresentare sul palco degli artisti».<br />

In quel caso Nekrosius cercava consigli su come affrontare la recita di Nina del testo<br />

di Treplev; come dovrà recitare lei e come dovrà recitare l’attrice che la interpreta;<br />

come presentare Treplev o Nina quando lei racconta «cosa prova sulla scena»; o<br />

ancora, come intepretare Trigorin nella scena che chiude il secondo atto, quando<br />

«spiega a Nina l’ingranaggio interiore del suo processo di creazione».<br />

A metà giornata aggiunse questo ulteriore dettaglio: «Guardando i manoscritti di<br />

Cechov ci si può rendere conto di quanto fosse maniacale quando scriveva, i<br />

manoscritti sono pressoché incomprensibili…: tornava innumerevoli volte sul suo<br />

scritto per cercare anche solo una singola parola ma che fosse quella giusta, la sua<br />

pagina era un vero e proprio campo di battaglia; quanta responsabilità e serietà nei<br />

confronti della propria arte! […] Ma ora voglio sentire un po’ voi e conoscere il vostro<br />

punto di vista, le vostre impressioni sul Gabbiano».<br />

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«A me sembra che nonostante trascorrano solo due anni dall’inizio alla fine della<br />

storia» disse Laura «ogni personaggio sia come la sintesi di un’intera vita: ci sono le<br />

carriere di tutti a confronto e il loro diverso sviluppo, sono solo artistico ma anche<br />

umano… [E poi] è questo succedersi e intrecciarsi di sentimenti e di emozioni che più<br />

mi colpisce e mi affascina».<br />

Nekrosius a tutti: «Una domanda: cosa predomina secondo voi nel testo, la<br />

letteratura o l’amore?».<br />

E Laura: «Forse la letteratura… perché anche dell’amore si fa una forma<br />

letteraria…».<br />

Nekrosius: «E in ogni caso c’è molta letteratura e molto amore!».<br />

La discussione si sposta su altri temi: sul ruolo della morte (con la figura di Masa e<br />

lo sparo finale di Treplev) e su quanto “giovani” siano i protagonisti (specie nel<br />

confronto tra madre e figlio, o tra l’Arkadina e Masa).<br />

«Commedia o dramma, qual è l’equilibrio?» sottolineò, poi, Christophe.<br />

«Non so bene ancora, c’è qualcosa di pericoloso anche in questo sottotitolo<br />

(commedia in quattro atti)», disse Nekrosius guardando i fogli che aveva in mano, e<br />

aggiunse «potrebbe essere una trappola. E’ una faccenda delicata e per ora non la<br />

affronteremo».<br />

Riprendendo il confronto che stavano facendo con Amleto, Nekrosius sottolineò: «Ci<br />

sono tante somiglianze presentate alla “russa”: è un “Amleto alla russa”.<br />

Inoltre, in Cechov troviamo tanto amore: amore che vaga e che la maggior parte<br />

delel volte non riesce a trovare il suo posto, e proprio nel finale del primo atto …questo<br />

diventa più che mai esplicito in una delle più belle battute di tutto il testo: “Come siete<br />

tutti nervosi! Come siete tutti nervosi! E quanto amore… Oh, lago stregato”. La battuta<br />

è affidata a Dorn, il dottore, che mai come in questo momento è un termometro che<br />

misura la temperatura interna dei personaggi. [In fondo] non sarà la crisi creativa a<br />

spingere Treplev verso la morte, ma il suo incompiuto amore per Nina».<br />

«A me sembra che tutti i personaggi siano soli» disse Fausto, con riferimento ai<br />

personaggi «si parla tanto di amore ma è come se non riuscissero a comunicare l’un<br />

l’altro e viaggiassero ognuno dentro la propria ossessione. L’amore, soprattutto nei<br />

personaggi giovani, assume degli aspetti negativi, autodistruttivi. […] I rapporti tra i<br />

personaggi e tra le varie generazioni nascondono una grande incomunicabilità, e<br />

soprattutto nei personaggi più giovani mi sembra di sentire il dolore per questa<br />

difficoltà di comunicazione».<br />

Nekrosius, su quel tema: «Da sempre nella cultura e nella tradizione russa la pena<br />

d’amore è quasi una cosa desiderata: chi soffre per amore vive, perché è la sofferenza<br />

stessa a farlo sentire vivo. [Inoltre] sono le donne che amano e che soffrono, però sono<br />

gli uomini a raccontarlo e a scriverlo. In Russia c’è molto questa esibizione del dolore<br />

dell’anima e spesso succede che i giovani si uccidano sulla tomba di un grande<br />

scrittore per esprimere la propria vicinanza al suo sentire.<br />

Torniamo a noi e al nostro lavoro. Non dobbiamo avere fretta, soprattutto all’inizio<br />

è meglio capire bene le circostanze precise del testo, individuare i punti principali per<br />

noi e su questi mettere gli accenti. Anche quando cominceremo a lavorare sul palco<br />

dovremo avere molto tempo a disposizione. Lavorando su Cechov con i miei attori,<br />

abbiamo realizzato in priva scene che duravano ore, cercando di far corrispondere la<br />

durata delle singole scene al tempo reale del frammento del testo. Ma questo è possibile<br />

solo nel momento delle prove, poi è necessario ridurre, sintetizzare, arrivare a scegliere<br />

solo ciò che p necessario al nostro discorso. In questo modo si rinvia la possibilità di<br />

89


trovare la soluzione giusta a un secondo momento delle prove, quando il lavoro è più<br />

maturo. Questo è il mio modo di lavorare: decine di ore di materiale scenico che poi va<br />

selezionato; è un po’ quel che avviene nel cinema attraverso il montaggio. Del resto<br />

sarebbe noioso vedere in uno spettacolo le singole scene scandite in dettagli, ogni<br />

situazione trattata e presentata da differenti punti di vista, ma durante il periodo delle<br />

prove lavorare così per me diventa indispensabile e divertente. Questo permette agli<br />

attori di sentirsi liberi, di aprirsi alle improvvisazioni e regala a me la possibilità di<br />

essere sorpreso dalla loro fantasia e creatività».<br />

Successivamente decisero di dividersi in due gruppi, uno di lingua francese e l’altro<br />

di lingua italiana, in modo da lavorare su due versioni dello stesso spettacolo. In quel<br />

modo tutti poterono essere impiegati.<br />

«Presto dovremo pensare anche alla distribuzione dei ruoli» disse Nekrosius<br />

«[Inoltre] credo che sia più utile per voi indirizzarci verso uno spettacolo finali che<br />

rappresenti il più possibile un vero e proprio punto di arrivo. Credo che ciò sia<br />

possibile in due mesi e comunque non trovo interessante proporre alla fine soltanto<br />

degli schizzi di un lavoro. Come dice Cechov, se c’è un fucile, prima o poi si deve<br />

arrivare allo sparo. A proposito avremo bisogno di un fucile da caccia vero che stia in<br />

scena fin dall’inizio, da subito si dovrà creare nel pubblico l’attesa dello sparo finale.<br />

Ho già un’idea chiara per il finale di questo nostro Gabbiano. Dorn si renderà conto<br />

del suicidio di Treplev prima ancora…».<br />

Un’ultima questione importante venne toccata dal regista: lo spazio, il palcoscenico,<br />

il teatro. «Dobbiamo tenere conto sin d’ora del fatto che dovremo spostarci in spazi<br />

diversi: da questa sala qui a Fagagna a quella di Limoges, per poi salire su<br />

palcoscenici veri e propri nei teatri di Liegi e di Roma. A me non piace adattare gli<br />

spettacoli a spazi differenti, soprattutto quando si ha poco tempo a disposizione, perché<br />

trovo sia molto difficile per gli attori e la maggior parte delle volte ne risente la qualità<br />

dello spettacolo. […] In generale non mi piacciono le sale piccole: gli spazi piccoli me<br />

li riservo quando sarò stanco; finché posso voglio lavorare nei teatri grandi, essere<br />

capace di riempire spazi grandi. Il settanta per cento della riuscita di uno spettacolo<br />

dipende dal giusto utilizzo dello spazio scenico. […] In questo senso, sono<br />

conservatore: mi piace il palcoscenico, la scatola nera, il sipario, e credo che senza il<br />

luogo deputato giusto non si arrivi al senso profondo del teatro».<br />

Sollecitato sul tema Nekrosius sostenne che: «In questo lavoro dovremo essere<br />

attenti a evitare i cliché e allo stesso tempo gli esperimenti. […] Il pericolo nel mettere<br />

in scena Cechov è quello di cadere nell’intimità, di chiudersi nella vita delle famiglie<br />

che descrive, all’interno delle loro abitazioni, assumendo tonalità dimesse… e tentando<br />

di esprimere in questo modo la noia di cui tanto parlano i suoi personaggi. […] In<br />

questo modo rischiamo di escludere il pubblico [che] al contrario deve essere fatto<br />

partecipe, il pubblico paga per questo ed è giusto comunicargli delle emozioni: il<br />

nostro lavoro consiste in questo, siamo dei venditori di sentimenti. Ma non bisogna<br />

dare tutto subito, è bene saper dosare le emozioni che trasmettiamo al pubblico in modo<br />

che non si stanchi e mantenga sempre vivo il desiderio di ascoltarci.<br />

Quando vedo uno spettacolo balordo che non mi piace e mi viene chiesta la mia<br />

opinione ma non posso dire ciò che penso veramente, allora faccio questa domanda:<br />

“Ma come siete riusciti a fare questo?”. Fatta in modo serio, questa domanda susciterà<br />

una risposta seria, convinta e il vostro interlocutore prenderà la parola, cominciando a<br />

spiegare il suo lavoro ed esonerando voi dal dover esprimere le vostre impressioni.<br />

Ecco, noi dovremo evitare che ci facciano questa domanda!».<br />

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Mercoledì fu dedicato al primo atto e alla assegnazione dei ruoli.<br />

«Domani andrò al capannone di Udine insieme a Marcus [è il figlio scenografo di<br />

Nekrosius: n.d.t.]» disse Nekrosius «a cercare delle cose per cominciare ad allestire lo<br />

spazio: non è detto che saranno gli elementi definitivi che useremo nello spettacolo, ma<br />

serviranno a riempire e a rendere un po’ più teatrale questo spazio che ora è troppo<br />

vuoto e non mi piace».<br />

Il gruppo cominciò a lavorare sul primo atto, con un iniziale scambio di idee.<br />

«In tutti i personaggi» disse Vanessa «c’è una totale mancanza di pudore nel<br />

manifestare agli altri la propria infelicità, il proprio problema, il proprio vizio… tutto<br />

questo può far ridere ma alla lunga rende l’atmosfera pesante come se stesse per<br />

succedere qualcosa di tragico».<br />

Benedicte: «Io non sento troppa infelicità o sofferenza nei personaggi, quanto una<br />

specie di eccitazione. E’ come se tutti stessero aspettando qualcosa…».<br />

Gregory: «Io mi domando per quale motivo lo spettacolo di Treplev risulti così<br />

insopportabile ai suoi spettatori tanto da venire interrotto. Probabilmente non dipende<br />

dalla qualità dello spettacolo in sé, ma dal fatto che, per qualche ragione, turba i<br />

rapporti personali tra i personaggi […]».<br />

E Nekrosius: «Risolvere il momento della rappresentazione sarà uno dei compiti più<br />

difficili: è un momento decisivo che se rimanesse irrisolto, influenzerebbe<br />

negativamente tutto il resto. Spesso è la risoluzione di una sola scena a decidere la<br />

riuscita di un intero spettacolo […]».<br />

Il gruppo di attori e il loro regista tracciarono allora l’atmosfera che intendevano<br />

riprodurre. Discussero del dinamismo iniziale di alcuni dei personaggi, della vitalità<br />

apparente e del movimento che si doveva produrre in scena per esprimere quella sorta<br />

di ambientazione gioiosa ma tesa che si respirava fin dalle prime scene.<br />

Nekrosius così espresse il suo pensiero: «Come immaginate questo primo atto: come<br />

un’unica semplice melodia o come un’opera polifonica? Io vorrei che assomigliasse a<br />

una melodia. Costruirlo come una polifonia …potrebbe aiutarci a descrivere meglio i<br />

conflitti tra i personaggi, ma la cosa più complicata è eseguire una melodia, un unico<br />

motivo che contenga tutto e che ci prenda al cuore. L’unione dell’intelletto con il cuore<br />

crea un materiale esplosivo, ti porta a risultati altissimi: Chaplin ne è l’esempio più<br />

clamoroso. […] La polifonia è intellettuale, mentre io cerco un’unica, bella, semplice<br />

melodia in cui si sia qualcosa di nuovo e di antico allo stesso tempo, io cerco<br />

soprattutto la sincerità».<br />

Con riferimento al momento della rappresentazione all’interno del testo, Laura [a<br />

cui poi verrà assegnata la parte di Nina] domandava ai suoi colleghi: «[…] come<br />

recita Nina, quanto cuore ci mette?».<br />

«Secondo me» disse Nekrosius «lei recita al massimo, al mille per cento delle sue<br />

possibilità… E’ l’unica possibilità che ha di mostrarsi come attrice, e anche per noi<br />

sarà l’unico momento in cui vedremo come recita».<br />

Nel gruppo c’era chi la vedeva “in estasi”, chi “impegnata a raccontare una<br />

favola”, chi “tesa e impacciata” o “con una forza incredibile”.<br />

Fausto [che farà la parte di Kostja] sottolineò: «Nella recita di Nina c’è vita,<br />

urgenza, motivazione e forse lo spettacolo riesce male perché crea un forte contrasto<br />

tra la sincerità dell’interpretazione di lei e il vuoto delle parole scritte da Kostja».<br />

Ma poi, in effetti, il testo di Treplev era davvero così “brutto”? Come considerarlo?<br />

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«Proveremo più di una versione» disse Nekrosius «finché non troveremo quella che<br />

ci convince di più. […] La maggioranza delle volte questo momento viene glissato o<br />

evitato completamente; e così molti miei colleghi pur non risolvendo il compito,<br />

riescono a prendere voti altissimi e questo non può che indispettirmi. […] In questa<br />

scena le possibilità espressive dell’attrice che interpreta Nina sono al massimo: è il suo<br />

biglietto da visita, e il pubblico aspetterà questo momento con la stessa trepidazione<br />

con cui, all’Opera, si aspetta l’aria in cui c’è la nota più difficile per la cantante».<br />

Tornando alla rappresentazione della rappresentazione Nekrosius fornì ulteriori<br />

dettagli e informazioni: «Guardando vecchie fotografie che ritraggono Cechov e altri<br />

artisti di quel periodo da giovani, quando avevano pressappoco l’età di Kostja, sei<br />

subito colpito da una luce particolare che brilla nei loro occhi: tutti loro avevano in<br />

comune l’ambiziosa ricerca del nuovo nell’arte, l’urgenza di essere diversi. Io vorrei<br />

che anche negli occhi del nostro Treplev brillasse quella luce. Anche in lui c’è molta<br />

urgenza e ambizione».<br />

«E ora pensiamo alla luna» aggiunse «Abbiamo detto che Treplev ha calcolato tutto,<br />

ma se quella luna non si vedesse perché il cielo è nuvoloso? Probabilmente non<br />

sarebbe un problema. Il suo grado di eccitazione è tale da fargli subito trovare una<br />

soluzione. Potrebbe essere Jakov a sostituire la luna; del resto lui è un operaio, magari<br />

lui è anche stato pagato da Treplev per aiutarlo… Basterebbe metterlo in piedi su una<br />

sedia, di lato, con in mano una padella arrugginita su cui, magari, potremo scrivere<br />

“luna”».<br />

A proposito del lago, «Perché viene detto che il lago è stregato?» domandò<br />

Nekrosius «Ci sarà un motivo e noi dobbiamo trovarlo. […] In ogni caso non dovrà<br />

restare in secondo piano. In Cechov tutte le indicazioni sulla natura sono molto<br />

importanti e non devono essere tralasciate. Il cognome di Nina, Zarecnaja, in russo<br />

vuol dire “dietro il fiume”, e non è certo un caso. La natura è in continuo movimento,<br />

come i personaggi».<br />

A fine giornata l’attenzione venne posta sul ruolo della Arkadina [che sarà affidato a<br />

Pia]: il suo personaggio, il rapporto col figlio, con il suo lavoro, con Trigorin…<br />

«Oggi abbiamo toccato molti punti del primo atto, abbiamo dato uno sguardo<br />

superficiale, in seguito cercheremo di approfondire sempre di più; inizieremo presto a<br />

lavorare praticamente, e a proposito, vorrei che cominciaste a propormi delle soluzioni<br />

vostre per la primissima scena […]. Non preoccupatevi del testo, solo in seguito<br />

penseremo alle battute, le parole verranno in modo naturale.<br />

Domani, come abbiamo fatto oggi con il primo, parleremo del secondo atto;<br />

lavoreremo assieme solo la mattina perché dopo pranzo andrò al capannone di Udine,<br />

voi rimarrete qui a lavorare sui vostri compiti. Mi piace il lavoro individuale e viglio<br />

che abbiate tempo per farlo; è un modo per mantenere sempre vivo il proprio punto di<br />

vista, naturalmente tenendo conto il più possibile dell’autore. Agli attori fa bene fare da<br />

soli i primi passi. Buon lavoro!».<br />

Il lavoro pratico sul palco inizierà solo venerdì. Ma intanto il gruppo aveva avuto<br />

modo di ripercorre interamente il testo.<br />

«Ora finalmente voglio vedervi sul palco» disse il regista «La prima condizione per<br />

il lavoro sul palco è che voi abbiate degli abiti appropriati, dei vestiti che indossate<br />

solo per le prove: quando siete sulla scena non voglio vedervi con i vostri vestiti<br />

quotidiani, in jeans e T-shirt colorate, né le donne in pantaloni».<br />

92


La prima scena con cui ebbero a che fare i giovani attori era composta da due sedie<br />

distanti tra loro, legate tra loro da un filo teso su cui erano stesi abiti da uomo e da<br />

donna. Sul palco Nina e Trigorin (secondo atto). I due arrivano uno dopo l’altra, si<br />

salutano, cominciano a ritirare gli indumenti, inavvertitamente si ritrovano tra le mani<br />

una i vestiti dell’altro e tra imbarazzo e risa si cambiano le battute […].<br />

I primi commenti di Nekrosius furono: «Vi avevo detto che anche solo nello spazio di<br />

un frammento volevo vedere un inizio, un punto culminante e una fine; non avete<br />

pensato abbastanza alle circostanze: come e da dove arrivano i personaggi? Nina<br />

prevede l’arrivo di Trigorin? Lo aspetta, sente che lui sta arrivando? Dovete sforzare<br />

di più la vostra fantasia, pensate a tutto ciò che c’è intorno ai personaggi: avreste<br />

potuto perfino utilizzare in qualche modo l’uscita di Treplev prima dell’arrivo di<br />

Trigorin. Non dovete avere fretta, all’inizio potete prendervi tutto il tempo che volete:<br />

come sarà l’attesa di Nina? Punto molto su questi suoi momenti di solitudine. Come<br />

arriverà Trigorin, che passo avrà? […]».<br />

Un’altra coppia di attori sulla stessa scena. Nina in scena, Trigorin entra e va verso<br />

di lei, si salutano si stringono la mano, a Trigorin cade la penna, si chinano entrambi<br />

per raccoglierla e sbattono sonoramente le teste uno contro l’altra, si mettono a ridere,<br />

si guardano con un misto di attrazione e imbarazzo […].<br />

«Il frammento è più vivace» disse Nekrosius «ma anche qui non è risolto de tutto il<br />

compito che vi ho dato. Non abbiate fretta, dovete pensare di più all’inizio, all’attesa di<br />

lei, all’arrivo di lui […]. Tornate sul palco: proviamo a vedere che succede se Trigorin<br />

la guardasse semplicemente, senza toccarla, senza parlarle, come se lei fosse un<br />

oggetto in un museo, e come reagirebbe lei […]».<br />

Su un’altra scena: «La vostra posizione è troppo comoda, tradizionale, avete creato<br />

un’atmosfera cechoviana standard, non siete stati molto creativi, avete cercato poco, e<br />

se venisse sul palco un’altra coppia riuscirebbe facilmente a rifare ciò che avete fatto<br />

voi […]».<br />

E ancora, su una scena nuovamente differente: «Bene, la scena è divertente e si<br />

avvicina a quello che voglio, ma anche voi siete molto frettolosi, il frammento poteva<br />

durare di più […]. Un suggerimento a Masa: prova a essere più luminosa, meno cupa,<br />

senza fare troppo il broncio. Perché vorrei che restasse comunque un personaggio<br />

simpatico».<br />

A parte, con un altro gruppo che lavorava alla primissima scena dello spettacolo,<br />

con Masa e Medvedenko.<br />

Nekrosius: «La scena è stata divertente, avete pensato a tutte le circostanze: è<br />

l’inizio dello spettacolo ed è giusto dare al pubblico più informazioni possibili; mi è<br />

piaciuto l’inserimento di Jakov, il teatro, la previsione di Masa che batte tre colpi di<br />

bastone come poi farà Kostja all’inizio del suo spettacolo, e quindi il suo legame con<br />

lui».<br />

Alessando: «Abbiamo pensato che Masa probabilmente seguisse di nascosto le prove<br />

di Kostja e Nina e che quindi conoscesse bene cosa succede nello spettacolo […]».<br />

Sabato, a fine settimana, Nekrosius annunciò che per la settimana successiva<br />

vorrebbe avere i primi elementi della scenografia, anche se non definitivi: «dobbiamo<br />

per esempio pensare a come sarà il nostro lago!».<br />

E assicuro il lettore che sarà una delle soluzioni più affascinanti a cui mi sia mai<br />

capitato di assistere!<br />

93


Notando poi una certa preoccupazione nei ragazzi per l’attribuzione dei ruoli e per<br />

il proseguo del lavoro, Nekrosius volle tranquillizzarli: «Forse preferireste che<br />

ciascuno potesse lavorare un po’ su tutto per poi presentare più versioni delle varie<br />

scene, in modo che ogni attore abbia l’opportunità di provarsi sui personaggi<br />

principali. Io facendo teatro prima di tutto penso al pubblico e a ciò che è meglio per<br />

lui: non lavoro per il mio piacere ma per il piacere del pubblico. […] Nella nostra arte<br />

bisogna sempre pensare al ricevente e al suo piacere più che al nostro: se il pubblico<br />

non lo percepirà e non ne gioirà tutto il nostro processo creativo e le sue belle parole<br />

sono inutili.<br />

[…] Riguardo al lavoro di ieri, abbiamo visto delle cose belle, ma in generale il<br />

consiglio per tutti è di non pensare mai di poter cominciare a lavorare solo nel<br />

momento in cui salite sul palco. E’ necessario invece che creiate le basi, l’atmosfera, la<br />

linfa del vostro personaggio già prima di entrare in scena e che l’attore arrivi sul palco<br />

con il suo bagaglio pieno, con il suo cuore pieno; già guardando i primi passi di un<br />

attore sulla scena io dovrei cominciare ad avere informazioni precise sul suo<br />

personaggio e sulla sua storia, avere il suo biglietto da visita».<br />

C’era molto da fare. Ma l’atmosfera dei giorni seguenti fu più rilassata e divertente.<br />

L’appuntamento era per la settimana successiva. Domenica non si prova.<br />

94


VI<br />

(La fabbrica della conoscenza artistica. Le strategie di trasformazione della conoscenza tra codificazione<br />

e condivisione: il contesto drammatico e il contesto teatrale)<br />

In cui, continua la proposta di ricerca basata sull’idea di conoscenza per lo studio dei<br />

fenomeni artistici in una prospettiva manageriale E in cui continua la metafora del<br />

festival come spettacolo, questa volta attraverso l’introduzione del parallelo con le<br />

componenti “drammatica” e “spettacolare” di una rappresentazione teatrale <br />

95


Erano trascorsi alcuni anni da quella prima, informe, esperienza di ricerca “sul<br />

campo” con Nekrosius e i suoi giovani attori impegnati nella messa in scena de “Il<br />

Gabbiano”: anche se, come detto, non portarono alla “produzione di qualcosa di<br />

scritto”, quegli eventi non cessarono di riafforare alla mente in ogni occasione in cui<br />

toccavo argomenti che in qualche modo fossero collegati alla produzione teatrale. Ad<br />

alimentare questo costante riflusso di memoria si aggiungeva l’acquisto recente del<br />

diario di bordo, il successivo ritrovamento dei miei appunti e il mio viscerale e<br />

inopinabile interesse per il racconto: eventi, questi, che dovevano anticipare di poco<br />

tutto quanto avvenne nei miei primi viaggi in Francia, dapprima ad Avignone e, poi,<br />

anche a Parigi. Probabilmente la voglia di riutilizzare quelle memorie e quel materiale ai<br />

miei fini fu una delle molle che mi spinse ad intraprendere seriamente, con particolare<br />

decisione, la strada della narrazione che approfondii però solo successivamente. Un<br />

ricercatore che ha per le mani del “buon materiale” è come un artista che ha<br />

riconquistato l’ispirazione e la voglia di creare, magari con forme nuove!<br />

Quanto evidenziato nelle riflessioni sul Festival di Avignone era fortemente ancorato<br />

ad una delle più tradizionali distinzioni che avevo ritrovato negli studi di semiotica del<br />

teatro. Ancora una volta, quegli studi teorici, a prima vista tanto lontani dall’oggetto dei<br />

miei interessi accademici, mi erano tornati utili per capire come si sviluppò la<br />

rappresentazione de Il Gabbiano. Quel collegamento ulteriore col passato fece in modo<br />

che, dal momento in cui riaffiorarono nella mia mente quei concetti, ogni fenomeno che<br />

vedevo o immaginavo con riferimento al Festival fosse, per me inquadrabile in quella<br />

distinzione, sempre in apparenza, senza alcun contenuto o rilevanza “gestionale”. Ed<br />

invece, si rivelò un ulteriore straordinario, ardito, tassello di verità che mi stavo così<br />

creando e che stavo ora cercando di collocare nel mio immaginario puzzle teorico. La<br />

semiotica, e la semiotica teatrale con la distinzione tra testo drammatico e testo teatrale,<br />

erano esattamente ciò di cui avevo bisogno per continuare la mia improbabile<br />

trasposizione della prospettiva knowledge-based al caso della produzione artistica.<br />

Stavo completando un percorso: avevo travato il modo per intraprenderlo (con la<br />

narrazione); avevo individuato un oggetto, un punto di partenza (la produzione artistica<br />

e lo spettacolo dal vivo); avevo trovato il propellente teorico per una parte del mio<br />

ragionamento (la prospettiva knowledge-based). Ora, stavo in parte trovando l’anello<br />

mancante dal punto di vista teorico per superare una impasse epistemologica, per<br />

collegare il tutto. Raccontare storie per cercare di dare una interpretazione<br />

fenomenologica al manifestarsi di processi che, per loro stessa natura, sono culturali<br />

come la produzione artistica: avevo bisogno di collegare interazionismo simbolico e<br />

conoscenza narrativa a pragmatismo e costruttivismo; fenomenologia ed ermeneutica<br />

attraverso la semiotica.<br />

Visto che mi venivano sempre più spontanei questi collegamenti tra il laboratorio di<br />

Nekrosius e il Festival di Avignone, e visto che sembravo aver trovato una sorta di<br />

bandolo di quella intricata matassa teorica che stavo cercando di dipanare, decisi che era<br />

necessario andare fino in fondo alla questione. Laboratorio teatrale e Festival di<br />

Avignone potevano e dovevano essere considerati come i miei “laboratori” attraverso<br />

cui continuare ad erigere quell’incerta costruzione “astratta” che era la mia “fabbrica<br />

della conoscenza artistica”. Se i macchinari e le lavorazioni della “fabbrica” prospettata<br />

da Enzo Rullani, e che tanto mi affascinavano, avevano davvero un senso, ebbene ne<br />

dovevano avere ancora di più nel quadro di quei fenomeni che da qualche anno mi ero<br />

messo in testa di studiare.<br />

96


***<br />

La seconda settimana: lunedì 7 – domenica 13 agosto 2000<br />

Nekrosius: «Il lunedì è un giorno difficile: si deve riprendere a lavorare dopo il<br />

riposo, dobbiamo recuperare la concentrazione. Nei giorni scorsi vi ho chiesto molte<br />

volte di lavorare a casa da soli, vi ho dato molti compiti e voglio spiegarvi il perché. Io<br />

penso che per un attore sia necessario imparare a essere autonomo, evitare di affidarsi<br />

completamente al regista e farsi solo guidare da lui: non è giusto per un artista<br />

dipendere o sottostare alla volontà di qualcun altro, l’artista deve mantenere la sua<br />

indipendenza creativa. Siete giovani, dovete pretendere molto da voi stessi e dagli altri,<br />

dovete lavorare molto e costruirvi la carriera con le vostre mani, non aspettate mai,<br />

non affidatevi troppo al caso; nell’arte in genere si deve lottare per arrivare a ciò che<br />

si vuole, abbiate fiducia in voi stessi e pensate al fatto che siete delle creature creative e<br />

non solo degli esecutori, date spazio quindi al vostro io creativo e alla sua capacità di<br />

essere indipendente […]».<br />

Martedì Nekrosius portò con sé il pezzetto di carta su cui, nella notte, avevo scritto<br />

la distribuzione dei ruoli.<br />

«Ieri sera in albergo vi sentivo provare e mi piaceva, quello che sentivo suonava<br />

bene. Ero nella mia stanza e ho provato a distribuire le parti. Questo è un momento<br />

difficile per tutti noi, ma credo che dopo l’attribuzione dei ruoli il lavoro comincerà a<br />

essere più concreto e produttivo. Preferirei che quello che sto per comunicarvi non<br />

fosse poi soggetto a modifiche, però potrei anche ave sbagliato qualcosa, perciò non<br />

pretendo che tutto debba per forza restare inalterato».<br />

Diede lettura dei nomi e del relativo accoppiamento, sia per il gruppo della versione<br />

francese sia per quello della versione italiana.<br />

E concluse: «Questa è la storia. E’ passata una settimana da quando abbiamo<br />

iniziato ed è bene che ora ognuno possa concentrarsi maggiormente sulla sua parte e<br />

che il lavoro prenda una direzione più definita. Non esiste un regista al mondo che<br />

possa sapere tutto, che possa fare a meno dei suoi attori, e quindi anch’io qui non avrei<br />

senso senza di voi. Dobbiamo sentirci tutti uniti in un lavoro creativo comune: io mi<br />

impegnerò al cento per cento e vorrei lo stesso da voi. Ora passiamo al lavoro pratico».<br />

I giorni successivi lavorarono a lungo sulla scena di Nina con Trigorin (secondo<br />

atto). E le suggestioni di Nekrosius, che in parte riprendono le proposte dei ragazzi, si<br />

fanno sempre più precise.<br />

«[…] Ora Nina, felice e agitata, potrebbe decidere di portare in scena delle sedie<br />

per sedersi e parlare con Trigorin, prende in quinta due sedie incastrate tra loro, le<br />

porta al centro del palcoscenico e prova con tutte le sue forze a separarle senza<br />

riuscirci, tanta è la sua emozione, è come se le sedie fossero legate da un nodo eterno;<br />

dopo vari tentativi si arrende imbarazzata e allora sarà Trigorin che con un solo gesto<br />

riuscirà a districarle, suscitando ancora più ammirazione in Nina che lo guarda quasi<br />

come se fosse un mago; quindi dopo aver spolverato la sedia con la mano e con la sua<br />

stessa gonna, invita Trigorin a sedersi, lei resta in piedi al suo fianco e piena di<br />

agitazione inizia la sua “intervista” (“Vorrei sapere come ci si sente a essere uno<br />

scrittore famoso, pieno di talento. Che sensazione dà la celebrità? Cosa provate a<br />

sentirvi famoso?”): le parole le vengono a stento, oppure tutte di colpo in un unico<br />

fiato, tutto quello che dice e che fa deve tradire la sua grande eccitazione, ogni gesto<br />

97


deve essere ingrandito come fosse un primo piano ci chiarisce la situazione emotiva di<br />

Nina.<br />

[…] Trigorin dice la sua battuta (“Io?... Per me, scusate se ve lo dico, son tutte belle<br />

parole…”) alzandosi e facendo per andarsene; Nina lo rimette seduto (“La vostra vita<br />

è meravigliosa”: deve trovare il modo per tenerlo ancora lì con lei. Cosa non è capace<br />

di fare una donna innamorata! Se riuscisse a spostare il lago e portarglielo ai suoi<br />

piedi? Dopo che Trigorin tenta per la seconda volta di andarsene (“Cosa c’è poi di così<br />

meraviglioso?”), Nina lo fa sedere di nuovo, gli mette le mani sugli occhi e inizia il suo<br />

miracolo: prende il primo secchio e lo porta davanti a Trigorin, quindi gli fa aprire gli<br />

occhi, lui ride e cerca ancora una volta di sottrarsi (“Devo andare a scrivere. Scusate,<br />

non ho tempo…”), eppure resta e inizia il suo discorso. Nina intanto sposta tutti gli<br />

altri secchi intorno a lui circondandolo come fosse una piccola isola in mezzo al lago,<br />

in questo modo le sue riflessioni saranno più ispirate. Più di una volta Trigorin d’istinto<br />

potrebbe alzarsi per aiutare Nina nel suo lavoro ma lei non glielo permetterà mai,<br />

lasciandolo concentrato nelle sue considerazioni; la sua azione sia molto vitale e<br />

faticosa, Ninaa non stacca mai la sua attenzione dalle parole di Trigorin: anche<br />

quando è di spalle voglio vedere che lo ascolta; ogni tanto può interrompersi per<br />

seguire lui che parla, la sua camminata sarà sempre diversa, con degli stop e poi una<br />

corsa più veloce verso i secchi per tornare subito ad ascoltarlo da vicino. Durante tutta<br />

questa azione, Nina, nonostante l’impegno e la fatica per spostare i venti secchi pieni<br />

d’acqua [e l’acqua c’era per davvero, n.d.t.], dovrà essere libera e sciolta, una forza<br />

della natura: certo, potrà sudare, asciugarsi la fronte o soffiarsi le mani arrossate, ma<br />

non perderà mai la gioia e l’entusiasmo per ciò che sta facendo: per l’uomo che ama<br />

riesce a spostare ciò che non si sposta; l’Arkadina ha portato a Trigorin un bicchiere<br />

d’acqua, lei gli sta portando il lago intero […]».<br />

La scena del lago, i secchi di lamiera, enormi e ricolmi di acqua, il rumore<br />

provocato dai loro manici e dal loro contatto, il calpestio sull’acqua caduta sul palco,<br />

l’interpretazione di Nina, con la sua sensuale freschezza: non vorrei apparire come il<br />

più banale dei bugiardi e il più mediocre dei lusingatori, ma fu una delle scene più<br />

incantevoli e seducenti a cui assistetti in vita mia!<br />

La terza settimana: lunedì 14 – domenica 20 agosto 2000<br />

Molta attenzione fu prestata alla prova dello spettacolo di Treplev e Nina.<br />

Eccone l’immagine che ne diede Nekrosius: « “Voi, venerabili antiche ombre…”:<br />

questa frase è detta a voce molto alta, ripetendo molte volte “voi” e ogni volta<br />

puntando il dito verso i suoi spettatori, come a voler denunciare che oramai l’Arkadina,<br />

Trigorin e tutti gli altri fanno parte della tradizione, di ciò che è vecchio e stantio.<br />

Treplev vuole offendere il pubblico già con questa presentazione. Quindi chiama Jakov<br />

che entra in scena a sistemare il fagotto sullo sgabello, mentre lui va al pianoforte:<br />

sarà lui ad accompagnare Nina durante la sua recita con dei suoi semplici che avranno<br />

la funzione di sottolineare i passaggi più importanti.<br />

Jakov entrando sul palco per sistemare il fagotto è confuso e agitato dalla presenza<br />

di due pubblici. E’ disorientato, non sa come appoggiare il fagotto. Alla fine lo lascia<br />

con la testa rivolta verso il pubblico vero e corre via, si ferma sulla sinistra del palco,<br />

resta in piedi di spalle, immobile, pronto a entrare in scena più avanti come Luna. In<br />

questo modo sarà già Jakov ad anticipare lo sbaglio di Nina che manderà all’aria lo<br />

spettacolo.<br />

98


Inizia l’accompagnamento musicale, Nina entra da sinistra come una sonnambula,<br />

con le braccia tese in avanti e gli occhi chiusi, arriva al centro del palco e comincia a<br />

girare più volte su sé stessa, prima in una direzione poi nell’altra, infine si ferma<br />

davanti al fantoccio dando le spalle al suo pubblico, e comincia a parlare al bambino,<br />

sussurrando e imitando con i gesti gli animali che nomina. Quindi si raddrizza, rivolge<br />

lo sguardo verso gli spettatori e continua il suo testo fino a indicare con un braccio la<br />

Luna (“…e questa povera luna…”): a questo punto Jakov si gira e solleva la padella<br />

con su scritto “Luna”: per tutto lo spettacolo di Nina resterà con il braccio sollevato<br />

[…]».<br />

Gli attori provano e riprovano tutta la scena dello spettacolo. Alla fine Nekrosius<br />

commenta: «Non è male, siamo sulla strada giusta. In generale per tutti e in particolare<br />

per Nina vorrei che questa scena fosse un po’ più dolorosa: voglio più coinvolgimento<br />

umano, emotivo. La sensazione dell’errore finale deve essere terribile per Nina, e la<br />

sua reazione dovrà commuovere il pubblico in sala. Ogni volta che Jakov deve<br />

muoversi sulla scena, dovrà farlo in maniera goffa, lui non sa stare sul palcoscenico: è<br />

un semplice operaio, non un attore».<br />

Tra martedì e giovedì il regista si occupò di terminare il primo atto. Ecco come la<br />

immaginò Nekrosius.<br />

«Treplev entra in scena un po’ come un automa, cammina a passi lenti, lo sguardo è<br />

fisso davanti a sé; si vergogna, si sente a disagio per l’esito dello spettacolo, ha sulle<br />

spalle tutta la pesantezza del fallimento dei propri progetti. Potrebbe entrare tenendo in<br />

mano un martello, ma non si tratta di un’arma: è semplicemente un appoggio, un<br />

sostegno in questo momento di grande depressione.<br />

Dorn lo guarda a lungo con attenzione e capisce subito lo stato d’animo e le<br />

condizioni psicologiche di Treplev. In tutta questa scena le parole di Dorn, che peraltro<br />

partono da un’impressione sincera riguardo allo spettacolo, hanno lo scopo di<br />

risollevare Treplev dall’abbattimento in cui è caduto. Qui Dorn è prima di tutto un<br />

dottore che cerca di sorvegliare lo stato alterato di un malato e porci rimedio. E’ molto<br />

fisico, dà forti pacche sulle spalle di Treplev […]; quindi, dopo avergli sfilato il<br />

martello dalle mani e averlo poggiato sullo sgabello, gli prende le mani e le alza verso<br />

di sé facendogli tendere le braccia, come a controllargli il tremore […]. Treplev rimane<br />

un po’ di tempo in quella posizione, poi gira le mani e mostra i palmi al dottore: le sue<br />

dita sono i suoi arnesi di lavoro (“Dunque dite che vale la pena di continuare?”); dopo<br />

il “certo” di Dorn, Treplev chiude le mani commosso e rincuorato, come per trattenere<br />

questa risposta preziosa, e se le porta vicino al petto, sussurando dei “grazie” a chi gli<br />

sta restituendo fiducia in se stesso. Dorn comincia a notare il beneficio che le sue<br />

parole portano a Treplev ma continua a sorvegliarlo con attenzione, gli gira attorno<br />

per tutta la sua prossima battuta […]».<br />

Nekrosius aveva una cura maniacale per i dettagli apparentemente insignificanti.<br />

Dopo aver montato tutto il primo atto chiese agli attori di poterlo riprovare tutto fin<br />

dall’inizio, «per precisare meglio tutti i passaggi da una scena all’altra».<br />

Il giorno successivo, con tono quasi incoraggiante, disse: «Ho pensato molto a<br />

questo primo atto e a come lo abbiamo fatto, e credo che vada bene. Ora però bisogna<br />

che lo schema creato cominci a non sentirsi più, il disegno deve sparire, rientrare in voi<br />

in modo naturale; ogni volta che lo riproveremo dovrete sentirvi sempre più sciolti e<br />

liberi; cambieremo delle piccole cose restando allo stesso tempo dentro la struttura che<br />

abbiamo creato». Come una sarta che imbastisce il suo abito, ora si trattava di togliere<br />

i fili provvisori e legare le cuciture in modo stabile; seppur non definitivo.<br />

99


Venerdì la giornata cominciò …cambiando l’acqua dei secchi! Come disse un<br />

sorridente Nekrosius: «Partiamo dalle cose più realistiche: dall’igiene!».<br />

Nella mattinata il regista cominciò a montare il secondo atto.<br />

Nel primo pomeriggio, la distribuzione italiana fece una “filata” di tutto il primo<br />

atto.<br />

Nekrosius: «E’ tutto giusto, non c’erano errori, ora bisogna soltanto recitare bene.<br />

Avete fatto la filata dopo mangiato e in più oggi fa molto caldo e la vostra<br />

interpretazione ne ha risentito. Si trattava di un Cechov un po’ passivo, i tempi vanno<br />

stretti e il ritmo non era quello giusto. Ma questo non sarà difficile da correggere.<br />

Già dall’inizio l’azione di Treplev aveva un tempo dilatato che poi ha influenzato<br />

tutta la recitazione; gli attori in scena sono come degli atleti nella corsa a staffetta e il<br />

ritardo del primo influenza e compromette la prova di chi lo segue. Infatti anche Masa<br />

e Medvedenko erano sottotono, e così fino alla fine.<br />

E’ Treplev che deve dare il giusto ritmo a tutta la scena: deve avere il fuoco negli<br />

occhi per recitare questo primo atto. Nina era troppo rigida: devi sentirti più libera, più<br />

irresponsabile; percepisco troppa preoccupazione in te, come un freno che ti trattiene;<br />

tutto ciò che facevi era troppo giusto e controllato, mentre vorrei che fosse più libero,<br />

leggero, naturale. Per quanto riguarda Dorn, sei troppo disattento: ci sono momenti in<br />

cui tradisci i tuoi colleghi in scena. Vorrei che tu mettessi più impegno e partecipazione<br />

nei confronti del lavoro, vorrei che fossi più motivato. Qualsiasi cosa voi facciate nella<br />

vita, soprattutto nel campo dell’arte, va fatta con il massimo impegno, altrimenti non<br />

vale proprio la pena farla. Era buono il lavoro degli altri, soprattutto dell’Arkadina.<br />

Per oggi ci fermiamo qui, a domani».<br />

Altri consigli e suggerimenti di Nekroius, per la scena del gabbiano: «Alla fine del<br />

monologo di Nina si sente il colpo di un fucile e subito dopo entra Treplev, ha il<br />

cappello in mano con dentro il gabbiano ucciso, imbraccia il fucile. Cammina dentro i<br />

secchi come se uscisse dal lago, si avvicina a Nina che nel frattempo si sarà alzata:<br />

sono al centro della scena uno di fronte all’altro (“Siete sola?”, “Si”). Treplev getta il<br />

cappello vicino ai piedi di Nina. L’uccello potrebbe essere ancora vivo e continuare a<br />

lamentarsi; Nina vive qui da sempre, non sarà certo la prima volta che vede un uccello<br />

morto, la sua reazione non deve essere troppo accentuata. Si china verso il gabbiano e<br />

lo guarda quasi con curiosità; è stupita, meravigliata, non impaurita o angosciata; poi<br />

si rialza e reagisce a Treplev che le sta di fronte col fucile spianato […]: alza le braccia<br />

e chiama più volte Jakov fino a gridare con tutte le sue forze; Jakov entra con il<br />

martello in mano, si avvicina al gabbiano che continua a lamentarsi e di sorpresa lo<br />

finisce con un colpo. Quindi fruga nel cappello e ne estrae la targhetta che apparteneva<br />

all’uccello, legge con attenzione e pronuncia la parola “gabbiano” in modo poetico,<br />

poi lancia in aria l’anellino e prima che ricada in terra alza il martello, prende la mira<br />

e imita con la voce lo sparo di un fucile, facendo sobbalzare Nina. Poi esce portando<br />

con sé il divano. La scena resta completamente vuota. Inizia lo scambio di battute tra<br />

Treplev e Nina […]. Da una parte vorrei sdrammatizzare al massimo questa scena, che<br />

viene sempre affrontata in modo tragico e sentimentale, dall’altra accentuarne la<br />

crudeltà propria delle situazioni in cui due amanti si lasciano, e renderla insolita e<br />

sorprendente per chi guarda.<br />

100


La scena finisce con un’ultima disperata capovolta sull’ingresso di Trigorin. Treplev<br />

è sfinito, in lacrime, esce di scena, lasciando definitivamente Nina rivolta verso il suo<br />

nuovo amore.<br />

Nina è di spalle, le braccia che ancora sussultano. Sul palco, dal fondo, compare<br />

Trigorin; in un solo gesto lei si gira e si asciuga veloce con il vestito le lacrime, il<br />

passato è già alle spalle: è tutta nuova, luminosa, rinata, saluta con entusiasmo<br />

Trigorin lontano, sventolando le mani in aria […]; Trigorin risponde al saluto e la<br />

raggiunge, percorre prima in un senso e poi nell’altro la fila di secchi come se fosse<br />

dall’altra parte del lago, mentre lei non lo perde di vista per un solo momento, e<br />

finalmente arriva al centro del palco vicino a Nina […].<br />

La quarta settimana: lunedì 21 – domenica 27 agosto 2000<br />

Il lunedì, Nekrosius chiese di assistere alla filata del secondo atto con la<br />

distribuzione italiana.<br />

«Devo essere sincero: sono preoccupato per la scena tra Polina e Dorn, non posso<br />

far finta di niente. Non è all’altezza del resto. Non c’è rapporto tra di voi, non c’è il<br />

duetto: è come se non parlaste la stessa lingua. La frase di Dorn “Oh, lago stregato”<br />

non può essere detta così, in modo generico, deve essere detta in modo significativo<br />

[…].<br />

Il lavoro dell’Arkadina porterà sicuramente a un buon risultato: devi scioglierti un<br />

po’, sentirti più libera […].<br />

La scena tra Treplev e Nina è molto bella, emozionante, perfetta: c’è passione,<br />

tenerezza, crudeltà… Certo le circostanze sono favorevoli, ma non posso nascondere<br />

che siete bravi.<br />

Nella scena Trigorin-Nina mi sono mancati un po’ gli occhi di Nina, il suo sguardo<br />

per Trigorin; è giusto che tu sia felice perché sei con lui, ma sia anche che sta per<br />

partire: devi mescolare meglio questi due sentimenti. Da pare di entrambi deve esserci<br />

una grande ispirazione. Lo stesso vale per il momento finale di Nina, in cui l’attrice<br />

dovrà essere al massimo delle sue possibilità e pronunciare l’ultima battuta arrivando<br />

a un’esplosione».<br />

La giornata di lavoro si concluse con l’attrice italiana che prova quest’azione sul<br />

palco, spendendo il massimo di energie fisiche e vocali.<br />

Il giorno seguente la distribuzione italiana allestì il palcoscenico per il terzo atto e si<br />

preparò a lavorare con Nekrosius.<br />

«Quando si apre il sipario, Trigorin invece di fissare già la lampadina potrebbe<br />

controllare le gambe del tavolo, prendere le misure, guardare sotto: non si deve capire<br />

cosa sta facendo, forse non lo sa nemmeno lui; sarebbe un’azione strana, curiosa per il<br />

pubblico. Le lampadine che trova nella valigia potrebbero essere sistemate in modo<br />

inusuale: la grande per esempio potrebbe stare dentro un cappello a cilindro, e la<br />

piccola avvolta in un batuffolo di cotone; sarebbe semplicemente un gioco per il<br />

pubblico, delle piccole sorprese che lo stupiscano di continuo.<br />

Nei suoi tentativi di avvitare la lampadina Trigorin ne bagna l’attacco con la<br />

propria saliva o infila il dito dentro la presa; tutte cose che denunciano la sua<br />

ignoranza in materia: del resto lui è uno scrittore.<br />

Quando la lampadina si accende, alla reazione di soddisfazione di Trigorin<br />

potremmo contrapporre quella di grande fastidio di Dunja: lei è una all’antica, questa<br />

101


luce artificiale proprio non le piace, e con le mani prova a cacciarla via come fosse un<br />

insetto fastidioso.<br />

Masa che bacia la mano a Trigorin: è un gesto molto forte, doloroso; di solito sono<br />

gli uomini che baciano la mano alle donne; se una ragazza decide di baciare la mano a<br />

un uomo che non sia un sovrano o un vescovo, questo gesto dovrà avere il giusto<br />

rilievo. Dev’essere fatto con forza e durare a lungo; dopo il bacio Masa prende aria<br />

come dopo un’apnea e scappa via in lacrime, nascondendosi; non dobbiamo più vedere<br />

il suo viso. Anche Trigorin dovrà restare toccato da questo gesto. Vorrei in tutti e due<br />

molta commozione e sentimento […].<br />

[Ad ogni modo e] in generale tutto questo terzo atto dev’essere dominato da una<br />

grande tensione moriva e analizzato soprattutto dal punto di vista psicologico, molto<br />

più degli altri due».<br />

In seguito, un’altra filata della distribuzione italiana di tutto il terzo atto fino alla<br />

fine della scena tra Arkadina e Trigorin. Sulla base dei suggerimenti di Nekrosius.<br />

Alla fine il regista fu soddisfatto: «E’ andata bene. I tempi erano giusti. C’era<br />

emozione. In questo atto si apre la tragedia di ognuno dei personaggi: quella<br />

dell’Arkadina, quella di Treplev, quella di Trigorin… A livello emotivo rappresenta il<br />

culmine del testo, servono grandi motivazioni psicologiche per recitarlo: qui tutto è<br />

denso e concentrato. Quando si parla di sentimenti, solo in voi potrete trovare il modo<br />

per esprimerli, nessuna forma o struttura artistica può fare questo al posto vostro.<br />

Trigorin, all’inizio ritarda il tuo ingresso: quando si apre il sipario voglio vedere solo<br />

Masa in scena seduta al tavolo.<br />

I libri di Trigorin dovranno essere più piccoli perché lui non è un grande scrittore<br />

ma uno scrittore medio […].<br />

Voglio che la catena del trasloco sia perfetta: ci deve essere la sensazione del volo<br />

degli uccelli che emigrano. Dovete provarla molto e acquisire una forte confidenza con<br />

gli oggetti che vi passate: in generale è necessario che l’attore in scena sia sempre a<br />

proprio agio e conosca bene gli oggetti che usa o il proprio costume […].<br />

Mercoledì il regista decise di lavorare alla fine del terzo atto, sulla scena degli<br />

addii.<br />

«[…] Alla fine della scena tra l’Arkadina e Trigorin, quest’ultimo esce mentre lei<br />

resta in scena, bloccata dall’entrata di Samraev, quindi Samraev si sdraia sui secchi a<br />

destra del palco e continua la sua battuta: “Non vi affannate, signora, abbiamo ancora<br />

cinque minuti…”; entra Dunja in lacrime per la partenza della padrona, si sdraia sui<br />

secchi davanti a Samraev e con voce rotta dal pianto, ripete “Addio! Addio!”. Quindi<br />

da sinistra entra Polina, stringe l’Arkadina in un abbraccio. Segue il breve scambio di<br />

battute tra le due donne che tentano reciprocamente di frenare le lacrime; Polina si<br />

stende sui secchi davanti a Dunja; entra trafelato Medvedenko da destra, bacia la mano<br />

dell’Arkadina e anche lui si stende sui secchi davanti a Polina. Ora l’Arkadina è in<br />

piedi al centro dietro la fila dei secchi e saluta tutti con il braccio levato, lo sguardo<br />

lontano, verso il pubblico (“Arrivederci, miei cari… Se tutto va bene, ci vedremo<br />

l’estate prossima… Non dimenticatemi”). […] Ecco così: l’addio sarà sull’acqua».<br />

La distribuzione italiana fece, poi, la filata del terzo atto, completo.<br />

Nekrosius: «E’ andata molto bene: c’era una grande emozione. Sensibilità,<br />

profondità e ascolto reciproco. Ognuno di voi ha portato in scena qualcosa di bello.<br />

Non capita spesso di arrivare a dei risultati così piacevoli.<br />

Nekrosius, il giorno successivo: «Dobbiamo cominciare a pensare a come<br />

organizzeremo lo spazio per domenica: dove mettiamo il pubblico, dove saranno i<br />

102


vostri camerini; cominciate fin da oggi a mettere da parte tutti i vostri costumi e oggetti<br />

che vi servono per lo spettacolo, in modo da avere tutto in ordine e pronto per l’uso. Da<br />

oggi lavoreremo facendo filate di tutti e tre gli atti; vorrei provare a non interromperci,<br />

quindi è necessario che all’inizio siate già pronti e abbiate tutto ciò che vi occorre per<br />

le tre ore della filata.<br />

Il finale del terzo atto (l’appuntamento tra Trigorin e Nina) lo preciseremo in<br />

Francia insieme a tutti il quarto atto […].<br />

Venerdì il gruppo degli italiani realizzarono un’altra filata di tutti e tre gli atti.<br />

Nekrosius: «Era tutto giusto, ma mancava qualcosa di fondamentale: mancava Nina.<br />

C’è stato un solo frammento in cui hai inserito qualcosa di nuovo, per il resto era come<br />

se lavorassi sul ricordo del già fatto. Lo spettacolo si chiama Il gabbiano e se non si<br />

arriva al volo, lo spettacolo parlerà di qualcos’altro. Il tuo lavoro dovrebbe ricordare<br />

un uccello chiuso dentro una stanza che tutti cercano di afferrare senza riuscirci. La<br />

tua recitazione deve essere imprevedibile, sorprendente, deve esserci più ingenuità, più<br />

giovinezza, ora sembri troppo matura e sicura di te; tutte le scene avevano la stessa<br />

temperatura. Controlli troppo la tua interpretazione, non ti lasci andare, sei sempre<br />

troppo vigile. Tu come ti sei sentita?<br />

Laura: «Fin dalla prima scena ero in preda alla paura e mi sono portata dietro<br />

questo sentimento per tutta la filata».<br />

Nekrosius: «Ecco, probabilmente è proprio questo stato di paura, di preoccupazione<br />

a portarti paradossalmente a recitare in modo che ciò che fai a noi sembra<br />

estremamente controllato, troppo sicuro e critico. Invece devi lasciarti andare di più,<br />

avere più fiducia in te stessa e la tua recitazione sarà più fresca, leggera, ingenua. Devi<br />

riuscire a sorprenderti: in tutto questo sorprenderai anche noi. In te dev’esserci il lago,<br />

il vento negli occhi, il sogno […]».<br />

L’indomani Nekrosius informò i ragazzi delle prossime tappe: due spettacoli a<br />

Limoges, due a Liegi e due a Roma, e tra una piazza e l’altra avranno solo un giorno<br />

per il trasferimento. «Vuol dire che ci sarà pochissimo tempo per adattarci ai tre<br />

differenti spazi, questo non è propriamente da professionisti e un po’ mi preoccupa.<br />

Vorrà dire che dovete essere pronti ad adattare il vostro lavoro ai tre diversi luoghi,<br />

quattro se consideriamo anche questo di Fagagna.<br />

Fra un po’ cominceremo la filata dei tra atti come li presenteremo domani, sarà una<br />

specie di prova generale e voglio farvi delle raccomandazioni. Prima di tutto<br />

ricordatevi del gioco di squadra, dell’ascolto reciproco; questo è importantissimo:<br />

ognuno di voi ascolti meno se stesso e più il suo partner. Abbiate sempre riguardo per il<br />

pubblico: non abbassate mai il volume fino a farlo diventare intimo. Questo non ci<br />

interessa e non produce buoni risultati. A livello spaziale ricordatevi di utilizzare tutto<br />

il palcoscenico e soprattutto il fondo o il proscenio, non rifuggitevi nella zona di mezzo.<br />

Abbiate grande fiducia in voi stessi e in ciò che fate. E’ fondamentale perché anche il<br />

pubblico ne abbia.<br />

In particolare riguardo il nostro spettacolo, vorrei sentire più evidente il cambio di<br />

registro tra i primi due atti e il terzo: l’atmosfera e gli stati d’anima dei personaggi<br />

cambiano, le emozioni sono più dense, più forti. Le anime dei personaggi sono più tese<br />

[...].<br />

Domenica 27 agosto ci fu la consueta presentazione aperta al pubblico dopo un<br />

mese di lavoro, sui primi tra atti del Gabbiano di Cechov, a Palazzo Pico di Fagagna.<br />

103


VII<br />

(La fabbrica della conoscenza artistica. I macchinari e le lavorazioni della filiera cognitiva delle<br />

performing arts: le “strutture” della conoscenza (artistica): i differenti livelli di analisi)<br />

In cui il lettore prende confidenza con i reparti, le lavorazioni e i macchinari propri della<br />

fabbrica della conoscenza artistica E dove lo spettacolo teatrale viene analizzato nelle<br />

sue componenti cognitive “strutturali” <br />

104


L’estensione della validità è il primo tipo di “lavorazione” che può subire la<br />

conoscenza di origine nei diversi punti di una filiera cognitiva. La strutturazione della<br />

conoscenza è paragonabile al processo che gli psicologi chiamano “categorizzazione”<br />

ed è legato ai modelli mentali, agli schemi di comportamento e alle cornici (frames) che<br />

sono in grado di “estendere” la validità di una certa esperienza generalizzandola, per<br />

l’appunto, ad un contesto più esteso 1 . Nella realtà di tutti i giorni, e non solo nei<br />

processi di produzione scientifica, utilizziamo continuamente modi differenti per<br />

categorizzare ciò che ci accade e questo serve a comprendere aspetti diversi della reltà<br />

stessa: “l’attore cognitivo frames (incornicia) la situazione che deve fronteggiare,<br />

rappresentandola in certi modi, selezionandone gli aspetti critici che lo interessano e<br />

sperimentando le ipotesi formulate nell’azione pratica 2 ”.<br />

Con riferimento agli studi di management e di organizzazione, Weick si domanda:<br />

«con che cosa abbiamo a che fare quando cerchiamo di riflettere sui processi<br />

organizzativi 3 ?». Lo stesso Weick utilizza una immagine estremamente evocativa:<br />

«[…] le persone spesso trattano le organizzazioni come se fossero orologi che possono<br />

essere letti, contati, misurati. Se le organizzazioni sono orologi, sono certamente degli orologi non<br />

comuni. Non solo possono essere letti male, ma è anche possibile: che la frequenza con cui<br />

l’orologio viene consultato modifichi l’ora che riporta; che l’ora che esso dovrebbe mostrare<br />

modifichi l’ora che realmente riporta; che a seconda che l’orologio piaccia o non piaccia<br />

all’osservatore (diciamo da un punto di vista estetico), riporti l’ora in modo diverso; che se<br />

l’osservatore manda qualcun altro a consultarlo, l’orologio segni l’ora in modo diverso; che l’ora<br />

indicata da altri orologi vicini o la sua posizione rispetto ad altri orologi modifichino l’ora che<br />

segna l’orologio in questione 4 ».<br />

Weick pone l’accento su una questione estremamente rilevante: le organizzazioni<br />

sono oggetti di analisi (e di osservazione) già molto complicati di per sé senza che gli<br />

studiosi si pongano inutili vincoli e si autoimpongano limiti dal punto di vista teorico e<br />

del metodo. I modi attraverso cui si può parlare di organizzazioni sono i più variegati,<br />

ma spesso ci si limita ad utilizzare modelli, schemi, metafore, etichette, strumenti a<br />

volte incompleti, a volte irrilevanti, a volte semplicemente logori 5 . Il principale<br />

obiettivo di chi vuole studiare fenomeni molto diversi e complessi come quelli<br />

organizzativi, secondo Weick, dovrebbe essere quello di individuare «[…] una serie di<br />

idee di una certa generalità, che ci consentano di pensare in termini di relazioni,<br />

enunciate a un livello di astrazione sufficientemente alto e che contengano immagini<br />

evocative” (Weick 1979: 43-44). La prospettiva “knowledge-based”, probabilmente, è<br />

una di queste idee 6 .<br />

La conoscenza, in sostanza, è un processo in divenire, un flusso e non uno stock, un<br />

qualcosa di dinamico e non un qualcosa che invecchia. Nell’esempio proproposto nel<br />

1 Neisser, 1976; Maturana, Varela 1980 (N.d.A.).<br />

2 Rullani, 2004b: 65 (N.d.A.).<br />

3 Weick 1993: 42 (N.d.A.).<br />

4 Weick 1979: 42 (N.d.A.).<br />

5 Di Bernardo, Rullani 1985, 1990; Weick 1995; Czarniawska 1997 (N.d.A.).<br />

6 In tutta la “teorizzazione” che stiamo cercando di costruire e di “spiegare” attraverso i richiami alla<br />

storia sul Festival di Avignone e al caso del teatro contemporaneo, proprio come avviene nella “fabbrica<br />

della conoscenza”, non esiteremo infatti: «[…] a speculare …, a cercare di catturare l’attenzione […], a<br />

utilizzare l’incongruità come prospettiva, ad antropomorfizzare, reificare, inserire l’iperbole, diventare<br />

discorsivi, chiosare, improvvisare, esaminare alternative al positivismo, riconcepire, usare l’intuito e tutti<br />

gli altri trucchi che aiutano a contrastare un’immaginazione poco viva. Nel corso di questa attività alcune<br />

idee [emergono]» (ibidem: 44) (N.d.T.).<br />

105


paragrafo precedente, la ricerca sul “morbo di Baumol” non è da considerarsi un caso di<br />

“cattiva” conoscenza. Al massimo, si tratta di conoscenza poco “creativa” in quanto ha<br />

cercato di “parlarci” di un fenomeno inquadrandolo in una cornice in cui proprio non<br />

riesce a starci nella sua interezza e complessità. In termini appena più formali, si è<br />

cercato di usare alcune delle possibili categorie logiche (ovvero i principi che governano<br />

le teorie economiche tradizionali) utilizzabili per inquadrare un fenomeno reale da un<br />

certo punto di vista. Lo stesso dicasi per la “nuova teoria della crescita” ipotizzata nel<br />

documento OECD e basata su una delle possibili visioni di “economia della<br />

conoscenza”. Usando l’immagine di Weick, si è deciso di guardare l’orologio in quel<br />

dato momento e in quel modo specifico: ciò non è sbagliato, ma è semplicemente<br />

incompleto.<br />

Al momento dell’ideazione di un nuovo progetto teatrale, come in quella mia<br />

esperienza di laboratorio teatrale con Nekrosius e i suoi giovani partecipanti del<br />

Progetto Thierry Solmon, il regista, gli artisti, i vari tecnici e professionisti impegnati<br />

nella fase di creazione (dallo scenografo al light designer, dal costumista ai tecnici di<br />

scena, passando per il responsabile delle musiche o il direttore di produzione)<br />

utilizzavano contemporaneamente “forme cognitive” molto diverse tra loro: cercano<br />

dati; elaborano informazioni; interpretano testi e documenti di lavoro; assemblano<br />

oggetti dando loro significati nuovi; manipolano luoghi e spazi; indagano il significato<br />

di alcuni fenomeni o danno senso ad esperienze passate; adottato pratiche abitudinarie<br />

per risolvere problemi comuni; incontrano, parlano e si confrontano con altre persone.<br />

Tutto questo, avviene all’interno di singoli gruppi di lavoro, oppure attraverso attività<br />

svolte da singole persone o anche dall’incontro tra singole persone e un gruppo di<br />

lavoro o tra gruppi di lavoro diversi 1 . Ancora, all’interno di una organizzazione di<br />

produzione teatrale (una compagnia teatrale dell’est europeo, un teatro stabile italiano o<br />

un teatro nazionale francese, una istituzione teatrale tedesca o un festival olandese) il<br />

contributo in termini cognitivi di un impiegato amministrativo può apparire legato a<br />

forme di sapere meno “creative” rispetto a quanto accade dietro il palcoscenico del<br />

teatro. Ma a ben vedere, anche il patrimonio cognitivo dell’impiegato amministrativo<br />

può apportare “valore” al complesso processo di produzione di conoscenza artistica e<br />

alla realizzazione dello spettacolo: può trascorrere molto del suo tempo avendo a che<br />

fare con dati (sotto forma di numeri) ed elaborando informazioni (sotto forma di<br />

processi contabili o pratiche burocratiche); ma il contenuto cognitivo di ciascun atto<br />

amministrativo si arricchisce enormemente se si pensa al contributo apportato in termini<br />

di interpretazione e applicazione di norme (di comportamento o di natura giuridica)<br />

necessarie al buon andamento della gestione, o considerando il ruolo che possono avere<br />

sulla sua performance cognitiva le sue esperienze passate maturate magari in contesti di<br />

lavoro differenti o in altre organizzazioni artistiche. Nel passo seguente Sonia<br />

Debeauvais, colonna portante del periodo d’oro del Festival di Avignone e memoria<br />

storica dell’organizzazione, descrive il suo ingresso al Festival:<br />

«Je suis entrée dans l’équipe du TNP 2 en 1956. L’avais reçu la troupe peu de temps avant, quand<br />

j’étais femme de consul à Anvers. De retour à Paris, je cherchais du travail et je tombe sur une<br />

1 Sicca 2000; Ouchi 1980; Nonaka, Takeuchi 1995; Orton, Weick 1990 (N.d.A.).<br />

2 Il TNP - Théâtre National Populaire, è una delle più prestigiose istituzioni teatrali francese ed è stato<br />

gestito da Jean Vilar, dal 1951 al 1963, che ne ha rilanciato le sorti dopo un lungo periodo di declino. Nel<br />

periodo in cui Jean Vilar era alla testa di entrambe le istituzioni (TNP e Festival di Avignone), la struttura<br />

organizzativa del teatro parigino era praticamente la stessa che veniva usata, ogni estate, per il Festival;<br />

106


petite annoce dans l’Express: le TNP recherche une sécrétaire d’administration. Je suis reçue par<br />

Jean Rouvet qui, d’abord méfiant, m’engage finalement pour une poste plus intéressant. Après<br />

deux ans au TNP, où je m’occupais du journal Bref, de l’association des amis de Bref et des<br />

diverses manifestations annexes (conférences, dialogues, etc.), Rouvet m’a fait descendre à<br />

Avignon. Nous étions très peu à avoir ce privilège. J’ai donc pris le train de nuit et j’ai découvert<br />

Avignon au petit matin, Avignon vide, avec les garçons qui balaient les terrasses des cafés sur la<br />

place de l’Horloge. A huit heure j’étais dans la tente de Rouvet qui me dit: “Vous avez huit jours<br />

pour remplir la Cour, pour la première des Caprices de Marianne, le 15 juillet”. Je ne connaissais<br />

rien ni personne à Avignon! Il m’a présenté Paul Puaux le matin même. Avec lui, j’ai sillonné la<br />

région. Nous sommes partis voir les cheminots, les usines du Pontet, les Caisses d’allocations<br />

familiales. Nous avons résussi à convaincre les comités d’entreprise, les associations culturelles.<br />

Paul connaissait très bien le terrain, il était du pays et maîtrisait la situation. Aux travailleurs qui<br />

nous disaient qu’ils voulaient faire paisser en priorité leurs rivendications salairales, Paul répondait<br />

que s’ils attendaient le règlement de leurs conflits pour s’occuper des problèmes culturels, ils<br />

n’auraient jamais ni la force ni le temps de s’y intéresser. Les contacts étaient forts, directs,<br />

chaleureux. Pour moi, tout cela était très concret. Cette impression charnelle m’est restée. Revenir<br />

à Avignon chaque année, c’était comme retoucher terre. Le bonheur de la ville er de la vie se<br />

confondaient»<br />

Si tratta di esempi di conoscenza connettiva prodotta da altre filiere cognitive e<br />

messa a disposizione di altri utilizzatori nell’ambito della specifica filiera cognitiva<br />

teatrale: la banca-dati che utilizza il regista per la sua ricerca di attori o l’impiegato per<br />

l’invio di pratiche amministrative; il testo teatrale scritto, pubblicato e distribuito da un<br />

autore e che diventa materiale per l’interpretazione degli artisti; gli oggetti di uso<br />

comune che, utilizzati sul palcoscenico, assumono un significato differente o comunque<br />

nuovo; i pannelli e le scene nate dalla colloborazione con uno scenografo e realizzati per<br />

l’occasione, salvo diventare, poi, materiale utilizzabile per altri progetti; le pratiche<br />

operative dei tecnici di scena e dei laboratori di produzione; l’esperienza passata e la<br />

rete di conoscenze dell’amministratore teatrale; la specifica esperienza della prova<br />

generale; ecc.<br />

Come mettere assieme, dal punto di vista teorico, strutture cognitive con basi<br />

epistemologiche tanto diverse? Naturalmente, chiamandole “conoscenze” e<br />

sottolineando il fatto che ogni tipologia di esperienza cognitiva costituisce essa stessa<br />

una conoscenza con caratteri specifici e potenzialmente capace di fornire una<br />

rappresentazione accettabile di un qualche fenomeno reale.<br />

Alla strutturazione come “lavorazione” cognitiva sono associabili alcuni “mediatori<br />

logici”, ovvero i “macchinari” che rendono possibile quella specificazione lavorazione<br />

della conoscenza quale è la sua validazione. Rullani individua sei tipi di strutture<br />

logiche e quindi sei tipologie di “mediatori logici” in grado di lavorarle aggiungendo<br />

qualcosa all’esperienza corrente della conoscenza originaria 1 , attraverso:<br />

- una legge causale, oggettivamente rilevabile dai dati, mediante inferenza induttiva (in questo<br />

caso, il soggetto deve aggiungere solo un po’ di attenzione nella ricerca delle regolarità);<br />

- un algoritmo che elabora informazioni ricavate dall’esperienza seguendo le istruzioni<br />

contenute in un programma o dettate da un meccanismo automatico […];<br />

- un modello di rappresentazione del mondo, che rende il mondo emerso dall’esperienza<br />

calcolabile e visibile in modo esplicito sia per gli attori che per l’osservatore esterno;<br />

- un sistema vincolato ad una funzione, che, potendo correggere gli input ricevuti, fornisce una<br />

ragionevole spiegazione dell’accaduto in base a norme da rispettare o a prestazioni da fornire;<br />

anche dal punto di vista artistico la compagnia del TNP ha fornito a lungo la parte principale dei contenuti<br />

artistici della programmazione del Festival (N.d.A.).<br />

1 Rullani, 2004b: 71, corsivo originale (N.d.A.).<br />

107


- un linguaggio condiviso che fornisce alle parti la possibilità di parlare e accordarsi,<br />

esaminando diversi significati e diversi punti di vista, su quanto sta accadendo;<br />

- un’identità profonda che assegna senso agli eventi, definendo il mondo in funzione dei<br />

bisogni, delle capacità e delle fantasie del soggetto implicato.<br />

Questi possibili mediatori logici sono in grado di “strutturare il mondo e le<br />

conoscenze sul mondo” e quindi di “dare una visione articolata delle forze che<br />

strutturano l’esperienza reale” (ibidem: 72). La figura 1 fornisce una rappresentazione<br />

degli assi della strutturazione della conoscenza.<br />

In effetti, “la conoscenza è fatta di tutte queste cose insieme” e tra le sei strutture<br />

logiche c’è un rapporto circolare, in quanto ciascuna viene elaborata sui materiali<br />

“cognitivi” forniti dalle precedenti, oltre che dall’esperienza originale, e ciascuna<br />

fornisce a sua volta materiale alle altre (Rullani 2004b). Come nel caso dell’orologio di<br />

Weick, secondo cui lo studio delle organizzazioni va fatto posizionandosi di volta in<br />

volta lungo il quadrante dell’orologio e non fissandosi in un solo punto, questi mediatori<br />

logici cooperano e, in parte, competono per fornire una visione articolata delle forze che<br />

danno validità alla conoscenza, suggerendo anche modi alternativi di vedere le cose. E<br />

ancora, come suggerisce Weick, dal loro “rincorrersi e contraddirsi”, dallo speculare sui<br />

loro contenuti, dalla loro relativa incongruità è possibile ricavare “un’immagine del<br />

reale credibile” (Rullani, 2004b: 75).<br />

Sempre nella figura 1 sono individuati anche due assi della strutturazione. Si tratta di<br />

un modo per organizzare i percorsi di questa possibile mappa del “mondo da esplorare<br />

con criteri di demarcazione differenti” (ibidem: 76).<br />

L’asse orizzontale distingue tra “naturalità” e “artificialità” dei dispositivi. I primi (“i<br />

dati percepiti, il senso attribuito all’esperienza, i significati semantici con cui essa viene<br />

narrata”) si appoggiano appunto a strutture di tipo naturale; i secondi (“l’informazione<br />

che rimanda ad algoritmi latenti”, la rappresentazione che discende da un modello, la<br />

“funzione che viene garantita dal feedback sistemico”) sono progettati artificialmente<br />

per governare la complessità e utilizzare meglio la conoscenza 1 .<br />

Il secondo asse (verticale) discrimina tra le strutture che sono indipendenti dal<br />

soggetto che le produce, avendo natura tendenzialmente oggettiva rispetto al mondo<br />

osservato (strutture lineari), da quelle che invece includono l’osservatore nel contenuto<br />

delle conoscenze (strutture riflessive), in quanto sono il prodotto delle rappresentazioni<br />

che il soggetto fa includendo se stesso nell’esperienza. Dati, informazioni e<br />

rappresentazioni sono essenzialmente mediatori logici lineari, mentre funzioni,<br />

significati e senso hanno tipicamente natura riflessiva 2 . Buona parte dei fenomeni che<br />

1 Se le strutture logiche naturali sono prevalenti nell’economia “pre-moderna”, quelle artificiali sono<br />

tipiche della “modernità” e, in particolare, sono collegabili, ad esempio, ad una costruzione teorica come<br />

quella dell’economia tradizionale. Oggi, però, è possibile assistere ad una sorta di fertilizzazione tra<br />

logiche naturali e artificiali, tanto che i mediatori naturali possono essere utilizzati “[…] per guidare i<br />

mediatori artificiali che integrano le facoltà naturali preesistenti. I dati sono rilevati meccanicamente, le<br />

identità generate dai media e da altri dispositivi, i significati definiti da linguaggi formali, ecc.” (Rullani,<br />

2004: 74) (N.d.A.).<br />

2 Senza voler approfondire troppo questo aspetto, per il quale si rinvia al testo di Rullani (2004b, capitolo<br />

2) e usando una metafora teatrale, è possibile dire che i mediatori logici animano la scena presentandoci<br />

conoscenze sotto forma di strutture differenti, ma sono animati, dietro le quinte, da premesse<br />

epistemologiche a cui si appoggiano. Per esempio, nell’idea che input e output siano osservabili il lettore<br />

attento avrà riconosciuto le basi dell’approccio tipicamente empiristico/positivistico, restrittivo se<br />

applicato alle scienze sociali ma tipico di quelle naturali, in cui si cercano le correlazioni tra input e<br />

output attraverso una legge causale che genera regolarità elaborate statisticamente (Simon 1981, 1991a,<br />

108


andremo ad analizzare con riferimento al Festival di Avignone sono inquadrabili con<br />

riferimento alle ultime tre tipologie di mediatori logici.<br />

In questo percorso della conoscenza artistica di origine che diventa conoscenza<br />

connettiva a disposizione dell’utilizzatore ultimo, non bisogna però dimenticare il ruolo<br />

dello spettatore. In che modo lo spettacolo teatrale diventa un “prodotto cognitivo”<br />

pronto ad essere utilizzato in contesti diversi da quello di orgine? Eco, introducendo il<br />

ruolo comunicazione del “testo estetico” sottolinea efficacemente questo passaggio:<br />

«[…] il testo estetico si presenta come un modello di rapporto “pragmatico”. Leggere un testo<br />

estetico significa a un tempo: (i) fare induzioni e cioè inferire regole generali da casi singoli; (ii)<br />

fare deduzioni, e cioè verificare se ciò che è stato ipotizzato a un certo livello determina i livelli<br />

successivi; (iii) fare abduzioni e cioè mettere alla prova nuovi codici attraverso ipotesi<br />

interpretative. In esso sono dunque al lavoro tutte le modalità di inferenza» (Eco, 1975: 342)<br />

A ben vedere, partendo da queste premesse, lo spettacolo teatrale costituisce,<br />

probabilmente, l’esempio più articolato di modello di strutturazione della conoscenza<br />

prodotto dall’uomo, soprattutto con riferimento ad uno degli aspetti più qualificanti di<br />

tale processo: “[…] al destinatario viene richiesta una collaborazione responsabile<br />

[…e] deve intervenire a colmare i vuoti semantici, a ridurre la molteplicità dei sensi, a<br />

scegliere i propri percorsi di lettura, a considerarne molti un tempo – anche se<br />

mutuamente incompatibili – e a rileggere lo stesso testo più volte, ogni volta<br />

controllando presupposizioni contraddittorie” (ibidem: 343, corsivo nostro).<br />

1991b; Axelrod, Cohen 2000). Una proposta epistemologica come quella strutturalista, invece, tende ad<br />

attribuire all’input un meccanismo che lo elabora in modo “intelligente” e controllato (un algoritmo,<br />

appunto) e che rende osservabile gli effetti generati sull’output. Tra input e output l’osservatore inserisce<br />

una “black-box” il cui contenuto può essere o meno accessibile all’osservatore (si pensi all’approccio<br />

comportamentista – Skinner, 1969). Dallo strutturalismo si può arrivare alle idee del connessionismo e<br />

dell’apprendimento evolutivo (Maturana, Varela 1980), fino alla contrapposizione con la proposta<br />

cognitivista legata ai modelli di rappresentazione e di apprendimento di tipo logico-razionale (Troilo,<br />

2001), passando per le logiche di base dell’intelligenza artificiale (Simon 1997). Anche molte teorie<br />

economiche e di impresa ricorrono ai due modelli differenti: connessionista-evolutivo da una parte (ad<br />

esempio la population ecology – Hannan, Freeman 1989) e cognitivo-razionalistico dall’altra (ad esempio<br />

la teoria della rational choise individuale – March, Simon 1958). Ancora, la teoria dei sistemi (von<br />

Bertalanffy, 1969; Luhmann 1990; Rullani, Vicari, 2000) introduce la logica della causalità funzionale, in<br />

cui l’input viene corretto fino ad arrivare ad un output desiderato, rispetto a quella della cusalità<br />

efficiente, in cui invece l’input produce l’output. Come sottolinea lo stesso Rullani, nel caso<br />

dell’economia “moltissimi fatti o comportamenti sono prevedibili non perché se ne possa davvero<br />

rappresentare il modello causale, ma perché si può avere fiducia nei meccanismi di ‘feedback’ che<br />

garantiscono il rispetto di certe norme o l’ottenimento di certe prestazioni” (2004b: 81; Rullani 1989). Si<br />

pensi, ad esempio, al capitale sociale (Burt 1982, 1992) che rende possibile le relazioni sulla base di un<br />

rapporto fiduciario che riduce il rischio di comportamenti opportunistici (Rocco 2000, Williamson 1975)<br />

o all’economia neo-istituzionalista (DiMaggio, Powell 1983; Powell, DiMaggio 1991). Un altro modo per<br />

ridurre la complessità, un altro modo per validare la conoscenza, è poi la comunicazione. Ad esempio,<br />

nell’idea dell’agire comunicativo (Habermas, 1981) è implicito il fatto che gli input non hanno alcun<br />

effetto sull’output in quanto devono passare per l’interpretazione dei soggetti coinvolti nell’esperienza. E’<br />

il significato attribuito all’input che provoca l’output. La definizione del contesto dell’interazione può poi<br />

avvenire attraverso una intesa comunicativa o, in una prospettiva differente, attraverso una condivisione<br />

ermeneutica. I fenomeni comunicativi hanno assunto un ruolo molto importante, sia per quanto riguarda i<br />

suoi aspetti sociali più generali (Luhmann, 1990; Goffman 1956) sia nell’ambito delle sue applicazioni,<br />

come nel caso delle comunità epistemiche (Haas, 1992). Infine, nell’ambito di un approccio pragmatico,<br />

la conoscenza emerge dall’azione, ovvero dall’attivazione (enacting) del mondo esterno da parte del<br />

soggetto che assegna un senso sia agli input che agli output (Weick, 1979). La ricerca sulla situated<br />

action (Lave, Wenger, 1991) e sulle comunità di pratica (Wenger, 1998) si basano su questa idea (N.d.A.).<br />

109


La quinta settimana: lunedì 28 agosto – domenica 3 settembre 2000.<br />

Ville Le Mazeau – Académie de l’Union, Saint-Priest-Taurion, Limoges.<br />

***<br />

Lunedì e martedì erano giornate di riposo. La mattinata di martedì, tuttavia,<br />

Nekrosius incontrò i ragazzi. Durante la mattinata Nekrosius e i ragazzi visitarono il<br />

luogo di lavoro per le prossime quattro settimane. La perlustrazione fu attenta e<br />

stupita: il nuovo spazio era decisamente diverso da quello di Fagagna…<br />

«Approfitto anche del giorno di pausa per lavorare un po’. Più che altro vorrei<br />

illustrarvi come penso di procedere nei prossimi giorni e darvi un po’ di compiti per<br />

domani.<br />

Per il momento lasceremo da parte il lavoro fatto finora, durante tutta la prossima<br />

settimana vorrei intervenire sul quarto atto, finire di montare lo spettacolo; sarà un<br />

lavoro intenso, concentrato, impegnativo per tutti e soprattutto per gli attori che<br />

interpretano i ruoli di Nina e Kostja. Preferisco che si lavori duro subito per poi essere<br />

tranquilli più avanti. Avete dei compiti per domani: come abbiamo fatto finora, vorrei<br />

partire dalle vostre proposte […].<br />

Sono passati due anni rispetto agli altri tre atti: ci saranno dei cambiamenti nei<br />

personaggi e nell’atmosfera in generale. Probabilmente Treplev sarà già senza denti e<br />

non avrà più voglia di ridere; Cechov stesso a trentacinque anni non li aveva più.<br />

Dovremo pensare alla malattia di Sorin: che tipo di malattia sarà, come dovremo<br />

rappresentarla? Magari Jakov e Dunja avranno già quattro figli. Non è possibile in due<br />

soli anni? Certi che sì: due volte due gemelli!<br />

Adesso vi lascio al vostro giorno di riposo. A domani!<br />

Nekrosius assistette alle prove di ragazzi con le loro proposte per il quarto atto.<br />

«Vi ringrazio del vostro lavoro, c’erano idee, dettagli interessanti in tutto ciò che ho<br />

visto, sicuramente alcune di queste cose saranno utilizzate nello spettacolo.<br />

[…] Per quanto riguarda l’allestimento scenografico io ho già delle immagini<br />

abbastanza precise: avremo bisogno di un letto per Sorin, di uno studio per Treplev, di<br />

un tavolo preparato (poi vedremo come) per una decina di persone. La sistemazione dei<br />

personaggi attorno al tavolo sarà un momento significativo, ci servirà per accentuare<br />

lo stato d’animo del lutto: il tavolo unirà tutti i parenti dopo la morte di Treplev;<br />

immagino che rimarrà vuoto a lungo, solo alla fine tutti i personaggi ci si siederanno<br />

intorno.<br />

[…] Come risolveremo il passaggio del tempo, quanto e cosa è cambiato in questi<br />

due anni? Mi sembra pericoloso farci allettare dalla strada dei ricordi, della nostalgia<br />

per il passato… Del resto non è trascorso tantissimo tempo e i personaggi sono sempre<br />

gli stessi. Forse il passaggio del tempo si fa sentire più all’interno dei personaggi che<br />

non all’esterno, fisicamente non sarà necessario creare dei cambiamenti forti, sono le<br />

anime dei personaggi a essere cambiate, il carattere di tutti sarà più nervoso, più<br />

irritato.<br />

[…] Treplev è diventato uno scrittore vero e proprio, le riviste pubblicano i suoi<br />

racconti, e in questo quarto atto è necessario raccontare il momento della scrittura: è<br />

l’aspetto centrale del personaggio insieme al suo amore per Nina. Però non voglio che<br />

si a mostrato direttamente, in modo troppo realistico, per esempio attraverso l’utilizzo<br />

110


della macchina da scrivere. Voglio eliminare la rappresentazione diretta del processo<br />

creativo: un semplice foglio di carta bianco posato sul suo studio sarà più che<br />

sufficiente. Dovremo pensare bene a questo luogo di lavoro, dove posizionarlo nello<br />

spazio scenico: io lo immagino come un luogo di lavoro “invisibile”, lui stesso lo<br />

immagino di spalle, seduto in un angolino, immerso nel suo lavoro. Magari si vede solo<br />

il filo di fumo della sua sigaretta; un luogo misterioso dal quale tutti sono attratti e allo<br />

stesso tempo condizionati: si cercherebbe di parlare a voce bassa e di camminare in<br />

punta di piedi per non disturbare l’artista che lavora […].<br />

La luna-padella potrà diventare un posacenere, un luogo di incontro; il lago non ci<br />

sarà più, i secchi rimarranno, ma svuotati dell’acqua, semplicemente come secchi,<br />

accessori per vari usi, oggetti rumorosi che ostacolano il passaggio dei personaggi.<br />

Vorrei sentire spesso il loro rumore. Potremmo usarli come tamburi, farli suonare,<br />

creare un ritmo su cui qualcuno potrebbe ballare, e così al posto della tombola che no<br />

mi piace tanto, potremmo allestire una danza!<br />

Potremmo usare solo une di secchi con dentro ancora dell’acqua e una tazza per<br />

bere, come fosse il pozzo di una casa colonica…<br />

[…] C’è qualcosa di fatale in questo atto: non possiamo trattarlo in modo troppo<br />

quotidiano. Cechov stesso nelle didascalie fin dall’inizio ci segnala qualcosa di<br />

misterioso. “I colpi del bastone del guardiano” sono i colpi del destino? Anche la<br />

natura sembra animarsi di un’anima di fantasma: “Mi è sembrato si sentire piangere<br />

qualcuno” dice Medvedenko a Masa. Fin dai primi attimi la presenza di Nina deve<br />

essere tangibile, dobbiamo sentirla chiaramente…<br />

Insomma, vorrei disseminare in tutto l’atto dei piccoli segnali, apparentemente<br />

insignificanti, ma che invece testimoniano l’imminenza di un avvenimento fatale,<br />

ineluttabile, che porterà tutti i personaggi dritti verso lo sparo finale. Tutto era già<br />

previsto, scritto, non poteva che essere così […].<br />

Non voglio certo caricare l’atto di simboli, tutto questo dovrà avvenire con estrema<br />

delicatezza, senza calcare la mano, in modo quasi impercettibile, come messaggi<br />

subliminali sparsi qua e là».<br />

Per quanto riguardava lo spazio del quarto atto, Nekrosius immaginava che il palco<br />

della rappresentazione restasse in fondo al palcoscenico, con delle girandole posizione<br />

lungo il perimetro (“il vento… deve vedersi il vento”). Le immaginava nere, in questo<br />

atto, rispetto a quelle allegre e colorate dei tre atti precedenti. Nell’angolo sinistro del<br />

palco, in fondo, poteva trovare posto lo studio di lavoro di Treplev: un tavolino e una<br />

sedia neri; la sedia con un lungo schienale su cui appendere una lunga giacca o<br />

qualcosa di simile; sulla destra dei libri appoggiati per terra e appena sotto il palco,<br />

davanti, leggermente spostato a destra poteva essere posizionato il letto dello zio<br />

malato, di Sorin. A sinistra del palcoscenico serviva una poltrona, o forse un divano. A<br />

destra, doveva essere trovato lo spazio per un lungo tavolo perpendicolare rispetto a<br />

chi guardava la scena, con le sedie posizionate solo sul lato lungo, verso la quinta. Tra<br />

il divano e il palco uno sgabello con sopra la padella-luna, ora diventata un posacenere<br />

attorno al quale i personaggi si ritrovano. Tra il palco e il tavolo potevano essere<br />

accatastati i secchi vuoti.<br />

Nekrosius: «Vi ho dato sufficienti indicazioni per questa scena, ora tocca a voi<br />

lavorarci su. Andando avanti vediamo in scena Treplev e Polina: che informazioni<br />

abbiamo? Innanzitutto viene detto qualcosa sulla situazione di Sorin […], quindi su<br />

quella artistica di Treplev […].<br />

111


Da parte sua Masa continua a promettere di rinunciare al suo amore per Kostja con<br />

lo stesso effetto che avrei io se promettessi di smettere di fumare [Nekrosius è un<br />

fumatore incallito, n.d.t.]. Lo scambio di battute tra Masa e Polina è molto bello: le due<br />

donne sono legate dalla stessa esperienza sentimentale e in questo momento più che<br />

mai sono unite dalla comune sofferenza. Mi piace molto la didascalia che indica i passi<br />

di valzer di Masa (“fa due o tre giri di valzer in silenzio”), e mi piacerebbe che le due<br />

donne fossero insieme in questa danza. Polina prende la figlia tra le braccia facendo la<br />

parte dell’uomo e Masa immagina così di ballare con Kostja.<br />

[…] E Treplev come si presenterà in questo atto? Vorrei vederlo svuotato,<br />

completamente scarico. Eppure quando si ha questa sensazione di vuoto, si sente forte<br />

il bisogno di riempirlo. Dovremo trovargli un’azione che racconti questo, ma un’azione<br />

tradizionale. Al cinema potremmo vederlo rientrare dalla caccia con gli animali uccisi,<br />

ma qui non sarebbe abbastanza efficace. […] Non voglio che sia un’azione veramente<br />

assurda, ma solo apparentemente strana […].<br />

Ora andate in scena e proviamo a lavorare sul rapporto tra Treplev e Masa».<br />

Giovedì Nekrosius esordì ricordando a che punto si trovavano.<br />

«Per i prossimi dieci giorni lavoreremo sul quarto atto, poi perfezioneremo tutto il<br />

resto e torneremo sulle singole scene di tutto lo spettacolo.<br />

Il quarto è un atto molto difficile: innanzitutto l’azione si svolge all’interno e questo<br />

in qualche modo costringe la recitazione degli attori, inoltre è tutto composto da scene<br />

molto brevi, per arrivare poi alla grande scena finale di Nina e Kostja. Prevedo già che<br />

sarà molto complessa e dovremo lavorarci molto, è la scena più importante dell’atto e<br />

probabilmente dello spettacolo intero.<br />

[…] Mi piacerebbe usare i vostri spunti di ieri sul raccogliere la luce, magari con i<br />

secchi. Vorrei provare a portare la luce invece dell’acqua dentro i secchi: qualcuno<br />

potrebbe raccogliere la luce dalla lampadina con un secchio, versarla in un altro<br />

secchio […]».<br />

Questa e altre scene vennero provate e riprovate per tutta la giornata. Frammenti<br />

che sarebbero tornati utili il giorno successivo.<br />

Nekrosius: «Ieri sera pensavo al nostro lavoro e devo tornare sui miei passi. Mi sono<br />

reso conto di non essere convinto di far restare Sorin in scena tutto il tempo come<br />

avevo detto. Non so ancora bene quando, ma dovremo trovare il momento per farlo<br />

uscire […]. Vorrei trovare una soluzione semplice, toccante ma non quotidiana. Per<br />

esempio, in un momento che decideremo poi potremmo vedere Sorin alzarsi, pettinarsi,<br />

indossare la sua giacca nera, e dopo aver chiamato a raccolta tutte le sue forze<br />

rompere il suo bastone; quindi lo immagino chiamare Jakov, il servo entra con una<br />

candela accesa, si mette di fronte all’uomo a pochi passi da lui, che prova a soffiare<br />

per spegnerla ma non ci riesce, e piano piano si allontana sempre più ripetendo i<br />

tentativi, indietreggia e riprova a soffiare…; Jakov resta immobile al centro della scena<br />

mentre Sorin lentamente sparisce in quinta senza smettere di soffiare. I suoi inutili<br />

sforzi saranno commoventi, sta partendo per il suo lungo viaggio, sta uscendo di scena<br />

per sempre, Jakov resta, unico testimone, immobile, in silenzio e piane. […] Non si<br />

tratta di una morte fisica, realistica, qui tutto sarà doloroso ma pacato, come il viaggio<br />

di un cane che si allontana dalla sua casa prima di morire».<br />

Anche questa scena, nella versione finale dello spettacolo, resterà sostanzialmente<br />

immutata nella sua struttura.<br />

112


Nekrosius: «La scena finale tra Treplev e Nina sarà la più difficile. Non ci sarà<br />

nemmeno più il lago ad aiutarci. E’ una scena fondamentale per lo spettacolo e dovrà<br />

riuscire al cento per cento, non accetterò per questa un risultato parziale,<br />

conentreremo tutte le nostre forze per risolverla e per trovare le giuste circostanze che<br />

sostengano le parole.<br />

Ma ora torniamo alle scene precedenti».<br />

Per il resto della giornata, il regista lavorò a lungo al monologo di Treplev che<br />

precedeva l’ultimo incontro tra Kostja e Nina. Treplev era seduto al centro del palco,<br />

prendeva un foglio bianco come si trattasse di un oggetto per lui assolutamente<br />

familiare. Provava a bucarlo con un dito, senza riuscirci; lo strappava con i denti,<br />

sputandone i pezzi staccati dal foglio. Faceva girare il foglio, lo accartocciava, lo<br />

tirava dietro di sé prendendo poi un altro foglio…: «questa azione va ripetuta più di<br />

una volta, in modo sempre più doloroso, ci vogliono delle pause che raccontino il<br />

dolore di Treplev; potremmo vedere del sangue, del rosso, magari uno dei nasi, l’ultimo<br />

potrebbe essere fatto con un foglio rosso [quella dei nasi di carta sarà una geniale<br />

soluzione che ricorrerà anche nel finale, n.d.t.].<br />

Fausto (il Treplev della distribuzione italiana), provò la sequenza con il testo.<br />

Nekrosius: «Il testo va detto durante le pause, non dovete mai accavallare le azioni<br />

alle parole. Il dolore di Treplev dev’essere più trattenuto. Ripeti l’azione del naso per<br />

tre volte: l’ultima falla con la faccia rivolta verso il pubblico; ogni volta che accartocci<br />

un foglio poi gettatelo alle tue spalle: potrà essere Nina a raccogliere questi fogli<br />

accartocciati. Treplev in questo monologo arriva ad uno conclusione importante,<br />

dolorosa, dura da accettare: le vecchie e le nuove forme non hanno più importanza, lui<br />

non riesce più a scrivere né in modo tradizionale, né secondo le nuove forme: la vera<br />

difficoltà è l’incapacità di esprimere se stessi.<br />

Su questo arriva Nina».<br />

Le due coppie di attori mostrarono al regista le loro proposte per la scena tra Nina e<br />

Treplev.<br />

Nekrosius: «E’ sicuramente una scena molto difficile, non ho ancora una soluzione<br />

chiara in testa. Sicuramente non voglio che sia troppo triste e drammatica: troppo<br />

spesso hi visto questa scena recitata tra le lacrime, con gli attori attirati dal desiderio<br />

di soffrire e di piangere. Noi faremo in modo che sia più gioiosa, come se<br />

apparentemente nulla fosse cambiato tra i due. Nina e Kostja rivivono e ritrovano la<br />

loro giovinezza, il tempo passato dei giochi.<br />

Come verrà detta la frase “Io sono un gabbiano”? Penso al fatto che i gabbiani<br />

sono sempre affamati, e vorrei esprimere questa sensazione di fame. Non è certo una<br />

fame di cibo quella di Nina, ma una fame di calore, di amore.<br />

Ricollegandoci alla scena precedente in cui Treplev getta dietro di sé i fogli<br />

accartocciati, potremmo ora vedere Nina che li raccoglie e glieli rilancia; lui senza<br />

girarsi capirebbe subito che è lei che sta arrivando: solo lei potrebbe farlo. Nina<br />

potrebbe mettere i fogli dentro un secchio ed entrare portando sulle sue spalle un<br />

bastone alle cui estremità sono appesi due secchi, uno pieno di carta accartocciata,<br />

l’altro con dell’acqua. Ecco, questa potrebbe essere una possibile entrata di Nina.<br />

Treplev non ha bisogno di girarsi per accorgersi del suo arrivo, la sente con tutto se<br />

stesso.<br />

[…] E come potremmo far finire quest’incontro?».<br />

Poi ripresero l’atto dall’inizio: l’esigenza era quella di fissare le sequenze, dividere<br />

ciò che era “pronto” dalle parti su cui lavorare.<br />

113


Nekrosius: «La prima azione dell’atto sarà fatta da Jakov che entra in scena<br />

nell’oscurità e accende la lampadina con i fiammiferi, quindi esce. Dovrete pensare a<br />

ogni particolare: come entra, come cammina, come accende i fiammiferi, quale sedia<br />

sceglie per raggiungere quella lampadina<br />

L’attenzione si sposta su Masa che prepara la mela per Treplev. Potrebbe mangiare<br />

lei la buccia o attorcigliarla su se stessa come un fiore per l’uomo che ama: devo<br />

capire che non sta preparando da mangiare per sé ma per qualcun altro; i gesti che fa<br />

non sono meccanici ma pieni di affetto.<br />

[…] Nella battuta di descrizione del teatro all’aperto, Medvedenko sembra parlare<br />

di qualcosa di terribile: intende spaventare Masa per convincerla a tornare a casa, fa<br />

gesti enfatici, descrittivi, cerca di convincerla con i gesti, visto che non ci riesce con le<br />

parole: si scopre la pancia (“…nudo come uno scheletro…”), imita il rumore del vento<br />

e fa il verso del pianto (“…mi è sembrato di sentir piangere qualcuno…”). Batte i<br />

pugni sul tavolo e guarda male la moglie per intimorirla; recrimina usando la figura<br />

del figlio (“Il nostro bambino avrà fame…”) guardando la colazione che la moglie ha<br />

preparato per Kostja. Masa, che fino ad allora sembrava sopportare gli insulti del<br />

marito, sbotta iin un pianto sconsolato (“Dio, come sei diventato noioso…”). Di fronte<br />

alle lacrime della donna, Medvedenko cambia tono e atteggiamento, si addolcisce e<br />

cerca una promessa dalla moglie, e a malincuore si appresta a tornarsene a casa da<br />

solo […].<br />

Il sabato fu interamente dedicato alla scena tra Nina e Treplev. Nekrosius la<br />

presentò in questi termini.<br />

Nekrosius: «Troppe volte è stata presentata in modo cupo, drammatico, pesante; e<br />

sia gli attori che la interpretano, sia il pubblico che la guarda in genere soffrono<br />

eccessivamente. Io vorrei che invece ci fosse leggerezza e aria: vorrei che il pubblico<br />

fosse dispiaciuto quando finisce, non esausto. Forse tradiremo un po’ il testo di Cechov<br />

ma allo stesso tempo gli daremo più respiro, più luce, evitando le vie più tradizionali.<br />

Dovrà essere una scena luminosa che ammalierà lo spettatore con la sua bellezza. E’<br />

l’ultimo incontro tra i due, non vedremo più né l’uno né l’altra; se provassi solo<br />

sofferenza in tutta la scena, non mi dispiacerebbe non vederti più. Invece, la vostra luce<br />

dovrà poi mancare allo spettatore, che dovrà sentire nostalgia di voi. Non si può<br />

guardare a lungo qualcuno che soffre: mette a disagio sia chi guarda sia chi si sente<br />

guardato. Così anche a teatro dovrete sempre evitare di presentare troppo sofferente il<br />

vostro personaggio».<br />

Poi, passò a lavorare direttamente sulla scena.<br />

Nekrosius: «Vorrei provare subito un frammento per il momento finale. Formate due<br />

nasi di carta e legateci un elastico, in modo tale da poterli indossare; quindi<br />

guardatevi, avvicinatevi e provate a baciarvi; usate i nasi come dei becchi di uccelli per<br />

imbeccarvi. E’ un frammento bello che terremo sicuramente».<br />

E diventerà l’immagine stessa dello spettacolo, sui manifesti e le locandine.<br />

Ancora Nekrosius, sulla scena: «Partendo dall’inizio: Treplev è in scena seduto, dal<br />

fondo entra Nina con il bastone e i due secchi sulle spalle. Lui è immobile, non si gira<br />

ma sa che è lei che sta arrivando (“Nina! Nina! Siete voi… voi…”). Nina si avvicina<br />

lentamente, muove piano le mani appoggiate sul bastone come fossero delle piccole ali,<br />

raggiunge Treplev alle spalle, lui le appoggia la testa sul petto per sentirne il contatto<br />

(“Non bisogna piangere, non bisogna”). Nina dice “Lasciate che vi guardi”, ma Kostja<br />

non vuole e istintivamente si copre il viso: non è solo il cambiamento fisico a fargli<br />

114


paura; dice la sua battuta (“Siete dimagrita…”) senza guardarla, entrambi sempre<br />

nella stessa posizione. Finalmente Nina poggia il bastone sulle spalle di lui (“Avevo<br />

paura che mi odiaste…”) e gli va di fronte, si guardano, lei gli fa un inchino, quindi si<br />

inginocchia davanti a lui per guardarlo meglio, poi va a bussare sui secchi come fosse<br />

a una finestra, toglie i secchi dalle spalle di Treplev e improvvisamente gli rovescia<br />

sulla testa le palline di fogli accartocciati che erano in uno dei due secchi. Treplev<br />

reagisce come a una doccia fredda. Poi Kostja e Nina si siedono vicini sul bastone<br />

messo sullo sgabello quasi come un’altalena, in modo da entrarci tutti e due, sono<br />

felici, emozionati. Quando dice “Sentite il vento?”, lui non la asseconda facendo di no<br />

con la testa, lei invece lo sente e comincia a imitarne il suono ma lui continua a dire no:<br />

stanno cominciando a giocare, a recuperare il tempo dell’infanzia passato insieme.<br />

“Io sono un gabbiano…”: Nina lo dice dopo averlo baciato forte e ripetutamente<br />

sulla guancia o sulla tempia, producendo forti e prolungati suoni di schiocco di baci<br />

quasi a imitare il verso dell’uccello. Il gabbiano è sempre affamato e anche Nina è<br />

affamata d’amore. Treplev reagisce a questa stana azione, è stupito, si tocca dove lei lo<br />

ha baciato come se i suoi baci gli avessero lasciato dei lividi. Nina dice la frase di<br />

Turgenev, ma senza troppa enfasi né sentimento, forse è ancora una provocazione per<br />

Kostja, che infatti appare stranito dalla citazione del grande autore. Quando parlano<br />

del “loro teatro”, facendo perno sul bastone si girano di spalle al pubblico a guardare<br />

il loro passato, le schiene si tendono in preda all’emozione (“C’è ancora.”) e quando i<br />

girano, i loro occhi sono pieni di lacrime.<br />

“Così siete diventato scrittore…” dice Nina indicando i fogli accartocciati. Quindi<br />

improvvisamente si alza, facendo sbilanciare Kostja che cade a terra, e fa un grande<br />

inchino (“…e io attrice…”). Ridono tutti e due, ricomincia il gioco tra loro, Nina<br />

vorrebbe forse sottrarsi (“E’ ora di andare.”), ma Kostja inizia a “sparlare”,<br />

colpendola ripetutamente con le palline di carta, finché lei non si lascia cadere per<br />

terra.<br />

[…] Tutta questa scena deve essere giocosa, allegra, vitalissima, e tutta la<br />

drammaticità starà in questa leggerezza: sotto l’apparente spensieratezza del gioco si<br />

nasconde la tristezza di due persone sole che amano e si amano senza speranza (“Sono<br />

solo, non ho nessun legame che mi riscaldi, ho freddo come fossi già sottoterra…”).<br />

[Ad un certo punto] Nina prende i nasi di carta che erano insieme agli altri ritagli,<br />

ne indossa uno e mette l’altro a Treplev, cominciando a recitare le parole dello<br />

spettacolo di due anni prima, entrambi guardano il pubblico davanti a loro, lei in piedi,<br />

lui seduto, si tengono per mano. Dopo qualche frase Nina si interrompe e c’è l’azione<br />

del bacio con i nasi provata prima, quindi l’uscita».<br />

Nekrosius insistette molto su quei punti: non voleva troppa drammaticità, troppa<br />

sofferenza in quella scena. Troppe volte aveva visto tornare Nina nelle scene successive<br />

in preda alle lacrime, sconvolta, stravolta, quasi folle; la loro versione doveva essere<br />

differente, più semplice, e Nina non doveva perdere la sua “giovinezza e la sua<br />

bellezza”. «Ci sarà ancora il vento nei suoi occhi», ripeteva con ossessione, «anzi forse<br />

sarà ancora più bella perché ha vissuto con intensità e dolore questi due anni, e in più è<br />

diventata attrice, sarà elegante e un po’ manierata nell’intonazione della voce e nei<br />

movimenti. […] Per Treplev sarà proprio questo ritorno di Nina e tutta questa scena<br />

con lei a non lasciargli più la possibilità di continuare a vivere […]».<br />

Laura e Fausto provarono la scena.<br />

Nekrosius: «Tutti questi finti colpi, queste ferite, queste cadute devono in qualche<br />

modo anticipare il suicidio finale; nella sua leggerezza la scena deve anche<br />

115


appresentare un’introduzione alla morte di Treplev, deve contenere il presentimento di<br />

ciò che avverrà. Come nei documentari degli anni Quaranta sulla partenza dei soldati<br />

per la guerra, dove tra la solennità dei saluti, delle divise intatte, nell’orgoglio di<br />

servire la patria elevando il proprio essere uomini, si sentiva già il rumore dei colpi da<br />

fuoco e delle vite spezzate.<br />

Insomma, dovrà essere una scena luminosa, piena di nostalgia, commovente e<br />

bellissima. Il pubblico, se l’ultima scena è bella e lo conquista, sarà disposto a<br />

perdonarci gli errori precedenti se mai ce ne saranno.<br />

Dopo il bacio finale e l’uscita di Nina, Treplev è di nuovo seduto, sposta il naso di<br />

carta sulla nuca, nostrando al pubblico per l’ultima volta il suo volto. Quindi si gira di<br />

spalle e guada lungo verso il fondo da dove è uscita Nina, poi si alza e senza più<br />

voltarsi, con passo normale, chiamando piano “Nina”, cammina verso il fondo del<br />

palcoscenico, attraversa il palchetto della rappresentazione, con una mano e senza<br />

importanza ferma il movimento di una girandola, esce».<br />

Poi, sempre da parte di Nekrosius, una notazione sul pubblico, ma non solo: «Vorrei<br />

che durante tutta la scena il pubblico non potesse smettere di guardarvi, qualsiasi cosa<br />

facciate: c’è tutta la vostra vita in questa scena, il vostro passato e il vostro futuro, tutti<br />

i vostri sentimenti nella loro più grande profondità. Dovrete metterci tutto il vostro<br />

impegno per fare una scena così. Io ho creato la struttura, ora tocca a voi riempirla.<br />

Servirà una perfetta sintonia tra di voi, dovrete provare molto insieme: si tratta di<br />

trovare un modo uguale di muovervi, di parlare, di reagire, insomma una giusta<br />

intonazione comune».<br />

Per quella settimana, poteva bastare.<br />

116


VIII<br />

(La fabbrica della conoscenza artistica. I macchinari e le lavorazioni della filiera cognitiva delle<br />

performing arts: la forma della conoscenza: la riproduzione dello spettacolo teatrale)<br />

In cui il lettore continua la visita della fabbrica della conoscenza artistica, considerando<br />

ora i macchinari che danno “forma” allo spettacolo teatrale, i reparti dove le componenti<br />

cognitive dello spettacolo (artistiche e non) vengono lavorate al fine di permetterne la<br />

“riproduzione” <br />

117


La conoscenza connettiva può assumere molte strutture differenti dal punto di vista<br />

della sua validità; ma a questa varietà “logica” corrisponde una varietà altrettanto<br />

spiccata con riferimento alle possibili forme attraverso cui può essere “organizzata la<br />

riproduzione (virtuale) dell’esperienza orginale”. In altri termini, alla realizzazione di<br />

una rappresentazione teatrale partecipa un concetrato di mediatori logici differenti a cui<br />

sono associabili diversi mediatori riproduttivi.<br />

Dal punto di vista economico e gestionale, l’interesse non va alla duplicazione<br />

completa, in tutti i suoi dettagli, dell’esperienza originale; per l’utilizzatore della<br />

conoscenza è sufficiente spesso essere in grado di “riprodurre selettivamente” solo “le<br />

caratteristiche che ‘conservano’ il contenuto o le prestazioni dell’originale e che<br />

possono essere moltiplicate nello spazio virtuale” (Rullani, 2004b: 87). Nel caso del<br />

teatro, ad esempio, la virtualizzazione non passa solo per la ripartizione in scene che<br />

compongono la rappresentazione teatrale e la loro riproduzione fisica in successione. A<br />

parte i suoi contenuti “fisici”, ci sono delle componenti cognitive che si trasmettono<br />

indipendentemente dallo spettacolo, come la sua immagine, la storia, la “morale” e i<br />

suoi contenuti estetici.<br />

Se nel caso della strutturazione i macchinari che permettevano quella lavorazione<br />

erano i mediatori logici; nel caso della virtualizzazione intervengono i mediatori<br />

riproduttivi (o della virtualizzazione) che hanno il compito di separare la parte virtuale<br />

(e quindi riproducibile) dalla parte materiale (legata, a persone, oggetti, ambiente fisico<br />

e tessuto di relazioni) della conoscenza. Questo tipo di lavorazione mira a mantenere,<br />

nel nuovo campo di applicazione, tutti quei caratteri che sono fondamentali per<br />

riprodurre “lo stesso effetto utile […] o almeno un effetto equivalente” a quello che la<br />

conoscenza originaria ha prodotto nel diventare conoscenza connettiva.<br />

A seconda della strategia di trasfomazione prevalente all’interno della filiera<br />

cognitiva (codificazione piuttosto che condivisione, v. supra § 3.1), cambia<br />

l’organizzazione di questo processo.<br />

Nel caso della codificazione, è abbastanza evidente che la riproduzione è<br />

relativamente meno complicata essendo legata agli standard del codice utilizzato per far<br />

diventare la conoscenza originaria della conoscenza pronta ad essere connessa ad altri<br />

campi d’uso. In sostanza, quando si va ad applicare la conoscenza connettiva ad un<br />

contesto d’uso differente, l’unico problema è che quest’ultimo deve “essere reso<br />

conforme” agli standard collegati al codice adottato per trasformare la conoscenza.<br />

Esempi immediati sono quelli della riproduzione musicale attraverso sistemi standard<br />

come i CD audio e i DVD o del segnale televisivo e dei sistemi di riproduzione delle<br />

immagini negli apparecchi televisivi 1 .<br />

La condivisione di esperienze permette, invece, processi di virtualizzazione che sono<br />

meno drastici in quanto vi è necessariamente una qualche componente materiale che<br />

resta tale (persone oppure oggetti; ma anche luoghi e relazioni). Nel caso dello<br />

spettacolo teatrale, questo è particolarmente evidente. Il suo passaggio a conoscenza<br />

applicativa avviene attraverso una virtualizzazione che può essere considerata come una<br />

1 È evidente che nel primo caso il sistema di virtualizzazione costituisce addirittura un modo alternativo<br />

per fruire della conoscenza artistica immagazzinata nel prodotto culturale in quanto, l’utilizzatore finale o<br />

intermedio evita di dover assistere di persona al concerto di musica classica o di riprodurre tutte le<br />

condizioni “fisiche” perché si possa realizzare la performance dal vivo dell’artista. Nel secondo esempio,<br />

invece, si tratta di una situazione normale nel processo di produzione televesivivo, laddove la presenza<br />

del pubblico dal vivo negli studi televisivi, nella maggior parte dei casi, costituisce l’eccezione piuttosto<br />

che la regola (N.d.T.).<br />

118


fase di “preparazione” alla distribuzione/trasferimento vera e propria (v. § 3.2.3), che<br />

coincide con la sua diffusione nei circuiti più ampi (locali e globali). In altri termini, se<br />

la fase della conoscenza connettiva è legata alla “prima” dello spettacolo (vale a dire,<br />

alla sua prima rappresentazione pubblica), perché al pubblico successivo arrivi per<br />

intero (almeno in termini di efficacia e di potenziale di propagazione) la prestazione<br />

cognitiva dello spettacolo teatrale, dopo la sua creazione, è necessario riprodurre<br />

almeno una parte della base materiale della rappresentazione teatrale originaria,<br />

realizzata in altri luoghi e in altri momenti. Per esempio, alcune persone e attrezzatture<br />

potrebbero essere le stesse che hanno creato il progetto in origine (come nel caso<br />

dell’autore del testo e del regista che hanno ideato la pièce e che sono considerati gli<br />

unici in grado di “riprodurre” quello stesso spettacoli in altri contesti) o le stesse che lo<br />

hanno portato alla nascita (ad esempio, gli stessi attori e buona parte dei professionisti<br />

di scena, come il realizzatore delle musiche o il light designer) (Dosi, Nelson, Winter<br />

1997; Dosi et al., 1999). In altri casi non è detto che ciò debba avvenire, e sono invece<br />

elementi più complessi o più materiali a dover essere mantenuti intatti in quanto<br />

considerati determinanti: si pensi alle numerose regie di Giorgio Strehler che<br />

continuano ad essere mantenute tali e quali a come il Maestro le aveva pensate quando<br />

furono realizzate per la prima volta; oppure alle componenti scenografiche o agli spazi<br />

teatrali utilizzati per molti spettacoli che restano costanti nel tempo, spesso<br />

alimentandone il mito, come nel caso della Cour d’Honneur del Palazzo dei Papi, ad<br />

Avignone.<br />

Nel caso del teatro, quando alcune di queste componenti vengono riviste, generando<br />

un problema in termini di costi, di tempi e di irreversibilità del lavoro svolto, si utilizza<br />

il termine di “ripresa”: in alcuni casi, spesso, si tratta di un progetto talmente nuovo che<br />

le basi cognitive di partenza sono molto diverse da quelle originali e non solo con<br />

riferimento agli aspetti artistici ma anche a quelli di natura gestionale (ad esempio<br />

cambiano i responsabili organizzativi o il personale amministrativo, oppure si rinnova la<br />

compagine delle organizzazioni produttrici, o ancora cambiano i finanziatori del<br />

progetto) (Calcagno 1999; Ethiraj, Levinthal 2002). Non è detto che il successo dello<br />

spettacolo prodotto dalla nuova compagine organizzativa e artistica, magari nello stesso<br />

contesto di quello precedente, sia garantito 1 .<br />

A partire da questi esempi, quali possibili mediatori della virtualizzazione sono<br />

individuabili? Come abbiamo visto, “non c’è un solo modo per virtualizzare la<br />

conoscenza” (Rullani, 2004b: 89). La figura 2 fornisce una rappresentazione dei<br />

mediatori individuati da Rullani, raggruppati sulla base di alcuni elementi che li<br />

accomunano sul piano dei caratteri generali. Esitono a tal proposito forme pesanti e<br />

forme leggere di virtualizzazione che operano tutti nella direzione di “ridurre il peso<br />

della base materiale di orgine senza pregiudicarne la qualità della riproduzione” nel<br />

campo di applicazione (ibidem: 90).<br />

Nel caso della conoscenza artistica per ovviare alla scarsa propensione alla<br />

virtualizzazione di questa sua particolare manifestazione artistica che è lo spettacolo<br />

teatrale è ipotizzabile l’utilizzo di un mix di mediatori riproduttivi, ciscuno dei quali<br />

agisce su una specifica base materiale da cui è composto lo spettacolo stesso.<br />

«La cultura è il principale mediatore che, nella società, riproduce il sapere e il saper fare da una<br />

generazione all’altra e da una persona all’altra, legando la base materiale (la vita quotidiana delle<br />

1 Un esempio interessante in tal senso è il caso dello spettacolo “Je suis sang” di Jan Fabre, presentato nel<br />

2001 al Festival di Avignone e successivamente, ripreso del 2003 e nel 2005 (N.d.A.).<br />

119


persone, la pratica produttiva, l’esperienza dei contesti materiali prevalenti) alle forme virtuali che<br />

esprimono la conoscenza localizzata sul territorio o in specifiche organizzazioni, dotate di<br />

tradizione, religione, antropologia e identità distintiva» (Rullani, 2004b: 90).<br />

In primo luogo, è di tutta evidenza che lo spettacolo teatrale sia un prodotto della<br />

cultura di una società. La conoscenza che assume questa particolare forma virtuale si<br />

propaga per “trasmissione” o per “contaminazione” (Becker 1982) producendo<br />

“conoscenza localizzata in contesti specifici, territoriali od organizzativi”: nel caso del<br />

Festival di Avignone, la “comunità locale”, con la sua storia, si arricchisce di anno in<br />

anno durante il mese della manifestazione, a causa della concentrazione nello stesso<br />

luogo degli operatori della filiera teatrale; ancora, la stessa organizzazione del Festival<br />

costituisce una specifica comunità con la propria storia e in più con la possibilità di<br />

avere accesso a quei codici locali che si depositano nei luoghi del festival e attraverso<br />

cui la conoscenza stessa è organizzata.<br />

A tal proposito Umberto Eco (1975) sottolinea alcuni elementi di particolare<br />

interesse:<br />

«L’uso estetico del linguaggio merita attenzione per varie ragioni: (i) un testo estetico implica un<br />

lavoro particolare, vale a dire una manipolazione dell’espressione; (ii) questa manipolazione<br />

provoca (ed è provocata da) un riassestamento del contenuto; (iii) questa doppia operazione,<br />

producendo un genere di funzione segnica altamente idiosincratica e originale, viene in certo qual<br />

modo a riflettersi nei codici che servono di base all’operazione estetica, provocando un mutamento<br />

di codice; (iv) l’intera operazione, anche se mira alla natura dei codici, produce di frequente un<br />

nuovo tipo di visione del mondo; (v) in quanto mira a stimolare un complesso lavoro interpretativo<br />

nel destinatario, il mittente di un testo rappresenta un reticolo di atti locutivi, o comunicativi, che<br />

mirano a sollecitare risposte originali» (1976: 328, corsivo originale).<br />

Nel caso specifico, Eco fa riferimento alla più classica delle forme di virtualizzazione<br />

nel caso dell’arte: al “testo estetico” quale “laboratorio di tutti gli aspetti della funzione<br />

segnica” (ibidem: 329).<br />

Legando cultura ed estetica (come proposto dalla figura 2), Avignone costituisce una<br />

particolare comunità epistemica che si prepara anche a socializzare la “cultura” che<br />

produce diventando il centro di una comunità semantica, ovvero una comunità<br />

epistemica non localizzata, basata sullo sviluppo di una “sensibilità estetica” che agisce<br />

appunto come mediatore riproduttivo alimentando la propagazione di correnti artistiche,<br />

forme di pensiero, mode teatrali, stili di vita. Un meccanismo imitativo e di<br />

riconoscimento rendono possibile l’affermarsi di una sensibilità estetica comune<br />

alimentata dalla pratica e dall’interazione (Haas, 1992). In questo modo è anche<br />

spiegabile il livello di “professionalizzazione” del pubblico del Festival di Avignone e<br />

di come a volte si consumino dei passaggi generazionali e dei problemi nell’alimentare<br />

la comprensione di certe espressioni teatrali ed esperienze estetiche (Ethis 2002).<br />

Ancora una volta, vedremo cosa questo comporti nel caso del “teatro popolare”<br />

proposto da Jean Vilar.<br />

Nel caso dello spettacolo teatrale un codice comunicazione e, quindi, un vettore della<br />

virtualizzazione estremamente importante, è anche il corpo umano e tutto ciò che è<br />

collegato alle espressioni della corporeità. Questo aspetto riconduce ovviamente al ruolo<br />

degli artisti sulla scena. Negli studi di semiotica del teatro (Elam 1980) si sottolinea<br />

come la voce, le espressioni facciali, la mimica, il movimento del corpo, l’uso degli<br />

oggetti, i costumi (o comunque il modo di vestire degli artisti) costituiscono tutti<br />

120


preziosi elementi di “valutazione” per lo spettatore 1 . In effetti si tratta di “pratiche e<br />

sensazioni uniche […] ancorate alla signola persona” e che costituiscono chiavi<br />

universali per trasferire emozioni e quindi esperienze nuove (Rullani 2004b). Per quanto<br />

questo aspetto risulti evidente nel caso del teatro, non è comunque un aspetto così<br />

scontato dal punto di vista delle scelte (estetiche) legate ad una rappresentazione<br />

teatrale. Anche su questo aspetto il Festival di Avignone 2005 costituisce un caso<br />

interessante, laddove la programmazione di quella edizione presentava una attenzione<br />

particolare a questa forma di linguaggio artistico ed alle espressioni teatrali legate ad<br />

una certa concezione della modernità (Banu, Tackels 2005). All’interno del programma<br />

del festival, documento ufficiale della manifestazione, le caratteristiche di queste<br />

tendenze, linguaggi ed espressioni teatrali contemporanee vengono descritte in questi<br />

termini:<br />

«[Questi artisti] Ils interrogent, à travers leurs créations, notre qualité d’êtres humain dans sa<br />

dimension sprituel et animale. Ces artistes interpellent le relation que nous entretenons avec notre<br />

corps, nos rêves et nos fantasmes, notre rapport à la beauté mais aussi à la violence qui parfois<br />

cohabitent en nous, notre rapport à la science, à nos limites et à la loi, notre besoin de croire e<br />

d’aimer. Il nous entraînent à penser notre humanité d’aujorid’hui et imaginer celle de demain. En<br />

sondant leur intimité il affirment la possibilité de trouver quelque chose qui s’apparenterait à<br />

l’universel ou au sacré pour, peut-être, réenchanter le monde. En quête d’utopies, ces poètes<br />

recherchent aussi de nouvelles formes théâtrales pour tanscender leur paysage intérieur, leur vision<br />

du monde et les partager dans l’espace et le temps de la représentation. Le corps et le verbe sont<br />

les matérieux premiers de ces artistes de théâtre et de danse qui conçoivent souvent leur création<br />

de façon globale et nourissent leur langage d’autres formes d’arts – cinéma, arts plastiques,<br />

musique, performances – effaçant parfois la frontière entre les genres»<br />

(da l’Éditorial du programme du Festival, Festival d’Avignon, 2005)<br />

La mobilità di persone e cose, come anticipato in precedenza e come vedremo nel<br />

caso dei flussi di distribuzione della conoscenza, costituisce un modo per superare i<br />

confini delle comunità locali o organizzative. La conoscenza riesce a lasciare la<br />

materialità di alcuni elementi del suo contesto di origine in quanto circola, entro certi<br />

limiti spazio-temporali, attraverso/con le persone (Rullani 2004b). Oltre che ai saperi<br />

degli artisti o alla conoscenza applicativa che il pubblico del Festival è in grado di<br />

alimentare, è possibile prendere in considerazione le componenti cognitive legate<br />

all’esperienza e alle pratiche di tecnici, impiegati amministrativi, direttori. Per quanto<br />

non visibili alla maggioranza degli spettatori, esse diventano comunque patrimonio<br />

cognitivo che gli stessi mettono a disposizione della medesima filiera teatrale e<br />

contemporaneamente di altre filiere.<br />

Questo è il racconto che Bernard Faivre d’Arcier fa dell’episodio che lo ha portato<br />

alla direzione del Festival di Avignone:<br />

«Parmi les différents noms envisagés pour prendre la succession de Paul Puax après sa démission<br />

en 1979, le mien avait été avancé par l’adjoint à la culture de l’époque, Dominique Taddéi. Le<br />

1 Se questo aspetto del corpo come mediatore riproduttivo può essere particolarmente evidente nel caso<br />

dello spettacolo teatrale, potrebbe risultare invece alquanto sfuggente se collegato ad altre filiere<br />

cognitive. Ebbene, in linea generale considerare il corpo e le espressioni corporee potenziali mediatori<br />

riproduttivi significa sostanzialmente accettare il ruolo di forme virtuali legate alla salute, al benessere, al<br />

fitness e quindi ai messaggi collegati alla bellezza, al vivere bene e all’armonia psico-fisica. In termini<br />

estremi, il corpo come mediatore virtuale può essere collegato anche alle immagini che ci vengono offerte<br />

in certe specifiche filiere cognitive, come nel caso della moda, dei prodotti alimentari, delle cure di<br />

bellezza nei centri di salute, ecc. (N.d.A.).<br />

121


maire, Henri Duffaut, ancien inspecteur des impôts, était, disons, favorablement impressionné par<br />

le jeune neveu d’inspecteur des finances que j’étais et qu’il avait invité un soir à la table d’un<br />

restaurant furieusement fin de siècle… Je me sentais vraiment dépaysé! C’est à cette occasion que<br />

je découvris que le Festival n’avait pas de budget prévisionnel: le maire s’en remettait à la probité<br />

de Paul Puaux qui négociait les contracts au plus serré et qui, le Festival étant en régie municipale,<br />

n’avait jamais signé un chèque de sa main. La ville versait une subvention d’équilibre à la lecture<br />

des résultats financiers de chaque édition, forcément déficitaire. À tout hasard, je demandai à<br />

Henri Duffaut une rallonge de 2 millions de francs, improvisant une succinte répartition: un quart<br />

de cette augmentation serait affecté à la production, un deuxième quart à la communication, un<br />

troisième à l’organisation, le dernier aux… imprévus. Au dessert, Henri Duffaut me donnait son<br />

accord.» (Cahiers de la Maison Jean Vilar, n. 87).<br />

Ad esempio, il problema della successione nella leadership è sempre stato inquadrato<br />

in termini di progetto complessivo (nel segno della continuità rispetto ad una<br />

manifestazione con una storia ricca e gloriosa) e di rafforzamento delle competenze<br />

necessarie alla crescita del Festival come organizzazione (questo vale anche per il<br />

progetto dei due nuovi direttori, Vincent Baudriller e Hortence Archambault). Nel caso<br />

di Bernard Faivre d’Arcier, egli arriva alla guida del Festival senza una precisa<br />

esperienza di Avignone: certo, conosceva bene il ruolo di Avignone nel panorama<br />

culturale francese e internazionale, ma dai suoi stessi racconti, la direzione del Festival<br />

costituiva per lui una esperienza assolutamente inedita ma anche una sfida eccitante per<br />

una personalità come lui, col «tempéramente de concepteur de projets». Ed era proprio<br />

questa sua caratteristica e queste sue competenze specifiche che sono state considerate<br />

fondamentali in quel momento specifico dell’evoluzione della manifestazione<br />

(Prahalad, Hamel 1990; Nooteboom 1999, 2000).<br />

Altre competenze particolarmente importanti sono quelle dei tecnici e dei cosiddetti<br />

“intermittenti dello spettacolo” (Menger 2005): competenze che, come vedremo, si<br />

trasferiscono nel tempo e nello spazio, attraverso forme di mobilità e di “flessibilità”<br />

lavorative sconosciute alla maggior parte dei lavoratori moderni. Anche in questo caso<br />

si è potuto verificare cosa comporta l’adozione di “principi economici tradizionali” per<br />

la gestione di fenomeni (la regolamentazione di un tipo di competenza e di<br />

professionalità altamente specifici) non facilmente inquadrabili in tale prospettiva.<br />

La crisi dell’estate del 2003 ha portato all’annullamento di tutti i principali festival<br />

estivi nel sud della Francia (con un danno, anche economico, notevole) e ha perturbato<br />

la stagione teatrale di molte sale teatrali lungo tutto il paese: tutto questo perché era<br />

stato messo in discussione questo sistema di lavoro 1 . Il regime specifico di lavoro che<br />

viene riconosciuto al settore dello spettacolo, costituisce per certi versi una vera<br />

1 Fin dal 1969 alle persone che lavorano nel settore dello spettacolo è riconosciuta una particolare<br />

situazione occupazionale legata alle caratteristiche proprie dell’attività artistica che alterna, tipicamente,<br />

periodi di impiego a periodi (a volte anche lunghi) di disoccupazione. Nella sostanza, viene riconosciuto<br />

per legge il principio secondo cui l’attività creativa costituisce a tutti gli effetti una attività lavorativa con<br />

particolari caratteri di “intermittenza” in quanto artisti e tecnici vengono di fatto “pagati” con la<br />

realizzazione delle prove degli spettacoli e quando questi vengono messi in scena. Per tutte le fasi del<br />

lavoro che precedono e seguono lo spettacolo, la maggioranza dei lavoratori dello spettacolo, non sono<br />

inquadrati a tempo indeterminato all’interno di una istituzione culturale permanente, vengono pagati<br />

attraverso l’indennizzo proveniente da questo specifico fondo del sistema previdenziale. Il<br />

riconoscimento di tale principio ha portato, appunto dal 1969, alla creazione di uno specifico regime di<br />

assicurazione-disoccupazione, attualmente regolamentato dai c.d. “annexe VIII et X de l’Unedic”: la<br />

differenza è legata tanto alla maggiore facilità di accesso al trattamento quanto all’ammontare<br />

dell’indennizzo concesso rispetto a quello di altri settori in cui operano i c.d. “intérimaires” (l’equivalente<br />

dei “moderni” lavoratori interinali) (N.d.A.).<br />

122


“diversità culturale” francese per quanto riguarda la concezione dell’arte ed il suo ruolo<br />

nella società, ed è unico nel suo genere in Europa. Ma, d’altro canto, l’ottenimento di<br />

questo “status giuridico”, non fa che riconoscere e legittimare l’intero sistema di lavoro<br />

che viene “storicamente” adottato nei processi di produzione artistici in Francia (e non<br />

solo): come avranno modo di sottolineare alcuni studiosi di sociologia e professionisti<br />

del settore del diritto e dell’economia del lavoro (si rinvia a: Menger 2005), i lavoratori<br />

dello spettacolo francesi non fanno che “istituzionalizzare” un fenomeno ampiamente<br />

diffuso nel settore artistico diventando (in tempi e con modalità non sospetti) tra i primi<br />

lavoratori “veramente flessibili” (secondo l’attuale concezione) nella storia economica<br />

contemporanea, in un paese avanzato e ad economia di mercato, anticipando di decenni<br />

le pratiche e i relativi problemi che si stanno evidenziando solo nei primi anni del 2000<br />

e in altri settori dell’economia (Menger 2005).<br />

Passando al quarto gruppo di mediatori riproduttivi, simboli, tecnologie analogiche e<br />

digitali, simulazioni costituiscono forme di virtualizzazione che fanno riferimento a<br />

tecniche differenti per cercare di risolvere lo stesso problema della riproducibilità della<br />

conoscenza (artistica, ma non solo): l’esperienza “originale” viene in qualche modo<br />

sostituita, in tutto o in parte, da una sua rappresentazione con caratteristiche “cognitive”<br />

differenti. Nel caso dei simboli, l’idea è quella del richiamo a oggetti, situazioni,<br />

persone che possono essere “convenzionalmente” associati alla conoscenza di partenza<br />

attraverso un codice identificativo. L’esempio più comune è quello del codice a barre<br />

che identifica determinate informazioni su un prodotto al supermercato.<br />

Nel caso del teatro, facendo riferimento al Festival di Avignone, i simboli sono legati<br />

alle “pietre” del Palazzo dei Papi (Ethis, 2002) o agli altri luoghi del Festival. Se una<br />

registrazione VHS di uno spettacolo di Jean Vilar costituisce una forma di<br />

virtualizzazione di tipo analogico; la videoteca della Maison Jean Vilar che raccoglie<br />

buona parte delle rappresentazioni teatrali del fondatore del Festival costituisce una<br />

forma di memoria “analogica” (e in parte anche digitale) della storia del Festival e del<br />

suo “mito” artistico. Allo stesso modo, però, come ogni forma di virtualizzazione, una<br />

diapositiva o una pellicola estraggono solo una parte degli elementi del reale (“la<br />

geometria dei luoghi, i colori, i personaggi e i momenti salienti, ecc.” – Rullani 2004b:<br />

96). L’affinità con l’evento reale è solo formale e l’utilizzatore della conoscenza<br />

presente su quel supporto (simbolico, analogico o digitale), per quanto abile sia, non<br />

sarà in grado di estrarre completamente l’esperienza originale. Le simulazioni (la c.d.<br />

realtà virtuale) cercano di ovviare a questo problema di “riproducibilità” legato a<br />

simboli e tecnologie analogiche o digitali.<br />

La norma costituisce l’ultimo dei mediatori riprodutivi presi in considerazione da<br />

Rullani. Se la realtà virtuale è probabilmente il caso più estremo di separazione<br />

dell’esperienza dalla sua base materiale, la norma, all’opposto, opera “plasmando” la<br />

base materiale della conoscenza: “standardizza i comportamenti e le situazioni di fatto,<br />

consentendo non solo un controllo delle devianze, ma anche la creazione di standard<br />

classificatori e linguistici comuni” (Rullani, 2004b: corsivo nostro).<br />

Nel caso dell’arte una forma molto importante di standardizzazione è quella che<br />

produce la critica teatrale (nelle sue varie forme, accademica o professionale): se, da un<br />

lato, gli artisti si riconoscono in comunità con linguaggi ed espressioni estetiche<br />

condivise, la critica spesso svolge il compito di legittimare (o meno) tali percorsi<br />

artistici, di sancirne la natura dei codici di qualità, di diffonderli e, in un certo modo,<br />

preservarli nel tempo. Negli studi di estetica e di semiotica, si sottolinea come l’artista<br />

cerca di descriverci qualcosa impiegando le parole (o comunque un linguaggio) in modo<br />

123


diverso da come siamo abituati a fare quando facciamo riferimento ad un qualsiasi<br />

fenomeno quotidiano (Eco 1975; Elam 1980). La prima reazione del pubblico è quella<br />

tipica dello “spaesamento”: sovente, non siamo in grado di riconoscere quell’oggetto<br />

così come cerca di presentarcelo l’artista. Questi infatti, non fa altro che organizzare in<br />

modo “ambiguo” il messaggio rispetto al codice che utilizza (Eco, 1975). L’effetto di<br />

straniamento studiato, ad esempio, dalla scuola di semiotica dei formalisti russi (Eco<br />

1975) sottolinea come l’arte aumenti la difficoltà e la durata della percezione in quanto<br />

ci mostra un oggetto come se lo vedessimo per la prima volta: non cerca di avvicinarci<br />

alla sua comprensione, ma l’obiettivo è quello di creare, appunto, una percezione<br />

particolare dell’oggetto stesso (Neisser 1976; Argenton 1996). Chi permette di mediare<br />

tra artista e pubblico è proprio la critica che cerca di far scoprire a quest’ultimo parte del<br />

canone estetico utilizzato dal primo. Ancora una volta, questo fenomeno che può<br />

apparire assolutamente tipico del linguaggio artistico, non è molto lontano da<br />

quell’ambiguità di fondo che sembra guidare parte dell’azione organizzativa (Cohen,<br />

March, Olsen 1972; March, Olsen 1976; Orton, Weick 1990). Eco definisce l’ambiguità<br />

estetica come “una deviazione sul piano dell’espressione [a cui] corrisponde una<br />

qualche alterazione sul piano del contenuto” (Eco, 1975: 330). Così epresso, questo<br />

concetto è estremamene utile anche in chiave organizzativa e gestionale. Come<br />

sottolinea efficacemente Weick (1979, 1995), l’ambiguità non indica una mancanza di<br />

chiarezza (cosa che invece è collegabile al concetto di incertezza): “nel caso<br />

dell’ambiguità, le persone intraprendono il sensemaking perché sono confuse da una<br />

quantità eccessiva di interpretazione” (Weick, 1995: 100). Rispetto al concetto più<br />

esteso di ambiguità che utilizzano altri autori che mettono assieme ignoranza e<br />

confusione (ad esempio: March, Olsen 1976; March 1994), Weick (1995) tiene distinti i<br />

due concetti: per rimuovere l’ignoranza, causa dell’incertezza, sono necessarie più<br />

informazioni; per ridurre la confusione, che invece causa l’ambiguità, è necessario avere<br />

informazioni di tipo diverso rispetto a quelle di cui già si dispone. Nella nostra<br />

prospettiva, nell’ambito di forme diverse di strutturazione della conoscenza (anche di<br />

quelle considerate più “razionali”), è possibile che la norma come forma di<br />

virtualizzazione, debba agire per ridurre le ambiguità di una determinata esperienza.<br />

Nel caso della critica teatrale, il suo ipotetico ruolo di “opinion leader” del settore è<br />

legato alla sua capacità di fornire al pubblico informazioni di tipo diverso sullo<br />

spettacolo teatrale, agevolandone i processi di sensemaking riducendo l’ambiguità<br />

estetica: ciò avviene “incorniciando” il fenomeno artistico all’interno di schemi di<br />

riferimento (cosa che è collegata alla strutturazione della conoscenza), utilizzando<br />

etichette note (le correnti artistiche relative a determinati linguaggi ed espressioni) che<br />

si caratterizzano per l’utilizzo di codici parzialmente noti alla comunità dei<br />

professionisti e dei consumatori.<br />

Il passo successivo costituisce il modo, forse un po’ spietato o dissacrante, in cui il<br />

quotidiano “Le Figaro” recensisce la “ripresa” di Je suis sang, già presentato nel 2001<br />

al Festival di Avignone e riproposto in una versione differente nell’edizione del 2005.<br />

Ad ogni modo, la parte descrittiva della recensione costituisce un affresco<br />

sufficientemente realistico dei caratteri tipici di uno spettacolo di teatro-danza<br />

contemporaneo 1 :<br />

1 Pur non essendo possibile identificare un’unica corrente estetica nell’ambito delle numerose e differenti<br />

esperienze artistiche proposte ad Avignone nell’estate del 2005 (Banu, Tackels 2005), le caratteristiche<br />

comuni di questi spettacoli sono comunque delineabili come segue: ruolo ridotto del testo o meglio<br />

l’utilizzo poco “tradizionale” della parola e dei codici teatrali tradizionali; importanza dell’uso<br />

124


«“Je suis sang” de Jan Fabre. Pour touristes égarés.<br />

La reprise, juste pour un week-end, de Je suis sang confirme la mauvaise impression de la<br />

création en 2001: la pièce est racoleuse et l’effet de surprise ne joue même plus. Jan Fabre ne<br />

manque cependant pas d’idées. Quand le public penètre dans la Cour d’honneur, les danseurs sont<br />

déjà présents et composent un pittoresque tableau à la Jérôme Bosch: un homme, fesses à l’air et<br />

un entonnoir sur la figure, court, une lanterne à la main, tandis qu’un Asterix armé d’un<br />

tapemouches frappe sur des tables métalliques. Un bourreau aiguise ses couteaux, des baignoires<br />

métalliques donnent le frisson, comme les tables frottées frénétiquement par des homme<br />

encapuchonnés. Un amour blond et grassouillet en string pourpre fume un cigare et attire<br />

l’attention en faisant le pitre tandis que la comédienne Els Deceukelier, en robe de veuve, affublée<br />

d’un gros manuscrit sur la tête, toise le public. Le décor est planté, drôle, spectaculaire. L’entrée de<br />

soldats en armure totalement en concordance avec la façade du palais produits toujours le plus bel<br />

effet, et leur ballet mécanique compte parmi les meilleurs moments de la soirée. Le solo échevelé<br />

d’un colosse en armure, affrontant à l’épée un ennemi invisible demeure également un mémorable<br />

moment de dance.<br />

Mais dès que les personnages parlent, le spectacle tourne au ridicule, mélange de canulars<br />

d’étudiants et de Grand-Guignol. Les cris des mariées exhibant leurs culottes maculées de sang et<br />

le gémissements des hommes nus, maladroitement circoncis au hachoir, qui s’inondent de sang et<br />

glissent dans les flaques, le défilé des monstres aux moignons effroyables et autres trucages<br />

d’horreur ne provoquent que rires et dégoût. Chienlit et exhibitionnisme règnent sur le plateau<br />

jusqu’à la scène finale. Si le mur d’acier des tables renversées se révèle toujours aussi<br />

impressionant, les flots de sang qui devraient s’écouler par-dessous sont malheureusement restés<br />

taris le premier soir […]”.<br />

da “Le Figaro” del 18 luglio 2005<br />

Nell’estate del 2005 un generale “malcontento” ha colpito l’edizione del Festival. Gli<br />

elementi “dell’affaire d’Avignon 2005” sono diversi, ma semplificando al massimo<br />

l’analisi, e collegandola all’oggetto del presente lavoro, è possibile affermare che i<br />

contenuti degli spettacoli (riconducibili a questa particolare forma di teatro<br />

contemporaneo) hanno profondamente diviso l’opinione pubblica (spettatori e critica) a<br />

causa del linguaggio e della tecnica (teatrale) utilizzati e della conseguente difficoltà di<br />

comprensione dei messaggi. Nei casi più estremi, come nella “diatriba” tra Le Figaro e<br />

Jan Fabre (un vero e proprio “caso nel caso”), le critiche rigurdavano l’assenza di un<br />

testo teatrale propriamente detto e, più in generale, la formula del Festival e quindi le<br />

scelte stesse dei suoi due direttori (Bortoluzzi, Collodi, Crisci, Moretti 2006).<br />

***<br />

La sesta settimana: lunedì 4 – domenica 10 settembre 2000<br />

Nekrosius. «Lunedì non è un giorno molto intelligente! Si fa sempre fatica a<br />

riprendere a lavorare dopo il giorno di pausa.<br />

Domani vorrei finire di montare il quarto atto e quindi ricominciare a lavorare sui<br />

primi tre.<br />

Per quanto riguarda la scena della tombola ho molte perplessità: non la amo<br />

particolarmente e in generale risulta incomprensibile a tutti gli studiosi di Cechov.<br />

Spesso l’ho vista rappresentata con molto movimento e molto rumore, come un<br />

dell’immagine (a volte dai contenuti forti); fondamentale presenza scenica degli attori/danzatori;<br />

commistione tra recitazione e danza nonché utilizzo di linguaggi artistici differenti (teatro, danza, musica,<br />

video, arti plastiche) e delle nuove tecnolgie multimediali; ricerca e uso di spazi teatrali non convenzonali<br />

e di nuove modalità per ottenere forme nuove di coinvolgimento “diretto” del pubblico (N.d.A.).<br />

125


momento di confusione. In realtà io penso di tagliarla quasi completamente: lasceremo<br />

solo alcune battute, e trasformeremo la prosa in poesia […].<br />

Anche per quanto riguarda il finale dello spettacolo non ho le idee del tutto chiare:<br />

dopo la scena tra Treplev e Nina, che dal punto di vista emozionale dovrà essere molto<br />

forte, forse non si potrà andare ancora più su. Dobbiamo comunque trovare qualcosa<br />

di bello e di efficace. […] Comunque non voglio un’immagine troppo drammatica per<br />

questo finale, non vorrei sentire nessun pianto, nessun grido; vorrei riuscire a trovare<br />

qualcosa di molto semplice ma commovente: semplicemente raccontare che qualcuno è<br />

volato via. Vorrei che finisse in modo poetico: per esempio potremmo vedere sulla<br />

scena alcuni personaggi […], con le mani raccolte come in una preghiera, una<br />

preghiera particolare che diventa volo: le dita delle mani dalla posizione di preghiera,<br />

come per imitare il battito di piccole ali, diventano essere stesse ali; quando in<br />

sottofondo inseriremo i suoni dei gabbiani, voi sarete con lo sguardo avanti verso il<br />

pubblico, poi magari guarderete tutti verso l’alto […]».<br />

Nekrosius: «In realtà lavorandoci mi sono reso conto che non sento più il bisogno di<br />

differenziare troppo l’atmosfera di questo quarto atto dagli altri tre, non è necessario<br />

scurirlo, incupirlo eliminando i colori come mi ero proposto di fare all’inizio; perciò<br />

vorrei rimettere al loro posto sul palchetto le girandole colorate di primi atti che<br />

avevamo sostituito con queste nere.<br />

Riguardo alla scena finale non sono ancora sicuro di fissarla oggi: dobbiamo<br />

provare più soluzioni prima di trovare quella giusta […]».<br />

[…] Poi decise di provare con Fausto il monologo di Kostja, in quanto: «E’<br />

complicato parlare di letteratura in teatro. Ho qualche perplessità su come è stato<br />

montato questo monologo, sento il bisogno di cambiare la struttura della scena, fare<br />

degli altri tentativi.<br />

In questa versione giochiamo un po’ troppo con questi fogli di carta. Dobbiamo<br />

trovare qualcos’altro: prova per esempio a stringerti le tempie nel tentativo di<br />

arrestare il corso dei tuoi pensieri. E’ un’immagine forte, dolorosa […].<br />

Allora, riprendendo dall’inizio: ti alzi dallo studio, accartocci l’ultimo foglio su cui<br />

stavi tentando di scrivere e lo lanci alle tue spalle, arrivi in proscenio con lo sgabello, ti<br />

siedi, sguardo in avanti verso il pubblico; ti senti in colpa per ciò che pensi di te stesso,<br />

nascondi la testa tra le ginocchia, dopo poco torni dritto, prendendo fiato come dopo<br />

un’apnea, poi vai di nuovo giù e cominci a parlare, e così via. Voglio vedere l’altalena<br />

dei tuoi pensieri: la sfiducia che cede il posto alla speranza per poi riprendere ancora il<br />

sopravvento; è la fede in te stesso e nella tua arte che vacilla fortemente.<br />

[…] Prima della frase finale (“Sì, mi convinco di più…”), il tuo volto è pieno di<br />

luce: si tratta di un’acquisizione importante, hai scoperto una verità. Dopo averla<br />

detta, piangi. Quindi ti schiacci il naso di carta e getti il foglio accartocciato alle tue<br />

spalle. Entra Nina».<br />

Poi, la scena tra Treplev e Nina.<br />

Nekrosius: «L’entrata di Nina è accompagnata dalla musica di Chopin ed è<br />

anticipata sa una pallottola di carta che dal fondo torna verso Treplev. Vorrei che Nina<br />

arrivasse più bella che mai: truccata, il rossetto sulle labbra, un neo finto, una lacrima<br />

disegnata, le gote rosse e un fazzoletto bianco intorno al collo.<br />

[…] Nina ritorna più bella: è piena di fascino e femminilità, ha vissuto da attrice e<br />

deve portare con sé la grazia e le maniere del mondo della scena […]».<br />

Poi, Laura e Fausto riprendono la scena fino alla fine.<br />

126


Nekrosius: «Siamo molto vicini al risultato. Ci sono i ricordi, i sentimenti,<br />

l’eleganza; non c’è cupezza, non c’è sofferenza esibita ma una sofferenza trattenuta che<br />

inganna: ci fa vedere una luce lontana che ancora risplende.<br />

Ora non resta che legare a questa scena l’azione finale di Dorn […]».<br />

Nei giorni successivi le prove riguardarono le scene del quarto atto. Fino al venerdì,<br />

quando Nekrosius chiese agli attori di vedere la filata dell’atto, sia nella versione<br />

italiana sia in quella francese.<br />

Al termine della prima, Nekrosius era soddisfatto: «Sarà un bell’atto, certo ora<br />

dobbiamo vedere come si legherà al resto del nostro lavoro. Gli altri atti dovranno<br />

servirci a prepararci a questo.<br />

Mi è piaciuta la manciata di ghiaia arrivata in scena dall’esterno dopo una delle<br />

uscite di Treplev durante il racconto su Nina. La terremo. Era molto bello anche il<br />

“Non verrà”: due sole parole che bastano a contraddire tutte le frasi precedenti,<br />

scoprendo i reali sentimenti di Kostja per Nina. Nel monologo finale», rivolto a Fausto,<br />

«invece hai esagerato un po’: c’era troppa drammaticità, il colpo sul naso e il dolore<br />

non devono essere realistici, evita reazioni fisiologiche, concentrati sul movimento dei<br />

tuoi pensieri più che su quello del tuo corpo.<br />

Trattenete l’emozione, dovete ricordarmi con la vostra recita il rombo immobile dei<br />

motori alla partenza della Formula 1: è così che vincerete!<br />

Bene Nina: anche nella sofferenza c’era splendore sul tuo viso, e questo è giusto.<br />

In generale voglio in tutti più attività, più vivacità: dovete stare attenti a non<br />

scivolare mai nel cechovismo […]».<br />

La settimana si chiuse con la filata del primo atto con la distribuzione italiana.<br />

Nekrosius: «Era prevedibile: mancavate di ritmo, come se steste ricordando cosa<br />

dovevate fare. Fin dall’inizio di Treplev il ritmo era rallentato: non possiamo partire<br />

così; tu sei il promotore delle nuove forme, sei il “futurista”, e allora voglio vederlo da<br />

subito questo cervello in azione.<br />

In generale eravate tutti troppo comodi in quello che facevate<br />

Il pubblico dello spettacolo non deve commentare, bisbigliare. Vi vedevo parlare<br />

all’orecchio: è un cliché e non mi piace. Trovate reazioni meno banali, non quotidiane.<br />

Trogorin era quasi annoiato: in realtà tu non apprezzi il testo dello spettacolo ma sei<br />

già preso e incuriosito da Nina. Masa, prenditi più spazio, allarga le tue azioni,<br />

improvvisa e sorprendici di più; e ricorda: se c’è la lacrima, la lacrima deve brillare.<br />

Nei prossimi giorni metteremo un orologio in scena per voi attori: lo faccio sempre<br />

anche con i miei quando si comincia a lavorare sulle filate. E’ bene che siate<br />

consapevoli del tempo che passa, dovete avere la possibilità di rendervi conto se siete<br />

lenti, in modo da porvi prontamente rimedio.<br />

Basta così per oggi, buona domenica».<br />

La settima settimana: lunedì 11 – domenica 17 settembre 2000<br />

La settimana, dopo aver provato con insistenza, fu interamente dedicata alle filate.<br />

Dopo la filata del primo e del secondo atto della distribuzione italiana Nekrosius<br />

commentò: «Era come se fosse tutto giusto eppure mancava qualcosa di grande. Io da<br />

parte mia non so più cosa potrei aggiungere: ora tocca solo a voi, è su di voi la<br />

127


esponsabilità. Mancava la vita: ho visto il corpo ma dell’anima ho intravisto poco e<br />

solo in alcuni momenti.<br />

Mancava la coralità, l’ascolto, il rapporto tra voi: siete stati tutti un po’ egoisti.<br />

Mancava inoltre l’energia e la vitalità: siete giovani, nel pieno delle vostre forze e<br />

voglio che questa forza la portiate tutta sulla scena, voglio sentirla; ora sembravate<br />

tutti più vecchi di dieci anni. Ci sono giorni così, in cui non si muove l’aria, non c’è<br />

nessuna vibrazione sul palcoscenico, e purtroppo non è possibile prescrivere una<br />

ricetta per evitarlo; quando succede così, allora dovete rischiare il tutto per tutto,<br />

buttarvi per cercare di cambiare le sorti. Fin dall’inizio il vostro lavoro mancava<br />

d’impulsività, c’era insicurezza in tutti, prolungavate i tempi nel tentativo di preparare<br />

quello che dovevate fare o dire. In Nina mancava del tutto la teatralità, quel qualcosa<br />

fuori dalla norma in cui si nasconde la vera bellezza<br />

In generale pensate tutti allo spazio aperto, al lago, agli alberi, al vento; siete<br />

all’aperto in tutt’e due questi atti e all’aperto si parla e ci si muove in modo diverso;<br />

ora sembravate tutti chiusi in una stanza.<br />

Per ora ci fermiamo qui con voi e passiamo ai vostri colleghi».<br />

Giovedì venne comunicato alla troupe che domenica avrebbero avuto la possibilità<br />

provare il teatro a Limoges. Nekrosius allora spostò la giornata di riposo al sabato.<br />

Poi, cominciarono la filata dei quattro atti con la distribuzione italiana.<br />

I commenti di Nekrosius: «E’ stata una grande impresa. Sicuramente c’è da mettere<br />

a posto l’uscita di Sorin e il finale che ancora non funzionano.<br />

Il pensiero è perfetto: siamo noi che ritardiamo rispetto al nostro pensiero quando<br />

invece sarebbe bello stargli al passo. In generale quello che avete fatto mancava di<br />

ritmo, questo non vuol dire che dovete farlo più veloce: anche una scena lenta ha ritmo.<br />

Il ritmo è una cosa innata, che non si può imparare, ognuno ce l’ha dentro di sé, e<br />

perché uno spettacolo abbia un ritmo c’è bisogno di un grande ascolto tra tutti gli<br />

attori.<br />

Non dobbiamo preoccuparci, abbiamo ancora molti giorni per provare, e<br />

ripercorrere tutto lo spettacolo alla ricerca del ritmo perfetto.<br />

Il gabbiano, come altri testi di Cechov, è un testo che ha in sé l’idea dell’infelicità e<br />

comunque si rappresenti non potremo prescindere da raccontare questo».<br />

128


IX<br />

(La fabbrica della conoscenza artistica. I macchinari e le lavorazioni della filiera cognitiva delle<br />

performing arts: la logistica dello spettacolo teatrale, nel tempo e nello spazio)<br />

In cui la visita dei reparti, delle lavorazioni e dei macchinari della fabbrica della<br />

conoscenza artistica porta il lettore a considerare come operano i flussi di sapere artistico<br />

sotto forma di spettacolo teatrale, vale a dire la sua distribuzione nel tempo e nello spazio<br />

<br />

129


Qualunque sia la sua struttura e la sua forma, la conoscenza crea valore quando<br />

risulta possibile il collegamento con quegli elementi che la rendono “fluida” nello<br />

spazio e nel tempo. In altri termini, la logistica della conoscenza è legata alla ricerca dei<br />

suoi potenziali utenti e usi: il vero valore dello spettacolo teatrale scaturisce dalla<br />

capacità di allargare nello spazio il suo bacino d’uso e di rendere possibile, nel tempo<br />

(cioè in momenti differenti del suo ciclo di vita) il collegamento tra persone e uso.<br />

Ma cosa permette alla conoscenza di circolare liberamente e di andare letteralmente<br />

alla ricerca dei suoi utilizzatori? La propagazione ha bisogno di una rete di luoghi su cui<br />

appoggiarsi: sono i sistemi territoriali che permettono allo spettacolo teatrale di avere un<br />

supporto “robusto” per la propria circolazione e il collegamento con i luoghi avviene<br />

attraverso le identità di cui essi sono depositari. In alcuni casi chi produce lo spettacolo<br />

teatrale scava talmente in profondità nei luoghi in cui tale conoscenza ha orgine che le<br />

robuste radici non rendono possibile la connessione con altri luoghi. In altri casi, invece,<br />

lo spettacolo teatrale sorvola i luoghi con estrema facilità ma la sua presenza è quasi<br />

interamente strumentale: l’inserimento all’interno di una stagione teatrale nazionale o<br />

internazionale non è inquadrabile in un progetto condiviso con l’organizzazione che la<br />

ospita, quindi, nell’ambito di un percorso artistico comune. Più normalmente, uno<br />

spettacolo teatrale permette di far diventare i luoghi che attraversa dei sistemi<br />

interconnessi tra loro dal punto di vista cognitivo.<br />

In questi termini, le componenti distintive di un “luogo” sono: l’insieme delle<br />

capacità esclusive delle persone che lo compongono e lo attraversano; l’interazione tra<br />

tali persone; l’interazione tra le persone e gli altri elementi del territorio stesso<br />

(Biggiero, Sammarra 2002). Per loro stessa natura, quindi, le organizzazioni artistiche<br />

possono giocare un ruolo determinante di “interfaccia cognitiva tra locale e globale”<br />

(Grandinetti, Moretti 2004), in quanto attraverso la circolazione degli spettacoli teatrali<br />

collegano persone, oggetti, ambienti fisici e tessuti di relazioni differenti.<br />

La figura 5 cerca di riassumere i possibili vettori che permettono l’organizzazione<br />

logistica dei differenti flussi di conoscenza.<br />

Richiamando quanto detto con riferimento alle forme della conoscenza, possiamo<br />

distinguere flussi virtuali e flussi materiali. Nel primo caso, la circolazione riguarda solo<br />

la parte di conoscenza che può essere separata dalla sua base materiale; nel secondo<br />

caso, invece, ciò che circola è (anche) una qualche forma materiale di conoscenza<br />

(Rullani 2004b).<br />

Intuitivamente, la logistica di un bit di informazione ha caratteristiche diverse, anche<br />

dal punto di vista cognitivo, rispetto alla logistica di una confezione di pomodori. Va da<br />

sé che nel primo caso la logistica interessata da questo tipo di flussi è quella dei mezzi<br />

di comunicazione, mentre nel secondo siamo legati alla logistica delle cose e delle<br />

persone.<br />

Come accennato nel paragrafo precedente (v. supra § 3.3), nel caso dello spettacolo<br />

teatrale le cose sono un po’ più complicate, o quanto meno presentano livelli di<br />

articolazione differenti proprio per il fatto che, necessariamente, convivono forme<br />

materiali e virtuali nonché forme con gradi di materialità e di virtualità diversi.<br />

Prima di analizzare i vari mediatori logistici applicati al caso della produzione<br />

artistica, è utile sgombrare il campo da eventuali fraintendimenti: i flussi virtuali non<br />

sono esclusivamente legati a strategie di codificazione, così come i flussi materiali non<br />

sono di esclusiva pertinenza di strategie di condivisione. Come visto, nell’ambito di<br />

punti differenti della medesima filiera possono coesistere strategie diverse e intermedie<br />

tra i due estremi della codificazione e della condivisione.<br />

130


Dunque, anche nell’analizzare la distribuzione della conoscenza artistica è necessario<br />

tenere presente il fatto che non sempre la “forma” (la parola, nel caso di una<br />

conversazione telefonica, ad esempio), da sola, è in grado di trasferire in modo reale ed<br />

efficace la conoscenza, consentendo di separare il “contenuto” (ovvero il significato,<br />

anche informale, della conversazione), senza “spostare” fisicamente persone, cose, spazi<br />

e relazioni. Gli elementi mancanti di un flusso virtuale legato al messaggio di una<br />

rappresentazione teatrale potrebbero essere ricostruiti e aggiunti, da un lato, dalla<br />

capacità di interpretazione degli artisti e, dall’altro, dalla capacità di comprensione del<br />

pubblico: nell’arte dal vivo questo aspetto è particolarmente delicato, in quanto il testo<br />

spettacolare (la “forma”, ciò che avviene sul palcoscenico) e il testo drammatico (la<br />

“sostanza” della rappresentazione, la sua fiction) non sono separabili e necessitano l’uno<br />

dell’altro in quel determinato luogo e momento (Elam, 1980).<br />

Detto questo, è di tutta evidenza che il risultato dei processi di produzione nelle<br />

performing arts è particolarmente legato a flussi materiali (diversamente da quanto<br />

avviene nel caso delle arti visive, del cinema e, in parte, per la musica). In generale, la<br />

distribuzione “cognitiva” di uno spettacolo teatrale può avvenire in due modi: o<br />

portando gli utilizzatori vicino – nel tempo e nello spazio – al produttore, in modo da<br />

sovrapporre contesto connettivo e applicativo (logistica congiuntiva); oppure spostando<br />

tutti gli elementi rilevanti dal contesto connettivo (cioè dal luogo e dal momento della<br />

“prima” dello spettacolo) a quello applicativo, in modo tale da rendere disposibile<br />

l’esperienza artistica all’utilizzatore (logistica disgiuntiva) (Rullani, 2004b: 105).<br />

Recuperando la prima ipotesi che guida la presente ricerca ed assumendo ancora una<br />

volta il punto di osservazione del Festival di Avignone, abbiamo ipotizzato di<br />

considerare il festival proprio come un prodotto teatrale in cui il testo drammatico (la<br />

programmazione e il progetto artistico del Festival) e il testo spettacolare (quanto<br />

accade nei luoghi e nel momento di realizzazione del Festival) devono necessariamente<br />

incontrarsi nel tempo e nello spazio per attivare i processi di sensemaking interni<br />

all’organizzazione. In questo caso il Festival come produttore di significati (attraverso il<br />

programma) attira a sé i diversi utilizzatori della conoscenza artistica, sia con<br />

riferimento a quanti realizzeranno di fatto quel programma (gli artisti invitati a creare i<br />

loro spettacoli in quei luoghi e durante il festival) sia con riferimento agli utilizzatori del<br />

programma stesso, dagli operatori della distribuzione al pubblico, che si confrontano<br />

direttamente con la proposta artistica del Festival solo al momento in cui il singolo<br />

spettacolo, ma anche l’intero evento, “vanno in scena”.<br />

Segmentando lo spazio in quattro diversi livelli, Rullani individua altrettante<br />

tipologie di flussi di conoscenza, collegati al problema dei mediatori logistici nello<br />

spazio:<br />

- flussi metropolitani, relativi a cose, persone e bit collegabili al sistema dei “servizi<br />

rari”, ovvero relativi ad un bacino di utenza ampio che rende possibile l’efficienza<br />

della conoscenza utilizzata (in generale, si pensi ad un aeroporto o ad uno snodo<br />

ferroviario, ad un ospedale specializzato o a un laboratorio di ricerca);<br />

- flussi interpersonali, legati a rapporti diretti face-to-face e ai piccoli numeri nonché<br />

a tipologie di conoscenza molto personale o a problemi molto complessi e<br />

veramente difficili da virtualizzare (ovvero codificare) in tempi accettabili;<br />

- flussi locali, relativi invece a cose e persone presenti nel circuito “casa-lavoro”<br />

legati ad “infrastrutture” che permettono il contatto quotidiano di molte persone nel<br />

raggio di qualche chilometro (si pensi alla metropolitana o allo spostamento a<br />

piedi);<br />

131


- flussi globali, in cui il trasferimento avviene attraverso informazioni e<br />

comunicazioni e solo episodicamente avvengono spostamenti di cose e persone (si<br />

pensi alle telecomunicazioni).<br />

Con riferimento alla produzione artistica, la questione degli spazi teatrali lega la<br />

virtualizzazione alla distribuzione, costituendo un buon esempio di quali problematiche<br />

di ordine logistico comporti considerare il caso delle arti dal vivo. Infatti, se persone,<br />

cose e bit costituiscono gli elementi che spostano le conoscenze, rendendole fluide;<br />

ancora oggi buona parte dei vettori, più o meni virtuali, delle performing arts<br />

necessitano di grandi infrastrutture e di mezzi “tecnologici” più o meno costosi, per il<br />

trasferimento logistico di gran parte della conoscenza sotto forma di spettacolo teatrale.<br />

Sempre con riferimento agli aspetti tecnici del Festival di Avignone, sbirciando<br />

all’interno della Cour d’honneur, già da aprile si vede un gran lavorare, e molto avviene<br />

sotto gli occhi dei turisti che vengono a visitare il Palazzo dei Papi:<br />

«Cette année, le travail se déroulera en trois phases. La première (jusqu’au 30 avril) permet la<br />

mise en place du plancher de référence de la scène et du gradin; lors de la deuxième phase (du 10<br />

au 29 mai) le gradin sera monté, enfin, la dernière tranche (30 mai-11 juin) concernera<br />

l’équipement en son et lumière du lieu.<br />

C’est donc à la mi-juin, dans le cadre magique du Palais des Papes, transformé en gigantesque<br />

théâtre avec ses coulisses, sa scène de 540 m 2 et ses 1.973 siéges, que les répétitions pourront<br />

commencer […]. “Une scène comme celle-là il n’y en a pas ailleurs”. Afin de permettre la visite<br />

du Palais des Papes par le public, les techniciens travailleront entre 19 heures et 4 heures du matin.<br />

Ils seront entre sept et quinze chaque jour, en fonction des phases de réalisation et travailleront<br />

sous l’œil attentif de Philippe Varoutsikos. Ce perfectionniste passionné était machiniste sur le<br />

festival en 1985 pour devenir ensuite régisseur général. Son domaine? La Cour d’honneur, le<br />

montage, le démontage, l’accueil des compagnies… et le plaisir toujours renouvelé “Une scène<br />

comme celle-là, il n’y en a pas ailleurs, explique-t-il, elle accueille tous types de spectacles, les<br />

compagnies viennent avant, mais cela ne les empêchent pas de nous poser quelques difficultés!<br />

Certaines compagnies créent même deux decors, un pour la Cour d’honneur et un autre pour la<br />

tournée”. […] Le festival 2004 n’en est donc qu’à ses débuts et la Cour d’honneur appartient pour<br />

l’heure aux techniciens, acteurs à part entière de la réussite de l’événement» (da “Dauphiné –<br />

Vaucluse” del 28 aprile 2004).<br />

In questo caso, l’attività svolta dai tecnici del Festival di Avignone costituisce un<br />

buon esempio di flussi “metropolitani”: la logistica delle competenze tecniche del<br />

settore dello spettacolo è legata a servizi che si concentrano nei territori dove si<br />

svolgono le attività artistiche (nella sola regione della Provence-Alpes-Côte d’Azur,<br />

PACA, sono centinaia le manifestizioni culturali che si succedono durante i mesi estivi).<br />

Collegando questa prospettiva all’annullamento del Festival di Avignone del 2003, è<br />

particolarmente evidente come questo fenomeno possa essere visto in termini di “flussi”<br />

di conoscenza che, sotto forma di competenze tecnico-specialistiche, si diffondono a<br />

livello locale/nazionale. Al di là degli aspetti sostanziali della vicenda (che verranno<br />

analizzati in altra sede), l’aspetto interessante è che lo sciopero di un numero<br />

relativamente ridotto di professionisti specializzati e abituati a lavorare con la logica<br />

della mobilità e della flessibilità, è riuscito a mettere in ginocchio un intero sistema<br />

produttivo, da nord a sud del paese, sia con riferimento ad organizzazioni impegnate in<br />

manifestazioni temporanee (come nel caso dei festival) sia per quanto riguarda<br />

organizzazioni stabili di produzione e di distribuzione: tutto questo perché all’interno<br />

della filiera certe tipologie di conoscenza (le pratiche di una comunità di professionisti),<br />

sono state valutate in modo non conforme a quella specifica forma di sapere (know-how<br />

e prestazioni legati a specifici processi produttivi tipicamente “temporanei”, in cui<br />

132


pratica e formazione si alternano continuamente attraverso forse di flessibilità molti<br />

particolari). In termini logistici, la formazione di questo “collo di bottiglia” ha generato<br />

un corto circuito nell’intero processo di propagazione: gli spettacoli non si sono potuti<br />

realizzare e mettere in scena 1 .<br />

Analizzando invece i flussi di tipo interpersonale, possiamo considerare l’esempio<br />

delle relazioni artistiche che si instaurano prima, durante e dopo il Festival: nell’ambito<br />

della creazione di rapporti interpersonali, il Festival di Avignone permette l’incontro<br />

fisico tra gli operatori del settore per sviluppare nuove idee e nuovi progetti artistici, in<br />

altri luoghi e in altri momenti o ad Avignone. In questo caso, il rapporto face-to-face<br />

serve a trasferire “conoscenze complesse”, difficili da trattare con rapporti a distanza<br />

(Faccipieri 1988; Grandori 2000; Rocco 2001). Vedersi durante la programmazione del<br />

Festival, vivere l’esperienza artistica di un collega lavorando assieme alla realizzazione<br />

di uno spettacolo ad Avignone, condividerne alcuni aspetti e cercare contenuti estetici<br />

comuni in vista di altri progetti, in altri luoghi e in altri momenti: sono tutti esempi in<br />

cui è possibile instaurare quel rapporto di fiducia che è alla base della collaborazione su<br />

progetti complessi come quelli artistici (Salvemini, Soda 2001; Argano 2003; Collodi,<br />

Crisci, Moretti 2004).<br />

I rapporti face-to-face tra artisti che lavorano assieme ad Avignone per la creazione<br />

di uno spettacolo del programma del Festival non alimentano solo flussi di tipo<br />

interpersonale ma anche flussi di conoscenza a livello locale. Non sono solo conoscenze<br />

“complesse” a spostarsi assieme agli artisti, come idee e progetti: quando si passa alla<br />

parte operativa di un progetto artistico, i luoghi del Festival diventano l’habitat naturale<br />

perché cose e persone possano incontrarsi e installarsi nei luoghi prossimi a quelli in cui<br />

lo spettacolo nascerà. La “distanza cognitiva” tra professionisti diversi si riduce,<br />

trasformandosi in prossimità fisica e progettuale (Grandinetti, Tabacco 2003).<br />

I casi di flussi interpersonali e locali, seppur portando a problemi di ordine logistico<br />

specifici, sono esempi di “vicinanza” tra cose e/o persone. All’estremo opposto<br />

troviamo invece i flussi globali. Nel caso dell’arte, i flussi di conoscenza sono<br />

tipicamente collegati allo spostamento delle persone nello spazio: ma più nello<br />

specifico, nel caso degli artisti ciò che viaggia, nello spazio ma anche nel tempo, sono le<br />

idee, i linguaggi e le estetiche e con esse, la fama, la legittimazione dell’artista<br />

nell’ambito della sua comunità di riferimento e il riconoscimento da parte del pubblico.<br />

In altri termini, nel caso di flussi globali, prima si muovono i “bit” di informazioni:<br />

1 Collegato a quanto detto nel capitolo IV a proposito dell’impossibilità di determinare un valore<br />

“economico” della cultura all’interno di un quadro teorico tradizionale, anche la questione degli<br />

“intermittenti” è un buon esempio di incoerenza nell’utilizzo di un approccio veramente knowledgebased.<br />

Da un lato, infatti, si è cercato di dare una interpretazione di tipo cognitivo al fenomeno generale<br />

del sapere “tecnico” nel caso dell’arte, riconoscendo le specificità del processo di produzione artistico<br />

attraverso lo status giuridico di “intermittente”; dall’altro, per questioni che analizzeremo altrove<br />

nell’ambito della ricerca in corso, si è trovata una soluzione al problema del riequilibrio economico di<br />

questo fenomeno non conforme con il quadro “teorico” di partenza, usando parametri non adeguati per<br />

valutare “economicamente” la questione. In altri termini, il problema di fondo è stata l’incapacità<br />

reciproca delle controparti di “negoziare” un accordo che partisse dalla determinazione di un “valore”<br />

effettivo del ruolo di questa specifica conoscenza nel processo di produzione artistico (si pensi alla<br />

querelle sulla quantificazione stessa del fenomeno). Il “valore” del deficit nello specifico capitolo<br />

dell’indennità di disoccupazione degli intermittenti, evento precipitante nell’escalation della crisi, era<br />

veramente così “profondo” e “sospetto” come ipotizzato dalla Corte dei Conti o piuttosto andava valutato<br />

più attentamente, proprio dal punto di vista “economico”, utilizzando parametri più adatti allo scopo<br />

(dichiarato da tutte le controparti) di mantenere inalterato il principio del riconoscimento<br />

dell’intermittenza? (N.d.A.).<br />

133


queste sono conoscenze che, come visto, hanno per lo più un carattere lineare (quindi<br />

tendenzialmente oggettivo rispetto al mondo osservato), una forma virtuale in buona<br />

parte codificata (seppur con modalità molto particolari nel caso dell’arte) e solo in parte<br />

contestuali e quindi con problemi logistici specifici, legate ai mezzi di comunicazione<br />

(Granovetter 1985; Brown, Duguid 1991, 2000). Solo successivamente e in modo<br />

occasionale, si hanno spostamenti di persone e cose (degli stessi artisti o delle opere<br />

d’arte) che servono a portare nei luoghi tipi e forme di conoscenze che, eventualmente,<br />

possono confermare o smentire le informazioni che li hanno preceduti (o, perché no, che<br />

sono rimaste dopo un loro precedente passaggio) (Brown, Duguid 2000). E’ anche in<br />

questi termini che uno spettacolo teatrale si sposta dal suo contesto di origine (ad<br />

esempio, il Festival di Avignone) per finire nella stagione teatrale di vari centri di<br />

produzione e di distribuzione a livello nazionale e internazionale. Dapprima è il<br />

progetto artistico e il suo messaggio estetico che finisce nei cartelloni dei teatri, assieme<br />

a tutte quelle componenti cognitive che servono a creare il rapporto di fiducia tra<br />

l’organizzazione artistica e il suo pubblico (Ethis 2002): quest’ultimo non può far altro<br />

che crearsi delle aspettative, costruendo il suo futuro contesto di consumo (Holbrook,<br />

Hirschman 1982; Dalli, Romani 2003; Collodi, Crisci, Moretti 2005). Solo<br />

successivamente, e spesso molto tempo dopo, l’informazione (sullo spettacolo teatrale,<br />

sull’artista, sul progetto) viene raggiunta, dal punto di vista logistico, da tutto quanto è<br />

necessario per completare la sua effettiva “comprensione” da parte del pubblico,<br />

utilizzando tutte le altre strutture e forme cognitive di cui lo spettacolo teatrale è capace.<br />

Da questa prospettiva ancora molto resta da fare anche negli studi sul consumer<br />

behavior nel caso dei prodotti artistici e con particolare riferimento ai processi di<br />

percezione estetica da parte del pubblico al momento dell’esperienza di consumo (Ethis<br />

2002; Fabris 2003; Collodi, Crisci, Moretti 2005).<br />

Questa riflessione ci porta all’ultimo punto cruciale: i mediatori logistici devono<br />

operare anche trasferendo la conoscenza nel tempo e non solo nello spazio. Si tratta di<br />

conservare (per ri-utilizzare) la conoscenza. In generale, trasmissione orale,<br />

trasmissione scritta e contatto interpersonale costituiscono i più naturali vettori<br />

cognitivi applicabili alle varie forme di riproduzione della conoscenza: cultura ed<br />

estetica; corpo; competenze; rappresentazioni cognitive (simboli, tecnolgie analogiche o<br />

digitali, simulazioni); norma. In ciascuno di questi casi oggi assume un ruolo<br />

determinante l’archiviazione elettronica in database: la memoria riesce in parte a<br />

conservarsi nel tempo attraverso artefatti meccanici prodotti dalla tecnologia. E’ in<br />

questo quadro che si inserisce, con riferimento alle organizzazioni, tutte le tematiche<br />

legate al knowledge management: una gestione consapevole delle modalità per<br />

permettere e favorire il ri-uso delle conoscenze organizzative (Troilo 2001).<br />

***<br />

L’ottava settimana: domenica 17 – domenica 24 settembre 2000<br />

Nekrosius: «Siamo qui per provarci con lo spazio grande del palco e della platea:<br />

ora tutto cambia, i movimenti devono essere più grandi e avere ancora più respiro; non<br />

dovete mai avvicinarvi sul palcoscenico, due persone che si parlano con intimità nella<br />

vita sarebbero vicinissime, ma sul palco hanno comunque bisogno di qualche passo di<br />

distanza.<br />

134


Poi pensate alle vostre voci: recitate per il pubblico e dovete farvi sentire bene fino<br />

all’ultima fila della platea dove i biglietti costano poco e ci sono gli studenti».<br />

Tutti assieme organizzarono lo spazio, ricreando sul palcoscenico le condizioni<br />

necessarie al lavoro. La distribuzione italiana cominciò dal primo atto. Poi il quarto.<br />

Nekrosius: «Spero che questa prova vi sia servita. Non dubito di voi, ho fiducia nelle<br />

vostre capacità, è tutto il resto che mi preoccupa: il poco tempo a disposizione per<br />

passare da uno spazio all’altro; non avremo la possibilità di abituarci ai diversi spazi e<br />

questo potrebbe distrarvi e condizionare il vostro lavoro. Uno spettacolo non è fatto<br />

solo del gioco degli attori, ma anche di tutto l’aspetto tecnico che deve funzionare alla<br />

perfezione.<br />

Da domani torneremo nello spazio piccolo e dovremo di nuovo riaggiustare il tiro,<br />

ma vi invito a fare tesoro di questa giornata di lavoro e di questo spazio.<br />

Grazie a tutti».<br />

Martedì realizzarono la filata di tutto lo spettacolo con la distribuzione italiana.<br />

Nekrosius: «Era uno spettacolo: mancava solo il pubblico. E’ ora di volare!<br />

Brevemente: mancavate appena di teatralità, a questo punto un po’ più di buon<br />

umore e di divertimento da parte vostra potranno solo amplificare il buon risultato.<br />

Questo è ora il vostro compito perché il resto è giusto. Divertitevi, arricchite di<br />

sorprese il lavoro e sottolineate un po’ di più tutto ciò che già fate.<br />

Grazie a tutti. A domani».<br />

Nekrosius: «Oggi proveremo a fare il doppio spettacolo. Del resto dobbiamo<br />

provare a vedere cosa succede, perché sarà la situazione in cui ci troveremo sia a Liegi<br />

che a Roma. Soprattutto per chi è impegnato in tutt’e due le versioni, sarà un vero e<br />

proprio tour de force, ed è bene che cominciate a rendervi contro fin da ora di quante<br />

energie avete bisogno per fare otto ore di spettacolo in un giorno.<br />

Inoltre dovete anche pensare alla scena, all’attrezzeria, ai costumi: purtroppo non<br />

abbiamo dei tecnici a disposizione, per cui è davvero tutto sulle nostre spalle, anche<br />

l’organizzazione tecnica del palcoscenico.<br />

Sarà bene quindi che ciascuno sia consapevole di ciò che gli occorre per lo<br />

spettacolo e ogni volta prima di cominciare controlli che sia tutto al suo posto.<br />

E ora iniziamo a lavorare».<br />

Durante la filata di tutto lo spettacolo della distribuzione italiana, alla fine dei primi<br />

due atti, Nekrosius interrompe la prova:<br />

«Ragazzi, sta andando troppo bene. C’è un reale stato di grazia. Io direi, se voi siete<br />

d’accordo, di fermarci qui: è pericoloso continuare, lasciamo stare così».<br />

I ragazzi però chiesero di poter filare almeno l’ultimo atto. Nekrosius acconsentì: lo<br />

stato di grazia continuò fino alla fine! La giornata di lavoro poteva veramente<br />

concludersi sull’onda dell’emozione e dell’entusiasmo collettivi.<br />

Il venerdì ci fu una prova generale della distribuzione italiana.<br />

Nekrosius: «Non posso dire più niente di intelligente. E’ ora di volare. Forse è un<br />

momento crudele quello in cui i piccolini abbandonano il nido: chi aprirà le ali volerà,<br />

chi non ce la farà cadrà giù. Ma voi non dovere avere paura di cadere; non si sono<br />

problemi, va tutto bene. Certo non si è ricreata la magia dell’altro ieri, ma questo era<br />

prevedibile, non si vince la lotteria due volte di seguito. Purtroppo è impossibile per<br />

chiunque controllare fino in fondo la propria interpretazione: è come il buon umore.<br />

135


Poi, per recitare, il giorno non è proficuo come la notte: è come quando di sera ti viene<br />

un’idea e sei felice e poi ti svegli la mattina dopo e ti sembra così sciocca; spesso però<br />

l’idea era davvero buona e allora è il mattino che non funziona!<br />

Quindi abbiate fiducia in voi stessi: orami siete ferrati come cavalli, potete partire<br />

sicuri. Io vi auguro di essere allegri e di divertirvi il più possibile: il buon umore non<br />

nuove mai, nemmeno sottoterra!<br />

Siate più teppisti, non dovete aver paura di niente, avete dalla vostra parte tutta la<br />

forza della vostra giovinezza: siete già in vantaggio rispetto a una distribuzione<br />

professionale accademica. E poi con Cechov la giovinezza vince sempre: io non avrei<br />

mai messo in scena un Trigorin cinquantenne.<br />

Non pensate troppo a truccarvi: siete giovani e belli e non c’è niente di più<br />

interessante del vostro viso così com’è.<br />

Ora andate a riposarvi. Grazie a tutti!»<br />

26 e 28 settembre 2000<br />

Martedì 26 settembre, presso il Théâtre de la Place di Liegi:<br />

- ore 15.00: dimostrazione finale del lavoro della distribuzione italiana;<br />

- ore 21.00: dimostrazione finale del alvoro della distribuzione francofona.<br />

Giovedì 28 settembre, presso il Teatro Quirino di Roma, nell’ambito del Festival<br />

d’Autunno:<br />

- ore 15.00: dimostrazione finale del lavoro della distribuzione francofona;<br />

- ore 21.00: dimostrazione finale del alvoro della distribuzione italiana.<br />

Nekrosius, alla fine degli spettacoli: «Vi saluto tutti insieme, perché così è meno<br />

doloroso. E’ difficile dire qualcosa in questo momento, abbiamo passato molto tempo<br />

insieme e condiviso una grande esperienza, e chissà che il destino un giorno non ci<br />

riunisca.<br />

Siete giovani: tutto l’avvenire è davanti a voi, ci saranno giorni belli e giorni tristi<br />

per ognuno di voi, ma non dovete mai abbassare la testa, mai farvi prendere dalla<br />

paura, soprattutto nel nostro lavoro la test deve stare sempre su.<br />

Auguri a tutti bene e salute; alle donne, mariti e figli, e agli uomini di guadagnare<br />

soldi.<br />

Dovrete lavorare duro se vorrete fare questo mestiere ma ricordatevi: il teatro non è<br />

la cosa più importante, la cosa più importante è la vostra vita!».<br />

136


X<br />

(La fabbrica della conoscenza artistica. I macchinari e le lavorazioni della filiera cognitiva delle<br />

performing arts: l’integrazione delle relazioni tra i soggetti della filiera teatrale)<br />

In cui il lettore continua e termina la visita tra i reparti e i macchinari della fabbrica della<br />

conoscenza artistica considerando il ruolo dell’integrazione delle relazioni tra gli attori<br />

della filiera teatrale, ovvero la sostenibilità della propagazione della conoscenza <br />

137


Simon (1981) introduce il tema dell’evoluzione dei sistemi complessi con la sua<br />

celebre “parabola degli orologiai”: nella sostanza, Hora e Tempus ci hanno proposto un<br />

esempio eclatante del fenomeno della “gerarchizzazione modulare” delle strutture<br />

complesse. La scomposizione, à la Simon, di un problema in sottoproblemi è essa stessa<br />

una struttura cognitiva, un processo “aperto” in cui le singole conoscenze elementari<br />

sono il risultato di un’azione “endogena”, tutta interna al sistema stesso, che risolve i<br />

problemi per adattamento, come risposta ad aggiustamenti successivi, esplorando<br />

alternative diverse. E’ un fenomeno talmente universale da costituire un utile framework<br />

anche con riferimento al caso dell’integrazione degli attori della filiera cognitiva.<br />

Weick, dal canto suo, chiedendosi quali sono gli aspetti di base di qualsiasi ambiente<br />

caratterizzato dall’interdipendenza, suggerisce che:<br />

“Molti manager si trovano nei guai perché si dimenticano di pensare in modo circolare. Intendo<br />

ciò alla lettera. I problemi di gestione permangono perché i manager continuano a credere che<br />

esistano cose quali rapporti di causa unilateriali, origini, conclusioni, variabili indipendenti e<br />

dipendenti” (Weick, 1979: 123).<br />

Ebbene, nella fabbrica della conoscenza “pensare in modo circolare” costituisce una<br />

regola fondamentale e non una eccezione paradossale.<br />

Organizzare i processi produttivi della fabbrica della conoscenza significa, per<br />

l’appunto, tenere ben a mente che i processi contengono comportamenti che sono<br />

concatenati a quelli di altri soggetti e di altri punti della filiera. Non si tratta dunque di<br />

un semplice puzzle che va ricomposto, ma i comportamenti dei soggetti della filiera<br />

cognitiva, per definizione, sono “contingenti” gli uni rispetto agli altri, e queste<br />

contingenze possono essere chiamate “interazioni” (Weick, 1979). A questo punto, la<br />

definizione dell’organizing che ci viene fornita dallo stesso Weick (v. supra § 3.1) può<br />

essere estesa facilmente dal singolo reparto all’intera fabbrica della conoscenza, ovvero<br />

alla filiera cognitiva quale nuovo punto di riferimento di una prospettiva di studi di<br />

organizzazione e management veramente knowledge-based.<br />

Parlare di “grammatica convalidata consensualmente” ci riporta infatti all’idea di un<br />

linguaggio emergente, creato in modo da permettere la relazionale; il richiamo<br />

“all’ambiguità” che genera l’attivazione è legato alle strategie di trasformazione della<br />

conoscenza (all’interno del continuum codificazione/condivisione); infine, parlare di<br />

“comportamenti interdipendenti dotati di senso” riporta alla mente l’identità delle<br />

singole organizzazioni e il fatto che tale costruzione è pur sempre un fatto sociale.<br />

La specializzazione e l’integrazione delle funzioni all’interno della filiera (o meglio<br />

la divisione del lavoro cognitivo) è una necessità economica legata all’esigenza di<br />

mediare tra coordinamento e cooperazione (Nohria 1992; Norman, Ramirez 1994;<br />

Grandori, Soda 1995; Soda 1998): si tratta della revisione in chiave knowledge-based<br />

della “fabbrica degli spilli” di Adam Smith. Come negli ingranaggi degli orologi di<br />

Hora e Tempus, gli attori della filiera devono assumersi il compito di:<br />

«[…] costruire la filiera stessa come sistema integrato di parti che sono solo temporaneamente<br />

divise, ma che svolgono tanto meglio il loro compito specializzato quanto più sono, ciascuna,<br />

dotata di un senso che riflette sulle conseguenze delle singole scelte e azioni. […] La filiera<br />

cognitiva è […] una costruzione sociale che deve essere continuamente rigenerata<br />

(endogenamente) dalle capacità riflessive degli attori» (Rullani, 2004b: 117).<br />

Quindi, una filiera teatrale veramente integrata, dal punto di visto cognitivo, è quella<br />

in cui i vari attori costruiscono solide identità organizzative, le condividono attraverso<br />

138


un qualche mediatore relazionale, sulla base di quei linguaggi comuni che derivano dal<br />

fatto di mettere continuamente in discussione (in modo evolutivo) le propri basi<br />

cognitive attraverso l’ambiguità generata dalle esperienze artistiche con cui gli attori<br />

stessi entrano in contatto.<br />

Dopo aver visto le possibili forme che può assumere, i modi per riprodurla e quelli<br />

per trasferirla, l’ultimo passo da fare per la comprensione del processo di produzione<br />

della conoscenza artistica è proprio quello di esplicitare quali possono essere i mediatori<br />

relazionali che intervengono in questo processo.<br />

Cosa accade in assenza di specializzazione cognitiva nel senso “moderno” del<br />

concetto? Ebbene, l’economia moderna regredirebbe nel tempo ad una condizione che<br />

Rullani definisce “pre-moderna”. La mancanza di mediatori relazionali credibili ed<br />

efficaci portava a circuiti cognitivi centrati sull’auto-produzione: l’economia dei castelli<br />

e delle abbazie del medioevo; l’economia delle arti e dei mestieri durante il<br />

Rinascimento le uniche attività che potevano contare su filiere estese, con tanti attori,<br />

ma in cui l’assenza di integrazione rendeva poco sicura la conoscenza scambiata (si<br />

pensi ai grandiosi progetti per la costruzione di edifici religiosi e<br />

amministrativo/commerciali o all’invenzione della carta-moneta come tentativo per fare<br />

circolare più facilmente le merci); l’economia delle attività belliche e militari, attività<br />

che, fino a tutto il Settecento, erano le sole in grado di alimentare flussi di ricerca e di<br />

sperimentazione del nuovo assolutamente incredibili, utilizzavando saperi codificati e<br />

producendo conoscenze che mettevano a disposizione di altre filiere, come ad esempio<br />

nella costruzione navale e nella navigazione a fini commerciali ed esplorativi (un<br />

esempio interessante è la produzione bellica dell’Arsenale di Venezia – Zan, Hoskin<br />

1999).<br />

Con la rivoluzione industriale e con l’ingresso nella modernità, le conoscenze non<br />

restano confinate alla sfera scientifica e pubblica e limitate ad alcuni specifici contesti<br />

(produttivi e geografici). Gli attori economici scoprono mediatori relazionali più<br />

“adatti” allo sviluppo delle scelte di nuovi attori della filiera. Dapprima il mercato, con<br />

le sue regole che cercano di trovare un equilibrio tra la libertà di scelta dei soggetti e la<br />

pressione competitiva; successivamente, la gerarchia, con il tentativo di attuare la<br />

specializzazione all’interno della singola organizzazione passando per il potere<br />

manageriale e il controllo proprietario. La filiera cognitiva, in questi casi, è governata<br />

da leggi “invisibili” (legate alla proprietà dei fattori di produzione e al loro “valore”<br />

economico) o da leggi “giuridiche” (dal segreto industriale al rapporto di lavoro<br />

dipendente) che funzionano bene per certe tipologie, forme e flussi di conoscenza<br />

(Rullani 2004b).<br />

Successivamente, e siamo attorno agli anni ’70 del Novecento, prendono piede altri<br />

mediatori relazionali, in grado, come direbbe Rullani, di attivare in modo diverso la<br />

“capacità riflessiva degli attori” che sono coinvolti nella produzione di conoscenza: il<br />

territorio e le reti di impresa. I processi produttivi non sono più integrati verticalmente:<br />

l’ambiente è troppo complesso da gestire attraverso regole poco comuni e quindi è<br />

necessario interagire in modo diverso con esso (a livello locale e territoriale) e<br />

condividere i “rischi” della produzione cognitiva (cooperando). I principi di<br />

integrazione non hanno natura politica (la “mano invisibile” o il controllo proprietario),<br />

ma comunicativa e fiduciaria (Rullani 2004b).<br />

Infine, esistono forme “aperte” di integrazione della conoscenza che, estremamente<br />

comuni nel passato, stiamo riscoprendo con ritardo. Ad ogni modo si tratta di fenomeni<br />

che, in una prospettiva cognitiva, non sono assolutamente “banali” o di secondaria<br />

139


importanza: vale a dire le comunità e il dono. Anche negli studi economici e<br />

manageriali questi due principi di integrazione della conoscenza sono oggi oggetto di<br />

particolare attenzione: si pensi alle comunità di consumo (ad esempio, oggetto di ricerca<br />

negli studi sul comportamento del consumatore – Dalli, Romani 2003, Fabris 2003) e<br />

alle comunità professionali (Wenger 1998); o agli studi sull’open-source (ad esempio:<br />

Narduzzo, Rossi 2003). In questi casi, l’interazione avviene tramite la condivisione dei<br />

fini, il significato della reciprocità, la creazione di legami sociali attraverso il dono 1 .<br />

In che modo avviene di fatto la specializzazione cognitiva nell’ambito dei mediatori<br />

relazionali che abbiamo brevemente descritto in precendenza?<br />

Per spiegarlo, torniamo al caso del teatro contemporaneo e al Festival di Avignone.<br />

La sua nascita, nel 1947, è legata ad una situazione storica abbastanza particolare del<br />

teatro tra il primo e il secondo dopoguerra. Le organizzazioni di produzione teatrale<br />

sono generalmente organizzazioni fragili. Cosi Bernard Faivre d’Arcier, nel 2003,<br />

descrive i vari modelli di sistema teatrale ereditati proprio da quel periodo:<br />

«En Europe, coexistent trois grands types d’organisation du théâtre. Dans le système anglo-saxon,<br />

par example, la production théâtrale est très dépendante du marché et des recettes propres. Dès<br />

lors, l’auteur et l’acteur sont les éléments essentiels de la “valeur théâtrale” plus que le metteur en<br />

scène. Le temps de répétition est plus court, la scénographie plus fruste (ou légère, selon les<br />

goûts), la recherche du public (et des sponsors) plus systématique. Le système est-quropéen, qui va<br />

de Francfort à Moscou, répond è une autre forme d’organisation: il est fondé sur des institutions<br />

lourdes, avec des effectifs permanents importants et ils fonctionnent comme des théâtres de<br />

répertoire avec alternance. Le troisième système, latin, qui caractérise l’Italie, la France,<br />

l’Espagne, est un mélange d’institutions de moyenne ou petite taille (teatro stabile, centres<br />

dramatiques nationaux), et de compagnies. Plus fluide, plus souple, ce système est aussi plus<br />

fragile et repose, en France, sur un régime d’intermittence dont la remise en cause risque de coûter<br />

encore plus cher à l’Etat, à moins d’adopter le système anglo-saxon –ni intermittence ni soutine de<br />

l’Etat – ce qui conduira, comme aux Etats-Units, à ne plus avoir de théâtre(s)» (Cahier de la<br />

Maison Vilar, n. 86 – Avril, Mai, Juin 2003).<br />

Cosa è accaduto? E cosa Jean Vilar sperava accaddesse e che, forse, ancora non si è<br />

verificato completamente? Questa è una delle frasi più celebri e citate di Jean Vilar<br />

(Bardot 1991):<br />

«Dieu merci, il y a encore certaines gens pour qui le théâtre est une nourriture aussi<br />

indispensable à la vie que le pain et le vin. C’est à eux, d’abord, que s’adresse le Théâtre National<br />

Populaire. / Le T.N.P. est, donc, au premier chef, un service public. Tout comme le gaz, l’eau,<br />

l’éléctrivité. Autre chose: privez le public – ce public que l’on nomme “grand” parce qu’il est le<br />

seul qui compte – de Molière, de Corneille, de Shakespeare: à n’en pas douter, une certaine qualité<br />

d’âme en lui s’atténuera. Or, le théâtre, s’il n’est pas à la fois et populaire et pathétique, n’est rien.<br />

Notre ambition est donc évidente: faire partager au plus grand nombre ce que l’on a cru devoir<br />

réserver jusqu’ici à une élite. Enfin la cérémonie dramatique tire aussi son efficacité du nombre de<br />

ses participants.<br />

Mais quel équilibre difficile! Et combien délicat à mantenir. Equilibre entre le poète, son<br />

œuvre, le grand public, les interprètes, les techniciens. Cependant, cette instabilité crée peut-être<br />

un style, un style vivant. Et parce que celui-ci est quotidiennement menacé, cette même instabilité<br />

déjoue les tics, les trucs, les scléroses. Cette instabilité dangereuse préserve aussi de toute théorie.<br />

L’art du “théâtre populaire” est donc une révolte permanente»<br />

1 Per non perdere il loro straordinario potenziale integrativo, come sottolinea lo stesso Rullani, comunità e<br />

dono devono però evitare che “l’accesso sia un diritto di tutti, perché un accesso che non deve essere<br />

giustificato e accettato dai soggetti in gioco porta ad una socializzazione non riflessiva della conoscenza,<br />

il contrario del consapevole donare o condividere” (ibidem: 125) (N.d.A.).<br />

140


Questa visione del “Teatro popolare” è qualcosa di molto vicino alla definizione di<br />

una strategia di trasformazione della conoscenza lungo una filiera (v. supra § 3.1). Il<br />

Festival di Avignone, vista la sua specificità nel panorama teatrale internazionale, ha<br />

ben presto cominciato a giocare il ruolo di meta-organizzazione, nel tentativo di<br />

diffondere questa strategia: trovati dei mediatori relazionali che funzionano nell’ambito<br />

delle strategie di trasformazione della conoscenza emergenti in una filiera, all’interno di<br />

questa il lavoro cognitivo comincia a differenziarsi sulla base delle competenze che<br />

sono richieste a ciascun compito relazionale (Rullani 2004b). Il passo successivo<br />

recupera alcune riflessioni di Jean Vilar, risalenti al 1964 ma straordinariamente attuali:<br />

«Le Festival d’Avignon a dix-huit ans d’existence; il n’est plus un jeunot. Tel comédien, ou tel<br />

responsable qui, en 1947, avait moins de vingt-cinq ans en a aujourd’hui plus de quarante. Cette<br />

manifestation annuelle est désormais ferme et dourable. Bien, parfait, victoire, etc. Cependant où<br />

en sommes-nous? Que représentent ces festivals d’été aux yeux du public? Tourisme? Passe-temps<br />

d’un soir? Nuits d’été dans des enceintes historiques? Beaux costumes dans des éclairages ad hoc?<br />

Esthétisme des petits loisirs? Shakespeare en-veux-tu-en-voilà? Perception des taxes municipales?<br />

Accroissement des recettes des commerçants? Tout le monde est heureux, tout le monde se réjouit,<br />

c’est parfait. Cependant est-ce que les festivals n’ont d’autre ambition que de faire désormais<br />

partie de la panoplie du bonhomme moderne: frigidaire, télévision, 2 CV? Certes, un artiste doit,<br />

avant tout chose, comprendre la réalité et les besoins de l’homme de son temps. Cependant le<br />

théâtre n’est valable, comme la poésie et la peinture, que dans la mesure où précisement, il ne<br />

cède pas aux coutumes, aux goûts, aux besoins souvent grégaires de la masse. Il ne joue bien son<br />

rôle, il n’est pas utile aux hommes que s’il secoue ses manies collectives, lutte contre ses<br />

scléroses, lui dit comme le Père Ubu: merdre!<br />

Quoi qu’il en soit, je pose la question, ou plutôt ces questions: où en sont les festivals? Quel avenir<br />

les éclaire ou les menace? La réponse appartient-elle aux aînés, dont je suis désormais, ou aux<br />

jeunes? Certes, il est bon qu’il existe chaque année une part d’incertitude. Nécessaires en 1947,<br />

peut-être les festivals sont-ils, sous leur forme actuelle, encore utiles. Cependant, les inclure<br />

absolument dans la vie culturelle, sociale, du pays me paraît non moins nécessaire désormais. Il<br />

me semble nécessaire que directeurs des festivals, responsables des administrations centrales et<br />

municipalités, unis, tentent au moins de provoquer le renouveau social, l’esprit de recherche,<br />

évitent la commercialisation, répondent aux vœux incertains, mais confiants, de cet immense et<br />

modeste public, qui juillet et août venus, part sur les routes de France. Si culture signifie au moins<br />

plaisir et savoir, encore faut-il lutter contre le goût imitatif, traditionaliste, conformiste (pourquoi<br />

le cacher?) du grand nombre. […] Il s’agit de savoir si ces populeux théâtres de l’été jouent aussi<br />

bien leur rôle dans notre civilisation actuelle que tel théâtre perdu et misérable de la banlieu de<br />

Paris ou des confins de Londres. N’oublions pas enfin que la qualité et la tenue des choses et des<br />

artistes au soir d’une première représentation de plein air sont le résultat, non pas seulement du<br />

talent et de l’expérience, comme on le croit trop communément, mais la fleur d’une discipline<br />

sévère et dure, la conclusion d’un entraînement, d’une endurance sportive. C’est donc une histoire<br />

de la jeunesse. C’est donc à elle de répondre” (Jean Vilar, “Où vont les festivals?”, da Le Théâtre,<br />

service public: corsivo nostro).<br />

Jean Vilar aveva ben presente il ruolo che potevano giocare i festival nel quadro<br />

della filiera teatrale. Ed era straordinariamente cosciente di quanto importante fosse<br />

salvaguardare i compiti specifici di queste organizzazioni e in particolare del Festival di<br />

Avignone. Non è un caso che queste riflessioni si riferiscano ad un periodo in cui le<br />

manifestazioni temporanee cominciavano a diffondersi su tutto il territorio: forse oggi lo<br />

stesso Vilar non si sorprenderebbe più di tanto nell’apprendere che, nella sola regione<br />

francese della Provence-Alpes-Côte d’Azur (PACA), si contano oltre oramai 500<br />

manifestazioni definibili come festival, e di questi oltre i due terzi si svolgono nei mesi<br />

estivi.<br />

In quel momento, al teatro contemporaneo serviva una organizzazione che “[…] si<br />

assumesse il compito di costruire la rete, stabilire regole, incentivi e sanzioni, garantire<br />

141


la stabilità e la credibilità del processo cognitivo” (Rullani 2004b) che stavano<br />

realizzando i vari attori di quel sistema (teatrale) in fase di (ri)costruzione dopo le due<br />

guerre mondiali: nuove esperienze artistiche hanno gettato le basi del rinnovamento del<br />

teatro contemporaneo (si pensi a personalità come Antonin Artaud, Bertolt Brecht,<br />

Alfred Jarry o Jerzy Grotowski); le istituzioni di produzione cominciano a riorganizzarsi<br />

(ad esempio, in Italia proprio nel 1947 nasce il Piccolo Teatro di Milano, ad opera di<br />

Giorgio Strehler e Paolo Grassi e con esso la formula dei “teatri stabili” – Moretti,<br />

Crisci 2004); lo stesso dicasi per la distribuzione teatrale (ad esempio attraverso i<br />

fenomeni del “decentramento” e della “democratizzazione” dapprima in Francia e poi<br />

anche in Italia oppure con il recupero delle reti di teatri tradizionali sempre in Italia);<br />

anche la critica teatrale si rinnova. Non è esagerato dire che, soprattutto per i primi venti<br />

anni, Avignone è stato il crocevia del teatro internazionale.<br />

In generale, accanto ai produttori e agli utilizzatori la filiera comprende anche degli<br />

operatori intermedi che nascono appunto sulla base di ciò che richiede la filiera stessa<br />

per integrarsi. In filiere molto complesse servono tutta una serie di attori intermedi: gli<br />

specialisti che concentrano le proprio competenze in un core d’attività ristretto e<br />

focalizzato; i sistemisti, che smistano e ricompongono i compiti assegnati agli<br />

specialisti; i connettori, impegnati in servizi di comunicazione (per consetire<br />

l’interazione), logistici (per trasferire flussi di persone, cose e informazioni nello spazio<br />

e nel tempo – v. supra § 3.2.3) e di garanzia (negli aspetti finanziari, nel controllo della<br />

qualità, nell’affidabilità delle relazioni, ecc.) per gli altri operatori della filiera; gli<br />

interpreti, che interfacciano direttamente gli utilizzatori (il consumatore) per<br />

comprenderne le esigenze; i centri di servizio, a disposizione di specialisti e utilizzatori<br />

per interventi specifici nell’ambito dei processi cognitivi della filiera (nello problemi di<br />

manutenzioni e riparazioni); infine, i meta-organizzatori (Rullani 2004b).<br />

La figura 7 rielabora questa idea di filiera composta da tutti gli operatori che<br />

strutturano, virtualizzano, distribuiscono e integrano conoscenza lungo la filiera teatrale.<br />

Non tutti questi attori sono necessari per il buon funzionamento di tutti i tipi di<br />

filiera. Ad ogni modo, nel caso del teatro contemporaneo, tra i produttori e gli<br />

utilizzatori si interpongono tutta una serie di operatori con compiti più o meno<br />

specializzati (ed attuando tutte lavorazioni specifiche della conoscenza). Lungo la<br />

trattazione ne abbiamo citati alcuni: i centri di formazione; i concorsi pubblici (ad<br />

esempio di drammaturgia); le agenzie private e le istituzioni pubbliche ad esempio per<br />

la gestione dei diritti d’autore nel settore dello spettacolo o per garantirne la promozione<br />

a livello nazionale e internazionale (si pensi all’ETI in Italia o all’ONDA in Francia); gli<br />

enti statali con compiti di natura legislativa o necessari a garantire la suddivisione del<br />

finanziamento pubblico (i Ministeri e le Direzioni generali); i festival teatrali; la critica<br />

teatrale e i media specializzati in genere; le organizzazioni di distribuzione; le<br />

associazioni di consumatori (Amici del Teatro). Per quanto riguarda i possibili<br />

connettori, nello schema abbiamo ipotizzato che i mass-media e il sistema educativo<br />

nazionale possano assumere tale ruolo. Tale ipotesi non è del tutto azzardata ripensando<br />

al concetto di “politica culturale” messo in pratica in Francia a partire dai primi anni ’60<br />

(e Vilar ha avuto un ruolo determinante in tal senso) e fino alla prima metà degli anni<br />

’80 (Urfalino 1996).<br />

Nell’editoriale alla pubblicazione celebrativa dei 50 anni del Festival, Paul Puaux fa<br />

riferimento ad altri aspetti dell’integrazione di una filiera, e con esplicito richiamo, ad<br />

esempio, al ruolo delle co-produzioni e delle organizzazioni di produzione permanenti,<br />

scriveva:<br />

142


«[…] On attend toujours d’Avignon “des spectacles qui affichent leur différence”. Vilar rêvait et<br />

concevait ses spectacles pour ce lieu spécifique, la Cour, tout en préparant des conditions de<br />

reprise proches d’Avignon, dans l’immense salle de Chaillot [ndt: la sala parigina del TNP].<br />

L’exportation inévitable des spectacles conçus aujourd’hui (grâce à ce qu’on appelle les<br />

“coproductions”) est-elle favorable à la création de l’œuvre inoubliable, rêvée pour des lieux aussi<br />

difficiles? Bien d’autres questions, à partir de là, se posent. Serait-ce la dimension économique qui<br />

viendrait sournoisement conditionner le geste artistique? Quel rôle l’argent, dont on sait<br />

l’influence dans toute notre société, joue-t-il dans ce domaine particulier qu’est le spectacle<br />

vivant? De quelle manière est-il utilisé? Comment résister aux effets de “mode”? Peut-on habiter<br />

ces lieux de pierre ponctuellement, sans en prendre l’exacte mesure au cours de plusieurs années<br />

consécutives? Ces questions me conduisent […] à relancer encore le problème des troupes<br />

permanentes de plus en plus rare, en dépit de quelques noyaux durs. Au-délà du sur-coût financier,<br />

contestable, je continue de croire qu’elles faciliteraient l’établissement d’un programme tout en<br />

permettant une certaine continuité avec Vilar.<br />

De plus, s’il existe une fidélité dans cette histoire, c’est bien celle du public, pourvu qu’il “soit<br />

traité comme un partenaire et, dans certaines cas, comme un complice”. Là est probablement<br />

l’énorme chance d’Avignon» (Festival d’Avignon, 1996).<br />

Questo tipo di riflessioni non potevano che realizzarsi nell’ambito del Festival di<br />

Avignone, vero punto di osservazione privilegiato dell’intera filiera. In un panorama in<br />

cui, per ragioni differenti, mancavano (e mancano) istituzioni in grado di fungere da<br />

punto costante di riferimento (soprattutto pubbliche e a livello nazionale o comunque ad<br />

un livello sufficientemente ampio), una organizzazione come il Festival di Avignone ha<br />

giocato fin da subito un ruolo determinante.<br />

***<br />

Introdurre una prospettiva di ricerca knowledge-based non significa semplicemente<br />

cercare di dare etichette nuove a concetti noti: per quanto molti dei fenomeni che sono<br />

osservabili nell’economia “reale” (e negli studi di organizzazione e management) siano<br />

ampiamente inquadrabili nell’ambito dell’economia della conoscenza, ciò che cambia in<br />

modo radicale quando si assume una prospettiva cognitiva coerente è il punto di<br />

osservazione “teorico” di quegli stessi processi.<br />

Nell’ambito della civiltà umana, il sistema artistico-culturale ha svolto e svolge un<br />

ruolo di mediatore cognitivo “tradizionale” che oggi è paragonabile a quello del sistema<br />

scientifico-tecnologico. Se con l’avvio della modernità (dalla rivoluzione industriale in<br />

poi), quest’ultimo ha assunto il compito di mettere continuamente a disposizione delle<br />

attività produttive un flusso di conoscenze “innovative”; oggi stiamo recuperando l’idea<br />

che, allo stesso modo e in maniera complementare (e quindi non gerarchica), anche il<br />

sistema artistico mette a disposizione dello svolgimento di tutte le attività umane<br />

(produttive di altra conoscenza), “lavorazioni” del sapere altrettanto sofisticate e in<br />

grado di fornire visioni della vita altrettanto valide rispetto al sistema scientifico. Se nel<br />

caso della scienza la scoperta non termina con la sua verifica in laboratorio; anche nel<br />

caso del “nuovo” nell’arte (ovvero della produzione di “nuova” conoscenza) non finisce<br />

al momento della “prima” dello spettacolo. I contesti d’uso che si aprono di fronte ad<br />

una conoscenza artistica “utilizzata” in un contesto ancora artistico o una conoscenza<br />

scientifica che resta ancorata al suo contesto di origine, sono sempre diversi e<br />

richiedono l’individuazione e la gestione di tali “applicazioni” attraverso un processo<br />

che è anche esso creativo. Lo spettacolo teatrale come il test in laboratorio su una nuova<br />

scoperta sollecitano la ricerca di soluzioni (per l’appunto applicative) diverse e adatte a<br />

143


ciascun uso possibile: il trasferimento tecnologico di una scoperta scientifica o<br />

l’applicazione al campo quotidiano di conoscenza artistica costituiscono due esempi di<br />

“conoscenza connettiva” che ha completato la sua trasformazione, salvo diventare nel<br />

frattempo conoscenza originaria per qualche altro punto di un’altra filiera cognitiva, da<br />

qualche parte nel mondo (Latour 1989, 2002).<br />

In entrambi i sistemi, considerati in questi termini, la propagazione di conoscenza è<br />

tipicamente un fenomeno riflessivo in quanto è in grado di “cambiare continuamente le<br />

sue premesse” e quindi di rigenerarsi. L’economia della conoscenza, attraverso la<br />

“fabbrica” che ne ospita i processi di produzione cognitivi, genera così un fenomeno<br />

con una struttura circolare: non è possibile stabilire a priori cosa sta “a monte” e cosa “a<br />

valle”, in quanto l’incrociarsi dei processi cognitivi non rende possibile capire da dove<br />

partono gli stimoli (innovativi) che alimentano la conoscenza “nuova” di un artista<br />

piuttosto che la sua interpretazione durante uno spettacolo teatrale o la percezione del<br />

pubblico.<br />

Nel presente lavoro abbiamo cercato di proporre un viaggio teorico, necessariamente<br />

esplorativo, tra i “reparti” e i “macchinari” necessari ad attuare le “lavorazioni” tipiche<br />

di questa ipotetica fabbrica della conoscenza (artistica). Le riflessioni generali che<br />

partono dall’esempio del teatro contemporaneo ci hanno portato all’identificazione e<br />

descrizione un framework teorico complessivo all’interno del quale inquadrare la tesi<br />

della ricerca stessa: il Festival di Avignone svolge un ruolo determinante di<br />

“integratore” della filiera cognitiva dello spettacolo dal vivo, collegabile al progetto di<br />

“Teatro popolare” del suo fondatore. Nel caso della filiera del teatro contemporaneo, la<br />

verifica delle ipotesi di lavoro porta all’interpretazione dei caratteri specifici di una<br />

“rete di condivisione e interazione comunicativa” (Rullani 2004b, e infra § 3.1) in cui:<br />

Risultato #1: i festival teatrali costituiscono essi stessi un prodotto teatrale (Moretti 1999, Crisci,<br />

Moretti 2002), un’esperienza cognitiva che si manifesta in quanto “contesto” (organizzativo) in<br />

grado di attivare processi di apprendimento e di innovazione continua basati sulle esperienze<br />

immagazzinate nelle stesse performance teatrali (in termini di linguaggio) concentrate nel tempo e<br />

nello spazio (March, Simon 1958, Simon 1981, Nelson, Winter 1982, Levitt, March 1988,<br />

Axelrod, Cohen 2000).<br />

Risultato #2: i festival teatrali creano un vantaggio competitivo, assumendo cioè un ruolo<br />

strategicamente rilevante rispetto al settore delle performing arts, nel momento in cui svolgono il<br />

ruolo di integratori della filiera cognitiva teatrale; ciò avviene attraverso la gestione del capitale<br />

relazionale embedded nel contesto organizzativo (spazio-temporale) di cui sono parte e nella<br />

condivisione dei significati che essi stessi generano.<br />

In altri termini, nel caso della filiera cognitiva del teatro contemporaneo il<br />

coordinamento e la connessione (Norman, Ramirez 1994) non potevano essere garantiti<br />

da meccanismi che esitevano già in “natura”: il prodotto teatrale dimostra di possedere<br />

caratteri cognitivi tali che risulta molto difficile da “imbrigliare” (più di quanto si possa<br />

pensare) ad un solo livello locale e nell’ambito di “circuiti proprietari”; è tipicamente un<br />

prodotto con livelli di usabilità (in termini di ambiti di applicazione) estremamente vasti<br />

in quanto basato su livelli elevati di flessibilità e di personalizzazione; e necessita quindi<br />

di una strategia “attiva” di governance della sua filiera di produzione.<br />

Lo spettacolo teatrale, in effetti, è un mediatore cognitivo (o un tipo di conoscenza<br />

connettiva) che nasce contestuale per la maggior parte delle sue componenti strutturali,<br />

ma subito dopo diventa un prodotto con forme virtuali molto articolate ed estremamente<br />

“fluido” nella sua diffusione nello spazio e nel tempo. E’ una “interfaccia cognitiva tra<br />

144


locale e globale” (Grandinetti, Rullani 196; Crisci, Moretti 2004) con una elevata<br />

portata (per quanto riguarda la quantità di “informazioni” trattate), con un elevato<br />

grado di fedeltà (per quanto riguarda la qualità e il basso livello di distorsione cognitiva<br />

dei sui messaggi) e livelli potenzialmente elevati di estensione (in termini di ampiezza<br />

del bacino di utilizzatori) (Grandinetti, Rullani 1996).<br />

Utilizzando il linguaggio di Rullani, una rete del “capitalismo comunicativo” (2004b:<br />

cap. 10) è in grado di lavorare su elevati livelli di efficacia (v) della conoscenza prodotta<br />

e consumata lungo la filiera, senza sacrificare la moltiplicazione degli usi (n). Potrà<br />

sembrare un paradosso – con buona pace dei sostenitori del “morbo di Baumol” – ma la<br />

filiera cognitiva del teatro contemporaneo, analizzata attraverso i criteri dell’economia<br />

della conoscenza, rischia di presentare livelli di efficacia produttiva che sono<br />

sconosciuti alla maggior parte delle filiere di settori industriali ritenuti più dinamici 1<br />

(ma che continuano ad essere analizzati con i criteri, ad esse più favorevoli,<br />

dell’economia tradizionale).<br />

La specifica funzione di meta-organizzazione che abbiamo assegnato al Festival di<br />

Avignone è collegata all’esigenza della filiera di creare artificialmente quelle condizioni<br />

e premesse che potessero portare al suo coordinamento. Non siamo in grado di dire, al<br />

momento, fino a che punto questo ruolo sia attribuibile ai festival in generale: ma<br />

indubbiamente, il Festival di Avignone ha (parzialmente) progettato ed ha<br />

(consapevolmente) assunto un ruolo di guida in questo processo, cercando di gestire le<br />

relazioni a livello di filiera. E questo, con un generale consenso da parte degli altri attori<br />

della filiera stessa.<br />

Marzo – luglio 2001<br />

***<br />

Non furono molti i cambiamenti apportati da Nekrosius nel momento in cui fu deciso<br />

di realizzare un vero e proprio spettacolo a partire dall’esperienza all’Ecole, dell’anno<br />

prima. La base di lavoro fu la rappresentazione del Teatro Quirino di Roma. Dopo<br />

quella dimostrazione, Nekrosius acconsentì alla decisione del Centro Servizi e<br />

Spettacoli di Udine e del Teatro Metastasio di Prato di produrre con la Biennale di<br />

Venezia lo spettacolo. Il ragazzo portoghese che interpretò Dorn rinunciò all’avventura<br />

e fu sostituito dall’autore del Diario di bordo (Cristian Giammarini).<br />

L’8 giugno la compagnia si ritrovò al Teatro Nuovo Giovanni da Udine. La prima<br />

veneziana ebbe luogo al Teatro dell’Arsenale il 3 luglio. Da allora lo spettacolo<br />

partecipò al Festival della Casa Baltica di San Pietroburgo ed ebbe una lunga e felice<br />

tournée italiana.<br />

«Un giorno Kekrosius si ha detto che il teatro vale per quanto rimane nel ricordo.<br />

Ora io sono sicuro che mai dimenticherò».<br />

1 Recuperando un esempio fatto in apertura del presente lavoro (v. supra, nota n° 4), nel caso del prodotto<br />

teatrale, alcune “mode” (relative ai processi di virtualizzazione e di distribuzione della conoscenza)<br />

applicate ad altre filiere non sono riuscite a mettere radici: ad esempio, nella tanto osannata new economy<br />

l’utilizzo indiscriminato delle ICT ha portato la filiera a sacrificare i livelli di efficacia della conoscenza<br />

prodotta, banalizzandone i contenuti e gli usi, pur di cercare di raggiungere alti valori di moltiplicazione.<br />

Il valore (economico) complessivo creato in questo caso risulta di gran lunga più basso di quello che<br />

molti operatori si aspettavano (N.d.A.).<br />

145


3<br />

<strong>IL</strong> GIORNO DEL DEBUTTO: SI ALZA <strong>IL</strong> SIPARIO SUL <strong>FESTIVAL</strong><br />

<strong>DI</strong> <strong>AVIGNONE</strong>. LA GESTIONE <strong>DI</strong> UNA CRISI IN<br />

UN’ORGANIZZAZIONE ARTISTICA


XI<br />

(Prologo. Il resoconto di una crisi “strana”)<br />

Dove lo stesso lettore scopre, suo malgrado, che attraverso la narrazione è esso stesso<br />

una componente importante della storia che andrà a leggere contribuendo<br />

all’interpretazione degli eventi raccontati


150


Il dialogo che segue è di pura finzione, frutto della fantasia del Narratore.<br />

Qualsiasi riferimento a persone reali e a fatti verosimili è frutto di casualità.<br />

Una telefonata, da qualche parte, all’Hôtel Matignon. All’altro capo del telefono, qualcuno<br />

sulla riva destra della Senna. Clic-clic.<br />

«Finalmente. Allora? Novità immagino…», disse il primo.<br />

«Si, abbiamo uno straccio di accordo».<br />

«Non ti sento tranquillo. Cosa significa? Sai che lui vuole una soluzione rapida almeno su<br />

questa questione...».<br />

E l’altro: «Significa che abbiamo un accordo, diciamo …di minoranza».<br />

«Ma quanto di minoranza?» domandò con insistenza l’uomo da Matignon.<br />

«Mmh… indicativamente molto meno della metà dei rappresentati, nello scenario peggiore tra<br />

il dieci e il venti percento».<br />

«Sei come il tuo capo, sempre titubante e poco chiaro!».<br />

«… Non paragonarmi a quello! Lo sai che io non c’entro nulla con…».<br />

«Si, si va bene! Hai ragione… te ne do atto. Adesso calmati. Dimmi piuttosto, l’accordo è<br />

accettabile, intendo tecnicamente, mi hai capito no?!».<br />

«Si, si ho capito! E’ un compromesso, un gran bordello, ma non peggio di tanti altri accordi<br />

simili…».<br />

«Ottimo, mi basta. Gli altri, almeno loro, sono d’accordo, non hanno creato problemi?».<br />

«Figurati, a loro va bene quasi tutto. Basta mantenere in piedi il sistema… E poi la bozza<br />

dell’accordo l’hanno scritta loro».<br />

«…Sta bene. Fallo firmare! Così com’è. Io avviserò lui che tutto è stato fatto…».<br />

Ce que nous défendons, nous le défendons pour tous!<br />

L’uomo dall’altro lato della Senna: «Già …tutto è stato fatto, ma devo avvisarti: è una<br />

polveriera… e noi rischiamo di dare fuoco alla miccia, di nuovo. E sai che loro, a voi che siete lì<br />

adesso, non la faranno passare liscia!».<br />

E l’altro a lui: «A quanto pare lui preferisce questo rischio, questa potenziale polveriera,<br />

rispetto alla situazione attuale… Questa primavera e l’inizio di estate è già stato sufficientemente<br />

caldo e dobbiamo distogliere l’attenzione della gente dalle discussioni all’ordine del giorno…».<br />

«Mmh, certo. Capisco la vostra posizione. Dico solo che lo si poteva fare con altre questioni…<br />

questa rischia di esplodervi in mano».<br />

«Tranquillo… è un affare così complicato da essere destinato a durare a lungo: nessuno ci<br />

capirà nulla e se saremo fortunati forse riusciremo anche a metterli uno contro l’altro. Pensa che<br />

smacco per quegli altri… altro che polveriera, potenzialmente questa è una miniera di diamanti!».<br />

E l’altro: «Ma siamo a giugno… la stagione estiva è già cominciata. Hai visto cosa hanno già<br />

combinato pochi anni fa. E se scioperassero davvero?».<br />

Ce que nous défendons, nous le défendons pour tous!<br />

E da Matignon: «Se devono proprio fare qualcosa meglio che lo facciano adesso… Tanto i<br />

turisti qualcosa da fare la trovano sempre! E poi non lo faranno. Non tutti. In fondo quanti sono?<br />

Diecimila, centomila? Neanche loro lo sanno. Li faranno passare per dei privilegiati… vedrai,<br />

nessuno li sosterrà: e comunque meglio centomila di loro che un milione di metalmeccanici. E poi<br />

devono lavorare, non ne possono fare a meno. Uno sciopero sarebbe un suicidio per loro».<br />

«Bisognerà comunque restare cauti…».<br />

«…Evidentemente. Ma questa è anche la linea del tuo capo… sporcarsi le mani il meno<br />

possibile. O sbaglio?!».<br />

«Non fare allusioni…».<br />

«Va bene. Va bene. Non agitarti. Piuttosto avvisa tutti. Che firmino! Così com’è e con quelli<br />

che sono d’accordo. Io avviserò lui che la questione può considerarsi chiusa».<br />

«Si chiusa. Almeno credo …».<br />

«E’ chiusa! E attendo aggiornamenti, molto presto».<br />

Clic-clic. Sarà una calda estate. Insolita e complicata.<br />

Ce que nous défendons, nous le défendons pour tous!<br />

151


«Siete sicuri che l’ovvietà sia così eloquente?»<br />

(Neo Rauch, artista tedesco)<br />

Lungo tutto il 2003, ancora prima di intraprendere quel viaggio di ricerca che mi<br />

avrebbe portato alla scoperta del Festival di Avignone, mi giungevano notizie vaghe e<br />

per certi versi indecifrabili su alcuni fatti che accadevano in Francia. Tutto ciò attirò la<br />

mia attenzione per motivi che tra breve cercherò di spiegare al mio lettore. Va da sé che<br />

tali vicende mi impedirono, quell’anno, di partecipare a quel che è considerato “un<br />

sogno che facciamo noi tutti” appassionati di teatro.<br />

Era un mercoledì di fine gennaio quando le pagine economiche di “Le Monde”<br />

davano notevole risalto ai rilievi dalla Corte dei conti sull’andamento dei conti pubblici:<br />

al governo venivano sollevate perplessità anche sulla gestione del regime di indennizzo<br />

di disoccupazione degli “intermittenti” del cinema, dell’audiovisivo e dello spettacolo<br />

dal vivo. La «deriva finanziaria» degli allegati VIII e X del relativo fondo previdenziale<br />

e assistenziale (un deficit dell’ordine dei sette-ottocento milioni di euro), veviva<br />

imputata ad una regolamentazione definita come stranamente «attrattiva» e foriera di<br />

abusi che non venivano monitorati e puniti per l’assenza di adeguati meccanismi di<br />

controllo del fenomeno.<br />

Il 18 febbraio, dopo meno di due ore di riunione, i rappresentanti della federazione<br />

sindacale della CGT, largamente maggioritaria tra i lavoratori del settore dello<br />

spettacolo, uscivano da rue de Valois dopo aver abbandonato il tavolo di lavoro del<br />

CNPS, convocato dall’allora Ministro della cultura: «[…] Jean-Jacques Aillagon a<br />

donné le feu verte au Medef pour casser le système spécifique d’assurance-chômage des<br />

intermittents de nos professions”…“La dernière pelletée de terre vient d’être jetée.<br />

Malraux est définitivement enterré 1 ”» (da “Le Monde” del 20 febbraio 2003). L’organo<br />

consultivo del ministero doveva preparare l’incontro tra le parti sociali per una modifica<br />

dello statuto degli “intermittenti”: la riforma andava realizzata entro i primi sei mesi<br />

dell’anno, per evitare che la normativa decadesse creando una pericolosa situazione di<br />

vuoto legislativo.<br />

“L’Humanité” del 30 giugno già assumeva toni di preoccupata premonizione: «L’été<br />

chaud des intermittents 2 ». Più sobrio il titolo apparso su “Le Monde” del sabato<br />

precedente, il 28 giugno: «Intermittents du spectacle: accord signé sans la CGT ni<br />

FO 3 ». Nella notte tra il 26 e il 27 giugno, dopo una maratona negoziale di nove ore<br />

svoltasi al numero 55 di Avenue Bosquet, a Parigi, i rappresentanti dei datori di lavoro e<br />

di tre delle cinque sigle sindacali presenti al tavolo delle trattative firmavano una bozza<br />

di accordo per modificare lo statuto degli “intermittenti”.<br />

Nella tarda mattina di giovedì 10 luglio, ad Avignone, Cloître Saint-Louis, sul palco<br />

allestito per ospitare quotidianamente gli incontri pubblici con gli artisti e le conferenze<br />

stampa ufficiali, l’allora direttore del Festival di Avignone dichiarava commosso: «Ce<br />

57 e Festival est clos». Quell’edizione del Festival, per la prima volta nella sua storia 4 ,<br />

veniva annullata pochi giorni dopo il suo avvio, a causa dello sciopero degli<br />

“intermittenti” (tecnici e artisti) che dovevano partecipare alla sua realizzazione. Da<br />

1 «Jean-Jacques Aillagon ha dato il semaforo verde al Medef per abbattere il sistema specifico di<br />

assitenza-disoccupazione degli intermittenti delle nostre professioni. [...] L’ultima badilata di terra è stata<br />

appena gettata. Malraux è definitivamente sepolto» (la traduzione è mia) (N.d.T.).<br />

2 «L’estate calda degli intermittenti» (N.d.T.).<br />

3 «Intermittenti dello spettacolo: accordo siglato senza la CGT né la FO» (N.d.T.).<br />

4 Festival d’Avignon 1986, 1996 (N.d.A.).<br />

152


quel giorno, la mobilitazione del popolo degli “intermittenti” non ha cessato al grido di:<br />

«Ce que nous defendons nous le defendons pour tous! 1 ».<br />

Nel luglio del 2003 mi giunse uno scarno comunicato via posta elettronica e la<br />

curiosità mi portò a leggere un articolo tratto da “Le Monde” e relativo al giorno della<br />

conferenza stampa di annullamento. Solo a distanza di due anni, quando andai ad<br />

Avignone per la prima volta, e ancora di più ora, potei prendere coscienza di cosa<br />

accadde quella mattina del 10 luglio. Un filmato di quella conferenza stampa che<br />

visionai proprio nel 2005 mi colpì assai: ancora oggi non riesco a comprendere<br />

pienamente i motivi di quell’applauso fragoroso, forse liberatorio, che seguì le parole di<br />

Bernard Faivre d’Arcier; e quando ebbi la fortuna di conoscere e parlare con Bernard<br />

Faivre d’Arcier, potei apprezzare ancora di più i sentimenti che egli stesso visse quel<br />

giorno. Ma continuano a restarmi oscuri i motivi di quel battimano roboante.<br />

Per chi non necessariamente è avvezzo alle questioni politiche e di politica culturale<br />

d’Oltralpe, questa poteva apparire come una faccenda tutta francese; così come,<br />

apparentemente, l’affaire poteva essere etichettato come un “ordinario” caso di<br />

negoziazione pubblica nel campo delle rivendicazioni contrattuali di una specifica<br />

categoria di lavoratori. Ma a ben vedere le cose stavano diversamente.<br />

Assecondando la requisitoria della Corte dei conti, avrei potuto concludere<br />

facilmente che anche questo conflitto nasceva da una situazione di «[…] scarsità e la<br />

scarsità, prima di essere un dato oggettivo, è spesso frutto di una percezione e<br />

rappresentazione soggettiva propria delle parti in gioco 2 ». Ma questa prospettiva<br />

“razionale” per un conflitto “ordinario” non si adattava a ciò che leggevo tra le righe<br />

dei quotidiani francesi. Era mai stata messa veramente in discussione la perpetuità dello<br />

statuto degli intermittenti? Come si può razionalmente pensare che gli attori chiamati a<br />

negoziarne la modifica mettano mano ad un sistema che nessuna delle parti coinvolte ha<br />

l’interesse a rendere sostenibile? Forse il vero problema del negoziato era legato alle<br />

pressioni dei datori di lavoro e dei lavoratori degli altri settori, i quali, pensai, non<br />

devono vedere di buon occhio colleghi e compagni che attingono da un fondo che<br />

produce ottocento milioni di deficit all’anno all’interno di un sistema previdenziale<br />

generale al quale tutti partecipano 3 .<br />

Chi poteva immaginare tale nefasto epilogo per la manifestazione che ha fatto la<br />

storia del teatro contemporaneo? Quel conflitto “ordinario” poteva essere considerato<br />

anche come l’evento precipitante di una crisi scatenata per motivi non esclusivamente<br />

esogeni rispetto all’organizzazione del Festival di Avignone: era più verosimile pensare<br />

che si trattasse del fallimento di un sistema eterogeneo in cui componenti tecniche,<br />

sociali, organizzative e istituzionali si intrecciavano tra loro. Non potevo criminalizzare<br />

semplicemente gli “intermittenti” in sciopero, il direttore del Festival o l’incompetenza<br />

del Ministro della cultura. Probabilmente, gli eventi avevano seguito degli stadi di<br />

sviluppo caratterizzati dalla presenza di forze più o meno latenti, di caratteristiche<br />

1 «Ciò che difendiamo, noi lo difendiamo per tutti!» (N.d.T.).<br />

2 Tra gli altri: Schelling 1960; March, Olsen 1976; Simon 1981; Bazerman, Neale 1992; Bazerman 1998;<br />

Neale, Bazerman 1985, 1992; Rumiati, Pietroni 2001. N. sta richiamando alcune delle teorie più influenti<br />

sulla gestione dei conflitti organizzativi è sull’analisi dei processi negoziali (N.d.A.).<br />

3 Menger 2002, 2005 (N.d.A.).<br />

153


conoscitive che se analizzate in tempo avrebbero permesso di prevederne il<br />

manifestarsi 1 .<br />

Infine, che relazione c’era tra statuto degli “intermittenti” e le specificità proprie dei<br />

processi di produzione artistici 2 ? Come spiegare i comportamenti (di governo,<br />

sindacati, lavoratori, organizzazioni artistiche, pubblico) attorno ad un conflitto tutto<br />

sommato “marginale” 3 ? Era possibile dare un significato economico al deficit 4 del<br />

sistema di indennizzo di disoccupazione degli “intermittenti”? I giudizi sulla stampa<br />

nazionale mi parevano velati, a volte allusivi, per una faccenda che la maggior parte<br />

dell’opinione pubblica francese stentava a capire: dunque, chi sono o cosa<br />

rappresentano in verità gli “intermittenti” dello spettacolo?<br />

L’affaire des intermittents al Festival di Avignone del 2003: effettivamente ce n’era<br />

abbastanza per indagare; e se il lettore lo vorrà “andremo sul posto e osserveremo con i<br />

nostri occhi”, senza vedere troppo da vicino, in quanto “la verità non sta sempre in<br />

fondo a un pozzo 5 ”.<br />

***<br />

Due anni dopo rispetto al periodo cui le vicende qui raccontate si riferiscono, durante<br />

le lente e intense giornate di quella mia prima estate avignonese trascorsa frequentando<br />

anche il secondo piano della Maison Jean Vilar, in più momenti pensai qualcosa di<br />

simile a questa frase: «ecco cosa accade quando all’economia (“tradizionale”) è chiesto<br />

di fare i conti con fenomeni reali che non sembra in grado di manipolare (con i suoi<br />

classici strumenti) e di spiegare (con i sui concetti formali)!». Frase apparentemente<br />

sibillina; ma anche pervasa da quella carica emotiva propria di chi è mosso<br />

dall’inquietudine generata dall’esigenza di scoprire ed esplorare (exploration e<br />

exploitation); e più passava il tempo e più si rafforzava in me la convinzione che una<br />

tale riflessione, fatta quasi “a caldo” nei giorni del mio primo, vero, impatto con una<br />

vicenda piuttosto singolare, poteva fare da filo conduttore per venire a capo della catasta<br />

di dossier classificati “Intermittents 2003”: si trattava di diversi metri lineari di<br />

rassegna stampa, ordinati cronologicamente e raccolti nei fascicoli color rosso<br />

tizianesco che le bibliotecarie della Maison Jean Vilar utilizzano ancora per catalogare e<br />

conservare gli articoli sul Festival di Avignone 6 .<br />

1<br />

Turner, Pidgeon 2001; Weick 1993; Perrow 1984. In questo paragrafo N. introduce una particolare<br />

prospettiva per l’analisi delle crisi organizzative. In effetti, Barry Turner è considerato da parte della<br />

comunità scientifica a cui apparteneva come il “fondatore della moderna sociologia dei disastri” (N.d.A.).<br />

2<br />

Crisci 2006a. Per un’ottima rilettura in chiave sociologica del sistema degli intermittenti dello<br />

spettacolo, suggerisco ancora la bella indagine di Pierre-Michel Menger (Menger 2005) (N.d.A.).<br />

3<br />

Senza voler apparire cinico, i veri “intermittenti” erano tutto sommato un numero esiguo, circa<br />

centomila, e nonostante la guerra delle cifre, i problemi più gravi riguardavano, ragionevolmente, una<br />

parte di loro, tra i diecimila e i ventimila lavoratori. La questione del “balletto delle cifre” sulla reale<br />

consistenza del fenomeno è un altro degli aspetti più controversi della vicenda. Per una analisi<br />

complessiva il narratore si è rifatto a Menger 2005, a cui anche io rinvio (N.d.T.).<br />

4<br />

Questa e altre questioni che N. si sta ponendo troveranno una possibile soluzione all’interno di un<br />

quadro teorico che il lettore potrà scoprire in Rullani 2004a, 2004b: è possibile rileggere in chiave<br />

knowledge-based la produzione artistica e la divisione del lavoro (cognitivo) che si realizza all’interno<br />

della filiera (cognitiva) delle performing arts? (N.d.A.)<br />

5<br />

Il lettore forse ha riconosciuto una espressione di Edgar Allan Poe in “I delitti della rue Morgue”<br />

(N.d.T.).<br />

6<br />

Fin dalla sua fondazione, nel lontano 1947, la rassegna stampa del Festival di Avignone affluisce in<br />

quello che è diventato l’Archivio del suo creatore e che oggi, con cura, passione e professionalità, viene<br />

154


Quei dossier generavano in me una sorta di mal celata frustrazione: apparentemente,<br />

tale tormento sembrava legato proprio all’iniziale impenetrabilità e oscurità della<br />

questione in sé; successivamente, tale sentimento si trasformò in una sana ossessione<br />

collegabile al modo, per me insoddisfacente, con cui l’intera vicenda veniva trattata da<br />

parte degli stessi protagonisti, dal governo ai sindacati, dai lavoratori alle organizzazioni<br />

artistiche, per arrivare all’opinione pubblica, alla stampa e agli stessi spettatori.<br />

A tal proposito, non cercherò di fare rivivere al mio lettore tutte quelle inquietudini e<br />

neppure racconterò tutte le molteplici vicende che raccolsi in parte dei manoscritti e dei<br />

promemoria che sto utilizzando ora come fonte. Qui intendo circoscrivere la mia<br />

attenzione e quella del lettore su una vicenda specifica, limitandomi a riportare, in modo<br />

quanto più fedele possibile, solo gli eventi principali di quella serie periodica di fatti che<br />

culminarono con, e in parte seguirono, l’annullamento del Festival di Avignone del<br />

2003. Non ho neppure intenzione di scrivere un trattato di diritto del lavoro comparato,<br />

benché, a prima vista, di scioperi e di questioni professionali francesi andrò a narrare:<br />

«voglio solo premettere a un singolare racconto, alcune osservazioni alla buona a mo’ di<br />

preambolo». Al lettore chiedo solo di tenere in buon conto quanto troverà in queste<br />

righe: «il racconto che segue sarà una sorta di commento alle considerazioni ora<br />

esposte 1 ».<br />

Riassumendo le caratteristiche delle facoltà mentali che si rifanno ad una concezione<br />

classica dell’ordine e, quindi, di quello che dovrebbe essere l’ordinario nell’agire<br />

umano, dovremmo apprezzare la nostra capacità, quali essere razionali, di concepire la<br />

realtà in modo oggettivo e unitario, di considerare tale realtà e la storia come strutturate<br />

secondo catene di cause ed effetti, e di pensare alle decisioni come al vero risultato di<br />

questi processi, quali strumenti deterministici e di auto-affermazione 2 . Come hanno<br />

osservato studiosi e artisti per il gioco degli scacchi, «in questo gioco, dotato di pezzi<br />

dai movimenti molteplici e bizzarri, con valori diversi e variabili, la complessità, per un<br />

errore molto comune, viene scambiata per profondità 3 . Più di altro è messa in gioco<br />

tutelato e valorizzato dall’omonima Associazione e da una antenna distaccata ad Avignone della<br />

prestigiosa Bibliothèque National de France di Parigi (N.d.T.)<br />

1 Queste frasi fungono da collegamento tra il prologo e l’inizio vero e proprio del racconto nel caso de “I<br />

delitti della tue Mongue”, di Edgar Allan Poe (p. 279) (N.d.A.).<br />

2 Per una critica a questa prospettiva “razionale” dei processi decisionali il lettore può fare riferimento ad<br />

alcuni classici lavori quali, tra gli altri: Simon 1947; March e Simon 1958; Weick 1979, 1995; March<br />

1988, 1994; Allison e Zelikov 1999 (N.d.A.).<br />

3 Il gioco degli scacchi affascina da sempre studiosi e artisti che siano interessati, da prospettive differenti<br />

ma complementari, a modelli (più o meno normativi) sul comportamento umano. Jorge Luis Borges la<br />

vedeva in questi termini: «[…] Lieve re, abieco alfiere, irriducibile /donna, pedina stuta, torre eretta,<br />

/sparsi sul nero e il bianco cammino /cercano e danno la battaglia armata. / Non sanno che la mano<br />

destinata /del giocatore conduce la sorte, /non sanno che un rigore adamentino /governa il loro arbitrio di<br />

prigioni. / Ma anche io giocatore è prigioniero /(Olar afferma) di un’altra scacchiera di nere notti e di<br />

bianche giornate. /Dio muove il giocatore, questi il pezzo. /Quale dio, dietro Dio, la trama ordisce /di<br />

tempo e polvere, sogno e agonia? [Jorge Luis Borges, Ajedrez (Scacchi), in “L’artefice”, Rizzoli, Milano,<br />

1963]. E il Marcel Duchamp rivisto di recente al Beaubourg mi aveva fatto pensare che neppure lui si<br />

faceva troppe illusioni circa la capacità del gioco degli scacchi di rappresentare l’analiticità del pensiero<br />

umano. I pezzi adagiati con ordine sulla sua scacchiera senza riquadri, o meglio con un unico grande<br />

riquadro bianco, faceva intendere chiaramente che senza regole e schemi tutta quella costruzione<br />

apparentemente geniale e rigorosa non aveva alcun senso (N.d.T.).<br />

Sobriamente, alcune di queste stesse discipline (scientifiche e artistiche) circoscrivono l’interesse per il<br />

gioco degli scacchi all’analisi del problema dei limiti del calcolo dell’uomo, assumendo, credo<br />

giustamente, che le capacità analitiche della mente umana non possano essere ricondotte alla elaborata<br />

futilità degli scacchi e alla semplice capacità di elaborazione di informazioni. In sostanza, questo gioco<br />

155


l’attenzione. Basta allentarla un attimo e si cade in errore, il che comporta un danno, se<br />

non la sconfitta 1 ».<br />

In questo spirito, al lettore che vorrà cercare davvero di rendere cosa sensata gli<br />

eventi che seguono, vorrei suggerire, piuttosto, una serie di accorgimenti differenti da<br />

quelli “ordinari”, in modo tale da addentrarsi nella lettura facendo riflessioni più<br />

prossime alle realistiche proprietà del ragionamento di noi tutti. Come in un gioco di<br />

specchi, infatti, le azioni degli individui presenti nel racconto e delle organizzazioni<br />

coinvolte in questi fatti, miravano a costruire delle identità che, giocoforza, non sono<br />

individualmente centrale, ma derivano da un processo di interazione, da dei “discorsi<br />

multipli a cui partecipano differenti punti di vista. In questo atteggiamento solo<br />

apparentemente schizofrenico, ognuno dei protagonisti, compreso il narratore,<br />

sembravano operare in modo retrospettivo, vale a dire, “sanno quello che fanno solo<br />

dopo averlo fatto”: in questo sistema catottrico di sguardi all’indietro, nel momento<br />

stesso in cui ha luogo questo fenomeno di riflessione, l’ambiguità da confusione,<br />

causata da un eccesso di significati, è in parte gestita attraverso l’attivazione<br />

dell’ambiente che gli individui affrontano, creando letteralmente parte del loro contesto<br />

d’azione. Ovviamente, si tratta di tenere conto del fatto che questo è un processo<br />

sociale: per quanto io cercassi irrimediabilmente di ancorare il mio racconto ad un punto<br />

di partenza e per quanti sforzi faccia il mio lettore per isolare singoli personaggi ed<br />

eventi, le azioni raccontate costituiscono un flusso continuo che non ha propriamente un<br />

inizio (e, forse, neppure una fine). L’oggetto della narrazione erano, infatti, una serie di<br />

informazioni selezionate, una “piccola porzione del discorso che diventa saliente a causa<br />

del contesto e delle disposizioni personali”; ciò che è determinante, infatti, sono<br />

l’adeguatezza e la plausibilità del processo, non tanto la sua accuratezza 2 .<br />

«L’uomo ingegnoso è sempre pieno di fantasia e … l’uomo veramente dotato di<br />

immaginazione non è altro che un analista 3 »: dunque, a voler stuzzicare<br />

l’immaginazione e le abilità analitiche del mio lettore, egli viene condotto attraverso<br />

l’evoluzione degli eventi che, nei vari stadi della crisi, hanno condotto al disastroso<br />

annullamento del Festival di Avignone del 2003. Tali propositi ci conducono,<br />

all’interno del racconto, a seguire nei minimi particolari i fatti essenziali, attraverso gli<br />

strumenti di indagine che fui in grado di raccogliere, mentre ho semplicemente<br />

proceduto in modo parallelo per i fatti non essenziali rispetto alle “vere” vicende a cui<br />

non potei personalmente assistere: «pertanto tutti gli argomenti dell’immaginario si<br />

possono applicare alla verità; l’obiettivo era la ricerca della verità».<br />

risulta molto utile per elaborare interessanti teorie sulla limitata capacità razionale dell’uomo, ponendo<br />

l’accento sul fatto che, in fondo, si tratta solo di utilizzare la capacità di attenzione e quindi l’ingegnosità<br />

del giocatore, la quale cosa non coincide con la descrizione e l’interpretazione della ricchezza incredibile<br />

dei possibili comportamenti umani. Il giocatore di scacchi, infatti, spesso è ingegnoso e quindi è pieno di<br />

fantasia, capace com’è di costruire e combinare scenari possibili: e questa è una caratteristica che alcuni<br />

studiosi riescono addirittura a fare apprendere ad una intelligenza artificiale che risulta in grado di portare<br />

ai massimi livelli tale attitudine che si pensava invece tipicamente umana; ma ad un giocatore di scacchi<br />

(sia esso umano o artificiale) non viene chiesto di essere veramente dotato di immaginazione: e questo<br />

differenzia ancora qualsiasi macchina rispetto alla straodinaria capacità analitica del cervello umano.<br />

1 Da “I delitti della rue Mongue”, di Edgar Allan Poe. Una osservazione aggiuntiva: il termine<br />

“attenzione”, in cui corsivo è originale, nel testo in inglese di Poe era annotato in italiano (N.d.A.).<br />

2 L’intero paragrafo introduce il lettore ad una concezione dei processi organizzativi collegata al concetto<br />

di sensemaking à la Weick (Weick 1979, 1995) (N.d.A.).<br />

3 Da “I delitti della rue Morgue” di E.A. Poe (N.d.A.).<br />

156


Questa ricostruzione è stata, infatti, realizzata in un momento e in un luogo lontani<br />

rispetto a quelli del “delitto”, e per questa ragione «è sfuggito allo scrittore molto di ciò<br />

che avrebbe potuto cogliere stando sul posto e visitando i luoghi». Tuttavia non è<br />

inopportuno ricordare che l’evolversi della vicenda e la ricostruzione successiva della<br />

stessa realizzata proprio in quei luoghi e con due anni di ritardo, avrebbero confermato<br />

non solo le conclusioni generali ma anche i principali particolari ipotizzati e solo<br />

accidentalmente omessi.<br />

Dunque, i «particolari che mi accingo a pubblicare formano, visti in una sequenza<br />

temporale, il nucleo primario di una serie di coincidenze scarsamente intelleggibili, il<br />

cui nucleo secondario o conclusivo sarà colto da tutti i lettori 1 » nell’annullazione del<br />

Festival di Avignone del 2003.<br />

1 Da “Il Mistero di Marie Rogêt” di E.A. Poe (N.d.T.).<br />

157


XII<br />

(Giovedì, 10 luglio 2003: “Ce 57 e Festival est clos!”. Le convinzioni e le norme iniziali: un conflitto per<br />

rivendicazioni salariali dai contenuti “non ordinari”)<br />

In cui il lettore prenderà confidenza con il settore del teatro attraverso la cronaca di una<br />

vicenda dai contorni “strani” e relativa a questioni di lavoro per nulla “ordinarie” <br />

A cominciare dal pomeriggio di quel giugno del 2005, mi procurai i rapporti<br />

completi che, da più parti citati, appesantivano da anni la parte pubblica del “dossier”<br />

degli intermittenti. Il mio personale “fascicolo” su quei fatti doveva necessariamente<br />

partire dal punto di vista “ufficiale”, quello politico, governativo e sindacale.<br />

Non a caso, in primo luogo, mi adoperai per ottenere, nell’ordine: il rapporto-<br />

Roigt&Klein, del 2002; quindi, il rapporto-Latarjet dell’aprile-maggio 2004; le proposte<br />

dell’indagine-Charpillon, di poco successiva, del luglio del 2004; e ancora, il rapporto<br />

della missione-Guillot, dell’ottobre del 2004 ma presentato nel 2005; e il rapporto-<br />

Auclaire, della fine del 2005 1 . Della “famosa” missione di Jean-Pierre Vincent 2 , voluta<br />

dall’allora ministro Jack Lang nel 1992, riuscii a trovare ampi stralci dai quotidiani<br />

dell’epoca (ad esempio, l’edizione del 29 luglio del 1992 di “Le Monde”).<br />

Poi, intrapresi la visione della ricchissima rassegna stampa sull’affaire degli<br />

“intermittenti” nella biblioteca della Maison Jean Vilar, in modo da ricomporre, passo<br />

dopo passo, i fatti nei loro vari passaggi. Laddove le prove raccolte risultarono<br />

manchevoli o quando si presentarono buchi temporali in tale ricostruzione, affrontai<br />

anche la ricerca negli archivi dei quotidiani francesi: da quelli più coevi rispetto alla<br />

nostra indagine, per passare poi agli archivi precedenti all’estate del 2003, e risalendo<br />

fino agli anni ’90 del secolo scorso, esaminando i quotidiani principali che «avessero<br />

pubblicato qualche informazione degna di nota su quella triste vicenda».<br />

Ma vi erano molti altri punti vista di cui tenere conto, in quanto è cosa risaputa che<br />

«soltanto sollevandosi oltre il piano della normalità, la ragione sente, se la cerca, la<br />

strada della verità e che, in casi simili, la domanda non è “Che cosa è avvenuto?”, ma<br />

piuttosto, “Che cosa è avvenuto che non era mai avvenuto prima?” 3 ».<br />

La logica che stavo cercando di seguire, adoperandomi in una artificiale suddivisione<br />

in vari stadi di quella crisi, andava collegata all’idea che una qualche assunzione<br />

culturale dominante, in un dato momento, fosse stata messa in discussione da qualcuno<br />

degli attori coinvolti. Ma perché ciò avvenisse, era necessario partire da una situazione<br />

in cui potevo ragionevolmente supporre che le condizioni iniziali fossero definibili, in<br />

1 Come mi fecero notare successivamente, quell’elenco di dossier e rapporti sul sistema<br />

dell’intermittenza, realizzati per lo più da alti funzionari ministeriali, non era che molto parziale rispetto<br />

al gran numero di lavori dedicati a quell’argomento. Nel proseguo del racconto il lettore troverà citati più<br />

volte questi rapporti, i quali costituiscono, fondamentalmente, il punto di vista governativo.<br />

Nell’affrontare la questione mi venne in mente questa riflessione: quale serio guazzabuglio meritava tanta<br />

attenzione e un monitoraggio così attento e continuo? (N.d.T.)<br />

2 Per il mio lettore non necessariamente preparato sulla storia recente del Teatro d’Oltralpe, Jean-Pierre<br />

Vincent è un autorevole regista teatrale francese della generazione precedente a quella attuale; già<br />

direttore della Comédie-Française, forse l’istituzione teatrale più importante e prestigiosa di Francia, e<br />

responsabile di diversi teatri e centri di produzione, fu di fatto l’unico artista ad essere “ufficialmente”<br />

chiamato a realizzare uno studio sullo specifico tema degli “intermittenti” dello spettacolo, proprio in<br />

seguito ad una prima crisi che toccò anche il Festival di Avignone di quell’anno. Restando fedele alla sua<br />

natura di uomo determinato e contestatore, autentico e tenace, realizzò un quadro dall’interno del<br />

fenomeno, piuttosto realista e fedele, e considerato ancora oggi molto attento e attuale (N.d.T.).<br />

3 Ibidem: 354 (N.d.T.).<br />

158


un certo qual modo, “normali”. Nella situazione che si stava creando era evidente che<br />

un conflitto, così oscuro e a tratti confusi, non poteva risolversi che attraverso una vera<br />

e propria negoziazione, «la forma più evoluta e costosa tra i meccanismi di<br />

coordinamento degli esseri umani 1 ». E in parte è di questo che andrò a trattare.<br />

Seguendo con rigore tali logiche, mentre i pomeriggi li passavo alla Bibliothèque, al<br />

secondo piano, alcune mattine visionavo i filmati conservati nella videoteca<br />

dell’Associazione Jean Vilar, al piano terra dello stesso edificio: registrazioni audio e<br />

video delle manifestazioni del giugno e luglio del 2003, lungo le strade di Avignone;<br />

interviste con personalità avignonesi, amici del Festival e testimoni oculari delle<br />

vicende di quella estate; trovai anche alcuni, parziali, resoconti filmati delle assemblee<br />

generali degli scioperanti, in cui si decise il destino del Festival del 2003. Bisognava,<br />

infatti, colmare il vuoto legato alla mia assenza “sul campo”, durante quelle vicende.<br />

Ancora, sapendo che avrei trascorso in Francia molti dei mesi successivi, potevo<br />

ipotizzare di raccogliere direttamente il pensiero di alcuni protagonisti: di alcune<br />

persone i cui nomi lessi sui giornali; delle persone i cui visi, le cui azioni e le cui<br />

dichiarazioni vidi e ascoltai nelle registrazioni, interpreti più o meno consapevoli di<br />

quelle vicende; o, ancora, di persone che avevano un ruolo ancor più di rilievo al<br />

momento dello svolgimento dei fatti o che ebbero, subito dopo, il compito di superare<br />

quei fatti, di dare continuità alla storia; infine, di persone che assistettero agli eventi<br />

senza che nessuno ne registrasse in alcun modo il pensiero, attori non protagonisti; e<br />

alcune altre persone, protagoniste loro malgrado o solo comparse, che si trovarono<br />

sull’altro fronte del festival, dal lato dell’OFF, o meglio dell’altra faccia dello stesso<br />

Festival di Avignone (ma di loro mi riservo di parlare in altro momento).<br />

Infine, mi mancava l’ultimo, fondamentale, punto di vista, quello più lontano dalle<br />

fonti ordinarie e che solo in parte si manifestava nei restanti documenti che stavo<br />

raccogliendo: quello degli stessi intermittenti, delle loro comunità di resistenza<br />

organizzate attraverso i “collettivi” territoriali che nacquero e si svilupparono<br />

soprattutto dopo quell’estate. E, forse, quello maggiormente organizzato era il collettivo<br />

designatosi Coordination des Intermittents et Précaires d’Ile-de-France (CIP-IDF), con<br />

sede poco lontana dalla Porte de la Villette, in uno dei quartieri più a nord di Parigi.<br />

Un po’ storico e un po’ antropologo, a cavallo tra sociologia e economia, nel<br />

raccogliere e analizzare quel materiale tanto variegato, mi sembrava di poter<br />

ripercorrere tutti gli argomenti di riflessione e di criticità che tanto vanno di moda nei<br />

discorsi più attuali sulla produzione contemporanea: “routine, flessibilità e mobilità,<br />

rischio, precarietà, fallimento, etica del lavoro”.<br />

Parecchio tempo addietro, lessi il famoso libro in cui Rifkin annunciava al mondo la<br />

fine del lavoro. Nelle primissime righe della prefazione a quel testo si legge:<br />

«Gli economisti non hanno mai avuto un buon rapporto con le macchine e con gli effetti che<br />

producono nella società. Da una parte, esse rappresentano la materializzazione dell’investimento,<br />

quindi dello spirito stesso del capitalismo. Dall’altra, dove ne arriva una, esce di scena un<br />

lavoratore (in alcuni casi più di uno). Gli economisti hanno sempre affermato che l’introduzione di<br />

una macchina può provocare disoccupazione qua e là, ma l’aumento della produttività che ne<br />

consegue ha effetti positivi sul reddito nazionale. Ma a chi va questo reddito?»<br />

Ora, come già allora, non ero troppo convinto della posizione tanto di Rifkin quanto<br />

dell’autore di quella prefazione. Le mie perplessità erano legate ad un ragionamento “a<br />

1 Rumiati, Pietroni 2001: 55.<br />

159


monte” rispetto alla questione di chi percepisse quel reddito aggiuntivo generato<br />

dall’utilizzo di conoscenza sotto forma di macchine. A ben vedere, infatti, nell’attuale<br />

economia in cui la flessibilità sembra ottenibile esclusivamente per via tecnologica<br />

abbassando i costi di produzione, la teoria rischiava di non contemplare la presenza<br />

stessa dei lavoratori intermittenti dello spettacolo francesi che stiamo per incontrare:<br />

questi non potevano essere trattati, semplicisticamente, come una delle tante categorie<br />

di “lavoratori precari” creati (recentemente) da una concezione di “economia della<br />

conoscenza” globalizzata, alquanto maldestra, un po’ visionaria e parecchio fatalista.<br />

Se, astrattamente, ha poco senso una visione “di pura efficienza tecnica” per tutti i<br />

lavoratori “flessibili” di quella che, i più, definivano già come “l’imminente knowledge<br />

revolution”; nel caso della produzione artistica – e ancora di più nelle performing arts,<br />

con buona pace del “morbo di Baumol” – tale prospettiva “quantitativa”, sui livelli di<br />

produttività dell’industria artistica, costituiva una sorta di contraddizione in termini dal<br />

punto di vista intuitivo. Detto altrimenti, la questione che mi ponevo addentrandomi<br />

nell’affaire degli intermittenti non era legata all’accettazione aprioristica dell’inevitabile<br />

“morte del lavoro”, e della creazione di valore su base “artificiale” legata<br />

esclusivamente a diminuzione dei costi di produzione. Il nostro caso sembrava<br />

prefigurare un’altra via per la divisione del lavoro (cognitivo), con l’unico dilemma che<br />

tale percorso rischiava di impantanarsi nel momento in cui i discorsi economici “attuali”<br />

cercavano di fornire una lettura “ordinaria” (efficientista) di un fenomeno (economico)<br />

che non era contemplato dalla teoria economica stessa (o meglio, non dalla “retorica<br />

prevalente” dei discorsi teorici), per motivi che spero il lettore coglierà attraverso il<br />

proseguo della lettura. Ma su questo torneremo in seguito.<br />

***<br />

A questo punto, detto che di una questione a suo modo complicata si trattava, e senza<br />

mettere in dubbio le competenze analitiche e di puro ragionatore del mio lettore, in<br />

questa inchiesta, come dei novelli Auguste Dupin o Erik Lönnrot, trarremo tutti<br />

giovamento dall’affiancamento ad un esperto di queste faccende. E «in simili<br />

circostanze non potei fare a meno di notare e ammirare la particolare capacità analitica»<br />

di M.<br />

Una constatazione preliminare che egli mi fece osservare, e la cui importanza e<br />

convenzionalità, son certo, non sfuggiranno al lettore: se un dipinto del XV secolo era<br />

già «testimonianza di un rapporto sociale 1 » tra attori di un “modello” di mercato<br />

artistico basato su un filiera seppur molto diversa da come la conosciamo oggi 2 ; allora,<br />

come ha osservato anche Howard Becker, tutte le attività artistiche, anche quelle più<br />

“solitarie”, attivano il concorso di molteplici categorie di professionisti lungo tutta una<br />

catena di cooperazione senza la quale le opere d’arte (i prodotti artistici – n.d.t.) non<br />

sarebbero né prodotte, né distribuite, né sottoposte a critica e a valutazione, né<br />

conservate, né fruite 3 . In sostanza, due erano le ipotesi di partenza che costituiscano i<br />

fondamenti di ogni ragionamento su ciò che M. chiamava “diseguaglianze legittimabili”<br />

della produzione artistica 4 .<br />

1 Baxandall 2001 (N.d.A.).<br />

2 Throsby 2001; Wackernagel 2001; Burke 2001; Guerzoni 2006 (N.d.A.).<br />

3 Becker 1982 (N.d.A.).<br />

4 Menger 2002 (N.d.A.).<br />

160


In primo luogo, i professionisti del settore che detengono competenze specifiche<br />

sono in concorrenza tra loro per captare la domanda agendo ciascuno individualmente,<br />

interagendo con il mercato, apparentemente senza intermediari. Ma «per lavorare, per<br />

produrre o diffondere i loro prodotti, i professionisti si integrano generalmente ad una<br />

organizzazione permanente o effimera […] o contrattano con una organizzazione che<br />

agisce da intermediario […] per realizzare gli esemplari di un prodotto o mettere in<br />

circolazione l’opera e accedere al mercato 1 ». A questo livello si inserirebbe la seconda<br />

ipotesi di lavoro di M., secondo cui, «per ottenere la migliore valorizzazione possibile<br />

di un talento, è necessario associare dei professionisti di talento comparabile nei<br />

mestieri necessari alla produzione e alla messa in circolazione delle opere».<br />

In sostanza, i mercati artistici assocerebbero «a delle architetture organizzative labili<br />

(reti, progetti, disintegrazione verticale) una struttura di gruppi attraverso cooptazione<br />

tra professionisti di qualità o reputati tali, […] una sorta di accoppiamento selettivo». Il<br />

mondo dell’arte, quindi, avrebbe inventato, in tempi non sospetti, dei meccanismi per<br />

elevare la produttività dei lavoratori migliori, o per cercare di semplificare le relazioni<br />

interne al settore stesso 2 : quotando il valore di ciascuno sulla base della riuscita dei<br />

progetti precedenti a cui ha preso parte, in modo da gestire la collaborazione futura;<br />

mantenendo i livelli di reputazione sotto la pressione concorrenziale di continui “nuovi<br />

entranti” di talento. M. citò questo passo scritto da Baudelaire, il quale dubito avesse<br />

mai sentito parlare di innovazione e processi integrazione nella filiera produttiva<br />

dell’arte, ma, indubbiamente, di questi fenomeni diede una vivace immagine: «Dans un<br />

régime holiste de l’art, l’originalité des solutions trouvées aux problèmes artistiques est<br />

collective. Dans un régime individualiste, chacun est tenu d’offrir une solution inédite à<br />

des problèmes toujours plus difficiles en raison de la “division infinie de l’art” 3 ».<br />

E aggiunse: «Dalla risposta a queste questioni si deduce una rappresentazione di<br />

quella che è la comunità degli artisti e, inoltre, di ciò che possono comportare gli ideali<br />

collettivi compatibili con l’imperativo dell’espansione vivamente individualizzata 4 »<br />

Intuitivamente, un suggerimento di quella sorta mi portava a pensare che ciò che<br />

rende peculiare il mercato del lavoro di questo settore fosse collegabile ad una<br />

organizzazione della filiera produttiva (o semplice ad un mio modo di osservarla) che si<br />

è evoluta in modo a sua volta peculiare.<br />

Da quelle ipotesi, apparentemente semplici e innocue, emerse una posizione che mi<br />

convinceva assai più rispetto a quella, semplicistica, di Rifkin: forse, non era di “morte”<br />

teorica che si dovrebbe parlare, quanto, forse di “tentativo di precoce suicidio” del<br />

lavoro. L’analisi sul lavoro “intermittente” nello spettacolo che mi proponeva M.<br />

partiva dal presupposto che la parte essenziale delle attività creative, oggi, si realizza sia<br />

all’interno di organizzazioni che operano (fondamentalmente) per progetto, sia<br />

attraverso forme miste che, su una organizzazione permanente, innestano una<br />

moltitudine di legami contrattuali temporanei o di reclutamento di professionisti<br />

indipendenti che compongono dei gruppi che si creano e si disfano di volta in volta.<br />

1 Menger 2002: 43 (N.d.A.).<br />

2 Il settore della musica classica è particolarmente interessante a tal proposito, specie se osservato dal<br />

punto di vista nei concorsi internazionali. In diverse indagini recenti condotte da una mia collega del<br />

Dipartimento di Scienze Economiche dell’Università di Udine, è possibile apprezzare anche il ruolo dei<br />

concorsi nel definire come venga sviluppata la professionalità dei maestri di musica e quali meccanismi<br />

(di legittimazione e di fiducia) permettano l’accesso e il funzionamento del relativo mercato del lavoro e<br />

dell’intera filiera produttiva (Collodi, Moretti 2004) (N.d.A.).<br />

3 Citato in Menger 2002: 48 (N.d.A.).<br />

4 Ibidem: 49 (N.d.A.).<br />

161


Non ci mise troppo a convincermi. Le esperienze francesi non erano poi così<br />

differenti da quelle italiane di cui avevo coscienza: i lavoratori dello spettacolo, infatti,<br />

sono inclini a identificarsi come professionisti il cui esercizio del mestiere è<br />

profondamente individualizzato ma i cui percorsi lavorativi e carriere artistiche sono<br />

fortemente interdipendenti tra loro, legati ad una profonda disparità nei livelli di<br />

soddisfazione professionale. I due parametri più “ordinari” dell’attività su progetto ne<br />

uscivano enfatizzati: infatti, per quanto i gruppi di lavoro di progetti artistici abbiano la<br />

tendenza ad avere dimensioni limitate, la diversità delle professionalità implicate è<br />

spesso molto alta. Inoltre, associare individualismo e condivisione del rischio (artistico)<br />

non costituisce un modo per caratterizzare quello che, nell’immaginario collettivo, è il<br />

solo e originale lavoro “creativo”, vale a dire quello degli artisti; a questi caratteri,<br />

ampiamente accolti, aderiscono tutti i professionisti che sono implicati in un progetto<br />

artistico, i quali coltivano l’identificazione in una comunità professionale non tanto<br />

basata sull’integrazione di ognuno in un gruppo omogeneo (le “poche” organizzazioni<br />

artistiche stabili), quanto su una organizzazione di legami di lavoro in reti personali.<br />

Tornando agli “intermittenti”, domandai: «Ma allora, vi è una originalità, una<br />

specificità di cui tenere conto anche per parlare di flessibilità nel caso della produzione<br />

artistica?». La questione era più articolata rispetto a come la semplificavo.<br />

M. mi propose quest’altra riflessione: «La differenziazione e l’individualizzazione<br />

sono i segnali di una sorta di autonoma indipendenza della sfera artistica o al contrario<br />

dei segnali della sua “decomposizione” prodotta dalle forze dissolventi dei mercati<br />

capitalistici così come siamo abituati a concepirli oggi? Nel primo caso saremmo di<br />

fronte ad artisti che, né più né meno del mondo scientifico di cui facciamo parte, e forse<br />

a ragione, rivendicherebbero una gamma di competenze professionali utili a negoziare<br />

specifiche “protezioni sociali” da parte dello Stato-mecenate, garante del bene culturale<br />

pubblico; inoltre, allo stesso modo, essi potrebbero proporre le singolarità della loro<br />

professione quale esempio di flessibilità a cui pensare e magari da adottare anche in<br />

altre situazioni. Nel secondo caso, invece, assisteremmo ad una commedia basata su una<br />

pseudo differenza, uno specchiarsi in false originalità, che conducono alla<br />

manipolazione di criteri efficientisti nella creazione e nell’innovazione artistiche, alla<br />

banalizzazione di una retorica che sarebbe idealmente indirizzata a ricadere nel caso<br />

generale del concetto di valore economico o di mercato, nella migliore delle ipotesi<br />

come nel caso dei beni alla moda». Quindi, nella produzione artistica, le percezioni<br />

generali sembrerebbero riconducibili ad una diatriba tra: una specificità nel senso di<br />

“diversità” effettiva rispetto ai processi produttivi della teoria economica prevalente;<br />

oppure una specificità apparente, all’interno di una tendenza a “riunificare” ciò che si<br />

era considerato diverso ma che, di fatto, era solo, inopportunamente, trattato come tale.<br />

Prima di affrontare assieme le questioni più tecniche, queste prime riflessioni mi<br />

portarono a considerare come, nella filiera dell’arte, vi fosse un certo consenso<br />

generalizzato nel collegare (razionalmente) i principi dell’organizzazione del lavoro per<br />

progetto, la necessaria presenza di un “peculiare” livello di flessibilità del lavoro e la<br />

numerosità dei contratti di breve durata. M. si affrettò a rimarcare che tutto ciò era, in<br />

prima approssimazione, corretto, salvo per il fatto che questo scenario portava ad un<br />

paradosso, almeno in Francia: «la domanda di lavoro è in continuo aumento, ma essa è<br />

dispersa su un numero di professionisti e di aspiranti tali, che crescono due volte più<br />

rapidamente. Tale domanda di lavoro si esprime in contratti dalla numerosità esplosiva,<br />

ma la cui durata media si accorcia altrettanto spettacolarmente: è una spirale che genera<br />

una crescente frammentazione del lavoro, attraverso l’effetto di una dispersione di<br />

162


contratti sempre più brevi che attingono a piene mani da una varietà incessante di<br />

offerta di lavoro “intermittente”, la cui durata media di impiego è, a sua volta,<br />

considerevolmente diminuita». Anche il meno avvezzo tra i miei lettori alla<br />

terminologia e alla retorica economica intuirà che, in condizioni normali, uno scenario<br />

simile produrrebbe una concorrenza serrata, condotte diseguali, grande variabilià nei<br />

livelli di impiego e di remunerazione e una “razionalizzazione del lavoro”.<br />

Quale era la risorsa scarsa su cui si sarebbe aperta la negoziazione per l’affaire degli<br />

“intermittenti”? Non il lavoro in generale, e neppure il “semplice” lavoro flessibile: si<br />

trattava di lavoro di una certa qualità valutato però attraverso parametri strettamente<br />

quantitativi. Quel “mercato del lavoro” localizzato aveva qualcosa di particolare che<br />

non gli permetteva un equilibrio (economico) così come saremo abituati a intenderlo.<br />

***<br />

Riassumendo, la posizione di M., che tentava di descrivermi le basi della singolare<br />

posizione francese in merito all’esistenza di uno statuto lavorativo specifico per gli<br />

intermittenti dello spettacolo, essa era legata: a) all’ipotesi che gli artisti sono<br />

sostanzialmente dei “salaritati”, ovvero sul fatto che nel contesto di produzione artistico<br />

il “mercato di lavoro”, lungo un continuum che va dal rapporto di “salariato” a quello di<br />

“lavoratore autonomo”, vi sia una qualche forma di “interdipendenza”, di fatale<br />

interconnessione tra le attività svolte lungo tutta la filiera da professionisti e<br />

organizzazioni artistiche; b) all’utilizzo prevalente di contratti a tempo determinato<br />

(“CDD d’usage”); c) all’ipotesi che il lavoro artistico, l’impiego in quel settore, sia<br />

“temporaneo per sua stessa natura”.<br />

Con tutti i riferimenti legislativi e i fondamenti giuridici che egli mi portò a sostegno<br />

delle sue ipotesi, mi convinse di quale era la ratio più profonda che aveva mosso il<br />

legislatore francese 1 : tipicamente, nel mondo dell’arte, si mescolano subordinazione<br />

salariale, indipendenza d’azione e d’esecuzione, iniziativa imprenditoriale e autonomia<br />

creativa; ciò aveva portato il sistema giuridico francese, unico in tutto Europa e nel<br />

mondo, a dotarsi di strumenti legislativi e di una architettura normativa idonei non solo<br />

per riconoscere tali peculiarità, ma anche perché fosse possibile esprimerle e praticarle.<br />

Altrettanto chiara era la sua ipotesi di lavoro, circa le conseguenze inattese di questo<br />

quadro: in generale, «[…] è impossibile mantenere intatta l’ipotesi che la creazione di<br />

lavoro nel settore dello spettacolo si sia realizzata essenzialmente sulla base di attività e<br />

di mestieri il cui esercizio è “per natura” temporaneo. Si è operata una sostituzione su<br />

grande scala che si adeguava, si correggeva rispetto a scelte organizzative ed<br />

economiche di riduzione dei costi fissi della manodopera, di aumento della flessibilità<br />

interna e della produzione attraverso relazioni di cooperazione e di intermediazione<br />

(sub-appalto) tra imprese: queste sono le caratteristiche della disintegrazione verticale<br />

1 Per semplicità sorvolo su questi aspetti, ma resta oltremodo interessante scoprire la genesi di un insieme<br />

di norme di per sé molto speciali, nate e sviluppatesi come in una particolare nicchia, una sorta di<br />

ecosistema che ora cerca di trovare i motivi stessi della sua esistenza, nell’ambito di un cambiamento che<br />

diventa necessario (N.d.T.). Anche attraverso la questione degli intermittenti era possibile aprire uno<br />

spaccato sull’organizzazione del sistema di produzione nello spettacolo, con evidenti incroci tra Francia e<br />

Italia. Per questa parte rinvio al capitolo 2 di Menger 2005, ripromettendomi che forse, in futuro, tornerò<br />

sull’argomento analizzandolo da una particolare prospettiva (Powell, DiMaggio 1991) (N.d.A.).<br />

163


dell’attività 1 ». Questo elemento di “creatività” amministrativa, giuridica e sociale di cui<br />

il settore culturale avrebbe beneficiato si accordava perfettamente con la flessibilità<br />

sotto forma assicurativa/assistenziale del sistema di lavoro intermittente, questione che<br />

già Jean-Pierre Vincent non aveva mancato di sollevare nel suo famoso rapporto del<br />

1992.<br />

Le spiegazioni di M., per certi versi, mi affascinavano: paragonata alla situazione<br />

italiana, che bene o male, conoscevo, il settore dello spettacolo francese era un campo<br />

organizzativo che era riuscito a creare e riprodurre, in modo quasi isomorfico 2 , una vera<br />

1 Era in questi termini che poteva essere spiegata “l’attrattività” del sistema di intermittenza in Francia<br />

basato sul “CDD d’usage” piuttosto che su forme contrattuali stabili, a tempo indeterminato. I dati che mi<br />

portava M. riguardavano, in particolare, la moltiplicazione e la miniaturizzazione delle figure di datori di<br />

lavori/imprenditori: non vi erano effettive barriere all’ingresso sia che si facesse riferimento ai settori “di<br />

mercato” sia alle fasce di attività “sovvenzionate” dallo Stato e dalle collettività locali e se questo era<br />

sintomo di vitalità culturale tutto ciò aumentava anche la dispersione della domanda di lavoro; dall’altro,<br />

insisteva una particolare situazione istituzionale interna al settore con i tre quarti delle organizzazioni<br />

dell’audiovisivo sotto forma di società (soprattutto “a responsabilità limitata”) e le imprese dello<br />

spettacolo dal vivo, per la stessa proporzione, sotto la forma istituzionale dell’associazione (“association<br />

de loi 1901”). Il risultato era che in tutto il settore, il 75% delle organizzazioni contano meno di 5<br />

lavoratori e, nel caso specifico delle associazioni, una su due non ha alcun dipendente.<br />

2 Anche qui è evidente il richiamo di N. alle teorie istituzionaliste in campo organizzativo (Powell,<br />

DiMaggio 1991). A tal proposito, vorrei richiamare una riflessione fatta altrove con riferimento al caso<br />

italiano (Crisci, Moretti 2004). Nello spiegare i vincoli e le opportunità dell’azione strategica attuale delle<br />

organizzazioni (artistiche) (Herriot, Levinthal, March, 1985; March, Spoull, Tamuz, 1991), il ruolo delle<br />

esperienze (teatrali) passate può essere analizzato in termini di una “selezione competitiva” che pare<br />

essersi riscontrata nelle forme organizzative “storiche” del sistema teatrale italiano (mi riferisco qui alla<br />

formula del “teatro stabile”). In questo modo, è possibile trovare un collegamento tra due approcci allo<br />

studio del cambiamento organizzativo solo apparentemente in conflitto tra loro: la ricerca<br />

sull’adattamento organizzativo (Cyert, March, 1963; Lawrence, Lorch, 1967); e quella sull’ecologia<br />

organizzativa (Hannan, Freeman, 1989; Levinthal, 1991; Denrell, March, 2001). Infatti, il sistema teatrale<br />

italiano può essere analizzato, in primo luogo, come il risultato di successivi processi di innovazione di<br />

breve periodo e a livello di singole organizzazioni teatrali (dall’esperienza del Piccolo di Milano fino ai<br />

“teatri stabili di innovazione privati”); e, in seconda battuta, come il risultato, di lungo periodo, dei<br />

processi di selezione all’interno della popolazione di organizzazioni teatrali (e delle relative forme<br />

organizzative) nate e sviluppatesi dal secondo dopoguerra ad oggi (Levinthal, 1991; Denrell, March,<br />

2001; Moretti, Crisci, 2003). Nell’ottica della teoria dell’ecologia organizzativa (Hannan, Freeman, 1989;<br />

Lomi, 1991, 1993; Lomi, Larsen, 1996, 2000; Lomi, Larsen, Freeman, 2001), le attuali scelte strategiche<br />

delle organizzazioni teatrali risultano strettamente connesse con una sorta di “inerzia organizzativa”<br />

(l’istituzionalizzazione del fenomeno della “stabilità” e dei “teatri stabili”) che si è prodotta nel lungo<br />

periodo. Questa proposta interpretativa potrebbe spiegare perché l’idea di innovazione teatrale sia<br />

strettamente collegata con organizzazioni che già da tempo hanno avviato processi di cambiamento<br />

(collegati a proprie esperienze passate) rispetto ad organizzazioni che non sono attualmente in grado di<br />

attivarsi in tal senso nel breve termine. Nel caso francese, invece, potrebbe risultare estremamente<br />

interessante per comprendere l’impatto dell’intera architettura giuridica (compresa la normativa sul<br />

“lavoro intermittente”) su cui si è fondata l’attuale filiera produttiva dello spettacolo, non solo con<br />

riferimento al funzionamento delle “piccole imprese”, ma anche nel caso dell’evoluzione dei Centri<br />

Drammatici Nazionali (CDN), colonne portanti del sistema di produzione “istituzionale” francese. Dal<br />

punto di vista teorico: l’inerzia delle strutture organizzative (cardine del ragionamento ecologico) collega<br />

selezione e cambiamento in quanto rende raro poter ridisegnare rapidamente le strutture stesse a fronte di<br />

cambiamenti ambientali (March, Olsen, 1984; Lomi, 1993). In termini più formali: «[…] il<br />

comportamento dell’attore in uno specifico istante non può essere spiegato nei termini delle sue<br />

preferenze così come egli le rivela in quello stesso istante attraverso le scelte, ma deve essere spiegato in<br />

riferimento a scelte ed episodi precedenti che egli non ha né inteso, né conosciuto né, tantomeno,<br />

compreso ma che costituiscono i vincoli concreti – cognitivi, istituzionali e normativi – alla sua capacità<br />

di agire» (Lomi, 1993, corsivo nostro). Sia in Francia che in Italia il settore dello spettacolo si è evoluto in<br />

forma quasi “inerziale”, sulla base di spinte autonome, tutte interne al settore stesso. Si può però anche<br />

164


e propria “riforma di sistema”; forse in modo non completamente consapevole, senza un<br />

effettivo “coordinamento”, e senza una “guida” che potesse renderlo sostenibile, ma,<br />

comunque, funzionante. Il problema, ora, era differente rispetto al caso italiano: toccare<br />

uno dei bandoli di questa intricata matassa, senza sapere le conseguenze generali che<br />

avrebbe causato, non avrebbe agevolato il “dipanare” del groviglio; il rischio era di<br />

spezzare uno o più fili estremamente delicati e, in parte, logorati dallo stesso, fitto,<br />

intrico.<br />

Nel 1992, Jean-Pierre Vincent scriveva: «A partire dal 1981, la politica del ministero<br />

della Cultura, l’aumento del budget e delle sue possibilità di intervento hanno costituito<br />

una boccata d’ossigeno considerevole. Nella scia della politica del ministero della<br />

Cultura, la legge sulla decentralizzazione e la moltiplicazione delle possibilità di<br />

intervento delle collettività locali hanno giocato nella stessa direzione. Delle esigenze<br />

artistiche si sono risvegliate, sono stati suscitati dei bisogni. Tutto ciò è stato sostenuto<br />

da sovvenzioni che non erano sufficienti sempre per l’effettiva creazione di imprese<br />

artistiche. Queste giovani imprese sono state costrette a individuare diversi sotterfugi<br />

lungo i loro percorsi di sviluppo. Questo cammino passa per il lavoro nero, ma anche<br />

per un uso delle mille risorse create dall’indennizzazione dell’Assedic. […] Lo Stato<br />

non ha forse lui stesso spinto l’intermittenza favorendo l’aiuto ai progetti o fissando<br />

regole stringenti sulla proporzione dei carichi contributivi fissi nelle sue istituzioni?<br />

Ovviamente che si trattava di non moltiplicare l’ingombrante tessuto di istituzioni<br />

pesanti e stabili, di dirigere al massimo l’impiego dei sussidi pubblici verso la<br />

produzione e i lavori artistici. Ma l’effetto non è stato sempre governato 1 ».<br />

L’immagine che ne scaturiva era quella dell’intermittente come “presunto salariato”<br />

che ha la facoltà di contrattare successivamente, e a volte simultaneamente, con diversi<br />

datori di lavoro. In sostanza, costituisce il massimo della forma di impiego flessibile, in<br />

quanto i lavoratori sono assunti per durate che possono andare dalla singola giornata o<br />

mezza giornata, fino a diverse settimane o mesi. Come sottolineava M.: «lo svolgimento<br />

normale dell’attività di un intermittente si presenta come una successione più o meno<br />

continua di episodi d’attività contrattualizzata e peridiodi di non impiego». Il problema<br />

è che questo schema può declinarsi in molti modi differenti 2 : per alcuni intermittenti<br />

l’alternanza tra “impiego” e “non impiego” può avere una perfetta regolarità, come nel<br />

caso di artisti e tecnici la cui agenda è formata da un orizzonte temporale di più mesi,<br />

prevedendo attività per due o tre giorni a settimana, in modo stabile e regolare; in altri<br />

casi, i periodi di lavoro sono collegati all’opportunità di partecipare a progetti<br />

strutturati, in cui l’attività non è prevedibile e il lavoro si svolge in modo discontinuo;<br />

per altri, ancora, potrebbe essere possibile accumulare in poche settimane un gran<br />

numero di ore di lavoro, con la possibilità di ritirarsi momentaneamente dal mercato per<br />

periodi più o meno lunghi, e sulla base delle preferenze personali, alla ricerca del<br />

progetto di lavoro più interessante per completare il monte di ore annuale; infine, per i<br />

lavoratori molto noti e richiesti sul mercato, l’intermittenza può essere sinonimo di<br />

“iperattività” permanente o quasi permanente.<br />

Perché la manodopera resti continuamente disponibile sul mercato per alimentare<br />

un’offerta culturale crescente, è però necessario che il costo della flessibilità sia in<br />

ipotizzare che, mentre in Italia l’intervento legislativo (per altro, non definitivo) ha avuto come effetto<br />

l’ingessamento del sistema di produzione dello spettacolo, in Francia l’architettura giuridica statale non<br />

ha fatto altro che alimentare il cambiamento, già in atto, dell’intera filiera artistica (N.d.A.).<br />

1 Menger, 2005: 81-82 (N.d.T.).<br />

2 Menger, 2005: 87 (N.d.T.).<br />

165


qualche modo spartito tra gli attori di questo sistema. Una parte di questo costo è preso<br />

in carico dall’impresa che paga l’intermittente sulla base di tabelle di costo orario che,<br />

tenendo conto dell’elevata professionalità, sono più elevate rispetto ad altri settori (M.<br />

mi diceva che era una sorta di “costo-compensazione per la discontinuità del lavoro”).<br />

Un’altra parte del costo complessivo è a carico dello stesso lavoratore, sulle spalle del<br />

quale resta il peso della ricerca continua di un lavoro e, nel caso degli artisti, delle<br />

lunghe fasi di “preparazione” e di “creazione” tra un progetto e l’altro. Infine, da quasi<br />

quaranta anni, in Francia esiste un meccanismo specifico di assicurazione contro il<br />

“sotto-impiego”, che indennizza i periodi ricorrenti di disoccupazione degli<br />

intermittenti.<br />

Avevo preso nota di alcune tabelle e dati che M., di tanto in tanto, richiamava e<br />

commentava. Me ne mostrò una attraverso cui egli evidenziava come il volume<br />

complessivo di lavoro attraverso il “CDD d’usage”, a valori depurati dell’inflanzione,<br />

era aumentato del sessanta per cento in undici anni; ma mentre la quantità di lavoro<br />

intermittente remunerato era aumentata, seppur meno velocemente rispetto agli effettivi<br />

impiegati, la remunerazione annua media procurata agli intermittenti dai contratti in<br />

“CDD d’usage” era diminuita di un quinto.<br />

Restava inteso che non è possibile assimilare la remunerazione dichiarata sotto forma<br />

di CDD intermittente alla effettiva situazione economica dell’individuo, proprio per via<br />

del proliferare dei contratti e delle attività multipli. Qui M. mi metteva in guardia su un<br />

aspetto rilevante: le statistiche su questo specifico fenomeno sono molto più complicate<br />

da realizzarsi rispetto ad altre tipologie di lavoro; e troppo spesso sono state oggetto, più<br />

o meno involontariamente, di un utilizzo sconsiderato e di errate interpretazioni sia da<br />

parte degli stessi professionisti sia con riferimento alle parti sociali, durante il conflitto<br />

sociale susseguente alle rinegoziazioni dello statuto.<br />

Considerando le “pratiche” e i meccanismi più diffusi, senza entrare troppo nel<br />

dettaglio tecnico dell’utilizzo dello statuto degli intermittenti, era degna di nota una<br />

espressione che M. utilizzò più volte: «pochi regimi di lavoro sono così semplici nella<br />

loro organizzazione – impiego, lavoro, fine del contratto – e così complicati nel loro<br />

sistema di indennizzo di disoccupazione come nel caso del contratto d’uso a tempo<br />

determinato, prevalente nel settore dello spettacolo 1 ».<br />

A tal proposito mi anticipò come gli esempi forniti dalla stampa durante tutto il 2003<br />

per mostrare la portata della riforma tanto contestata era così vividamente eloquenti in<br />

merito «all’esoterismo difficilmente riducibile di regole costruire dai partner sociali per<br />

modellare una flessibilità assicurativa sulla base di una flessibilità contrattuale: gli stessi<br />

riformatori furono costretti a modificare la redazione di certi nuovi dispositivi, per<br />

fronteggiare delle aberrazioni evidenziate dalle simulazioni realizzate dagli stessi<br />

intermittenti, fini specialisti della contabilità e dei calcoli per l’indennizzo 2 ». Ad ogni<br />

modo, giusto per tracciare alcuni elementi generali che il lettore ritroverà in seguito, per<br />

essere ammessi all’indennizzo nei propri periodi di disoccupazione, un intermittente<br />

deve aver accumulato almeno 507 ore di lavoro in un intervallo di tempo dato (uno<br />

degli elementi continuamente oggetto negoziazione), fissato dal protocollo. Una volta<br />

ammesso al sistema di indennizzo, l’intermittente dispone di un credito di allocazione,<br />

una sorta di franchigia non indennizzabile calcolata in modo tale da tenere conto<br />

1 Menger, 2005: 89 (N.d.T.).<br />

2 Ibidem: 90 (N.d.T.).<br />

166


dell’attività remunerata e dell’avvio ipotetico dell’indennizzo 1 . A quel punto egli può<br />

sospendere in ogni momento la sua situazione di disoccupato e l’accesso al suo diritto di<br />

indennizzo, per riprendere il lavoro; e nel momento in cui questa nuova attività ha fine,<br />

egli ritrova il suo status di disoccupato indennizzato. Nella sostanza, il tempo degli<br />

intermittenti scorre su due orologi tra loro paralleli e complementari: il tempo<br />

dell’indennizzo, che si vede ridurre nella misura in cui l’intermittente lo “consuma”; e il<br />

tempo di lavoro remunerato che egli effettua in alternanza con i periodi di inattività, e<br />

che gli permette di accumulare le ore necessarie a garantirgli un nuovo accumulo di<br />

tempo a “credito”, in un nuovo episodio di indennizzo susseguente al precedente.<br />

La relazione paradossale tra la crescita del lavoro e quella del diritto<br />

all’assicurazione di disoccupazione ha cominciato ad essere evidente dagli anni Ottanta,<br />

anche se solo dagli anni Novanta il disequilibrio dei conti assicurativi si è assestato sui<br />

ritmi attuali. Da alcuni dati aggiornati al 2003, M. evidenziava come, in effetti, il<br />

rapporto tra le prestazioni versate ai lavoratori intermittenti a titolo di indennizzo e i<br />

contributi da questi versati e incassati dall’organismo di gestione, hanno oscillato<br />

attorno all’8 a 1, ad eccezione di due brevi periodi che coincidevano con altrettante<br />

variazioni a seguito di riforme nell’impianto contabile del sistema. Ne risultava un<br />

deficit che, in valore assoluto, non è mai diminuito, passando dai 230 ai 950 milioni di<br />

euro (a valori correnti) dal 1992 al 2004. Il deficit è sempre rientrato nell’ambito del<br />

regime generale di indennità di disoccupazione, secondo il principio della “solidarietà<br />

interprofessionale” tra lavoratori in attività e datori di lavoro di tutti i settori privati<br />

dell’economia. Ogni tentativo di ridurre i deficit assistenziali è fallito: come continuava<br />

a sottolineare M. perché l’offerta di lavoro continuava ad aumentare più velocemente<br />

della domanda e ogni modifica delle regole di indennizzo, destinata a frenare o invertire<br />

il processo, era causa di un meccanismo immediato di adattamento da parte di lavoratori<br />

e datori di lavoro, al fine di preservare il funzionamento generale del sistema.<br />

La triangolazione tra datore di lavoro, lavoratore e “assicuratore” era decisamente<br />

unica nel suo genere con riferimento alle “ordinarie” relazioni lavorative di settori più<br />

“tradizionali”. In questo caso, più che mai, il sistema delle relazioni sociali era più<br />

cooperativo che competitivo, anzi, quasi collusivo. Mai come in quel caso, la sorte degli<br />

uni è direttamente legata alla disponibilità e all’impegno degli altri. Come asseriva M.:<br />

«Si può allora comprendere che i datori di lavoro e i loro salariati effimeri condividano<br />

troppi interessi immediati perché la loro relazione di lavoro sia percepita come<br />

apertamente asimmetrica». Tutto ciò è percepito anche dai restanti attori sociali e<br />

costituisce una delle cause per cui gli imprenditori di altri settori, in seno alle stesse<br />

organizzazioni padronali, non vedono di buon occhio i colleghi delle organizzazioni<br />

artistiche; e, di converso, gli stessi intermittenti dello spettacolo costituiscono, di fatto,<br />

una “strana minoranza” agli occhi degli altri lavoratori del movimento sindacale<br />

“ufficiale”. Questa strana configurazione delle trattative all’interno di un mercato del<br />

lavoro che gli economsti più “liberisti” definirebbero, ad essere magnanimi, come<br />

“dopato”, spiega anche il motivo per cui ogni cambiamento di regole (più o meno<br />

sostanziali che siano le modifiche) sia stato rapidamente assimilato e corretto, adattato<br />

1 Anche questa variabile costituisce uno dei punti più delicati delle varie negoziazioni per riformare il<br />

sistema, in quanto impatta direttamente sulla spesa assicurativa. A titolo di esempio, secondo le regole<br />

adottate nel 2003 questo periodo di tempo non indennizzabile è composto da tre elementi: un differimento<br />

di accesso all’indennizzo di 7 giorni, applicato a tutti, un eventuale ulteriore rinvio, nonché dei giornifranchigia<br />

proporzionali al livello di remunerazione dell’attività accumulata nel periodo di riferimento,<br />

diminuito di 30 giorni, per tutte le categorie di intermittenti: Menger, 2005 (N.d.T.).<br />

167


alle esigenze di datori di lavoro e lavoratori, anche grazie ad intermediari specializzati<br />

pronti a trovare la scappatoia per ottimizzare i “rendimenti” di tutte le parti negoziali. In<br />

questo caso, a parità di costo economico e finanziario del datore lavoro, era sufficiente<br />

modificare in modo acconcio i termini della transazione contrattuale per permettere al<br />

lavoratore di trovare il corretto risultato. Con una immagine cara a M., si trattava di<br />

“regolare il tassametro per permettere di mettere a punto differenti scenari di<br />

comportamento 1 ”.<br />

In questo rapporto “triangolare”, «i costi dell’organizzazione di un mercato flessibile<br />

del lavoro, in realtà, ricadono interamente sui lavoratori da una parte, e, dall’altra, sugli<br />

organismi sociali e, in primo luogo, sull’organismo incaricato di assicurare da solo i<br />

rischi sociali che appaiono qui costanti, vale a dire la disoccupazione».<br />

L’Unedic, e i collegati Assedic, costituiscono l’organismo chiamato a mettere in<br />

opera la più sofisticata delle regolamentazioni tra tutte quelle esistenti sull’indennizzo di<br />

disoccupazione, di gestire i dossier individuali di accesso e di indennizzo, di creare e<br />

fare evolvere un complicato e voluminoso sistema di trattamento di informazioni, e di<br />

esercitare un controllo quanto mai difficile 2 . In sostanza, vista la struttura stessa<br />

dell’organismo: «questo agisce sotto il controllo degli stessi partner sociali per definire<br />

e rivedere le condizioni di funzionamento “normale” del regime, e, in fin dei conti,<br />

stabilirne gli obiettivi di gestione, compreso fin dove la solidarietà interprofessionale<br />

può essere lecitamente sollecitata per coprire i deficit dei regimi particolari, tutto ciò<br />

producendo regole e sistemi di negoziazione che definire complessi e costosi è poco».<br />

Un altro ragionamento mi risultò stimolante: «Di fatto, l’Unedic e gli Assedic<br />

costituiscono l’equivalente di un dispositivo di gestione delle risorse umane del settore,<br />

poiché la flessibilità delle negoziazione contrattuale, la flessibilità procedurale e la<br />

flessibilità assicurativa sono funzionalmente accoppiate. […] Il vantaggio informativo<br />

che detengono i lavoratori e i datori di lavoro rispetto “all’assicuratore”, e i giochi<br />

strategici che questo vantaggio permette, causano dei comportamenti la cui tipologia<br />

può essere stabilita, ma il cui controllo resta difficile da realizzare 3 ». Di fatto, come<br />

ogni buon “assicuratore”, l’Unedic dovrebbe essere dotato di poteri e strumenti di<br />

ispezione che di fatto non ha, in particolare aumentando il suo livello di informazione<br />

da un punto di vista quantitativo ma, anche e soprattutto, qualitativo: dichiarazioni<br />

preventive di impiego, accoppiamento sistematico della documentazione e delle<br />

dichiarazioni di lavoratore e datore di lavoro, incrocio di dichiarazioni con altri<br />

organismi sociali, sono solo alcuni degli strumenti a disposizione per risolvere il<br />

1 Menger 2005: 112 (N.d.A.).<br />

2 L’Union Nationale Interprofessionnelle pour l’Emploi dans l’Industrie et le Commerce, nata fin dal<br />

1958 sotto forma di associazione, ha tra i propri membri le organizzazioni nazionali dei datori di lavoro e<br />

le organizzazioni sindacali firmatari della convenzione costitutiva dell’assistenza alla disoccupazione<br />

(aiuti per la reintroduzione al lavoro e indennizzo di disoccupazione). Le organizzazioni padronali di<br />

riferimento sono: il Medef (Mouvement des Entreprises de France), la CGPME (Confédération Générale<br />

des Petites et Moyennes Entreprises) e l’UPA (Union Professionnelle Artisanale). D’altro canto, le<br />

organizzazioni sindacali riconosciute a trattare sono: la CFDT (Confédération Française Démocratique<br />

du Travail), la CFTC (Confédération Française des Travailleurs Chrétiens), la CFE-CGC (Confédération<br />

Française de l’Encadrement CGC), la CGT-FO (Confédération Générale du Travail Force Ouvrière) e la<br />

CGT (Confédération Générale du Travail). Queste organizzazioni costituiscono “le parti sociali”<br />

riconosciute, chiamate in via ufficiale ad ogni negoziazione pubblica sui temi di lavoro.<br />

Se l’Unedic ha il compito di gestire il sistema di assistenza alla disoccupazione, è tramite i vari Assedic<br />

(Association pour l’Emploi dans l’Industrie et le Commerce) che essa opera a livello locale. (N.d.A.).<br />

3 Menger 2005: 116-117 (N.d.A.).<br />

168


problema di essere “sotto-informato”. Non è un caso che, come vedremo in seguito, a<br />

partire dal 2003 anche quello dei “controlli” diventerà un delicato oggetto di trattativa,<br />

salvo però sfociare in meccanismi ispettivi che, in alcuni casi denunciati all’opinione<br />

pubblica dagli stessi intermittenti, hanno superato i livelli della sorveglianza per<br />

sfociare in atteggiamenti che sono stati definiti “inquisitori o oppressivi 1 ”. Ad ogni<br />

modo, nonostante quello dell’accesso alle informazioni sia un argomento piuttosto<br />

delicato, raccomandato più volte nei numerosi rapporti sul tema del lavoro intermittente,<br />

solo nel 2004 sono state messe in cantiere le necessarie modificazioni legislative e<br />

regolamentari in quella direzione.<br />

M. mi mise in guardia anche su alcune questioni operative, o meglio su alcune<br />

pratiche, legate al funzionamento del sistema di indennizzo di disoccupazione, un<br />

bell’esempio per vedere all’opera i meccanismi di “selezione avversa” e di “azzardo<br />

morale” tipici di quelle situazioni teoriche che gli economisti chiamano “fallimenti del<br />

mercato”, come nel famoso “mercato dei bidoni” di Akerlof, o più in generale, tipici del<br />

mercato assicurativo. Intuitivamente non aveva tutti i torti: lavoratori e datori di lavoro<br />

potevano impiegare in una molteplicità di modi diversi l’informazione “privata” e<br />

difficilmente osservabile che essi detenevano con riferimento ai vari elementi del<br />

contratto di lavoro “intermittente”, dal loro calendario di impiego al piano complessivo<br />

di attività di una stagione, dalla rispettiva situazione finanziaria ai livelli di sforzo che<br />

sono pronti a sostenere per ottenere, vicendevolmente, il miglior rendimento possibile<br />

dall’accordo.<br />

La logica sottostante vista dal lato di un datore di lavoro è stringente rispetto alla<br />

lettera e allo spirito dello statuto degli intermittenti: «egli può assumere un artista o un<br />

tecnico sulla base di un contratto a tempo determinato che può rinnovare diverse volte<br />

in funzione della riuscita, a priori imprevedibile, dello spettacolo o del programma<br />

televisivo per il quale questo personale intermittente è stato impiegato»; ma invece di<br />

utilizzare un contratto a durata indeterminata o l’equivalente di un contratto di lavoro<br />

interinale (un C<strong>DI</strong> “à temps partiel” o “intermittent”) previsti dalla legge, può ricorrere<br />

al “CDD d’usage” in modo tale da integrare nelle sue libere scelte sul rischio artistico<br />

un più basso costo finanziario per un eventuale insuccesso, e nelle sue strategie di<br />

organizzazione della produzione i guadagni legati ad una elevata flessibilità<br />

contrattuale. In altri termini: «il rischio contro il quale il datore di lavoro è assicurato<br />

1 Durante l’estate del 2006, ad Avignone, in un incontro pubblico a Cloître-Saint Louis, assistetti al<br />

racconto di alcuni intermittenti organizzati, oramai da tre anni, in collettivi locali. Una serie di casi mi<br />

colpirono, relativi all’alta Normandia, per dovizia di particolari e per la durata del controllo: nell’ambito<br />

del Comitato Operativo di Lotta contro il Lavoro Illegale (COLTI), nell’ottobre del 2004 il Procuratore<br />

della Repubblica di Le Havre a messo in opera una campagna di controlli su diverse compagnie teatrali<br />

della zona; tra esse due furono oggetto di ispezione da parte di un distaccamento dell’ufficio del COLTI<br />

composto da una ispettrice del lavoro, un controllore di frodi dell’Assedic e un responsabile<br />

dell’amministrazione fiscale. Mi riprometto di tornare su episodi simili. Vorrei anche sorvolare sui giudizi<br />

di fondo relativi al caso specifico, non avendo gli strumenti di indagine sufficienti a fornire informazioni<br />

precise al mio lettore su: la correttezza o meno della posizione delle due compagnie di Le Havre; la<br />

situazione dei due lavoratori di una delle compagnie, di fatto accusati di frode; dell’effettivo lavoro svolto<br />

dall’ispettrice, la quale, sembra, accusi di due artisti di aver svolto due giornate di lavoro che non paiono<br />

assimilabili a “prove e ripetizioni”. L’episodio in sé fa, comunque, riflettere sul fatto che una procedura<br />

aperta nell’ottobre del 2004 si sia, in parte, conclusa nel maggio del 2006, impegnando tre funzionari<br />

pubblici, il presidente dell’associazione che gestisce l’attività della compagnia, l’intera amministrazione<br />

della compagnia stessa (a cui era stato chiesto di presentare tutta una serie di documentazioni), nonché i<br />

due artisti e l’ispettore di polizia che, nel maggio del 2006, ha proceduto all’arresto dei due<br />

“intermittenti”.<br />

169


assumendo sulla base dello statuto di lavoro più flessibile e meno costoso, conduce ad<br />

un “opportunismo post-contrattuale”: la copertura del rischio di disoccupazione<br />

attraverso un meccanismo assicurativo molto flessibile aumenta il livello di rischio del<br />

datore di lavoro, e ciò senza che il suo comportamento sia osservabile da parte<br />

dell’assicuratore». A questo si aggiunge l’altra faccia della medaglia, quella che suscita<br />

più scandalo e preoccupazioni in occasione delle periodiche crisi degli intermittenti: in<br />

questa sorta di “selezione avversa”, «il datore di lavoro non è tenuto a modificare il suo<br />

comportamento una volta che viene a sapere che il sistema di indennizzo si prenderà<br />

carico dei costi dei rischi maggiori che egli fa correre ai suoi dipendenti, specie se è<br />

consapevole che un suo eventuale cambiamento di comportamento risulta non facile da<br />

individuare». Questo genera una sorta di sovra-copertura del rischio di disoccupazione<br />

per i lavoratori che favorisce la moltiplicazione delle organizzazioni artistiche, la<br />

crescita dei progetti e delle situazioni di “sub-appalto” della produzione culturale ad una<br />

moltitudine di soggetti disseminati lungo tutta la filiera dello spettacolo. Situazione<br />

questa che si legittima in un quadro in cui il gran numero di attori che popolano la<br />

filiera stimano che sia “giusto” o quanto meno “ragionevole” «internalizzare i vantaggi<br />

del sistema di indennizzo quale rimedio attenuante di quelle che essi considerano come<br />

le insufficienze del finanziamento pubblico delle loro attività». E sempre M. mi faceva<br />

notare come «sia abbastanza facile far risalire questo calcolo di convenienza fino agli<br />

attori pubblici locali o nazionali che possono così permettersi di aumentare l’offerta<br />

culturale ripartendo le loro sovvenzioni su una moltitudine di strutture sotto-finanziate.<br />

Il ricorso al lavoro intermittente permette alle differenti categorie di operatori di<br />

aumentare i loro livelli di attività, e di disporre di una manodopera durevolmente<br />

reclutabile, senza che i costi del suo mantenimento in condizioni di impiegabilità siano<br />

presi in carico 1 ». In una inchiesta de “Le Monde” del 1992, parallela allo studio di Jean-<br />

Pierre Vincent, il giornalista titolava il suo reportage: “Le conflit des intermittents du<br />

spectacle. L’Unedic, premier mécène de France 2 ” (da “Le Monde” del 26 luglio 1992).<br />

1 Per tutte le riflessioni su questo tema irnvio a Menger 2005: capitolo 4. (N.d.A.).<br />

2 In quel dossier de “Le Monde”, che coincise con un altro momento particolarmente delicato nel conflitto<br />

degli intermittenti, il giornalista stesso sottolinea come sia necessario fare dei distinguo: « Une première<br />

clarification s’impose. Au-delà d’un certain seuil, à définir, l’UNE<strong>DI</strong>C ne peut supporter seule le poids<br />

financier, à la fois d’une profession aux modes de fonctionnement si particuliers, et de l’équilibre<br />

économique d'une activité si hautement spécifique. Alimentés par les cotisations des salariés et des<br />

employeurs, les fonds de l’assurance-chômage ne sauraient être affectés à une mission d’intérêt général<br />

qui devrait plutôt revenir à la collectivité nationale, et donc à l’impôt. En bonne logique, il faudrait<br />

admettre que la défense de l’outil culturel et la protection des artistes font partie des obligations des<br />

pouvoirs publics, au nom des valeurs communes, et que ceux-ci doivent s’en acquitter par le biais de<br />

subventions. Avec une difficulté, cependant : sans parler des critères de sélection ou de reconnaissance,<br />

cela reviendrait à créer un label d’artiste d’Etat...<br />

Dans la pratique, aussi, le système en vigueur révèle ses effets pervers, qui ne font qu’ajouter à<br />

l'incompréhension réciproque. Par la force de l’habitude, les intermittents voient dans le dispositif un<br />

moyen de rémunération, une assurance avec un droit de tirage, quand les partenaires sociaux raisonnent<br />

en termes de mutualisation d'un risque. De même, les employeurs du spectacle, à la condition de respecter<br />

leurs obligations sociales, en sont venus à établir leurs budgets en tenant compte de l’apport des<br />

ASSE<strong>DI</strong>C, alors que, en droit, les allocations de chômage ne sauraient faire partie des éléments de<br />

gestion. […] Mais ces utilisations habiles de la règlementation, qui ont abouti à un détournement des<br />

objectifs d’origine, ont également des conséquences néfastes pour les professions en cause. L’abus de<br />

l’intermittence, commode pour tous, employeurs et salariés, a provoqué une baisse de l’emploi stable et,<br />

de fait, a induit une aggravation de la précarité. C’est d'ailleurs en évoquant ce travers que Mme Aubry,<br />

ministre du travail, a proposé l’ouverture de discussions sur les conditions de travail».<br />

170


In sostanza, era legittimo parlare di comportamenti “devianti” rispetto alla norma. M.<br />

distingueva almeno tre tipi di comportamento:<br />

- il primo è “conforme” alla logica di un sistema di protezione contro la precarietà e la<br />

discontinuità del lavoro. Il lavoratore ricorre all’indennizzo di disoccupazione nel<br />

momento in cui termina un contratto e in attesa di un nuovo impiego 1 ;<br />

- un secondo tipo di comportamento è definito come “strategico”, in quanto raggiunte<br />

le ore necessarie ad accedere al sistema, può permettersi di selezionare le ulteriori<br />

offerte di lavoro sulla base delle proprie preferenze, delle proprie scelte<br />

professionali e del livello di remunerazione;<br />

- il terzo tipo di comportamento devia apertamente dal rispetto delle regole e si basa<br />

su tutti i possibili aggiustamenti “tattici” che permettono al lavoratore di ottimizzare<br />

i proprio conti con riferimento al sistema di indennizzo, di negoziare col datore di<br />

lavoro il contratto e, di conseguenza, rendere massimo il suo tasso di indennizzo e<br />

minimo il costo per l’organizzazione artistica.<br />

Per rafforzare ulteriormente queste sue tesi, M. mi mise a parte di un’altra strategia<br />

d’azione: la sottile alchimia della “data anniversario”. Io stesso non riuscirei a spiegarlo<br />

meglio di come lui fece con me, quindi cercherò di usare, quanto più possibile, le sue<br />

stesse parole. Intanto, la “data anniversario” fa riferimento alla data precisa, che<br />

l’intermittente, fino al 2003, conosceva, in cui aveva termine la sua posizione. La sua<br />

preoccupazione, quindi era triplice: accumulare, entro quella data, un numero di ore o di<br />

cachet sufficienti per essere riammesso all’indennizzo; accumulare ore o cachet di<br />

lavoro al miglior prezzo possibile, per aumentare il suo tasso di indennizzo (calcolato,<br />

come forse il lettore avrà immaginato, sulla base di complesse formule che tengono<br />

conto anche dei contributi versati e, quindi, dell’ammontare del contratto); e, cosa<br />

estremamente sottile, far figurare il suo ultimo contratto con un termine quanto più<br />

prossimo alla “data anniversario”. Ovvio che, se per i primi due casi, essi potevano<br />

apparire ragionevoli, mi domandai “perché?” per quanto concerneva l’ultimo punto.<br />

Propongo al lettore l’esempio che egli fece a me. «La riammissione era istruita, alla<br />

data anniversario, da una parte verificando se fossero state accumulate almeno le 507<br />

ore nei dodici mesi coperti dal periodo di accesso al diritto di indennizzo, e dall’altra<br />

risalendo, in conformità con le regole generali, alla data in cui era terminato l’ultimo<br />

contratto di lavoro ottenuto. Se, per esempio, la data anniversario era il 15 marzo 2002,<br />

ma l’ultimo contratto ottenuto era datato 8 gennaio, l’indennizzo sarebbe riportato su<br />

quella nuova data anniversario. L’intermittente che aveva lavorato abbastanza per essere<br />

riammesso alla sua posizione il 16 marzo, sarebbe stato indennizzato dopo aver<br />

applicato un differimento attraverso una sorta di franchigia che doveva tenere conto del<br />

fatto che egli non aveva lavorato già a partire dall’8 gennaio e fino il 16 marzo. In<br />

sostanza aveva già “consumato” una parte dei nuovi diritti acquisiti a partire dal 16<br />

marzo 2 ». La conseguenza è semplice: gli sarebbe stato “strategicamente” più utile<br />

cercare di situare l’ultimo contratto appena prima che venisse riesaminata la sua<br />

1 Resta da evidenziare che secondo dati del 2003 tra i circa sei mila intermittenti che risultano avere un<br />

salario orario inferiore al minimo (lo SMIC in Francia, “salaire minimum de croissance”), il 30 %<br />

lavorano più di 750 ore (e il minimo per l’accesso al sistema è di 507). In generale, sempre su dati del<br />

2003 e tenendo contro invece di tutti gli intermittenti dello spettacolo, la metà lavora (o dichiara di<br />

lavorare) meno di 600 ore, per un salario che varia dai 4.000 ai 15.000€; un 10% lavora fino a 700 ore<br />

per arrivare al medesimo livello di salario, e solo il 20%, lavorando anche più di 1000 ore può arrivare a<br />

41.000 € di salario complessivo annuo (Rapporto Guillot).<br />

2 Menger 2005: 128 (N.d.A.).<br />

171


posizione al momento della “data anniversario”, in modo tale da non vedersi “amputati”<br />

parte dei dodici mesi successivi di indennizzo. Difficile a credersi, ma in effetti era<br />

possibile osservare come, nella realtà dei fatti, la maggioranza degli intermittenti erano<br />

capaci di aumentare in modo brusco la quantità di lavoro remunerato e dichiarato<br />

proprio a ridosso dei giorni della loro “data anniversario”, facendo ricorso a quello che<br />

era il loro “datore di lavoro di riferimento”. Questa sorta di “bulimia lavorativa forzata”<br />

aveva anche un altro importante effetto: “l’attivismo dell’ultima settimana”, come lo<br />

chiamava M., specie nel caso degli artisti, serviva anche a coprire il monte ore<br />

necessario alla riapertura della propria posizione, facendo affidamento a “contratti<br />

sicuri”. M. aggiunse anche che: «vederci, in tutto questo, un comportamento discutibile<br />

o criticabile, è disconoscere cosa significa la costruzione di una regola, la ricerca di un<br />

margine di manovra di quella regola, e il gioco della negoziazione tra coloro che<br />

vogliono diminuire e chi vuole preservare il margine strategico di utilizzo opportuno<br />

della regola stessa, qui come in qualunque altro spazio decisionale». Indubbiamente era<br />

una riflessione ragionevole e ponderata 1 .<br />

Tutta questa vasta gamma di pratiche, che ho solo parzialmente cercato di richiamare<br />

all’attenzione, si è dispiegata nel tempo per accompagnare la flessibilità organizzativa<br />

tipica della produzione artistica con una flessibilità “legale”, e un’economia della<br />

produzione artistica con una economia di “ridistribuzione” sociale del rischio del lavoro.<br />

M. teneva a manifestare una ulteriore perplessità: come si passa da una “cooperazione<br />

vantaggiosa” per tutti ad una “denuncia delle frodi” che permetta il mantenimento del<br />

sistema? L’arbitraggio, la scelta, in favore del lavoro intermittente può diventare<br />

oggetto di denuncia, in quanto percepito come ingiustificato, solo nelle organizzazioni e<br />

nelle situazioni lavorative in cui coesistono diverse forme di contratti. In questi casi,<br />

infatti, risulta evidente agli stessi lavoratori come il consenso “compiacente” per i<br />

contratti “temporanei” rientri, in sostanza, solo nell’ambito di una arbitraria logica di<br />

sostituzione di lavoro professionale stabile con lavoro, magari altrettanto professionale,<br />

ma precarizzato. Questa osservazione di M. spiegava, infatti, un altro paradosso del<br />

sistema: sarebbe normale immaginare che soprattutto le grandi imprese dell’audiovisivo<br />

siano i “colpevoli ideali” a cui indirizzare l’attenzione per cercare gli utilizzi più<br />

fraudolenti dello statuto degli intermittenti. Ebbene, come spesso accade nei grandi libri<br />

gialli, il colpevole perfetto non sempre è il vero assassino: infatti, tipicamente le<br />

organizzazioni in cui si hanno le situazioni lavorative più variegate e in cui, quindi, si ha<br />

una sorta di controllo “sociale” almeno per certe categorie professionali, coincidono con<br />

le organizzazioni di maggiore dimensione; e queste sono proprio concentrate nel settore<br />

dell’audiovisivo, sia pubblico che privato 2 .<br />

1 Per una interessante analisi sulla nascita, il cambiamento e la strutturazione delle regole rinvio a March,<br />

Schulz, Zhou 2003. Tornerò in seguito sulle sollecitazioni proposte da March, Cyert, Simon, Raiffa,<br />

Weick o altri studiosi di organizzazione e strategia, che hanno guidato le riflessioni a latere di N. su<br />

questo interessante caso di “costruzione di regole” dalla dinamica molto particolare (N.d.A.).<br />

2 In un rapporto del 2004 dedicato proprio all’utilizzo del “CDD d’usage” nel settore dell’audiovisivo,<br />

emergeva proprio che i conti assicurativi del settore (rapporto tra contribuzione e indennizzi) erano molto<br />

più equilibrati rispetto a quelli di altri settori dello spettacolo. Ovviamente, il tasso di ricorso<br />

all’intermittenza è mediamente molto alto a causa delle dimensioni medie delle stesse organizzazioni (con<br />

la particolarità che ricorrono allo statuto dei lavoratori intermittenti soprattutto le imprese<br />

dell’audiovisivo pubbliche rispetto a quelle private). Bisogna comunque sottolineare che il monitoraggio<br />

di quel rapporto era limitato ai canali televisivi e non al gran numero di società di produzione a cui queste<br />

si rivolgono per la realizzazione dei programmi (N.d.T.).<br />

172


La rivendicazione dello statuto degli intermittenti è collegabile ad un “regime di<br />

lavoro”, ad un modo di percepire il lavoro, che si trasforma in una vera e propria<br />

identità sociale e professionale, un motivo di lotta per la trasformazione del lavoratore<br />

“ordinario” in una vera comunità di professionisti; questi, adottano pratiche quotidiane<br />

che si articolano in modo sofisticato tra un sistema di lavoro che “ordinario” non è e un<br />

sistema di regole di protezione sociale che “ordinario” non lo è mai stato. Per arrivare,<br />

almeno approssimativamente, a comprendere questo fenomeno, l’ammonimento di M.,<br />

da buon sociologo, era preciso: «per molti, questa “professionalità” attiene alla<br />

conoscenza stessa di queste regole, che sono così minuziosamente apprese e condivise<br />

all’interno del settore che esse sono difficili da decifrare al suo esterno, e in particolare<br />

per coloro, lavoratori e datori di lavoro di tutti gli altri settori economici, che finanziano<br />

oltremodo il suo funzionamento». Solo in questi termini è possibile dare una<br />

interpretazione ragionevole al fatto che se si chiede “Che lavoro fa?” ad un artista o a un<br />

tecnico francesi che operano nel settore dello spettacolo, questi rispondono, senza<br />

indugio: “Je suis intermittent!”.<br />

Appendice<br />

[Le tabelle raccolte in questa sorta di appendice statistica sono tratte da Menger<br />

2005. Contengono le medesime informazioni che, ritenute interessanti da N., sono state<br />

selezionate, commentate e analizzate in parti diverse del racconto che precede.<br />

Costituiscono, pertanto, un supporto interpretativo aggiuntivo a disposizione del lettore<br />

che, quindi potrà farne l’uso che riterrà più opportuno].<br />

173


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175


176


XIII<br />

(Giovedì, 10 luglio 2003: “Ce 57 e Festival est clos!”. Il periodo di incubazione: uno “strano” caso di<br />

riforme tentate e mai veramente realizzate)<br />

Dove si analizza come l’organizzazione-festival ha gestito la crisi dello sciopero degli<br />

“intermittenti” dello spettacolo e in cui il lettore scopre come alcuni processi di<br />

negoziazione nel settore pubblico siano legati ad una serie di decisioni (organizzative)<br />

controverse <br />

L’imprecisione nelle norme o l’inadeguatezza sopraggiunta di credenze che<br />

sembravano condivise, generarono l’accumularsi di una serie di eventi che fecero<br />

collassare il sistema culturale sul quale stiamo indagando. Ma sia M. che io<br />

concordavamo sul fatto che una «discrepanza fra il modo in cui si crede che il mondo<br />

funzioni e il modo in cui esso funziona davvero» non si genera improvvisamente, da un<br />

giorno all’altro. Durante questo “periodo di incubazione” «una sequenza o una serie di<br />

sequenze di eventi discrepanti si sviluppano e si accumulano senza essere notati 1 ». I<br />

pericoli dapprima sono vaghi, parzialmente inosservati: dalla investigazione successiva<br />

e dal resoconto di M. evidenzieremo, cioè, una serie di accadimenti discordanti senza<br />

una apparente relazione col “disastro” che ha effettivamente avuto luogo, sia del tipo di<br />

“eventi a tutti noti”, sia di eventi conosciuti ma che non tutti gli interessati<br />

comprendono (e che implicheranno una differente comprensione dopo il disastro).<br />

La convinzione iniziale suggeritami da M., che forse avevo un po’ rivisitata ma credo<br />

non travisata, era collegata all’ipotesi che una “comunità di pratica 2 ” si fosse costituita<br />

attorno a processi di apprendimento distinti, attivati attraverso il coinvolgimento in<br />

particolari pratiche sociali, attraverso cui i “lavoratori intermittenti” imparano ad essere<br />

tali costruendo una forte identità basata su significati condivisi.<br />

Questo stadio, quindi, nel caso specifico della questione degli intermittenti del 2003,<br />

aveva delle caratteristiche conoscitive particolari, collegabili all’idea che qualcuno ha<br />

messo in discussione, in modo più o meno consapevole e più o meno forzato rispetto ad<br />

altre situazioni e momenti, alcuni elementi che gli intermittenti considerano costitutivi<br />

della loro stessa “comunità di professionisti dello spettacolo”.<br />

Dal 1984 fino al 1997 ci furono almeno tre importanti episodi di conflittualità<br />

sull’intermittenza. La particolarità di quegli avvenimenti sembrava essere l’incredibile<br />

invarianza rispetto alle proprietà di fondo e alle caratteristiche che era possibile<br />

rintracciare: in ogni occasione, quasi in modo seriale, immancabile si ripeteva una sorta<br />

di copione per quello che forse è uno dei più lunghi e atipici conflitti del mondo del<br />

lavoro in tutta Europa, forse meno temerario e famoso di quello di tatcheriana memoria<br />

che coinvolse i minatori inglesi per un anno, a cavallo del 1984-1985 3 .<br />

Il 29 febbraio del 1984 un accordo dell’Unedic rimise in discussione la proroga del<br />

regime di indennizzo degli intermittenti oltre il 31 marzo.<br />

Lungo tutto il mese di marzo la mobilitazione dei lavoratori dello spettacolo fu<br />

fortissima: il rischio apparente era quello di una soppressione del regime. Nonostante le<br />

1 Turner, Pidgeon 2000<br />

2 Mi riferisco al significato che Wenger attribuisce a tale fenomeno (Wenger 1998) (N.d.T.)<br />

3 Una indimenticabile lettura di quel fatto di cronaca fu il romanzo-inchiesta di David Peace, quanto mai<br />

opprimente, estenuante, appassionato nel suo racconto: “GB84” (Peace 2006). Posso senz’altro<br />

ammettere che quel romanzo ebbe un ruolo decisivo nel convincermi a raccontare, sebbene in modo<br />

impacciato e insicuro, le vicende che sono ora sotto gli occhi del mio lettore (N.d.T.).<br />

177


assicurazioni del governo, questi con un decreto del novembre del 1982 aveva indicato<br />

chiaramente l’esigenza di realizzare delle economie all’interno del budget dell’Unedic.<br />

L’8 marzo le decisioni radicali che sembravano portare ad un sostanziale<br />

dissolvimento del regime vennero “sospese”.<br />

Il 15 marzo uno sciopero generale indetto da CGT, CFDT e CGC fermò l’attività di<br />

un gran numero di teatri parigini: la nuova convenzione dell’Unedic prevedeva di<br />

allineare gli intermittenti al regime generale dei lavoratori precari disoccupati o a quello<br />

dei lavoratori interinali. Nel caso in cui fossero fallite le negoziazioni previste per il<br />

successivo 19 marzo, il ministro della cultura avrebbe appoggiato una proroga del<br />

regime transitorio in vigore. In effetti, il regime verrà prorogato di due mesi.<br />

Nonostante una missione di studio affidata all’Ispettorato generale degli affari<br />

sociali, la vecchio convenzione fu prolungata ulteriormente fino a luglio. Per tutto il<br />

mese di giugno si susseguono le manifestazioni degli intermittenti con emissioni<br />

televisive sospese, riprese cinematografiche ritardate, rappresentazioni teatrali annullate.<br />

Il 25 giugno, sulla base di una proposta della FO, con alcune modifiche al calcolo del<br />

montante degli indennizzi di disoccupazione e dei livelli di franchigia, un nuovo<br />

protocollo venne firmato da tutte le parti sociali, CGT esclusa.<br />

Nel settembre del 1991 si aprirono le negoziazioni tra i partner sociali sull’insieme<br />

del regime di indennità di disoccupazione. Dalla stampa si apprende che le<br />

organizzazioni padronali vedrebbero di buon occhio la creazione di “un fondo specifico<br />

al di fuori dell’Unedic”. Il 25 settembre “Le Figaro” pubblica un articolo intitolato:<br />

«Polémique sur l’indemnisation des gens du spectacle. Ces stars qui pointent au<br />

chômage. Elles sont riches et célèbres. Et pourtant elles frappent réguilièrement aux<br />

portes de l’Unedic, au même titre que les petits figurants nécessiteux». Il giorno<br />

successivo “Le Parisien” titola la sua sua rubrica “Le fait du jour”: «Les chômeurs de<br />

luxe dans le collimateur». “Le Figaro” titola nuovamente: «Chômage des stars : remous<br />

au CNPF 1 ».<br />

I giorni seguenti ulteriori manifestazioni degli intermittenti dello spettacolo: «Erano<br />

in sette o otto mila secondo i sindacati CGT dello spettacolo che avevano organizzato la<br />

manifestazione del 10 ottobre, cinque mila secondo la polizia, a sfilare da Les Invalides,<br />

vicino al ministero del lavoro, fino a place du Palais-Royal, sotto le finestre di M. Jack<br />

Lang [allora ministro socialista della cultura e dell’educazione – n.d.t.]». Secondo la<br />

CGT mancherebbero i contributi delle grandi imprese e il deficit dell’Assedic dello<br />

spettacolo sarebbe il frutto non tanto delle frodi dei lavoratori quanto di una<br />

“straordinaria disorganizzazione”. Il CNPF (l’attuale Medef) conferma la sua posizione<br />

generale: l’Unedic “non è stata inventata per sovvenzionare la cultura”; meglio una<br />

gestione più sana piuttosto che un aumento dei contributi, ferma restando la proposta<br />

della sparizione degli allegati VIII e X in favore della creazione di un fondo di sostegno<br />

gestito dallo Stato (da “Le Monde” del 12 ottobre 1991).<br />

Al primo luglio del 1992, in seno alla commissione paritetica creata in seguito alle<br />

vicende di ottobre, permane il disaccordo tra i partner sociali.<br />

“L’Humanité” scrive: «Ancora una volta i diritti sociali degli artisti e delle altre<br />

professioni dello spettacolo, intermittenti per obbligo e non per scelta, si ritrovano sul<br />

banco degli imputati. Ci si ricorderà che in dicembre, dopo una lotta colorita nelle<br />

forme, efficace nel metodo, unitaria e unificante, Jack Lang, a nome del governo, aveva<br />

finito per ammettere che non ci sarebbe state modifiche nell’indennità di<br />

1 L’attuale Medef.<br />

178


disoccupazione degli intermittenti nel 1992 e che una forma di concertazione sulla<br />

condizione sociale degli intermittenti dello spettacolo andava tenuta a breve. Non era<br />

gran cosa, ma era meglio della prima dichiarazione del ministro del lavoro, M.me<br />

Aubry, che asservita al CNPF (l’attuale Medef – N.d.T.) credeva di poter gettare in<br />

pasto all’opinione pubblica tutte quelle modeste, difficili, incerte vite che ruotano<br />

attorno allo spettacolo e alla cultura. Tutta una professione si rivolterà allora per<br />

rigettare le infamanti accuse di essere dei privilegiati e dei ladri.<br />

Ma ecco che ora tutto ricomincia. Le CNPF apre le danze esigendo l’inaccetabile. Le<br />

sue proposte mirano allo stesso tempo ad escludere massicciamente i professionisti<br />

dello spettacolo da ogni forma di indennizzo di disoccupazione e a ridurre<br />

considerevolmente i diritti di coloro che potrebbero ancora accedere agli allegati VIII e<br />

X. E non essendo i datori di lavoro dello spettacolo rappresentati attraverso il CNPF,<br />

ogni modifica dei diritti sociali specifici devono, per divenire applicabili, ricevere il<br />

consenso del ministro del lavoro. Dunque, il governo dovrà nuovamente prendere<br />

posizione. Da un punto di vista strettamente concorrenziale, e del mercato capitalista, i<br />

diritti sociali e il conseguimento dei diritti democratici che abbiamo citato sono, in<br />

quanto costi sociali, da ridurre, vedi da eliminare, per i datori di lavoro e le classi<br />

dirigenti di questa nuova Europa […]. Ora, questa cieca corsa alla redditività per<br />

distruggere, ad una ad una, tutte le culture nazionali dei paesi d’Europa e, lungi<br />

dall’organizzare le cooperazione indispensabili, rischia di amplificare la dominazione<br />

della monocultura americana, portata attraverso le più potenti multinazionali, come è<br />

già il caso del campo dell’audiovisivo e del cinema». Seppur ideologizzata, in fondo<br />

questa è la dottrina “dell’eccezionalità culturale francese”.<br />

Lo storico Théâtre de l’Odéon è occupato. Nel condannare quel gesto, il ministro<br />

Jack Lang ricorda ai manifestanti che solo nell’ambito della commissione ha senso la<br />

trattativa ed è compito dei partner sociali assicurare la gestione del regime<br />

interprofessionale di indennità di disoccupazione e di negoziare il riassetto reso<br />

necessario dal disequilibrio finanziario del regime. «Le negoziazioni devono perseguirsi<br />

secondo i principi richiamati ai partner sociali dal ministero del lavoro: la salvaguardia<br />

del principio di solidarietà interprofessionale del regime di indennità di disoccupazione,<br />

l’adattamento del regime alle caratteristiche particolari di questa attività e l’equità delle<br />

regole di indennizzo dei datori di lavoro» (da “Le Monde” del 4 luglio 1992).<br />

Il 9 luglio la protesta di allarga e il ministro del lavoro, M.me Martine Aubry, chiede<br />

ufficialmente al presidente dell’allora CNPF che venga preservato il principio<br />

dell’esistenza di un regime specifico degli intermittenti, nell’ambito del quadro della<br />

solidarietà interprofessionale e quindi all’interno dell’Unedic.<br />

Il 16 luglio è dichiarato uno sciopero ad Avignone. Alain Crombeque, all’epoca<br />

direttore artistico del Festival di Avignone, decide di annullare le rappresentazioni di<br />

quella giornata. In una “famosa” lettera aperta del ministro del lavoro a Cronbeque,<br />

apparsa su “Le Monde” del 19-20 luglio si legge: «Gli intermittenti dello spettacolo<br />

devono poter beneficiare della solidarietà interprofessionale in seno al regime di<br />

indennità di disoccupazione e disporre delle condizioni di indennizzo che tengano conto<br />

del carattere intermittente della loro attività e della specificità del loro mestiere nel<br />

quadro di regole equilibrate e giuste. […] Il Governo sarà attento al rispetto scripoloso<br />

di questi principi di equità e specificità. […] Dietro le inquietudini che si manifestano<br />

oggi ci sono dei veri problemi […]: lo statuto sociale, le condizioni di lavoro».<br />

Nell’articolo che segue il giornalista sottolinea come, secondo il ministro, i quella<br />

faccenda ci sarebbe stata della “cattiva informazione”, addirittura della disinformazione<br />

179


da parte della stessa CGT, la quale, ricorda il ministro, “non è in effetti firmataria dei<br />

famosi allegati VIII e X della convenzione Unedic che il sindacato vorrebbe ora<br />

difendere”. Sempre il ministro del lavoro: «Questo sistema genera un certo numero di<br />

effetti perversi. Ognuno sa come il sistema attuale svuoti progressivamente certe<br />

istituzioni culturali del loro lavoro permanente a favore del lavoro intermittente, più<br />

precario. Ognuno sa che le regole attuali avvantaggiano coloro che non dichiarano<br />

correttamente la propria attività nel momento in cui hanno raggiunto la soglia delle 507<br />

ore. Ognun sa che oggi sfruttano il regime degli allegati VIII e X certi lavoratori che<br />

non sono né tecnici né artisti. Delle strutture sono messe in piedi con il solo scopo di<br />

“succhiare il massimo” dalle regole attuale a discapito degli Assedic. […] La continuità<br />

di un sistema specifico […] presuppone quindi che siano corretti certi sbagli del sistema<br />

attuale. […]» Tra le “modifiche importanti” che furono previste dai partner sociali:<br />

l’adozione di un solo coefficiente di conversione dei cachet in ore di lavoro per il<br />

calcolo dell’apertura del diritto; il conteggio del salario giornaliero di riferimento e non<br />

più del monte salariale annuo per stabilire i termini della franchigia, mentre la<br />

disposizione in vigore favorirebbe coloro che dichiarano grossi guadagli su dei periodi<br />

di lavoro brevi; la regressività dell’allocazione a partire dal 92° giorno o più se la durata<br />

del versamento dei contributi è stata più lunga.<br />

Nella notte tra il 17 e il 18 luglio viene proposta una bozza di accordo sull’intero<br />

regime di indennizzo di disoccupazione.<br />

Alla fine di luglio vengono resi pubblici due rapporti, tra cui quello di Jean-Pierre<br />

Vincent, il quale contesta le cifre circolate secondo cui i due terzi degli intermittenti<br />

rischierebbero di essere espulsi dal sistema. Risale a questi giorni l’inchiesta di “Le<br />

Monde” su l’Unedic quale primo mecenate di Francia.<br />

Nel settembre del 1992 le negoziazioni continuano. Indetto uno sciopero generale il<br />

23 settembre, poi rinviato al 24. Un protocollo di accordo, i cui contenuti saranno<br />

mantenuti identici fino al 1996, è firmato nella sede dell’Unedic il 25.<br />

Quella convenzione ha termine il 31 dicembre del 1996: cominciano le negoziazioni<br />

e come sempre, ritorna in auge la questione degli allegati VIII e X.<br />

Il 3 dicembre, per l’ennesima volta, le organizzazioni padronali annunciano<br />

pubblicamente la loro intenzione di volere rivedere il regime particolare degli<br />

intermittenti e di assimilarlo a quello dei lavoratori interinali dell’allegato IV; in<br />

alternativa viene rilanciata l’ipotesi di creare un regime autonomo distaccato da quello<br />

dell’Unedic. Ancora una volta i sindacati si mobilitano e, ancora una volta, vengono<br />

rese pubbliche statistiche catastrofiche secondo cui 4 intermittenti su 5 sarebbero espulsi<br />

dallo statuto nel caso fossero assimilati ai lavoratori interinali. A partire dal 5 dicembre,<br />

l’abituale strategia dello scontro tra rapporti di forza contrapposti si mette in modo.<br />

Il 10 e il 18 dicembre sono due giornate di scioperi e manifestazioni con<br />

l’occupazione di direzioni dipartimentali del lavoro, sedi locali Assedic, camere di<br />

commercio, direzioni regionali degli affari culturali, teatri sia a Parigi (persino con una<br />

seppur breve occupazione dell’Opéra Garnier e l’annullazione di spettacolo della<br />

Comèdie Françaises) e in tutta la Francia (Marsiglia, Bordeaux, Tolosa, Villeurbanne,<br />

ecc.). Come nei casi passati, il ministro del lavoro rinvia le parti sociali al tavolo delle<br />

negoziazioni; mentre il ministro della cultura in carica si dichiara sensibile alla<br />

situazione dei professionisti della cultura auspicando il mantenimento del regime<br />

specifico.<br />

Assecondando la richiesta dei due ministri, l’Unedic proroga di quattro mesi il<br />

protocollo, fino al 30 aprile 1997.<br />

180


Nel gennaio 1997, nel tentativo di dare voce alle organizzazioni artistiche che non<br />

sono rappresentate negli organismi padronali, i datori di lavoro del settore si<br />

raggruppano ma non vengono riconosciuti come una parte abilitata a negoziare, tant’è<br />

che la CGT si rifiuta di prendere parte ufficialmente alle discussioni. Il rituale prevede<br />

la trattativa sulla base delle consuete soluzioni: definizione di un nuovo campo di<br />

applicazione dei due allegati VIII e X e nuove modalità di calcolo dell’indennità.<br />

A marzo Pierre Cabanes, consigliere di Stato, è nominato mediatore e consegna un<br />

altro rapporto che preconizza il mantenimento dei due allegati e un migliore<br />

inquadramento della loro gestione e del funzionamento del sistema d’impiego degli<br />

intermittenti.<br />

A metà aprile senza che la trattativa tra le parti sociali converga su alcuna delle<br />

proposte di riforma, le organizzazioni padronali accettano di prorogare l’accordo per<br />

altri diciotto mesi.<br />

Il 20 gennaio del 1999 viene firmato un nuovo accordo con: una piccola modifica al<br />

campo di applicazione; con la decisione di conteggiare i cachet per i soli artisti (e non<br />

anche per i tecnici); con una modifica al calcolo del salario giornaliero di riferimento a<br />

partire dal salario reale di tutte le professioni senza distinguere il caso specifico del<br />

cinema e dell’audiovisivo); la messa in opera di un nuovo intervallo, unico per tutti, per<br />

la franchigia riguardante la riapertura di una nuova posizione.<br />

Ciò che accadde da lì a quattro anni è cosa recente ed è il punto di partenza di questo<br />

racconto.<br />

***<br />

Tra i primi articoli che ritrovai raccolti nella rassegna stampa del Festival, fui colpito<br />

da uno in particolare: si riferiva proprio ad un mercoledì di fine gennaio, quando le<br />

pagine economiche di “Le Monde” cominciarono a dare notevole risalto ai rilievi dalla<br />

Corte dei conti sull’andamento dei conti pubblici francesi 1 . Come era finito un articolo<br />

di tale natura nella rassegna stampa sul Festival di Avignone del 2003? Ebbene, tra i<br />

vari richiami dei magistrati del supremo organo del diritto amministrativo francese, al<br />

governo venivano sollevate perplessità anche sulla gestione del regime di indennizzo di<br />

disoccupazione degli “intermittenti” del cinema, dell’audiovisivo e dello spettacolo dal<br />

vivo. La «deriva finanziaria» degli allegati VIII e X del relativo fondo di assistenza alla<br />

disoccupazione – un deficit dell’ordine dei sette-ottocento milioni di euro, con le cifre<br />

che differivano a seconda delle fonti – veniva imputata ad una regolamentazione<br />

definita come stranamente «attrattiva» e foriera di abusi che non venivano monitorati e<br />

puniti per l’assenza di adeguati meccanismi di controllo del fenomeno.<br />

Era necessario intervenire per riformare la materia. Di nuovo. E presto.<br />

Un salto di un paio di settimane mi riportò a quella serie di articoli datati tra il 18 e il<br />

26 febbraio 2003: dopo meno di due ore di riunione, i rappresentanti della federazione<br />

1 Presentata ufficialmente all’inizio dell’anno in quella atmosfera di solenne imponenza e risalto pubblico<br />

che è propria delle istituzioni repubblicane francesi, la consueta relazione di fine anno del massimo<br />

organo amministrativo francese era stata consegnata settimane prima nelle mani dei Presidenti della<br />

Repubblica, dell’Assemblea Nazionale e del Senato (N.d.T.).<br />

Come il lettore senz’altro ricorderà, alcuni degli articoli qui richiamati furono gli stessi che, ripresi<br />

nell’incipit del capitolo XI, permisero ad N. di avere le prime, contrastanti notizie su ciò che stava<br />

accadendo nel 2003 e che gli impedendì di partecipare al Festival di quell’anno. Ora N. aveva modo di<br />

approfondire la questione (N.d.A).<br />

181


sindacale della CGT, largamente maggioritaria tra i lavoratori del settore dello<br />

spettacolo, uscivano da rue de Valois 1 abbandonando il tavolo di lavoro del CNPS 2 ,<br />

convocato dall’allora Ministro della cultura: «[…] Jean-Jacques Aillagon a donné le feu<br />

verte au Medef pour casser le système spécifique d’assurance-chômage des intermittents<br />

de nos professions”…“La dernière pelletée de terre vient d’être jetée. Malraux est<br />

définitivement enterré 3 ”» (da “Le Monde” del 20 febbraio 2003). Un delegato<br />

dipartimentale del sindacato francese degli artisti dichiarerà: «Nous sommes réellement<br />

déçus. Nos représentants ont dû quitter la réunion avant l’heure au regard de l’attitude<br />

méprisante de notre ministre. Il a considéré en effet qu’il y avait trop de troupes en<br />

France et que nos Assédic n’étaient pas son affaire […]» (da “La Provence” del 19<br />

febbraio 2003).<br />

Oltre alle posizioni radicali dei sindacati degli artisti, anche il Syndeac, il sindacato<br />

nazionale dei direttori di imprese artistiche e culturali, esprimeva viva preoccupazione:<br />

«“[…] tout le monde est d’accord pour dire que le régime a besoin d’être réformé. Mais<br />

on ne peut pas se contenter d’édicter une série de mesures techniques sans se poser la<br />

question de la politique culturelle”. Le syndicat attendait du gouvernement qu’il prenne<br />

en compte “la réalité du financement du secteur” à travers la mise en place, qui cours<br />

de la réunion, d’un “calendrier d’engagements formels allant dans ce sens”. Il n’a pas<br />

obtenu satisfaction. “Le probleme est moins lié a un manque de volonté de la part du<br />

ministre qu’à la faiblesse de sa marge de manœuvre dans un gouvernement qui n’à pas<br />

inscrit la culture parmi ses priorités”» (da “Le Monde” del 20 febbraio 2003, il corsivo<br />

è mio).<br />

Il CNPS, organo consultivo del ministero, doveva solo preparare l’incontro tra le<br />

parti sociali per avviare una modifica dello statuto degli “intermittenti”: la riforma<br />

andava realizzata entro i primi sei mesi dell’anno, per evitare che la normativa<br />

decadesse creando una pericolosa situazione di vuoto legislativo.<br />

In avvio di quella riunione, lo stesso Ministro della cultura si era affrettato a<br />

riaffermare la posizione ufficiale del Governo, vale a dire: «l’attachement du<br />

gouvernement à la pérennité du régime (…), dans le cadre de la solidarité<br />

interprofessionnelle». Sempre dai quotidiani del 20 febbraio si apprendeva come il<br />

governo fosse fermamente convinto della necessità di sradicare gli abusi più o meno<br />

latenti del sistema; in tal senso si annunciava la costituzione di un gruppo di lavoro che<br />

predisponesse le misure per accompagnare la riforma degli allegati VIII e X<br />

dell’Unedic. Restava ferma, però, la sostanziale strategia attendista del governo, basata<br />

sul principio per cui la negoziazione della riforma doveva restare in capo ai partner<br />

sociali: vale a dire la trattativa avrebbe visto impegnati, presumibilmente, gli stessi<br />

membri dell’Unedic, l’associazione chiamata, in materia di lavoro, a gestire il regime di<br />

assistenza alla disoccupazione e ad amministrarne i fondi. Il Governo avrebbe approvato<br />

l’eventuale accordo, limitandosi a mettere le parti nelle condizioni migliori per la<br />

1<br />

Rue de Valois costeggia l’ala destra del Palais-Royal, antica sede del Ministero della Cultura e della<br />

Comunicazione francese (N.d.A.).<br />

2<br />

Letteralmente, si tratta del Consiglio Nazionale delle Professioni dello Spettacolo (N.d.T.).<br />

3<br />

«Jean-Jacques Aillagon ha dato il via libera al Medef per abbattere il sistema specifico di assitenzadisoccupazione<br />

degli intermittenti delle nostre professioni. [...] L’ultima badilata di terra è stata appena<br />

gettata. Malraux è definitivamente sepolto» (la traduzione è mia). Primo ministro della cultura in Francia<br />

(nel 1959), André Malraux ha gettato le basi per la costruzione di quella che in Francia viene tutt’ora<br />

denominata “politique culturelle”. La citazione del segretario del sindacato ha un tono chiaramente di<br />

rimpianto per un’epoca in cui la cultura era considerata parte fondante dei programmi politici dei governi<br />

(di destra come di sinistra) (Urfalino 2004) (N.d.T.).<br />

182


trattativa. Andavano in tale direzione quegli incontri preliminari. Così come erano da<br />

considerarsi in quella ottica le risultanze del contestato rapporto Roigt-Klein, presentato<br />

alla fine del 2002: mesi prima, infatti, i due ministri interessati direttamente dalla<br />

questione degli “intermittenti”, avevano affidato un incarico di ricerca a due influenti<br />

componenti dei rispettivi gabinetti ministeriali (Jean Roigt era ispettore generale degli<br />

affari sociali e René Klein era ispettore generale degli affari culturali). Questi<br />

compilarono un denso rapporto di 106 pagine, sottolineando cifre, calcolando un deficit<br />

del sistema, ipotizzandone i motivi del malfunzionamento e avanzando anche alcune<br />

proposte che finirono direttamente sul tavolo della riunione di lavoro del CNPS.<br />

Fin dalla giornata del 18 febbraio, la posizione del sindacato più rappresentativo era<br />

finanche più limpida: se quell’incontro non avesse fornito ufficiali e fondamentali<br />

garanzie circa la continuità del regime di assicurazione-disoccupazione degli<br />

“intermittenti” dello spettacolo, per il successivo 25 febbraio la CGT avrebbe<br />

confermato lo sciopero generale del settore già indetto prima della riunione. E il<br />

responsabile della federazione dello spettacolo della CGT non doveva aver preso troppo<br />

benevolmente un’altra presunta dichiarazione resa dal Ministro durante l’incontro,<br />

secondo il quale ci sarebbero «trop de compagnies, trop d’artistes et trop<br />

d’intermittents qui produisent parfois des spectacles médiocres. Tous cela coûte très<br />

cher 1 » (da “Le Monde” del 26 febbraio 2003).<br />

In che modo tutto questo metteva in discussione l’identità stessa e i significati<br />

condivisi della comunità degli intermittenti dello spettacolo?<br />

Ad ogni modo, la ritualità del conflitto veniva nuovamente rispettata. In questo caso,<br />

però, le informazioni non mancavano, più o meno realistiche o distorte che fossero. In<br />

sostanza, anche sulla base delle esperienze pregresse, senza “screditare la memoria<br />

collettiva” che pure si doveva essere formata, le parti sociali avrebbero potuto ragionare<br />

facendo “scelte interpretative” più consapevoli, basate su “conoscenze” differenti del<br />

fenomeno: “sapendo quello che so ora, dovrei cambiare il modo in cui classifico e<br />

collego il flusso di esperienza? 2 ”. Inoltre, questa volta, la stampa non si fece sfuggire la<br />

notizia, ne diede risalto: ma, come una sorta di “contagio informativo”, l’impressione<br />

che diede era più simile al venticello attraverso cui il discredito, le notizie arrivano<br />

trasfigurate alle orecchie della gente, come la famosa “auretta assai gentile che<br />

[dapprima] insensibile, sottile, leggermente, dolcemente incomincia a sussurar…”, e che<br />

poi alla fine “…trabocca e scoppia, si propaga, si raddoppia e produce un’esplosione<br />

come un colpo di cannone, un tremuoto, un temporale, un tumulto generale, che fa l’aria<br />

rimbombar”. La ricerca delle informazioni e l’impatto dell’opinione pubblica ebbero un<br />

ruolo determinante per tutta la fase di incubazione dell’annullamento del Festival e<br />

lungo tutta l’escalation della crisi degli intermittenti 3 : forse, fin dall’avvio della nuova<br />

crisi, all’inizio del 2003, tutte le parti sociali erano alla ricerca “ampia e non selettiva di<br />

informazioni attinenti” alle decisioni da prendere, nella speranza di trovare in queste<br />

una sorta di conferma delle proprie azioni dissonanti 4 .<br />

1<br />

Vale a dire: ci sarebbero «troppe compagnie, troppi artisti e troppi intermittenti, i quali producono a<br />

volte degli spettacoli mediocri. E tutto questo è molto costoso». Al di là della frase, forse, infelice, per<br />

aprire un tavolo di lavoro su quelle questioni così delicate, il ruolo del Ministro della cultura resterà<br />

controverso, visto che la faccenda degli intermittenti era di competenza del Ministero del lavoro.<br />

2<br />

Weick 1993: 300; ma anche Luhmann 1990, e Rullani 2004b, laddove introduce le modalità attraverso<br />

cui strutturare la conoscenza (N.d.A.).<br />

3<br />

Festinger 1973, ma, ancora, Luhmann 1990, Lippmann 2004, ma anche Weick 1979, 1990, 1993, 1995;<br />

Burt 1982, 1992 (N.d.A.).<br />

4 Festinger 1973.<br />

183


Il rapporto Roigt-Klein merita, in tal senso, qualche riflessione aggiuntiva,<br />

trattandosi della più importante fonte di informazioni per quanti si erano seduti al tavolo<br />

del negoziato. Il titolo “ufficiale” del documento era curioso: “Contributo alla<br />

riflessione dei partner sociali sulle origini degli scarti tra le differenti fonti statistiche<br />

sugli artisti e tecnici intermittenti dello spettacolo, e le correzioni da apportare al<br />

funzionamento degli allegati 8 e 10 del regime si assicurazione-disoccupazione”. La<br />

questione dei “conti che non tornavano” costituiva indubbiamente un bel dilemma, tanto<br />

da impegnare buona parte del lavoro dei due ispettori ministeriali autori del dossier.<br />

Tanto per avere un ordine di grandezza della controversia dei numeri: secondo il<br />

“Groupement des institutions sociales du spectacle” (GRISS) il numero degli<br />

intermittenti era variato da 226.929 nel 1996 a 284.766 nel 2000 (+25,5%); la “Caisse<br />

des congés spectacles” (CCS) parlava di 77.964 intermittenti beneficiari di una<br />

indennità di congedo nel costo del 1996, e di 102.027 nel 2000 (+30. 9%); per l’Unedic<br />

il numero di indennizzati secondo il regime di indennizzo di disoccupazione era passato<br />

da 64.800 nel 1996 a 92.440 nel 2000 (+42,6%) con stime per il 2001 che ipotizzano un<br />

ulteriore +48,9%. Al di là degli aumenti relativi, erano i valori assoluti a sorprendere:<br />

quando esistono elementi cognitivi tendenzialmente oggettivi è difficile che producano<br />

disaccordo; ma già sulle dimensioni del fenomeno la dissonanza era notevole.<br />

Ad ogni modo, come spiegare le distorsioni così forti? In apparenza, dalla<br />

approfondita indagine dei due funzionari realizzata spulciando (letteralmente) nelle<br />

pieghe degli elenchi e dei data base dei vari organismi, gli scarti statistici si<br />

spiegherebbero collegandoli alla mancanza di omogeneità nella raccolta e nella<br />

elaborazione dei dati da parte degli organismi sociali e dei soggetti privati. La casistica<br />

può essere molto varia. Ad esempio: nel caso della CCS, i lavoratori fanno domanda per<br />

la loro indennità con un certo ritardo, e questo provocherebbe delle forti distorsioni nei<br />

dati finali; se l’Unedic indennizza i lavoratori in tranche che possono essere spalmate<br />

anche su due anni, la CCS liquida l’indennità in un’unica soluzione; l’Unedic può<br />

censire uno stesso soggetto anche due volte, per un semplice trasloco o a causa di un<br />

passaggio da un allegato all’altro dello statuto; ancora, alcuni datori di lavoro versano<br />

contributi solo all’Unedic e non alla CCS a causa di specificità dello statuto di<br />

intermittenza.<br />

Più volte mi venne da pensare che, in una situazione come questa, sembra difficile<br />

arrivare ad un dato quanto meno simile; inoltre dall’incrocio delle informazioni,<br />

potenzialmente utile per scovare frodi o comportamenti sospetti, si rischia di ottenere<br />

come risposta una babele di elaborazioni senza senso.<br />

Tornando al rapporto, l’intera seconda parte era dedicata ad considerazioni,<br />

circostanziate, per arrivare ad una riforma degli allegati VIII e X; i punti presi in esame<br />

erano cinque: 1) con riferimento alle caratteristiche e all’eterogeneità delle<br />

organizzazioni coinvolte, delle modalità di esercizio della professione, ma anche dei<br />

caratteri dei datori di lavoro, dell’evoluzione dei mestieri e dell’evoluzione tecnologica,<br />

gli autori si domandano se abbia ancora senso una distinzione corrente dei due allegati o<br />

sia piuttosto più funzionale distinguere un allegato per artisti e realizzatori ed uno per<br />

operai e tecnici; 2) inoltre, argomentavano sul modo in cui i due allegati riuscivano (se<br />

ci riuscivano) ad adottare le regole e la logica del regime generale alla situazione<br />

particolare degli intermittenti; 3) ulteriori considerazioni vertevano sulla necessità di un<br />

dispositivo più equo e trasparente; 4) ancora, si discuteva sul livello di efficacia di un<br />

simile sistema, considerato “mal inquadrato all’interno dell’Unedic e mal controllato<br />

184


all’esterno da parte dei servizi dello Stato preposti; 5) infine, su una migliore gestione<br />

delle spese.<br />

Le opinioni su questi ultimi due punti sembravano particolarmente importanti,<br />

toccando due questioni centrali per le future trattative. Con riferimento all’efficacia del<br />

sistema, gli obiettivi che i due autori del rapporto si ponevano erano di due ordini,<br />

attenevano a due aspetti principali: i) «sono necessarie, per gli intermittenti dello<br />

spettacolo, delle regole specifiche di controllo interno che siano superiori a quelle<br />

esistenti per il regime generale, sulla scorta del fatto che la frode appare come più<br />

comune, magari attraverso un rovesciamento dell’onere della prova e del pagamento<br />

delle prestazioni basandoli, questa volta, sulle dichiarazioni dei datori di lavoro<br />

piuttosto che sui lavoratori?»; ii) e, inoltre, «come migliorare l’efficienza e l’efficacia<br />

dei controlli esterni: bisogna moltiplicarli e renderli più sofisticati, per evitare le<br />

deviazioni di un dispositivo oramai incontrollabile, senza correre il rischio di<br />

scoraggiare quanti debbano incaricarsi di mettere in opera tali controlli assegnando loro<br />

obiettivi precisi?». Domande retoriche forse, ma subito dopo i due funzionari<br />

aggiungono di non ritenere percorribile la strada della moltiplicazione dei controlli<br />

stimando che: «bisognerebbe fare in modo che il sistema offra in sé meno opportunità di<br />

aggiramento delle regole e prevedere dei dispositivi che li evitino o li limitino (come<br />

una forma di auto-bloccaggio); e bisognerebbe, in seguito, privilegiare i dispositivi di<br />

controllo esterni più perforanti per limitare le frodi piuttosto che di accumulare un<br />

insieme di meccanismi che, alla lunga, si rivelano spesso inefficaci».<br />

Per quanto concerneva il secondo punto, identificavano due principi che avrebbero<br />

dovuto fondare gli interventi di riforma: i) da un lato «bisognava agire sugli effettivi<br />

entranti nel campo di applicazione degli allegati [del sistema di intermittenza] piuttosto<br />

che sui diritti, anche se dovranno essere rivisti pure i secondi»; ii) e in secondo luogo<br />

«bisognava, in seguito, limitate gli effetti perversi del dispositivo». I funzionari del<br />

rapporto richiamavano con un certo interesse i contenuto della bozza di accordo del<br />

luglio del 2001 (quello promosso del Fesac) in quanto vi erano delle disposizioni che<br />

miravano proprio ad una migliore gestione del dispositivo generale, attraverso<br />

interessanti strumenti di analisi, l’omogeneizzazione della pratiche e dei meccanismi<br />

operativi interni agli Assedic e efficaci meccanismi di controllo e sanzione. Inoltre la<br />

semplificazione delle procedure, con la nascita del GUSO (letteralmente, “lo sportello<br />

unico per gli spettacoli occasionali”) che avverrà nel 2004, avrebbe senz’altro<br />

migliorato la qualità del servizio nonché dei dati raccolti. Non era un caso che<br />

quell’accordo arrivò ad passo dall’essere firmato da tutte le parti sociali, fermo restando<br />

che, come ammettono gli stessi redattori del rapporto, «se da un punto di visto tecnico<br />

tali modalità potevano essere discusse sul piano dell’efficacia, esse andavano senz’altro<br />

nella direzione di una maggiore trasparenza del dispositivo».<br />

Le proposte avrebbero tenuto conto di questi elementi e riguardavano: 1) la<br />

professionalizzazione dell’accesso al regime degli allegati VIII e X, vale a dire<br />

restringerne il campo di applicazione per i datori di lavoro conservando solo le attività<br />

che concorrono direttamente alla creazione e alla produzione di spettacoli; 2) rivedere il<br />

campo di applicazione del regime per quanto riguardava le qualifiche di operaio e<br />

tecnico, distinguendo ed eliminando le qualifiche generali per la maggioranza dei<br />

settori, le funzioni amministrative non strettamente legate al funzionamento di una<br />

produzione teatrale, le qualifiche troppo generiche e omnicomprensive, nonché alcune<br />

funzioni di assistente o delegato quando non sono previste dalla convenzioni o dalle<br />

carte professionali del settore dello spettacolo e del cinema; 3) incoraggiare la sincerità<br />

185


delle dichiarazioni attraverso meccanismi di incentivazione per fare emergere “lavoro<br />

nero” e condizioni oscure e confuse; 4) accrescere il ruolo del GUSO, rinforzandolo e<br />

allargandone l’utilizzo anche ai professionisti dello spettacolo con licenza oppure<br />

sviluppando un sistema di “assegno” per il lavoro intermittente quale sorta di<br />

giustificativo sotto forma di “biglietto-vaucher” che garantisca meglio chi, perché e<br />

come accede al diritto di indennizzo; 5) armonizzare un certo numero di regole<br />

operative e di pratiche rispetto al regime generale (in primo luogo convertendo i cachet<br />

in ore-lavoro, in modo da semplificare i calcoli); 6) rinforzare i dispositivi interni di<br />

controllo, soprattutto attraverso il miglioramento della circolazione delle informazioni<br />

all’interno delle strutture degli Assedic, sfruttando anche l’operatività del GUSO; 7)<br />

sviluppare i controlli esterni, favorendo l’incrocio con gli archivi e le banche dati di<br />

Unedic, CCS e GRISS; 8) incentivare la creazione di lavoro permanente, anche sotto<br />

forma di imprese, attraverso contratti favorevoli per i giovani, aiuti economici di tipo<br />

fiscale sui contratti a tempo indeterminato (anche riscoprendo la formula del “C<strong>DI</strong><br />

intermittent” o attraverso “CDD a lunga durata”).<br />

In estrema sintesi, il rapporto Roigt e Klein del 2002 era questo. E su molte delle<br />

proposte, nonché sull’insieme del lavoro svolto, furono espresse molte perplessità e si<br />

scagliarono vive critiche e opposizioni dei sindacati.<br />

Gli scioperi e le manifestazioni interessarono l’intera Francia, a cominciare dai<br />

grandi teatri di Parigi, anche privati, passando per Lyon, Marseille, Strasbourg, Dijon,<br />

Reims, Brest, Rennes, Nantes, Saint-Herblain, Saint-Etienne, Le Creusot, Bordeaux,<br />

Mérignac, Pau et Biarritz:<br />

«En grève, le Théâtre de la Bastille, la Comédie Françaises notamment, à Paris, le TNS à<br />

Strasbourg, tous les théâtres de Marseille, l’Opera de Lyon. A l’arrêt, les tournages de films et de<br />

téléfilms aux quatre coins de France… Un appel relayé, une mobilisation nationale, pour une alerte<br />

plus que jamais entendue» (da “La Provence” del 26 febbraio 2003).<br />

Ad esempio, nella manifestazione di Avignone: Jean-Luc è in operatore audio,<br />

intermittente dello spettacolo da 13 anni. Lavora per il cinema, la televisione, realizza<br />

soprattutto documentari. Anche per lui l’imperativo è il raggiungimento delle 507 ore e<br />

di 43 cachet da realizzare in 12 mesi, da data anniversario a data anniversario. Anche<br />

per lui l’apertura del diritto di indennizzo si fa pro-rata sulla base delle ora lavorate e<br />

l’indennità giornaliera viene calcolata su quella base. Ha ottenuto il suo status la<br />

momento del suo primo lavoro e da allora non lo ha più perso. «Ed è stato giusto così»,<br />

dice, in quanto ha alternato periodi di intenso lavoro a periodi decisamente più piatti. A<br />

volte terribilmente calmi. «Non ho fatto né riprese né tournée per cinque mesi e il<br />

telefono era maledettamente silenzioso. L’apertura dei diritti su sei mesi o l’aumento<br />

delle ore necessarie è molto pericolosa secondo lui: rischia di sfoltire ulteriormente il<br />

numero di intermittenti. Con il sistema nuovo annunciato, e sulla base di quanto stanno<br />

negoziando, uscirei molto più rapidamente dal circuito, io come molti altri». Parlando<br />

della giornata di agitazione, il suo commento è accorto, avuto: «Nell’idea è una buona<br />

cosa. Ma poi bisogna capire se gli scioperanti sono quelli che sono senza lavoro o gli<br />

altri? Chi ha seguito tutto questo? I tecnici che girano i piccoli filme, quelli a budget<br />

ridotto, hanno seguito le nostre orme? Sono loro che sono colpiti direttamente» (da “La<br />

Provence” del 26 febbraio).<br />

«La mobilisation des intermittents du spectacle a été particulièrement forte. Entre 8500 (selon la<br />

police) et 30000 manifestants (selon les organisateurs) se sont rassemblés, mardi 25 février, devant<br />

l’Opéra-Bastille pour défendre leur régime d’indemnisation-chômage. Scènes désertées, plateaux<br />

186


de tournage abandonnés, devantures de théâtre grillagées: mardi 25 février le monde de la culture a<br />

baussé les rideuax pour une journée nationale de grève. A Paris comme en provence, les<br />

intermittents du spectacle ont massivement répondu à l’appeal de la confédération CGT du<br />

spectacle pour défendre leur régime specifique d’indemnisation chômage» (da “Le Monde” del 27<br />

febbraio 2003).<br />

Prima di unirsi ai manifestanti a Parigi, Bernard Faivre d’Arcier, l’allora direttore del<br />

Festival di Avignone, commentava: «E’ una nuvola scura quella che si addensa sul<br />

settore delle spettacolo, un problema di fondo che ritorna, perdura, di proporzioni<br />

sempre più importanti. Il regime di intermittenza è assolutamente capitale per la vita<br />

artistica e in particolare per lo spettacolo dal vivo, in quanto è il fondamento della nostra<br />

originalità europea. Naturalmente ha bisogno di essere modificato ma con dovizia, in<br />

modo progressivo. Rimettere in gioco lo statuto in modo brutale significa modificare<br />

tutto il paesaggio teatrale. Il Festival di Avignone (un gruppo permanente di 17 persone,<br />

in CDD e C<strong>DI</strong>), vive grazie agli intermittenti. I tecnici – incaricati del montaggio, ma<br />

anche della gestione dei luoghi durante il mese della manifestazione – sono nell’ordine<br />

dei 300 lavoratori impiegati dal festival. Un numero a cui si aggiungono anche gli<br />

intermittenti delle compagnie e gli artisti. Una rifondazione del sistema sarebbe<br />

pregiudizievole anche per il Festival Off, che vive di una sorta di economia parallela<br />

rispetto all’In. In gran numero di persone resterebbero per strada, senza lavoro» (da “La<br />

Provence” del 26 febbraio 2003).<br />

Diverse migliaia erano gli “intermittenti” che manifestarono a Parigi, muovendo<br />

dalla monumentale place de la Bastille e interessando anche i palcoscenici delle<br />

emissioni televisive, nonché i set cinematografici di film e telefilm. Questo è il racconto<br />

del reportage completo de “Le Monde” del 27 febbraio:<br />

«Scene disertare, palcoscenici abbandonati, vetrine di teatri serrate: martedì 25<br />

febbraio, il mondo della cultura ha abbassato il sipario per una giornata nazionale di<br />

sciopero. A Parigi come in provincia, gli intermittenti dello spettacolo hanno<br />

massicciamente risposto all’appello della confederazione della CGT-spettacolo per<br />

difendere il loro regime specifico di indennità di disoccupazione. “Non accettereomo<br />

che il governo ci tiri il brutto colpo di rinviare la questione ai partner sociali lasciando<br />

così il Medef libero di decidere del futuro della nostra professione. Noi abbiamo dei<br />

diritti, noi li esigiamo, noi li otteremo”, dichiarava martedì sera un responsabile della<br />

CGT-spettacolo davanti a migliaia di manifestanti parigini.<br />

Erano tretamila secondo gli organizzatori – ottomilacinquecento secondo la polizia –<br />

ad essere riuniti verso le 18 davanti all’Opera-Bastille, dietro ad uno striscione con<br />

scritto “Opera en grève”. Tra le personalità presenti, i registi Daniel Mesguich e Olivier<br />

Py, l’attrice Anny Duperey, il deputato verde Noël Mamère e il sindaco comunista di<br />

Aubervilliers, Jacl Ralite. Mettendo assieme tutte le branche professionali<br />

dell’audiovisivo e dello spettacolo dal vivo, il lungo corteo si è diretto nella calma verso<br />

la Madeleine per raggiungere poi, verso le 21, l’Olympia, una delle poche sale di<br />

spettacolo ad aver mantenuto la programmazione (con un recital della cantante Isabelle<br />

Boulay).<br />

Né esuberanza artistica né slogan ripresi in modo cadenzato, giusto qualche<br />

fischietto, qualche rullo di tamburo e un discreto frastuono. L’inquietudine degli<br />

intermittenti dello spettacolo si leggeva più che gridarsi: “Interruption d’artistes à<br />

durée indéterminée”, “Messieurs les Bouffis, les bouffons bouffent aussi”, “France,<br />

c’est ta culture qu’on veut assassiner”. Tra le bandiere al vento ancora quelle della<br />

Comédie-Française, di Radio France e di numerosi sindacati professionali. Tutti<br />

187


d’accordo sulla necessità di riformare lo statuto, “ma non second oil volere del solo<br />

Medef”, testimoniava una giovane lavoratrice dell’audioviso. “Oggi”, aggiungeva, “noi<br />

siamo presi per la gola. Se il governo non reagisce, tutto riascia di andare di male in<br />

peggio”.<br />

Sui percorsi dei Grands Boulevards, molti cinema aveva abbassato le loro insegne o<br />

soppresso lo spettacolo delle 20. Un gesto di solidarietà seguito dalla maggioranza delle<br />

istituzioni culturali dell’Ile-de-France: Théâtre de la Ville, Cité de la musique, Théâtre<br />

national de la Colline, Chaillot... Alla lista delle istituzioni sovvenzionate si<br />

aggiungevano, fatto eccezionale, la maggioranza dei teatri privati. Per Frédéric Franck,<br />

direttore del Théâtre de la Madeleine, si trattava verto di un “sacrificio finanziario”, ma<br />

soprattutto di una “decisione simbolica in sé necessaria”. Alcuni spettatori presenti si<br />

sono accomodati senza troppe spiegazioni dap arte del personale rimasto.<br />

Una delle poche sale ad avere rifiutato le richieste dei sindacalisti, il Bataclan è stato<br />

preso d’assalto da centinaia di manifestanti. Dopo qualche lungo attacco e qualche e<br />

qualche scaramuccia, gli animi degli spettatori restarono delusi: la prima dello<br />

spettacolo di Michel Jonasz era stato annullato, alla fine, “per questioni di sicurezza”.<br />

Nel resto della Francia, la mobilitazione è stata ugualmente importante: oltre alla<br />

chiusura di numerose scene sovvenzionate, centinaia di manifestanti si sono riuniti a<br />

Montpellier, Avignone, Lione, Strasburgo, Rennes, Caen, Brest e Tolosa. A Marsiglia,<br />

dove, secondo la CGT-spettacolo, “tutti i teatri erano chiusi”, un migliaio di persono<br />

hanno silenziosamente sfilato sulla Canebière. A Bordeaux, gli intermittenti, venuti<br />

numerosi, non hanno esitato a cospargersi di bitume per “recitare la scena della giornata<br />

morta”. “Ci aspettavamo una forte mobilitazione. Ed è stata eccezionale”, si felicitava<br />

martedì sera Jean Voirin, presidente della federazione CGT-spettacolo. Aggiungendo:<br />

“Tutti i manifestanti che sono qui non sono dei ladri. Noi non siamo per lo status qui,<br />

noi non copriamo gli abusi, noi siamo favorevoli a delle riforme, ma non sulla base<br />

della volontà del Medef”.<br />

Era dalla giornata d’azione del 21 ottobre del 2002, già dedicata al mantenimento<br />

dello statuto specifico degli intermittenti, che non si vedeva una tale mobilitazione.<br />

“Abbiamo mostrato la tristezza di una città che è privata delle sue sale teatrali”,<br />

rincarava un responsabile CGT all’uscita della manifestazione parigina, prima di<br />

reclamare in una lettera aperta al primo ministro, Jean-Pierre Raffarin, l’organizzazione<br />

di “ una grande concertazione nazionale contro lo sfacelo della cultura”. Il sindacato ha<br />

anche richiamato il governo a “impegnarsi, nei prossimi giorni, alla salvaguardia del<br />

regime di indennizzo di disoccupazione, garanzia dell’eccezione culturale”.<br />

Le risposte da parte del potere pubblico saranno esaminate il 10 marzo, al momento<br />

di una assemblea generale che determinerà la linea di condotta dei sindacati».<br />

E’ inutile dire come sia andata quella assemblea generale, nonostante l’appello del<br />

Ministro della cultura, sul quotidiano “Libération” del 25 febbraio, affinché le<br />

organizzazioni professionali riprendessero rapidamente il dialogo, affermando che il<br />

governo non avrebbe rimesso in discussione la continuità del regime specifico.<br />

Le informazioni che l’opinione pubblica aveva sull’andamento della trattativa erano<br />

di questo tenore:<br />

«La “mutualisation” du système français permet de “lisser” les retenues assedic employeurs,<br />

employés, pour les redistribuer au moment voulu. Ce système mutualiste concerne aussi bien la<br />

Sécurité sociale que les retraites. Ainsi, les entreprises de spectacles et les intermittents payent,<br />

comme tout le monde, leurs cotisations Assedic.<br />

188


Lorsqu’un salarié du régime général se trouve au chômage, il reçoit un salaire de substitution (des<br />

indemnités assedic) en fonction de son temps de travail et de son salaire. Lorsqu’un intermittent ne<br />

travaille pas, il reçoit aussi des indemnités assedic, au prorata de son travail précédent. Avant<br />

d’être pris en charge, il devra justifier d’une durée (nombres de cachets) suffisante pour une<br />

ouverture de droit. Exactement comme le salarié du régime général. Mais ce dernier, qui aura<br />

cumulé des heures “groupées”, sera indemnisable le temps de son chômage. Alors que<br />

l’intermittent lui, continuera à passer d’un cachet à l’autre. Avec plus au moins de bonheur. Si ses<br />

cachets diminuent, se maintient au s’augmentent, l’indemnisation ne compensera que la différence,<br />

s’il y en a. […] Le rapport des inspecteurs, Jean Roigt et René Klein […] propose d’agir sur la<br />

durée d’indemnisation des intermittents, “reduite de moitié ou des deux tiers, en conservant la<br />

même dégressivité des allocations”.<br />

[…] Actuellement, pour une ouverture de droit, le nombre d’heures minimales est de 507 heures<br />

sur les douze derniers mois. Dans le nouveau système, il faudrait 606 heures pour seulement<br />

quatre mois d’indemnisations au lieu de douze. Tous les cachets compteraient pour 12 heures (1,5<br />

jours de travail). S’agissant de l’indemnisation, trois propositions seronts étudiées:<br />

- pour 43 cachets (ou 3 mois) effectués sur 12 mois, ou pour 50 cachets sur les 18 dermiers<br />

mois, le taux d’allocation serait fixé (18% au lieu de 31,3%);<br />

- pour 63 cachets (5 mois) sur 12 mois, le taux serait de 31,3 (ce qui correspond à 20 cachets<br />

ou deux mois de plus pour maintenir le niveau actuel);<br />

- pour 75 cachets (6 mois) sur 12, le taux passerait à 40,4%.<br />

Une remise en cause qui sabrerait le statut des techniciens, explique Didier Bèchir SFA Vaucluse,<br />

et ces conditions toucheraient de plein fouet plus de la moitié des compagnies de théâtre, danse et<br />

musique. Le secteur phare de l’intermittence!» (da “Dauphiné-Vaucluse” del 15 aprile 2003)<br />

La situazione non cambiò di molto anche a maggio del 2003. Ecco un interessante<br />

resoconto della situazione, una cronaca dei fatti salienti realizzata da “Le Monde” del 24<br />

maggio, poco prima che gli eventi precipitassero.<br />

«Il dossier degli intermittenti dello spettacolo è come una patata bollente che, da<br />

circa un decennio, i ministri della cultura si passano. Ma ogni anno, questo dossier è un<br />

po’ più pesante, e il contenzioso più bruciante. In particolare oggi, dal momento in cui il<br />

governo Raffarin mira a fare avallare il suo treno di riforme concernenti, in particolare,<br />

il problema delle pensioni. L’attuale inquilino di rue de Valois, Jean-Jacques Aillagon,<br />

in compagnia di un rappresentate del ministero degli affari sociali, del lavoro e della<br />

solidarietà, ha tentato un esercizio diplomatico difficile consacrando la giornata del 22<br />

maggio agli incontri bilaterali dell’insieme delle organizzazioni sindacali dei lavoratori<br />

e dei datori di lavoro (CGT, FO, CFTC, CGC, CFDT, Medef, Fesac), implicati nella<br />

questione del regime di indennizzo di disoccupazione degli intermittenti dello<br />

spettacolo. In effetti, le negoziazioni tra i partner sociali in seno all’Unedic sugli<br />

aggiustamenti da apportare agli allegati VIII e X, dovrebbero aprirsi a partire dal 3<br />

giugno. Gli intermittenti dello spettacolo utilizzano otto volte di più di indennizzo<br />

rispetto a quanto versando di contribuzione. Secondo la Corte dei conti, il deficit del<br />

regime specifico degli intermittenti è passato da 229 milioni di euro nel 1991 a 738 nel<br />

2001. Quasi nessuno, oggi, mette in discussione questa sovvenzione mascherata del<br />

mondo culturale. Lo stesso Medef, che ha a lungo assunto delle posizioni massimalise,<br />

ha rivisto le sue esigenze al ribasso. Per contro, molte questioni spinose restato sul<br />

tavolo.<br />

Quella delle statistiche, in primo luogo. Quanti sono i beneficiari di quel regime? Tra<br />

90 e 100 mila? Certi sindacati contestano queste cifre. Quante frodi ci sono state?<br />

Ancora di più in questo caso le percentuale avanzate divergono considerevolmente, si<br />

conferma solo che il loto numero è elevato. Tra gli intermittenti, quanti potrebbero<br />

raggiungere un regime di diritti comune? Ancora, sarà necessario che i datori di lavoro<br />

189


lo accettino questo accordo. E, tra questi ultimi, si trovano i canali televisivi pubblici e<br />

privati, delle grosse società di produzione e delle grandi istituzioni culturali.<br />

Anche Jean-Jacques Aillagon ha fatto pervenire ai presidenti delle imprese<br />

dell’audivisivo pubblico una lettera, domandando loro di essere particolarmente<br />

vigilanti di fronte al ricorso ingiustificato dell’intermittenza. Il ministro, d’altro canto,<br />

ha annunciato che due riforme saranno oggetto di ordinanza al rientro. Esse mirano a<br />

“rinforzare la visibilità del regime specifico di indennizzo di disoccupazione attraverso<br />

una migliore conoscenza del suo funzionamento, un miglioramento della copertura<br />

contributiva da parte dei datori di lavoro e dei lavoratori e il rinforzo della lotta contro il<br />

lavoro illegale nei settori dell’audiovisivo, del cinema e dello spettacolo dal vivo».<br />

Queste erano le proposte specifiche del ministro:<br />

«Lutte contre la fraude<br />

C’est ainsi que le croisement des fichiers des différents organismes sociaux sera entrepris, histoire<br />

de mieux détecter les fraudeurs et de mieux cerner la réalité statistique des intermittents du<br />

spectacle. Pour les employeurs dont l’activité principale n’est pas le spectacle vivant, l’affiliation à<br />

un guichet unique sera obligatoire. Enfin, un plan de lutte contre le travail illégal dans l'audiovisuel,<br />

le cinéma et le spectacle vivant va être engagé dans les prochaines semaines.<br />

Par ailleurs, Jean-Jacques Aillagon a réaffirmé, devant ses interlocuteurs, son attachement au<br />

maintien d’un régime spécifique pour les intermittents et au seuil des 507 heures de travail pour en<br />

bénéficier. Le ministre a précisé que “les aménagements qui seraient apportés au régime de<br />

l'intermittence devraient prendre en compte les contraintes spécifiques aux professions concernées<br />

et ne pas compromettre la possibilité effective des professionnels du secteur d’y accéder”.<br />

S’il semble y avoir aujourd'hui, de part et d’autre de la table de négociation, une vraie volonté de<br />

parvenir à une solution, les propositions pour contenir l’usage abusif de l'intermittence divergent<br />

encore largement» (“Le Monde” del 24 maggio 2003).<br />

E a giugno continuarono le proteste, in tutta la Francia. Fino a ridosso del famoso<br />

accordo. Che, di fatto, fu trovato i primi giorni del mese. Ma le parti sociali si erano<br />

prese il tempo di rivedere i contenuti. Sulla stampa le informazioni generali che<br />

trapelavano sull’accordo erano di questa natura:<br />

«Les nouveaux régimes d’indemnisation.<br />

Avant: Actuellement, les intermittents du spectacle doivent justifier de 507 heures de travail dans<br />

l’année, ce qui leur ouvre droit à 12 mois d’indemnités chômage. Un régime spécifique qui est<br />

actuellement défini par les annexes 8 (pour les artistes, ouvriers et techniciens de l’audiovisuel et<br />

du cinéma) et 10 (pour les artistes et techniciens du spectacle vivant) à la convention d’assurance<br />

chômage, créées en 1969.<br />

Après: Le protocole d’accord distingue désormais les artistes des techniciens. Si le seuil des 507<br />

heures est maintenu, les 12 mois d’indemnisation sont ramenés pour tous à 8 mois. Et les<br />

techniciens devront avoir accompli le 507 heures sur 10 mois, les artistes sur 10 mois et demi. Sans<br />

compter la suppression de la dégressivité des allocations. L’accord entrera en vigueur le 1 er octobre<br />

2003 et sera valable jusqu’au 31 décembre 2005, échéance de la convention générale d’assurance<br />

chômage» (da “Le Progres” del 3 giugno 2003).<br />

«Ci troviamo di fronte allo spettro della “proletarizzazione”!». Jean-Marc ha 34 anni<br />

ed è un operatore di ripresa video alla televisione. Si dichiara disgustato. Di recente ha<br />

visto portarsi dietro nel camion delle riprese, il documento delle imposte di un<br />

produttore: «lo stronzo» pagava 489 mila euro di tasse l’anno. A lui toccano 1.200 eruo<br />

al mese, qualche volta è arrivato a 1.800. Con la riforma, perderà parte delle sue entrate,<br />

sia derivanti dal lavoro che dall’indennizzo, ma non sa quanto. «Non si può fare alcun<br />

progetto. Le banche non ti prestano nulla. E tutto questo rende difficile la vita di coppia,<br />

della famiglia». All’ultima “24 Ore di Le Mans” ha visto degli operatori portoghesi<br />

190


«fare il lavoro per un forfait di 70 euro al giorno; a noi ce ne toccano 100 per otto ore».<br />

E si domanda: «A quando i polacchi a 30 euro al giorno 1 ?».<br />

Alain ha 45 anni, insegnate per 20 anni, si è riconvertito alla musica cubana e ai<br />

carnevali. E’ intermittenti dal 2000. Sto bene, propongo spettacoli onesti; è invece<br />

scorretto toglierci la terra da sotto i piedi. La soluzione? Mettersi al riparo stando in<br />

provincia e mettere in piedi una economia paralleral». Sylvain, “rippeur-déco” come si<br />

definisce lui, è giovane e il suo lavoro principale è quello di decoratore e traslocatore<br />

nel cinema, lavora da 12 a 14 ore al giorno per essere pagato 8, poi passa due mesi<br />

inoperoso. «Alla lunga» dice «vogliono sopprimere lo statuto». Vede in prima persona<br />

cosa significa la concentrazione del mercato: «Nella produzione della “fiction”<br />

televisiva, non ci sono più di quattro grosse imprese, le altre sono dei satelliti, subfornitori<br />

o appaltatori. E sarebbero capaci di lavorare con personale inesperto, con dei<br />

principianti che accettano le loro regole, pur di ridurre i loro costi».<br />

Marion, dal canto suo, ha 27 anni, è scenografa, e utilizza il suo statuto per lavorare<br />

con delle compagnie che non hanno denaro: «All’inizio è come fare del volontariato, ma<br />

spesso si trasforma in qualcosa di veramente arricchente!». Agita con entusiasmo delle<br />

belle marionette realizzate con degli artisti e attori del Burkinabé: «Questi scambi non<br />

sarebbero possibili con il nuovo statuto».<br />

Emilie, invece, è incaricata della regia tecnica del Festival internazionale del<br />

documentario che si tiene a Marsiglia da anni. «Sono intermittente da 6 anni. Ho<br />

lavorato per circa venticinque strutture diverse, nel teatro, negli eventi, nell’arte<br />

contemporanea, nel cinema. Ogni contratto mi mermette di lavorare per cinque-sette<br />

settimane. Può sembrare molto, ma l’equivalente fatto con un normale contratto CDD<br />

non mi aprirebbe il diritto all’indennità di disoccupazione. Se poi pensi che il periodo<br />

dei festival è molto raccolto in un anno, questo mi obbliga a fare delle scelte. Da quando<br />

lavoro per il FID, ad esempio, ho abbandonato il Festival di Cannes. Ho partecipato al<br />

Festival di Avignone in luglio [nel 2002: N.d.T.], ad un altro festival in dicembre, ad<br />

una convention organizzata da una grande impresa americana, tra ottobre e novembre.<br />

In inverno ci sono meno festival, meno riprese e raggiungo allora delle strutture non<br />

sovvenzionate, che in genere non avrebbero il denaro per pagarmi, nel teatro, nei<br />

cortometraggi, o nell’arte contemporanea. Senza il sistema dell’intermittenza, queste<br />

strutture non-profit, che sono il vero vivaio della creazione artistica, non esisterebbero<br />

[…]».<br />

Jean-Michel è un mimo e ha fondato una sua compagnia in Saône-en-Loire. «Sono<br />

intermittente da 22 anni. Per me questa è solo una nozione amministrativa. Sono pagato<br />

a cachet per gli spettacoli in cui recito, ma lavoro a tempo pieno, senza essere pagato,<br />

per far vivere la mia compagnia. Siamo tre o quattro, “quasi permanenti”, a lavorarci.<br />

Abbiamo fatto la scelta di portare la cultura in un borgo rurale ma arriviamo appena a<br />

riunire i cachet necessari in dodici mesi. Oggi, secondo i mesi, guadagno tra gli 8.000 e<br />

i 12.000 franchi». Fa ancora in conti in franchi Jean-Michel, anche per la sua<br />

1 Il riferimento al lavoratore “polacco” non è casuale. Il lettore deve sapere che quello “dell’idraulico<br />

polacco” che arriva in Francia con l’allargamento dell’Unione Europea fornendo servizi a costi fuori<br />

mercato ha costituito a lungo (e in parte lo costituisce ancora) un tormentone politico nel dibattito in<br />

Francia sull’Europa. Specie in vista del voto per la ratifica della Costituzione Europea: una faccenda che<br />

si rivelerà fortemente ancorata alle questioni interne francesi. Recentemente, proprio durante la primavera<br />

del 2005, poco prima del voto francese sulla Costituzione, mi era capitato di vedere sui quotidiani<br />

nazionali francesi una divertente pubblicità “istituzionale” in cui la Polonia sfruttava quel tormentone per<br />

promuovere il proprio ingresso nell’UE: “Io idraulico polacco resto a lavorare in Polonia: venite in<br />

Polonia anche voi e investite …” (N.d.T.)<br />

191


compagnia: «secondo i miei calcoli il mio salario dovrebbe diminuire tra i 3.000 e i<br />

5.000. Fino ad ora, quando vendo uno spettacolo, conservo una parte delle entrate per le<br />

creazioni future. Con quello che si profila ora, tutto rischia di dover rientrare nel salario.<br />

Il raddoppio della contribuzione Assédic nel 2002 ha già avuto un impatto notevole<br />

nella nostra compagnia. Oggi, su 400 mila franchi di entrate, ho 200 mila franchi di<br />

spese. Quando i giovani capiranno le difficoltà di ottenere lo statuto, decideranno di fare<br />

altro nella vita […]».<br />

Jérôme è giornalista e reporter d’immagini: «Sono intermittente da due anni. Nel<br />

2002 ho dichiarato mille ore. Ho lavorato regolarmente per il canale televisivo Ciné<br />

Info, e collaborato in modo più occasionale con altri cinque datori di lavoro.<br />

Quest’anno, ho perso il mio datore di lavoro principale e non sono sicuro di riuscire a<br />

fare le mie 507 ore. Trovo assurdo che in uno stesso regime si trovino raggruppati dei<br />

lavori così differenti […]. Le società di produzione e i canali televisivi se ne servono per<br />

pagare delle persone che lavorano a casa propria a tempo pieno […]».<br />

Tali considerazioni non risultarono irrilevanti nel momento in cui cercai di<br />

individuare una situazione di partenza di quella specifica crisi, in quanto, se una<br />

discrepanza si era creata, era pur sempre necessario capire quale fosse la “visione<br />

comune” da cui essa aveva avuto origine. E per quanto poco minuziosa potesse apparire<br />

questa mia ricostruzione, tutto lasciava pensare che, a tal proposito, qualcosa accadde o<br />

esplose a cavallo dei primi sei mesi dell’anno.<br />

192


XIV<br />

(Giovedì, 10 luglio 2003: “Ce 57 e Festival est clos!”. L’evento precipitante: un caso controverso di<br />

negoziazione in un affare pubblico (ovvero quando il conflitto diventa “ordinario”)<br />

Che tratta di come la riduzione ad un conflitto “ordinario” di una trattativa su questioni<br />

tutt’altro che “ordinarie” generi l’elemento che fa precipitare gli eventi <br />

«Una situazione che si credeva fosse caratterizzata da certe proprietà, risulta averne<br />

di diverse e di nuove, che richiedono una ulteriore interpretazione». Continuavo a<br />

ripetermi che il periodo di incubazione ha un possibile termine nel momento in cui un<br />

episodio fa precipitare la situazione, producendo una trasformazione che rivela la<br />

struttura latente degli eventi che precedono. L’evento precipitante che mi propose M.<br />

era “focalizzante”, attirava l’attenzione generale su di sé, a causa delle sue conseguenze<br />

immediate e dell’inevitabilità del cambiamento che produceva, in linea con la<br />

percezione generale degli eventi discrepanti del periodo di incubazione. Inoltre, la<br />

negoziazione fino all’accordo del 2003, quale evento precipitante, aveva la caratteristica<br />

dell’imprescindibilità, ovvero dal fatto che fosse inatteso tanto nel suo risultato<br />

immediato quanto nelle sue conseguenze a breve termine. Inoltre, la natura stessa<br />

dell’evento precipitante, vale a dire la ridiscussione di alcuni caratteri specifici<br />

dell’intero processo produttivo dello spettacolo, generava l’esigenza, o la rendeva<br />

evidente, di dare una interpretazione nuova al fenomeno sottostante (la creazione<br />

artistica).<br />

Non si tratta di fare salti logici troppo grandi o astrarre fino ai principi ultimi della<br />

faccenda: queste considerazioni, più o meno presenti nella mente dei protagonisti<br />

dell’intera vicenda, andavano considerate l’anello di congiunzione tra le catene di eventi<br />

discrepanti del periodo di incubazione, in quanto un disastro (organizzativo) di grande<br />

entità ha bisogno di una lunga serie di errori. Un singolo incidente di percorso può<br />

essere spiegato facilmente, ricostruito e compreso nelle sue determinanti e incorporato<br />

nella cultura diffusa come fattore oggetto di “apprendimento”. Ma quando cambiano le<br />

“aspettative culturali” su un fenomeno, si crea una frattura di grandi dimensioni che si<br />

spiega solo attraverso l’accumulazione di un numero sufficiente di fattori trascurati o<br />

ambigui che possono generare una trasformazione completa. A quel punto una<br />

ridefinizione culturale più o meno completa può avvenire: attraverso disastri<br />

“istantanei”, in cui l’evento precipitante e le sue conseguenze (fisiche ma non solo) si<br />

susseguono a brevissima distanza; oppure con disastri progressivi prodotti da un singolo<br />

evento precipitante seguito da una serie di ripercussioni o da una serie di eventi<br />

precipitanti che si susseguono rapidamente e che producono una serie di sorprese e la<br />

necessità di riaggiustamenti successivi.<br />

In quel caso, se provavo a mettere un po’ d’ordine e ad assumere un punto di<br />

osservazione sufficientemente complessivo dell’intera vicenda, e se prestavo<br />

l’attenzione alla posizione di ciascuno degli attori principali che avevo visto entrare in<br />

scena fino a quel momento, mi veniva relativamente agevole rintracciare, per ciascuno e<br />

in fasi temporali differenti della questione, tutte quelle caratteristiche conoscitive che,<br />

contrassegnando questo stadio della crisi, possono aver fatto progredire il conflitto in<br />

modo singolare e inaspettato.<br />

Le rigidità delle percezioni e delle convinzioni circa l’effettivo andamento delle<br />

consultazioni nei cinque mesi precedenti e delle basi di avvio del negoziato erano<br />

elementi condivisi da governo e parti sociali, e alimentavano una sorta di “cecità<br />

collettiva” per quanto riguardava anche le organizzazioni artistiche potenzialmente<br />

193


coinvolte in quella faccenda ma, di fatto, estranee alla contrattazione. Nessuna<br />

procedura di effettiva “meta-negoziazione” era stata completata: la trattativa sul nuovo<br />

eventuale statuto degli intermittenti dello spettacolo partiva senza che vi fosse chiarezza<br />

circa le regole del gioco tra le stesse parti sociali. Lo stesso Faivre d’Arcier, direttore<br />

del Festival di Avignone e in passato alto funzionario del Ministero della cultura nel<br />

settore dello spettacolo, sembrava nutrire dubbi sulle strategie che stavano tenendo<br />

(sempre che ne avessero una) un po’ tutti gli attori interessati al “dossier degli<br />

intermittenti”: come il lettore ricorderà, già nelle fasi preliminari all’avvio degli<br />

incontri, in febbraio, e fino a maggio, il Ministro della cultura cercò, senza successo, un<br />

confronto con le organizzazioni sindacali, tra loro divise in vista di un intervento sulla<br />

normativa; le posizioni del Medef (l’associazione degli industriali francese), non<br />

rappresentativo del settore dello spettacolo dal vivo ma fortemente collegata alle grandi<br />

imprese dell’audiovisivo (canali televisivi pubblici e privati, grandi società di<br />

produzione e istituzioni culturali), restavano ambigue o altalenanti circa il<br />

mantenimento del sistema degli “intermittenti”; per quanto concerneva il movimento<br />

stesso degli “intermittenti”, nel periodo in cui gli scioperi e le minacce di perturbare<br />

anche i festival estivi erano ancora sotto il (relativo) controllo dei sindacati dissidenti,<br />

non sembrava in grado di piegare il governo circa l’effettiva esigenza di una riforma del<br />

loro statuto; il governo stesso, era alle prese con un ulteriore fronte di negoziazione,<br />

nell’ambito del più ampio – e già piuttosto “caldo” – filone di riforme sociale e del<br />

sistema pensionistico nazionale.<br />

Quest’ultimo aspetto apriva ad un’ulteriore caratteristica di quello stadio dell’affaire:<br />

dal racconto dei fatti sembrava evidente come l’accordo andava inquadrato in un gioco<br />

delle parti strettamente collegato al contesto in cui si inseriva la riforma dello statuto<br />

degli “intermittenti”. Come nel più classico dei “problemi civetta”, l’attenzione<br />

“specifica” sulle azioni intraprese per affrontare quella crisi distolse l’attenzione<br />

“generale” da altri fattori di pericolo e su ben altre trattative in corso, come quella della<br />

riforma del sistema pensionistico. Tra gli altri, “Le Figaro” del 29 giugno scriveva:<br />

«Signé hier au petit matin entre les trois organisations patronales (Medef, CGPME,<br />

UPA) et trois syndicats (CFDT, CGC, CFTC), l’accord sur la réforme du système<br />

d’indemnisation chômage des intermittents du spectacle met un terme à quinze ans de<br />

bataille entre les partenaires sociaux, gestionnaires de l’Unedic, et la profession. Cet<br />

accord confirme aussi l’ancrage de trois syndicats dans le clan réformiste 1 : ce sont les<br />

trois mêmes qui soutiennent le projet Fillon sur les retraites puisque la CFTC, même si<br />

elle n’a pas donné formellement son accord, n’a appelé à aucune des manifestations qui<br />

se sont déroulées depuis le 15 mai et qu’elle a pris soin de préciser qu’elle se situe bien<br />

“dans le camp de la réforme”». I tre sindacati firmatari dell’accordo del 26-27 giugno<br />

sono gli stessi che, in modo più o meno formale, appoggiano il progetto di riforma del<br />

sistema pensionistico nazionale proposto dal Ministro del lavoro. “Un certo modo di<br />

vedere è sempre anche un modo di non vedere”: la logica vorrebbe che le<br />

organizzazioni affrontassero un problema per volta, analizzandone la struttura specifica<br />

e individuando la procedura più adatta alla risoluzione; nella realtà, definire chiaramente<br />

1 Salvo poi sottolineare che: «Ni la CGT, majoritaire dans le spectacle, ni FO n’ont signé l’accord sur les<br />

intermittents, mais les deux syndicats ont amplement participé à la dinalisations du projet dont ils<br />

partagent la philosophie sur bien des points, même s’ils ne peuvent le reconnaître! Jean Voirin, secrétaire<br />

général de la CGT-spectacle a ainsi parlé d’accord “scélérat” et prédit un “été chaud” pour tenter de<br />

dissuader le gouvernement d’agréer l’accord (N.d.T.).<br />

194


un nuovo problema spesso significa oscurare altri problemi mal strutturati e<br />

potenzialmente pericolosi 1 .<br />

Una volta, durante i giorni della crisi, ma ancor prima che iniziasse quella che per lui<br />

sarebbe stata comunque l’ultima edizione del Festival di Avignone quale direttore,<br />

Bernard Faivre d’Arcier osservò che «l’incendio era stato appiccato e noi aspettiamo<br />

ancora il Canadair…». Subito dopo i fatti di fine giugno e nonostante un tentativo di<br />

incontro a Parigi con il Ministro, Faivre d’Arcier confessò che almeno tre scenari<br />

potevano portare, direttamente, all’annullamento del Festival (da “France Soir” dell’8<br />

luglio 2003): se gli interventi dei manifestanti troncassero gli spettacoli, mutilando<br />

eccessivamente il cartellone generale; nel caso in cui si degradasse una corretta<br />

relazione con il pubblico a colpi di ritardi o interruzioni; e qualora si manifestassero<br />

delle violenze. Al palesarsi di una o più di queste situazioni, egli avrebbe preso<br />

seriamente in considerazione l’ipotesi di annullare, per la prima volta nella sua lunga<br />

storia, il Festival di Avignone. Anche se appariva una inconcepibile contraddizione,<br />

«l’atteggiamento per cui solo gli “interni” sono in grado di valutare i pericoli nelle<br />

situazioni gestite dalle organizzazioni che rappresentato» portava le parti coinvolte nella<br />

ricerca dell’accordo a considerare come dei “dissidenti” coloro che cercavano di mettere<br />

in guardia il resto del sistema: l’evento esplode comunque, in quanto una serie di azioni<br />

umane e l’accumularsi di un numero sufficiente di fattori trascurati o ambigui lo<br />

rendono inevitabile 2 .<br />

Nel caso della crisi degli intermittenti, vi erano due ulteriori peculiarità rispetto agli<br />

stadi precedenti della crisi e a conflitti simili.<br />

Quando un problema appare come mal strutturato, la “disomogeneità<br />

dell’informazione” non può essere facilmente risolta attraverso una “migliore<br />

comunicazione”: se, nell’arco di poco tempo, una organizzazione ha bisogno di fare il<br />

punto su una situazione specifica per troppe volte, questo forse è il segnale che<br />

l’argomento ha bisogno di essere gestito attraverso una rete di informazioni disponibili<br />

che permettano alle persone e ai gruppi coinvolti di comprendere appieno e gestire<br />

problemi che risultano ancora vaghi e complessi 3 . Il rapporto Roigt-Klein, pur dovendo<br />

1 Turner, Pidgeon 2000: 76 (N.d.A.).<br />

2 Come osservò a posteriori lo stesso Bernard Faivre d’Arcier, con riferimento all’operato del Ministro:<br />

«en tout cas, pour gérer un tel conflit, il faudrait un sens politique qu’il n’a pas…». Per gestire un tale<br />

conflitto, ci vorrebbe un senso politico che lui non ha: apparentemente, una critica neanche troppo velata;<br />

ma più verosimilmente, inserita nel contesto da cui è stata estrapolata, quella del direttore del Festival era<br />

una realistica considerazione circa i pochi margini di manovra che, obiettivamente, il Ministro della<br />

Cultura aveva a sua disposizione in quella situazione specifica. Per contro, Bernard Faivre d’Arcier<br />

troverà non facile da comprendere la posizione “suicida” degli “intermittenti”, al momento dello sciopero<br />

generale che, durante il Festival, ne causò il termine prematuro e l’annullamento. Anche in questo caso a<br />

posteriori, l’allora ex direttore non mancò, con molta lucidità, di sottolineare l’isolamento e l’abbandono<br />

che dovettero affrontare i lavoratori, tanto che subito dopo i fatti di giugno essi si organizzarono i<br />

collettivi e comitati di lotta autonomi: in quel caso specifico il principio dell’esclusività organizzativa<br />

aveva agito anche nei confronti dei sindacati, che non riuscirono più a manovrare la situazione. Di fronte<br />

all’accordo del giugno del 2003, riproposto con modifiche minimali dei primi giorni di luglio, gli<br />

“intermittenti” si unirono ancora di più in forme di lotta alternative rispetto alle regole del “gioco<br />

negoziale” che avevano messo in scena nei precedenti sei mesi i rappresentanti “ufficiali” delle parti<br />

sociali (N.d.T.).<br />

3 In un articolo apparso su Le Monde dell 26 giugno, prima dell’ultima riunione tra le parti sociali per la<br />

riforma dello statuto degli “intermittenti”, il Ministro della cultura affermava: «L’Etat doit-il pour autant<br />

rester inactif? Non! Depuis un an je me suis engagé fortement sur ce dossier, recevant l’ensemble des<br />

partenaires sociaux, du Medef à la CGT. J’ai évoqué ce dossier notamment avec Ernest-Antoine Seillière<br />

[président du Medef], Bernard Thibault [secrétaire général de la CGT] et François Chérèque [sercrétaire<br />

195


servire da base conoscitiva, era ovviamente al centro di visioni controverse tra le parti<br />

sociali presenti, ad esempio, al tavolo del CNPS. Ma, dal mio punto di vista, il problema<br />

stava altrove: in tutti quegli anni quanti funzionari, dipartimenti ministeriali, interi<br />

differenti Ministeri si occuparono della questione? E quanti funzionari e responsabili<br />

delle parti sociali avevano già affrontato la questione? E quali e quante difficoltà di<br />

comunicazione possono aver generato quella dispersione di informazioni cruciali a<br />

livello “organizzativo” che potevano in qualche modo spiegare quell’incredibile<br />

“ingovernabilità” rispetto ai contenuti dell’intero affaire degli “intermittenti” e, nello<br />

specifico, con riferimento all’accordo del 2003? In buona sostanza, nonostante gli sforzi<br />

generali, mi stupii di apprendere che non vi fosse assoluta chiarezza in termini<br />

informativi, e questo per tutta una serie di situazioni differenti: a) informazioni<br />

importanti, come nel caso dei lavoratori “intermittenti” risultarono sepolte sotto una<br />

moltitudine di informazioni irrilevanti che le parti sociali si ostinavano a comunicare; b)<br />

nel caso specifico dell’accordo, inoltre, le informazioni salienti divennero “trascurabili”<br />

agli occhi dell’opinione pubblica e dei diretti interessati, in quanto furono presentate nel<br />

momento della crisi; c) molti altri attori impegnati nella vicenda, ad esempio, le<br />

organizzazioni artistiche e la stessa Unedic, assunsero inizialmente un atteggiamento<br />

“amministrativo”, di tipo “passivo”; d) infine, la stessa stampa non risultò in grado di<br />

elaborare immediatamente le informazioni che riceveva con riferimento ad una vicenda<br />

di cui non riusciva a guidare veramente le reazioni.<br />

Un’altra caratteristica di questo stadio del conflitto era collegata all’aspetto<br />

“informativo”. Mi veniva in mente questa ulteriore riflessione: se i protagonisti del<br />

negoziato, sebbene “informati sui fatti”, erano riusciti ad occupare posizioni pericolose<br />

rispetto al buon esito della trattativa; cosa sarebbe accaduto se in una “situazione<br />

complessa” come quella, fossero entrati in gioco gruppi più numerosi di attori non<br />

completamente “informati” ad occupare una posizione pericolosa a cui erano<br />

impreparati? Detto altrimenti, cosa avrebbe significato l’accesso diretto nella trattativa<br />

dei lavoratori “intermittenti” entrati effettivamente in sciopero e organizzati<br />

autonomamente di collettivi e comitati, senza il controllo dei sindacati e al di là<br />

dell’eventuale sostegno delle organizzazioni artistiche che davano loro lavoro, pronti<br />

all’opposizione di principio e alla lotta al oltranza? Gli “intermittenti”, che in effetti,<br />

dopo la crisi di luglio, si organizzeranno in collettivi, non sono definibili propriamente<br />

come degli “estranei” rispetto al contesto della negoziazione; ma di fatto, quando coloro<br />

che non svolgono compiti direttamente controllati dalle organizzazioni coinvolte in una<br />

crisi si collocano in zone di “conflitto”, allora possono generare situazioni di “pericolo”<br />

che nel caso specifico sono associabili all’ampliamento del conflitto stesso e al suo<br />

sfociare in aperta emergenza. In un recente incontro, a tre anni da quei fatti, Bernard<br />

Faivre d’Arcier non mancò di sottolineare la carenza di rappresentatività delle/nelle<br />

organizzazioni artistiche, tanto dal lato dei datori di lavoro all’interno delle istituzioni<br />

padronali (Medef in testa), quanto dal lato dei lavoratori e delle rappresentanze sindacali<br />

consuete. I coordinamenti e i collettivi locali subentrarono e in parte si sostituirono con<br />

forza ai sindacati nel sistema di negoziazione, generando una sorta di “effetto domino”<br />

anche rispetto ai rapporti diretti tra organizzazioni artistiche e lavoratori nei periodi a<br />

général de la CFDT]. Quant à Jean Voirin, secrétaire général de Fnasac-CGT, il aura été le plus fréquent<br />

de mes visiteurs, plus fréquent même que le directeur du Louvre. C’est ainsi que j’ai pu réaffirmer<br />

l’attachement du gouvernement à l’existence d’annexes spécifiques pour les professione du spectacle et<br />

de l’audiovisuel, dans le respect de la solidarité interprofessionnelle. J’ai russi, je crois, à faire évouler<br />

certains esprits, notamment au Medef, ce qui a permis, je l’espère de sauver l’intermittence» (N.d.T.).<br />

196


idosso delle crisi estiva e autunnale, fino all’attuale situazione, tutt’altro che<br />

sbrogliata 1 .<br />

Le ultime due caratteristiche conoscitive che ero riuscito a individuare: da un lato, il<br />

problema iniziale dell’inosservanza delle norme esistenti sullo statuto degli<br />

“intermittenti” (in termini di mancato controllo e implementazione del protocollo, vista<br />

la diffusione degli abusi) si era ora trasformato in aperto discredito e delegittimazione<br />

nei confronti di una norma nuova, necessaria, che molti vogliono ma che, di fatto,<br />

nessuno sembra voglia veramente accettare; dall’altro, soprattutto le parti sociali che<br />

partecipavano alla trattativa e il governo sembravano minimizzare il pericolo emergente<br />

della trasformazione del negoziato in una emergenza organizzativa di ampia portata e<br />

dalla durata quanto mai incerta.<br />

I termini della questione erano evidentemente economici. Così “Le Figaro”<br />

riassumeva la situazione a fine giugno:<br />

«[…] Or, l’assurance-chômage devrait annoncer mercredi un déficit bien supérieur à sa<br />

dernière prévision: plus de 3 milliards d’euros fin 2003, contre 2,4 milliards attendus en mars<br />

dernier! L’accord d’hier tombe à point nommé: il devrait permettre d’économiser 260 millions en<br />

année pleine».<br />

Il deficit del sistema di indennizzo di disoccupazione nel suo complesso era fuori<br />

controllo, peggiorata ulteriormente rispetto al marzo dello stesso anno; dalla riforma<br />

degli specifici allegati VIII e X, dedicati ai lavoratori dello spettacolo, le parti sociali<br />

che gestiscono l’Unedic e il governo speravano di ottenere circa trecento milioni di euro<br />

di risparmio, rispetto al deficit programmato. Quanto di questo minor deficit era<br />

retaggio del passato, causato dalla mancanza di controllo sui controlli lamentato mesi<br />

prima dalla Corte dei conti francese o, ancora più in profondità, dal mancato accordo<br />

sulle regole da utilizzare per emendare una norma che da almeno dieci anni aspettava di<br />

essere modificata?<br />

Questo mi portava a pensare come da almeno un decennio si fosse formato un<br />

radicato convincimento comune per il quale, come in ogni ordinaria situazione di<br />

conflitto sociale, anche quelle rivendicazioni potevano essere assorbite con le abituali<br />

negoziazioni. Per quanto tale ipotesi potesse essere ragionevole, perdeva tale<br />

caratteristica nel momento in cui serviva a rafforzare l’incapacità di valutare<br />

correttamente l’entità del pericolo di situazioni potenzialmente pericolose. Mi sembrava<br />

il tipico ragionamento dell’attribuzione di significato “efferente”: “l’azione, la<br />

percezione e l’attribuzione di significato esistono in una relazione circolare, saldamente<br />

connessa e che assomiglia a una profezia che si autoavvera 2 ”. Se è inutile “gridare al<br />

lupo” in ogni occasione, è anche inutile continuare a dirsi che “tutto è sotto controllo”<br />

senza che nessuno si prenda il disturbo di verificare questa ipotesi. Ma se durante il<br />

1 La “comunità” dei lavoratori “intermittenti” esplose al grido di «ce que nous defendons, nous le<br />

defendons pour tous»: una forte identità collettiva stava portando il dibattito sull’intermittenza fino alle<br />

sue estreme conseguenze “politiche”, fin dove, forse, il mondo politico e l’opinione pubblica non si<br />

aspettavano. Questa riflessione recente dell’ex direttore del Festival mi rimase impressa in quanto<br />

confermava una idea che fin dall’anno prima mi si installò in testa: in fin dei conti, come ebbe a<br />

confermarmi M., i lavoratori “intermittenti” dello spettacolo non sono solo portatori di quella specificità<br />

della produzione artistica; rivendicano una specificità che molti pretendono di estendere, in modo forse<br />

“utopico” in una realtà economica che è governata da “teorie” e “leggi” che non contemplano tale ipotesi.<br />

Ma mentre in generale essi sostenevano questa idea all’interno di una visione “ideologica” del loro<br />

movimento, io volevo dare un fondamento “teorico” a quella straordinaria intuizione (N.d.T.).<br />

2 Weick 1993: 223-224 (N.d.A.).<br />

197


periodo di incubazione, in sostanza, vi è una generica sottostima dei rischi derivanti da<br />

una mancata riforma dello statuto degli “intermittenti” e sul suo impatto effettivo nel<br />

sistema di produzione dello spettacolo; in questo stadio, al momento della effettiva<br />

negoziazione, a tale sottostima si aggiunge anche una pericolosa situazione in cui i punti<br />

di vista sul pericolo risultano conflittuali. Le parti coinvolte nella trattativa preferiscono<br />

prendere tempo, incontrarsi o andare nei luoghi della crisi, per rivedere le informazioni<br />

a disposizione: ma nel frattempo le persone e i luoghi della crisi si spostano dai teatri<br />

cittadini delle stagioni invernali ai luoghi dei festival e delle stagioni estive, dove si<br />

sviluppano altri processi della filiera dello spettacolo (specie dello spettacolo dal vivo).<br />

La “ricognizione dei siti pericolosi”, oltre a risultare infruttuosa in quanto troppo a<br />

lungo rimandata, risulta anche non così immediata e agevole. Avignone poteva essere<br />

un momento e un luogo fondamentali per trasferire l’evoluzione della crisi in una<br />

situazione differente, di apertura e di confronto. Un quotidiano locale della regione di<br />

Avignone, in seguito alle prime manifestazioni nella città del festival, scriveva:<br />

«[…] Si les syndicats ne sont pas tous sur la même longueur d’onde, la CFDT – minoritaire –<br />

estime nécessaire de sauver le système. Les intermittents qui manifestaient hier place de l’Horloge<br />

avaient le moral en berne pronostiquant que ce seul syndicat risquait fort de s’entendre avec le<br />

Medef. Rappellons qu’il suffit d’un seul représentant salarial pour entériner les accords. À noter<br />

qu’un agrément ministèriel suffira pour cette réforme-là. Et le ministère qui tiendra le stylo est<br />

celui de François Fillon non de Jean-Jacques Aillagon. Évidemment, les intermittents vauclusiens<br />

qui attendaient hier [ndt: per l’apertura di una mostra importante, in calce al prossimo Festival di<br />

Avignone] avec la ferme intention de l’interpeller sur ce dossier n’ont “pas été surpris de son<br />

absence. Mais il devra bien venir un jour ou l’autre pour l’envoi du Festival!”» (da “Dauphiné-<br />

Vaucluse” del 27 giugno del 2003).<br />

Insomma, anche a questo stadio della crisi, era possibile evidenziare un vasto<br />

campionario di distorsioni mentali generate da un vero e proprio guazzabuglio di<br />

trappole cognitive, non solo con riferimento alla negoziazione tra partner sociali per la<br />

riforma dello statuto degli “intermittenti” in sé e che tra poco affronteremo, ma anche<br />

per quanto concerneva diversi meccanismi decisionali di tutti gli attori coinvolti nella<br />

vicenda.<br />

***<br />

Dunque, torniamo ai giorni dell’accordo del 2003, questa volta approfondendo<br />

l’emergere di quelle trappole cognitive che avevo rintracciato un po’ ovunque e che mi<br />

ero annotato con riferimento alla crisi che sfociò nell’annullamento del Festival.<br />

Che vi fossero una chiara situazione di “scarsità di risorse” in gioco e la presenza di<br />

interessi divergenti, ciò tornava ad essere evidente: si ripresentavano, una volta ancora<br />

nel caso degli “intermittenti”, quelle condizioni, necessarie e sufficienti, per originare<br />

un conflitto. Ma come è possibile spiegare il modo in cui tale conflitto si alimentò nel<br />

tempo? Con queste premesse, chi e perché si sorprese quando, proprio in quell’anno, da<br />

lì a pochi mesi, si palesò il grave evento dell’annullamento del Festival di Avignone e di<br />

buona parte delle manifestazioni estive in tutta la Francia? O meglio, alla luce di quanto<br />

stava già accadendo da mesi, tale nefasto epilogo era classificabile nell’ordine dei<br />

“disastri organizzativi” universalmente previsti e dalle cause irrimediabilmente<br />

evidenti? Cercando sempre di mantenere il punto di osservazione del Festival di<br />

Avignone, e questa vicenda la seguiremo in parte dall’interno e in parte da lontano,<br />

poche trattative e dossier sociali sembravano aver avuto contenuti tanto simbolici,<br />

198


isvegliando questioni di principio che, nell’immediato, risultarono non ben chiare<br />

neppure agli stessi interessati.<br />

La fenomenologia di un conflitto può essere ricondotta a schemi contingenti che<br />

sono legati alla combinazione differente attribuibile, lungo un continuum, a tre<br />

dimensioni principali 1 . Il conflitto può essere interpretato: come attento alla “relazione”<br />

o attento al “compito”, a seconda che sia rilevante la qualità del confronto o l’oggetto<br />

del conflitto; come più “razionale” o più “emozionale”, a seconda della tipologia di fatti<br />

su cui si fonda; più tendente alla “vittoria” o al “compromesso”, a seconda che sia<br />

percepito come un “gioco a somma zero” o “gioco cooperativo”. Lo schema del<br />

conflitto è dato dalla combinazione specifica che assumono queste tre dimensioni nella<br />

percezione di ciascuna delle parti coinvolte (direttamente o indirettamente). Ad<br />

esempio, vi sono tipici schemi di processi negoziali che, più di altri, rischiano di vedere<br />

naufragare una trattativa: quando l’oggetto del conflitto è percepito come una<br />

“questione di principio”; quando vi sono associate situazioni in cui non è possibile<br />

valutare agevolmente la struttura degli interessi reciproci (con riferimento ai possibili<br />

esiti del negoziato); quando lo spazio di manovra in termini di richieste, obiettivi e<br />

limiti è ridotto perché le parti hanno la sensazione di trovarsi in una situazione di<br />

interdipendenza a somma zero; quando le parti tendono ad affrontare il confronto con<br />

una sorta di “miopia temporale”, senza tenere conto degli effetti di lungo periodo;<br />

quando non vi è un sufficiente grado di “coesione percepita” tra i membri della propria<br />

controparte, cosa che impatta anche sul livello di legittimazione nei confronti della parte<br />

avversa; quando il mediatore non è in grado di facilitare i processi di comunicazione, di<br />

“raffreddamento emotivo”, di analisi razionale delle dinamiche in corso e di emersione<br />

di interessi impliciti, e viene invece screditato o considerato delegittimato; infine, vi<br />

sono percezioni che influenzano la probabilità di escalation del conflitto, alimentando<br />

circoli viziosi in cui non si riesce a trovare corrispondenza tra le valutazioni e i<br />

comportamenti di parti legate da “reciprocità negativa” (una sorta di “legge del<br />

taglione” spesso non intenzionale).<br />

Quanti buoni motivi per spiegare un fallimento come quello della crisi degli<br />

“intermittenti”! Ad ogni buon conto, per quanti sforzi di classificazione “razionale” si<br />

facciano, la caratteristica più affascinante della negoziazione, intesa come meccanismo<br />

di coordinamento e di soluzione di conflitti, resta quella di non avere regole di<br />

funzionamento predefinite. Anzi, anche leggendo sui giornali di tutti gli esempi<br />

possibili di processi negoziali che quotidianamente ci vengono propinati, spesso<br />

dimentichiamo questa caratteristica e di come la negoziazione sia un “gioco” le cui<br />

regole sono esse stesse oggetto di contrattazione. E gli elementi che influiscono sulla<br />

“meta-negoziazione” sono, altrettanto di frequente, più complessi di quelli che entrano<br />

in ballo una volta stabilite le regole 2 .<br />

Lungo tutti i primi mesi del 2003 le parti coinvolte nella riforma dello statuto degli<br />

“intermittenti” non trovarono quelle norme e quelle procedure di fairness, chiare e<br />

sufficientemente condivise, circa la distribuzione della “risorsa ritenuta scarsa” o, detto<br />

altrimenti, non riuscirono a negoziare le “regole del gioco” per avviare il confronto.<br />

Inoltre, sul modo di superare la situazione influì il fatto che nessuna delle controparti<br />

“ufficiali” riuscì a individuare nell’altra adeguati livelli di autorità e potere negoziale<br />

che potessero legittimamente portare all’individuazione di una “area dei possibili<br />

1 Ruminati, Pietroni 2001; Rocco 2001; Raiffa 2006. Ma anche: Schelling 1960; Kahneman, Knetsch,<br />

Thaler 1991; Loewenstein 2000, 2001; Thaler et al. 1997; Tversky, Kahneman 1986, 1991.<br />

2 Raiffa 2006; Rocco 2001.<br />

199


accordi”. A ben vedere, tutto ebbe inizio nel momento in cui si manifestò un<br />

cambiamento di prospettiva nel considerare l’affaire degli “intermittenti”, ovvero<br />

quando vennero a mancare uno o entrambi questi elementi (convinzioni culturali<br />

condivise e prescrizioni normative ad esse conformi), creandosi così le premesse e il<br />

terreno ideale di un conflitto che sarebbe esploso di lì a pochi mesi.<br />

Appena prima della riunione del 26 giugno presso la sede parigina del Medef, il<br />

Ministro della cultura francese esprimeva queste considerazioni (da “Le Monde” del 27<br />

giugno 2003). Davanti al palazzo al numero 55 di avenue Bosquet, oltre diecimila<br />

“intermittenti” stavano ancora manifestando.<br />

«Lei considera che la frode sia il problema essenziale del dispositivo?»<br />

«E’ uno dei suoi handicap. Non dimentichiamo che l’intermittenza, di cui attingono<br />

quasi 100 000 salariati, genera da sola circa un quarto del deficit dell’Unedit. Abusi di<br />

ogni sorta hanno reso fragile il regime: il ricorso di certi datori di lavoro all’intermitenza<br />

per essere dispensati dal fissare contratti di diritto comune per i laro lavoratori,<br />

l’annessione di numerose professioni periferiche a questo regime, piccoli aggiustamenti<br />

di comodo sfortunatamente ricorrenti, fondati spesso su accordi taciti tra datori di lavoro<br />

e lavoratori. Tutto ciò ha fortemente appesantito un dispositivo per sua natura fragile. E’<br />

per combattere gli utilizzi contestabili che ho scritto agli imprenditori dell’audiovisivo<br />

pubblico per domandare loro di presentarmi, all’inizio di luglio, un bilancio preciso sul<br />

ricorso che essi fanno all’intermittenza. Bisogna essere rigorosi quando si vuole imporre<br />

la propria virtù agli altri».<br />

«Cosa pensa delle ultime proposte del Medef, che mirano a ridurre la durata<br />

dell’indennizzo da dodici a sei mesi, per 507 ore effettuate non più in un anno ma in 9<br />

mesi?»<br />

«Non posso commentare in anticipo una negoziazione che compete la responsabilità<br />

dei partner sociali. Ho solo indicato loro che, malgrado tutto e al di sopra di tutto, ero<br />

convinto del mantenimento della specificità del regime dell’intermittenza. Ciascuno<br />

rinasceva che il deficit deve essere ridotto. Dalle informazioni di cui dispongo, la durata<br />

di indennizzo come la durata per il conteggio delle 507 ore, sarebbero i due parametri<br />

sui quali i partner sociali dovrebbero giocare per pervenire ad un accordo. Ma ciò deve<br />

avvenire nella misura in cui non renda impraticabile l’accesso stesso al regime, cosi<br />

come ho auspicato lo scorso 22 maggio, in seguito al mio incontro con le parti sociali.<br />

Mi auguro, inoltre, che questi possano raggiungere un accordo che il governo possa<br />

firmare e validare. Si tratta di produrre un piano economico tollerabile. L’intermittenza<br />

deve essere ricondotta nella sua corretta prospettiva: è un dispositivo destinato a coloro<br />

che vivono effettivamente del rilevante mestiere dello spettacolo dal vivo, del cinema e<br />

dell’audiovisivo. Credo al principio del riconoscimento professionale e della solidarietà<br />

interprofessionale. L’ideale sarebbe di giungere ad un compromesso per lottare<br />

efficacemente contro gli abusi e tendere verso un miglior equilibrio finanziario. Ciò<br />

permetterebbe di uscire da una situazione provvisoria, in quanto fino ad ora lo statuto<br />

degli intermittenti è rimesso in discussione ogni sei mesi. C’è un interesse fondamentale<br />

a stabilizzare le regole del gioco e a permettere a tutti di lavorare in condizioni serene e<br />

perenni».<br />

Oltre nove ore separeranno queste dichiarazioni preliminari dal termine della<br />

maratona negoziale che produsse il nuovo protocollo di modifica del regime degli<br />

“intermittenti” del cinema, dell’audiovisivo e dello spettacolo dal vivo. Il tanto discusso<br />

accordo fu firmato nella notte tra giovedì e venerdì, tra le organizzazioni padronali<br />

(Medef, Confederazione generale delle piccole e medie imprese, Unione professionale<br />

200


artigianale) e tre delle organizzazioni sindacali (CFDT, CGC e CFTC) sulle cinque<br />

presenti al tavolo delle trattative (le altre erano la CGT e la FO).<br />

Dai quotidiani francesi era possibile apprendere informazioni generiche circa gli<br />

aspetti tecnici dell’accordo. La durata di contribuzione che permetteva l’apertura del<br />

diritto a questo regime specifico di allocazione di disoccupazione era ridotta a dieci<br />

mesi per i tecnici e a dieci mesi e mezzo per gli artisti (contro i dodici mesi precedenti),<br />

nel corso dei quali diventerà necessario effettuare lo stesso numero di ore di lavoro<br />

previste in precedenza (le famose 507 ore). Questa durata di contribuzione, che<br />

sembrava essere stata negoziata in precedenza dalla CGC, dava comunque diritto a otto<br />

mesi di indennizzo (contro i dodici attuali). Le modalità di calcolo erano state<br />

parzialmente modificate, ed erano stati presi in considerazione anche i periodi di<br />

malattia, di congedo di maternità, di formazione e per ogni attività complementare<br />

(insegnamento musicale, corsi d’arte drammatica, ecc.). La durata dell’indennizzo era<br />

calcolata su un periodo “glissante”, il periodo di dieci mesi effettivi più favorevoli al<br />

lavoratore, e non più calcolata su una “data anniversario”, di apertura del diritto.<br />

Ma dalle reazioni a caldo registrate dai giornali era anche possibile trarre indicazioni<br />

sull’andamento della trattativa. «Grazie ad una accelerazione del ritmo con cui si<br />

susseguono le durate di indennizzo, il sistema adottato incita gli “intermittenti” a<br />

lavorare, a dichiararlo e a lavorare nuovamente», indicò uno dei negoziatori del Medef.<br />

L’accordo prevedeva anche un controllo più stretto di lavoratori e datori di lavoro e<br />

separava meglio i campi di applicazione del regime degli “intermittenti” dando<br />

appuntamento ai firmatari all’anno successivo, al fine di constatare se il deficit si fosse<br />

effettivamente riassorbito. «Gli intermittenti che guadagnano meno di cento euro al<br />

giorno, vale a dire circa il 60% degli “intermittenti” vedranno aumentare la loro<br />

indennità», precisò il segretario generale della CFDT, «mentre coloro che guadagnano<br />

più di cento euro al giorno guadagneranno un po’ meno rispetto ad oggi». E aggiunge:<br />

«Non se n’è usciti male. Se la negoziazione fosse stata rinviata all’autunno, al momento<br />

della negoziazione su tutto il deficit del sistema di indennizzo di disoccupazione, un<br />

accordo sarebbe stato molto più difficile da trovare». Mentre il segretario generale<br />

aggiunto della CFTC, incaricato della formazione, argomentava come: «questo<br />

compromesso non è perfetto […] ma ha permesso di salvare il regime degli<br />

“intermittenti”», aggiungendo che «il Medef avrebbe preteso la fine degli allegati si le<br />

negoziazioni fossero stare rinviate all’autunno».<br />

Molti quotidiani sottolinearono che per le organizzazioni padronali l’urgenza era una<br />

dimensione determinante del compromesso. Il negoziatore del Medef affermò che «con<br />

un numero di intermittenti moltiplicato per due in più di dieci anni e una spesa<br />

moltiplicata per quattro, il regime degli intermittenti era minacciato nella sua stessa<br />

esistenza»; secondo lo stesso negoziatore l’accordo permetteva di: «limitare le derive<br />

salvaguardando l’indennizzo dei disoccupati e migliorandone anche la situazione,<br />

soprattutto grazie alla soppressione della progressività, l’aumento dell’indennizzo<br />

giornaliero o, ancora, una franchigia ridotta di trenta giorni che permette un avvio più<br />

rapido dell’indennizzazione. Questo accordo permette di governare le derive finanziarie<br />

che stavano diventando insostenibili, lasciando intatta la possibilità ai tecnici, agli artisti<br />

e ai professionisti dello spettacolo che vogliano vivere del loro lavoro di contare in<br />

modo duraturo sul sistema di assistenza alla disoccupazione per assicurare il loro<br />

percorso professionale».<br />

Un’altra sigla importante come la Fesac (la Federazione delle imprese dello<br />

spettacolo dal vivo, della musica, dell’audiovisivo e del cinema), che quattro anni prima<br />

201


era riuscita a trovare un accordo con i sindacati (compresa la CGT) senza però ottenere<br />

il consenso del Medef 1 , si rallegrava di «quel buon accordo per i datori di lavoro»<br />

rendendo omaggio «al senso di responsabilità dei firmatari».<br />

Di tutt’altro tenore le dichiarazioni di Jean Voirin, segretario generale delle<br />

federazione dei sindacati CGT dello spettacolo: «La restrizione delle condizioni di<br />

accesso si tradurrà nella rimozione del 30 per cento dei destinatari; sono i più precari,<br />

quelli che toccano i 15 euro di contributi al giorno, ad essere rimossi dal sistema». Per<br />

la tarda mattinata di venerdì era stata prevista una assemblea generale del sindacato per<br />

decidere sul mantenimento della mobilitazione, ma Jean Voirin assicurava già che, in<br />

seguito all’accordo firmato dalle altre organizzazioni sindacali, i festival estivi, e in<br />

particolare quelli di Avignone e di Aix-en-Provence, sarebbero stati fortemente<br />

danneggiati in luglio, specie nel momento in cui il governo dovesse controfirmare<br />

l’accordo, condizione necessaria affinché la riforma del regime degli “intemittenti”<br />

possa entrare in vigore. In calce ad un articolo de “Le Monde”, notizia riportata anche<br />

da altri quotidiani, si leggeva un atto di accusa neppure troppo velato della CFTC,<br />

secondo la quale la CGT «non ha mai dato veramente l’impressione di voler firmare né<br />

di voler effettivamente negoziare». In più, altri retroscena e un commento finale del<br />

giornalista:<br />

«Lors de la dernière salve de négociations, les 3, 6 et 11 juin, la philosophie générale de<br />

l’accord semblait déjà acquise - avec une réduction de la durée de cotisation et d'indemnisation.<br />

Personne n’a voulu signer trop rapidement, sans doute pour ne pas réitérer l'épisode de la CFDT<br />

avec l'accord sur les retraites. Même si plusieurs négociateurs affirment que presque tout est calé<br />

depuis le 3 juin, de nombreux points techniques ont pu être réajustés au cours de cette période,<br />

comme la notion de « mois glissant » ou encore le calcul des journées chômées. […]<br />

Politiquement, tout, dans cette négociation était à redouter: la CGT risquait de souffler sur les<br />

braises pour faire renaître le mouvement social. Après le 11 juin, Matignon a demandé le report<br />

des négociations à la rentrée. Avant de changer d’avis, puisque le démarrage des festivals avec un<br />

texte encore provisoire risquait de provoquer une mobilisation des intermittents» (dal reportage de<br />

“Le Monde”, 28 giugno 2003).<br />

Sempre il 28 giugno, fu chiamato in causa anche Stéphane Lissner, allora direttore<br />

del Festival di arte lirica di Aix-en-Provence, il quale condivideva molti dei dubbi del<br />

suo collega di Avignone: «Le ultime proposte del Medef sono troppo radicali e<br />

1 In un articolo de “Le Monde” del 28 giugno del 2003 rintracciai qualche riferimento al tentativo di<br />

accordo di quattro anni prima. Il giornalista, nello sforzo di ricostruire la storia recente delle vicende dello<br />

statuto degli intermittenti, ricordava come: «Dans un premier temps, un accord de branche a été signé, en<br />

juin 2000, par la Fesac, qui regroupe la plupart des organisations d’employeurs du secteur du spectacle<br />

vivant et enregistré, et trois organisations syndicales : la CGT - largement majoritaire -, la CFDT et la<br />

CGC. Faire entériner cet accord par le Medef s'est révélé impossible. D’abord parce que les employeurs<br />

du spectacle souffrent d’une image dégradée dans l'organisation patronale, qui les estime responsables des<br />

dérives du régime des intermittents. Le rapport de forces n’est pas favorable aux représentants du<br />

spectacle vivant ou de la culture au sein du Medef : seuls deux secteurs y sont représentés par deux<br />

syndicats adhérents, le Syndicat national de l’édition phonographique (SNEP) et la Fédération des<br />

industries techniques audiovisuelles, du cinéma et du multimédia (Ficam). Tous deux ont le plus grand<br />

mal à résister aux attaques de certaines fédérations du Medef, comme celles du bâtiment ou de<br />

l'assurance, qui considèrent qu’un régime privé n'a pas à subventionner la culture. C’est la raison pour<br />

laquelle le premier accord conclu entre la Fesac et les syndicats a été rejeté par Denis Kessler, alors<br />

numéro deux du Medef. « Alors qu’on avait mis dans l'accord des clauses que le Medef ne pouvait pas<br />

chiffrer, notre proposition a pourtant été immédiatement rejetée parce qu'elle risquait d’alourdir d'1<br />

milliard de francs le déficit du régime des intermittents », raconte un des participants. L’Unedic a<br />

également torpillé cette initiative parce que la négociation se serait faite sans elle».<br />

202


ischiano di far uscire dal regime degli artisti che costituiscono una manodopera<br />

estremamente qualificata. Su 560 salariati del Festival, la metà sono degli intermittenti.<br />

Bisogna modificare il sistema limitandone gli abusi da parte di datori di lavoro e<br />

lavoratori, ma, in Francia, si aspetta sempre di essere in una situazione veramente<br />

drammatica prima di negoziare».<br />

L’altro grande quotidiano francese, “Le Figaro”, così spiegava le novità tecniche<br />

dell’accordo:<br />

[…] Le protocole d’hier, qui entrera en vigueur au 1er octobre, maintient ces taux [di<br />

contribuzione] à 5,4% du salaire. Mais il modifie sensiblement les conditions d’indemnisation tout<br />

en supprimant la dégressivité des allocations jusqu’alors de règle. Il ne suffrira plus d’avoir<br />

travaillé trois mois (507 heures) au cours des douze derniers mois pour bénéficier d’un an<br />

d’allocations. Il faudra désormais avoir travaillé trois mois au cours des dix derniers mois pour les<br />

techniciens de l’audivisuel et du cinéma, dix mois et demi pour les artistes, pour bénéficier d’une<br />

indemnisation de huit mois. Le calcul de l’allocation sera également plus favorable aux bas<br />

salaires puisque, au-délà de la partie fixe, l’allocation représentera une fraction du salaire moindre<br />

qu’aujourd’hui (19,5% au lieu de 32%) à laquelle s’ajoutera une somme égale à 0,026€ par heure<br />

travaillé. En outre, la franchise est diminuée de 30 jours, ce qui aura pour effet de l’annuler pour<br />

les salariés le plus modestes. Au total, selon l’Unedic qui relève le caractère “très social” de<br />

l’accord, l’allocation moyenne passera de 45€ par jour à 53€, mais sera versée moins long-temps.<br />

L’accord resserre aussi beaucoup le champ des secteurs et des qualifications qui auront accès<br />

au régime, ce qui devrait éviter les abus de certaines grandes entreprises de l’audiovisuel dénoncés<br />

par tous. De ce seul fait, 10 à 12% des intermittents n’auront plus accès au régime. Enfin, l’accord<br />

renforce le contrôle du dispositif grâce à un croisement des fischiers. Selon ses estimations, la<br />

CGT considère que 30% des intermittents seraient désormais exclus du régime. La CFDT au<br />

contraire salue une réforme “intelligente” tout comme le Medef pour qui l’accord “ne bouleverse<br />

pas le régime mais commence sérieusement à le remettre dans la ligne… C’est cela qu’on appelle<br />

la réforme”, s’est réjoui hier Ernest-Antoine Seillière. Le ministre de la Culture a, quant à lui,<br />

souligué les “avancées” apportées par l’accord qui permet de “sauver” l’intermittence» (da “Le<br />

Figaro” del 29 giugno 2003, il corsivo è mio).<br />

E questo era il punto di vista del più importante quotidiano economico francese:<br />

«Environ 25% des intermittents du spectacle seraient exclus du régime d’assurance-chômage à la<br />

suite de la mise en œuvre, à partir du 1 er octobre, de la réforme, selon les premières estimations de<br />

l’Unedic. L’objectif est d’économiser quelque 260 millions d’euros.<br />

L’accord signé vendredi par le Medef et trois organisations syndicales (CFDT, CFTC, CGC)<br />

concerne quelque 135.000 intemittents cotisant à l’assurance-chômage recensés en 2002 par<br />

l’Unedic, dont 102.600 ont perçu au moins une allocation. Mais, en moyenne annuelle, si l’on tient<br />

compte de l’activité réduite et d’une certaine saisonnalité, le nombre réel d’indemnisés est plus<br />

restreint (environ 57.000 personnes). Le patronat dénonce le doublement du nombre des<br />

intermittents en un peu plus de dix ans et une dépense multipliée par quatre pendant la même<br />

periode: le déficit du régime a, ainsi, atteint 828 millions d’euros en 2002 […]. Le revenu moyen<br />

annuel des intermittent s’éleve à environ 21.150 euros, dont 40% dépend de l’indemnisation<br />

(8.327 euros) et 60% du “travail” proprement dit. Jusqu’à présent, la durée moyenne<br />

d’indemnisation est de 212 jours pour une durée moyenne d’affiliation (travail, formation et arrêt<br />

maladie) de 721 heures. Ce qui signifie que les intermittents travaillent, en moyenne, 4 mois et une<br />

semaine pour 7 mois d’indemnisation. Toutefois, une grande partie de l’activité des intermittents,<br />

comme le répétitions, les apprentissages des textes, ne sont pas considérés comme du travail<br />

effectif. Les nouvelles règles inscrites dans l’accord vont fortement modifier la donne. Quelque<br />

25% des intermittens pourraient être exclus du régime, selon les premiers calculs de l’Unedic et<br />

260 millions d’euros pourraient être économisé. Les principaux changements sont les suivants.<br />

Durée du travail. A partire du 1 er octobre, les intermittents devront avoir effectué 507 heures au<br />

cours des 10 derniers mois pour les techniciens et des 10,5 derniers mois pour les artistes, contre<br />

douze mois jusqu’à présent.<br />

Durée d’indemnisation. Elle est ramenée de douze à huit mois (243 jours).<br />

203


Dégressivité. Elle est supprimé, comme cela a été fait, en 2001, dans le régime général des salariés<br />

du privé.<br />

Niveau d’indemnisation. Il dépendra plus que maintenant du nombre d’heures effectuées, afin<br />

d’inciter les intermittents à déclarer toutes leurs heurs au délà de la 507 e .<br />

Activité complémentaire. Il sera désormais possible d’exercer une autre activité (enseigement<br />

musical, cours de théâtre, etc.) tout en bénéficiant de l’ouverture de droits à indemnisation, c’est<br />

qui n’était pas le cas auparavant.<br />

Franchise. Cette période, qui suit la date du dernier jour du dernier contrat et pendant laquelle le<br />

salarié ne reçoit pas l’allocation, ne s’impute plus sur la durée d’indemnisation, comme c’était le<br />

cas jousque-là. Cette mesure est favorable àceux dont la “franchise” est la plus longue, c’est-à-dire<br />

à ceux qui sont le mieux rétribués, dans la mesure où sa durée augmente avec la rémunération du<br />

salarié.<br />

Par ailleurs, le champ des métiers et des entreprises concernés par l’indemnisation a été resseré par<br />

un accord signé par les syndicats de la profession» (da “Les Echos” dell’1 luglio 2003).<br />

In tutti i commenti a caldo si dava gran risalto ad alcune questioni che oramai anche<br />

il lettore avrà più volte inteso: al fatto che diversi tentativi erano stati realizzati e le<br />

soluzioni ipotizzate, soprattutto dal Medef, erano in sostanza sempre le medesime,<br />

collegate all’aumento dei livelli di contribuzione e all’aggiustamento della durata<br />

annuale di lavoro richiesta per poter accedere al regime; il largo consenso sulla<br />

necessità di preservare lo statuto di tutte le categorie di “intemittenti” (quindi di tutti gli<br />

allegati Assedic); l’esigenza di rimettere in gioco il noto principio della solidarietà<br />

interprofessionale, con un occhio di attenzione, tutto interno alle professioni dello<br />

spettacolo, per situazioni molto diverse tra tecnici e artisti e tra categorie appartenenti<br />

allo spettacolo dal vivo in senso stretto piuttosto che all’industria discografica e a quella<br />

dell’audiovisivo (in primo luogo i grandi canali televisivi pubblici e privati).<br />

“L’Humanité” del 30 giugno già assumeva toni di preoccupata premonizione: «L’été<br />

chaud des intermittents 1 ». Più sobrio il titolo apparso su “Le Monde” del sabato<br />

precedente: «Intermittents du spectacle: accord signé sans la CGT ni FO 2 ».<br />

Ovviamente, anche i giornali locali erano ben attenti a quanto stava accadendo, in<br />

quanto l’onda lunga di quella vicenda già si era fatta sentire ben lontano da Parigi; e la<br />

situazione non poteva che volgere al peggio con l’approssimarsi della stagione dei<br />

grandi festival:<br />

«Intermittents du spectacle. L’été s’annonce “chaud, chaud, chaud”.<br />

L’été des festivals s’annonce torride après la signature dans la nuit de jeudi à vendredi par les<br />

syndicats minoritaires et le patronat d’un protocole d’accord modifiant le régime spécifique<br />

d’assurance-chômage des intermittents du spectacle». (da “La Marseillaise” del 28 giugno del<br />

2003).<br />

«Les intermittents menacent les festivals de la région. L’accord signé par trois syndicats et le<br />

Medef sur leur régime d’assurance-chômage suscite la colère des professionnels du spectacle qui<br />

ont annoncé des actions sur Avignon et Aix. Jusqu’à la grève». (da “La Provence” del 28 giugno<br />

del 2003).<br />

Il 30 giugno il senatore comunista Jack Ralite invia una lettera aperta al ministro<br />

Jean-Jacques Aillagon; già ministro e animatore degli Stati generali della cultura, fedele<br />

frequentatore del Festival di Avignone, avrà un ruolo importante all’interno del<br />

1 «L’estate calda degli intermittenti» (N.d.T.).<br />

2 «Intermittenti dello spettacolo: accordo siglato senza la CGT né la FO» (N.d.T.).<br />

204


comitato permanente che si occuperà, dopo la crisi del 2003, di trovare una soluzione<br />

politica all’affaire degli intermittenti. Questa è la sua ricostruzione della situazione:<br />

«Signor Ministro, torno dall’incontro degli intermittenti dello spettacolo davanti al<br />

vostro ministero, dove ho potuto constatare la loro viva emozione e la loro grande<br />

collera di fronte alla firma di un testo involutivo per la loro professione, firmato alle due<br />

del mattino. Ieri sera ero ancora con loro, fino a tardi nella notte, durante le negoziazioni<br />

con il Medef. Ciò per affermare che la mia solidarietà nei confronti degli intermittenti e<br />

che voglio testimoniare presso di voi, non è solo di principio, ma reale e partecipata.<br />

Come sapete, il Medef ha ottenuto un accordo di tre sindacati che rappresentano<br />

insieme meno del 10% della professione. Questo testo, che non ha dunque alcun valore<br />

democratico, aggrava considerevolmente la situazione degli intermittenti attraverso il<br />

suo contenuto […].<br />

Mi spiego: gli intermittenti raggiungono 507 ore di lavoro per vedere i loro diritti<br />

aperti. Ma mentre ora queste 507 ore sono calcolate su 12 mesi, domani lo saranno su<br />

10 mesi per i tecnici, 10 mesi e mezzo per gli artisti. In più, le prestazioni non saranno<br />

più versate durante il periodo di disoccupazione su 12 mesi, ma su 8 mesi.<br />

Aggiungiamo che la campagna contro gli allegato VIII e X è stata condotta nel nome<br />

degli abusi e che l’accordo non ne corregge alcuno. Lascia alle imprese, spesso molto<br />

grandi che utilizzano impunemente l’intermittenza, la libertà di continuare come se<br />

nulla fosse, cosa che mi stupisce conoscendo le pratiche del Medef.<br />

E’ dunque un pessimo accordo, un accordo anti-artistico e anti-culturale, contro il<br />

quale gli intermittenti, mi creda Signor Ministro, lotteranno, in quanto nessuno sogna di<br />

vederli semplicemente lamentarsene.<br />

Sono a conoscenza di un memorandum che le sarà presto consegnato, con l’obiettivo<br />

– davanti alla scoperta del contenuto criminoso e dell’attentato ad una delle dimensioni<br />

più importanti dell’espressione artistica e culturale del nostro paese – di vedervi fare<br />

tutto il possibile affinché l’accordo non sia approvato dal governo. Questa stessa<br />

mattina, alla radio, parlando della legge di abilitazione e di semplificazione del diritto,<br />

vi ho inteso, con piacere, disapprovare la sorte che questa legge fa fare agli architetti. Vi<br />

domando di disapprovare con lo stesso spirito la sorte che il Medef ha imposto agli<br />

intermittenti dello spettacolo e di convincere i vostri colleghi del governo a non<br />

approvare questo accordo iniquo.<br />

La Francia, in questi ultimi tempi, è ad un crocevia pregiudizievole per il suo<br />

avvenire. Il governo domanda ai cittadini di accettare la diminuzione delle loro pensioni<br />

per salvare ciò che resterebbe del sistema pensionistico. Al rientro autunnale, il governo<br />

domanderà loro la diminuzione della loro copertura sociale per salvare ciò che<br />

resterebbe della Sicurezza sociale. Nessuno domanda l’attenuazione delle libertà per<br />

proteggere ciò che persisterebbe di tali libertà. E’ un controsenso. E’ un indebolimento<br />

del nostro futuro, el’accordo del Medef ne costituisce un ultimo e grave esempio. Se mi<br />

è permesso di ironizzare, non ho sentito il Medef domandare una diminuzione dei<br />

profitti per salvare i profitti.<br />

Nel momento in cui la Francia, e non solo lei, ha un urgente bisogno di stabilire una<br />

responsabilità pubblica in materia di arte e cultura, l’accordo notturno contro<br />

l’intermittenza organizza un percorso che si vorrebbe farci credere inevitabile degli<br />

interessi dei grandi affari “senza coscienza né misericordia”.<br />

Signor Ministro, così come a Tessalonica la Convenzione europea rimise in<br />

discussione l’eccezione culturale, cosa che esige una replica europea, qui il Medef vuole<br />

205


fare la stessa cosa sullo status della cultura, delle arti e delle donne e degli uomini,<br />

artisti e tecnici, che li creano.<br />

Rifiutate anche voi l’accordo, fate tutto quel che è possibile affinché il governo vi<br />

segua.<br />

“La storia non è ciò che subiamo ma ciò che ci agita”, diceva Pierre Boulez, e sono<br />

certo che il riunirsi dei professionisti dello spettacolo di ogni status non è che all’inizio.<br />

Con i miei ringraziamenti per quanto farete nella direzione di questa lettera, il cui<br />

obiettivo è quello di promuovere coloro che fanno del nostro paese una terra intrepida<br />

della creazione. Jacques Ralite».<br />

La negoziazione, di fatto terminata con l’accordo di fine giugno, sarebbe riprese la<br />

settimana successiva, un ultimo, disperato tentativo di modifica: un caso emblematico di<br />

evento precipitante per disastri tipicamente istantanei: un singolo evento (o<br />

l’approssimarsi imminente di tale evento) e l’innesco delle sue conseguenze fisicosociali<br />

si susseguono a brevissima distanza.<br />

In questo caso, la negoziazione stava avvenendo contemporaneamente e direttamente<br />

sui “siti pericolosi”, a ridosso dei festival estivi.<br />

206


XV<br />

(Giovedì, 10 luglio 2003: “Ce 57 e Festival est clos!”.<br />

L’innesco: gli “intermittenti” al 57 esimo Festival di Avignone)<br />

In cui il lettore si troverà catapultato nel bel mezzo di una accesa manifestazione<br />

pubblica che riempierà le strade e le piazze di Avignone in modo tutt’altro che gioso <br />

Lo sciopero, conseguenza degli avvenimenti dei giorni precedenti, fornì l’innesco per<br />

l’annullamento del Festival di Avignone: in pochi giorni e in un’area molto vasta del<br />

paese, il movimento degli “intermittenti” fu fatale.<br />

Era ragionevole pensare che Avignone potesse “salvarsi” in una escalation simile, in<br />

cui la protesta era così estesa e forte?<br />

Ma, allo stesso modo, viste le specificità di Avignone quale Festival guida nel<br />

panorama nazionale e internazionale, non poteva essere l’occasione per fungere da<br />

“intermediario” tra gli attori dell’intero sistema, per diventare una sorta di “campo<br />

neutro” in cui avrebbe potuto lavorare un “mediatore” legittimato? Perché non fu<br />

affidato un ruolo simile ad un personaggio del calibro di Bernard Faivre d’Arcier, che<br />

aveva anche il vantaggio di “non avere nulla da perdere” visto che si trattava della sua<br />

ultima edizione? Chi più di lui poteva vantare una tale leadership ed una legittimazione<br />

da fare valere in una situazione talmente complessa? E Faivre d’Arcier, uomo preparato<br />

e dalla straordinaria professionalità, avrebbe accettato una simile investitura da parte<br />

dello stesso ministro della cultura che gli aveva dato il “ben servito” pochi mesi prima?<br />

***<br />

Era il primo pomeriggio di venerdì 3 giugno e dalla mia postazione, al secondo<br />

piano, potevo nitidamente percepire tutta l’animazione ai piani sottostanti e nel piccolo<br />

cortile dell’antico Hôtel de Crochans. Di lì a poco ci sarebbe stata l’inaugurazione della<br />

“Esposizione Jan Fabre – For Intérieur”, con molte opere plastiche dell’artista<br />

associato di quel 59° Festival.<br />

Mancava più di mese all’apertura ufficiale di quel Festival.<br />

Mi affrettai a recuperare le mie cose e scesi, non con l’ascensore, via di accesso<br />

“ufficiale” al sala di lettura della biblioteca, ma dalle scale a chiocciola che si<br />

arrampicavano nella pancia del vecchio palazzo fino alla vecchia porta che dava<br />

nell’atrio. Era la strada che mi avevano indicato al mio arrivo, poche settimane prima,<br />

solitario frequentatore della Maison Jean Vilar. Solo dopo compresi che quella<br />

deviazione mi fu accordata perché l’ascensore non era funzionante; ma per tre mesi quel<br />

remoto passaggio di servizio, che sapeva ancora di antico, mi lasciava quel piacevole<br />

sapore che si prova quando ci si avvicina, passo dopo passo, ad una sorta di rivelazione.<br />

In fondo stavo entrando in una biblioteca attraverso cui avrei avuto accesso all’archivio<br />

completo di una avventura che sapeva già di mito, comprese le gesta epiche del suo<br />

fondatore, accingendomi a scavare nel presente e nel passato di una organizzazione<br />

come se fosse «un sogno che facciamo noi tutti».<br />

Dopo aver salutato, all’ingresso, le sempre sorridenti e amabili Mitzi e Isabelle,<br />

decisi di accomodarmi fuori, nonostante il fresco dell’aria condizionata all’interno del<br />

palazzo.<br />

Fu una bella occasione per incontrare ufficialmente molte delle persone il cui ruolo<br />

per il Festival, col tempo, avrei imparato a conoscere: fui presentato e parlai di persona<br />

con i direttori e il segretario generale del Festival; conversai con alcuni membri e fui<br />

207


introdotto ai risposabili della stessa Maison Jean Vilar; incrociai nuovamente Jan Fabre,<br />

arrivato con un ritardo non commensurabile ma parzialmente annunciato; scambiai<br />

qualche parola con diverse persone durante la visita alle sale dell’esposizione; ascoltai<br />

molto, a cominciare dagli interventi delle autorità; riconobbi alcuni dei collaboratori e<br />

degli artisti della troupe di Jan Fabre e che ebbi la fortuna di conoscere, settimane<br />

prima, durante le giornate che essi trascorsero a Udine, tappa luminosa della loro<br />

tournée internazionale.<br />

Ciò che mi lasciò più perplesso, da osservatore professionalmente interessato<br />

catapultato in una nuova realtà da studiare, fu un episodio particolare che sopraggiunse<br />

verso il termine del pomeriggio, a scombinare il mio fino a quel momento, tranquillo e<br />

ordinario contatto con il Festival di Avignone. Per la prima volta vidi dal vivo un’azione<br />

di rivendicazione di un gruppo di intermittenti dello spettacolo intervenuti in quella<br />

particolare occasione pubblica. Avevano chiesto la parola in calce ai consueti discorsi<br />

pubblici; e gli fu concesso, credo. Fatto sta che rimasi colpito dalle dichiarazioni che<br />

sentii; così come rimasi impressionato dall’immediato inasprirsi dei toni, con le<br />

personalità presenti a manifestare il loro disappunto e gli “intermittenti”, sentitisi<br />

avversati, a fischiare ogni eventuale, ulteriore, intervento di replica. Furono soprattutto<br />

gli slogan a lasciare un certo malessere nel ricercatore di fatti sociali che era in me: non<br />

ne capivo il senso; i risvolti politici mi parevano machiavellici; non ne coglievo<br />

l’opportunità e l’utilità. Solo a posteriori potei comprendere i significati di quei cori e di<br />

quel poster appeso all’ingresso della Maison Vilar, con la grande A di color porpora e le<br />

tre chiavi “modernizzate” libere di flutturare sullo sfondo bianco, emblema del Festival<br />

di quell’anno, deturpate dalla scritta: “A_UX ORDRES DU MEDEF!”.<br />

In quella occasione, oltre ad intuire che, per la mia “ricerca sul campo”, avevo molto<br />

lavoro da fare, mi accorsi anche che gli intermittenti erano ben presenti ad Avignone. E<br />

si trovavano lì, simbolicamente, nel cuore stesso del Festival, nel luogo in cui ne è<br />

preservata la storia e il mito.<br />

Nel 2003, proprio mentre a Parigi si discuteva dell’imminente accordo, nel resto<br />

della Francia il dibattito si spostava altrove, proprio ad Avignone, seguendo il flusso di<br />

turisti, spettatori e professionisti che procedevano lungo la filiera dello spettacolo dal<br />

vivo: e nel sud della Francia, in estate, si concentrano molte delle attività estive del<br />

teatro; e l’attenzione sulle questioni all’ordine del giorno cambia radicalmente al<br />

cambiare del contesto di riferimento.<br />

Ad ogni modo chi immaginava che, arrivando ad Avignone, nel sud della Francia,<br />

tutto procedesse con tranquillità, sarebbe rimasto profondamente deluso. Già la sera del<br />

28 giugno era stato votato uno sciopero: il Festival di Avignone avrebbe consumato la<br />

sua giornata inaugurale, ufficialmente, solo la settimana successiva; ma i lavoratori<br />

intermittenti impegnati al Festival di Avignone erano già lì, e la maggioranza,<br />

ovviamente, già da molte settimane. E come sottolineava il giornalista: “gli scioperanti<br />

sono in contatto permanente con tutti gli intermittenti degli altri festival… Se non c’è un<br />

coordinamento nazionale del movimento di protesta, al contrario ora tutti i festival<br />

erano collegati in rete!”:<br />

«La scène tremble à Avignon.<br />

Dans la Cour d’Honneur du Palais, lieu hautement symbolique, les techniciens et artistes<br />

intermittents du Festival ont voté samedi soir [ndt: il 28 giugno] la grève à partire d’hier [ndt: il 29<br />

giugno], et reconductible chaque jour. Une celluce de crise s’est installée au Cloître St-Louis, QG<br />

de la direction. Les grèvistes sont en contact permanent avec tous les intermittents des autres<br />

208


festivals mis à mal sur l’ensemble du territoire. S’il n’y a pas de coordination nationale du<br />

mouvement, en revanche tous les festivals sont en réseau.<br />

[…] Bernard Faivre d’Arcier […] déclare soutenir l’action des intemittents “mais je ne suis pas<br />

d’accord avec les moyens utilisés. Si le festival est annulé, celui de l’an prochain le sera aussi”. Il<br />

suggère d’autres moyens pour compenser les pertes des intermittents, telles des aides<br />

économiques. Pourtant, “si on ne peut pas recevoir le public, je prendrai la décision d’annuler le<br />

Festival”». (dal “Dauphiné-Vaucluse” del 30 giugno del 2003).<br />

Quindi, anche ad Avignone, da settimane e settimane, si era aperto un fronte di<br />

protesta. E sempre a fine giugno, un comunicato ufficiale diramato dal Festival di<br />

Avignone non mancò di annunciare la posizione, autorevole, pubblica<br />

dell’organizzazione.<br />

«La legittima rivendicazione dei professionisti dello spettacolo (artisti e tecnici) con riguardo<br />

al protocollo di accordo del 26 giugno e concernente il loro regime di indennità di disoccupazione,<br />

conduce alcuni a proporre l’annullamento dei festival estivi.<br />

Rifiutiamo di considerare come uno sbocco ineluttabile l’annullamento degli spettacoli verso i<br />

quali un largo pubblico di è già impegnato attraverso delle prenotazioni (per soggiorni, trasporti,<br />

biglietti, ecc.). Gli spettatori non devono essere dimenticati nelle nostre azioni.<br />

Troviamo suicida questa strategia in quanto conduce a privarsi del nostro più forte mezzo per<br />

prendere la parola che è il palcoscenico di teatro, e sopprime il legame con il pubblico che lo<br />

rappresenta.<br />

Auspichiamo che un esame attento sia realizzato da ciascuno per conoscere i vantaggi e gli<br />

inconvenienti di questo accordo, in quanto troppe “voci” sulle sue conseguenze sono infondate.<br />

Secondo noi, questo accordo pone molti altri problemi maggiori: la riduzione del periodo che<br />

permette l’apertura dei diritti, il carattere provvisorio di questo accordo che sarà sottoposto a<br />

esame nel 2004 e nel 1005, la mancanza di misure per lottare contro i datori di lavoro che fanno un<br />

ricorso abusivo al lavoro intermittente.<br />

Sappiamo che l’applicazione di questo accordo minaccerà l’attività professionale di un certo<br />

numero di artisti e tecnici: coloro che si trovavo proprio nelle situazioni più precarie. Sappiamo<br />

che questi professionisti non cercano di essere più assisti, ma si augurano, al contrario, di<br />

beneficiare di un volume di lavoro più importante che permetta loro di giungere più facilmente alle<br />

condizioni necessarie per accedere a questo regime specifico.<br />

Quindi, esigiamo dal governo che misuri le conseguenze economiche e culturali di questo<br />

accordo e che ascolti le voci che si levano da ogni parte per reclamare la realizzazione di una vera<br />

politica culturale di sostegno alla creazione, in particolare in favore delle compagnie.<br />

In mancanza di un impegno chiaro, i festival estivi potrebbero non avere luogo quest’anno,<br />

annullazione che metterebbe in pericolo le loro edizioni successive» (tratto dal “Dauphiné-<br />

Vaucluse” del 30 giugno 2003).<br />

Il Festival non era ancora ufficialmente cominciato; ma Faivre d’Arcier aveva il suo<br />

da fare a mantenere viva ogni speranza affinché lo spettacolo che migliaia di persone si<br />

aspettavano, potesse andare veramente in scena. E non passava giorno che cercasse di<br />

diffondere il suo punto di vista, che non cercasse di indirizzare le scelte di quanti<br />

potessero ancora avere a cuore le sorti non solo del Festival, ma dell’intero settore dello<br />

spettacolo dal vivo. In un lungo articolo apparso sul quotidiano nazionale “Le Monde”,<br />

il direttore esplicita ancora una volta il suo punto di vista.<br />

«Salvare o bruciare i festival estivi? Gli intermittenti dello spettacolo, artisti e<br />

tecnici, manifestano. A giusto titolo. L’opinione pubblica forse pensa che si tratti di un<br />

rituale estivo – ogni estate, abbiamo conosciuto (spesso ad Avignone) delle azioni più o<br />

meno gestite, per ottenere riconduzione di questo famoso regime di intermittenza, che,<br />

nel corso degli anni, fu prorogato si sei mesi in sei mesi.<br />

Ma questa volta è un incendio, un fuoco di foresta che si prepare – senza che nessuno<br />

immagini come estinguerlo. Infatti la situazione è differente rispetto alle altre estati.<br />

209


Non si tratta, non si tratta più, di fare pressione sui partner sociali per ottenere il<br />

prolungamento dello status quo. Il regime è modificato: e questo è stato deciso<br />

attraverso un accordo concluso il 26 giugno tra Medef e tre sindacati di lavoratori<br />

(minoritari).<br />

Il governo va dunque – è così che funziona la legge – ad applicarlo. Non riesco ad<br />

immaginare che egli riscriva ciò che è stato negoziato tra i partner sociali. Non creerà un<br />

precedente per gli artisti. Coloro che credono esista uno spiraglio per agire e ottenere<br />

una modifica del testo si fanno delle illuzioni».<br />

In questo passaggio, ancora una volta, con decisione, il direttore del Festival di<br />

Avignone si pose a fianco degli intermittents per quanto riguardava la sostanza delle<br />

loro rivendicazioni ma prese le distanze dalla forma attraverso cui le mettevano in<br />

pratica. E non era semplicemente una questione “filosofica”, ma il frutto di un<br />

ragionamento pragmatico: quando un governo nazionale rimette una decisione di<br />

politica economica al confronto con le parti sociali significa che ha bisogno di un<br />

consenso, più o meno ampio, sulla questione. Ma una volta raggiunto tale consenso,<br />

nessuno governo metterà più mano a quanto è riuscito a far negoziare alle parti sociali.<br />

Ho accetta o rifiuta l’accordo. Come giustamente sottolinea Faibre d’Arcier, “è inutile<br />

farsi delle illusioni” per quanto riguarda la riscrittura dell’accordo.<br />

«Al momento dell’annuncio di questo accordo, e poiché la stagione dei festival si<br />

apriva, un’ondata di timori e di rabbia sta sommergendo gli animi. Ci sono molte<br />

ragioni che spiegano ciò: l’appello alla mobilitazione della CGT (sindacato<br />

maggioritario, ma non firmatario dell’accordo) è arrivato fino a predire che “i festival<br />

sarebbero saltati uno dopo l’altro”. Il panico degli intermittenti isolati, non<br />

sindacalizzati, ha portato alla formazione di raggruppamenti in collettivi locali che<br />

vogliono venire alle mani senza sapere esattamente con chi. Infine, l’atmosfera pesante<br />

presente in numerosi scontenti dei conflitti sociali recenti (pensioni, educazione<br />

nazionale) e che fanno la posta ad un terzo tour sociale.<br />

La combinazione di questi elementi – dimostrazione di forza della CGT, rivolta di<br />

classe per coloro che si sentono messi in disparte, e frustrazioni diffuse – costituisce un<br />

mélange detonante: l’irrazionale se la contende con l’ignoranza. E questo perché<br />

nessuno ha letto né è capace di leggere i testi, a parte i responsabili sindacali. Da molti<br />

anni di pratica di questo regime di intermittenza, artisti e tecnici hanno imparato, passo<br />

dopo passo, ad ingegnarsi, ad arrangiarsi in un modo di vivere, se non di sopravvivere,<br />

con giochi di destrezza con i “cachet isolati” per ottenere la soglia magica delle 507 ore<br />

di impiego per accedere all’allocazione di intermittenza.<br />

Infatti, sembrerebbe che ci sia stata una vera negoziazione tra Medef e sindacati. E<br />

che il suo principale beneficio sia che l’intermittenza, sistema proprio del nostro paese,<br />

sia alla fine riconosciuta in quanto tale anche dall’organizzazione padronale. Ma<br />

nessuno sa esattamente se sia un buono o cattivo accordo. Bisogna fare delle<br />

simulazioni caso per caso per conoscerne le conseguenze. Nessuna pedagogia, nessuna<br />

spiegazione sono state intraprese (ad esempio da parte del ministero della cultura), cosa<br />

che lascia il campo libero a tutti i possibili voci, o ai soli discorsi della CGT».<br />

Anche in questo caso l’analisi del direttore era piena di buon senso sia<br />

nell’individuare nei festival la cassa di risonanza delle manifestazioni di protesta (cosa<br />

che i sindacati sanno benissimo) sia nell’individuare le tre cause principali di quella<br />

inspiegabile follia collettiva: il ruolo del sindacato; il disorientamento degli<br />

intermittenti, con particolare riferimento ad alcune fasce degli stessi; la particolare fase<br />

di scontro sociale in cui tutto questo si inquadra, sottolineando come in effetti fossero<br />

210


en altri gli obiettivi politici prioritari (ovvero la riforma delle pensioni) su cui<br />

dovevano giocarsela le parti sociali, le stesse chiamate in causa per una faccenda di<br />

importanza relativa come quella degli intermittenti dello spettacolo. Queste<br />

osservazioni, in effetti, spiegavano il perché di tanta attenzione per una questione che, a<br />

seconda del balletto delle cifre, riguardava dalle 35 mila alle 90 mila persone, per<br />

ricondurre il deficit del sistema entro le previsioni, con un risparmio sui conti statali di<br />

300 milioni di euro annui. E Faivre d’Arcier spiegava anche come, fatto l’accordo,<br />

nessuno si sia fosse preso il disturbo di spiegarlo, di “comunicarne” i contenuti ai diretti<br />

interessanti e di considerare, quindi, gli effetti delle scelte fatte e delle misure prese.<br />

Non è neppure troppo velato anche il disappunto per il “non-ruolo” giocato dal governo.<br />

Come più volte sottolineato, le parti sociali avevano tenuto un comportamento<br />

discutibile forse, ma lineare, ovvero ampiamente all’interno di quanto previsto dai<br />

rispettivi ruoli. Fatto l’accordo stava al governo che doveva ratificarlo e farlo diventare<br />

legge, e in modo particolare ai ministri competenti, “comunicare all’opinione pubblica”<br />

cosa era stato fatto. Ad esser benevoli, il ministro non poteva limitarsi a dire, come pare<br />

abbia fatto, “se leggerete l’accordo, vedrete che non è poi tanto male”: sembra la storia<br />

della volpe e dell’uva, nel senso che è difficile credergli “sulla parola” visti gli<br />

atteggiamenti che gli sono stati rimproverati durante le negoziazioni.<br />

Faivre d’Arcier continua la sua disamina sui fatti.<br />

«Da allora, la paura si è impossessata degli animi. E la violenza che essa genera, gli<br />

intermittenti la rivoltano contro loro stessi. Sbagliato che fosse di sapere dove e chi<br />

combattere, essi distruggono il loro stesso posto di lavoro. E’ un po’ come se un gruppo<br />

di naufraghi su un’isola si mettessero, in mancanza di punti per scorgere un soccorso<br />

proveniente da un mare desolato, ad abbattere il boschetto di palme, a costo poi di<br />

accorgersi che non c’è più ombra… Gli intermittenti non sanno dove indirizzare le loro<br />

rivendicazioni. Il Medef? Nessuno lo conosce. D’altro canto, i sindacati dei datori di<br />

lavoro di questo settore (spettacolo dal vivo e audiovisivo) non ci sono neanche<br />

rappresentati! Il governo? Dubito che il ministro della cultura si arrischi a fare<br />

quest’anno il giro dei festival…<br />

Privati di avversari, gli intermittenti pensano di aver trovato una azione forte,<br />

spettacolare e salvatrice proponendo di sabotare le imprese che, precisamente, li<br />

impiegano e ne giustificano il ricorso al loro regime specifico…<br />

Spettacolare la misura poteva anche esserlo. Una estate senza festival: questo<br />

avrebbe interessato i media. Almeno per quattro o cinque giorni. Dopo si passera al<br />

Tour de France o alle specialità gastronomiche. In quanto la stampa, la televisione<br />

andranno a cercare altri soggetto altrove e gli intermittenti avranno allora perso la loro<br />

ultima tribuna pubblica! Gli intermittenti pensano davvero che annullando i festival<br />

beneficeranno del sostengo e della simpatia dell’opinione pubblica? Temo che la<br />

maggioranza dei nostri concittadini se ne infischi, a dire il vero. Se venite a sapere che<br />

una competizione internazionale di atletica è annullata nel mese di agosto, non porterete<br />

il lutto troppo a lungo se non vi interessate alla corsa a piedi o al lancio del giavellotto.<br />

Penso che, grosso modo, i nostri concittadini hanno dell’affetto, se non della stima,<br />

per i nostri artisti, ma anche delle altre categorie di lavoratori considerano che questo<br />

settore è fortunato ad avere un regime specifico che gli accorda, malgrado tutto, dei<br />

vantaggi superiori rispetto al regime generale. La gelosia tra categorie non è mai<br />

lontana, nel nostro paese.<br />

Quanto al pubblico, egli è, come di costume, dimenticato. E’ decisamente un male<br />

francese quella di appellarsi all’utilizzatore perché si metta al vostro fianco portandogli,<br />

211


manifestamente, un torto. Perché bisogna immaginare cosa conserveranno (dopo che il<br />

primo sentore di simpatica solidarietà è passato) gli spettatori che hanno riservato hotel,<br />

biglietti, trasporti, posti a teatro… Difficile, dopo questo, lanciare delle campagne di<br />

abbonamento…<br />

Infine, le economie locali saranno duramente colpite dall’annullamento dei festival.<br />

Questi ultimi, infatti, sono i motori dell’attività locale durante questo periodo: affitti,<br />

alberghi, ristorazione, turismo, prestazioni di servizi (dal parrucchiere alla tintoria),<br />

saranno numerosi, ad Avignone, a preoccuparsi, soprattutto per il fatto che se il festival<br />

In dovrà fermarsi, sarebbe logico, necessario e indispensabile fermare ugualmente anche<br />

l’Off. Questo esempio solo per ricordare che cinquecento compagnie hanno fatto dei<br />

reali sacrifici… proprio per accedere al regime di intermittenza, che d’un tratto non<br />

raggiungeranno mai!»<br />

La descrizione che il direttore fece dello spirito suicida degli intermittenti poteva<br />

sembrare paradossale se non calata nello specifico: l’attenzione di Faivre d’Arcier per<br />

questo problema era sincera e preoccupata, da uomo di teatro con decenni di esperienza.<br />

Ecco che il paradosso dei naufraghi diventava un richiamo, quasi paterno, a pensare<br />

bene agli obiettivi, agli strumenti da utilizzare e agli effetti delle azioni di protesta.<br />

Altrimenti era come combattere contro i mulini a vento, con l’unico risultato di perdere<br />

anche l’appoggio del pubblico che rischiava di non capire in quanto, a sua volta, non<br />

messo a corrente nei modi giusti di quello che stava accadendo, ovvero attraverso quella<br />

straordinaria tribuna pubblica che è il palcoscenico.<br />

Ci sono delle proposte da fare, delle idee da approfondire. Esse implicano giocoforza<br />

il ministero della cultura. La prima sarebbe di esigere un prossimo budget in cui sia<br />

riservata una somma (da calcolare) da ripartire, regione per regione, come aiuto, tanto<br />

economico quanto artistico, a coloro i quali l’applicazione del nuovo regime verranno<br />

lasciati sulla strada. In fondo, quando una grande industria (la siderurgia o i cantieri<br />

navali) si confronta con una crisi strutturale, si prevede un piano finanziario per<br />

compensarne gli effetti negativi. Ancora, bisognerà avere il tempo di una discussione, di<br />

una negoziazione. Ora c’è un forte maestrale che si è levato e che rischia di portarsi via<br />

tutto: Montpellier, Aix, Marseille, Avignone… Tra una settimana, si constateranno i<br />

danni in un ambiente sbandato. Saranno pesanti e durevoli. Pesanti sul piano<br />

finanziario, ma anche nelle relazioni tra pubblico, artisti, tecnici, sindacati, ministeri,<br />

collettività locali. Un vero guazzabuglio. E durabili, poiché un festival annullato, è un<br />

deposito di bilanci a venire, di licenziamenti (perenenti come intermittenti); e l’anno<br />

successivo, il festival non potrà avere luogo se non si consacreranno tutte le sovvenzioni<br />

ricevute alla copertura del deficit.<br />

Non ho interessi personali a difendere, mettendoli in guardia, artisti, tecnici, sindacati<br />

e poteri pubblici, poiché, ad ogni modo, il mio contratto di diretore non è stato<br />

rinnovato dal ministro della cultura. Ma tengo molto al Festival di Avignone, e a che sia<br />

preservato questo patrimonio e il suo avvenire. Dopo un incendio, ci vogliono degli anni<br />

per riprendersi» (da “Le Monde” dell’1 luglio 2003).<br />

Non mancavano neppure i suggerimenti e gli scenari possibili: pratici, ragionevoli<br />

anche quando prefigurava a tutti il peso incredibile dell’atmosfera che si respirerà di lì a<br />

pochi giorni nei luoghi della protesta, specie ad Avignone, luogo che storicamente<br />

sembrava fatto a posta per portare sulla scena nazionale e internazionale il problema<br />

attraverso modalità eclatanti che non fossero l’annullamento. Anche perché<br />

l’annullamento di un festival costa; costa molto sia nel breve che nel medio periodo<br />

soprattutto a chi, scioperando, causa tale annullamento. “E’ un vero guazzabuglio” dice<br />

212


Faivre d’Arcier, riferendosi al panorama di relazioni da ricostruire dopo un<br />

annullamento: relazioni tra tutti gli attori del sistema teatrale, dal pubblico agli artisti,<br />

dai tecnici ai sindacati, dal ministero al rapporto con gli enti locali.<br />

Poi il tono si fece quasi rammaricato, ricordando come, in effetti, lui non aveva<br />

grossi interessi personali da difendere in quella vicenda e nessuno meglio di lui poteva<br />

parlare francamente ad artisti e tecnici, a sindacati e poteri pubblici. Quello, per lui,<br />

sarebbe stato, in ogni caso, il suo ultimo festival da direttore.<br />

«Festivals. Canicule sociale dans le Midi. Les intermittens en action»: l’estate calda<br />

nel sud della Francia durante il periodo dei festival; e non solo per la temperatura e il<br />

sole. Il Festival di Monpellier-Dance dovette annullare la sua prima giornata, il 26<br />

giugno. E già a quella data era evidente che la minaccia pendeva anche sui prossimi:<br />

Avignone, Aix, Orange, solo per indicare i più prossimi e importanti. Ancora Faivre<br />

d’Arcier, questa volta con una dichiarazione su un quotidiano nazionale il 28 giugno:<br />

«La questione è complessa. Sono solidale con le inquietudini degli intermittenti dello<br />

spettacolo. E sono favorevole al mantenimento del regime speciale. Ma lo sciopero,<br />

l’arresto brutale degli spettacoli mi sembra una risposta autolesionista. In primo luogo,<br />

gli spettatori che, fino ad ora, non appaiono maldisposti nei confronti degli intermittenti,<br />

sarebbero penalizzati e rischiano di rivoltarsi gli stessi intermittenti. Questi ultimi, a<br />

medio e lungo termine, pagheranno i costi degli scioperi. L’anno successivo il festiva<br />

sarà obbligato a costi ingenti e dunque alla riduzione dei suoi lavoratori. Bisogna<br />

inventare delle azioni spettacolari e mediatiche che possano allertare l’opinione<br />

pubblica e fare pressione sui politici».<br />

Lunedì 7 luglio un ultimo, disperato, tentativo da parte del ministro della cultura. In<br />

un incontro presso rue de Valois, la frase tanto attesa: «Domando ai partner sociali di<br />

voler riunirsi un’altra volta, molto rapidamente, per rivedere l’accordo su quattro punti<br />

precisi».<br />

Cosa avrebbe fatto la CGT di fronte a tale proposta?<br />

«Bisognerà porre a loro la domanda» avrebbe risposto il direttore del gabinetto<br />

ministeriale, aggiungendo che «l’Unedic ha accettato di riunirsi e la CGT non ha<br />

l’abitudine di praticare la politica della sedia vuota. […] I partner sociali devono<br />

perseguire i loro negoziati mirando a riservare il ricorso all’intermittenza per le<br />

circostanze di impiego che la giustificano. Inoltre, per la prima volta un ministro ha<br />

ammesso che il nuovo sistema non attacca frontalmente una delle fonti principali di<br />

fragilità del sistema, vale a dire gli abusi delle imprese di produzione dell’audiovisivo».<br />

Auspici o piuttosto velate accuse per una situazione che sembrava sfuggire di mano? Ad<br />

ogni modo il governo si attivò attraverso il ricorso a due ordinanze: una permise<br />

l’incrocio dei dati degli archivi degli organismi sociali; l’altra mirava ad estendere le<br />

funzioni dello sportello unico (il GUSO). Entrambe le proposte erano state avanzate nel<br />

rapporto Roigt-Klein del 2002, riprese da altri rapporti degli anni precedenti.<br />

Tra i quattro punti che il ministro considerava come condizioni necessarie per<br />

riavviare una trattativa vi erano: il mantenimento del sistema attuale fino alla fine del<br />

2003 e l’entrata in vigore progressiva dell’accordo, con una durata di indennizzo di<br />

undici mesi a partire dal gennaio del 2004. Inoltre, nell’ambito di un periodo di<br />

transizione il ministro domandava «[…] la soppressione della piattaforma settimanale<br />

dei cachet e il ritorno a quella mensile», e che i periodi di insegnamento venissero<br />

conteggiati nelle 507 ore. Se l’insieme delle sue proposte avesse riscontrato il<br />

gradimento dei negoziatori, egli si sarebbe impegnato con il ministro del lavoro affinché<br />

desse il suo definitivo consenso. Prodigo di promesse, il ministro avrebbe confermato<br />

213


che, nell’ambito di un piano di sviluppo del lavoro nello spettacolo dal vivo avrebbe<br />

messo a disposizione ulteriori 20 milioni di euro per aumentare i mezzi a disposizione<br />

delle compagnie che si impegnano ad aumentare, nel corso dei successivi tre anni, il<br />

lavoro remunerato.<br />

In una dichiarazione in calce a quell’incontro Stéphane Lissner, in procinto di tornare<br />

ad Aix per inaugurare il suo festival, con quattro giorni di ritardo, affermò che le<br />

proposte costituiscono un avanzamento ma ci voleva molto di più per calmare gli animi.<br />

Nella tarda mattinata di quello stesso giorno più di 300 intermittenti avevano bloccato il<br />

montaggio del palcoscenico principale delle Francofolies di La Rochelle.<br />

Intanto, ad Avignone il sindaco di Avignone, M.me Marie-Josée Roig, anche<br />

deputato di centro-destra, considerata molto vicina alle posizioni del governo, nonché<br />

Presidente del Consiglio di amministrazione dell’associazione che gestisce il Festival,<br />

aveva proposto che si tenessero degli “stati generali della cultura” in città, dopo il<br />

festival. Inoltre, aveva già lanciato «un appello alla ragione e alla responsabilità di<br />

ciascuno a livello nazionale, affinché il festival abbia luogo, e ciò, nelle migliori<br />

condizioni possibili». Infatti, il Festival non poteva aver luogo «né in presenza di atti<br />

teppistici né sotto la protezione della polizia» (da la “Dauphiné-Vaucluse dell’8 luglio).<br />

Intanto, però, gli intermittenti si organizzarono. Anche ad Avignone. L’atmosfera era<br />

piuttosto pesante, malgrado le proposte del ministro della Cultura.<br />

Bartabas, il fondatore del teatro equestre “Zingaro”, uno degli artisti più attesi del<br />

Festival, era determinato a non allontanare il pubblico: «Vi avviso fin da subito, sono<br />

molto nervoso! […] Senza lo statuto degli intermittenti, la compagnia Zingaro non<br />

esisterebbe. Ma senza il suo pubblico, Zingaro non esiste. Ci abbiamo messo vent’anni<br />

a costruire questo rapporto di fiducia. Per noi, il pubblico è sacro. Ventiduemila persone<br />

si sono prese la briga di comprare dei biglietti per il nostro spettacolo. Me la sono presa<br />

con certi artisti che hanno in ostaggio il pubblico …con il Festival avrebbero una<br />

tribuna eccezionale per farsi ascolate!», aveva affermato alle 11 uscendo da Cloître-<br />

Saint Louis. E le parole che riportarono alcuni quotidiani locali, per quanto fossero il<br />

frutto della passione per il suo lavoro e del tormento per quella situazione, erano anche<br />

decisamente crude e violente. Le dichiarazioni di apertura del ministro della cultura<br />

sarebbero arrivate di lì a un’ora.<br />

Nel primo pomeriggio, malgrado le divergenze, l’insieme delle organizzazioni<br />

sindacali e padronali, firmatarie e non del primo accordo, si riunirono nella sede del<br />

Medef. Prima di cominciare la riunione, la CGT non nascose i propri dubbi circa l’esito<br />

delle discussioni, evocando una “mascarade dans un bunker”. Per il 2004 il periodo di<br />

indennizzo degli intermittenti sarebbe passato da 12 a 11 mesi, per arrivare, nel 2005, a<br />

10,5 mesi per lo spettacolo dal vivo (allegato VIII) e a 10 mesi per il cinema e<br />

l’audiovisivo (allegato X). Assieme ad altri aggiustamenti apportati all’accordo di<br />

giugno, Medef, CGPME e UPA da un lato e CFDT, CFTC e CGC dall’altro giungono<br />

alla firma del nuovo protocollo.<br />

Ora sembrava davvero fuori discussione una prossima ratifica da parte del governo.<br />

Alla fine della riunione il ministro della Cultura dichiarerà: «Sono andato fin dove<br />

era possibile, mi sono impegnato a fondo in un processo che non mi concerneva<br />

direttamente e in modo eminente. Riguarda l’Unedic, riguarda la tutela del ministro<br />

degli affari sociali. Ho comunque tentato di smorzare un conflitto che sapevo doloroso<br />

per coloro che lo subiscono»; e concluse: «per quanto mi riguarda, non prenderò alcuna<br />

altra iniziativa», qualificando la situazione attuale di Avignone come «desolante»,<br />

lasciando intendere, inoltre, che tutto quanto stava accadendo era, in sostanza, una sorta<br />

214


di regolamento dei conti tra CGT e CFDT: «questo movimento è un campo chiuso in<br />

cui un sindacato che non ha firmato l’accordo tenta di “far mordere la polvere” a un<br />

sindacato che lo ha firmato». Vale a dire, la CGT cerca di far pagare alla CFDT la sua<br />

approvazione della riforma delle pensioni realizzata dal ministro del lavoro (da “Les<br />

Echos” del 9 luglio 2003).<br />

Ad Avignone, la sera, durante l’assemblea generale di preparazione al voto, la stessa<br />

CGT aveva però dichiarato che si trattava solo «di polvere negli occhi». Tutte le<br />

assemblee furono particolarmente movimentate. Le posizioni interne agli intermittenti<br />

erano diverse. Quella sera, tra il pubblico, con i suoi capelli grigi, il suo viso gradevole<br />

e leggermente abbronzato, gonna di madras rosso e arancione su una camicia bianca,<br />

Ariane Mnouchkine prende la parola, con le precauzioni di chi è stato attaccato con<br />

forza nei giorni precedenti. Ariane Mnouchkine è una grande artista, ha carisma, parla<br />

con voce dolce ma ferma. La le sue parole volano al vento, se le porta via il mistral.<br />

La sera di quello stesso lunedì vennero predisposti tre collegi di voto: gli<br />

intermittenti delle compagnie invitate al festival (circa 471 votanti); i tecnici<br />

intermittenti che lavorano al Festival (vale a dire 235 votanti); il personale sotto<br />

contratto del Festival (94 votanti). Più di settecento persone dovevano votare, a partire<br />

dalle 19 per determinare se continuare o meno lo sciopero proposto dalla CGT per la<br />

giornata dell’8 luglio, giorno di apertura ufficiale del Festival. «Etes-vous, oui ou non,<br />

pour la grêve le mardi 8 juillet avec l’Assembée Génèrale le soir?»: questo c’era scritto<br />

sulle schede per la votazione. E la sera di martedì era già prevista un’altra votazione per<br />

decidere cosa fare il giorno successivo. Il Festival Off, la versione “fringe” del Festival<br />

“ufficiale”, ma di fatto l’altra faccia della stessa medaglia della manifestazione<br />

avignonese, non vota; loro avevano previsto di cominciare a partire da mercoledì 1 .<br />

«On est pas là pour sauver le festival!», si sentiva gridare nelle piazze e nelle strade<br />

attorno al Palazzo dei papi. E ancora: «Aillagon démission!»; «Medef broyeur de<br />

talents»; «Mon métier était un rêve, à présent c’est un cauchemar»; «Culture en<br />

ranger!». Forse, alcuni osservatori hanno ragione nel dire che vi fosse poca<br />

immaginazione e molta enfasi in quella manifestazione. Cinquemila, o forse seimila<br />

erano gli intermittenti che, nella mattinata, erano partiti dalla vecchia stazione centrale<br />

di Avignone per arrivare fino a place du Palais des papes, attraversando tutto l’asse<br />

viario principale della città, da rue de la République fino a place de l’Horloge.<br />

Nel mucchio anche gruppi sindacali che non c’entravano molto con quella protesta.<br />

Ma si sa, la solidarietà sindacale va oltre i settori di lavoro. Secondo alcuni giornali non<br />

era facile individuare componenti delle troupe ufficiali del Festival. Ariane Mnouchkine<br />

era presente con il suo Théâtre du Soleil. Più lontano, qualcuno giurò di aver visto<br />

Bernard Faivre d’Arcier osservare la colorita folla, con l’aria stanca, forse rassegnato.<br />

Gérard Gélas, direttore del Chêne Noir, uno dei teatri della città ed uno dei luoghi<br />

storici del Festival Off, percorreva la strada in senso inverso: al commissariato polizia<br />

aveva appena denunciato qualcuno per aver subito minacce (da “Le Figaro” del 9 luglio<br />

2003). Ma la manifestazione non c’entrava. I teppisti erano altrove, non c’erano<br />

disturbatori molesti. Se c’erano degli eccessi in quella manifestazione, forse erano legati<br />

ai propositi di alcuni dei partecipanti, alla incoerenza dimostrata da alcune frange<br />

oltranziste: l’accordo era davvero “scellerato” e la colpa era di tutta evidenza, per loro,<br />

1 Per dare al mio lettore un ordine di grandezza del fenomeno, posso sintetizzare in questi termini le due<br />

situazioni differenti: se il Festival “In” conta solitamente un programma con una quarantina di spettacoli e<br />

100-120 mila biglietti venduti; il Festival “Off” raggruppa 600 compagnie, che recitano in oltre 130<br />

luoghi diversi della città, per un pubblico che varia dei 500 ai 600.000 posti venduti (N.d.T.).<br />

215


del Medef e del ministro della cultura. In place du Palais, sotto gli occhi della Vergine<br />

dorata in cima al campanile di Notre-Dame des Doms, un collettivo venuto da Grenoble<br />

dispiega un lungo manifesto con scritto «santé, culture, éducation, même combat».<br />

Intanto, un falso Cristo veniva fatto avanzare appeso ad una pesante croce bianca, i<br />

piedi posati su una lunga scala. Qualcuno si attendenza qualche flagellazione in diretta,<br />

quanto meno: ma almeno quella pratica così macabra era stata risparmiata al pubblico<br />

degli osservatori (e al giovane intermittente). In una situazione simile giurerei che<br />

qualcuno arrivò quanto meno a pensare: «perdona loro perché non sanno quel che<br />

fanno!». Il corteo aveva attraversato anche place du L’Horloge, dove, poco più in là,<br />

alla Maison Jean Vilar, lontano dei tumulti, era aperta la mostra dedicata alle crisi subite<br />

dal Festival nella sua storia: in una scenografia luminosa, quella singolare esposizione<br />

stava a ricordare al pubblico che quella non era il primo attacco al Festival, e fino a quel<br />

momento li aveva tutti superati, senza interruzioni, dal 1947. Fino ad oggi.<br />

I giornalisti avrebbero dovuto assistere ad una rappresentazione eccezionale di Wolf,<br />

per la regia di Alain Platel, con le scene di Bert Neumann; doveva essere uno degli<br />

eventi più attesi. Appuntamento vietato ai giornalisti che doveva invece assistere ai<br />

risultati del voto, alle 21 e 30, vicino la Manutention, dietro lo storico giardino di<br />

Urbano V, a due passi dal Palazzo dei papi. Poco dopo le 22, non vi furono più dubbi<br />

sull’esito: 62% a favore dello sciopero, 29% contro e 9% astenuti. Si allo sciopero,<br />

senza mezze misure. E domani? E dopodomani? Ancora lo sciopero? Ipotesi che non<br />

può essere prese in considerazione dalla direzione. E dal pubblico. Alla fine della lunga<br />

giornata di lunedì non è dato di sapere, ancora, chi l’avrà vinta: coloro che vogliono<br />

recitare o coloro che pensano di poter ricondurre lo sciopero senza un “rischio fatale”?<br />

(da “Le Figaro” dell’8 luglio 2003).<br />

Tra il martedì e il mercoledì altri festival vengono definitivamente annullati: a<br />

Montpellier, Marsiglia, Perpignan, Pau, Nantes e Rennes. Aix-en-Provence è ancora in<br />

sospeso. Oramai era evidente come «sia urgente considerare la natura e l’ampiezza della<br />

contestazione, che si è rivelata molto più complessa e profonda di quanto appariva al<br />

suo inizio. Si sono visti, durante gli ultimi giorni, creare dei collettivi che sfuggono ad<br />

ogni controllo sindacale, coprono tutta la Francia e sono estremamente determinati. Si<br />

sono intesi dei proposti radicalizzarsi sempre più e, soprattutto, oltrepassare largamente<br />

il quadro della semplice messa in discussione degll’accordo, per fare ascoltare la voce di<br />

una professione che non si sente solo minacciata da un punto di vista strettamente<br />

finanziario, ma si considera profondamente martoriata nella sua stessa ragion d’essere.<br />

Qualcuno non manca di sorridere sentendo gli intermittenti fare appello ad una<br />

“insurrezione nazionale” e collegare le cause del loro movimento alla lotta contro la<br />

mondializzazione, alla difesa delle pensioni e della Sicurezza sociale o quanto<br />

auspicano di screditare un governo francese che giudicano “autoritario, vedi totalitario”.<br />

Ma coloro che sorridono dimenticano l’essenziale: gli intermittenti fanno passare un<br />

messaggio, che è quello dello smarrimento, vedi della disperazione. Quale che sia la<br />

confusione dei loro argomenti, a volte, essi esprimono un sentimento che è condiviso da<br />

altre parti della popolazione, quello di essere trascurati al punto di non contare niente<br />

nella società francese. Di essere dei “mendicanti”, come certi dicono. […] Questo voler<br />

andare “fino in fondo” non deve essere preso come un ricatto. E’ l’espressione di una<br />

determinazione dolorosa […]» (da “Le Monde” del 9 luglio 2003).<br />

La mattina di mercoledì 9 luglio arrivò la notizia che anche il Festival di La Rochelle<br />

era stato annullato.<br />

216


Mercoledì 9 luglio, 12 e 45. Delle urla di giubilo, trombe, schiamazzi lungo le strette<br />

strade medievali attorno al Palais des papes: lo sciopero era stato confermato anche per<br />

il giorno successivo. Settimo giorno consecutivo. All’improvviso, bandieroni<br />

dappertutto venuti fuori dal nulla e striscioni: «Le peuple est das la rue», c’era scritto su<br />

uno. Questa fu la decisione dopo cinque ore di assemblea generale al Gymnase<br />

Aubanel; cinque ore durante le quali, nella vicina place des Carmes, i collettivi, gli<br />

artisti, gli spettatori, spesso presenti – ma in fondo cosa potevano fare? – attendevano<br />

gli esisti dell’ennesima votazione in quel luogo carico di fascino medievale, davanti alla<br />

splendida facciata della chiesa omonima.<br />

Un’esplosione dopo una calma che era, però, solo apparente. Una scarica elettrica.<br />

Dalla mattina, i militanti erano sotto tensione. E la città con loro, la quale attendeva,<br />

come si attende una tempesta, la manifestazione degli intermittenti in sciopero, pervista<br />

per le 15. Era qualcosa di mai visto, non con quelle dimensioni. E ciò aveva creato una<br />

sorta di “stupore febbrile” in tutti coloro che erano presenti ad Avignone, per capire fin<br />

dove sarebbe stata condotta la faccenda. Ricordo i racconti, ancora oggi carichi di<br />

meraviglia per come finì la vicenda, che mi fece di recente il mio amico Kader: assieme<br />

alla sua famiglia, di origine magrebina, gestisce tutt’ora il piccolo ma generono<br />

ristorante in place d’Horloge, di fronte all’Hôtel de Ville, lungo la salita del vicolo che<br />

porta alla Maison Jean Vilar. Kader è una autorità, dalla sua posizione privilegiata ha il<br />

polso della situazione e non ha bisogno di inseguire gli eventi in quanto, affacciato su<br />

quella piazza, gli eventi e le notizie passano davanti a lui. E in quella estate i<br />

commercianti, che tengono sotto controllo pure se cambia la direzione del Mistral<br />

durante la giornata, erano confusi e seriamente preoccupati. Quando la situazione<br />

specifica lo richiede ecco che si tirano fuori dai cassetti dati e ricerche economiche, tipo<br />

questa:<br />

«Le festival, atout économique. 18 M € de retombées estimées pour l’économie de l’aire<br />

avignonnaise.<br />

En 2002, l’Association de gestion du Festival d’Avignon publiait les résultats de son étude relative<br />

aux rétombées économiques autorisées par le festival In, étude réalisée sur l’édition 2001.<br />

Où il apparait que “le festival d’Avignon génère 22,9 M € de flux économique, dont 18,1 M €<br />

bénéficient à l’économie locale” ainsi que le précisait l’été dernier Adrien Maigne, auteur de ce<br />

rapport. Dans ce cadre-là, les seules dépenses des festivaliers hors achats de billets, se montaient à<br />

14,8 M € directment injectées dans l’économie de l’aire avignonnaise.<br />

A la publication de ces chiffres, la Chambre de commerce et d’industrie de Vaucluse précisait<br />

alors que ses “retombées sont démultipliées par celles du festival off”, et estimait que, “vu les<br />

sommes injectées dans l’économie locale, la culture est au mois de juillet sur Avignon une<br />

véritable industrie”» (dal “Midi Libre” del 2 luglio 2003).<br />

«Le Festival d’Aix-en-Provence […] avec le Festival d’automne à Paris et le Festival d’Avignon<br />

[sont] subventionnées de façon importante (6 millions d’euros pour tout les trois) par le ministère<br />

de la culture et de la communication. Ce dernier finance peu ou prou près de 400 festivals,<br />

distribuant au total 18 millions d’euros.<br />

De son côté, Marie-Josée Roig, députée (UMP) [ndt: maggioranza di governo nazionale di centro<br />

destra] et maire d’Avignon, affirme que “les mouvements de grève des intermittents du spectacle<br />

et la perspective d’annuation du festival 2003 font courir un risque majeur inacceptable à<br />

l’ensemble de notre ville, son tissu économique et son équilibre financier”. La mairie, qui con<br />

sacre 1,5 million d’euros au festival, ne peut accepter “que les acteurs économiques, touristiques,<br />

les commerçants, les hôteliers, les saisonniers puissent être les premières victimes d’un<br />

mouvement qui choisirait la politique du pire”. Près d’un tiers des recettes du festival “in”<br />

d’Avignon proviennent de la billeterie – qui devrait être intégralement remboursée en cas<br />

217


d’annulation des spectacles. Sans compter qu’il n’existe pas d’assurance contre les grèves, mais<br />

uniquement en cas d’intempeéries en plein air.<br />

En 2002, le festival “in” d’Avignon avait estimé, dans une étude interne, que l’édition de l’année<br />

précédente avait attiré plus de 52000 spectateurs, qui avaient passé plus de 104000 journées et<br />

80000 nuitées à Avignon. Ils ont dépensé 14,8 millions d’euros, retombés intégralement sur le<br />

grand Avignon» (da “Le Monde” del 2 luglio 2003).<br />

Alla manifestazione di quel pomeriggio, nella vecchia città papale, molti si<br />

attendevano atti teppistici. I commercianti avevano ricevuto l’ordine di abbassare le<br />

saracinesche dei negozi. Correva voce che Bernard Faivre d’Arcier fosse pronto<br />

all’annullazione definitiva del Festival, non volendo subire la tattica, snervante ma<br />

sinceramente poco comprensibile, dello sciopero deciso giorno per giorno. Correva voce<br />

che M.me Roig avrebbe preso la parola: ma per quanto potesse essere autorevole, viste<br />

le sue amicizie governative, la parola, ad Avignone, era già scesa lungo le strade, nei<br />

teatri, nelle assemblee generali dell’In e dell’Off, nei caffè, dai commercianti, nei<br />

ristoranti, da Kader.<br />

Si sarebbe appreso solo in serata del fallimento di un ulteriore incontro tra il Medef e<br />

i due sindacati contestatori dell’accordo, CGT e FO. E non sarebbero stati certo gli<br />

allegati e le modifiche proposte da M. Aillagon che potevano ricondurre al dialogo.<br />

«Da ventidue anni, tu lo sai, abbiamo temporeggiato», spiegava François, coreografo,<br />

«Era la sinistra, la coabitazione. Per la prima volta, abbiamo di fronte un governo senza<br />

ambiguità. Bisogna fare tesoro dell’esperienza del tradimento per sapere che la<br />

radicalità oggi, non è più rispondere attraverso degli slogan, ma attraverso dei protocolli<br />

che si inventato un giorno dopo l’altro». Era uno sfogo amaro. «Parole vane», giudicava<br />

ancora François, «si sta assistendo ad una frattura tra il dire e il fare. E in tutto questo<br />

c’è della doppiezza e del cinismo. Ci si può anche interrogare su una tale cecità del<br />

politico».<br />

Alain Crombecque, anche lui ex diretore del Festival di Avignone e attuale<br />

responsabile del Festival d’automne di Parigi, era venuto per sostenere Bernard Faivre<br />

d’Arcier in questo tumultuoso avvio di festival: «eppure, durante questo ultimi dieci<br />

anni, nessuno ha voluto riflettere sul cambiamento necessario di questo regime degli<br />

intermittenti. E’ un errore collettivo».<br />

Verso le 15 era possibile vedere dei gruppi dirigersi lungo rue de la République,<br />

risalendo l’arteria principale verso la piazza da cui il corteo sarebbe partito, davanti alla<br />

stazione centrale, appena dentro le mura della città. A due passi dal quartiere generale<br />

del Festival In, a Cloître-Saint Louis, nel viottolo di rue portal Boquier, nel primo tratto<br />

alberato del corso. La Fnac era aperta, ben sorvegliata da qualche guardia armata; al<br />

centro commerciale Naf Naf c’erano ancora i saldi.<br />

Ad aprire il corteo il rappresentante della CGT: per quanto enfatizzasse il ruolo del<br />

sindacato tutti sapevano bene che la CGT nazionale e i delegati locali non erano per<br />

nulla d’accordo circa la questione dello sciopero generale.<br />

Settemila, forse ottomila persone? Gli organizzatori dicevano quindicimila, ma<br />

giustamente importa poco: c’era veramente parecchia gente. La parte storica della città<br />

di Avignone non è grande; a parte l’arteria centrale, la grande piazza d’armi di place<br />

d’Horloge, per altro invasa dai gazebo dei ristoranti e place du Palais, le strade sono un<br />

budello di vicoli che si dipanano da piccole piazze che si aprono di tanto in tanto,<br />

davanti a chiese, antichi conventi e nobili palazzi. Tra l’altro era una situazione anche<br />

difficile da governare per le forse dell’ordine, tutte concentrate lungo rue de la<br />

République. E, inoltre, faceva molto caldo. Dal punto di vista del clima intendo. Ad<br />

218


Avignone, in estate, ci si viene anche per fare turismo: le sponde del suo grande fiume<br />

sono un porto fluviale importante.<br />

«No Raffaran», diceva un cartello. «Aillagonie de la culture», riprendeva un altro.<br />

Quando il corteo si mise in moto, al passaggio davanti al vicino McDonald, era tutto un<br />

sonoro fischiare; come davanti alla Prefettura. Alcuni, esibendo una notevole capacità di<br />

ambientamento e contestualizzazione, cantavano sulle note dell’antica canzone di<br />

Avignone: «Sur le pont Aillagon, on te pousse, on te pousse, sur le pont Aillagon, on te<br />

pousse à la démission». Forse il più gradevole e divertente degli slogan della giornata.<br />

Ancora il “solito” finto Cristo appeso alla croce da un Medef-Giuda: non sarei in<br />

grado di dire, ancora oggi, se l’interprete crocifisso fosse stato sempre lo stesso.<br />

Arrivati in place du Palais des papes, i discorsi pubblici si succedettero uno dopo<br />

l’altro, spesso coperti da un’assordante cagnara e dal suono ritmato di cestini della<br />

spazzatura colpiti da bastoni. Alain Platel, che avrebbe dovuto aprire la Cour d’honneur<br />

l’8 luglio alle 22, fu visto discutere con un australiano che gli avrebbe annunciato che<br />

anche la stampa del suo paese parlava di quello sciopero. «Questo movimento va oltre<br />

la semplice difesa dello statuto degli intermittenti», dichiarerà il coreografo fiammingo,<br />

probabilmente ancora triste di non poter presentare il suo “Wolf”.<br />

Verso le 18 quel lungo corteo funebre e silenzioso riempì completamente plase du<br />

Palais. Ancora discorsi, cori, canti. Altri cartelli: «La morte nell’anima», dicevano,<br />

oppure, più insolenti «Abbiamo votato per lei all’82 %, coraggio M. Chirac, affrontate il<br />

Medef! 1 », o ironici «Facciamo parte del problema e della soluzione…».<br />

Verso le 18 e 30, Marie-Josée Roig aveva lanciano l’ennesimo, solenne appello agli<br />

scioperanti.<br />

In serata si sarebbe svolta l’ennesima assemblea generale, alle 19. Di solito era l’ora<br />

in cui ci si sarebbe apprestati ad assistere alle rappresentazioni nella corte del convento<br />

dei Carmelitani, nel chiostro del convento dei Celestini, al teatro municipale o, più<br />

lontano, nello spazio di Château-blanc. Quella sera non c’era niente da vedere, nessuno<br />

spettacolo a cui assistere.<br />

Bernard Faivre d’Arcier dichiarò: «Devo vedere Sylvie Hubac [direttrice del settore<br />

teatro al ministero della cultura] nella notte e domani il sindaco della città così da<br />

raggiungere il ministero della cultura per decidere la condotta da tenere». Una decisione<br />

doveva essere presa entro quel mercoledì, prima del termine della assemblea generale<br />

degli intermittenti. Un giornalista di “Le Monde”, nel giornale pubblicato il pomeriggio<br />

del 9 luglio, scriveva: «Mercoledì mattina non si sapeva se Bernard Faivre d’Arcier<br />

fosse rimasto sordo alle pressioni del sindaco di Avignone, Marie-Josée Roig, e del<br />

ministro della cultura Jean-Jacques Aillagon, per non annullare il festival. La scelta del<br />

direttore doveva evidentemente prendere in considerazione anche le conseguenze<br />

economiche disastrose dell’annullazione (la perdita sarebbe dell’ordine dei 2,5 milioni<br />

di euro, verosimilmente non coperta da assicurazione) e il rischio probabile di incidenti<br />

e di occupazioni nei principali luoghi del festival da parte degli elementi più estremisti<br />

del movimento degli intermittenti». Non era difficile essere profetici a poche ore dal<br />

disastro. Intanto, con 350 si, 207 no, 54 astenuti e 3 voti nulli, l’assemblea generale<br />

avrebbe confermato lo sciopero del giorno successivo.<br />

«La notte degli imbrogli» titolò “Le Figaro” del 10 luglio. Il luogo è sempre lo<br />

stesso, anche se venne deciso dopo interminabili tergiversioni: il Gymnase Aubanel.<br />

Nella sala, non enorme, doveva esserci più di mille persone: non solo i tre collegi<br />

1 Il riferimento della folla era legato alla problematica vicenda delle ultime elezioni presidenziali francesi,<br />

vinte dal Presidente Jacques Chirac (N.d.T.).<br />

219


(tecnici, amministrativi e compagnie) che avrebbero votato di lì a poco, ma anche tutte<br />

le persone di cui, in quella indescrivibile confusione, il coordinamento degli<br />

intermittenti tollerava la presenza. Non vi erano giornalisti. Almeno, non all’interno del<br />

gymnase. Ci vollero oltre cinque ore per avere il verdetto, che divenne ufficiale attorno<br />

all’una di notte. Del giovedì successivo. L’11 luglio.<br />

Così “Le Figaro” descriveva l’attesa: «Dov’è la democrazia quando un voto si svolge<br />

sotto tali pressioni? Sulla strada, in attesa, ci si informa, si chiacchiera, si conversa con<br />

chi passa. Abbiamo incrociato il giovanotto che faceva “il Cristo” nella manifestazione,<br />

tutto fiero che lo si riconosca, ancora tutto dipinto dalla sua pietosa facezia. Non è<br />

neanche intermittente! Ecco un altro ragazzo. Ventuno anni. E’ ferocemente a favore<br />

dello sciopero. Mira a sabotare il festival. Cosa ci facesse lì? “Avevo un gruppo di amici<br />

che facevano un po’ di teatro. Li ho raggiunti. Non ho formazione, ma mi sento bene sul<br />

palco”. E aggiunse, serioso: “In questo paese, c’è una pessima ripartizione della<br />

ricchezza ed è bene che gli artisti possano vivere”. Ma ci sono anche degli artisti, dei<br />

veri artisti, sinceri e veramente inquieti […]. All’1 e 30 del mattino, seguiamo l’euforia<br />

malsana di chi già suona al morto: “Forse è l’ultimo giorno…”. In quel momento ci<br />

siamo detti che si era forse in procinto di vivere, se l’espressione non era troppo<br />

compromettente, un momento storico. […] Nelle strade deserte alcuni studenti<br />

avignonesi staccano dei manifesti. Non c’è un gatto in giro. A quest’ora, di solito, le<br />

strade risuonano ancora dei passi dei numerosi festivalieri. Alla “Manutention”, giusto<br />

dietro al Palais des papes, sotto la luna, Bernard Faivre d’Arcier, prostrato, scuote la<br />

testa tristemente. Ha ben parlato questa sera, tutti ne sono stati testimoni, all’assemblea<br />

generale. Ma a quest’ora della notte parla già al passato: “Tanti anni di lavoro mandati<br />

all’aria…” disse in modo calmo. “E’ una catastrofe”. Nei minuti che seguono ha<br />

appuntamento con Sylvie Hubac […] e Lauent Brunner, consigliere tecnico del<br />

ministero della cultura e della comunicazione all’hôtel d’Europe. La notte è bella, ma<br />

questa è stata la notte degli imbrogli». In effetti, ad Avignone le notti sono lunghe e<br />

sembrano non finire mai. Quella fu particolarmente lunga.<br />

Il cortile del cloître Saint-Louis era pieno di persone quella mattina dell’11 luglio.<br />

Era mezzogiorno. Bernard Faivre d’Arcier e Christiane Bourbonnaud, responsabili del<br />

Festival di Avignone, si stavano accomodando al tavolo sopra il palco al centro del<br />

cortile.<br />

«Devo giusto annunciarvi che il 57° festival, il festival 2003, deve fermarsi. In<br />

accordo con il consiglio di amministrazione e con le tutele e con le cautele che abbiamo<br />

riscontrato ieri e questa mattina, siamo dovuto arrivare a questa decisione. Questo<br />

festival è stato solidale e a fatto tutto per sostenere, ancor prima del protocollo, gli<br />

intermittenti dello spettacolo. Molto presto, a monte delle negoziazioni, abbiamo redatto<br />

una lettera aperta che ha raccolto duemilacinquecento firme. Conosciuti i contenuti del<br />

protocollo d’accordo ho pubblicato degli articoli sulla stampa, rilasciato interviste ai<br />

giornali, fatto previsioni. Il 30 giugno ho incontrato il ministro della cultura e della<br />

comunicazione, Jean-Jacques Aillagon. Ho raggiunto i consiglieri culturali del primo<br />

ministro e del presidente della Repubblica. E tutto è svolto così velocemente… Ho<br />

anche brandito una sorta di minaccia di annullamento preventiva ma lo stesso giorno,<br />

tutto era praticamente pronto poiché i tecnici avevano sospeso lo sciopero. Al terzo<br />

giorno di festival, delle constatazioni e delle conclusioni si impongono. Li enuncerò in<br />

sette punti.<br />

220


1. Il ritiro del protocollo non è stato ottenuto malgrado le pressioni. Sono stati fatti<br />

degli emendamenti. L’approvazione dell’accordo sta per essere dato. Me ne rammarico<br />

profondamente.<br />

2. Lo sciopero riconducibile giorno per giorno è stato votato nuovamente questa<br />

notte, in particolare nel collegio dei tecnici.<br />

3. E’ come il gioco del domino. Nessuna rappresentazione ma anche nessuna<br />

prova di spettacoli programmati più tardi, dunque una edizione bloccata, tecnicamente<br />

impossibile.<br />

4. La CGT, sindacato maggioritario nel mondo dello spettacolo, non ha cambiato<br />

né la strategia né i discorsi.<br />

5. Il pubblico ha tenuto botta, non ha desistito, ma, legittimamente, solo oggi<br />

domanda di essere rimborsato. Avevamo venuto 74.000 biglietti.<br />

6. Certe compagnie intendono occupare i luoghi degli spettacoli e noi non<br />

possiamo permetterlo per delle ragioni di sicurezza: in effetti, possiamo temere delle<br />

pressioni esterne come successo ieri a Aix-en-Prevence. Ciò non lascia sperare in uno<br />

svolgimento il più normale possibile.<br />

7. Alcuni avrebbero preferito che si continuasse, costi quel che costi. Sarebbe<br />

ragionevole? Il sindaco tiene molto allo stato del commercio avignonese, e posso<br />

capirla. Quanto all’Off, non tiro pietre a quanti vogliano recitare, è una questione di<br />

sopravvivenza.<br />

Constato che non ci può essere festival senza spettacolo. Avignone, forum<br />

permanente, non è il contratto di origine con il pubblico. Per fare pressioni sul governo,<br />

si sarebbero potute immaginare delle azioni equilibrate, degli spettacoli e dei dibattiti e<br />

una azione inventiva. Non voglio spiegare le divisioni interne al mondo del teatro, non<br />

più di quanto voglia essere strumentalizzato dai sindacati o dalle compagnie. […]<br />

Nessuno processo, nessuna constatazione amara. Del Festival, che e per me l’ultimo, la<br />

sola cosa che resta è l’esposizione della Maison Jean Vilar che rintraccia la storia del<br />

festival in crisi… Il Festival ha quattro tutele. Spero che lo Stato, la città, la regione e il<br />

dipartimento facciano lo sforzo necessario affinché dopo questa edizione quella del<br />

2004 possa esistere. Essa è già, come sapete, affidata ad un gruppo molto competente».<br />

Poi, poco prima di alzarsi in compagnia di Christiane Bourbonnaud, suo braccio destro<br />

e responsabile amministrativa, concluse: «Oggi si riordina, si smonta e si fanno i conti».<br />

***<br />

Dopo l’ennesimo voto del 9 luglio a favore dello sciopero degli intermittenti al 57°<br />

Festival di Avignone, il direttore della manifestazione, Bernard Faivre d’Arcier, avrebbe<br />

tenuto una conferenza stampa il giovedì a mezzogiorno. In questa intervista a “Le<br />

Monde”, aveva annunciato la sua decisione di annullare l’edizione del 2003 del Festival.<br />

«Oggi ha preso la decisione di annullare definitivamente il festival. Perché?»<br />

«Dopo tre giorni ho constatato che il festival non può più avere luogo normalmente.<br />

Diciassette rappresentazioni sono già state annullate. Ci vorrebbe uno rinforzo tecnico<br />

eccezionale per assicurare quelle che sono previste nei giorni a venire. Ho sempre detto<br />

che il festival non poteva tenersi se tre condizioni non si fossero realizzate: che la<br />

relazione fossero svilite, che gli spettacoli siano presentati nelle condizioni auspicabili<br />

per le equipe artistiche che li hanno concepiti, e che ci non ci fossero violenze a<br />

minacciare la sicurezza».<br />

«Pensa che il movimento degli intermittenti fosse così duro?»<br />

221


«No. Mi ha sorpreso, come tutti. Conosco bene il problema per l’averlo affrontato<br />

dieci anni fa, proprio qui. Allora ero direttore del teatro degli spettacoli al ministero<br />

della cultura, e Alain Crombecque dirigeva il festival. Gli intermittenti avevano<br />

occupato la Cour d’honneur, ma abbiamo potuto trovare una soluzione, negoziando la<br />

proroga del regime di indennizzo di disoccupazione. Oggi, la situazione è<br />

completamente differente poiché i festival sono iniziati proprio dopo la firma del<br />

protocollo, il 27 giugno».<br />

«Come ha reagito a questo accordo?»<br />

«Fin dal 29 giugno, ho pubblicato un testo su “Le Monde”. Il 30, il giorno successivo<br />

all’annullamento di Montpellier-Dance, ho riunito nella mattinata, a Marsiglia, i<br />

direttori dei festival di Uzès, di Aix e di Marsiglia. Il pomeriggio, sono saltato su un<br />

treno, con Stéphane Lissner, per andare dal ministro della cultura a Parigi»<br />

«Come ha reagito Jean-Jacques Aillagon?»<br />

«Ci ha spiegato gli aspetti positivi dell’accordo. Nessuno sembrava allarmarsi,<br />

perché tutti pensavano che il Festival di Avignone fosse insopprimibile. Anche nel 1968<br />

non è stato interrotto, malgrado le forti perturbazioni».<br />

«Molto velocemente, la situazione ad Avignone si è complicata. Quale è stato<br />

l’atteggiamento del sindaco della città, Marie-Josée Roig?».<br />

«Lei ha sentito che la situazione era grave. Ma voleva far credere agli avignonesi, in<br />

particolare ai commercianti, che il festival poteva ancora aver luogo. Dall’8 luglio,<br />

giorno dello sciopero generale e della manifestazione, ho compreso che bisognava<br />

annullare. In merito all’atteggiamento di Marie-Josée Roig, ho deciso di ritardare questa<br />

decisione di ventiquattro ore. Non si può organizzare un festival sotto la pressione di<br />

uno sciopero riconducibile giorno per giorno. Anche se tutti i luoghi e tutti gli spettacoli<br />

erano pronti, non era possibile garantire che le rappresentazioni avessero luogo nelle<br />

condizioni normali».<br />

«Avrebbe pensato che certi artisti invitati prendessero parte così attiva nello<br />

sciopero».<br />

«Non tengo a vedere le divisioni degli artisti messe in mostra sotto lo sguardo del<br />

patronato e dello Stato. Nella notte tra il 9 e il 10 luglio, i tecnici hanno nuovamente<br />

votato a maggioranza lo sciopero, la qual cosa impedì che si tenessero gli spettacoli. Dal<br />

lato delle compagnie, i due terzi volevano recitare. Ma rifiuto di presentare un<br />

programma amputato di un terzo dei suoi artisti. Alcuni di questi ultimi avrebbero<br />

preferito rimpiazzare gli spettacoli con delle azioni militanti. Ho proposto loro di<br />

assicurare le rappresentazione e di organizzare altrove degli interventi che avremmo<br />

potuto immagine in comune accordo. Ma, per me, era fuori questione di rimpiazzare<br />

uno spettacolo in sciopero con un dibattito. Sarebbe come rompere il contratto con gli<br />

spettatori. Sottolineo che tutti queste discussioni hanno avuto luogo in assemblea<br />

generale a porte chiuse; quindi in assenza del pubblico, che non poteva fare intendere la<br />

sua voce».<br />

«Come vive questa situazione?»<br />

«Con tristezza, poiché è il mio ultimo festival, pensavo che fosse una bella edizione<br />

per festeggiare la mia partenza. Sono molto preoccupato per Avignone e per gli altri<br />

festival, a causa dei problemi finanziari. Ma se è la fine di un’epoca, non sarà la fine del<br />

Festival di Avignone. Allo stesso tempo, mi sento piuttosto combattivo. Con ciò mi<br />

sarebbe piaciuto fare un festival militante se avessi potuto presentare gli spettacoli. Fra<br />

tre settimane, non sarò più direttore e mi schiereri volentieri a fianco degli intermittenti<br />

per dare loro una mano».<br />

222


XVI<br />

(Giovedì, 10 luglio 2003: “Ce 57 e Festival est clos!”. Le operazioni di soccorso: il problema di<br />

rivendicare uno status (ovvero, perseguire iperflessibilità del lavoro per tornare ad essere “non<br />

ordinari”)<br />

Che tratta di come le tardive operazioni di soccorso di fronte all’escalation della protesta<br />

abbiamo provocato solo la definitiva esplosione della crisi e l’annullamento del Festival <br />

«Fumées, signes, présages à Avignon 1 ».<br />

Quando, negli anni, gli storici volgeranno lo sguardo indietro, sul “disastro artistico e<br />

morale” dell’estate del 2003, non mancheranno di redigere un capitolo dedicato ad<br />

Avignone, restando colpiti dalle strane coincidenze di segni annunciatori. La pensava<br />

così, in un suo bell’articolo del 14 luglio, Armelle Hèliot.<br />

«Ma di cosa, in effetti, serbiamo il ricordo? E di chi è la memoria? 2 », specie nel caso<br />

di recenti eventi disastrosi. Senza apparire troppo zelante, a metà strada tra sociologia<br />

della memoria collettiva e fenomenologia della memoria individuale, ancora una volta il<br />

“racconto” di alcuni protagonisti sufficientemente esterni alla vicenda ci verrà in aiuto.<br />

Nei racconti, realizzati a posteriori, di casi simili, infatti, la ricerca di improbabili<br />

segni premonitori costituisce un elemento significativo: e così quelli che sono i segni<br />

premonitori proposti da Armelle Hèliot possono non apparire rilevanti, ma senza ombra<br />

di dubbio hanno valore simbolico e, non me ne voglia il lettore, persino scientifico.<br />

Ecco, dunque, che il richiamo alla metamorfosi delle tre belle chiavi, emblema del<br />

festival fin dai suoi inizi – delle chiavi per aprire le porte – in chiavi idrauliche, ideali<br />

per degli onesti operai della metamorfosi, è meno bizzarro di quanto possa sembrare.<br />

«Una iniziativa di chi ha concepito il poster [...], approvata dalla direzione del festival<br />

che pensava senza dubbio che potesse essere cosa buona stringere i bulloni. Quasi a<br />

dimostrare prematuramente che quei pesanti strumenti sarebbero serviti…»: le tre chiavi<br />

papali simbolo della città e, fin dall’inizio, del Festival, erano state trasformate in tre<br />

chiavi inglesi nel poster ufficiale di quell’anno, in tre pesanti chiavi idrauliche da<br />

operaio.<br />

«Strano anche, lo si è già scritto», continua Armelle, «che la grande mostra della<br />

Maison Jean Vilar fosse consacrata alle crisi che la manifestazione ha attraversato dalle<br />

sue origini. “Analizzando degli eventi del passato aveva l’ambizione di interrogare il<br />

presente e il futuro”, tant’è che, ci viene detto, la chiusura è dedicata alla “storia del<br />

movimento sociale e sindacale”…». In effetti questo sa di presagio. Ma rassicuriamo il<br />

lettore che si tratta pur sempre di una coincidenza.<br />

1 La struttura portante di questa parte di racconto è costituita dalla perifrasi di una serie di articoli della<br />

brava giornalista e critica teatrale de “Le Figaro”, Armelle Héliot, uno sguardo professionale e attento<br />

sulle vicende del Festival e di tutto il settore teatrale francese. L’espressione nel testo costituisce il titolo<br />

di un suo articolo apparso il 14 luglio del 2003: “Fumate, segni, presagi a Avignone”. Inoltre, ho<br />

utilizzato alcune riflessioni, per lo più scritte, ma non solo, del Presidente della Maison Jean Vilar,<br />

Roland Monod, anch’egli inteso testimone e attento tutore dell’opera del fondatore del Festival (N.d.T.).<br />

2 In “La mémoire, l’histoire et l’oubli”, Paul Ricœur ricorre a queste due domande per iniziare la sua<br />

fenomenologia della memoria. Nel terzo capitolo della prima parte di quell’opera, intitolato, per l’appunto<br />

“Memoria personale, memoria collettiva”, egli precisa: «[…] la sociologia della memoria collettiva e la<br />

fenomenologia della memoria individuale non riescono, né l’una né l’altra, a deviare dalla posizione forte<br />

che esse tengono rispetto alla legittimità apparente della tesi avversa: coesione degli stati di coscienza del<br />

me individuale, da un lato, capacità, dall’altro, delle entità collettive di conservare e richiamare i ricordi<br />

comuni. […] Io mio propongo di esplorare le risorse di complementarietà che racchiudono i due approcci<br />

antagonisti, risorse mascherate da un lato dal pregiudizio idealista della fenomenologia husserliana […] e<br />

dall’altro dal pregiudizio positivista della sociologia, in gloria alla sua gioventù» (p. 152).<br />

223


“Et c’est toute l’action du théâtre : on sait qu’il travaille”, scrisse un giorno Antoine<br />

Vitez evocando “La Régie et le Siècle”. Egli riprendeva la bella frase di Vilar, che non<br />

volle mai altro nome che quello di “regisseur”, “amministratore”, e non di direttore<br />

artistico. Era una delle frasi più tipiche di Vilar, uno dei suoi caratteristici, paradossali,<br />

ragionamenti: «Le théâtre, parce qu’il parle, fait figure d’agitateur». Ma Vitez, lo<br />

diceva il 25 dicembre 1977, vedendoci «plutôt un monastère en oraison». «Queste sono<br />

le parole che gli amici di Bernard Faivre d’Arcier hanno scelto per illuminare il video<br />

che gli hanno regalato per il suo 59° anno, sabato…».<br />

Non lo trova strano e coinvolgente anche il mio lettore? L’agitazione e l’azione<br />

teatrale. E il ruolo del teatro come agitatore. La preghiera, l’orazione, il sacro, il lavoro<br />

profano.<br />

Continua l’articolo: «Ieri (n.d.t.: il 13 luglio) nella cattedrale di Notre-Dame des<br />

Doms, Monsignor Robert Chave celebrava una delle sue belle messe, e aveva come<br />

sostegno i monaci tibetani che sono al centro dello spettacolo di Bartabas e che, se<br />

comprendono la tristezza del fondatore di Zingaro, hanno qualche difficoltà, lo si può<br />

capire, a cogliere il fondamento delle dispute avignonesi. Uomini di fede e di spirito,<br />

hanno ascoltato l’omelia. Monsignor Robert Chave vi evocava quel giorno il cui, giusto<br />

dopo la sua morte a Sète, accompagnato da Paul Puaux, egli si era recato nell’ufficio di<br />

Jean Vilar e aveva trovato sulla tavola uno dei programmi della sua associazione, così<br />

fervida ancora oggi. “Fede e Cultura”, e queste note: “Avignone è la ricerca di un<br />

luogo di riflessione, di confronto, e, mio Dio! ciò che non è stato mai impedito a questi<br />

artisti, di speranza… E’ ciò che chiamo unione, la tregua, la ricerca, a volte violenta o<br />

pacifica, di una comunione, l’attenuazione delle contraddizioni”. I monaci di Guyto non<br />

capiscono il francese. Ma la lingua della spiritualità, quella si. E c’è tutto questo a<br />

Avignone, quest’anno più che mai. Delle opposizioni fratricide, delle dispute fraterne –<br />

come testimoniava ieri mattina l’incontro di Ariane Mnouchkine con il pubblico – la<br />

ricerca di un ideale. A Notre-Dame de Doms, la musica di Mozart, la sua “Missa brevis<br />

in si bemolle maggiore, KV275, per coro di bambini e organo”, era una replica eterea a<br />

ciò che questo festival non mostrerà, il Wolf d’Alain Platel 1 , ma anche, senza dubbio, un<br />

dolce accompagnamento della discussione che si teneva qualche via più in là, più in<br />

basso, nella città, al fresco dei grandi platani e del velarium installato fin dalla vigilia,<br />

nella corte di Cloître-Saint Louis. Mnouchkine, ferma, franca, tenera ma senza<br />

debolezza, riaffermando che si dispiaceva della scelta dello sciopero e dell’occasione<br />

mancata di un vero incontro con gli spettatori».<br />

Ancora, sempre il giorno precedente, alcuni collettivi di intermittenti e alcune<br />

compagnie si riunirono solo il capitello romano dell’isola della Barthelasse, la grande<br />

lingua di terra che il Rodano forma proprio fuori dalle mura di Avignone, quasi un<br />

nuovo quartiere della città, in estate popolato come non mai, vista la presenza di approdi<br />

per navi, all’enorme campeggio, ai turisti provenienti da tutta Europa e non solo.<br />

Bisognava decidere le manifestazioni da mettere in atto per il 14 luglio, che non è un<br />

giorno come tutti gli altri, in Francia. Poi si fa sarcastica Armelle Héliot: «Nella notte<br />

tra il 12 e il 13, un drappello di intermittenti aveva fatto irruzione in città, tra le 4 e le 5<br />

di mattina, seminando urla e petardi. Probabilmente degli ubriachi. Nulla di più. Si<br />

spera in un pensiero un po’ più strutturato per il giorno dopo. Alle 16, un incontro,<br />

ancora uno, sul tema “Verso gli stati generali della cultura”. Si spera che il Festival del<br />

2003 non sia stato distrutto per avere un colloquio in più. Ma senza dubbio si è rimasti<br />

1 Doveva essere uno degli “spettacoli-evento” di quella edizione del Festival, con 5 rappresentazione nella<br />

Cour d’honneur del Palazzo dei Papi (N.d.T.).<br />

224


troppo impressioni dal poster 2003. Le chiavi inglesi si staccano da un fondo<br />

arrugginito e deliberatamente fantomatico. Qualcuno riusciva a distinguerci un<br />

crocifisso». Il corsivo l’ho aggiunto io. Gli accenti di Armelle Héliot sono geniali: non<br />

credo che pensi seriamente che il fondo del poster fosse “deliberatamente fantomatico”;<br />

e non credo che l’immagine del crocifisso abbia contenuti mistici, in quanto ho il<br />

sospetto che la nostra capace giornalista volesse fare un riferimento, neppure troppo<br />

velato, ad una delle immagini più conturbanti delle manifestazioni avignonesi degli<br />

intermittenti. Credo infatti si rifacesse alla figura del giovane che durante le<br />

manifestazioni veniva portato in giro per la Città dei Papi legato ad una grossa croce di<br />

legno, con scritto sul petto “intermittent”, circondato da improbabili carnefici che<br />

cercavano di non fargli mancare l’appoggio sotto i piedi, e con cartelli appesi al collo<br />

con la scritta “Medef”.<br />

Il primo sguardo retrospettivo su un “vissuto significativo” generato da avvenimenti<br />

disastrosi serve alle persone coinvolte per produrre delle definizioni rapide della<br />

situazione stessa, perché “noi siamo consapevoli sempre di ciò che abbiamo fatto, mai<br />

dell’atto di farlo” 1 . In questa fase si ha una immediata percezione delle caratteristiche<br />

principali del fallimento; si tratta di valutazioni minimali che risultano necessarie per<br />

affrontare i problemi più urgenti e pressanti. Le prime manifestazioni di sconcerto, le<br />

ripercussioni dirette, sono quasi sempre di natura emotiva, prodotte dallo shock, e<br />

questo non permette sempre di realizzare un immediato aggiustamento ad hoc rispetto<br />

alla nuova situazione.<br />

E l’effetto psicologico della regressione può spingersi molto in dietro, a cercare non<br />

certo le cause ultime del fallimento, quanto, piuttosto, il rimpianto e la recriminazione.<br />

A proposito di segni premonitori, di nefasti presagi, tali sentimenti contrastanti non<br />

potevo che cercarli alla Maison Jean Vilar, attraverso le parole del suo Presidente, o<br />

nella accorata ricostruzione di una “professionista appassionata” del Festival come<br />

Armelle Héliot.<br />

Cercherò di riportare queste due testimonianze quanto più fedelmente possibile.<br />

***<br />

Il 19 luglio, su “Le Figaro” fu pubblicata un’enorme fotografia di Jean Vilar, ad<br />

accompagnare una lettera, evidentemente postuma, di Armelle Héliot, indirizzata al<br />

“fondatore” del Festival.<br />

In quella fotografia il braccio destro è piegato in alto, la mano sostiene la nuca, il<br />

gomito è appoggiato contro la pietra assolata del palazzo. In pieno sole. Vilar aguzzava<br />

lo sguardo sotto la sua fronte immensa. Sopra una camicia chiara con le maniche<br />

risvoltate, portava quella salopette da bravo operaio che lui amava tanto. […] Quale<br />

anno era? Bisognerebbe verificare, ma dovevano essere le prime stagioni del Festival.<br />

1952, senza dubbio. Aveva 40 anni. Vilar aveva un aspetto gracile, era molto magro. La<br />

sua espressione dubbiosa e interrogatoria aveva qualche cosa di doloroso, anche quando<br />

sorrideva. A sinistra, la vetrata a scacchiera di una delle alte finestre della corte – dal<br />

lato della corte d’onore, ovviamente – sembrava un costume di Arlecchino.<br />

E’ a questa sua immagine a cui la gente si rivolge, in questi tempi tristi. In quella<br />

torrida estate «che secca la pelle e i capelli e carbonizza i cuori», non si fa che<br />

richiamare alla sua figura. «Che cosa avrebbe pensato? Che cosa avrebbe auspicato?<br />

1 Mead 1972, ma anche Schütz 1967 e Weick 1997 (N.d.A.).<br />

225


Che cosa avrebbe deciso? Ebbrezza leggera delle rotture, tristezza del mai più visto,<br />

fatica delle dispute vane e delle parole disequilibrate, lacrime e depressione… quali<br />

sarebbero stati i suoi sentimenti, le sue sensazioni?». Non aveva tutti i torti la<br />

giornalista. Jean Vilar fu evocato più volte Lei è stato evocato. Vi si invoca, Jean Vilar.<br />

E ancora: «Tra i pastorelli della ribellione estiva vi sono dei giovani che non sanno chi<br />

sia. I più fraterni osservatori, coloro che l’hanno conosciuta e sono ancora qua,<br />

testimoniano dei suoi dubbi. Ed anche di questa lascivia che molto presto avete<br />

segnalato, e di cui non avevate vergogna. “E allora, perché ogni anno, Avignone e<br />

Avignone sola? Che vadano altrove. E in un altro modo”. Così scrivevate fin dal 1957, a<br />

dieci anni dalla prima settimana d’arte 1 .<br />

«Lo statuto degli intermittenti dello spettacolo è una questione che ritorna ogni volta<br />

a luglio, nel cuore dei dibattiti del festival, da quando nel 1969 – sotto un governo di<br />

destra – è stato messo a punto. Ci sono stati dei fermenti, come nel 1992. Era l’ultima<br />

stagione di Alain Crombecque. Nella cour d’Honneur si recitava le Chevalier<br />

d’Olmedo. La scena era costruita come un alto campo di grano biondo. A Parigi, il<br />

Théâtre de l’Odéon era occupato da attori e registi di nome. A Avignone gli<br />

intermittenti sfilavano per la città […]. Crombecque, uomo taciturno e apparentemente<br />

vulnerabile, conobbe delle minacce fisiche. Ma tenne botta. Si decise che per una<br />

giornata Avignone fosse una città morta. E questo calmò gli spiriti bollenti. Per qualche<br />

settimana».<br />

Continua la giornalista, rievocando la stretta attualità.<br />

«La scorsa estate, la CGT – almeno riconosciamole di essere stata vigile – faceva<br />

appello, vero la fine di luglio, per qualche manifestazione. […] La specificità dello<br />

statuto era pertanto minacciata. Si diceva che il Medef decidesse di porre fine agli<br />

allegati 8 e 10, che reggono le professioni dello spettacolo dal vivo e dell’audiovisivo.<br />

Lungo tutto l’anno, ma senza fermezza alcuna circa le linee di azioni e la men che<br />

minima armonizzazione delle iniziative, il pubblico non cessò di essere messo in<br />

guardia dagli artisti e dai tecnici. Comunicazioni agli spettatori, messaggi nei foyer,<br />

affissioni. Ognuno ci pensava. I giornali consacravano degli articoli al problema,<br />

davano la parola agli interessati. Facevano un vero sforzo pedagogico. Tutto ciò non ha<br />

impedito al ministero della Cultura e della Comunicazione di essere preso alla<br />

sprovvista! La mattina del 27 giugno, invitato da France Inter, il ministro lo ammetteva,<br />

dichiarando, in sostanza: “Un punto di sembrerebbe positivo, la specificità è conservata.<br />

Per il resto, permettetemi di prendere conoscenza in dettaglio dell’accordo”. Altrimenti<br />

detto, i suoi servizi informativi sono stati talmente deboli da non riuscire neppure a<br />

fornire una preparazione al ministro per chiarirgli la situazione. La CGT ebbe maggior<br />

acume. Le dichiarazioni, i gesti lo provano. Risalendo alla notte tra il 26 e il 27 giugno,<br />

un vero piano di battaglia era stato stabilito. Doveva consistere nell’alimentare la<br />

contestazione nell’ambito dell’insieme del malcontento – sanità, educazione, pensioni –<br />

che hanno corroso la primavera, facendo incrociare, in questo lavoro, la base dei<br />

militanti sindacali con le altalenanti iniziative dei “collettivi” che sono fioriti su questo<br />

terreno specifico.<br />

[…] Dopo uno sciopero ricondotto giorno per giorno dal 7 luglio alla sera – vigilia<br />

dell’apertura ufficiale – alla prima mattina del 10 luglio – e quindi con l’annullamento<br />

obbligatorio di tutti gli spettacoli in programma i primi tre giorni, vale a dire<br />

venticinque rappresentazioni […] – Bernard Faivre d’Arcier, direttore del Festival,<br />

1 La prima edizione del Festival di Avignone ebbe luogo nel 1947 sotto l’etichetta di “Una settimana<br />

d’arte ad Avignone”, dal 4 all’11 settembre.<br />

226


dovette convincersi ad annunciare la “chiusura” della 57^ edizione. Alla vigilia,<br />

Stéphane Lissner era stato costretto ad una decisione simile a Aix-en-Provence,<br />

nonostante lo sciopero fosse stato cancellato: ma gli incidenti, oramai, erano troppo<br />

gravi».<br />

Nel racconto della giornalista d’oltralpe, non mancò un ulteriore richiamo profetico,<br />

un episodio triste e assieme divertente, legato al sindaco-deputato della città, M.me<br />

Marie-Josée Roig la quale, ad una domanda precisa dei presenti circa la situazione<br />

critica, utilizzò una frase della nuova edizione del libro “Jean Vilar par lui-même” per<br />

sostenere: «Je ne serai pas celle qui décrétera l’annulation du festival!». Era una delle<br />

frasi utilizzare da Jean Vilar durante la crisi del 1968, anno in cui, nonostante i<br />

movimenti sociali diffusisi a partire dal “maggio parigino”, il Festival, seppur tra mille<br />

difficoltà, venne portato a termine. Mai frase fu più infelice, soprattutto se pronunciata<br />

da un politico!<br />

Armelle Héliot concluse la sua lettera aperta a Jean Vilar con queste frasi: «Nel<br />

1954, Marcel Jacno aveva creato per voi – lui disegnava le scene e i costumi oramai da<br />

tempo – il poster con le tre chiavi, pesanti e belle chiavi riprese anno dopo anno.<br />

Richiamo. Battito di ciglia. Legame. Questa estate, voi lo sapete, le chiavi sono<br />

diventate chiavi inglesi. Queste potevano andare bene con la vostra salopette. Salvo che<br />

invece di stringere i bulloni, si è smontato tutto. Questa è la sola cosa che volevo dirvi.<br />

Abbiamo perduto le buone chiavi».<br />

***<br />

“Il naufragio del Prestigio” era il titolo dell’editoriale di Roland Monod apparso sul<br />

n° 90 de “Les Cahiers de la Maison Jean Vilar” della primavera del 2004. «Ironia della<br />

storia», esordiva Monod: «le due esposizioni presentate questa estate, in occasione<br />

dell’ultimo festival di Bernard Faivre d’Arcier, erano proprio al centrate. Certo, non<br />

bisognava essere dei grandi lettori di fondi di caffé per presagire che la questione degli<br />

intermittenti non avrebbe mancato di uscire dalla sua scatola. Da lì a prevedere un<br />

annullamento puro e semplice…<br />

Attraverso la sua esposizione, straordinariamente documentata, “Dalla cicala alla<br />

formica”, il lavoro dell’Unione degli artisti attorno al tema dello statuto sociale degli<br />

artisti-interpreti nella prima parte del XX secolo, è diventato un documento essenziale<br />

per una migliore comprensione dell’attualità.<br />

Allo stesso modo, la nostra esposizione “Avignon, un rêve que nous faisons tous” si<br />

è trovata come esaurita dal precipitare degli eventi che rispondevano alla questione<br />

posta da Jean Vilar in Chronique romanesque: “Digérer ou diriger un théâtre?”. Possa<br />

esserci data l’occasione, l’estate prossima, di proseguire l’esperienza arricchendola di<br />

documenti principalmente audiovisivi circa la politica culturale della fine del secolo<br />

scorso che porta oggi …a cosa? Ad affondare sulle rive delle rivendicazioni di<br />

categoria? Alla fine di una fierezza nazionale che porta di nome di eccezione culturale?<br />

Al naufragio di questo “Prestigio” che ci mostra la carcassa arrugginita del manifesto<br />

del Festival 2003? O all’alba di avventure portate avanti attraverso le aspirazioni di<br />

un’altra gioventù?<br />

Con la nuova direzione del Festival di Avignone, e tutti i suoi partner naturali, locali<br />

o nazionali, la Maison Jean Vilar si sforza oggi di contribuire ad alimentare il dibattito e<br />

farsi testimone di una epoche inquieta che cerca la sua rinascita.<br />

227


Tuttavia, dunque, l’inimmaginabile è accaduto: il più grande festival di teatro del<br />

mondo (si piace ripeterlo) ha conosciuto la sua eclissi. Sabotato, assassinato, suicidato,<br />

secondo i punti di vista. Fortunatamente, a teatro, i morti di risvegliano e camminano.<br />

Forse, più semplicemente, si è preso una tregua? Una pausa eccezionale per motivi di<br />

salute. In e Off, il festival soffriva di bulimia. E la storia lo ha messo a dieta per<br />

risvegliare un giusto appetito. Fin dal decimo festival e, ancora di più nel 1964, Jean<br />

Vilar aspirava ad un anno sabbatico. Egli si interrogava sul senso e sul valore culturale<br />

di questo ritrovarsi tradizionale che sono i festiva estivi, a cominciare da quello di<br />

Avignone, dal momento in cui lo sforzo del loro contesto economico accompagna o<br />

almeno condiziona lo sforzo artistico e la portata sociale della loro stessa continuità.<br />

Questa pausa che né lui [Vilar – n.d.t.] né i suoi successori hanno potuto o voluto<br />

decidere, gli eventi l’hanno imposta. Non solo la rivolta degli intermittenti dello<br />

spettacolo, allarmati dalla prospettiva di revisione del loro protocollo di indennizzo di<br />

disoccupazione, rimettendo in discussione, secondo loro, non solo le proprie condizioni<br />

di lavoro ma il loro stesso diritto ad esercitare il loro mestiere. Il loro trasalimento era<br />

portatore di una inquietudine generale di fronte al futuro verso il quale la nostra società<br />

sembra inesorabilmente dirigersi. La loro ostinazione superava la ragionevolezza ma il<br />

tempo – le ragioni del tempo – li ha forse eletti, per la loro gioventù, la loro energia, la<br />

loro determinazione per fare muovere le cose. Il loro combattere era un combattimento<br />

giusto? La parola poetica e politica non ha forse bisogno del pubblico per essere intesa?<br />

Risolleveranno i problemi del teatro sulle loro spalle? A chi importa? Essi<br />

combattevano. Molti responsabili dei collettivi hanno condotto delle riunioni di<br />

informazione pubbliche con un rigore esemplare – e in particolare nella corte della<br />

Maison Jean Vilar – ma la dichiarazione finale “Noi siamo per lo sciopero, non per<br />

l’annullamento” lascia trasognati… E delle questioni di sostanza si pongono a ciascuno:<br />

quale è il mio giusto posto nella creazione dell’opera artistica per essere autorizzato ad<br />

interdire la sua presentazione programmata al pubblico? Gli atti maggiori dell’avventura<br />

teatrale non si decidono in seno alle troupe piuttosto che in una assemblea generale?<br />

Gli intermittenti dello spettacolo perseguono la loro azione. Noi abbiamo davvero<br />

bisogno di loro per non auspicare che essi arricchiscano al più presto le loro<br />

rivendicazioni di categoria con proposte innovative e riattualizzate affinché il teatro<br />

irrighi nuovamente la vita culturale popolare: bisogna sottolineare che il pubblico è il<br />

nome che porta il popolo a teatro?<br />

Sembra che un movimento sia in marcia. Perché non si sia intrapreso questo cantiere<br />

di riflessione e di rinnovamento senza o prima lo sperpero di tutti questi annullamenti<br />

estivi? Certo, ma non è come auspicare in modo ingenuo di poter gustare una omelette<br />

senza rompere le uova?<br />

[…] Ad Avignone, “ville d’esprit”, Bernard Faivre d’Arcier ha scelto di non<br />

celebrare il suo ultimo festival, non era nello spirito per farlo. Egli lascia il campo libero<br />

ai suoi giovani successori e amici, per avviare una nuova tappa del grande sogno che<br />

continua. La storia giudicherà, forse, che l’annullamento della sua 57^ edizione non può<br />

essere non conforme allo spirito del fondatore e a quello della città culla del festival.<br />

228


XVII<br />

(Giovedì, 10 luglio 2003: “Ce 57 e Festival est clos!”. L’adeguamento alla situazione “nuova”: un<br />

dossier sempre più “denso”)<br />

Nel quale la vicenda degli “intermittenti” dello spettacolo viene presentata come un<br />

dossier tutt’ora aperto e che non accenna a trovare soluzione definitiva <br />

«Au réveil il était midi», diceva Rimbaud. Nella corte di Cloître Saint-Louis, la fila<br />

dei primi spettatori che venivano ad informarsi per il rimborso dei biglietti. Ma vi<br />

furono anche momenti di collera quando un gruppo di scioperanti si presentarono a<br />

chiedere ragioni agli spettatori.<br />

Un habitué del festival sembrava si fosse rivolto loro esprimendo tutto il suo<br />

disappunto: «una scelta d’azione irresponsabile». E non era il solo a pensarla così.<br />

Nella folla, un militante della CGT si arrischiò a dire: «E’ questo ministero di merda<br />

che bisogna uccidere!».<br />

«Andate a nascondervi!», rispose di colpo uno spettatore. I toni si fecero accesi.<br />

«Preferiamo morire in piedi», vociferava qualcuno. «Fin tanto che non ci sono<br />

pensioni non ci saranno festival!». E improvvidamente: «Faremo gli stati generali della<br />

cultura!».<br />

«Ma gli stati generali di cui parla, era qua che bisognava farli. Recitando e<br />

discutendone veramente».<br />

«Bisogna reinventare i festival!».<br />

«Non ha capito nulla! Vi siete allontanati dal pubblico che era nonostante tutto<br />

largamente a favore delle vostre rivendicazioni. Ora non siete più credibili!».<br />

***<br />

Ad Avignone, una immensa tristezza si era abbattuta sulla città: molti piansero<br />

all’annuncio di Bernard Faivre d’Arcier. Il sentimento generale di aver sprecato<br />

qualcosa lasciava un gusto amaro. «Il blocco di Avignone è una sconfitta, ma era<br />

inevitabile», spiegava un membro di un collettivo, «ma è la sconfitta della cultura di<br />

fronte ad un governo devastatore, che ha lanciato una bomba atomica senza avere<br />

coscienza delle conseguenze. […] Il movimento [dei collettivi locali] è ora ad una<br />

svolta: siamo per il proseguimento degli scioperi nei festival, ma ci auguriamo<br />

soprattutto di diventare un interlocutore credibile nelle eventuali nuove negoziazioni. E’<br />

necessario che i membri di questa professione, dove il tasso di sindacalizzazione è<br />

molto basso, possano infine essere rappresentati a più livelli».<br />

La CGT, intanto, domanda «l’ampliamento dell’azione e la generalizzazione dello<br />

sciopero. Se il ministro degli affari sociali resta sulle sue posizioni, l’estate sarà molto<br />

carda… E se non sarà sufficiente, continueremo anche in autunno e in inverno. [Inoltre]<br />

ci attendiamo molto da Jacques Chirac su questo dossier. Se ha l’intelligenza, il 14<br />

luglio, per esempio, di proporre a tutti i partner una rinegoziazione su nuove basi, allora<br />

si potrebbe ipotizzare di giungere ad un accordo che sarebbe firmato, questa volta, da<br />

tutte le parti, e non solo da tre sindacati di minoranza nella professione. Se il presidente<br />

della Repubblica non propone alcuna soluzione, non escludo che il movimento degli<br />

intermittenti possa sboccare in uno sciopero generale».<br />

Il giorno stesso dell’annullamento un quotidiano locale raccoglieva il pensiero di<br />

Ariane Mnouchkine: «non sono riuscita a farmi ascoltare. Ci siamo battuti e ci siamo<br />

229


iformati da soli uno statuto deformato che si presta alla frode economica. Uno statuto<br />

manipolatorio. Bisogna che si faccia qualcosa di chiaro, di una chiarezza definitiva. […]<br />

Alcuni intermittenti hanno tenuto dei comportamenti non sempre chiari per cambiare il<br />

mondo. Bisogna essere in tanti per cambiarlo. Avete aperto una mela piena di vermi!<br />

[…] Ci sono dei retroscena politici che vanno conosciuti. Trovo contraddittorio che si<br />

sia cacciato il pubblico. Avrei voluto incontrarlo nella Cour d’honneur e domandarsi se<br />

volevano che gli spettacoli venissero soppressi». E continua: «Non accetto che gli<br />

intermittenti si uccidano con le loro stesse mani. E mi dispiace che gli intellettuali non<br />

si sia mobilitati. […] Non si può restare sempre inattivi. Le frodi vanno soppresse. E’<br />

una battaglia etica… Il danno morale è terribile. Bisogna battersi davanti a tutti, sanare<br />

completamente il sistema». Poi si fece cupa e decisa nell’affermare che «la CGT non ha<br />

firmato gli allegati per i quali ora si batte tanto valorosamente». Conservare la memoria<br />

significa darsi una possibilità per apprendere…<br />

Il 12 luglio molti quotidiani riportavano alcune parole del primo ministro francese,<br />

Jean-Pierre Raffarin, a margine di un suo viaggio ufficiale in Lussemburgo. Fino a quel<br />

momento il primo ministro non era intervenuto “ufficialmente” in alcun modo nei mesi<br />

precedenti. «Ho una profonda tristezza nel cuore nell’apprendere che si privi dei<br />

giovani, che si privi il pubblico più popolare di questa espressione culturale». Incalzato<br />

sulla questione specifica degli intermittenti dello spettacolo affermò: «è normale che<br />

ciascuno si esprima, che ciascuno possa dire le proprie convinzioni […] Ma è anche<br />

normale che si possa rispettare il dialogo sociale […]. Non si potrà avanzare nella<br />

cultura come in altri temi se non abbiamo scelta se non tra immobilismo e blocco». Tra<br />

le righe il giornalista si chiedeva chi veramente avesse mancato di rispetto nel dialogo<br />

sociale tra governo e Medef. E chi favorirebbe di più l’immobilismo considerando che<br />

di fatto le uniche buone riforme sono state quelle ad iniziativa governativa. Il primo<br />

ministro avrebbe poi promesso la creazione di “un programma nazionale per la<br />

continuità dei festival” e un “consiglio nazionale del lavoro culturale”. Misure<br />

generiche. Da approfondire. Soprattutto nel primo caso, in cui lo Stato e le collettività<br />

locali dovranno valutare la loro situazione finanziaria e trovare “soluzioni adatte per<br />

riassorbire i deficit”. «Oggi, infatti», continuava il ministro della cultura, anch’egli<br />

presente, «i festival sono fortemente compromessi a causa dei disordini e degli<br />

annullamenti. […] Alcuni sarebbero al limite del dissesto finanziario».<br />

Il ministero della cultura, a metà luglio, parlava di un deficit complessivo di 15<br />

milioni di euro, «ma è veramente troppo presto per fare delle valutazioni esatte», teneva<br />

a precisare il ministro.<br />

Il 14 luglio, su “Le Figaro”, venne pubblicata una lettera aperta degli artisti al<br />

presidente della Repubblica Jacques Chirarc.<br />

«Signor Presidente della Repubblica. Abbiamo appena riportato una grande vittoria:<br />

l’eccezione culturale è iscritta al centro della Costituzioni europea. Come diceva in<br />

occasione della riunione del Comitato per la diversità culturale: “La Francia, per la<br />

quale la cultura non è un semplice divertimento, intende restare fedele alla singolarità<br />

della sua politica culturale adattandola alle evoluzioni del mondo. Politica del libro e<br />

della lettura pubblica, sostegno al cinema e alla produzione audiovisiva, difesa e<br />

valorizzazione del patrimonio, incoraggiamento alle arti della scena e dello spettacolo,<br />

alla musica e alla canzone, agli autori, alle arti plastiche, appoggio alle industrie<br />

culturali, sviluppo del mecenatismo, incitamento determinato alla nostra presenza<br />

culturale nel mondo: sì, lo Stato e i poteri pubblici – è una tradizione francese, è anche<br />

una forza – sono legittimati nel sostegno che accordano ai creatori e agli artisti”.<br />

230


Allo stesso tempo, abbiamo conosciuto, insieme, una grande sconfitta: la firma in<br />

seno all’Unedic, da parte dei partner sociali, di un accordo che va a scontrarsi con “il<br />

sostegno che lo Stato apporta ai creatori e agli artisti” di cui si è fatto garante. […]<br />

Questo accordo, comme Ella sa, avrà per conseguenza l’esclusione dal regime di<br />

indennizzo di disoccupazione di un quarto degli artisti e dei tecnici attualmente affiliati,<br />

vale a dire circa venticinquemila persone. Ciò è brutale e ingiusto, ma, peggio ancora, è<br />

inefficace poiché, come i firmatari confidenzialmente ammettono, non ridurrà il deficit<br />

dell’Unedic e non permetterà di diminuire in modo significativo la frode e gli abusi.<br />

Socialmente incomprensibile, politicamente inopportuno, economicamente inefficace,<br />

questo accordo è dunque pessimo. Divide. Se la prende con quanti sono più fragili, più<br />

elevati e più dimenticati nei nostri mestieri: il potere di unire che l’arte ha, di creare<br />

ovunque legami sociali e di dare a tutti l’immagine di un paese inventivo, coraggioso e<br />

generoso.<br />

Come aveva affermato con forza e convinzione, non molto tempo fa, la coesione<br />

sociale è il nostro bene più prezioso. Toccando tutti i settori della nostra vita culturale e<br />

artistica, questo accordo non potrà che indebolire in modo duraturo l’influenza della<br />

Francia in tutto il mondo. Tutto ciò, né Ella, Signor Presidente, né noi possiamo<br />

accettarlo.<br />

Il 5 maggio 2002, l’abbiamo eletta alla presidenza della Repubblica. Lo abbiamo<br />

fatto, come ha Ella stesso ricordato la sera della vittoria “in coscienza, superando le<br />

divisioni tradizionali, e, per alcuni di noi, andando anche al di là delle nostre stesse<br />

preferenze personali e politiche”. In quella occasione si è impegnato affinché la Sua<br />

azione “si ispirasse ad una esigenza di servizio e di ascolto di ogni Francese”. Questa<br />

“esigenza di servizio e di ascolto” impone ora che si tenga una vasta riflessione sul<br />

finanziamento e sul ruolo della cultura in Francia. Noi non manchiamo né di<br />

immaginazione né di audacia e le proposte abbondano. Se vorrà dare l’impulso<br />

necessario, stia certo che questa riflessione offrirà delle soluzioni originali e ridarà<br />

nuovo impulso agli attori della cultura senza i quali la Francia non sarebbe più la<br />

Francia. Non è ancora troppo tardi. La chance peut ancore être saisie. La possibilità di<br />

ridonare speranza a ciascuno di noi, di rifondare un nuovo patto di solidarietà tra la<br />

società e i suoi artisti, infine di rendere permanente un “modello francese” di vitalità<br />

culturale che il mondo intero ci invidia.<br />

Signor Presidente, noi contiamo su di Lei».<br />

In effetti, nel suo discorso televisivo alla Francia, in occasione del 14 luglio, Jacques<br />

Chirac parlò della faccenda. Nei giorni successivi i quotidiani ripresero tali parole. La<br />

cronaca, laconica, de “Le Monde” del 16 luglio poteva costituire un esempio del tenore<br />

dei commenti dell’opinione pubblica.<br />

«Per la prima volta dall’inizio del conflitto degli intermittenti, il capo dello Stato è<br />

uscito dal suo mutismo. Aggiungendosi alla litania già lunga degli scontenti,<br />

seicentocinquanta artisti e creatori gli avevano fatto pervenire, prima del suo intervento<br />

televisivo, una lettera di denuncia della riforma del regime di indennità di<br />

disoccupazione degli intermittenti dello spettacolo. […] Jacques Chirac ha tenuto a<br />

precisare che quel dossier non è di competenza diretta del governo, ma della<br />

negoziazione tra i partner sociali in seno all’Unedic. Tra il mucchio di misure<br />

annunciate da Jean-Jacques Aillagon, […], il presidente della Repubblica ha richiamato<br />

l’esigenza “di perseguire con severità” e a “sanzionare” le imprese dell’audiovisivo e<br />

dello spettacolo che hanno “scientemente capovolto a loro vantaggio” il sistema di<br />

indennizzo di disoccupazione degli intermittenti. Inoltre ha deplorato il fatto che<br />

231


l’ispezione del lavoro non sia stata sufficientemente severa contro gli abusi, che<br />

potrebbero riguardare circa un terzo degli assegnatari (su un totale di circa centomila<br />

che hanno avuto accesso almeno una volta al sistema).<br />

[…] A margine del suo intervento, il capo dello Stato ha annunciato la creazione<br />

“prima del 1° gennaio di un sistema di aiuti alla creazione culturale che miri a regolare<br />

il problema degli intermittenti”. Per il presidente, questo aiuto dovrebbe permettere loro<br />

di finanziare i loro progetti “in modo duraturo”. Il ministro della cultura aveva già<br />

annunciato un piano d’urgenza di 20 milioni di euro destinati ad accompagnare la<br />

riforma del regime degli intermittenti e a permettere ai giovani artisti di non essere<br />

esclusi. In una prima stima, il piano di aiuti ai festival è stato ugualmente valutato in 15<br />

milioni di euro. Non si tratta di cifre definitive. Deplorando “l’inquietante spreco<br />

artistico, umano e economico” dovuto all’annullamento dei festival, il capo dello Stato<br />

si è vivamente felicitato per la prevista iscrizione dell’eccezione culturale nella<br />

costituzione europea. “Noi siamo il solo paese europeo dove ci sia la coscienza di un<br />

aiuto pubblico necessario alla creazione e agli artisti”, ha affermato. E’ proprio ciò che<br />

difendono gli intermittenti».<br />

Proprio in quei giorni sarebbe stato il compleanno di Bernard Faivre d’Arcier.<br />

«Avevo anche pensato ad una grande festa», dice, «e avrei approfittato dei fuochi di<br />

artificio del 14 luglio. Tanto peggio, si berrà almeno un bicchiere in questo posto<br />

chiuso, assieme a poche persone. Ci troviamo nella situazione inedita di aver annullato<br />

tutto quello che avevamo fatto. […] Tutti sembra ora abbiamo voglia di parlarne. I miei<br />

problemi, ora, sono di altra natura: cosa fare degli ottanta custodi che avevo reclutato<br />

per la durata del Festival e, allo stesso tempo, analizzare tutto quanto è accaduto negli<br />

ultimi quindici giorni. Abbiamo creduto a lungo che il Festival di Avignone fosse<br />

inaffondabile. Credo che in effetti nessuno abbia misurato le conseguenze economiche e<br />

culturali del nuovo statuto degli intermittenti». La sua ennesima ricostruzione era lucida<br />

ed essenziale. «Il governo ha agito come dei tecnici che cominciavano a costruire una<br />

diga e che, solo dopo, si rendevano conto che c’erano dei posti già inondati. Il ministero<br />

della cultura non è stato mai veramente in grado di capire cosa accadeva nel mondo<br />

dello spettacolo dal vivo. Non ha più antenne per captare. C’è una gran quantità di temi<br />

che non è in grado di comprendere. Jack Lang possedeva un certo senso politico,<br />

ascoltava la gente e sapeva gestire le cose. Jean-Jacques Aillagon e i suoi consiglieri<br />

hanno tenuto un approccio contabile o giuridico sulla faccenda. Hanno agito da<br />

amministratori non tenendo conto dell’allerta immediata. Il 27 giugno, l’inaugurazione<br />

di una mostra al Palais des Papes è stata condizionata dagli intermittenti locali<br />

appartenenti agli Interluttants, un collettivo puramente della regione. Marie-Josée Roig,<br />

il sindaco di Avignone, che non ha potuto fare la sua inaugurazione, è stata chiamata in<br />

causa per la strada da una ventina di intermittenti. Si è ritrovata a dover discutere di un<br />

problema che ignorava del tutto. Mi trovavo lì per caso e, con suo grande sollievo, ho<br />

ripreso la discussione al suo posto per liberarla. In quel momento ho sentito che la<br />

confusione della gente era sul punto di trasformarsi in disperazione. Il 30 giugno, sono<br />

corso a Parigi al ministero della cultura, dove ho trovato Stéphane Lissner, il direttore<br />

del Festival di Aix che doveva aprire il 4 luglio. Siamo stati ricevuti dal ministro che ci<br />

ha spiegato i punti dell’accordo. Abbiamo riconosciuto che vi fossero certi punti<br />

positivi, come la soppressione della regressività delle allocazioni o la volontà di<br />

scacciare gli abusi. Ma dietro questi vantaggi, si vedeva bene che il meccanismo di<br />

fondo, che è tra l’altro molto ben mascherato, restava nocivo. Ho cercato di spiegargli<br />

che gli intermittenti non cercavano di essere oltremodo assistiti, ciò che volevano é un<br />

232


volume di lavoro più importante. Sono ripartito piuttosto inquieto, senza avere<br />

veramente la sensazione di aver toccato l’animo del ministro, né di essere pervenuto ad<br />

allarmarlo a sufficienza. Contemporaneamente, la CGT minacciava di far saltare tutti i<br />

festival e di dichiarare la guerra sociale. Ad Avignone un coordinamento è stato creato<br />

immediatamente, lanciando un preavviso di sciopero. Avevo domandato loro di<br />

rinunciare a quella minaccia per poterne discutere assieme. Sfortunatamente, tutto ciò si<br />

è fatto in assenza del pubblico. Se fosse stato veramente presente, sono persuaso che<br />

tutto si sarebbe potuto salvare. Ma, anche in quel momento, non concepivo ancora che il<br />

Festival non potesse aver luogo. Il 7, un preavviso di sciopero ha toccato solo le prove,<br />

e l’8 ho avuto una conversazione con il responsabile della CGT, che mi ha dichiarato<br />

che egli considerava il Festival come una granata che egli poteva disarmare quando<br />

voleva. La sua strategia era quella di brandire l’arma dello sciopero decidendo, un<br />

quarto d’ora prima, se lo spettacolo avesse luogo o meno. Questa pressione sul pubblico<br />

era intollerabile. Il fatto che Jean Voirin, capo della CGT-spettacolo, si fosse mostrato<br />

alla televisione al concerto degli Stones, era tanto umiliante per le centinaia di spettatori<br />

di cui annullavamo i biglietti quanto il fatto che Seillière [all’epoca capo del Medef]<br />

spiegasse come questa “gente” che dormiva per strada aveva, malgrado tutto, una<br />

assistenza di disoccupazione pagato con i soldi dei lavoratori. Erano stati talmente<br />

maleducati, volgari, tanto da una parte che dall’altra. L’8 luglio, giorno di apertura del<br />

Festival, ci siamo ritrovati presi tra il sindacato che aveva mantenuto la sua strategia e il<br />

suo discorso molto duro, un Medef che aveva cercato di reagire per voce del suo<br />

presidente e un ministro della cultura piuttosto evanescente. Quest’ultimo pensava<br />

veramente che la situazione andasse sgonfiandosi come un palloncino. Non si è neppure<br />

degnato di venire. Il 9 luglio avevo considerato che tutto fosse perso. Allora go fatto<br />

visita al sindaco che, giuridicamente, è il presidente dell’Associazione di gestione del<br />

Festival. Mi ha domandato di spostare di una giornata la decisione di annullare. Pensava<br />

che questo potesse servire. Non si rendeva assolutamente conto della situazione. Avevo<br />

visto cosa era accaduto ad Aix, con la gente che era venuta a disturbare i concerti con le<br />

cornamuse, ed io, non volevo accadesse questo ad Avignone. Il sindaco voleva<br />

continuare unicamente per i commercianti. Ho l’impressione che oggi il teatro sia<br />

diventato estraneo alle differenti municipalità che si sono succedute. Per il sindaco, il<br />

Festival, si riassume in commercio e turismo. Era il mio ultimo Festival, puoi credermi<br />

quando dico che è con la morte nell’animo che ho deciso che bisognasse fermare<br />

tutto…».<br />

A dieci giorni dall’annullamento Avignone sembrava accusare il colpo. Dai racconti<br />

che mi venivano fatti la città era molto simile a come doveva essere a fine agosto. Le<br />

terrazze e i gazebo di place de l’Horloge sono vuoti per la metà. La notte si poteva<br />

incrociare qualche passante isolato che sembrava lasciare la sala teatrale come si<br />

abbandona un incontro clandestino. Nessuna agitazione, niente vociare continuo per<br />

tutte le strade all’interno delle mura della città, nessuna festa gioiosa nei stretti vicoli<br />

medievali, pochissimi musicisti e artisti di strada ad improvvisare improbabili<br />

spettacoli. I camion incaricati della logistica delle scene erano già partiti; le compagnie<br />

anche. Solo Bartabas era ancora là, nella desolata tristezza di Châteaublanc, fuori città:<br />

per i suoi cavalli sarebbe stato troppo un doppio trasferimento, prima ad Aubervilliers e<br />

poi a Namur, in Belgio, agli inizi di agosto.<br />

A Saint-Louis l’équipe del Festival si attivava in quel lavoro lungo e complicato che<br />

era il rimborso dei 74.000 biglietti venduti e per regolarizzare la situazione delle<br />

compagnie. Hortence Archambault, amministratice e futura codirettrice del Festival a<br />

233


fianco di Vincent Baudriller, ipotizzava che «ad oggi, il deficit previsionale ha<br />

raggiunto 2,5 milioni di euro». Per avallare quel budget e per stabilire l’entità del<br />

rifinanziamento necessario, Bernard Favre d’Arcier aveva chiesto una riunione del<br />

consiglio di amministrazione. Nessuna risposta dalla Presidenza.<br />

Il 17 luglio si era tenuto l’ultimo dibattito pubblico organizzatio a Saint-Louis dagli<br />

intermittenti, sul tema “La lotta dei dockers”. Duecento persone erano intervenute, forse<br />

sollevate di ascoltare qualcosa di diverso rispetto alle discussioni senza fine dei giorni<br />

precedenti, e che non hanno prodotto alcuna proposta solida.<br />

Bernard Faivre d’Arcier, intanto, incoraggiava i suoi successori: «ho molta fiducia<br />

nella nuova équipe», quella di Hortence Archambault e di Vincent Baudriller, che<br />

entreranno in carica il primo di agosto. Quanto a lui: «mon avenir est en suspens!»,<br />

rispondeva a quanti gli ponevano la questione. Si racconta che durante quelle giornate<br />

così tormentate, il regista tedesco Thomas Ostermeier, che sarebbe stato l’artista<br />

associato all’edizione del 2004, percorresse Avignone in bicicletta, sotto un calore<br />

infernale. Forse, faceva piacere vederlo così in forma, riflessivo e combattivo.<br />

Intanto, la campagna di promozione turistica della città di Avignone, fortemente<br />

voluta da M.me Roig, veniva presentata a Parigi: «Avignon, le plus beau rôle de votre<br />

été».<br />

***<br />

Alla fine di luglio, il ministro della cultura indirizzò una lettera agli artisti.<br />

«[…] Desidero esporvi la mia analisi della situazione e le iniziative che mi propongo<br />

di prendere nel corso delle prossime settimane.<br />

La questione dell’intermittenza è al centro delle mie preoccupazioni.<br />

E’ in effetti fondamentale permettere ai creatori e ai tecnici dello spettacolo e<br />

dell’audiovisivo di disporre di un regime di indennizzo di disoccupazione adatto alle<br />

caratteristiche della loro attività e ai periodi di ricerca del lavoro o di lavoro non<br />

remunerato al quale sono confrontati. Dal mio arrivo in rue de Valois, mi sono dedicato<br />

a evitare lo smantellamento puro e semplice al quale era destinato il regime a causa<br />

delle sue derive finanziarie, del raddoppio dei destinatari da dieci anni e degli abusi<br />

constatati già da molto tempo, e mai seriamente trattati.<br />

Delle misure di accompagnamento della riforma ed un piano di lotta contro gli abusi<br />

sono stati studiati a partire dal mese di gennaio con i partner sociali.<br />

Dopo l’accordo del 26 giugno scorso tra le organizzazioni che gestiscono l’Unedic,<br />

ho domandato ancora alle confederazioni firmatarie di rinegoziare per apportare al loro<br />

accordo molteplici miglioramenti. Finalmente, questo accordo, nonostante comporti<br />

delle misure restrittive, preserva l’essenzialità di un regime che distingue gli artisti e i<br />

tecnici dagli altri lavoratori, appoggiandosi sulla solidarietà di questi ultimi. Credetemi,<br />

forte delle condizioni e degli impegni antichi che mi sono propri al servizio della<br />

cultura, mi sarei violentemente opposto a questa risistemazione se avesse avuto comme<br />

conseguenza la penalizzazione delle condizioni della creazione del nostro paese.<br />

Nonostante questo, questa risistemazione ha provocato delle forti reazioni che hanno<br />

condotto le direzioni di molti festival a pronunciare l’annullamento della loro<br />

manifestazione. Come voi, sono stato profondamente rattristato da questi annullamenti.<br />

Sono stato altresì scioccato dall’utilizzo che alcuni hanno potuto fare di questo<br />

movimento, amplificandone coscientemente e esageratamente le angosce di molti.<br />

Oggi mi fisso tre obiettivi.<br />

234


Voglio, prima di tutto, rispondere a coloro che esprimo la loro inquietudine quanto<br />

agli effetti della messa in opera del nuovo regime di intermittenza. Voglio ricordare loro<br />

che l’accordo negoziato sarà operativo progressivamente, e che gli effetti saranno<br />

oggetto di attenzione del Governo, che si riserva la possibilità di domandare all’Unedic,<br />

se necessario, di apportare degli aggiustamenti all’accordo, nel momento del suo<br />

riesame previsto per la fine del 2004 e del 2005. Riunirò entro i primi giorni di<br />

settembre il Consiglio Nazionale delle Professioni dello Spettacolo, in seno al quale sarà<br />

realizzata una commissione permanente per l’impiego, che avrà la missione di<br />

osservazione e di proposizione. Sarà infine domandato alle direzioni regionali degli<br />

affari culturali di creare rapidamente delle commissioni regionali delle professioni dello<br />

spettacolo, luogo di dialogo e di concertazione oggi indispensabile.<br />

Ho in seguito deciso di impegnare un piano di lotta alle frodi, sapendo, come gli<br />

stessi intermittenti dicono, che esse sono in buona parte responsabili delle derive dei<br />

conti degli allegati 8 e 10. Saranno effettuati dei controlli mirati a partire da questa<br />

estate su delle imprese che abusano dei vantaggi dell’intermittenza. Il Governo<br />

realizzerà due ordinanze nel corso delle prossime settimane per facilitare i controllo<br />

dell’Unedic e migliorare le dichiarazioni e la copertura delle contribuzioni sociali.<br />

Infine, lancerò nei prossimi giorni la preparazione di un grande dibattito nazionale<br />

sulle politiche pubbliche dello spettacolo dal vivo. La crisi che stiamo attraversando va<br />

oltre, in effetti, il solo problema degli intermittenti. Rivela un malessere più profondo,<br />

che impone una riflessione sul ruolo dell’artista nella nostra società, sull’economia della<br />

produzione dello spettacolo, sul lavoro artistico, sulle modalità di finanziamento<br />

pubblico e sulla missione delle strutture e dei gruppi che si consacrano allo spettacolo<br />

dal vivo. Una prima fase di consultazioni, di ascolto e di dibattito si è già aperta<br />

attraverso delle consultazioni informali che tengo con gli artisti, i professionisti dello<br />

spettacolo e componenti del parlamento. Dovrà continuare sotto diverse forme per<br />

giungere questo autunno a dei Tavoli Nazionali dello Spettacolo dal Vivo. Mi aspetto da<br />

questi incontri di permetterci di rifondare in modo duraturo e su basi esplicite la politica<br />

pubblica in questo settore in cui lo Stato, le collettività territoriali e i professionisti<br />

devono assumere le rispettive responsabilità. I risultati di questi incontri permetteranno<br />

inoltre di finalizzare le disposizioni del piano nazionale per il lavoro artistico nello<br />

spettacolo dal vivo, che entrerà in vigore dal 1° gennaio 2004, conformemente agli<br />

auspici del Presidente della Repubblica.<br />

Il futuro dello spettacolo dal vivo merita che si sappia condurre insieme questo<br />

grande dibattito, nella serenità e nel rispetto di tutti. Ne ho la volontà, convinto che una<br />

pagina essenziale della politica culturale del nostro paese sia da scrivere. Mi auguro di<br />

potere contare sul vostro aiuto per condurre in porto questi desideri, che toccano così da<br />

vicino l’atto creativo e il suo incontro con il pubblico, che costituisce la nostra comune<br />

ragion d’essere […]».<br />

L’8 agosto venne annunciato che il Governo stava approvando l’accordo firmato dai<br />

partner sociali il 26 giugno e modificato l’8 luglio. Sarebbe entrato in vigore in modo<br />

progressivo a partire dal 1° gennaio. A margine di tale dichiarazione, il ministro della<br />

cultura annunciò altresì che: «Il Primo ministro mi ha incarico, quale sbocco di questo<br />

dibattito nazionale, di gettare le basi di una legge di orientamento sullo spettacolo dal<br />

vivo. Questa legge permetterà di restituire allo spettacolo dal vivo le basi di sviluppo<br />

equilibrato e conveniente la cui esigenza è stata messa in evidenza dalla crisi che<br />

abbiamo conosciuto. Quella che é stata voltata è una pagina della storia culturale della<br />

235


Francia contemporanea. E’ nostro compito ora di scrivere la seguente, e di lavorare<br />

assieme a questa vera rifondazione».<br />

Dopo gli annunci delle settimane precedenti, giovedì 4 settembre 2003 si riunì, in<br />

sessione straordinaria, il CNPS. I settanta rappresentanti dei sindacati dei datori di<br />

lavoro e dei lavoratori dello spettacolo, dell’audiovisivo e del cinema, degli organismi<br />

sociali, delle collettività locali, nonché l’amministrazione del Ministero della cultura e<br />

della comunicazione e del Ministero degli affari sociali, del lavoro e della solidarietà, si<br />

ritrovarono attorno allo stesso tavolo del febbraio precedente, dopo poco più di sei mesi<br />

vissuti in modo rischioso. L’ordine del giorno prevedeva: l’intervento del ministro della<br />

cultura; lo scambio di informazioni sulle misure che miravano a mobilitare il servizio<br />

pubblico dell’impiego e i servizi decentrati dei ministeri della cultura e del lavoro sulle<br />

questioni relative all’impiego e al regime di indennizzo di disoccupazione degli<br />

intermittenti; la presentazione del piano di lotta contro il lavoro illegale e le frodi;<br />

l’esecuzione delle istanze di dialogo sociale sulle questioni dello spettacolo dal vivo e<br />

dell’audiovisivo in regione; la creazione di una commissione del CNPS sul lavoro nello<br />

spettacolo; le modalità di preparazione del dibattito nazionale sulle politiche pubbliche<br />

dello spettacolo dal vivo; e, infine, “questioni diverse” (altrimenti detto, “varie ed<br />

eventuali”).<br />

Il 31 marzo del 2004, in seguito ad un cambio di governo, Renaud Donnedieu de<br />

Vabre divenne ministro della Cultura e della Comunicazione.<br />

L’agenda restava particolarmente densa. E la questione degli intermittenti<br />

necessitava di una strategia di uscita che il nuovo ministro individuò in quattro mosse:<br />

riannodare i fili del dialogo (con gli incontri, con le trasferte in visita alle organizzazioni<br />

artistiche, con la tenuta dei CNPS confermati per il 19 aprile e il 7 giugno); avviare le<br />

misure d’urgenza (come la faccenda del congedo di maternità e la creazione di un<br />

Fondo provvisorio); impegnarsi senza indugi nel trattamento delle questioni di fondo<br />

vale a dire, la lotta agli abusi del sistema di intermittenza, la migliore definizione del<br />

campo di applicazione degli allegati VIII e X (da realizzare attraverso l’affidamento di<br />

un incarico di ricerca a Jacques Charpillon, ispettore generale dell’amministrazione<br />

degli affari culturali), l’organizzazione di un sistema di intermittenza stabilizzato (con<br />

un incarico affidato a Jean-Paul Guillot); riconciliare i francesi con gli artisti e i tecnici<br />

dello spettacolo dal vivo, del cinema e dell’audiovisivo.<br />

Nella prima metà di aprile, gli incontri bilaterali riguardarono: le organizzazioni dei<br />

datori di lavoro e le organizzazioni sindacali; il Comitato permanente (Comité de suivi),<br />

presieduto da Jack Ralite e nato per il monitoraggio dell’applicazione dell’accordo degli<br />

intermittenti; il presidente e il vice presidente dell’Unedic.<br />

E poi: il 15 di aprile riunione con i membri della Commissione affari culturali del<br />

Senato; il 17 incontro ad Avignone; il 19 presidenza del CNPS.<br />

Il 5 maggio Donnedieu de Vabres conferì due ennesimi incarichi di ricerca, per altro<br />

annunciati nei giorni precedenti: le missioni Lagrave e Charpillon.<br />

Il 6 e il 7 maggio vide nuovamente le organizzazioni padronali e sindacali, nonché<br />

dei membri del coordinamento nazionale degli intermittenti.<br />

Il 16 maggio: partecipazione alla conferenza stampa del “Comité de suivi”.<br />

Il 7 giugno nuovo CNPS.<br />

Tra il 14 e il 16 giugno i Jean-Paul Guillot fu nominato alla testa di quella missione<br />

di consulenza indipendente che doveva elaborare un nuovo sistema di indennizzo di<br />

disoccupazione per gli intermittenti dello spettacolo.<br />

236


A quasi due anni di distanza dalle vicende del giugno e luglio 2003, Paul Guillot<br />

completò lo studio che doveva avere l’obiettivo di «chiarire e alimentare la<br />

negoziazione che si terrà a livello interprofessionale, per aiutare i partner sociali del<br />

settore a studiare e redigere delle ipotesi di lavoro per l’elaborazione di un protocollo<br />

che assicuri le coerenze necessarie tra la politica d’impiego del settore e le regole di<br />

assicurazione della disoccupazione che devono concorrere agli stessi obiettivi di<br />

professionalizzazione, di lotta contro la precarietà, di miglioramento strutturale<br />

dell’attività del settore, tenendo conto, evidentemente, delle obbligazioni finanziarie<br />

dell’Unedic».<br />

Erano riposte molte attenzioni su lavoro assegnato a Guillot: ad esempio, in un<br />

incontro pubblico del 18 ottobre del 2004, dedicato al tema dello sviluppo del settore<br />

dello spettacolo, la questione dello statuto degli intermittenti fu chiamata in causa molte<br />

volte, e molte volte fu fatto il nome di Guillot accostandolo ad una missione di studio in<br />

corso di realizzazione. La situazione era sempre più spinosa…<br />

Le posizioni espresse nel rapporto Guillot meritavano quindi attenzione, trattandosi<br />

di uno sforzo interessante di proporre una prospettiva differente del problema rispetto a<br />

quella burocratico-amministrativa, comune a molte altre missioni di studio precedenti, e<br />

più vicina alle esigenze economico-gestionali e produttive di un settore che vedeva<br />

rimessa in discussione una componente rilevante del suo funzionamento.<br />

Nell’introduzione del suo rapporto, Guillot riprendeva alcuni dati tratti da un altro<br />

rapporto del 2004, “Pour une politique de l’emploi dans el spetactacle vivant, le cinéma<br />

et l’audiovisuel”. Il settore dello spettacolo: «è diventato un settore economico che pesa<br />

circa venti miliardi di euro e occupa circa trecento mila persone, quanto l’industria<br />

dell’automobile; al di là dell’impatto indiretto sugli altri settori di attività, legati al fatto<br />

che nutre la domanda per tutta una serie di attività, il settore è ugualmente fonte di<br />

effetti di esternalità importanti (attrattività dei territori, legami sociali…) che vanno al di<br />

là di ciò che si trova in altri settori, estendendo le proprie specificità; ricopre un insieme<br />

di mestieri, situazioni, tipi di strutture… estremamente vari; tocca intensamente i<br />

Francesi che trascorrono ogni anno 63 miliardi di ore guardando la televisione, un film,<br />

uno spettacolo… (quando ne passano 34 al lavoro); […] i finanziamenti apportati dai<br />

Poteri pubblici (Stato e collettività territoriali) rappresentano circa il 15% delle risorse<br />

del settore, le quali hanno una crescita superiore al P<strong>IL</strong>».<br />

Il rapporto, che teneva conto dagli incontri realizzati con molti professionisti,<br />

presentava gli obiettivi da considerare condivisi dai partner sociali del settore:<br />

- gestire il problema del lavoro nel settore, secondo uno schema che distingue tra<br />

impiego permanente e intermittente;<br />

- conservare e garantire la coesistenza di professionisti permanenti e intermittenti,<br />

nelle proporzioni cha varino secondo i settori di attività;<br />

- chiarire le situazioni di legittimità nel ricorso ai “contratti d’uso a durata<br />

determinata”; e aumentare conseguentemente la durata media dei contratti e del<br />

tempo di lavoro effettivo e dichiarato per ciascun intermittente;<br />

- mantenere un rinnovamento dei professionisti, ad un ritmo coerente con<br />

l’evoluzione del livello di attività del settore, mentre il numero degli accessi<br />

constatati da diversi anni attesta una crescita non governata, incompatibile con una<br />

reale professionalizzazione;<br />

- fare in modo che ciascuno eserciti pienamente le sue legittime responsabilità, e<br />

solamente quelle, riconoscendo la necessità di distinguere chiaramente chi si assume<br />

rispettivamente la responsabilità: dei partner sociali del settore nell’elaborazione e<br />

237


nel rispetto delle convenzioni collettive, nella gestione anticipata del lavoro e delle<br />

competenze e della messa in opera delle misure di solidarietà professionale; di ogni<br />

datore di lavoro e ciascun lavoratore nelle loro relazioni contrattuali; dello Stato e<br />

dei diversi livelli di collettività territoriali in materia di politiche culturali e di<br />

sostenibilità dei mezzi associati; di mettere ordine, in materia di rispetto delle norme<br />

sociali; dello Stato e delle collettività territoriali in materia di solidarietà, più vicini<br />

ai bisogni di artisti e tecnici; delle Confederazioni sindacali e padronali in materia di<br />

assistenza alla disoccupazione, che deve poter ritornare nell’alveo del suo ruolo<br />

specifico.<br />

In merito alla frammentazione del mercato e all’aumento del numero degli<br />

intermittenti di cui mi parlava M., Guillot proponeva un altro dato interessante: i primi<br />

anni di inserimento nel sistema apparivano cruciali, in quanto era nel corso di questi<br />

anni che avveniva la selezione tra chi entrava per restare e chi invece faceva solo una<br />

fugace apparizione. Non sembrava facile trovare dai dati una spiegazione circa la<br />

brevità di certe esperienze professionali; ad ogni modo dall’analisi del rapporto-Guillot<br />

emergeva che, per contro, i professionisti che lavoravano molto il primo anno di<br />

ingresso nel sistema di intermittenza erano quelli destinati a restarvi più a lungo,<br />

sebbene vi fosse una costante erosione nel numero di ore lavorate col passare del tempo.<br />

Dare una solida struttura all’impiego degli artisti e dei tecnici dello spettacolo e al<br />

suo finanziamento, riesaminare il sistema di indennizzo di disoccupazione degli<br />

intermittenti in un contesto nuovo e migliorare l’organizzazione, la protezione sociale e<br />

professionale nel settore: costituivano i tre assi portanti da realizzare e che, neppure<br />

troppo implicitamente, Guillot considerava necessari per ipotizzare la progettazione di<br />

un nuovo, coordinato e sostenibile “piano industriale” alla cui definizione dovevano<br />

partecipare, ognuno col proprio ruolo, lo Stato, le Collettività territoriali, le<br />

Confederazioni/Unedic e i Partner sociali del settore.<br />

Le intenzioni non erano cattive. Il metodo era apprezzabile. Ma oramai, c’era<br />

davvero poco da fare.<br />

Dall’agenda del nuovo Ministro:<br />

«Il 17 giugno, incontro con gli intermittenti di Angers. Non particolarmente<br />

amichevole e fruttuoso per il Ministro.<br />

Il 18 giugno, riunione del Comitato di lotta contro il lavoro illegale».<br />

Poi, cominciarono il periodo dei festival estivi. Che si fecero. Di nuovo.<br />

«Il 26 giugno, incontro con gli intermittenti, in occasione del Festival di<br />

MontpellierDance.<br />

Il 3 e l’8 luglio: prima volta ad Avignone da Ministro per Renaud Donnedieu de<br />

Vabre, con apertura del Festival, incontro con una delegazione del Coordinamento<br />

nazionale, composta da intermittenti della Vaucluse e dell’Ile-de-France, con dei<br />

rappresentanti dei lavoratori intermittenti del Festival “In” e con dei rappresentanti della<br />

CGT». Inutile dire che fu “sonoramente fischiato” e contestato.<br />

«Il 5, 6 e 10 luglio al Festival di Aix-en-Provence.<br />

Il 12 luglio alle Francofolies di La Rochelle.<br />

Il 15 al Festival di “Chalon dans la Rue”.<br />

Il 16 luglio, ancora ad Avignone, all’apertura di due seminari: uno della Federazione<br />

nazionale delle Collettività Culturali (FNCC); il secondo del Sindacato Nazionale delle<br />

Imprese Artistiche e Culturali (SYNDEAC).<br />

Il 19 luglio, al Festival di Sarlat.<br />

Il 29 luglio, al Festival del Théâtre du peuple, di Bussang».<br />

238


Come il lettore avrà oramai inteso, avrei potuto continuare a seguire a lungo le<br />

copiose attività e gli spostamenti del Ministro e dei vari coordinamenti locali di<br />

intermittenti. A ben vedere, molti altri fatti seguirono ma nulla che possa aggiungere<br />

alcunché di nuovo alle informazioni che Nulla che il lettore possa considerare<br />

apprezzabile e che sia i grado di modificare le idee che si è fatto dell’interva vicenda.<br />

Ancora oggi, sul retro degli opuscoli di sala che vengono distribuiti all’inizio di ogni<br />

rappresentazione al Festival di Avignone lo spettatore trovava frasi come queste:<br />

«Pour offrir au public ces moments d’émotions, plus de mille personnes, artistes, techniciens et<br />

équipes d’organisation on uni leurs efforts, leur enthousiasme pendant plusieurs mois. / Parmi ces<br />

personnes, la moitié, techniciens et artistes salariés par le Festival ou les compagnies françaises,<br />

relèvent du régime spécifique d’intemittent du spectacle» (nel 2005);<br />

«Pour vous présenter les spectacles de cette édition, plus de mille cinq cents personnes, artistes,<br />

techniciens et équipes d’organisation ont uni leurs efforts, leur enthousiasme pendant plusieurs<br />

mois. / Parmi ces personnes, plus de la moitié, techniciens et artistes salariés par le Festival ou les<br />

compagnies françaises, relèvent du régime spécifique d’intermittent du spectacle» nel 2006.<br />

Nel gennaio del 2007, poche settimane prima di chiudere la scrittura di queste pagine<br />

e di darle alle stampe, mi trovai a Parigi e, un po’ casualmente, cascai su un articolo di<br />

Le Monde: «Intermittenti: la CFDT, la CFTC e la CGC hanno firmato il protocollo<br />

d’accordo». Il lettore deve sapere che, dopo il protocollo del 2003 fu redatta una<br />

ulteriore versione, datata 18 aprile 2006. A cominciare da quella data, fu avviata una<br />

ulteriore, lunga, fase di negoziazione tra patronato e sindacati: il muro contro muro non<br />

fu diverso da quello dei mesi precedenti, con la sola differenza che non vi furono<br />

festival annullati. Il 23 dicembre del 2006, dopo otto mesi di confronti, venne firmato<br />

questo nuovo protocollo.<br />

In attesa delle elezioni presidenziali che si sarebbero tenute in Francia nel 2007, la<br />

faccenda non si poteva ancora ritenere definitivamente chiusa.<br />

239


XVIII<br />

La vulnerabilità di un sistema di produzione (suo malgrado) “inadeguato”. Un’economia del lavoro<br />

(cognitivo) troppo “moderna”: ovvero, come alimentare un paradosso (economico)<br />

In cui il fenomeno degli “intermittenti” viene presentato al lettore come un “paradosso”<br />

economico ma per motivi sostanzialmente diversi da quelli tradizionali <br />

Quasi in parallelo alla costruzione, selezione e ritenzione della gran quantità di<br />

informazioni che, grazie ai discorsi con M., elaborai su quella vicenda, mi veniva<br />

spontaneo rievocare molti dei pensieri realizzati mesi prima, nel tentativo di dare un<br />

senso alla costruzione teorica di quella straordinaria “fabbrica” che mi ero messo in<br />

testa di visitare, ispezionare, percorrere.<br />

L’organizzare le mie informazioni seguendo i consigli e l’abile guida di M., mi<br />

aveva permesso di procedere in quella labirintica vicenda senza perdere completamente<br />

la strada: avevo tracciato dei livelli differenti nella vicenda, sezionandola,<br />

artificiosamente, e cercando di studiarne l’anatomia; avevo descritto, forse goffamente,<br />

situazioni ed episodi; e questa sorta di dissezione mi aveva condotto a strati ancora più<br />

minuti, a pezzi di brani, a singole scene. In fin dei conti, però, a costo di apparire<br />

insensato e volubile, restava ancora in piedi la questione di fondo: “chi sono veramente<br />

gli intermittenti?”.<br />

Nel suo controverso lavoro, oracolo di un “mondo senza lavoro” a causa della<br />

“conoscenza”, Rifkin fornisce profezie che, condivisibili nella forma e per alcune<br />

ipotesi di partenza, mi apparivano irragionevoli nella sostanza delle conclusioni a cui<br />

giungeva. Ma solo a prima vista: mettendosi d’accordo sui termini della questione e sul<br />

modo in cui le sue riflessioni venivano poste, allora avrei potuto trovarvi una “rilettura”<br />

interessante nelle sue rivelazioni.<br />

«Quando la prima ondata di automazione colpì il settore industriale, a cavallo tra gli<br />

anni Cinquanta e Sessanta, i leader sindacali, gli attivisti dei diritti civili e molti<br />

sociologi furono rapidi nel suonare l’allarme. Le loro preoccupazioni, comunque, non<br />

erano molto condivise dagli uomini d’impresa dell’epoca, che continuavano a credere<br />

che l’aumento della produttività generato dalle nuove tecnologie di automazione<br />

avrebbe stimolato la crescita economica e favorito l’occupazione e la crescita del potere<br />

di acquisto» (p. 36). E ancora: «Per la prima volta, nella storia moderna, un gran<br />

numero di individui potrebbe essere liberato dalla necessità di trascorrere molte ore<br />

della propria giornata sul posto di lavoro, a favore di attività più piacevoli. […] Il fatto<br />

che questo futuro sia utopico o distopico dipende, in larga misura, da come verranno<br />

ripartiti i guadagni conseguiti grazie alla maggiore produttività. Una distribuzione<br />

ispirata a principi di giustizia ed equità prevederebbe una diminuzione dell’orario<br />

lavorativo in tutto il mondo e uno sforzo concertato dei governi centrali per fornire<br />

alternative di occupazione nel “terzo settore” – l’economia sociale – agli individui<br />

espulsi dal mercato del lavoro. Se, invece, i guadagni di produttività realizzati grazie<br />

alle tecnologie non venissero condivisi – ma utilizzati prevalentemente per incrementare<br />

i profitti d’impresa, a esclusivo beneficio degli azionisti, dei top manager e<br />

dell’emergente élite dei knowledge workers – ci sono ampie possibilità che la crescente<br />

spaccatura tra ricchi e poveri conduca a sollevazioni sociali su scala mondiale» (p. 39).<br />

In fondo, come si può dar torto a Rifkin, visto che «per più di un secolo, gli<br />

economisti hanno convenzionalmente accettato come un dato di fatto la teoria che<br />

afferma che le nuove tecnologie fanno esplodere la produttività, abbassano i costi di<br />

produzione e fanno aumentare l’offerta di beni a buon mercato; questo, in conseguenza,<br />

240


migliora il potere di acquisto, espande i mercati e genera più occupazione. Questa logica<br />

sta oggi conducendo a livelli mai registrati finora di disoccupazione tecnologica, a un<br />

declino apparentemente inarrestabile del potere di acquisto e allo spettro di una<br />

recessione globale di incalcolabile grandezza e durata» (p. 41).<br />

La cosa che più mi lasciava sorpreso in tutto il dibattito sull’aumento della<br />

produttività e sulla flessibilità del moderno lavoro, era esemplificata dai titoli di capitoli<br />

e paragrafi che Rifkin aveva attribuito alle varie parti del suo famoso libro: pressoché in<br />

ogni sezione ricorrevano termini “hard” come: tecnologia, macchine, automazione,<br />

computer, forza lavoro, terra. Possibile che tutto il dibattito micro e macro economico<br />

sulla questione del lavoro fosse riconducibile alla questione tecnologica? Come fare<br />

rientrare in questa logica i lavoratori intermittenti dello spettacolo?<br />

Al di là della mia esigenza di riuscire a dare una plausibilità e consistenza teorica al<br />

fenomeno degli “intermittenti”, avevo il forte sospetto che tutto o buona parte<br />

dell’interesse di Rifkin e di molti altri studiosi, si concentrasse o su un aspetto del<br />

fenomeno del “lavoro moderno”, oppure ponesse eccessiva attenzione sui mezzi<br />

piuttosto che sui fini del lavoro stesso, sulla “scatola” piuttosto che sulla natura del suo<br />

“contenuto” e delle sue “relazioni”. Non che fosse una concezione errata in sé; ma mi<br />

appariva riduttiva come prospettiva, non mi soddisfava completamente. Era mai<br />

possibile che solo l’uso di macchinari e tecnologie dell’informazione potessero rendere<br />

“cognitivi” i lavoratori moderni? Quale doveva essere la strategia “di sistema” per la<br />

gestione di particolari lavoratori “flessibili” come gli “intermittenti dello spettacolo”,<br />

all’interno di modelli di produzione organizzati sulla base di strutture a loro volta così<br />

specifiche? Più in generale, in quale modo era possibile interpretare l’economia e il<br />

funzionamento di quell’organizzazione del lavoro collocata “in un contesto sociale,<br />

istituzionale e politico” così specifico e con “regole, convenzioni e sistemi di gestione<br />

delle relazioni tra attori storicamente definiti” 1 ?<br />

Dovetti arrivare a pagina 283 per trovare confermati i motivi della mia<br />

insoddisfazione: «Al di sotto di quella dei super-ricchi si trova una classe sociale poco<br />

più consistente numericamente, pari al 4% della popolazione attiva degli Stati Uniti. I<br />

ranghi di questa classe sono composti principalmente dai nuovi professionale: gli<br />

analisti di simboli o i knowledge workers che gestiscono la nuova economia delle alte<br />

tecnologie informatiche. […] Oltre al primo 4%, che costituisce l’élite del settore della<br />

conoscenza, un altro 16% della forza lavoro americana consiste prevalentemente di<br />

knowledge workers. Nel suo insieme, la classe della conoscenza, che rappresenta il 20%<br />

della popolazione, percepisce [in termini di reddito] più di quanto riescano<br />

complessivamente a mettere assieme i rimanenti quattro quinti della popolazione». Fin<br />

qui, nulla di anomalo: a parte il fatto che trovai affascinante l’espressione “analisti di<br />

simboli” ma per motivi, credo, diversi rispetto a quelli che spinsero Rifkin a usarla; in<br />

quella parte si limitò a presentare, apparentemente, dei fatti, “dati” sotto forma di<br />

“numeri”, che per certi versi, però, mi ricordavano molto da vicino la faccenda dei<br />

“conti che non tornano” riferita agli intermittenti dello spettacolo. Ad ogni modo,<br />

appena oltre specificò i caratteri dei knowledge worker «gruppo non omogeneo unito<br />

dall’uso delle più aggiornate tecnologie informatiche per individuare, analizzare,<br />

elaborare e risolvere problemi. Al gruppo appartengono ricercatori scientifici,<br />

progettisti, ingegneri civili, analisti di software, ricercatori biotecnologici, specialisti in<br />

pubbliche relazioni, banchieri d’affari, consulenti direzionali, fiscalisti, architetti, esperti<br />

1 Costa 1997; Costa, Gianecchini 2005 (N.d.A.).<br />

241


di pianificazione strategica, specialisti di marketing, produttori cinematografici,<br />

redattori, art director, editori, scrittori e giornalisti» (p. 284). Un’altra affermazione mi<br />

lascio perplesso, per tutta una serie di motivi che lascerò scoprire al mio lettore con il<br />

proseguo del racconto 1 . Ma vale la pena una anticipazione: «Oggi, con l’importanza del<br />

lavoro passata in secondo piano, quello dei knowledge workers è diventato il gruppo più<br />

importante nella formula dell’economia: sono loro gli elementi catalizzatori della Terza<br />

rivoluzione industriale e i responsabili della gestione dell’economia high-tech. Per<br />

questa ragione, top manager e investitori hanno dovuto dividere sempre più una parte<br />

del proprio potere con i creatori della proprietà intellettuale, gli uomini e le donne le cui<br />

idee e conoscenze alimentano la società informatica. Non ci si meraviglia, dunque, che<br />

in alcuni settori i diritti di proprietà intellettuale siano diventati sempre più importanti<br />

della finanza: avere il monopolio della conoscenza e sulle idee assicura un vantaggio<br />

competitivo e una posizione sul mercato; finanziare il successo, a questo punto, diventa<br />

quasi secondario» (p. 285-286). Vi erano diversi “pregiudizi” di fondo nella definizione<br />

di chi fossero i knowledge-worker, in quali settori lavorassero, in quale modo dovesse<br />

essere garantita la regolazione del sistema di produzione in cui erano inseriti, e persino<br />

su quali fossero i contenuti effettivi della loro “attività cognitiva”. La descrizione della<br />

divisone del lavoro proposta da Rifkin era davvero definibile “post-fordista”? O,<br />

altrimenti detto, potrebbe essere interpretato come uno scenario di transizione, non<br />

ancora compiuta, da uno stadio ad un altro dell’evoluzione capitalistica, con la<br />

particolarità che forse cambiano anche le regole generali del “gioco economico”? Ma su<br />

questi aspetti torneremo assieme a disputare.<br />

Domandarsi se l’Uomo possa essere così irragionevole da “auto-condannarsi a<br />

disintegrarsi in uno stato di crescente povertà e criminalità” (p. 458) senza fare nulla per<br />

evitarlo, forse è la questione più sbagliata, perché in un momento di sconforto si<br />

potrebbe anche avere la tendenza a rispondere con un lungo, amaro sospiro di<br />

malinconia.<br />

Se, invece, mi attenevo al mio progetto, aggrappandomi ad una ipotesi teorica che<br />

sapeva di utopico tanto quanto i ragionamenti di Rifkin, allora l’esempio della<br />

produzione artistica poteva veramente costituire “l’archetipo” di cosa significhi<br />

produrre veramente “conoscenza attraverso altra conoscenza”, anche con riferimento<br />

all’organizzazione del lavoro: potevo continuare la mia illusione di proporre il lavoro<br />

artistico e tecnico svolto nello spettacolo dal vivo come “modello” di divisione del<br />

lavoro cognitivo nella più antica e quasi completamente compiuta “economia della<br />

conoscenza” che l’uomo abbia mai concepito 2 .<br />

Come arrivare a questo, passando per gli intermittenti dello spettacolo, per il caso<br />

dello sciopero generale del 2003 e all’annullamento del Festival di Avignone?<br />

David Throsby, che il lettore ricorderà senz’altro citato all’interno di uno dei<br />

documenti utilizzati per il seminario che N. tenne nella bella atmosfera della sede<br />

1 L’obiettivo di N. in tutto questo suo racconto sarà proprio quello di ribaltare l’ottica di questa<br />

affermazione, ridimensionandone la portata con una disputa che parta dall’interno, dalla struttura stessa<br />

della logica sottostante (N.d.A.).<br />

2 N. aveva discusso di questo e di altri aspetti collegati, tra l’altro, in quel seminario di Parigi da cui molte<br />

delle sue posizioni teoriche trassero origine. Già allora aveva introdotto questo ragionamento. Si trattava<br />

ora di dargli una forma un po’ più compiuta, all’interno di un quadro che avrebbe continuato e continua<br />

tuttora a svilupparsi nel tempo (N.d.A.).<br />

242


parigina del Polytechnique, costituisce qualcosa di paragonabile alla posizione di Rifkin<br />

con riferimento, però, all’economia della cultura 1 .<br />

Anch’egli tracciava un quadro abbastanza semplificato dei “mercati del lavoro di tipo<br />

artistico”, partendo però dalla assunzione che qualcosa di diverso vi fosse, in fin dei<br />

conti, rispetto ai mercati che si conformano alla teoria (economica) convenzionale.<br />

Ma per la costruzione mentale che avevo ipotizzato di seguire, anch’egli rischiava di<br />

rimanere “a metà del guado” nel suo discorso su una razionale prospettiva economica<br />

per l’analisi della produzione artistica. Già la sua demarcazione tra cosa fosse lavoro<br />

artistico e, quindi, su chi siano i lavoratori culturali mi risultava controversa, non<br />

facendo che confermare le perplessità collegate al campo di applicazione dello statuto<br />

degli intermittenti. «Impiegati amministrativi o elettricisti che lavorano per le<br />

compagnie teatrali, ad esempio, sono probabilmente molto simili agli impiegati<br />

amministrativi e agli elettricisti che lavorano in un’altra industria per quanto riguarda il<br />

loro comportamento nel mercato del lavoro. Ma se ci concentriamo sui lavoratori<br />

culturali, che in questo caso sono sinonimo di artisti creativi, troveremo sostanziali<br />

differenze di status e comportamento occupazionale 2 ».<br />

M. mi aveva messo in guardia da questa semplificazione: la comunità degli<br />

intermittenti è tale perché il sistema di produzione dell’arte, e in particolare, la sua<br />

evoluzione nella sua “versione francese” (vera “eccezione culturale”), è basato su<br />

pratiche e meccanismi di apprendimento, condivisi e fortemente peculiari con<br />

riferimento alle caratteristiche strutturali del “prodotto artistico” e, di conseguenza, ai<br />

comportamenti che i soggetti di quella particolare filiera mettevano in campo. Una<br />

posizione, non solo teorica ma anche pratica, come quella del prof. Throsby, avrebbe<br />

scardinato dalle fondamenta buona parte del sistema di indennizzo di disoccupazione<br />

degli intermittenti dello spettacolo. Verrebbe da rallegrarsi del fatto che Throsby non<br />

abbia partecipato ai negoziati dell’Unedic: fosse stato altrimenti, forse, oggi non avrei<br />

ancora avuto la possibilità di partecipare al Festival di Avignone, o peggio, mi sarei<br />

dovuto limitare allo studio della “storia” passata di una gloriosa manifestazione, crollata<br />

sotto i colpi dell’economia di mercato e dei suoi meccanismi di allocazione delle risorse<br />

scarse.<br />

Egli evidenzia, in particolare, quattro caratteristiche dei mercati del lavoro artistico,<br />

intendendo con ciò solo il lavoro realizzato da quella parte di “artisti creativi”. In<br />

primo luogo, tale forza lavoro comprende un numero relativamente piccolo di artisti che<br />

sono in grado di «lavorare a tempo pieno alla loro occupazione creativa»; inoltre, i<br />

mercati del lavoro artistici hanno una forte asimettria per quanto concerne la<br />

distribuzione del reddito, con pochi che guadagnano cifre astronomiche e molti che<br />

guadagnano poco; la terza caratteristica attiene al fatto che la formazione attraverso cui<br />

la teoria economica semplifica il processo di accumulo del capitale umano non pare<br />

spiegare al meglio i differenziali di salario, che invece sembrano più legati al progresso<br />

della carriera e all’apprendimento “sul campo”; infine, il rischio “artistico” appare<br />

meno significativo di quanto si possa pensare, tant’è che, sebbene esista un più alto<br />

livello di incertezza rispetto ai guadagni attesi rispetto ad altre professioni, non è chiaro<br />

se la prospettiva di un “gioco” rischioso sia più un fattore di attrattiva o di avversione<br />

1 Mi riferisco qui ad uno dei più importanti studiosi di economia della cultura, assieme ai vari William J.<br />

Baumol, Françoise Benhamou, Bruno Frey, Gianfranco Mossetto, Alan Peacock, Ruth Towse e altri. In<br />

particolare faccio riferimento al suo Economia e cultura, nella sua traduzione italiana del 2005 di un testo<br />

originale in inglese del 2001: Economics and Culture, Cambridge University Press (N.d.T.).<br />

2 Throsby 2005: 171 (N.d.A.).<br />

243


nell’intraprendere una carriera artistica. Inoltre, Throsby aggiunge due aspetti: con<br />

riferimento alla seconda caratterista, nonostante l’asimettria salariale e, quindi, le<br />

aspettative di un basso salario, nella maggior parte dei settori artistici di molti paesi si<br />

assiste ad un paradossale “eccesso di offerta”; inoltre, per quanto riguarda la “qualità”<br />

del capitale umano detenuto da un “artista creativo”, «in termini analitico-formali, il<br />

ruolo del talento nel contribuire ad una carriera artistica di successo resta indeterminato<br />

oltre che indipendente da essa e non esiste un modo affidabile di misurare questa<br />

qualità 1 ». In sostanza, anche introducendo il suo famoso concetto di “valore culturale”,<br />

l’economia della cultura ha il suo daffare a fornire un contributo plausibile ad alcuni<br />

paradossi che sembravano emergere da un’analisi del sistema di produzione artistico.<br />

Quale poteva essere l’anello mancante tra queste prospettive solo in apparenza così<br />

distanti? Il lavoro intermittente dello spettacolo non dovrebbe o semplicemente non<br />

riuscirebbe a rientrare nell’ambito di un concetto di valore economico così come lo<br />

concepiamo oggi, anche nelle visioni più illuminate di questo aspetto piuttosto<br />

controverso (come quelle di Rifkin o di Throsby)?<br />

Una elevata flessibilità del lavoro nell’ambito di un contesto professionale che opera<br />

all’interno di un processo di produzione con particolari caratteri di propagazione<br />

cognitiva; tutto ciò associato alla presenza di quei forti ammortizzatori sociali e<br />

meccanismi di indennizzo di disoccupazione che vengono da più parti considerati come<br />

elementi necessari a garantire la sostenibilità della flessibilità lavorativa: questi sono i<br />

termini, quanto mai attuali, di un dibattito generale sul tema del “moderno lavoro 2 ”.<br />

Nel caso degli “intermittenti” i termini della questione dovrebbero rientrare in questo<br />

dibattito generale. A conferma o a contraddire le posizioni teoriche dominanti.<br />

Forse, ciò che cerchiamo di gestire attraverso l’economia del lavoro e attraverso<br />

l’organizzazione delle risorse umane è qualcosa che fino ad ora abbiamo ritenuto, a<br />

torto o a ragione, non direttamente osservabile nella sua interezza. Oppure, l’oggetto<br />

dell’attenzione nel caso dei processi lavoro “moderni” è qualcosa che, fino ad ora,<br />

abbiamo osservato da un punto di vista ristretto.<br />

Dominique Foray, in uno stimolante articolo apparso recentemente su “Quaderni di<br />

economia del lavoro”, traccia delle indicazioni interessanti per spiegare come i processi<br />

di produzione di conoscenza attraverso quella particolare forma di esperienza che è il<br />

lavoro, avvengono attraverso il compimento di quattro funzioni essenziali: a) usare bene<br />

la conoscenza esistente attraverso il miglioramento di memoria collettiva e di processi<br />

di condivisione; b) aumentare l’innovatività ri-combinando il materiale a disposizione e<br />

il know-how che circola nei sistemi; c) risolvere i problemi in modo coordinato visto<br />

che i prodotti seguono sempre più complesse architetture modulari; d) generare valore<br />

attraverso la proprietà intellettuale del management. Poi fa una interessante<br />

affermazione: «L’estensione dei mercati della conoscenza, la disseminazione di<br />

tecnologie informative e i nuovi metodi per la valutazione di assets intangibili sono tre<br />

caratteristiche della new economy che richiedono l’introduzione di metodi specifici di<br />

knowledge management» (p. 16). A parte la mia impulsiva avversione per l’espressione<br />

“new economy”, i ragionamenti generali di Foray sono sostanzialmente condivisibili.<br />

Erano le tre ipotesi di partenza che dovevano guidare la rottura che non mi trovavano<br />

d’accordo se applicate al caso degli intermittenti dello spettacolo francesi.<br />

In primo luogo, Foray individuava “nell’incremento nel tasso di richieste di brevetti,<br />

nell’impressionante crescita del reddito derivante dalle licenze e nell’esplosione dei<br />

1 Ibidem: 173-174 (N.d.A.).<br />

2 Menger 2002, nel caso degli intermittenti dello spettacolo; Costa 1997, in generale (N.d.A.).<br />

244


costi associati alla proprietà intellettuale” alcuni indicatori dell’attuale sviluppo<br />

“dell’economia di mercato di tipo knowledge-based”, aggiungendo che “i mercati della<br />

conoscenza sono, per definizione, mercati inefficienti” (p. 16). Sicuramente i mercati<br />

knowledge-based che ha citato Foray sono “mercati inefficienti”. Io potevo<br />

domandarmi: perché mai il mercato del lavoro di quegli straordinari knowledge-workers<br />

che sono gli intermittenti francesi, dovrebbe essere, invece, meravigliosamente ed<br />

eccezionalmente efficiente dal punto di vista della produttività “cognitiva” e della<br />

gestione della conoscenza che trasferisce?<br />

Secondo aspetto: “il management della conoscenza, particolarmente in termini di<br />

codifica delle procedure, è centrale in questi cambiamenti”. I cambiamenti a cui si<br />

riferisce Foray sono quelli messi a disposizione dalle nuove tecnologie per permettere<br />

quel “decentramento del processo di creazione della conoscenza” che “richiede lo<br />

sviluppo di interfacce inter-organizzative per minimizzare il tempo richiesto per<br />

stabilire ed eseguire una transazione” (p 17). In questo caso mi chiedevo come era<br />

possibile interpretare la creazione del GUSO, dello sportello unico, che doveva gestire<br />

l’unico anello debole di una concezione “moderna” di gestione della “conoscenza<br />

lavoro”: le informazioni relative all’ingresso e all’uscita del lavoratore intermittente dal<br />

sistema di indennizzo di disoccupazione previsto dal suo statuto di lavoro. Le “pratiche”<br />

messe in atto da lavoratori e datori di lavoro dello spettacolo erano e sono così efficienti<br />

e rapide che neppure il più sofisticato dei sistemi di gestione delle informazioni riesce a<br />

tenerne e seguirne le tracce. Ancora oggi, gli organismi sociali francesi non riescono a<br />

trovare un accordo neppure sul numero dei loro utenti. E pensare che, a rigore,<br />

“l’informazione è il tipo di conoscenza” più facile da gestire! Almeno dovrebbe.<br />

Veniamo, poi, all’aspetto più critico del knowledge management applicato alla<br />

conoscenza-lavoro. “La valutazione del capitale intellettuale diventa un elemento<br />

decisivo nella valutazione dell’impresa. Basati sull’osservazione che le variazioni nei<br />

valori del proprio stock market non fossero correlate in nessun modo significativo con<br />

variazioni del proprio valore contabile, l’impresa scandinava Skandia dedusse che<br />

misurare il proprio capitale intangibile era estremamente importante, specialmente per i<br />

proprio shareholders” (p. 17). Nel caso degli intermittenti, il sistema di produzione<br />

artistico francese, resosi conto dell’incredibile valore “di mercato” prodotto dalla<br />

propria ricchezza di “spettacoli”, dovrebbe domandarsi come questo possa essere<br />

correlato con quella variazione contabile così negativa che è il deficit nel sistema di<br />

indennizzo di disoccupazione degli allegati VIII e X dell’Unedic, e come sia possibile<br />

rendere conto di questo “corto circuito cognitivo” ai propri portatori di interesse (che<br />

poi sono gli stessi cittadini). Detto altrimenti: quando è stato deciso di “rinegoziare” il<br />

sistema di indennizzo di disoccupazione degli intermittenti dello spettacolo, nel<br />

momento in cui tutti erano ben consci del fatto che si trattava di un elemento portante<br />

del sistema di produzione artistico, sulla base di quali “valori contabili” la Corte dei<br />

conti ed il Governo hanno stabilito che il deficit specifico degli intermittenti fosse “fuori<br />

controllo” e “troppo alto”? Troppo alto rispetto a cosa? E fuori controllo rispetto a<br />

quando? Con buona pace di David Throsby e di tutti gli amici economisti della cultura,<br />

nessuno al Ministero della cultura francese (e tanto meno al Ministero del lavoro) era<br />

stato così “folle” da calcolare lo “stock market” della produzione artistica francese e di<br />

rapportarlo al “valore contabile” (fatto quasi completamente di “uscite”, per lo più<br />

pubbliche): per comprendere se fosse una variazione di segno positivo o negativo; per<br />

dare un “senso” anche “economico” a tale variazione; e per ipotizzare se, come nel caso<br />

di Skandia, avesse senso domandarsi come “gestire” tale valore cognitivo eccedente.<br />

245


Per usare il linguaggio del prof. Throsby o di altri economisti, nessuno si prenderebbe<br />

mai il disturbo di “calcolare” il P<strong>IL</strong> del “valore culturale” prodotto in un territorio. A<br />

me verrebbe da aggiungere, che certamente nessuno sarebbe in grado in farlo con gli<br />

“strumenti” di osservazione e di misurazione che abbiamo fino ad ora sviluppato e che<br />

possono andare bene per osservare e misurare i fenomeni che abbiamo deciso fosse il<br />

caso di analizzare.<br />

Foray sintetizzava in questi termini il suo punto di vista 1 : «C’è una rottura e una<br />

discontinuità nelle attuali pratiche di knowledge management perché alcune delle più<br />

vecchie pratiche, legate alle risorse umane e alle politiche di disoccupazione, non<br />

funzionano più. Per questa ragione è diventato importante sviluppare procedure esplicite<br />

per il knowledge management, che sono distaccate dalle politiche del lavoro e connesse<br />

al management istituzionale della conoscenza.<br />

C’è rottura e discontinuità perché emergono nuovi problemi, largamente collegati al<br />

bisogno urgente di innovazione e controllo dei fenomeni della new economy. E’ anche<br />

diventato importante implementare forme esplicite di knowledge management<br />

nell’innovazione.<br />

Crediamo in un certo livello di “spinta scientifica” nelle scienze di management e<br />

innovazione. La nostra comprensione del mondo dell’intangibile migliora, vengono<br />

introdotti strumenti e metodi operativi, testati e migliorati, e ciò incoraggia gli esperti a<br />

sviluppare metodi di knowledge management sulla base di metodi scientifici» (p. 20).<br />

M. mi aveva invitato a riflettere a lungo sulla questione del funzionamento di quel<br />

particolare mercato del lavoro e sui motivi per cui era organizzato in quel modo. Si<br />

poteva lecitamente concludere che la flessibilità, parola “stregata” quando viene<br />

affiancata alle pratiche lavorative dell’uomo, non era necessariamente “poco costosa” se<br />

venivano considerate le effettive caratteristiche dell’esperienza di lavoro svolta. Quel<br />

lavoro era “costoso” in quanto qualitativamente pregiato, essendo altamente<br />

professionale e (iper)flessibile: secondo le logiche di mercato più ortodosse, era quanto<br />

1 A voler rendere partecipe il mio lettore del ragionamento, propongo questa nota che, al massimo<br />

costituisce una parodia del modello di crescita macroeconomico, ma può risultare utile per comprendere<br />

alcuni passaggi. Fino ad oggi, la prestazione di un sistema economico è collegabile l’aumento della<br />

produttività ottenibile per via “endogena”, manipolando i fattori produttivi “tradizionali” (lavoro e<br />

capitale). All’interno dei modelli teorici attuali, rendere “flessibile” il mercato del lavoro é necessario per<br />

modificare il fattore produttivo “capitale umano”. La “conoscenza” entra, allora, nei modelli teorici<br />

dell’economia “moderna” attraverso la “finestra” del capitale umano e del capitale fisico: ecco dunque<br />

che oltre agli investimenti in ricerca e sviluppo, in nuove tecnologie e nell’innovazione (di processo e di<br />

prodotto), ci si poteva attendere che personale altamente formato e reso “flessibile” grazie alle tecnologie,<br />

avrebbe permesso un ulteriore aumento della produttività complessiva.<br />

Raggiunti livelli ancora più elevati di efficienza ed efficacia, manipolando per via “endogena” i fattori<br />

produttivi “tradizionali”, ci si accorse, tuttavia (ed è cosa recente), che la funzione di produzione<br />

tradizionale non si inerpicava verso l’alto, in modo continuo, lungo sfolgoranti grafici con curve<br />

esponenziali; al massimo, procedeva a balzi, si ergeva, insicura, poco più in alto rispetto alla situazione<br />

precedente e tendeva ad avere un andamento asintoticamente modesto. A riprendere l’esempio di Foray,<br />

una situazione meno negativa era quella di Skandia che, avendo dubbi sulla differenza così forte tra<br />

“valore di mercato” e “valore contabile”, si era domandata se non fosse necessario individuare e<br />

assegnare un “valore” ad ulteriori “fattori” che potessero spiegare questo margine così ampio. L’unico<br />

modo per trovare una spiegazione attendibile a quella situazione era di introdurre il concetto di<br />

“intangible assets”. Nel caso della funzione di produzione dell’economia tradizionale, l’unico modo per<br />

realizzare percorsi di crescita consonanti con le esigenze della “economia moderna” e dei paesi sviluppati<br />

era quello di inserire ancora più stabilmente il “sapere” e la “tecnologia” nelle teorie economiche e nei<br />

loro modelli di crescita. Ciò potrebbe spiegare, sebbene in modo semplificato, l’accostamento tra termini<br />

come produttività, tecnologia, innovazione, lavoro, flessibilità e, da ultimo, conoscenza (N.d.T.).<br />

246


di meglio si potessero attendere gli operatori economici per incrementare la loro<br />

funzione di produzione. Il problema era legato al fatto che quella maggiore produttività<br />

(tra l’altro solo ipotetica, in quanto non calcolata, ma ragionevolmente evidente), dovuta<br />

alla manipolazione del fattore “cognitivo” lavoro, veniva pagata dalla collettività senza<br />

capire se lo statuto degli intermittenti fosse, o meno, una sorta di “gioco a somma zero”.<br />

In una economia tradizionale, con i parametri della quale la Corte dei conti francese<br />

aveva deciso di giudicare come “stranamente attrattivo” il sistema degli intermittenti e<br />

all’interno della quale uno studioso come Throsby definisce “paradossale” il relativo<br />

mercato del lavoro, un’assicuratore si dovrebbe accorgere immediatamente che non è<br />

razionale assicurare il rischio di disoccupazione in un settore che si basa sull’iperflessibilità<br />

lavorativa. Altrimenti detto, fino a che punto è un “rischio socialmente<br />

sostenibile” quello di utilizzare del lavoro “evidentemente costoso”, di cui non si è in<br />

grado però di valutare la produttività, né da un punto di vista quantitativo né, tanto<br />

meno, qualitativo?<br />

In breve, vi era un sottile filo rosso che legava la posizione teorica di Foray, la<br />

scommessa di Rifkin e il progetto di Throsby e degli studiosi di economia della cultura:<br />

volendosi interessare della creazione (e misurazione) di valori “intangibili”, si<br />

imbattono tutti in quanto di più “fuggevole” e “inosservabile” vi sia in circolazione:<br />

questo “leggendario” e per certi versi “eroico” knowledge worker che, impegnato anche<br />

in processi a loro volta particolarmente reticenti come quelli artistico-culturali, potrebbe<br />

garantire crescita economica e sviluppo esorbitanti 1 .<br />

Su queste azzardate riflessioni mi ero basato per affermare che se prima della riforma<br />

del sistema di indennizzo degli intermittenti dello spettacolo del 2003, magari<br />

inconsciamente, vi era una percezione “culturale” condivisa sul fenomeno (o più<br />

semplicemente, nessuno lo aveva messo in discussione); nel momento in cui qualcuno<br />

aveva stabilito “razionalmente” che i “valori sforavano” si era creata una discrasia nella<br />

percezione collettiva del fenomeno della produzione artistica sostenuto, fino a quel<br />

momento, da quel geniale e inconsapevole, “sistema sociale integrato” di knowledge<br />

management che si era formato attorno allo statuto degli intermittenti 2 .<br />

1 In fine dei conti, e la cosa può apparire provocatoria nel caso specifico dello statuto degli intermittenti<br />

dello spettacolo, con “soli” ottocento milioni di euro di deficit il governo francese riesce a finanziare lo<br />

“sviluppo” più che accettabile all’intero sistema dello spettacolo d’oltralpe, seppure riferito ad un settore<br />

in cui non è in grado di determinare i “ritorni”! (N.d.A.).<br />

2 Rullani 2004b; March, Simon 1958. Nel lavoro dei due grandi studiosi americani il lettore può trovare<br />

quella che ancora oggi è una delle più interessanti analisi dei processi organizzativi analizzati come<br />

processi decisionali (non necessariamente collegabili ad una “gerarchia”). Un passaggio,<br />

nell’introduzione di quel libro, mi rimase impressa fin dalla prima volta che la lessi: «Le teorie<br />

dell’attenzione organizzativa espresse in questo libro sono costruite su due piccole idee che hanno dato<br />

prova di avere considerevole potere e attrattiva. La prima è quella della soddisfazione: l’idea cioè che le<br />

organizzazioni si concentrano sugli obiettivi e distinguono più nettamente tra il successo (aver conseguito<br />

lo scopo) e il fallimento (non averlo conseguito), piuttosto che fra i vari gradi di conseguimento. La<br />

seconda idea è che le organizzazioni dedicano maggiore attenzione alle attività che attualmente operano<br />

sotto i loro obiettivi, piuttosto che alle attività che stanno raggiungendo i loro obiettivi» (p. 4, edizione<br />

italiana). La divisione del lavoro cognitivo proposta da Rullani, in fondo, si basa proprio sulle logiche per<br />

cui una “organizzazione” non può essere analizzata (solo) in termini di conversione del conflitto in<br />

cooperazione, di mobilità di risorse, di coordinamento di sforzi che facilita la sopravvivenza comune di<br />

una “organizzazione” e dei suoi membri, come farebbero le teorie organizzative “tradizionali”. Le logiche<br />

d’azione collegate all’organizzazione del lavoro nel sistema produttivo dello spettacolo in Francia,<br />

sembrano seguire, invece, interconnessioni non lineari, secondo questa semplice legge del decisionmaking<br />

in termini di razionalità limitata, proposta da March e Simon. Controllare informazioni, identità,<br />

storie, meccanismi di incentivo e sanzione costituiscono interessanti prospettive per studiare staticamente<br />

247


In breve, che differenze c’erano tra i knowledge workers di Rifkin e quelli di Foray?<br />

E tra i lavoratori artistici di Throsby e gli intermittenti di M.?<br />

Il tutto si ricondurrebbe ad una terza via rispetto a quelle prospettatami da M.: ad una<br />

specificità nel senso di “diversità” effettiva rispetto ai processi produttivi della teoria<br />

economica prevalente; oppure ad una specificità apparente, all’interno di una tendenza a<br />

“riunificare” ciò che si era considerato diverso ma che, di fatto, era solo,<br />

inopportunamente, trattato come tale; si aggiungerebbe una logica per cui ciò che è stato<br />

trattato in modo “diverso” dal punto di vista teorico, pur avendo caratteri “reali”<br />

particolari, non è la produzione artistica ma i restanti concetti di valore economico.<br />

Il problema non stava nel chiedersi se i lavoratori intermittenti francesi dello<br />

spettacolo fossero o meno dei knowledge workers, ma domandarsi cosa accadrebbe alla<br />

teorica economica se considerassimo tutti i lavoratori come tali. A quel punto, esentati<br />

dalla probatio diabolica della verifica che il lavoro presenti caratteri cognitivi<br />

codificabili e condivisibili, e che, più in generale la conoscenza non è un elemento che<br />

“rafforza” altri fattori produttivi, ma costituisce il fattore produttivo principale per<br />

prodotte altra conoscenza; i nostri sforzi potrebbero essere indirizzati verso la<br />

comprensione 1 : delle particolari strutture logiche che fissano il campo di validità dei<br />

vari tipi di lavoro; delle forme specifiche attraverso cui lavori diversi riproducono tali<br />

strutture particolari; dei tipi di flussi logistici che caratterizzano tipologie di lavoro<br />

differenti; e di quali strutture relazionali e istituzionali governano la sostenibilità della<br />

trasformazione del lavoro, secondo la combinazione dei vari mediatori cognitivi che<br />

caratterizzano la sua propagazione.<br />

C’è chi vedrebbe la questione in questi termini.<br />

«[Il lavoro umano] ha un senso che va oltre quello della pura efficienza tecnica: il<br />

lavoro esplora lo spazio delle possibilità. E, in questa esplorazione, per un verso sceglie<br />

tra i diversi percorsi possibili, per un altro scopre sempre nuovi terreni di propagazione<br />

e di investimento. […] Fino a qualche anno fa, la percezione dell’imminente knowledge<br />

revolution si è associata ad una visione pessimistica, sintetizzabile in uno slogan: inizia<br />

l’era della conoscenza, finisce l’era del lavoro. Questa prospettiva, per quanto<br />

apocalittica – e oggi fortunatamente più lontana – non è estranea al modo riduttivo,<br />

insufficiente, con cui è stato visto, fino a pochi anni fa l’uso della conoscenza nello<br />

sviluppo economico. L’errore […] è quello di vedere l’economia della conoscenza come<br />

un’economia della quantità e non come un’economia della qualità. […]<br />

Essenzialmente, la differenza tra quantità e qualità discende dal tipo di contributo che si<br />

immagina la conoscenza apporti alla produzione di valore economico. Una conoscenza<br />

produce valore in due modi: i) consentendo all’utilizzatore di adottare soluzioni che<br />

riducono i costi; ii) consentendo all’utilizzatore di fare esperienze nuove e diverse, che<br />

aumentano le utilità percepite e apprezzate.<br />

L’uso di una tecnologia che consente risparmi di materiale o di lavoro per ottenere lo<br />

stesso prodotto genera valore perché agisce sui costi. Invece [la partecipazione ad uno<br />

spettacolo teatrale o ad un film, alla loro produzione come alla loro diffusione] creano<br />

valore se producono, per l’user, un’utilità maggiore dei costi necessari per realizzare<br />

quell’esperienza. Mentre nel primo caso abbiamo un uso efficientistico della<br />

conoscenza, nel secondo l’uso ha natura esplorativa, sperimentale: la conoscenza serve<br />

organizzazioni “descritte convenzionalmente come gerarchie”: ma “tali concezioni fanno apparire<br />

un’organizzazione più semplice di quel che è in realtà”.<br />

1 Rullani 2004a e 2004b (N.d.A.).<br />

248


per saggiare possibilità nuove, per comunicarle e condividerle, e per fare esperienza di<br />

se stessi in questo diverso contesto 1 ».<br />

Il “lavoro” degli intermittenti dello spettacolo non è meno knowledge-intensive<br />

rispetto a tutte le categorie individuate da Rifkin; e il contenuto “cognitivo” di tipo<br />

innovativo svolto dai professionisti dello spettacolo, non può essere limitato a quello<br />

dell’artista creativo di Throsby. Interpretato in una “coerente” prospettiva knowledegebased,<br />

il lavoro costituisce una conoscenza trasformabile secondo strategie differenti<br />

che vanno dalla perfetta codificazione (ad esempio: standard, manuali, routine) alla<br />

perfetta condivisione (ad esempio: attraverso pratiche svolte socialmente, forme di<br />

apprendistato, “lavoro sul campo”). Il “capitalismo” di cui mi parlava M. può avere un<br />

senso solo se diventa un effettivo capitalismo fatto da persone, a “misura d’uomo”.<br />

Le persone dovrebbero tornare a diventare «soggetti che sviluppano progetti,<br />

assumono iniziative e prendono rischi interagendo tra loro. Possiamo allora parlare di<br />

capitalismo personale, ossia di capitalismo che usa le risorse e le reti personali come<br />

mezzi a cui appoggiare la divisione del lavoro cognitivo. […] La conoscenza sotto<br />

forma di lavoro non viene prodotta e usata da individui isolati, ma da persone che<br />

vivono in reti di relazioni interpersonali dense di significati condivisi […] e in<br />

comunità 2 ».<br />

L’esempio degli intermittenti era “paradossale” se lo analizzavo con gli occhi della<br />

tradizione economica basata sulla “risorsa scarsa” che va allocata in modo “efficiente”<br />

sulla base dell’unico parametro che possa permettere la “misurazione del valore<br />

(economico)”, vale a dire lo “scambio di mercato”. E per certi versi, come mi faceva<br />

notare M., costituiva un esempio di “eccesso di flessibilità” che proprio il capitalismo<br />

moderno esige ma che, di fatto, non riesce a governare. Ulteriore “evidenza empirica”<br />

che andava a mettere in crisi il modo in cui siamo abituati, da decenni, a “vedere” la<br />

realtà attraverso le scienze del sociale.<br />

Lo stesso esempio degli intermittenti diventava, invece, “esemplare” quando<br />

cambiavo il punto di osservazione. Un “intermittente dello spettacolo professionista”<br />

“usa” e “produce”, per poi “riutilizza”, conoscenze che hanno caratteri strutturali<br />

quanto meno variegati che non sono inseribili in un “mansionario”, sotto forma di<br />

“elenco di informazioni”, in un “contratto di lavoro”, in manuale di “buone pratiche” o<br />

nell’algoritmo di un calcolatore. Un regista teatrale o un cantante, un attore o uno<br />

scenografo, un direttore di scena o un tecnico luci, nel momento in cui si impegnano in<br />

un progetto artistico: elaborano dati; mettono assieme informazioni; si relazionano con<br />

altre persone; partecipano a riunioni; scavano nelle proprie esperienze passate e danno<br />

un senso a quello che stanno facendo in quel momento; rispettano norme e applicano<br />

procedure standard o routine apprese in altri contesti; costruiscono modelli decisionali<br />

per risolvere problemi singolarmente o in gruppo. Danno vita a “processi”<br />

interdipendenti che si organizzano con modalità via via differenti (ad esempio gerarchie,<br />

piccoli gruppi, reti estese).<br />

Inoltre, nel caso del “lavoro flessibile” degli intermittenti, il “contratto di lavoro”, per<br />

quanto possa risultare apparentemente esaustivo in termini di “norme di<br />

comportamento” richieste al lavoratore, non esaurisce tutte le possibili forme attraverso<br />

cui un “sapere professionale” di quel tipo può essere riprodotto e trasferito: un<br />

“intermittente” è anche un individuo con un bagaglio di know-how in continua<br />

1 Rullani 2004a: 133-135 (N.d.A.)<br />

2 Ibidem: 132 (N.d.A.).<br />

249


evoluzione, con conoscenze contestuali (ad esempio legate ad un territorio), con storie<br />

personali, con capacità tecniche specifiche, con abilità di produzione di strumenti,<br />

artefatti, simboli.<br />

Ancora, la “logistica” di un lavoratore “intermittente” è legata, indubbiamente, alla<br />

sua mobilità. Ma non dimentichiamo che, nella sua forma “non fraudolenta”, il<br />

lavoratore intermittente instaura legami che sono tipicamente “face-to-face”, di natura<br />

fortemente personale e idiosincratica. I circuiti in cui opera sono necessariamente legati<br />

a luoghi, cose, persone: la conoscenza che si “porta dietro”, nella maggioranza dei casi,<br />

non può essere distribuita “da remoto”, e lo spettacolo dal vivo è significativo in tal<br />

senso. Se per i tecnici ciò può apparire evidente, questo vale anche per la componente<br />

artistica, con la particolarità che gli incontri tra artisti e operatori sono legati a circuiti<br />

che non “solo” urbani e metropolitani, ma che tendenzialmente hanno natura globale:<br />

ciò che “spostano” non sono tanto attrezzature, artefatti fisici, strumenti di lavoro; si<br />

spostano idee, movimenti artistici, esperienze culturali.<br />

Infine, per rendere possibile tutto ciò, nel caso degli “intermittenti” deve essere<br />

stabilito un particolare sistema di “governo” delle relazioni, dato dalle regole del loro<br />

statuto. Un “contratto di lavoro artistico”, soprattutto nel caso del sistema degli<br />

intermittenti, non può essere rigidamente ancorato al sistema del “mercato” e della<br />

domanda/offerta o a forme di “esclusività proprietaria” delle competenze individuali dei<br />

professionisti. Un “lavoratore della conoscenza”, in un settore molto più knowledgeintensive<br />

di tanti altri, come quello artistico, difficilmente potrà sentire l’esigenza di<br />

“legarsi” attraverso meccanismi troppo rigidi: anche nelle forme più “stabili” di<br />

organizzazione teatrale, un artista opera all’interno di una rete di interazioni che si<br />

sviluppano attorno a progetti che possono arrivare, addirittura, a basarsi sulla creazione<br />

di un puro e semplice legame sociale, affettivo o emozionale. Le storie professionali<br />

degli intermittenti abbondano di esperienze lavorative realizzate anche gratuitamente<br />

per favorire giovani progetti e avventure che, altrimenti, mai potrebbero realizzarsi. Un<br />

vera economia della conoscenza contempla, tra i proprio mediatori relazionali, anche il<br />

“dono”: non si tratta di una “insensatezza economica”, di una sciocchezza “idealista”,<br />

ma semplicemente il recupero di forme di “governo delle relazioni” antiche quanto<br />

l’uomo e che hanno caratteristiche cognitive che meritano di essere seriamente prese in<br />

considerazione.<br />

L’affaire degli intermittenti del 2003, secondo quanto vedremo in seguito e, se il<br />

lettore lo vorrà, lungo tutto il resto della storia, cominciava ad assumere i connotati di<br />

un straordinario esempio di una “rete di interazione comunicativa 1 ” quasi compiuta,<br />

messa in discussione, però, da parte del sistema stesso che l’aveva creata, nel momento<br />

in cui non risultano né chiari né calcolabili: sia il contributo “economico” di quella<br />

specifica filiera “cognitiva” dei lavoratori dello spettacolo all’intero sistema “cognitivo”<br />

a cui appartiene; sia il “valore economico” creato e trasferito da quest’ultimo sistema,<br />

vale a dire dall’intera “filiera cognitiva” dello spettacolo (in cui la “filiera” dei<br />

lavoratori intermittenti si innesta).<br />

Lascio al lettore la seguente riflessione, così come mi è capitata di leggerla:<br />

«Anche nel welfare, l’elemento critico per riformare lo Stato del benessere ereditato dal<br />

fordismo è il coinvolgimento intelligente delle persone, ossia dei diretti interessati ai servizi forniti<br />

dal welfare sociale. Nell’organizzazione del welfare fordista – negli ospedali, nelle scuole, nei<br />

sistemi di trasporto, ecc. – le persone che ne sono i destinatari non contano praticamente nulla: il<br />

1 Rullani 2004b (N.d.A.).<br />

250


loro benessere è totalmente in mano a sistemi esperti che pretendono di sapere che cosa serve e<br />

quanto deve costare. L’utente del servizio non ha nemmeno la possibilità di non acquistare la<br />

prestazione offerta, perché la paga obbligatoriamente comunque (col prelievo fiscale). Inoltre, non<br />

può scegliere tra un fornitore e l’altro perché spesso ha di fronte un servizio fornito in monopolio.<br />

Non può, meno che meno, influire sul prodotto e sul processo. Insomma, tutto il potere e tutta<br />

l’intelligenza stanno presso la domanda. Ci si può meravigliare che, con queste premesse, il<br />

welfare ereditato dal fordismo costi molto e renda poco?<br />

Nel welfare, come in tutti gli aspetti della vita sociale attuale, serve un ruolo maggiormente<br />

attivo da parte delle persone più direttamente coinvolte. Bisogna non solo erogare un servizio, ma<br />

crearlo, seguendo desideri e utilizzando le capacità delle persone interessate. L’economia della<br />

conoscenza, anche nel welfare, non è l’economia a circuito chiuso degli esperti, ma l’economia<br />

aperta dell’esperienza interattiva tra persone 1 ».<br />

Probabilmente, visto che la Francia aveva già fatto il passo iniziale verso una sorta di<br />

“welfare della conoscenza”, attraverso il tentativo realizzato con gli intermittenti dello<br />

spettacolo, ci si poteva attendere la continuità, in tale direzione, si un simile<br />

esperimento. Ma più passava il tempo, più si protraeva l’affaire degli intermittenti, e più<br />

mi sembrava che quello degli intermittenti fosse stato solo “un caso fortuito” che la<br />

sorte ha riservato a chi vi scrive per potere un giorno trovare un “esempio di laboratorio<br />

di lavoro cognitivo ante litteram”, e per arrivare a concludere che, nonostante tutto, non<br />

ha funzionato, sebbene non per colpa sua!<br />

In fondo anche Rifkin, in un improvviso impeto di ottimismo, concluse il suo libro<br />

affermando: «La fine del lavoro potrà pronunciare la sentenza di morte della nostra<br />

civiltà o dare il segnale di partenza di una grande trasformazione sociale, di una<br />

rinascita dello spirito umano. Il futuro è nelle nostre mani». Come sempre del resto.<br />

1 Rullani 2004a: 135 (N.d.A.)<br />

251


XIX<br />

(Epilogo. Verso l’edizione del 2004: i giorni del debutto di una nuova avventura)<br />

E in cui il lettore viene portato all’inizio vero di questa storia, il giorno in cui alcuni dei<br />

protagonisti aspettano con ansia che il sipario si apra (di nuovo) <br />

La mattina del 13 febbraio del 2004, dopo aver presentato ad Avignone “l’avantprogramme”,<br />

era il giorno scelto per la presentazione ufficiale della nuova edizione del<br />

Festival di Avignone a Parigi. In effetti, tutto il lavoro era cominciato parecchio tempo<br />

prima, durante la preparazione del Festival del 2003. Poi, il “disastro” del 2003 non fece<br />

altro che accelerare l’avvicendamento e caricarlo di significati ancora maggiori.<br />

L’originalità della proposta dei due direttori era legata in primo luogo all’invito, ogni<br />

anno, ad un “artista associato”. La proposta era piuttosto inedita, sebbene Faivre<br />

d’Arcier già da anni, organizzava il programma lungo dei filoni specifici, dei temi da<br />

sviluppare anno dopo anno. Ad ogni modo, la proposta destava la curiosità generale:<br />

«[…] “Offrir à un artiste de déployer son univers artistique. Que sa personnalité nourisse le<br />

Festival”, explique avec conviction Vincent Baudriller. “L’heureux élu” aura ansi toute latitude<br />

(un quart de la programmation générale du festival) pour présenter son travail, exposer ses<br />

questionnements et rencontrer le public. Vincent Baudriller a dit tout net, les artistes qui<br />

l’intéressent sont ceux qui “ont un univers propre, qui construisent une œuvre sur la durée, qui<br />

savent regarder les autres, et non pas les faiseurs de spectacles sans ligne directrice”» (dal<br />

“Dauphine Vauclause”, del 12 febbraio 2004, corsivo nostro).<br />

La presentazione ufficiale del primo festival interamente pensato dai due nuovi<br />

direttori era un evento importante per la stampa; e sia Hortence che Vincent sapevano<br />

bene che non sarebbero mancati i richiami a quanto accaduto nel 2003, si attendevano<br />

un battesimo importante per il “loro” primo festival da direttori. Inoltre sapevano bene<br />

che la questione degli “intermittenti” non era certo conclusa. In effetti, alla conferenza<br />

stampa tutti questi aspetti emersero:<br />

«[…] “Il y a une dramaturgie naturelle qui se dégage d’Avignon”. L’image est on ne peut plus<br />

nette, son histoire et des événements récents l’attestent. Vincent Baudriller, jeune et sémillant<br />

nouveau directeur du plus grand festival théâtral du monde, et son adjointe Hortence Archambault,<br />

connaissent les enjeux: ne pas renier l’héritage d’une manifestation ancrée dans la memoire<br />

collective, assurer ne succession après un été 2003 “orangeux” (edition annullée). “Depuis 1947,<br />

Avignon est le symbole du service public de la culture. Le Festival est un lieu contemporain de<br />

spectacles généraux, pour un public incroyable qui vient quelques jours assouvir sa passion pour<br />

les arts vivants”» (dal “Dauphiné Vauclause”, del 13 febbraio 2004).<br />

Non erano parole di circostanza, non erano concetti banali. Tanto per cominciare i<br />

nuovi direttori ponevano l’accento sulle questioni intoccabili del Festival: la centralità<br />

del teatro, ovvero del pubblico e degli artisti, la storia e la continuità col passato,<br />

l’esigenza di guardare al futuro. Accanto a loro era presente “l’eletto” di quell’anno,<br />

ovvero l’artista associato del 2004: il tedesco Thomas Ostermeier, 32enne (anche lui<br />

giovane) co-direttore di uno dei centri teatrali più importanti d’Europa, il Schaubühne di<br />

Berlino. Un’altra piccola parentesi: la stampa francese, soprattutto locale, per un intero<br />

anno dopo la prima conferenza stampa dei nuovi direttori, giocò con la parola “l’eletto”<br />

che anche nella versione francese (“l’élu”) appariva sempre virgolettata. Dopo il primo<br />

anno ed il successo di quella formula, e questo era indubbiamente un segno importante,<br />

252


“l’eletto” diventerà “l’artista associato” e questa notazione resterà quella ufficiale anche<br />

per la stampa francese locale.<br />

Dopo aver calato il sipario, tristemente, su una edizione di fatto mai cominciata, il<br />

Festival di Avignone riapriva tra molte, prevedibili attese, con il rischio di un nuovo<br />

anno difficile. Non vi era quotidiano che non sottolineasse tale aspetto:<br />

«Le voile levé sur le festival d’Avignon 2004. Après le rendez-vous manqué de l’été 2003,<br />

2004 est porteur de mille espoirs. De mille inquiétudes aussi, mais d’espoirs surtout. Car voilà le<br />

premier festival d’Avignon après uan festival mort-né. Car voilà le premier festival de la nouvelle<br />

et jeune équipe dirigeante: Vincent Baudriller et Hortence Archambault, en étroite en collaboration<br />

avec le metteur en scène allemand Thomas Ostermeier. A pleine plus d’un siècle… à eux trois!»<br />

(da “La Procence”, del 13 febbraio 2004, corsivo nostro);<br />

«Avignon: fin de partie ou rebond? Le rideau se lève sur la programmation de l’édition 2004<br />

du Festival, après l’annulation de l’an dernier et le départ de Faivre d’Arcier. […] C’est au<br />

milieu d’un linceul blanc, décor de La Cerisaie mise en scène par Georges Lavaudant à l’Odéon,<br />

que la toute nouvelle direction du festival d’Avignon, Hortence Archambault et Vincent<br />

Baudriller, a tenu sa conférence de presse. Que la pièce de Tchekhov sur la fine d’un monde serve<br />

de décor à cette manifestation qui propose du 3 au 27 juillet une nouvelle orientation du Festival<br />

est troublante. Assisterons-nous au déclin d’un festival? Bien sûr, la présence de Thomas<br />

Ostermeier, metteur en scène de premier plan, installé à Berlin, artiste associé de ce festival, est<br />

porteuse d’espérance» (da “Le Figaro”, del 14/15 febbraio 2004, corsivo nostro);<br />

«Un nouvel acte s’ouvre à Avignon. Changement de directeurs et d’orientations pour la 58 e<br />

édition du festival. A nouvelle ère, nouveaux symboles. Un “A” majuscule pour Avignon ou pour<br />

Année Zero, et les trois clés du festival flottant dans le vide: la nouvelle signalétique du festival<br />

d’Avignon (conçue par Jean-Michel Bruyère) évoque un recommencement. […] Après avoir<br />

présenté jeudi l’avant-programme à Avignon, ils [i direttori] étaient à Paris, aux ateliers Berthier<br />

de l’Odéon, flanqués d’un troisième larron, le metteuer en scène allemand Thomas Ostermeier<br />

[…] qui inaugure cette année le statut d’artiste associé et a participé à la programmation» (da<br />

“Liberation”, del 14/15 febbraio 2004, corsivo nostro);<br />

«Festival d’Avignon: l’an I de la nouvelle direction. Après l’annulation de l’édition 2003, les<br />

successurs de Bernard Faivre d’Arcier, Hortence Archambault et Vincent Baudriller, veulent<br />

changer les relations entre artistes et public pour relancer la manifestation. Le budget est en hausse<br />

grâce à un effort des collectivités publiques» (da “Le Monde”, del 14 febbraio 2004, corsivo<br />

nostro).<br />

Ma come anticipato, tra i temi che sarebbero sicuramente stati toccati vi era anche<br />

quello degli “intermittenti”: anche quella edizione era in pericolo lo svolgimento del<br />

Festival? Sostanzialmente era questa la domanda che tutti i presenti alla conferenza<br />

stampa si fanno. E in effetti, era una domanda lecita.<br />

« “[…] Ce qui s’est passé en 2003 pourrait-il se reproduire cette année? [Vincent:] Pour ma<br />

part, je suis extrêmement confiant quant à la tenue du festival, mais inquiet pour l’avenir du<br />

spectacle vivant. La renégociation du protocole d’accord est absolument nécessaire, mais cette<br />

revendication ne doit pas empêcher le déroulement normal du festival. Il est essentiel de donner<br />

aux artistes leur parole artistique. Le festival est et doit rester le lieu de rassemblement de la<br />

profession, en s’accompagnant de questionnements et de réflexion”» (da “La Provence”, del 13<br />

febbraio 2004, corsivo nostro);<br />

« “[…] Avez vous pris en compte dans votre programmation la crise violente de 2003?”<br />

[Hortence]: “Ce n’était pas une crise du Festival, mais elle nous a fait nous réinterroger sur la<br />

nécessité du Festival et de notre projet”; [Vincent]: “Elle nous a renforcés dans notre conviction de<br />

faire place aux artistes qui utilisent le plateau pour questionner notre société. Elle nous a aussi<br />

253


enforcés dans notre volonté de faire d’Avignon un lieu de discussion et de réflexion. Une place<br />

importante sera réservée à des dèbats et des rencontres avec les artistes, mais aussi avec des<br />

penseurs, des philosophes, des politiques”.<br />

“Les intermittents ont fait savoir qu’ils interviendraient à Avignon. Etes-vous inquiets?<br />

Comment pensez-vous répondre à leurs demandes et à leurs actions? [Vincent]: “Le nouveu<br />

protocole est inadapté aux besoin et aux pratiques de la profession. On souhaite que les discussion<br />

soient rouvertes avec l’esemble des professionels”. [Hortence]: “On n’a pas le sentiment que le<br />

Festival, qui est essentiellement fait par des intermittents, est incompatible avec la lutte menée<br />

depuis un an. Au contraire: ce peut être un endroit de réflexion et de rassemblement de la<br />

profession”. [Vincent]: “On ne peut pas présager de ce qui passera en juillet. On est inquiet de la<br />

santé de la vie culturelle en France. Pour le Festival, la réponse à cette inquiétude est de proposer<br />

le programme le plus beau et le plus fort possible”» (da “Le Monde, del 14 febbraio 2004, corsivo<br />

nostro).<br />

E in effetti, gli “intermittenti” erano già presenti e non si persero una occasione<br />

pubblica come quella per continuare a perorare la propria causa. Leggiamo il resoconto<br />

dei giornalisti presenti alle conferenze stampa.<br />

«Festivals: les intermittents toujours là. Vincent Baudriller et Hortence Archambault […] ont<br />

présenté, hier, les grandes lignes de la programmation 2004. Leur conférence de presse s’est<br />

terminée par une intervention du collectif des intermittents et des précaires qui ont averti: “Notre<br />

action ne connaîtra pas de trêve”. L’an dernier, les festival d’Avignon, de Marseille, d’Aix et les<br />

rencontres de la photografie d’Arles avaient été annulés après l’adoption du nouveau protocole<br />

d’accord sur les indemnisation chômage. Six mois après, leur colère n’est toujours pas retombée.<br />

Ce qui laisse planer une menace sur les festivals 2004» (da “La Provence”, del 13 febbraio 2004,<br />

corsivo nostro);<br />

«Intermittents du spectacle, le combat continue. Hier, prise de parole du collectif du 25 février<br />

qui a clamé: “Nos actions ne connaîtront pas de pause”.<br />

Marie-Josée Roig a ouvert le bal des déclarations officielles hier, en déclarant notamment: “Le<br />

statut des intermittents suscite encore des inquiétitudes. Je voudrais rappeller que bon nombre des<br />

parlementaires ont effectué des demandes en direction de Matignon et de l’Elysée, et on insisté<br />

pour que le dialogue soit renoué et qu’on sache préserver l’exception culturelle française et<br />

l’exception culturelle avignonnaise”. Mais en fidèle lieutenant de l’UMP qu’elle est, elle ne<br />

reprenait pas la parole à l’issue de la déclaration du Collectif du 25 février, groupe fondé voilà<br />

près d’un an en Vaucluse pour dénoncer le protocole d’accord à venir, violente remise en cause du<br />

statut des intermittents du spectacle.<br />

Un collectif à qui Hortence Archambault et Vincent Baudriller […] souhaitaient donner la<br />

parole, arguant: “Ce protocole est inadapté. Il est nécessaire de le renégocier”. Un collectif lesté<br />

de panneaux affischant. “République menacée. On brande les services publics”, “Festival<br />

d’Avignon juillet 2004. 1.850.000 chômeurs plongent dans les minima sociaux” ou encore<br />

“Festival engagé. Intermittents enragés. Intermittents engagés. Festival enragé”. Un collectif qui<br />

tenait surtout à réaffirmer […]: “Le protocole… produit déjà des effets dévastateurs et pervers… Il<br />

est grand temps que des monuments de la culture comme le festival d’Avignon tiennent leur place<br />

de moteur pour la création, pour la réflexion et l’engagement culturel et social, place qu’ils<br />

n’auraient jamais dû quitter… L’association des collectifs avec la direction du festival d’Avignon<br />

sera une avancée, dans la mesure où celle-ci pourra se concrétiser sur des réflexions et des actions<br />

communes”, avant de clamer “ce que nous défendons, nous le défendons pour tous. Nos actions ne<br />

connaîtrons pas de pause”. Nouvel acte d’une tragédie fleuve donc, avec l’avenir de spectacle<br />

vivant en ligne de mire» (da “La Provence”, del 13 febbraio 2004, corsivo nostro).<br />

« “[…] À l’issue de la conférence de presse, Vincent Baudriller a donné la parole à Caroline,<br />

porte-parole des intermittens, membre du collectif Ile-de-France. Elle a rappelé la détermination<br />

des intermittents mécontents du protocole et prêt à poursuivre leur lutte, espérant intervenir le 21<br />

février à la cérimonie des césars, le 28 février à celles des victoires de la musique, lançant une<br />

journée de mobilitation nationale le 1er mars, et en menaçant le Festival di Cannes. “Nous ne<br />

pensons plus possible de laisser recommencer normalement un printemps et un été de festivals<br />

254


sans la satisfaction de nos reventications”. Inquiétant? Vincent Baudriller refuse de jouer la carte<br />

du danger et réaffirme qu’est “nécessaire la réforme d’assurance-chômage des metiers du spectacle<br />

vivant dans un dialogue constructif avec les professionels concernés.”» (da “Le Figaro”, del 14-15<br />

febbraio 2004, corsivo nostro).<br />

Quelli riportati sono alcuni esempi dei fatti così come raccontati tanto dalla stampa<br />

locale quanto da quella nazionale (i primi due stralci facevano riferimento alla<br />

conferenza stampa di Avignone del 12 febbraio, il terzo a quella svoltasi a Parigi il<br />

giorno successivo). Al di là dei toni più o meni accesi o delle sottolineature politiche,<br />

soprattutto nei quotidiani locali (con particolare riferimento al ruolo del sindaco di<br />

Avignone, e membro del governo 1 , presa alla berlina per aver annunciato tanto interesse<br />

per le sorti degli intermittenti per poi non riprendere la parola dopo aver ascoltato<br />

l’opinione e le critiche, piuttosto accese, degli stessi), la sostanza dei racconti non<br />

cambiava: gli “intermittents”, immancabilmente, si erano fatti vivi e minacciavano<br />

ancora la riuscita dei festival estivi.<br />

Di fatto, comunque, il festival era cominciato, o meglio, era cominciata la parte del<br />

festival visibile al pubblico: ma eravamo pur sempre appena a febbraio. Dopo la<br />

presentazione ufficiale ad Avignone e a Parigi, cominciarono gli incontri, ad intervalli<br />

regolari, per continuare la presentazione e tenere vivo l’interesse della popolazione. Ad<br />

esempio, il 29 marzo c’era un nuovo incontro con il pubblico della regione: cominciava<br />

il progetto, più volte richiamato dai nuovi direttori, di presentare il Festival e la sua<br />

équipe agli avignonesi e dire loro che, anche se mancavano diversi mesi, “da ora in poi<br />

noi saremo qui, ad Avignone, non a Parigi”. Il 12 aprile, altro incontro, questa volta con<br />

il regista francese Frédéric Fisbach, presente al prossimo festival e artista associato per<br />

il 2007. Gli avignonesi cominciarono a prenderci gusto con questi appuntamenti<br />

mensili: rispetto al primo incontro ora c’era molta più partecipazione. Seguiranno altri<br />

incontri con gli artisti, molti di loro ben felici di presentare i loro lavori.<br />

***<br />

«C’est parti!». E all’inizio di giugno, ad Avignone, cominciava il conto alla rovescia<br />

per i nuovi direttori Hortense Archambault e Vincent Baudriller. Le compagnie<br />

cominciavano ad arrivare, la scena del Woyzeck attendeva in un hangar di raggiungere la<br />

Corte d’onore. Hortense Archambault aveva calzato le sue “espadrilles” che le<br />

permettevano di arrivare in regia senza fare troppo rumore e Vincent Baudriller aveva<br />

abbandona il suo vestito nero da viaggiatore d’inverno. A Cloître Saint-Louis, le QG del<br />

Festival, ricevono i visitatori nel grande ufficio bianco che fu del loro predecessore e<br />

formatore, Bernard Faivre d’Arcier. «Alors, ça va?».<br />

Hortense Archambault scoppiò a ridere, Vincent Baudriller sorrise. Era la loro linea<br />

di condivisione e di complicità formata dagli anni di lavoro ad Avignone, dove si<br />

incontrarono dieci anni fa, oramai. «Ils avaient à peine 25 ans» mi raccontavano degli<br />

1 M.me Roig, sindaco di Avignone, sarà ministro fino alla fine di maggio del 2005, quando, in seguito alla<br />

vittoria del “no” al referendum per la ratifica della Costituzione Euopea, il Presidente della Repubblica,<br />

Jacques Chirac, si trovò costretto a nominare un nuovo governo. In Francia, nel sistema politico<br />

attualmente in vigore, non sussiste un vincolo di ineleggibilità o una situazione di conflitto tra cariche<br />

amministrative a livello locale e a livello di governo centrale. Accade così spesso che personaggi politici<br />

di rilievo siano contemporaneamente sindaci di una città e ministri a Parigi. Ovviamente, anche gli<br />

attacchi pubblici e quelli dei giornalisti raddoppiano, passando dal piano locale a quello nazionale<br />

(N.d.T.).<br />

255


amici «et entamaient, sans le savoir vraiment, le long voyage qui allait les conduire à la<br />

tête du premier festival de théâtre».<br />

Vincent Baudriller aveva 36 annni compiuti ad aprile, Hortense Archambault ne<br />

compiva 34 durante l’estate. Avevano in comune un’infanzia di viaggi, che li avevano<br />

portati in differenti regioni della Francia. «J’ai passé mes années de lycée à Thonon, la<br />

ville de Valère Novarina», precisava Hortense. Poi un diploma di storia e un DESS in<br />

gestione d’impresa. «En 1994, après un premier stage au Festival d’Avignon, elle part<br />

administrer le Théâtre de l’Opprimé, qui ouvre à Paris. C’est là qu’elle découvre ce qui<br />

restera son cheval de bataille: les difficultés de compréhension entre l’administration<br />

artistique et les questions techniques. Puis elle rejoint la Grande Halle de La Villette<br />

pour le montage de l’exposition “Il était une fois la fête foraine”».<br />

Restò nella struttura collaborando con l’amministratore della produzione, fino a<br />

quando, nel 1999, Bernard Faivre d’Arcier le propose di diventare amministratrice del<br />

Festival più importante. Pour elle, être dans le théâtre va de soi: «La première pièce<br />

que j’ai vue, c’était Peines de coeur d’une chatte anglaise, d’Alfredo Arias. Je devais<br />

avoir 8 ou 9 ans. Je ne sais pas ce qui s’est passé à ce moment-là; en tout cas, j’ai<br />

demandé à mes parents de faire du théâtre. Ce qui me touche, ce ne sont pas seulement<br />

les spectacles, mais l’atmosphère qu’il y a autour. Elle n’est pas facile, elle peut être<br />

belle ou terrifiante, mais c'est là que j'ai toujours voulu être. »<br />

«Pour moi, c’est beaucoup plus diffus» disse Vincent Baudriller. «Enfant, j’allais pas<br />

mal au théâtre avec mes parents. Mais ça ne comptait pas plus qu’autre chose». Fu alla<br />

scuola di commercio di Rouen, in cui si diplomò, che accadde tutto: «Avec quelques<br />

camarades, on a monté un festival de théâtre étudiant. Je ne savais pas que c’était<br />

prémonitoire. Je me suis aussi essayé à quelques bricoles de mise en scène et d’acteur.<br />

Je me suis rendu compte qu’il ne fallait surtout pas que je persiste dans cette voie, mais<br />

j’étais passionné par cet art». Nel 1990, Vincent Baudriller trascorse un anno e mezzo a<br />

Madrid, «en tant que volontaire pour le service national en administration». Continuò a<br />

coltivare «[sa] passion pour la culture hispanophone » continuava a «bricoler» dans le<br />

théâtre, côté alternatif, cette fois». «Son service fini, il hésite à rentrer en France».<br />

Nel 1992, una proposta di Alain Crombecque, l’allora direttore del Festival di<br />

Avignone, lo fanno tornare sui suoi passi: «il devient chargé de production pour le<br />

programme de culture indienne proposé cette année-là. Engagé pour six mois, il ne<br />

partira plus». Fu Bernard Faivre d’Arcier, che successe ad Alain Crombecque nel 1993,<br />

ad assumerlo. Ed eccolo, presto, responsabile della produzione, una delle funzioni più<br />

importanti di una organizzazione teatrale. E «c’est dans ce cadre que, en 1994, Hortense<br />

Archambault vient l’aider pour la production de plusieurs spectacles, dont le fameux<br />

Vole mon dragon, de Stanislas Nordey».<br />

Col passare del tempo, Vincent Baudriller viaggiava sempre di più: «J’allais voir les<br />

spectacles que Bernard n’avait pas le temps de voir, et je lui faisais des propositions.<br />

Les premiers spectacles qui ont été programmés sans que Bernard les ait vus sont ceux<br />

d’Oskaras Korsunovas, en 1997». A partire dal 1998, divenne ufficialmente assistente<br />

alla programmazione, continuando ancora ad occuparsi della produzione. Fu lui che, nel<br />

2002, fece venire per la prima volta Pippo Delbono o Rodrigo Garcia ad Avignone:<br />

«C’est pendant ces années que je suis tombé amoureux du théâtre, du rôle de passeur<br />

d’un rêve artistique. Mener un projet vers le public, voilà ce que j’aime».<br />

«C’est sur ce terrain», mi raccontavano «qu’Hortense Archambault et Vincent<br />

Baudriller se sont retrouvés. Parce qu’ils pensent qu’on est moins bête à deux qu’à un,<br />

et qu’on ne peut dissocier les questions artistiques de celles de la production, ils ont<br />

256


décidé de se porter candidats ensemble à la direction du Festival, quand Bernard Faivre<br />

d'Arcier a été remercié, en 2002».<br />

E in termini di rapporti di lavoro fu così che per la prima volta «il n’y a pas un<br />

directeur, chargé de la programmation, qui prend la parole, mais une direction à deux,<br />

assumée. Officiellement, Vincent Baudriller est directeur et Hortense Archambault<br />

directrice déléguée. Et si, en dernière instance, c’est Vincent qui choisit, il le fait dans<br />

un échange incessant avec Hortense, qui accompagne les projets de bout en bout».<br />

Non era la sola novità che segnava il loro arrivo: «désormais, le festival n’a plus<br />

qu’une antenne à Paris. Il est ancré à l’année à Avignon, pour que les projets naissent le<br />

plus possible au coeur et du coeur de la ville. Et, chaque année, un artiste associé<br />

accompagne Hortense Archambault et Vincent Baudriller dans l’élaboration du<br />

programme. Après Thomas Ostermeier cette année, il y aura Jan Fabre en 2005, Josef<br />

Nadj en 2006 et Frédéric Fisbach en 2007, qui donneront le ton de chaque édition».<br />

«Nous voulons repenser la place de l'artiste dans le Festival» diceva Vincent<br />

Baudriller «en ne montrant pas simplement des spectacles, mais en déployant un travail<br />

et une oeuvre, en leur redonnant plus d'espace, de respiration, de désir. En réhumanisant<br />

la venue des artistes à Avignon».<br />

Se si riconoscevano molto nella loro generazione, «plus pragmatique que<br />

dogmatique», Vincent e Hortense si sentivano soprattutto europei. Ed erano fortemente<br />

convinti del fatto che volevano «faire du Festival un vrai lieu de rassemblement où les<br />

artistes ne fassent pas que se croiser». «Parce que la discussion est» ai loro occhi<br />

«essentielle, [pour] créé un espace de rencontres où viendront débattre les acteurs du<br />

Festival, mais pas seulement: des philosophes, des sociologues et des penseurs seront<br />

aussi là».<br />

Lo scorso anno, nel disastro che portò all’annullazione del Festival, non parlarono<br />

molto, non furono in prima linea a parole: «La parole non avevano più senso», disse<br />

Hortense. Da quest’anno la parola passa a loro, in un vasto dialogo sul sistema del teatro<br />

contemporaneo, « sur la question de l’intermittence, que nous avons préparé avec tous<br />

les acteurs, et dans une édition artistique résolument engagée sur tous les fronts: celui de<br />

l’histoire de la vieille Europe, à travers le programme allemand mis en place avec<br />

Thomas Ostermeier, et celui des combats politiques, économiques et sociaux qui<br />

témoignent d’un monde à réinventer». Un mondo possibile da reinventare. Come<br />

Avignone e attraverso il Festival.<br />

***<br />

Era la sera del 3 luglio: si va a cominciare! In città risuonavano gli squilli di tromba<br />

(una tradizione che risale a Jean Vilar e al maestro Maurice Jarre) che segnalano l’inizio<br />

ufficiale della manifestazione, come una sagra medievale, come a ricordo di una<br />

tradizione lontana.<br />

Il 4 luglio: era da un anno che Hortence e Vincent si immaginavano questo momento.<br />

E nelle ultime settimane la tensione andava crescendo. Si trattava ora di stemperare le<br />

attese, smorzare i problemi e le tensioni, attendere il manifestarsi del lato sensibile e<br />

umano di una manifestazione tanto complessa: gli artisti erano già arrivati; il pubblico<br />

stava arrivando. Oramai mancavano davvero pochi giorni.<br />

«Je suis très heureuse», disse Hortence «j’ai tellement été impatiente que le Festival<br />

commence! Le mois de juin a été difficile, avec les ennuis du quotidien, sans les<br />

bonheurs liés à la présence des artiste, cette recontre pour laquelle on travaille. […]<br />

257


Nous avons rêvé ce festival. Il est rare de pouvoir réaliser son rêve. C’est une<br />

expérience geniale! Au quotidien, demeure la curiosité intacte de voir ce qui va passer.<br />

Nous proposons un projet, mais il appartient aux artistes de le concrétiser et au public<br />

de c’en emparer».<br />

Anche Vincent parlava di sogno. E parlava della lunga fase di preparazione: era un<br />

anno e mezzo che ci lavoravano, considerato che la scorsa edizione non aveva avuto<br />

luogo, ebbero molto tempo, sia per lavorare che per accumulare nervosismo.<br />

«Avignon est un événement particulier», disse Vincent, «compte tenu de la taille de<br />

la manifestation, de sa durée, de la singularité des liex, et bien sûr de son histoire. C’est<br />

un espace d’aventure. Nous avons rêvé ce Festival pendant un an et demi. Depuis deux<br />

ou trois mois, la crise sociale extrêmement complexe donnait une tension encore plus<br />

forte à cette preparation. Hier, 3 juillet, émotion énorme. Le Festival n’avait pas eu lieu<br />

depuis deux ans. […] L’absence de 2003 avait été terriblement douloureuse pour toutes<br />

les équipes, pour les artistes, pour le public».<br />

«Lorsque j’ai conclu la conférence de presse» continuò Vincent, «en déclarant ouvert<br />

le 58 e Festival d’Avignon, j’ai ressenti la réaction du public comme une libération. J’ai<br />

partage avec lui cet espoir et cette joie intense. Cette phrase a effacé les mots historiques<br />

prononcés par Bernard Faivre d’Arcier le 10 juillet 2003: Le 57 e Festival d’Avignon est<br />

clos. […] Il serait présomptuex d’imaginer que nous sommes en train d’écrire une<br />

nouvelle page de l’histoire du Festival. […] Certe, nous l’avons rêver, nous l’avons<br />

préparé [le Festival], toutes les équipes ont énormément travaillé. Mais à partir du<br />

moment où le Festival est ouvert, il ne nous appartient plus: ce sont les artistes et le<br />

public qui le font. Il nous échappe”».<br />

Quando il Festival cominciò, col suono di trombe e le musiche che Maurice Jarre<br />

aveva immaginato decenni prima, quello spettacolo non gli apparteneva più, sfuggiva<br />

loro. Perché toccava ora agli artisti e al pubblico. Perché anche il Festival era testo<br />

drammatico e testo spettacolare.<br />

258


4<br />

<strong>IL</strong> TESTO DRAMMMATICO DEL <strong>FESTIVAL</strong>: IDENTITÀ E<br />

LINGUAGGI PER “ORGANIZZARE”<br />

LA PRODUZIONE TEATRALE


XX<br />

(Prologo. La fiction e le componenti testuali del Festival di Avignone)<br />

In cui le componenti dell’organizzazione e della produzione del Festival di Avignone<br />

sono paragonati alle componenti drammatiche di uno spettacolo, ovvero alla sua “fiction”<br />

<br />

«Un codice è ciò che permette ad un’unità del<br />

sistema semantico (un significato) di essere<br />

assegnata a un’unità del sistema sintattico: in<br />

breve, un complesso di regole correlazionali che<br />

reggono la formazione di rapporti segnici»<br />

(Elam 1980: 56)<br />

I processi dell’organizzare, secondo Karl Weick, somigliano molto ai tre processi che<br />

siamo soliti accomunare alla selezione naturale. Il lettore potrà eccepire che la metafora<br />

quasi-evolutiva negli studi di management non è certo cosa nuova. E come spesso<br />

accade, il lettore ha nuovamente ragione. Spesso però gli studiosi di management non<br />

prendono troppo seriamente, fino alle loro reali conseguenze, le metafore che evocano.<br />

L’esortazione di Weick “drop your tools” 1 , costituiva una allegoria dell’evoluzione<br />

degli studi organizzativi e di management e rendeva l’idea di quanto articolato fosse il<br />

discorso sul metodo nel caso di tutte le scienze sociali e delle discipline economiche in<br />

particolare. Infatti, chiamato in causa nella disputa tra Van Maanen e Pfeffer sul futuro<br />

degli studi organizzativi 2 , Weick rievocava quell’immagine del suo articolo sul caso di<br />

Mann Gulch: abbandonare i propri attrezzi, ovvero sviluppare i modi di parlare di<br />

organizzazione, nonché padroneggiare e adottare diversi strumenti metodologici (nel<br />

senso di numerosi per tipologia), significa non avere il timore di perdere la propria<br />

identità; cosa che invece i protagonisti del racconto di Norman McLean temevano si<br />

realizzasse qualora avessero ubbidito subito al comando del loro capo che, col fine<br />

ultimo di agevolarne la fuga e salvare loro la vita, li esortava ad abbandonare i simboli<br />

della loro cultura, gli strumenti che tenevano uniti il loro gruppo e davano senso al loro<br />

lavoro, alla loro stessa esistenza 3 .<br />

Ciò detto, nel post scriptum del suo straordinario racconto “L’uomo che scambiò sua<br />

moglie per un cappello”, il famoso neurologo Oliver Sacks proponeva al lettore una<br />

affascinante riflessione di ordine epistemologico: «Per una sorta di comica e spaventosa<br />

analogia, la neurologia e la psicologia cognitiviste odierne presentano una forte<br />

somiglianza proprio col povero dottor P.! Come lui abbiamo bisogno del concreto e del<br />

reale; e come lui non ce ne accorgiamo. Le nostre scienze cognitiviste soffrono<br />

anch’esse di una agnosia essenzialmente simile a quella del dottor P. Il quale può<br />

dunque servire da monito e da parabola, mostrandoci che cosa succede a una scienza<br />

1 Weick 1996 (N.d.A.).<br />

2 Van Maanen 1995 e Pfeffer 1993. L’articolo di sul caso di Mann Gulch è di Weick 1993 (N.d.A.).<br />

3 In occasione del numero celebrativo dei quaranta anni di Administrative Science Quarterly, richiamando<br />

l’importanza delle idee di J. D. Thompson, Weick spiegava l’allegoria ponendosi queste domande: “Are<br />

organizational researchers in danger of being overrun by issues that threaten their survival?; What are the<br />

heavy tools that researchers down and make them less agile?; What are the light tools researchers should<br />

keep in order to preserve options?; and What does it take to get people to drop the heavy tools that<br />

endanger them?” (Weick 1996: 19) (N.d.T.).


che rifuggca dal giudizio, dal particolare, dal personale e diventi interamente astratta e<br />

computazionale 1 ».<br />

Il libro di Sacks e i ragionamenti che egli proponeva a partire dai racconti dei suoi<br />

casi clinici, degni del miglior Borges per quanto riguardava la loro lucida e appassionata<br />

fantasia e, nonostante questo, straordinariamente “veri”, erano anche incredibilmente<br />

vicini alle questioni che i moderni studi economici e manageriali stavano prendendo in<br />

cosiderazione in questa fase dello sviluppo teorico dell’intera disciplina. L’economia e<br />

gli studi di management, infatti, già devono molto tanto alla psicologia sociale quanto<br />

alla psicologia cognitivista; e probabilmente in futuro avranno un debito sempre più<br />

forte nei confronti delle neuroscienze 2 .<br />

Questa premessa mi permettava di introdurre alcune riflessioni con il mio lettore,<br />

“fuori dal testo”, dalla finzione narrativa, su delle questioni metodologiche che a me,<br />

come ad altri, stavano molto a cuore.<br />

Per fare ciò, suggerisco al lettore di chiudere per un attimo il volume che sta<br />

leggendo, lasciando, magari un segno per non perdere il filo del discorso: il mio<br />

consiglio, ora, era di cercarsi una buona edizione del libro di Oliver Sacks, L’uomo che<br />

scambiò sua moglie per un cappello, e di dedicarsi alla lettura i uno dei racconti<br />

contenuto in quella raccolta: “L’artista autistico”.<br />

Io posso, tutt’al più suggergli l’edizione che ho sottomano, Gli Adelphi del 2006. Per<br />

il resto son certo che il mio lettore troverà da sé il suo percorso all’interno delle pagine<br />

che seguono, tenendo conto di quanto andrà a leggere altrove.<br />

Lo stesso faremo N. ed io, rassicurando il lettore che ci ritroveremo di nuovo<br />

assieme, qui, esattamente nel punto dove ci eravamo lasciati.<br />

«Buona lettura!»,<br />

1 Sacks 2005: 40 (N.d.T.).<br />

2 Ad esempio, il lettore può fare riferimento a Rabin 2002 o a Camerer, Loewenstein, Prelac 2004<br />

(N.d.T.).<br />

262


XXI<br />

(Organizzare la messa in scena del Festival. Preparare l’attribuzione di significati: la programmazione<br />

del Festival di Avignone. Il “sistema” delle istituzioni legate al Festival di Avignone: la metafora delle<br />

tre chiavi)<br />

In cui si scopre che spesso le “chiavi” per il successo di un’avventura sono molteplici, e<br />

servono le chiavi giuste per aprire la serratura dell’istituzione giusta E dove si porrà<br />

attenzione a come il Festival si relaziona con gli artisti, a come funziona la produzione e<br />

con quali risorse tutto questo si mette in moto <br />

263


De gueules, à trois clefs d'or<br />

posées en fasce, avec deux<br />

gerfauts pour supports, et la<br />

devise : « UNGUIBUS ET<br />

ROSTRO »<br />

Le tre chiavi del blasone della Città di Avignone, con la scritta “Unguibus et rostro”,<br />

vale a dire, “difendersi con ogni mezzo”: davanti all’Hôtel de Ville, al centro della<br />

place de l’Horloge, lo stemma della città era incastonato nel pavimento. Storicamente<br />

non é ben chiaro da dove derivino le tre chiavi dello stemma cittadino: l’ipotesi più<br />

probabile è che si tratti di una modifica del simbolo papale delle due chiavi di San<br />

Pietro a cui fu aggiunta una terza chiave a simbolizzare la città di Avignone. Un’altra<br />

ipotesi faceva riferimento ad un precedente simbolo del periodo comunale, nel XIII<br />

secolo, durante il quale le tre schiavi dovevano simbolizzare i tre rappresentanti della<br />

società: clero, borghesia e nobiltà. Ma da quanto Marcel Jacno ne fece il marchio<br />

distintivo del Festival di Avignone i significati simbolici si sprecarono.<br />

Pochi grafici, designer, pubblicitari lasciarono un segno così indelebile nel contesto<br />

del quotidiano: tra le altre ideazioni che si devono all’ingegno e alla matita di Jacno, il<br />

pacchetto delle sigarette nazionali, le gauloises, con il loro celebre casco; ma fu anche<br />

un creatore di manifesti e locandine pubblicitarie, ideatore di caratteri di stampa,<br />

realizzatore di copertine di libri, influenzando notevolmente il gusto della sua epoca.<br />

Era nato nel 1904 e morì nel 1989. Era un’autodidatta, cominciando col realizzare<br />

manifesti per il cinema (per firme come la Gaumont o la Paramount) e realizzando<br />

fumetti e cartoni animati. Nel 1935 realizzò anche la colonna sonora di un film<br />

pubblicitario commissionato dalla Société des Chemins de Fer (le ferrovie dello stato).<br />

La sua collaborazione con la Régie française des tabacs cominciò nel 1936, e aiutato<br />

dalla raggiunta celebrità nel 1937 viene selezionato per organizzare la sezione dedicata<br />

alla grafica dell’Esposizione universale del 1937 e ne decora il salone d’ingresso.<br />

L’anno dopo, completa consacrazione per un grafico europeo, si recò negli Stati Uniti<br />

per tenere una serie di conferenze dedicate all’arte pubblicitaria. Dopo la guerra<br />

cominciò la sua fruttuosa attrazione per il mondo del teatro, proprio grazie a Jean Vilar<br />

che gli chiese di realizzare i manifesti ufficiali per il TNP e per il Festival di Avignone<br />

e, parallelamente, creando le copertine delle edizione dell’Arche dedicate al teatro.<br />

Subito dopo le prestigiose collaborazioni con il Théâtre des Nations, l’Opéra, l’Opéra-<br />

Comique, l’Odéon-Théâtre de France e, infine, anche qui la piena consacrazione, con la<br />

nuova linea grafica e di comunicazione realizzata per la Comédie-Françaises, con la<br />

famosa coccarda «Comédie-Françaises 1680». Nel 1953-1954, Janco insegnò anche<br />

all’Ecole Nationale supérieure des Arts décoratifs, per poi decidere di dedicarsi<br />

interamente al teatro e alla litografia d’arte.<br />

Un giorno, alla Maison Jean Vilar mi capitò tra le mani una riproduzione di un<br />

articolo. Non riuscii a risalire alla fonte, ma verosimilmente si trattava di un articolo di<br />

giornale firmato dallo stesso Marcel Jacno. In quelle tre colonne Jacno spiegava l’orgine<br />

di quel carattere così innovativo che utilizzò per il TNP di Vilar. Si trattava di un antico<br />

264


carattere, risalente al periodo della Rivoluzione francese e realizzato da un tipografo<br />

editore che gli diede il nome: “Didot”. Così Jacno spiegava la scelta di quel carattere e<br />

le modifiche che apportò: «J’ai donc présumé que des tracts composés dans un style<br />

Didot très accusé suggéreraient au public une atmosphère “Révolution Française”. Et ce<br />

style général semblait bien convenir au caractère populaire que Vilar entendait donner<br />

aux représentations du TNP». E continuava: «Première base pour tout graphisme à<br />

venir: donner sa forme au sigle “TNP”. Il fut dessiné à partir du caractère Didot, mais<br />

selon l’optique du théâtre (ou de la rue), c’est-à-dire en exagérant au maximum la<br />

grosseur des pleins, et en diminuant la finesse des déliés jusqu’à suppression complète;<br />

resultat: caractère “pochoir”. Inscrit dans un ovale où pris place, en tout lettres, le nome<br />

du Théâtre National Populaire, l’ensemble devint assimilable à un cachet<br />

d’administration publique. Le “tampon TNP” était créé». Ma il livello di dettaglio era<br />

ben più approfondito: «Mais dans le même temps, j’avais imaginé de donner au contour<br />

des lettres ce tracé irrégulier qui rappelait la rusticité des imprimés de la Révolution.<br />

Cette irrégularité, portée à l’échelle de la rue, fait vibrer la lettre et accroit sa puissance<br />

de suggestion». Per ogni serie di spettacoli Vilar domandava a Jacno di realizzare dei<br />

manifesti speciali. Ma Jacno era consapevole che «le difficile en tout c’était de mettre<br />

sous les yeux des passants, pour claque spectacle nouveau, une affiche qui ne pût être<br />

confondue avec la précédente. Toutefois, la nouvelle affiche devait, bien entendu, se<br />

présenter comme venant de la même source: ainsi je fus amené à dessiner plus de trente<br />

variations sur un seul thème: textes en “Bodoni” (variante du Didot alourdi), titres en<br />

pochoir TNP, couleurs à plat, peu nombreuses et très franches, et à l’occasion<br />

illustrations “au trait” dans la manière de l’imagerie populaire des “canards” du XVIII<br />

siècle». Inoltre, una applicazione ulteriore del “marchio”, forse inattesa per l’epoca: «les<br />

camions que la troupe du TNP utilise pour ses déplacements en province et à l’étranger:<br />

“La troupe du TNP ne doit pas être sédentaire”, disait Vilar dès son entrée en fonctions.<br />

[…] Aujourd’hui le TNP se déplace – et à quelles distances! – avec un train automobile<br />

complet, deux camions de gros tonnage, une remorque et un autocar. J’adoptai pour leur<br />

carrosserie le style des imprimés TNP: label légèrement transposé, typographie pochoir<br />

et harmonie tricolore également transposée». Tutto ciò a ricordare come «le style<br />

typographique du TNP a trouvé sa substance dans l’inspiration d’une vaste entreprise<br />

culturelle à l’échelle populaire. Il a pu s’accomplir grâce à la multiplicité des occasions<br />

qu’il a eues de s’excercer: dans les rues de Paris, dans la banlieue, sur le routes<br />

d’Europes, au théâtre, en librairie».<br />

Al termine della pubblicazione in suo onore, Vilar par lui même, ricordavo di aver<br />

visto una stampa apparsa nel 1971, con un gonfalone in cima ad un pennone, con due<br />

chiavi d’oro disegnate sopra ed una caduta in terra, ai piedi dell’asta. Jean Vilar era<br />

morto da poche settimane nella sua Sète.<br />

Dando uno sguardo al bilancio del Festival, non era difficile allargare la metafora<br />

delle tre chiavi ai tre principali finanziatori della manifestazione: lo Stato, la Città di<br />

Avignone, le altre Collettività territoriali (Regione Provence-Alpes-Côte d’Azur e<br />

Dipartimento della Vaucluse). Quello delle relazioni istituzionali tra i finanziatori del<br />

Festival era sempre stato un tema delicato nella storia del Festival di Avignone, fin dalle<br />

sue origini. Ed era di quel rapporto, a tratti conflittuale, a tratti così fatale, cerco di<br />

affrontare.<br />

Nel marzo del 2005, in seguito ad un cambiamento dello statuto della associazione di<br />

gestione del Festival di Avignone, il suo consiglio di amministrazione veniva allargato<br />

dal punto di vista dei membri effettivi e veniva nominato un nuovo Presidente. Chi<br />

265


successe a M.me Marie-Josée Roigt alla quale, in qualità di sindaco di Avignone, così<br />

come era accaduto fin dal 1982, spettava la presidenza del consiglio di amministrazione<br />

del Festival che porta il nome della sua città?<br />

Le questioni del cambiamento di statuto, del riequilibrio tra il ruolo della città e dello<br />

stato, dei più coerenti rapporti di responsabilità da parte delle collettività locali, erano i<br />

punti salienti di un “cantiere istituzionale” che lo stesso Bernard Faivre d’Arcier, che<br />

già volle fortemente la prima riforma del 1982, perseguiva da tempo. Solo la brusca<br />

interruzione del 2003, non gli permise di completare un cambiamento istituzionale<br />

faticoso, che sapeva ancora di compromesso, ma che era comunque indispensabile per<br />

garantire una stabilità organizzativa e strategico-operativa al Festival di Avignone. Su<br />

questo punto Faivre d’Arcier si batté a lungo. E i momenti delicati della rinegoziazione<br />

della copertura del deficit in seguito all’annullamente del 2003 non facevano altro che<br />

testimoniare, se ancora ce ne fosse bisogno, la necessità di avere rapporti quanto meno<br />

più semplici e trasparenti con i partner pubblici che rendevano possibile la realizzazione<br />

del Festival: l’improvvisazione nei rapporti istituzionali non pagano mai e la storia del<br />

Festival di Avignone era lì a dimostrarlo, fin dai tempi di Jean Vilar.<br />

Il nuovo consiglio di amministrazione era composto da quindici membri, otto dei<br />

quali rappresentanti dei partner pubblici (tre rappresentati dello stato, tre della città e<br />

uno ciascuno il consiglio regionale e il consiglio generale) e sette “personalità<br />

qualificate”, che non avessero alcun collegamento diretto con i partner pubblici. I tre<br />

rappresentanti designati dello stato erano: Jérôme Bouet, responsabile della direzione<br />

musica, danza, teatro e spettacoli del Ministero; Jean-Luc Bredel, direttore regionale<br />

cultura; Hugues Parant, prefetto del dipartimento della Vaucluse. Marie-Josée Roig,<br />

sindaco di Avignone e all’epoca ministro dell’Interno, Michel Chirinian, delegato alla<br />

cultura del municipio e Jacques Montaignac, direttore generale aggiunto dei servizi<br />

pubblici del municipio, rappresentavano la città. Michel Tamisier, presidente della<br />

commissione cultura del Dipartimento e Alain Hayot, vice presidente con delega alla<br />

cultura e alla ricerca, rappresentavano rispettimente il Dipartimento della Vaucluse e la<br />

regione Provence-Alpes-Côte d’Azur (PACA). Infine, i rappresentanti della società<br />

civile: Laure Adler, direttrice di France Culture; Christiane Bourbonnaud, direttrice<br />

dell’Istituto superiore delle tecniche dello spettacolo e già responsabile amministratice<br />

del Festival ai tempi di Alain Crombecque e di Bernard Faivre d’Arcier; Jean Baisnée,<br />

presidente del Centre de jeunes et de séjour del Festival di Avignone; André Bénédetto,<br />

storica figura artistica di Avignone, regista teatrale e direttore di uno dei teatri<br />

convenzionati (il Théâtre des Carmes) che operavano stabilmente in città 1 ; Louis<br />

Schweitzer, nientemeno che ex presidente e CEO della Renault; Philippe Torreton,<br />

attore; e Jean-Pierre Vincent, regista e importante figura del teatro contemporaneo in<br />

Francia. Le cariche ufficiali: Louis Schweitzer, presidente; Marie-Josée Roig, vicepresidente;<br />

Christiane Bourbonnaud, tesoriere; Jean Baisnée, segretario.<br />

La prima immagine che ebbi modo di vedere del nuovo presidente del Festival di<br />

Avignone era legata ad una divertente foto di spalla ad un articolo apparso su Le Monde<br />

del 29 aprile del 2005. Louis Schweitzer era immortalato alla guida di una coupé<br />

Renault, sguardo fisso in avanti, con un gomito pigramente appoggiato al finestrino<br />

abbassato della vettura e una mano sul volante. La foto era relativa al 2001. Non<br />

conoscevo direttamente Louis Schweitzer, nel senso che non ricordavo di aver visto una<br />

1 Le altre “Scènes d’Avignon”, assieme allo storico Théâtre des Carmes, erano: Chêne Noir, Les Halles,<br />

Le Balcon, Le Chien qui Fume (N.d.T.).<br />

266


sua foto di recente e probabilmente non sarei stato in grado di riconoscerlo. Ma<br />

conoscevo abbastanza bene il suo personaggio pubblico, perché Schweitzer era un<br />

personaggio pubblico e, per certi versi discusso. Al momento della sua nomina, a 62<br />

anni, in procinto di cedere le redini della gestione della Renault, ma conservando la<br />

carica di presidente (non operativo) del consiglio di amministrazione del gruppo, Louis<br />

Schweitzer era un manager affermato: il 19 febbraio il presidente Chirac lo propose alla<br />

presidenza dell’Alta autorità per la lotta contro le discriminazioni e per l’uguaglianza;<br />

era stato candidato alla presidenza degli industriali; inoltre, molto più prosaicamente,<br />

era ancora membro dei consigli di amministrazione di Volvo, BNP Paribas, EDF,<br />

Veolia e Philips, oltre alla recente nomina in quello del colosso L’Oréal.<br />

Ma se quello era il presente di M. Schweitzer, il suo passato recente non era certo<br />

meno interessante. Svizzero di nascita, la sua era una famiglia borghese e protestante<br />

alsaziana. Il padre fu direttore del FMI, celebre per essersi opposto a Richard Nixon<br />

quando questi preconizzò una svalutazione del dollaro durante la crisi finanziaria degli<br />

anni Settanta; tra i suoi prozii poteva vantare un premio Nobel per la pace e un<br />

importante direttore d’orchestra. Era anche cugino di Jean-Paul Sartre. L’impegno nel<br />

settore pubblico, dunque, costituiva per lui il normale sbocco: molto giovane divenne<br />

dapprima ispettore delle finanze e, in seguito, direttore del Tesoro. Il destino volle che<br />

nel 1981, il candidato a divenire ministro dell’Economia dopo le elezioni che portarono<br />

François Mitterrand all’Eliseo: fu così che Laurent Fabius, influente politico francese<br />

che fu anche primo ministro, alla ricerca di un direttore del suo gabinetto ministeriale,<br />

propose tale incarico a Louis Schweitzer. Come ricordò in seguito Fabius «all’epoca, al<br />

Tesoro, non c’erano molti uomini di sinistra con una tale competenza». Calcolando il<br />

ritardo con cui il futuro ministro si presentò all’appuntamento, l’incontro durò una<br />

mezz’ora, durante la quale Schweitzer accettò il ruolo: per molti anni a seguire i due<br />

dettero vita ad un connubio importante nel quadro della politica francese, nonostante il<br />

fatto Louis Schweitzer insista col rimarcare, tutt’oggi «Non so ancora perché mi scelte».<br />

Dopo il ministero del Tesoro, infatti, Louis Schweitzer seguì Laurent Fabius dapprima<br />

all’importante ministero dell’Industria e, poco dopo a Matignon, capo di gabinetto del<br />

primo ministro, suo punto di riferimento, consigliere, abile negoziatore in più di una<br />

crisi, lavorava a molte delle decisioni più importanti. E sempre nell’ombra. Ciò lo<br />

coinvolse anche in delicate questioni politiche e in alcuni scandali che coinvolsero<br />

Laurent Fabius a partire dalla metà degli anni Ottanta. Storia francese recente: ogni<br />

uomo potente deve pagare lo scotto del potere di cui dispone.<br />

Ad ogni modo, proprio in quegli anni si profilava un nuovo importante cambiamento<br />

di vita ed una nuova sfida per Louis Schweitzer. All’epoca la Renault era ancora il<br />

simbolo, tutto francese, dell’economia mista del dopoguerra: era in mano pubblica e il<br />

primo ministro doveva decidere il successore alla Presidenza. Schweitzer fece il nome<br />

di Georges Besse. Ciò aprì le porte ad una nuova carriera per lo stesso Schweitzer il<br />

quale aveva espresso il desiderio di lasciare la politica per immergersi nella gestione<br />

aziendale. Nella primavera del 1986, l’amico Georges Besse, da poco insediatosi a capo<br />

del consiglio di amministrazione, gli propone il posto di direttore del controllo di<br />

gestione in Renault: l’abile ex direttore di gabinetto di Laurent Fabius cominciava il suo<br />

rapido apprendistato nel settore privato.<br />

A volte gli eventi seguono percorsi strani, le storie paiono dei giardini che, in parte<br />

costruiti dalle nostre stesse azioni, procedono a zig-zag in modo apparentemente<br />

arbitrario, e pongono gli individui che li creano di fronte a sentieri che continuamente si<br />

biforcano a creare contorti labirinti. Resta il fatto che nel novembre dello stesso anno<br />

267


Georges Besse venne assassinato da un gruppo terrorista: non solo Louis Schweitzer<br />

perse un amico, ma anche il suo principale sostegno all’interno della Renault. Il nuodo<br />

direttore generale, tra l’altro, aveva buoni motivi per non vedere di buon occhio quell’ex<br />

direttore di gabinetto che, solo pochi mesi prima, doveva aver avuto un qualche ruolo<br />

nel suo mancato rinnovo alla presidenza dell’Usinor, grande impresa francese<br />

dell’acciaio. Ma vista la situazione interna a Renault, che doveva essere già piuttosto<br />

caotica, e forse anche facendo buon viso a cattivo gioco, visto che quella mancata<br />

conferma gli aveva, ora, aperto un’opportunità, prima, insperata; restava il fatto che il<br />

nuovo direttore generale decise, invece, di confermare tutte le decisioni prese da<br />

Georges Besse prima della sua morte, compresa la nomina di Schweitzer.<br />

L’arrivo alla Renault, quindi, fu piuttosto tardo, nel 1986: a 43 anni, un capace e<br />

potente funzionario pubblico entrava dalla porta principale del settore industriale per<br />

eccellenza, a cercare di risollevare le sorti di una impresa, all’epoca, in grossa crisi. Da<br />

allora, infatti, l’ascesa fu proverbiale: direttore finanziario, quindi diretore generale e,<br />

infine, al momento di sostituire il presidente, principale candidato all’assunzione di quel<br />

ruolo, nel 1992. La sua prima grande decisione fu una cocente sconfitta. Alla disperata<br />

ricerca di partner industriali per la Renault, nel dicembre del 1993, dovette abbandonare<br />

il progetto di fusione con la Volvo: «a preoccuparsi troppo dei futuri assetti<br />

organizzativi e non abbastanza degli uomini e delle differenze culturali, Renault passò<br />

sopra agli aspetti più importanti». La lezione gli fu però molto ultile quando, cinque<br />

anni più tardi, portò a buon fine il corteggiamento con la Nissan, formando una nuova<br />

allenza. Inoltre, si trovò di frone ad una ulteriore questione fondamentale: lui che era<br />

stato uno dei principali fautori delle nazionalizzazioni nel 1982, dieci anni dopo si<br />

ritrovava a tirare le conclusioni che quel modello non poteva funzionare in quel contesto<br />

specifico: «nel momento in cui lo stato azionista non poteva più aiutare le imprese che<br />

erano sotto il suo controllo, la giustificazione stessa di una nazionalizzazione era<br />

rimessa in questione». Una robusta visione della politica industriale nazionale e della<br />

economia internazionazionale.<br />

In quell’articolo su “Le Monde”, il neo presidente del Festival di Avignone ricordava<br />

anche gli anni difficili della transizione alla Renault. Uomo capace di avere visioni a<br />

lunga scadenza, da fine stratega (come, sembra, disse di lui un suo amico e collega alla<br />

Renault), Schweitzer ebbe l’animo e l’umiltà di riconoscere che aveva bisogno di<br />

qualcuno che potesse integrarsi con la sua prospettiva gestionale: aveva bisogno di un<br />

manager “operativo”, che operasse sul quotidiano e che potesse aiutarlo a realizzare un<br />

vero «trattamento choc» per una azienda che, salvata o sopravvissuta, aveva bisogno di<br />

essere rilanciata. E il coraggio non gli mancò neppure nella scelta del nome, quel Carlos<br />

Ghosn che divenne noto per essere uno dei più abili manager del settore, fu scelto da<br />

Schweitzer: libanese nato in Brasile, senza alcuna esperienza di lavoro in Francia, ma<br />

con un percorso personale quanto meno intrepido alla Michelin brasiliana e, poi, negli<br />

Stati Uniti. Indubbiamente un profilo piuttosto atipico per un “tagliatore di costi”. Ma<br />

forte dell’idea che «è un grande merito del capo quello di sapersi circondare di gente<br />

che rischia di essere tanto brava, se non più brava, di capo stesso», Schweitzer formò<br />

con Ghosn il tandem che, non senza enormi difficoltà, deriso e disprezzato dai sindacati,<br />

osteggiato dalla Commissione europea e dai suoi stessi amici politici che gli<br />

imputavano di aver tradito le sue stesse posizioni, convinse il governo a chiudere lo<br />

stabilimento belga di Vilvoorde, fece accettare la cosa agli stessi dipendenti e riuscì a<br />

creare uno spirito di unità che gli permise di quadagane quella legittimazione necessaria<br />

268


a portare a compimento i suoi piani. La ristrutturazione di Renault, forse rischiosa per la<br />

sua audacia, fu però un pieno successo aziendale.<br />

La Scènic, una versione della quale stava guidando in quella foto che capeggiava a<br />

centro pagina, fu l’auto simbolo di quella sorta di rinascita, e di quella capacità di<br />

coniugare l’applicazione «di un’idea politica al mondo dell’impresa». Al termine del<br />

suo articolo il giornalista scriveva: «Louis Schweitzer si è dunque sempre trovato là<br />

dove si trovava il vero potere, quando si spostava dalla sfera pubblica a quella privata.<br />

“Conobbi il migliore dei due mondi”, concludeva quest’uomo felice. Essere sempre<br />

dalla buona parte: ecco senza dubbio il segreto, e i limiti, di una bella riuscita “alla<br />

francese”».<br />

Quando un simile personaggio pubblico viene chiamato ad assumere una carica<br />

altamente simbolica come quella di presidente di una organizzazione artistica come il<br />

Festival di Avignone, non può non provocare delle reazioni. Non a caso fu eletto sulla<br />

base di undici voti a favore e quattro astensioni. Inoltre, secondo il quotidiano locale<br />

Dauphiné-Vaucluse del 15 marzo del 2005, tra i due assenti alla votazione risultava<br />

esserci anche il sindaco Mme Marie-Josée Roig.<br />

L’associazione di gestione del Festival di Avignone aveva come compito principale<br />

quello di votare il budget di previsione e di approvare il bilancio consultivo, nominare la<br />

direzione del Festival e prendersi carico degli spazi del Festival stesso assicurandone la<br />

continuità. Visti i compiti del consiglio di amministrazione, la disputa sul nome di Louis<br />

Schweitzer per presiederlo non era tanto legata alle sue specifiche competenze, al peso<br />

che avrebbe potuto avere all’interno dell’associazione o sulla delusione di Mme Roig,<br />

politicamente molto attaccata alla carica di presidente del Festival della città che<br />

governa. Louis Schweitzer rappresentava la classe padronale e quella nomina, poco<br />

tempo dopo il disastroso 2003 e con l’affaire degli intermittenti ancora in pieno<br />

fermento, poteva essere vista quanto meno in modo provocatorio. Questo era il pensiero<br />

dei quattro astenuti e in particolare dei rappresentanti di Regione, Dipartimento nonché<br />

di André Bénédetto. Quest’ultimo, inoltre, auspicava la nomina di un artista (citava<br />

Ariane Mnouchkine o Peter Brook…). E in effetti il collettivo locale (il “Collectif du 25<br />

février”) non fece mancare la testimonianza del proprio disappunto: una nomina<br />

considerata «umanamente molto violenta […]. Presidente del Medef International, la<br />

nomina di questo “M. Vilvoorde” è per noi un colpo di grazia supplementare. Ma è<br />

nella linea di ciò che può infliggerci Renaud Donnedieu de Vabres. E’ un atto rivelatore<br />

della sua maldicenza e non possiamo restare passivi di fornte a questo. Quando ci si fa<br />

beffeggiare così, non si può restare senza rispondere. Non so ancora sotto quale forma,<br />

ma si reagirà…».<br />

***<br />

L’attore determinante di questo gioco a tre tra gli attori che avevano in mano le sorti<br />

finanziarie del Festival era certamente lo Stato. Ma valeva la pena considerare in primo<br />

luogo il quadro di regole all’interno del quale si muoveva la partita. Tali regole erano<br />

definite nell’ambito di quella che in Francia si definiva come “politique culturelle”,<br />

qualcosa di più di un concetto astratto o di una formula buona per qualsiasi discorso o<br />

retorica su arte e cultura. Da questo punto di vista politici e amministratori francesi<br />

impegnati in quello che era da sempre considerato un settore dell’amministrazione<br />

pubblica di primario interesse nazionale, sentivano di avere una forte specificità da<br />

difendere, si sentivano portatori di un progetto e di un’idea in cui erano fortemente<br />

269


implicati e coinvolti. Quando il Presidente della Repubblica o un alto funzionario del<br />

settore culturale richiamava ufficialmente l’intero sistema francese esigendo il rilancio<br />

della “politica culturale” del paese, questo veniva considerato un richiamo serio e<br />

importante a cui bisognava far seguito con ricerche, indagini approfondite, progetti,<br />

proposte serie e azioni efficaci.<br />

Ma in cosa consisteva questa peculiarità tutta francese sintetizzabile con la formula<br />

“politique culturelle”, vera e propria missione e baluardo per politici e amministratori a<br />

qualisasi livello dell’apparato pubblico essi lavorino? E quando cominciava<br />

effettivamente a formarsi quella visione collettiva del fenomeno e quella logica che<br />

pervadeva profondamente quanti fossero implicati “a fare cultura” nell’intero paese?<br />

Secondo una ricerca condotta da Philippe Urfalino 1 , spesso si cercava di spiegare<br />

questa specificità della politica culturale francese a partire da una tradizione monarchica<br />

che aveva introdotto un forte intervento dello Stato nella vita artistica, soprattutto<br />

attraverso una particolare forma di “mecenatismo nazionale”. Rispetto ad altri paesi,<br />

come per esempio l’Italia, la cui creazione come stato unitario era piuttosto recente, la<br />

Francia sembrava potesse vantare una unità politica molto precedente (appunto legata al<br />

periodo monarchico) e che si era perpetuata proprio attraverso l’arte e la cultura. In un<br />

contesto come quello, l’odierna “politica culturale” aveva trovato uno straordinario<br />

habitat proprio all’interno dell’evoluzione statale francese e nella triplice<br />

centralizzazione che la caratterizzava: amministrativa, politica e, appunto, culturale 2<br />

(nel senso ampio del termine in questo caso). In sostanza, la normale evoluzione della<br />

“grandeur” francese del periodo monarchico era legata ad una “strategia” che<br />

considerava la cultura come fondamentale meccanismo in grado di costruire e di<br />

mantenere nel tempo l’identità nazionale. Urfalino, introducendo il suo lavoro, inseriva<br />

in questo contesto, chiamiamolo storico, le “grands travaux” di presidenti come<br />

Georges Pompidou e François Mitterand e non era un caso che entrambi questi<br />

presidenti, nei rispettivi discorsi di inizio mandato alla nazione avessero fortemente<br />

sollevato e richiamato l’idea di “identità nazionale” e del ruolo della cultura in tal senso<br />

(ebbi modo di vedere quei discorsi alla videoteca Maison Vilar).<br />

Ma fin qui, come diceva lo stesso Urfalino, si trattava di luoghi comuni o, quanto<br />

meno, per essere meno pessimisti, di una analisi un po’ semplificata di un fenomeno<br />

ben più complesso: «[…] la répetition d’une attitude sur la longue période n’explique<br />

1 La ricerca condotta dal professor Philippe Urfalino, ricercatore al CNRS e membro del Centre de<br />

Sociologie des Organisations, costituiva un richiamo importante, dal mio punto di vista, per un aspetto<br />

strettamente metodologico e per la scelta della filosofia di ricerca che era sottesa a quel lavoro. Infatti,<br />

così come il mio lettore veniva portato per mano per la comprensione della “cultura e dell’identità” che<br />

caratterizzavano il Festival di Avignone come organizzazione, con lo scopo di analizzarne il repertorio di<br />

azioni e scelte strategiche che ci porteranno a studiare la filiera teatrale dal punto di vista del Festival<br />

stesso; dall’altro, anche la scelta di Urfalino di arrivare ad una comprensione più globale della nascita e<br />

dell’evoluzione delle politiche culturali francesi passava attraverso l’analisi delle idee e delle credenze di<br />

fondo che si erano evidenziate, effettivamente, all’interno dell’organizzazione deputata a creare tali<br />

politiche, ovvero il Ministero della cultura. Le avvertenze che seguono, proposte dallo stesso Urfalino, mi<br />

trovavano perfettamente concorde in quanto costituivano l’ossatura epistemologica di fondo e le<br />

avvertenze principali anche dell’intera ricerca presentata in questo lavoro: «[…] Il va de soi que cette<br />

compréhension globale n’est ni une clé qui ouvrirait toutes les portes des nombreuses politiques<br />

sectorielles poursuivies par le ministère de la Culture depuis sa création, ni une formule à laquelle elles<br />

pourraient toutes se rèduire. Elle vise plutôt à qualifier le cadre normatif et intellectuel de l’action du<br />

ministère, et son évolution. Si l’expression ne prêtait pas à malentendu, on pourrait parler d’une histoire<br />

de l’idéologie culturelle de l’État.» (Urfalino, 1996: 10, corsivo nostro) (N.d.T.).<br />

2 Urfalino, 1996 (N.d.T.).<br />

270


ien; c’est plutôt la survivance, toujours sélective, d’une tradition qu’il faut tenter de<br />

comprendre. L’inscription de la politique culturelle dans une continuité plus que<br />

séculaire en dissout la véritable nature 1 ».<br />

Comprendere il concetto “francese” di politica culturale significava, dunque, parlare<br />

di una tradizione e non semplicemente di una ripetizione nel tempo di azioni tra loro<br />

disgiunte. Fedele a questo proposito, Urfalino sottolineava due aspetti che intendeva<br />

approfondire, due tesi che intendeva avvalorare: i) primo aspetto, quella che poteva,<br />

ragionevolmente, essere definita come “politique culturelle” andava fatta risalire al<br />

1959, con la creazione di un ministero incaricato degli “Affaires culturelles”, per<br />

andare poi a dissolversi col passare del tempo fino ai primi anni ’90; ii) secondo aspetto,<br />

la particolarità di questa invenzione risiedeva nella alternatività, manifestata<br />

apertamente dal ministero, attraverso la maggior parte delle sue iniziative e delle azioni<br />

portate avanti, tra le idee di “progetto” e di “istituzione”.<br />

Sul primo punto, in effetti, c’era poco da dire e sembrava una tesi realisticamente<br />

accettabile e non difficile da sostenere. Era soprattutto la seconda tesi ad essere molto<br />

interessante in quanto ciò poteva permettere al lettore di comprendere che, di fatto e<br />

almeno in Francia, ciò che aveva caratterizzato la politica culturale non erano state<br />

(solo, verrebbe da aggiungere) la diffusione di idee astratte o di una missione inculcata<br />

ai più vari livelli operativi dell’amministrazione, o le modalità d’azione della stessa<br />

(cosa che invece caratterizzava l’attività di altri paesi in materia culturale) o<br />

l’importanza del budget messo a disposizione del ministero. La particolarità del<br />

concetto di “politique culturelle” era legata in modo forte ad una tensione che si era<br />

creata quando il ministro André Malraux l’aveva definita come un “progetto sociale,<br />

estetico e riformatore”, contrapposta all’idea di “istituzione” 2 . E sempre secondo lo<br />

studioso francese, era il venire meno di questa contrapposizione, a tutto vantaggio<br />

dell’istituzionalizzazione dei fenomeni culturali all’interno di un sistema della creazione<br />

artistica francese con determinate caratteristiche strutturali, che aveva portato, agli inizi<br />

degli anni ’90, alla dissoluzione di quel concetto rispetto a come era nato.<br />

Ad ogni modo, anche seguendo la proposta di Urfalino, la nozione di politica<br />

culturale non era unitaria: ma con questa espressione non era possibile considerare solo<br />

le misure o i programmi di azioni relativi ad un settore specifico o la somma delle<br />

iniziative di un ministro o di una amministrazione. Come egli stesso sottolineava: «la<br />

notion de politique culturelle a pour référent un moment de convergence et de<br />

cohérence entre, d’une part, des représentations du rôle que l’État peut faire jouer à<br />

l’art et à la “culture” à l’égard de la socété et, d’autre part, l’organisation d’une<br />

action publique. L’existence d’une telle politique culturelle exige une force et une<br />

cohérence de ces représentations, comme un minimum d’unité d’action de la puissance<br />

publique. […] On peut appeler “problémitisations” la manière dont est construite et<br />

ressaisie, de manière intellectuelle et pratique, cette cohérence 3 ». In particolare, in<br />

Francia sembrava vi fossero state tre fasi di “problémitisations”: “l’action culturelle”<br />

di André Malraux, il “developpement culturel” con Jacques Duhamel e il “vitalisme<br />

culturel” di Jack Lang. Con le prime due fasi, ebbe a che fare direttamente Jean Vilar ed<br />

ebbe parte attiva in tutto questo; la terza fase coincidse con quella evoluzione<br />

importante, anche istituzionale, del Festival di Avignone con il ruolo determinante di<br />

Bernard Faivre d’Arcier.<br />

1 Ibidem: 9 (N.d.T.).<br />

2 Urfalino, 1996 (N.d.T.).<br />

3 Ibidem: 14, il corsivo è mio (N.d.T.).<br />

271


Il decreto del 14 luglio 1959, relativo alla nascita del ministero della Cultura, così<br />

esplicitava la sua mission:<br />

«[…] rendre accessibles les œuvres capitales del l’humanité, et d’abord de la France, au plus grand<br />

nombre possibile de Français: assurer la plus vaste audiance à notre patrimoine culturel et<br />

favoriser la création des œuvres de l’art et de l’esprit qui l’enrichissent».<br />

Secondo la proposta di Urfalino era il caso di prendere un po’ le distanze da una<br />

affermazione di missione tanto importante quanto, di fatto, generica. Si trattava,<br />

semplicemente, di spostare leggermente l’angolo di visuale e di considerare il contesto<br />

politico e istituzionale di quella affermazione: la “democratizzazione culturale” non<br />

passava per una funzione “educatrice”, ovvero, la cultura era cosa distinta dalla<br />

conoscenza e dalla pedagogia. Se questa era la dimensione, diciamo, “concettuale”<br />

dell’idea di Malraux, era possibile anche trovarci degli aspetti eminentemente pratici 1 : i)<br />

il nuovo ministero doveva in qualche modo distinguersi e legittimarsi rispetto al<br />

ministero della “Éducation populaire” e del suo massimo rappresentante<br />

amministrativo, il “Haut-Commissariat à la jeunesse et aux sports”; ii) rispetto al<br />

passato, doveva distinguersi e legittimarsi nei confronti del vecchio ministero della<br />

“Éducation nationale” e di quello che costituiva il suo principale responsabile<br />

amministrativo, il precedente “secrétariat d’État aux Beaux-Arts”; iii) dal punto di vista<br />

politico, facendo della “democratizzazione culturale” il suo cavallo di battaglia, André<br />

Malraux (il primo ministro della Cultura), non feceva altro che affrancare un governo<br />

che all’epoca era associato dalla quasi totalità della sinistra francese ad una dittatura<br />

(eravamo nel periodo della nascita della V Repubblica, con Charles de Gaulle),<br />

attraverso quell’idea di “progressismo culturale” che invece sembrava monopolio della<br />

sinistra stessa.<br />

In quegli anni, lo stesso concetto di “éducation populaire” non era agevole da<br />

circoscrivere. Quante difficoltà incontrò lo stesso Jean Vilar nell’associare il termine<br />

“popolare” al suo Théâtre National e nel farne comprendere il significato più profondo!<br />

Urfalino riusciva a fornirmi i tratti essenziali dell’espressione 2 :<br />

«[…] un ensemble de résonances idéologiques; une nébuleuse de mouvements, associations et<br />

institutions lâchement reliés par le même “esprit”; le sentiment d’un espoir déçu et d’un nécessaire<br />

sursaut» (ibidem: 35).<br />

Malraux non fece altro che riprendere le idee e le credenze comuni che componevano<br />

quella idea confusa di Éducation populaire e di utilizzarle come fondamenti per l’ideale<br />

della democratizzazione culturale: la lotta contro l’inuguaglianza nell’accesso alla<br />

cultura; la fiducia nell’universalità e nella validità intrinseca della cultura per la<br />

creazione di una identità nazionale; la credenza di poter progredire verso una tale forma<br />

di democratizzazione indipendentemente dalle lotte politiche, supponendo una<br />

1 Ibidem: 34 (N.d.T.).<br />

2 In altri termini, la concezione del Fronte popolare su questo argomento era legata: all’ideale<br />

dell’uguaglianza culturale da realizzare attraverso il teatro, le università aperte a tutti e la politica del<br />

“tempo libero”; ad un insieme di associaziazioni, per lo più di teatro amatoriale (e per certi versi lo spirito<br />

del TNP di Vilar all’inizio era visto in questo senso: un organismo che attraverso il decentramento<br />

culturale potesse risultare utile all’ideale più ampio della democratizzazione culturale); la speranza di un<br />

salto di qualità dell’ambito culturale rispetto agli enormi sforzi di risorse e competenze fino a quel<br />

momento dedicati allo sport.<br />

272


autonomia relativa del settore culturale rispetto alla politica che fu invece uno degli<br />

elementi della contestazione del 1968. Ecco dunque che nasceva l’esigenza di<br />

discostarsi dalle idee di fondo da cui aveva attinto il ministro (quelle sull’educazione<br />

popolare) per passare alla sua nozione di democratizzazione culturale: non già specifica<br />

educazione culturale o all’apprendimento delle pratiche artistiche (compito non suo);<br />

ma l’incontro dell’arte (dell’opera come degli artisti) con i pubblici che non avevano<br />

ancora l’abitudine a tale confronto.<br />

Il modello costruito da Malraux in quegli anni era piuttosto articolato ma ben<br />

congeniato in quanto teneva conto della situazione esistente (una amministrazione<br />

centrale “pletorica”, in cui era essenziale una chiara divisione dei compiti) e degli<br />

sviluppi futuri (nomina di responsabili in grado di garantire il funzionamento delle varie<br />

organizzazioni culturali ed il collegamento con le componenti locali<br />

dell’amministrazione). Gli assi portanti che permettevano di tenere assieme la politica<br />

culturale del nuovo ministero erano sostanzialmente tre: la filosofia d’azione, detenuta<br />

dal Ministro, dal Direttore generale alle Arti e alle Lettere e dai loro più stretti<br />

collaboratori; la “dottrina”, ovvero una versione pratica della filosofia d’azione che<br />

potesse garantire regole di condotta e le pratiche comuni per le scelte e le azioni da<br />

intraprendere da parte della amministrazione centrale, con riferimento tanto<br />

all’accreditamento “artistico” delle organizzazioni sul territorio quanto alla<br />

distribuzione dei fondi pubblici; la scelta di azioni contingenti, specifiche, ovvero<br />

l’esigenza, caso per caso, da parte dei funzionari e dei responsabili delle organizzazioni<br />

culturali, di conciliare la dottrina attraverso cui si muoveva l’amministrazione centrale<br />

con le condizioni particolari della sua applicazione, specie con riferimento ai rapporti<br />

con gli enti locali (municipalità in primo luogo).<br />

La storia della creazione di una amministrazione pubblica era per certi versi<br />

affascinante: Malraux e i suoi più stretti collaboratori avevano davanti a loro la sfida di<br />

dover creare dal nulla un ministero individuando le componenti da aggregare da altre<br />

amministrazioni, imponento un lavoro di denizione dei compiti e delle competenze agli<br />

uffici e, l’idenficazione, la legittimazione e la distinzione dei funzionari e del personale<br />

del nuovo ministero all’interno di un apparato pubblico gigantesco.<br />

A quel punto era facile comprende l’esigenza del ministro Malraux di distinguersi<br />

dall’Éducation nationale (da cui era stato generato il suo ministero), dal secrétariat<br />

d’État aux Beaux-Arts (che andava a rimpiazzare dal punto di vista operativo);<br />

dall’Haute-Commissariat à la jeunesse et aux sports (con il quale doveva condividere le<br />

competenze in materia, appunto, di Éducation populaire).<br />

A più riprese e in diverse comunicazioni pubbliche 1 , lo stesso Malraux e il suo<br />

braccio destro, Gaëtan Picon chiariranno come intendevano ripartire i ruoli:<br />

l’insegnamento era compito dell’Éducation nationale; il “divertimento borghese”<br />

(rimpiazzato con l’idea di “democratizzazione culturale”) al vecchio secrétariat d’État<br />

aux Beaux-Arts; il tempo libero di una specifica classe d’età all’Haute-Commissariat à<br />

la jeunesse et aux sports. Da un discorso al Senato del 1959, chiamato in causa circa la<br />

separazione delle materie del suo ministero con quello dell’Éducation nationale:<br />

1 A tal proposito Urfalino analizzava diversi discorsi pubblici del ministro Malraux riuscendo anche a<br />

delinearne l’evoluzione del pensiero. Ad esempio, questa ripartizione dei ruoli costituiva già uno sviluppo<br />

successivo in cui il ruolo dell’Éducation populaire non era poi così evidente. In effetti, se in un primo<br />

momento veniva assimilato da Malraux al divertimento e al tempo libero della gioventù, col tempo<br />

passava da supporto al suo lavoro fino all’abbandono progressivo (N.d.T.).<br />

273


«Où est la frontière? L’Éducation nationale enseigne: ce que nous avons à faire, c’est de rendre<br />

présent. Pour simplifier, je reprends ce que j’ai dit à l’Asselmblée nationale: Il appartient à<br />

l’Université de faire connaître Racine, mais il appartient seulement à ceux qui jouent ses pièces de<br />

les faire aimer. Notre travail, c’est de faire aimer les génies de l’humanité et notamment ceux de la<br />

France, ce n’est pas de les faire connaître. La connaissance est à l’Université; l’amour, peut-être,<br />

est à nous» (Senato, 8 dicembre 1959, citato in Urfalino 1996: 45).<br />

Picon andò oltre, e in una serie di conferenze rendeva ancora più esplicita la filosofia<br />

di fondo, ponendo una questione legata alla differenza “temporale” tra il concetto di<br />

conoscenza e di cultura: «[…] Là où l’Université enseigne, les maison de la culture<br />

devront rendre présent». In altri termini, la conoscenza era memoria di una cultura<br />

passata, era patrimonio; la cultura era creazione, qualcosa di vivente, era rapportarsi alla<br />

conoscenza sempre nuova nell’istante stesso in cui veniva generata.<br />

Secondo la logica che proponeva Urfalino, Malraux e Picon, in quei mesi, stavano<br />

creando quella filosofia di fondo necessaria, poi, per l’azione del ministero e<br />

dell’amministrazione centrale. Stava nascendo e si sta affermando la filosofia de “l’État<br />

esthétique”.<br />

274


XXII<br />

(Organizzare la messa in scena del Festival. Preparare l’attribuzione di significati: la programmazione<br />

del Festival di Avignone. L’impronta del direttore artistico e la complicità del management: l’artista<br />

associato, gli “angeli custodi” e i “guardiani del forziere”)<br />

In cui il lettore scopre cosa significa “organizzare” un festival e cosa comporta la<br />

realizzazione di un “programma” che permetta all’organizzazione di «dire quello che pensa<br />

per sapere quello che è» <br />

275


«Tutto ciò che è detto è detto da un osservatore. Nel suo<br />

discorso l’osservatore parla ad un altro osservatore, che<br />

potrebbe essere lui stesso; tutto ciò che si applica all’uno sia<br />

applica anche all’altro. / L’osservatore prende in<br />

considerazione simultaneamente l’entità che considera e<br />

l’universo nel quale essa si trova. / E’ un attributo<br />

dell’osservatore l’essere capace di interagire<br />

indipendentemente con l’entità osservata e con le sue relazioni.<br />

/ Per l’osservatore una entità è una entità quando lui la può<br />

descrivere. / L’insieme di tutte le interazioni entro le quali una<br />

entità può entrare è il suo dominio di interazioni.<br />

/L’osservatore può definire se stesso come una entità<br />

specificando il suo proprio dominio di interazioni. /<br />

L’osservatore è un sistema vivente ed una comprensione della<br />

cognizione come fenomeno biologico deve rendere conto<br />

dell’osservatore e del suo ruolo in essa»<br />

(H.R. Maturana e F.J. Varela, Autopoiesi e Cognizione, 2004:<br />

53-54)<br />

In una prospettiva strettamente gestionale, vale a dire, organizzativa e strategica, un<br />

festival potrebbe essere ricondotto a 1 : (i) un prodotto culturale che necessita di alcune<br />

attività per la sua realizzazione (ad esempio, scelta del “cartellone”, gestione dei contatti<br />

e dei contratti, organizzazione delle risorse e logistica, predisposizione di attrezzature,<br />

comunicazione, realizzazione di attività collaterali, coordinamento e supervisione); (ii)<br />

tali attività sono svolte da differenti attori coinvolti nel loro sviluppo (quali, ad esempio,<br />

responsabili artistici, organizzatori, agenzie, artisti, pubblico, enti regolatori, gestori di<br />

spazi, aziende di servizi, sponsor); (iii) le attività di produzione, collegate ad un<br />

territorio di riferimento, sono organizzate in modo permanente sebbene si manifestino<br />

in modo periodico.<br />

Operativamente, l’organizzazione di un festival si ridurrebbe alla gestione di una<br />

serie di processi in cui, secondo molti, entrerebbero in gioco fattori motivazioni che<br />

spingono le persone a realizzarli secondo un disegno unitario. Ma, di fatto, conflitti di<br />

interesse, limiti nell’elaborazione delle informazioni da parte degli individui, scarsa<br />

attenzione ai processi conoscitivi attraverso cui i comportamenti umani identificano e<br />

classificano compiti e decisioni, poca importanza dedicata all’elaborazione di<br />

programmi di comportamento autonomi e interconnessi, generano spesso fenomeni che<br />

non sono facilmente analizzabili in termini di variabili e verifica empirica delle ipotesi,<br />

così come si vorrebbe che fosse quando uno scienziato “studia” una organizzazione.<br />

Come sottolineava Weick, invece, l’organizzare altro non sarebbe che «[…] una<br />

grammatica convalidata consensualmente per la riduzione dell’ambiguità attraverso<br />

comportamenti interdipendenti dotati di senso 2 ».<br />

Tenendo sempre presente che il punto di osservazione privilegiato dei processi che<br />

stavo raccontando era quello della “filiera cognitiva” del Festival di Avingone, nel<br />

momento in cui il mio lettore viene portato a tuffarsi all’interno di uno specifico punto<br />

di quella “fabbrica”, gli suggerisco di non dimenticare i principi generali fino ad ora<br />

utilizzati 3 , perché come in ogni sistema complesso, le leggi che regolano un sistema<br />

superiore sono valide anche nel momento in cui viene preso in considerazione un suo<br />

1 Falcone, Moretti 2004 (N.d.A.).<br />

2 Weick 1979: 14 (N.d.T.).<br />

3 Rullani 2004b (N.d.A.)<br />

276


sottoinsieme. In questo punto della filiera del Festival, in questo specifico reparto,<br />

infatti, incontreremo gli stessi macchinari e le stesse lavorazioni che stavamo<br />

immaginando per altri punti della nostra ipotetica “fabbrica della conoscenza artistica”:<br />

non si fa altro che continuare a strutturare, riprodurre, distribuire e governare<br />

conoscenze specifiche per produrre altra conoscenza, ovvero per mettere la conoscenza<br />

connettiva (sotto forma di spettacolo teatrale) nelle migliori condizioni possibili di fare<br />

il grande balzo e diventare conoscenza utilizzabile da un più vasto numero di users<br />

possibili o meglio, per creare il più ampio “volume” di valore possibile.<br />

Rammenta, il mio lettore, l’orologio di Karl Weick e la parabola degli orologiai di<br />

Herbert Simon di cui N. parlava nel suo seminario di Parigi? Attraverso l’immagine<br />

forte ed evocativa utilizzata da von Bertalanffy, provi ora a rispondere a questa<br />

domanda apparentemente banale: che differenza c’è tra un organismo normale, un<br />

organismo ammalato e un organismo morto? Cercare di risolvere il quesito adottando<br />

formule chimiche, equazioni matematiche e leggi naturali può risultare complicato.<br />

Posso, allora, provare a suggerire una soluzione generale e semplice: lo stato di un<br />

organismo cambia a seconda di come si modificano le modalità attraverso cui scambia<br />

materia con l’ambiente. Un sistema vivente è cioè un sistema aperto, «che scambia<br />

della materia con l’ambiente circostante, esibendo la capacità di importare ed esportare<br />

materiali e di operare nel senso di produrre e distruggere strutture con i propri<br />

componenti materiali 1 ». Tutt’al più un sistema vivente può essere considerato come un<br />

sistema autopoietico che ha però la possibilità di interagire con altri sistemi autopoietici<br />

in una continua esigenza di interfacciare (artificialmente) con l’esterno ciò che è<br />

(naturalmente) interno e autoriproduttivo 2 . Humberto Maturana e Francisco Varela<br />

definiscono una macchina autopoietica come una «macchina organizzata (definita come<br />

unità) come una rete di processi di produzione (trasformazione e distruzione) di<br />

componenti che produce componenti che: i) attraverso le loro interazioni e<br />

trasformazioni continuamente rigenerano e realizzano la rete di processi (relazioni) che<br />

li producono; ii) e la costituiscono (la macchina) cone una unità concreta nello spazio<br />

nel quale essi (i componenti) esistono specificando il dominio tipologico della sua<br />

realizzazione in quella rete 3 ».<br />

Cosa tutto ciò possa c’entrare con quanto sta per accadere, lo lascio al lettore cercare<br />

di indagarlo, per scoprire il suo punto di osservazione. L’avvertimento è che qualora il<br />

lettore cercasse, in quanto segue, strade alternative a quelle suggerite, alla riscoperta di<br />

causalità lineari, variabili di comportamento individuali, soggetti alle prese con compiti<br />

precisi, decisioni certe, capi-reparto o leader onniscenti, egli rischia seriamente di<br />

restare deluso.<br />

***<br />

Tra i molti rituali collegabili Festival di Avignone come organizzazione, le<br />

conferenze stampa di apertura e di chiusura costituivano in assoluto dei momenti<br />

1 von Bertalanffy 2004: 224 (N.d.T.).<br />

2 Simon 1981 (N.d.T.)<br />

3 Maturana, Varela 1985: 131. Ma anche, per qualcosa di più prossimo alle scienze del sociale: Simon<br />

1981; Di Bernardo, Rullani 1985; Luhman 1990; Weick 1979, 1995. Per una versione intrigante dell’idea<br />

di rete d’azioni: Latour 2002, 2006. Una precisazione per il mio lettore professionale: è d tutta evidenza<br />

che la versione “aperta” di sistema si presta meglio ad una applicazione in campo sociale, ma nulla toglie<br />

che sia possibile trovare affascinanti collegamenti tra una prospettiva e l’altra (N.d.T.).<br />

277


cruciali, le due circostanze più ufficiali, in cui i due direttori, assieme, incontravano il<br />

pubblico del Festival, soprattutto sia la componente “professionale” che quella “non<br />

professionale”. Era sempre stato così; seppur con sfumature differenti col trascorrere del<br />

tempo e con l’evolversi della storia del Festival.<br />

Così Le Monde dell’8 luglio riassumeva alcuni dei passaggi della conferenza stampa<br />

di apertura del 2006:<br />

«Le spectacle de Bartabas, donné en ouverture « hors les murs » du Festival d’Avignon, illustre le<br />

thème de cette soixantième édition : le voyage et la rencontre. Un thème fédérateur choisi par le<br />

chorégraphe d’origine hongroise Josef Nadj, artiste associé du festival 2006, qui renoue avec le<br />

théâtre et les auteurs après les polémiques artistiques de l’édition 2005. Vendredi 7 juillet, Nadj<br />

devait présenter dans la Cour d’honneur son spectacle très attendu, Asobu. Dix jours plus tard, le<br />

17, la même scène accueillera une autre pièce événement : Les Barbares, de Gorki, mise en scène<br />

par Eric Lacascade. Encore dix jours, et le 27, en clôture du festival, Olivier Py dirigera, toujours<br />

dans la Cour d’honneur, une lecture de textes de Jean Vilar, en hommage au fondateur du Festival<br />

d’Avignon.<br />

D’ores et déjà, le public afflue. Au 6 juillet, 110 000 places avaient été vendues sur les 150 000<br />

proposées. Pour Vincent Baudriller, codirecteur avec Hortense Archambault, ce “raz de marée”<br />

témoigne de “la confiance du public”, qui, selon lui, n’a pas emboîté le pas des détracteurs de<br />

l’édition 2005. Cependant, il précise “qu’il reste beaucoup de places à partir du 22”. Par ailleurs, le<br />

Festival fait savoir que, en raison de la présence de la France en finale du Mondial de football,<br />

samedi 9, la représentation du Bazar du homard, de Jan Lauwers, prévue à 22 heures au Cloître des<br />

Célestins, est annulée, à cause du bruit qui risque de la perturber. Elle sera remplacée par une<br />

représentation dans la nuit du 13 au 14, à 0 h 30. Les autres spectacles prévus sont maintenus».<br />

Le attese erano tutte per Asobu di Josef Nadj, apparentemente deputato ad essere lo<br />

“spettacolo-guida” della programmazione: in fondo, era presentato dall’artista associato<br />

nella Corte d’onore e il giorno dell’apertura del Festival. E poi un richiamo a quello che<br />

già era considerato lo “spettacolo-simbolo”, Battuta, di Bartabas, il cavaliere-artista<br />

guida carismatica della troupe di Zingaro: i suoi spettacoli equestri hanno fatto la storia<br />

recente del Festival e Bartabas continua ad alimentare la sua indubbia attrattiva e il<br />

fascino nei confronti del pubblico. Inoltre, grosse aspettative per il “ritorno” (così lo<br />

presentava il giornalista) del teatro d’autore nella Corte d’onore con un regista molto<br />

apprezzato come Lacascade e con un testo relativamente poco rappresentato come I<br />

Barbari di Gorki. E poi una menzione particolare per l’eterno enfant prodige del teatro<br />

francese, Olivier Py, regista al quale, in quanto sembra incarnare una “forma” di teatro<br />

popolare e della tradizione apparentemente caro a Jean Vilar, fu affidata la serata finale<br />

del Festival: il giornalista anticipava una sorta di “lettura di testi di Jean Vilar, omaggio<br />

al fondatore del Festival di Avignone”, ma in effetti si tratterà di un vero e proprio<br />

spettacolo con tanto di regia, scenografie, cambi di scena e di costumi.<br />

Al 6 luglio, erano già 110 mila posti venduti, su una capienza generale di 150 mila a<br />

disposizione: un bell’attestato di «stima e di fiducia» si affrettarono a precisare i due<br />

direttori; nonché una bella e grossa pietra sopra alle critiche dell’anno precedente ed una<br />

risposta forte ai detrattori e a chi già presagiva un nefasto avvenire per i Festival a<br />

seguire. Ad ogni modo, dal monitoraggio attento della biglietteria, Vincent Baudriller<br />

sottolineava come restassero «ancora molti posti a partire dal 22», vale a dire per gli<br />

ultimi giorni del festival. Un ulteriore dettaglio: nella conferenza stampa venne<br />

annunciato lo spostamento dello spettacolo di Jan Lauwers del 9 luglio. Si sarebbe<br />

dovuto tenere al Cloître des Celestins, all’aperto dunque, e a partire dalle 22: ma a causa<br />

della presenza della Francia nella finale dei mondiali di calcio, e del pericolo che rumori<br />

ed eventuali festeggiamenti potessero perturbare lo spettacolo ancora in corso proprio al<br />

278


termine della partita, la direzione decise di spostare la rappresentazione nella notte tra il<br />

13 e il 14 luglio, a mezzanotte e mezza. Gli altri spettacoli, che cominciavano e<br />

terminavano prima della fine della finale dei mondiali di calcio, si tennero regolarmente.<br />

I primi giorni di quel luglio, inutile negarlo, furono scanditi dai ritmi dell’ultima<br />

settimana dei mondiali di calcio: per quanto possa risultare un fenomeno difficile a<br />

comprendersi, si trattava pur sempre dell’evento sportivo dell’anno. Arrivato con<br />

qualche giorno di anticipo rispetto all’inizio del Festival, io stesso trascorsi il giorno del<br />

mio compleanno con tranquillità e assistendo, in serata, alla vittoria della nazionale<br />

italiana di calcio contro la Germania, nazione che ospitava l’evento. Una bella<br />

soddisfazione sportiva, soprattutto se vissuta in quella particolare situazione. Tra l’altro<br />

le persone che conoscevo e che incroviavo durante e dopo la partita, e che mi sapevano<br />

italiano, mi dimostrarono, in quella occasione, una candida ammirazione, condita con<br />

apparente rispetto e una malcelata rivalità, tutti sentimenti dovuti al fatto che la loro di<br />

Nazionale si sarebbe giocata solo il giorno succesivo la possibilità di accedere a quella<br />

partita di finale che invece la Nazionale italiana si era già conquistata. Un ricordo<br />

divertente di quella serata, trascorsa in un centralissimo locale in cui, per l’appunto,<br />

assistetti alla partita assieme ad uno gruppetto di pochi altri italiani di passaggio: ad un<br />

certo punto arrivò una simpatica signora, italiana anch’ella, dal tifo particolarmente<br />

acceso e che dimostrò di avere più timore di una grossa cavalletta locale, attratta dai<br />

tavoli del bar, piuttosto che di rientrare al campeggio dell’Ile de la Barthelasse,<br />

straripante di tedeschi ubriachi e verosimilmente un po’ delusi. Nei giorni successivi<br />

non la rividi più.<br />

Il giorno in cui la Francia si stava guadagnando l’accesso alla finale dei mondiali di<br />

calcio, già prima di sera, per le strade di Avignone non c’era praticamente nesssuno.<br />

Evidentemente.<br />

Tra il Festival che stava per aprire il sipario e il campionato di calcio che stava per<br />

chiuderlo si preannuncia un fine settimana piuttosto intenso. Chissà cosa avrebbe fatto<br />

Jean Vilar, vero appassionato di calcio? Magari, se ci fosse stata qualche compagnia<br />

italiana avrebbe organizzato a sua volta un piccolo antipasto di Francia-Italia ad<br />

Avignone. E conoscendo l’assiduità con cui il gruppo avignonese si cimentava nel gioco<br />

del pallone sarebbe stata quasi certamente una disfatta. Ad ogni modo, con molta<br />

probabilità, Jean Vilar non si sarebbe perso la partita di finale.<br />

Nel primo pomeriggio, partecipando all’apertura della esposizione di Josef Nadj alla<br />

Maison Jean Vilar, l’artista manifestò il desiderio di avere una registrazione della partita<br />

di semifinale che si sarebbe svolta la sera. Mancava poco al debutto di Asobu, e c’era<br />

ancora molto lavoro da fare. Quella notte del 5 luglio, però, dubitai fortemente che la<br />

confusione che da quasi un’ora era esplosa per le vie di Avignone avesse lasciato grossi<br />

dubbi e sorprese a Nadj circa il risultato dell’incontro. Anche se si fosse trovato ancora<br />

chiuso tra le possenti mura del Palazzo dei Papi per le prove dello spettacolo, credo<br />

proprio che alla Cour d’honneur arrivarono le urla di festa e i clacson delle vetture<br />

ammassate per le strade di Avignone.<br />

Ad ogni modo, i direttori del festival non potevano non tenere conto della<br />

concomitanza di quell’evento sportivo. Dunque, la precauzione relativa allo<br />

spostamento dello spettacolo del sabato successivo era decisamente condivisibile. Resta<br />

il fatto che, quella sera del 9 luglio 2006, ad Avignone, non ci furono molti motivi di<br />

festeggiamento, le strade non erano più chiassose rispetto alla normalità, e la notte si<br />

chiuse con molti volti delusi.<br />

279


L’apertura del Festival costituiva, infatti, un vero e proprio mondo a parte: quando<br />

risuonavano i tre squilli di tromba che Vilar fece concepire al grande musicista Maurice<br />

Jarre, e che dichiaravano ufficialmente aperto il Festival, si innescavano dei meccanismi<br />

assolutamente unici, niente a che vedere con quello che era successo fino a pochi<br />

momenti prima. Anche una scelta apparentemente banale, come l’annullamento o lo<br />

spostamento di uno spettacolo a causa del maltempo costituivano eventi a cui era<br />

complicato far fronte quando la “macchina operativa” era oramai in corsa.<br />

Naturalmente, la preparazione del Festival aveva le sue problematiche. Ma nel<br />

momento in cui “si andava in scena” la prospettiva di tutti coloro che erano impegnati<br />

nell’organizzazione cambiava profondamente: si aveva la netta consapevolezza che, in<br />

un modo o nell’altro, la macchina si era, per l’appunto, messa in moto. Alcuni aspetti<br />

potranno essere monitorati ed eventualmente oliati in caso di necessità; altri, andranno<br />

avanti per inerzia, diventeranno delle routine o dei meccanismi automatici per lo più<br />

incontrollabili e non gestibili “a motore acceso”; al massimo, se individuati, potranno<br />

costituire materiale di riflessione alla fine, ed una buona esperienza per l’anno<br />

successivo (sia che si tratti di aspetti positivi sia che si sia manifestato un qualche<br />

intoppo); ancora, ci saranno molte situazioni che non tutti i componenti<br />

dell’organizzazione riusciranno neppure a monitorare, situazioni reali di cui forse<br />

neanche saranno mai messi al corrente, patrimonio di conoscenza, di esperienza di un<br />

qualche artista, di un tecnico, di uno stagista, di un “angelo custode” (ne incontreremo<br />

uno a breve) o di qualche spettatore. Nonostante tutto, costituivano, a loro volta, dei<br />

piccoli meccanismi che avevano permesso il buon funzionamento di tutta la macchina<br />

organizzativa o che avevano permesso di individuare o aggirare un malfunzionamento,<br />

un tarlo, una grana.<br />

La conferenza stampa di chiusura, quando, per contro, si ha forte la sensazione che<br />

tutto stia rallentando per fermarsi, non cambiava di molto in termini di struttura e di<br />

contenuti, con i due co-direttori a scambiarsi i ruoli, cercando di tenere fede alla traccia,<br />

allo schema di comunicazione che, con tutta probabilità, avevano prefissato:<br />

estremamente semplice, pulita, senza eccessi, quasi fin troppo lineare nella sua<br />

essenzialità. Se Hortence Archambault presentava i numeri del Festival, secondo i<br />

consueti parametri (posti disponibili, tasso di occupazione dei posti, spettacoli “sold<br />

out”, ringraziamenti di rito per gli aspetti organizzativi e tecnico-operativi del Festival);<br />

Vincent Baudrillier, dal canto suo, tracciava uno spaccato “artistico” del Festival, stando<br />

per attendo a non dimenticare praticamente nessuno. Quello che segue era uno spezzone<br />

così come lo lessi da uno degli articoli di Le Monde del giorno successivo, sempre nel<br />

2006:<br />

«Le public a été au rendez-vous, se félicite la direction du Festival d'Avignon, qui affiche pour<br />

cette année "un taux de fréquentation de 88% réparti uniformément sur l'ensemble des spectacles",<br />

avec environ 134 000 billets délivrés. Le festival, qui s’achève jeudi 27 juillet, renoue avec le<br />

succès après les polémiques de 2005 cristallisées par la personnalité provocatrice et la démarche<br />

artistique radicale du chorégraphe-plasticien flamand Jan Fabre.<br />

De nombreux commentateurs et une partie du public avaient alors dénoncé avec vigueur la place<br />

croissante prise dans la programmation par le corps, dans le cadre de propositions hybrides (danse,<br />

arts visuels...) parfois inabouties, au détriment du texte et des auteurs.<br />

Convaincus du bien-fondé du projet d'ouverture du théâtre à d’autres disciplines, engagé à<br />

Avignon depuis 2004, les deux jeunes codirecteurs du festival, Vincent Baudriller et Hortense<br />

Archambault, qui ont travaillé avec le chorégraphe hongrois Josef Nadj, avaient annoncé une<br />

édition 2006 “dans le prolongement” de 2005. Mais ils avaient aussi promis une “couleur<br />

différente” autour du “voyage” et de la “rencontre”, thématique moins sujette à polémique.<br />

Parmi les temps forts du festival, le directeur artistique du festival a cité le “monde imaginaire et<br />

280


étrange” de Joël Pommerat et l'adaptation par Eric Lacascade des Barbares de Gorki, production<br />

qui marquait le retour du théâtre de texte dans la Cour d’honneur du Palais des papes mais n'a pas<br />

enflammé la critique.<br />

Le codirecteur a loué la performance de Josef Nadj en compagnie du sculpteur espagnol Miquel<br />

Barcelo, qui a produit selon lui “un moment de grâce artistique comme il en arrive rarement”. Il a<br />

en outre évoqué “l'émotion de la découverte” d’artistes tels que le Flamand Guy Cassiers et le<br />

Suisse Stefan Kaegi, inconnus jusque-là en France et qui font tous deux habilement appel à la<br />

vidéo. Le travail du Français Christophe Huysman a été lui assez caractéristique d’une édition<br />

ayant fait la part belle aux arts du cirque, présents dans les spectacles du Flamand Alain Platel ou<br />

du Français François Verret notamment».<br />

Di seguito, quindi, accanto ai “prodigi” dei tecnici del Festival e a fianco degli<br />

“angeli custodi” faremo i conti anche con i “guardiani del forziere”. La gestione di una<br />

organizzazione, e i due direttori erano lì a ricordarlo a tutti, era anche fatta di numeri, di<br />

documenti economico-finanziari, di budget e di bilanci. Forse sono proprio queste le tre<br />

chiavi d’oro per la formula magica del Festival: artisti, organizzazione e bilancio. Ad<br />

ogni modo, i “numeri” erano anche essi “segni” importanti della vita di una<br />

organizzazione artistica.<br />

Il programma artistico diventava parte del “repertorio” di una organizzazione<br />

teatrale, ovvero di quell’insieme di conoscenze artistiche che si sedimentavano nella sua<br />

memoria principale sotto forma di quelle esperienze collettive (gli spettacoli) che erano<br />

elencate in quel documento. Piuttosto, c’era da domandarsi come i dati economici e il<br />

peso dei numeri impattino sulla storia di una organizzazione artistica, ovvero come<br />

vengano “tramandati” da un anno all’altro e che “valore” intrinseco abbiano queste<br />

informazioni. Nel caso di una azienda o di una organizzazione che aveva l’obiettivo di<br />

produtte profitti, la “continuità del bilancio” era parte di quei principi (universalmente<br />

accolti) legati alla ragioneria e alla contabilità. Nel caso di una organizzazione che non<br />

era strutturalmente preposta al concetto di profitto (o meglio non aveva lo stesso<br />

concetto di profitto di una impresa, ovvero di qualcosa “misurabile” dal punto di vista<br />

economico attraverso i medesi parametri), aveva senso parlare di “creazione di valore”?<br />

La domanda che mi ponevo durante quella conferenza stampa così malinconica, grigia,<br />

quasi sconsolata, potreva sembrare o fuorviante o provocatoria a seconda di chi se la<br />

poneva.<br />

Fatto stava che, in un passato neanche troppo lontano, quel problema aveva assillato<br />

non poco politici, operatori e studiosi di varie discipline. E cosa ne pensava Vilar? Jean<br />

Vilar aveva un forte senso di responsabilità nei confronti della comunità, della società<br />

civile. Fu uno dei primi a parlare del ruolo sociale dell’arte e degli artisti, del teatro<br />

come servizio pubblico, ed aveva innato un senso del dovere che, con tutta probabilità,<br />

fu accuratamente plasmato dalla sua educazione a Sète e dal suo apprendistato artistico<br />

con Dullin. In alcune note che gli dovevano servire per una lettera, nel 1960, si produsse<br />

in questa riflessione su Avignone, gustosa per spirito, ma estremamente pragmatica per<br />

contenuto: «Non è più un’avventura. E’ quanto meno diventato un sistema. Il sistema.<br />

Una equazione.<br />

(Sovvenzioni + Capolavori) / Cachet delle vedette = Soldi + Onore<br />

Eccola l’equazione più semplice. Ma ce ne sono di altre. Più sapienti… O almeno me<br />

lo hanno assicurato. Ma c’è bisogno, per utilizzarle, di un indirizzo speculativo tale che<br />

io mi rifiuto di pensare che possano essere “popolari”. Il Capitale è passato per quella<br />

strada. Nel 1947, la mia equazione fu la seguente:<br />

(Avventura + Disinteresse) / Provincia = Debiti<br />

281


Per quanto sia desolante, la mia imbecille equazione di primo grado è stata parecchio<br />

utile».<br />

Un avvenimento particolare mi fece pensare molto: Jean Vilar scrisse il suo<br />

“Mémento”, il diario degli avvenimenti artistici ma soprattutto amministrativi durante il<br />

periodo del TNP, proprio tra il 29 novembre del 1952 e il 1° settembre del 1955, quando<br />

cominciarono alcune insensate critiche al suo lavoro al TNP, fino al termine<br />

dell’edizione di quell’anno del Festival, a cavallo di due lunghe e gloriose tournée<br />

internazionali. Quando sentiva l’esigenza di dovere lasciare traccia del proprio operato<br />

Vilar non esitava a spendere molto del suo tempo a farlo, in maniera finanche<br />

minuziosa. I suoi rapporti, le sue lettere alle Amministrazioni centrali come al<br />

Ministero, i suoi rendiconti erano un esempio lampante di quella che per lui era una<br />

esigenza normale. Non era, infatti, un comportamento dovuto a “timori” particolari per<br />

quel potere pubblico che era in grado di permettergli o di negarli, la possibilità di<br />

perseguire la sua personale strategia d’azione. Vilar lo faceva per senso di<br />

responsabilità, precoce esempio di responsabilizzazione o, come si direbbe oggi, di<br />

“accountability” rispetto a quanti avevano l’interesse a che lui facesse al meglio ciò che<br />

gli era stato affidato dalla società per la quale lavorava: «Il faut savoir pourquoi on fait<br />

du théâtre» diceva, «et en déduction, il faut savoir pour qui. Je sais, personnellement,<br />

pourquoi et pour qui je travaille: pour les classes laborieuses». E senza falsa modestia,<br />

Vilar comunicava il suo lavoro, come lo svolgeva e a cosa giungeva: obiettivi chiari,<br />

risultati chiari. E, nonostante questo, era costretto ad una continua lotta perché a livello<br />

di potere pubblico gli venissero riconosciuti i meriti del proprio operato: perché il teatro<br />

doveva essere considerato a tutti gli effetti un servizio pubblico.<br />

Oggi il Festival è una istituzione con un bilancio (pubblico) divenuto sempre più<br />

importante. Le tabelle riportate di seguito costituiscono le elaborazioni che fece N. a<br />

partire dai dati messi a disposizione dal Festival di Avignone: costituivano alcuni<br />

esempi dei “numeri che contano” per il Festival, quelli che sembravano la sola cosa<br />

importante tanto da essere presentati costantemente ad ogni fine di festival, nelle<br />

consuete conferenze stampa. La prima proponeva una analisi degli spettatori presenti<br />

dal 1989 al 2002 distinguendo tra la capienza massima a disposizione e il numero<br />

effettivo di frequentari. Nella tabella successiva N. aveva cercato di riassumere le<br />

entrate e le uscite del Festival di Avignone tra il 1982 al 2002. Solo dal 1982 il Festival<br />

poté contare, in effetti, un vero e proprio sistema di bilancio di previsione.<br />

In una delle prime interviste di Vincent Baudriller in qualità di direttore del Festival<br />

emerse la situazione che i due nuovi giovani direttori si trovarono a dover gestire dopo<br />

la crisi del 2003. Alla domanda del giornalista su quale fosse la situazione finanziaria<br />

del festival risultante dall’annullamento, così Baudriller rispose:<br />

«Nous avons contaté, suite à l’annulation du festival, 2,8 millions d’euros de perte. Nous avons<br />

entrepris, tout de suite une politique d’economies drastiques sur l’ensemble des dépenses:<br />

réduction de frais non engagés, économie des droits d’auteurs… 900.000 euros ont ainsi été<br />

économisés. Pour 1,9 millions restant, l’ensemble des partenaires ont engagé des moyens<br />

supplémentaires afin de remener le déficit à 0». (da “La Provence” dell’11 dicembre 2003).<br />

Già nel gennaio del 2004 cominciarono ad essere resi noti i primi sforzi dei<br />

finanziatori per dotare il Festival di una certa tranquillità e stabilità economica. In<br />

particolare, Baudriller e Archambault riuscirono a far impegnare i principali finanziatori<br />

pubblici del Festival sulla base di un accordo triennale:<br />

282


«Festival: les partenaires s’engagent pour trois ans.<br />

Les tourments qu’il a connus en 2003 ont visiblement fragilisé le festival d’Avignon. Les<br />

échéances électorales de 2004, et les éventueles changements de “couleur” politique qui pourraient<br />

en résulter, ont amené l’association de Gestion du Festival d’Avignon à souhaiter clarifier la<br />

partecipation de chacun dans cette manifestation international. Déjà en 2002, le principe d’une<br />

signature de convention avait été établie entre l’association et l’ISTS (Institut supérieur des<br />

techiniques du spectacle) définissant les objectifs de chaque structure, les locaux et les personnels<br />

et moyens mis à disposition.<br />

Le même type de convention sera donc conclu entre l’association de Gestion du Festival, l’état, la<br />

Ville, le Département et la Règion “afin d’avoir plus de cohérence dans l’action et, d’autre part,<br />

de permettre une bonne vision des subventions accordées par lesdits partenaires”» (dal<br />

“Dauphiné Vaucluse” del 15 gennaio del 2004).<br />

La tabella successiva, trascritta da N. a partire da un articolo di giornale, riassumeva<br />

gli elementi principali dell’accordo economico.<br />

Infine, quello che segue, era il bilancio consultivo del Festival di Avignone del 2004,<br />

dopo il periodo di crisi del 2003.<br />

Arrivati a questo punto, il lettore potrà lecitamente domandarsi quale sia la macchina<br />

che viene messa in moto con queste risorse, vale a dire “come” il Festival funziona: la<br />

realizzazione del programma era sostanzialmente compito dalla direzioni artistica in<br />

stretto contatto con gli aspetti economici. Mettere in pratica una “filosofia”, passare dal<br />

programma su carta alla sua effettiva realizzazione, invece, non era cosa che si<br />

improvvisava e si faceva attorno ad un tavolo, una volta per tutte, in un gruppo ristretto<br />

di persone. Ogni decisione comportava l’attivazione di meccanismi diversi e di funzioni<br />

diverse dell’organizzazione stessa.<br />

In effetti, vedremo N. alle prese con il tentativo di ricostruire cosa comportasse<br />

l’inserimento di uno spettacolo (co-prodotto o ospitato) nel programma ufficiale del<br />

Festival e l’impatto sull’organizzazione dal punto di vista operativo. Lo vedremo<br />

cercare di ricostruire cosa accade durante l’anno, lontano dagli occhi del pubblico e cosa<br />

invece si mette in moto nei mesi che precedono il festival o nel mese di luglio quando<br />

questo era nel pieno del suo svolgimento. Per comprendere tutto questo, il lettore verrà<br />

catapultato indientro e in avanti nel tempo, in una sorta di confronto tra passato e<br />

presente. Su molte questioni operative in effetti, poco era cambiato, e questo per motivi<br />

differenti: alcune pratiche erano diventate parte del bagaglio e delle consuetudini di una<br />

qualsiasi organizzazione artistica; Jean Vilar aveva letteralmente “inventato” delle<br />

routine che, poi, si tramandarono nel tempo, divenendo delle vere e proprie formule<br />

consolidate; ancora, negli ultimi anni, le dimensioni del Festival, dal punto di vista dei<br />

“numeri”, sia in termini “relativi” (rispetto ad altre manifestazioni) che “assoluti”, non<br />

erano cambiate di molto e tendevano, anzi, a stabilizzarsi (quantomeno in termini di<br />

numero di spettacoli e di budget a disposizione).<br />

In altri casi, ma molto più avanti, vedremo N. alle prese con alcune differenze<br />

evidenti, soprattutto riconducibili al ruolo del Festival di Avignone nei processi<br />

produttivi del teatro europeo, con particolare riferimento alla creazione di alleanze sia<br />

per la produzione che per la distribuzione degli spettacoli attraverso “reti” di<br />

collaborazione e “canali” anche molto “lunghi” in termini di intensità e portata delle<br />

relazioni con altre organizzazioni artistiche. Ma questa è un’altra storia.<br />

283


fonte: mia elaborazione su dati del Festival di Avignone.<br />

284


fonte: mia elaborazione su dati del Festival di Avignone<br />

285


fonte: mia elaborazione da “Festival: les partenaires s’engages pour trois ans”, dal Dauphiné-Vaucluse del<br />

15 gennaio 2004<br />

fonte: mia elaborazione su dati del Festival di Avignone.<br />

286


***<br />

Percorrendo rue de la République dal centro di place de l’Horloge verso la stazione,<br />

dopo alcuni locali alla moda, un cinema e diversi negozi, sul lato destro della strada ci si<br />

immetteva in una piccola via, rue du portal Boquier: al numero 20 un ipotetico visitatore<br />

si imbatteva nell’ingresso di Cloître Saint-Louis. A destra, un grande cartello indicava<br />

ancora l’Holtel Cloître Saint-Louis, quattro stelle, uno dei più eleganti di Avignone; a<br />

sinistra, i colori del manifesto di quella edizione, indicava il quartier generale del<br />

Festival di Avignone, dove hanno sede la direzione artistica e tutti i principali uffici<br />

amminitrativi dell’organizzazione. A prima vista, entrando dal portone principale che<br />

porta alla corte interna, non si notava molta differenza tra l’accesso all’hotel e quello<br />

della hall degli uffici del festival. Al piano terra l’accesso avveniva passando davanti<br />

alla portineria e al centralino: subito a destra, delle eleganti sedute accoglievano il<br />

visitatore, circondato dal verde di alcune piante e dalla luce del sole che all’improvviso<br />

arrivava dall’alto, attraversando il lucernaio che era stato posto a copertura di quello che<br />

poteva essere un antico cortile interno. Da lì sotto, era possibile vedere lo svilupparsi<br />

del labirinto di cunicoli e di passerelle che dal primo piano si sviluppavano in<br />

orizzontale e verticale, e in cui erano ricavati gli uffici. Già al piano terra c’era molta<br />

agitazione. Punto di incontro e unico accesso alla struttura, ospitava anche il centralino<br />

principale: il telefono è probabilmente lo strumento principale attraverso cui il pubblico<br />

e le persone non direttamente coinvolte nel festival possano entrarvi in contatto; il<br />

numero e la frequenza delle telefonate smistate, da aprile come ai primi giugno, è<br />

davvero impressionante. Ma dalla seconda metà di giugno e per tutto il mese di luglio, il<br />

centralino sarà davvero un inferno.<br />

Salendo le scale a chiocciola che dal piano terra portavano al primo livello<br />

dell’edificio, si veniva accolti da una frenesia incredibile: due enormi tavoli<br />

accoglievano quel che restava di quotidiani e riviste già monitorate dall’ufficio stampa.<br />

Era un continuo sfogliare, strappare, fotocopiare e catalogare. Volavano giornali, si<br />

sentivano forbici a lavoro e macchine fotocopiatrici all’opera. Non era facile orientarsi:<br />

apparentemente a sinistra cerano tutti gli uffici legati al marketing e all’ufficio stampa; a<br />

destra si andava verso gli uffici produzione e dell’amministrazione. Oltre una passerella<br />

si entrava in una parte dell’edificio relativamente più tranquilla: c’erano gli uffici della<br />

direzione e l’ufficio del segretario generale, o meglio il suo ufficio di Avignone visto<br />

che con il suo staff il segretariato si divideva tra Avignone e Parigi. Quel giorno avevo<br />

appuntamento con lui.<br />

In primo luogo, era possibile domandarsi come fosse cambiata la composizione<br />

dell’équipe organizzativa del Festival. In effetti, la formula di base, nonostante il<br />

passare del tempo, non aveva subito molte variazioni. Attorno a Jean Vilar c’erano<br />

poche persone che erano in grado di mettere in moto una macchina organizzativa anche<br />

molto complessa. Anche oggi un numero di persone ridotto ha il compito di coordinare<br />

il lavoro di centinaia di persone. Complessivamente, ancora oggi, non meno di<br />

settecento collaboratori lavoravano al Festival di Avignone per un periodo che poteva<br />

variare da poche settimane, a uno o tre mesi. A Festival avviato un comitato di direzione<br />

si riuniva ogni mattina verso le 10, a realizzare una forma di consultivo delle<br />

ventiquattro ore precedenti. L’ufficio partnership e protocollo rilasciava i biglietti per le<br />

compagnie, i professionisti: per tutta la durata del Festival questi rappresentano non<br />

meno di 24mila posti: gli accrediti e gli ingressi grautiti venivano concessi con molta<br />

parsimonia. Il Festival accreditava circa una cinquantina di fotografi e oltre quattrocento<br />

287


giornalisti. Inoltre, andavano coordinati anche gli uffici stampa delle compagnie<br />

presenti. La biglietteria, dal canso suo, era gestita da uno specifico software ed entro il<br />

primo pomeriggio aveva anche l’incarico di stampare quotidianamente i biglietti e gli<br />

accrediti che andavano smistati alle varie biglietterie che erano approntate in ciascuno<br />

degli spazi del festival: si trattava di casupole in legno riconoscibilissime, piazzate<br />

vicino a ciascun ingresso. Alla “cassa centrale” del Festival, nel “forziere”, affluivano in<br />

serata, secondo una rigida procedura, tutti gli incassi delle singole biglietterie.<br />

Per avere un ordine di grandezza della grande quantità di persone impegnate, il<br />

servizio paghe del Festival, nel solo mese di luglio, produceva fino a<br />

settecentocinquanta buste paga.<br />

Usando come riferimento l’edizione del cinquantenario, così Faivre d’Arcier<br />

descriveva il suo gruppo di lavoro: «Il Festival è affare di un piccolo gruppo, una forma<br />

di artigianato, come lo è anche il teatro. Anche se durante l’estate il Festival ha l’aspetto<br />

di una vera impresa, dando lavoro per qualche settimana a diverse centinaia di persone,<br />

di cui una grossa parte sono di Avignone. Il gruppo “permanente” comprende una<br />

dozzina di persone, ripartite tra l’ufficio di Parigi (al numero 6 di rue de Braque, in<br />

pieno Marais), e la sede sociale di Avignone (prima all’8bis di rue de Mons e solo da<br />

qualche anno nella sede attuale di Cloître Saint-Louis, al numero 20 di rue portail<br />

Boquier). A Parigi sono presenti: la direzione artistica (Bernard Faivre d’Arcier) con<br />

l’ufficio di produzione e diffusione (all’epoca c’era Vincent Baudriller); il segretario<br />

generale al quale è collegato l’ufficio stampa, il protocollo e gli assistenti di direzione.<br />

Ad Avignone sono di base: la direzione dell’organizzazione e gli aspetti logistici<br />

(all’epoca con Christiane Bourbonnaud); l’amministrazione, la contabilità e la gestione<br />

finanziaria (con cui collaborò anche Hortence Archambault); la direzione tecnica».<br />

Per quanto riguardava l’edizione del 2005, a distanza di una decina d’anni<br />

dall’esempio precedente che avevo utilizzato per un confronto, l’équipe permanente del<br />

Festival di Avignone comprendeva una ventina di persone occupate a tempo pieno,<br />

anche oggi divise tra la sede sociale di Avignone (spostatasi in Cloître Saint-Louis, per<br />

l’appunto al numero 20 di rue portal Boquier) e l’ufficio di Parigi (al numero 10 di<br />

passage du Chantier). Ad Avignone era stata spostata anche la direzione artistica<br />

(Vincent Baudriller e Hortence Archambault) e la produzione (Caroline Marcilhac); e<br />

permanevano, rispetto al passato, la gestione finanziaria e la gestione del personale, la<br />

direzione tecnica (Christian Wilmart), il servizio relazioni con il pubblico e la<br />

biglietteria (Pascale Bessadi), la logistica (Djamila Boutin) e la contabilità. Nella sede<br />

parigina, invece, avevano base il segretario generale (Patrick Belaubre), l’ufficio stampa<br />

(Rémi Fort) e l’ufficio pubblicazioni (Thomas Kopp).<br />

Già in una intervista della fine del 2003, una delle prime in qualità di direttore del<br />

festival, Vincent auspicava lo spostamento della direzione ad Avignone.<br />

«Mi auguro che le direzioni artistica e produzione siano basate ad Avignone, e non<br />

più a Parigi», diceva, motivando la scelta «per una questione di coerenza e di vicinanza<br />

con la direzione tecnica. Avignone è qua per fare dei sogni degli artisti una realtà. Gli<br />

aspetti tecnici e della produzione sono dei piloni fondamentali al servizio della<br />

creazione. Io vivo ad Avignone così come Hortence Archambault. La maggior parte<br />

degli impiegati permanenti sono ad Avignone, fino a 17 persone. Nei nostri nuovi locali<br />

parigini, tre persone lavoreranno in contatto con i servizi stampa a partire da gennaio»<br />

(da “La Provence” dell’11 dicembre 2003).<br />

Ma il racconto della parte organizzativa in senso stretto del Festival non poteva che<br />

partire con un aneddoto storico relativo alla Settimana d’Arte Drammatica di Vilar, nel<br />

288


1947. Così Sophie Rogier, studiosa di teatro e del Festival, riassumeva la parte<br />

organizzativa di quella settimana, come la trovai riportata in un documento della<br />

Maison Jean Vilar:<br />

«En venant à Avignon [Vilar] il répond à l’invitation de Christian Zervos, critique d’art et<br />

collectionneur que le poète René Char lui a présenté en 1946. Zervos prépare une exposition d’art<br />

contemporaine dans la grande Chapelle du Palais des Papes et domande à Jean Vilar de venir<br />

présenter dans la Cour d’honneur du Palais de Papes “Meurtre dans la cathédrale”, créé à Paris en<br />

1945. L’idée effraie tout d’abord Vilar écrasé par le lieu puis il accepte et propose à Zervos de<br />

présenter trois créations, cu cours d’une semaine consacrée à l’art dramatique.<br />

Mais Zervos manque de moyen. Vilar en fait donc appel au soutien de la municipalité»<br />

E ancora:<br />

«Il [Vilar] obtient l’adhésion et le support financier du Maire, le Docteur Pons, élu communiste et<br />

de son adjont, Monsieur Charpier. […] Monsieur Charpier lors de la première réunion du comité<br />

de la Semaine d’Art Dramatique souligne: “Cette Semaine d’Art appelle à un grand retentissement<br />

et s’intégre naturellement dans notre projet de faire vivre Avignon et de lui assurer une prospérité<br />

toujours plus grande”. Il utilisera ces mêmes arguments pour convaincre le conseil municipal de<br />

subventionner la manifestation.<br />

[…] Le Maire, le Docteur Pons souscrit à ce projet, il rappelera plus tard: “Notre façon de voir à la<br />

municipalité était qu’il fallait de la diversité et ne pas se confiner dans le tépertoire habituel”. Il<br />

favorise la création d’une comité apolitique car son souci est d’assurer la pérennité de la Semaine<br />

d’Art Dramatique.<br />

Ce comité est institué le 31 juillet 1947. Il se compose de 45 membres appartenant aux notables<br />

d’Avignon. Il est chargé de l’organisation de la semaine, du transport, de l’hébergement des<br />

comédiens, de la vente des billets et surtout de contrôle de l’utilisation de la subvention municipale<br />

(300.000 francs). Il est placé sous la statut d’association. Jean Vilar est mandaté par le comité pour<br />

assuré la direction artistique de la Semaine d’Art Dramatique».<br />

A questo punto, Jean Vilar si appoggiò ad un organismo parigino per il supporto<br />

organizzativo e per la parte operativa: il CEAI (Cercle d’Echanges Artistiques<br />

Internationaux), lo spalleggiò sia nell’organizzazione degli spettacoli sia mettendo a sua<br />

disposizione la segreteria di Parigi, grazie alla sovvenzione che gli aveva concesso il<br />

comitato municipale. Poi Vilar riuscì ad assicurarsi l’Alto patronato del Presidente della<br />

Repubblica e quello di diverse personalità politiche nazionali 1 .<br />

Così Sophie Rogier concluse quel passaggio del suo intervento, reso ad una tavola<br />

rotonda nel febbraio del 1994, a Parigi, presso l’Institut d’Etudes Politiques:<br />

«[…] Pendant la préparation de la “Semaine” [Vilar] fait appel a toute les bonnes volontés et<br />

générosités locales. Ansi, le septième régiment du gènie fourit la structure de la scène et réalise<br />

son montage, dans la Cour d’honneur. Les avignonnais se mobilisent.<br />

Autour de Jean Vilar se constitue une équipe d’hommes qui deviendront les fidéles du Festival<br />

d’Avignon: André Saquet, l’électricien, Maurice Cousonneau, le régisseur, Jean-Paul Moulinot,<br />

l’administrateur, Léon Gischia, le peintre, costumier et décorateur.<br />

“Nous étions une douzaine” rappelle Georges Amoyel, l’architecte “à nous jetez corps et âme dans<br />

ce qu’il faut appeler la première décentralisation”. “C’était le régne de la débrouille”.<br />

La presse parisienne représentée par Le Figaro, Le Parisien Libéré, Paris-Presse et Le Populaire<br />

accueille l’événement avec enthousiasme. La municipalité salut cet hommage et exprime toute sa<br />

satisfaction. [Charpier dira]: “Il ne nous échappera pas dès lors, que l’incidence de telles initiatives<br />

1 Allora come oggi “l’alto patronato” di un qualche organismo politico conta poco dal punto di vista<br />

operativo ma aveva già un ruolo importante del punto di vista dell’immagine e della comunicazione<br />

(N.d.T.).<br />

289


dépasse la cité des Papes… En cela nous n’avons fait che continuer le programme que nous nous<br />

étions tracé: faire d’Avignon un centre culturel et artistique susceptible d’attirer et de retenir tous<br />

ceux qu’intéressent les arts et les lettres”.<br />

Al di là del normale entusiamo degli amministratori cittadini, con la “Semaine” Vilar<br />

impose una nuova formula, concependo una forma di decentralizzazione culturale vera<br />

e in tempi non sospetti. All’epoca, infatti, non era facile realizzare iniziative culturali di<br />

valore nazionale al di fuori di Parigi.<br />

Se a livello strategico il Festival di Avignone nasceva sotto i migliori auspici grazie<br />

alla congiunzione di una volontà artistica e una forte volontà politica a livello locale; dal<br />

punto di visto strettamente operativo, cosa che mi interessava considerare in quel<br />

momento, il Festival funzionava in una situazione che, a voler essere buoni, era di<br />

confusione creativa. «C’était le régne de la débrouille!», dominava l’arte<br />

dell’arrangiarsi. D’altro canto, Vilar non stava solo sperimentando un nuovo modo di<br />

fare teatro e cultura, stava mettendo assieme nuove pratiche, nuovi modi di lavorare e di<br />

organizzare una manifestazione; stava realizzando nella più profonda “periferia<br />

culturale” francese una progetto che somigliava più a un prototipo, ad una fuoriserie,<br />

piuttosto che ad una utilitaria, in quanto un evento con quelle caratteristiche non era mai<br />

stato organizzato in tempi moderni al di fuori di una grande città. Era un innovatore<br />

anche da quel punto di vista.<br />

Per avere un’idea di come siano cambiate le cose da allora, per quanto riguardava<br />

almeno gli aspetti tecnici, facciamo un salto in avanti di cinquanta anni, utilizzando<br />

come esempio, ancora una volta, l’edizione del 1996. Anticipo al lettore che il racconto<br />

si riferisce al secondo mandato di direzione del Festival a Bernard Faivre d’Arcier,<br />

considerato un “vero” organizzatore, un professionista, come si direbbe oggi, nel<br />

“project management” nel settore dello spettacolo (o un esperto nel “lavorare per<br />

progetti culturali”):<br />

«L’équipe technique du Festival est composée d’un peu plus de 200 techniciens. Les premières<br />

embauches se situent courant avril. Ce sont essentiellement des réfisseurs travaillant sur<br />

l’organisation et des constructeurs (menuisiers, surruriers, électriciens…). Environ 85 régisseurs<br />

généraux ou specialisés sont affectés à une vingtaine de lieux scéniques. 110 personnes sont<br />

réparties sur des équipes dites “volantes” qui viennent en refort sur les montages, démontages et<br />

sur l’exploitation des spectacles. Ce sont également elles qui installes les gradins, plateaux,<br />

structures luminiéres, loges, puissance électrique. Le roulement des horaires des techniciens<br />

permet un travail jour et nuit. Le Festival possède un parc important de matériel mais qui ne suffit<br />

pas pour satisfaire correctement à tous ses bosoins techniques. Aussi le Festival a-t-il mis en place<br />

un système d’échanges de matériel avec d’autres grandes structures culturelles».<br />

Nel programma del 1996 emergevano anche alcune delle problematiche di ordine<br />

gestionale legate ad una tale scelta produttiva:<br />

«[…] Sans doute, la contrainte la plus forte est-elle celle du financement du projet. Contrairement<br />

au festivals lyriques qui peuvent presque entirèrement produire les spectacles qu’ils proposent 1 , le<br />

Festival ne peut, compte tenu de son budget (45 millions par ans – ndt.: cifra espressa in franchi;<br />

oggi il budget si aggira tra i 9 e i 10 milioni di euro) et de son amplitudes (45 spectacles environ),<br />

financer qu’une petite partie de coût de la production du spectacle. En revanche, il se fait une règle<br />

de couvrir les frais des représentations en Avignon (pré-achat du spectacle, droits d’auteur,<br />

transports et défraiements, coûts techniques, coût d’organisation et de promotion, etc.).<br />

1 Il riferimento esplicito è a casi come quello del Festival d’Automne di Parigi, per citarne solo uno dei<br />

più prestigiosi (completare …) .<br />

290


C’est dire que le Festival fait appel à de nombreux partenaires et participe pleinement à<br />

l’élaboration du plan de financement de chacun des spectacles. Les procédures de coproduction ou<br />

de co-réalisation utilisées expliquent le nombre et la variété des institutions citées aux génériques<br />

des spectacles. Ainsi le Festival collabore-t-ils très fréquemment avec des centres dramatiques et<br />

des scènes nationales et très règulièrement avec des organismes associés tels que France Culture,<br />

l’Adami, Beaumarchais, la SACD, l’ANPE-Spectacle et pour ce qui concerne les relations avec<br />

l’ètranger, les services culturels des ambassades de France, l’AFAA ou les département des<br />

Affaires internationales du ministère de la Culture» (corsivo nostro).<br />

Sempre con riferimento agli aspetti tecnici, la situazione attuale non era molto<br />

differente. Nel 2004, primo anno della nuova direzione, sbirciando all’interno della<br />

Cour d’honneur, già da aprile si vedeva un gran lavorare, e molto avveniva sotto gli<br />

occhi dei turisti che visitavano il Palazzo dei Papi:<br />

« “Cette année, le travail se déroulera en trois phases. La première (jusqu’au 30 avril) permet la<br />

mise en place du plancher de référence de la scène et du gradin; lors de la deuxième phase (du 10<br />

au 29 mai) le gradin sera monté, enfin, la dernière tranche (30 mai-11 juin) concernera<br />

l’équipement en son et lumière du lieu.<br />

C’est donc à la mi-juin, dans le cadre magique du Palais des Papes, transformé en gigantesque<br />

théâtre avec ses coulisses, sa scène de 540 m 2 et ses 1.973 siéges, que les répétitions pourront<br />

commencer […]. “Une scène comme celle-là il n’y en a pas ailleurs”. Afin de permettre la visite<br />

du Palais des Papes par le public, les techniciens travailleront entre 19 heures et 4 heures du matin.<br />

Ils seront entre sept et quinze chaque jour, en fonction des phases de réalisation et travailleront<br />

sous l’œil attentif de Philippe Varoutsikos. Ce perfectionniste passionné était machiniste sur le<br />

festival en 1985 pour devenir ensuite régisseur général. Son domaine? La Cour d’honneur, le<br />

montage, le démontage, l’accueil des compagnies… et le plaisir toujours renouvelé “Une scène<br />

comme celle-là, il n’y en a pas ailleurs, explique-t-il, elle accueille tous types de spectacles, les<br />

compagnies viennent avant, mais cela ne les empêchent pas de nous poser quelques difficultés!<br />

Certaines compagnies créent même deux decors, un pour la Cour d’honneur et un autre pour la<br />

tournée”. […] Le festival 2004 n’en est donc qu’à ses débuts et la Cour d’honneur appartient pour<br />

l’heure aux techniciens, acteurs à part entière de la réussite de l’événement» (da “Dauphiné –<br />

Vaucluse” del 28 aprile 2004).<br />

Anche i tanto contestati “sottotitoli” degli spettacoli in lingua orginale comportavano<br />

delle problematiche di ordine organizzativo e tecnico: procedure particolari e un gran<br />

numero di professionisti che lavorano sullo specifico problema:<br />

«Surtitrage, l’autre vedette du Festival. Un procédé courant au cinéma, tout autant à l’Opéra, et qui<br />

fait son entrée dans le monde du théâtre depuis quelques années. Le surtitrage, ou la possibilité de<br />

découvrir des spectacles en langue originale… surtitreée. À Avignon, la technique n’a rien de<br />

neuf, puisqu’elle est apparue dans les salles dès 1996, grâce à un logiciel spécialement mis au<br />

point pour la manifestation. En 1999, 12 spectacles étaient présentés en langue originale sur-titrée.<br />

En 2002, on en comptait 10 au total. Cette année, il y en aura 9. Mais les sur-titres franchissent<br />

désormais la haute muraille de la Cour. Tout un symbole…<br />

Différentes techiques: la première, par projection, la seconde dite “LCD” (ou Liquid Crystal<br />

Display), qui obèit aux mêmes principes que les affichages d’information des bus par example. Au<br />

total, ils sont cinq surtitreurs à œuvrer pour adapter à notre langue les paroles venues d’ailleurs.<br />

L’un d’entre eux travaille exclusivement aux coté de Thomas Ostermeier pour les trois spectacles<br />

“parlants” présentès cette années. Profession, traducteur-surtitreur.<br />

Uli Menke a donc en charge la retranscription des textes originaux de Büchner ou d’Ibsen… Un<br />

long travail de préparation l’a conduit, d’abord, à partir d’une video, à saisir parfaitement les prises<br />

de parole des comédiens, et le rythme des spactacles, pour y coller au mieux. Il a ensuite enregistré<br />

les textes en français dans son ordinateur, poue les diffuser, le grand soir venu […] sur les<br />

panneaux installés à cet effet. Les lettres vertes fluorescentes dévoilent le texte au rythme de deux<br />

phrases par panneau.<br />

291


Dans la cour, deux pans de 3 mètres sur 0,80, disposés à gauche et à droite de la scène et qui<br />

permettent de lire sans risquer un effroyable torticoli. De lire, sans perdre non plus le mouvement<br />

des comédiens, sur le plateau. “Il faut absolument s’adapter à la lecture du spectateur, et le laisser<br />

respirer entre les textes”, commente Uli Menke, “Woyzeck c’est un spectacle avec relativement<br />

peu de texte. 500 panneaux pour un spectacle de 2h 10, contre 1400 pour Nora par example”. On<br />

l’interroge sur d’éventuelles catastrophes, et il se souvient, dans un sourire, d’un comédien qui<br />

avait oublié un pan entier de son texte durant un spectacle. Lui avait dû passer sur les passages<br />

correspondants en français! Mais, comme souligne Caroline Marcilhac, directrice de production:<br />

“Le surtitrage s’intègre dans la fragilité et les risques inhérents du spectacle vivant, ni plus ni<br />

moins”. Voilà qui est dit.» (da “La Provence”, del 9 luglio 2004).<br />

E poi, accanto ai tecnici, c’erano “gli angeli custodi 1 ”. Ogni tanto era possibile<br />

risconoscerne qualcuno correre da un luogo all’altro del Festival. Una funzione poco<br />

nota al grande pubblico, che operava dietro le quinte, ma con compiti molto importanti.<br />

L’appellativo era efficace, suggestivo. E particolarmente adeguato. Naïd era molto<br />

giovane e molto indaffarata: il suo compito, che svolgeva con estremo zelo, era di<br />

vegliare sulle compagnie che le erano state affidate in custodia fin dal loro arrivo ad<br />

Avignone. «Essere un angelo custode al Festival» diceva Naïd tenendo il telefono in<br />

mano «significa molto semplicemente essere il referente di un certo numero di<br />

compagine». Parlava con modestia del suo lavoro e non era troppo segnata dalla fatica<br />

degli ultimi tre mesi di lavoro. Da maggio lavorava ed era in contatto diretto con una<br />

dozzina di compagnie per risolvere ogni tipo di problema: in alcuni dei tanti episodi<br />

vissuti, si ricordava di una volta in cui era impazzita per procurare ad un aiuto regista<br />

del nastro adesivo che doveva essere assolutamente arancione mentre in un’altra<br />

circostanza doveva trovare un pappagallino. Non osai domandarle se doveva essere<br />

vivo…<br />

«Ma siamo impegnati soprattutto per vegliare sulle compagnie» riprendeva «per<br />

l’accoglienza, le trasferte, informazioni… In altri casi dobbiamo semplicemente essere<br />

presenti, per mostrare loro che non solo soli, persi nella massa del Festival». Sorrideva<br />

dolcemente: «E la presenza, quest’anno, era particolarmente importante per gli artisti.<br />

Sono stati molto discussi dalla stampa e dal pubblico. Tocca a noi allora di sostenerli e<br />

di incoraggiarli [era l’edizione del 2005 – N.d.T.]».<br />

Dal punto di vista operativo, il loro lavoro era determinante: «in questa forma e con<br />

questo appellativo» rifletteva Naïd «credo che non esiste da nessuna altra parte». Ogni<br />

anno i posti erano assegnati a persone differenti e questo permetteva una certa rotazione.<br />

Per lei, che era alla fine dei suoi studi alla Scuola nazionale superiore delle arti del<br />

teatro di Lione, «é uno straordinario trampolino di lancio» per lavorare in quel settore.<br />

«Ho incrociato molti programmatori che sono stati angeli custodi qualche anno fa. E’ il<br />

miglior stage che ho mai fatto! Ho imparato tutto ciò che non avrei mai potuto<br />

apprendere a scuola. Ma è stato soprattutto un enorme arricchimento personale: ho fatto<br />

molti incontri molto toccanti e ho condiviso dei momenti molto forti tanto con gli artisti<br />

che con il resto del gruppo del Festival». Tra poco il Festival terminerà e i piccoli angeli<br />

riprenderanno presto il volo. «Gli arrivederci sono difficili. Dopo tanta agitazione e<br />

tante emozioni… Sento già un grande vuoto dentro». Gli angeli custodi che vidi lì<br />

all’opera non avevano, forse, le ali, ma sembravano comunque aver trovato il loro<br />

paradiso!<br />

Soprattutto le relazioni e le attività dell’artista associato erano complicate da gestire.<br />

Io stesso ebbi grosse difficoltà a seguire Jan Fabre, nel 2005, in tutti i suoi innumerevoli<br />

1 Questa parte del racconto è basata su un articolo apparso su “La Provence” del 27 luglio 2005 (N.d.T.).<br />

292


impegni pubblici durante il Festival. In una giornata tipo, gli incontri “ufficiali”<br />

cominciavano piuttosto presto, considerando che la sera prima erano finiti piuttosto<br />

tardi: già alle 10 le prime interviste ai giornalisti; alle 11 e 30, quasi sicuramente, c’era<br />

una conferenza stampa pubblica; alle 12 un altro incontro ufficiale con un<br />

amministratore o un giornalista; poi, non lo dimentichiamo, c’erano, pur sempre, le<br />

prove dello spettacolo della sera, la colazione di lavoro con i direttori del Festival, che<br />

spesso si riduceva ad un panino mangiato per strada; alle 15 e 30 o alle 16 era un’altra<br />

finestra tradizionale per gli incontri-dibattito aperto al pubblico, fino alle 17 e 30. Dopo<br />

una veloce doccia in albergo, magari accompagnato dal taxi se si trovava nel raggio di<br />

qualche chilometro, cominciavano gli impegni della notte, a cominciare dalla presenza,<br />

in prima fila, allo spettacolo della sera: magari si trattava dell’ultima delle<br />

rappresentazioni del secondo spettacolo alla Cour d’Honneurs e non si poteva mancare;<br />

generalmente la cena era rimandata alla fine dello spettacolo, tra la mezzanotte e l’una o<br />

anche più tardi, ma ad Avignone non c’erano problemi di orario per i ristoranti, specie<br />

durante il Festival.<br />

Per l’artista associato, e in generale per gli artisti impegnati direttamente nella<br />

programmazione, risultava sempre difficile andare a vedere gli spettacoli dei colleghi.<br />

Gli stessi direttori raccontavano spesso che, per quanto cerchino di aggirarsi per i vari<br />

luoghi che ospitavano le rappresentazioni, risultava loro difficile vedere tutti gli<br />

spettacoli per intero, almeno una volta. Gli incontri, quindi, avvenivano molto di<br />

frequente durante le prove, quando si vedono spezzoni di lavoro, tra una pausa e l’altra,<br />

oppure la notte, molto tardi. O meglio, di mattina, molto presto. C’erano anche luoghi<br />

specifici dove era più facile incontrare i professionisti. E di solito erano i posti più<br />

impensati per la loro ordinarietà.<br />

Ricordavo che la sera dell’ultima rappresentazione dello spettacolo che Josef Nadj<br />

presentò nel 2005, Last Landscape, vi era una insolita concentrazione di artisti e<br />

professionisti tra il pubblico. Lo spettacolo, nella Corte del Liceo Saint-Joseph,<br />

cominciava a mezzanotte e, tra i visi che incrociai e riconobbi, vi erano Jan Fabre,<br />

artista associato di quella edizione, Thomas Ostermeier, l’artista associato dell’anno<br />

precedente, il direttore Vincent Baudrillier, Olivier Py, Pippo Delbono, e alcuni altri.<br />

Josef Nadj sarebbe stato l’artista associato dell’edizione successiva del 2006.<br />

Torniamo all’organizzazione della Semaine d’Art en Avignon, che si sarebbe tenuta<br />

dal 4 al 9 settembre 1947. Mentre il fedele “tuttofare” Maurice Coussonneau, tra guigno<br />

e agosto, era ad Avignone a preparare le infrastrutture tecniche della scena e a<br />

mantenere i contatti locali, Jean Vilar era a Parigi (al Théâtre Edouard VII) per le prove<br />

degli spettacoli da presentare ad Avignone. Non era facile comprendere le difficoltà<br />

logistiche di questo tipo di situazione. Ad esempio, come avvenivano le comunicazioni?<br />

Come avveniva il coordinamento di una organizzazione che di fatto operava a centinaia<br />

di chilometri di distanza? Il carteggio tra Vilar e i suoi collaboratori era davvero<br />

fittissimo. In effetti era vero: così come può avvenire oggi, gli ordini del giorno, il<br />

calendario delle attività, gli aggiornamenti e lo stato di avanzamento dei lavori,<br />

avvenivano per iscritto. Ma vista la distanza, questo poteva avvenire solo a stretto giro<br />

di posta.<br />

Ecco cosa scriveva Vilar a Gischia, artista e suo scenografo e costumista:<br />

«Paris, 10 août 1947. Cher Gischia, […] En ce qui concerne les costumes, déposés chez moi<br />

depuis quinze jours à présent, et que j’essaie les uns après les autres, il y a quelques manquements:<br />

- il y a qu’une cape noir pour les dames d’honneur Tour de Londres; il en aurait fallu plus.<br />

293


- Les parements des bottes (et c’est grave pour l’aspect coloré de vos costumes) font défaut. Nous<br />

allons voir un travail de réfection d’ensemble pour tous les costumes à bottes assez délicat. Tous<br />

ceux qui n’ont pas de robes risquent de pêcher par le bas – Ou bien alors vos teintes des maquettes<br />

ne seront plus respectées, et ce serait très emmerdant […].<br />

Cher Léon, je n’ai pas encore tout vu. Chaque soir je passe, j’enfile duex, trois costumes ou bien<br />

les comédiens viennent les “fréquenter” chez moi. Je vous tiendrai au courant.<br />

Passez d’agréables vacances. Mes bonne amitiés à Jerry. /À bientôt<br />

Vilar» (Jean Vilar par lui même, 1991: 62).<br />

Allo stesso modo, dava istruzioni a Maurice Coussonneau per il montaggio delle<br />

scene:<br />

«Cher Maurice,<br />

Ci-joint deux lettres:<br />

1°) l’une (les deux premiers feullets) ont été écrites avant ma rencontre avec Prévost<br />

2°) les feuillets suivants ont été écrits après une entrevue avec Prévost et la mise au courant qu’elle<br />

m’a faite des préparatifs actuels en Avignon.<br />

Dans la journée, je ne sors presque pas de l’Edouard VII: j’y répète de 8h du matin à 13h 30 de<br />

16h 30 à 20h 30.<br />

Je suis presque tous les soirs chez moi à partir de 22 heures. À moins de rendez-vous<br />

indispensables» (ibidem).<br />

Nella prima delle due lettere successive, Vilar dava indicazioni a Coussonneau<br />

auspicando che facesse tutto quanto fosse possibile affinché le scene della pièce di<br />

Clavel fossero quanto più sobrie e belle possibili. Spiegava, infatti, che il pubblico<br />

doveva restare concentrato sui contenuti dell’opera stessa che, in quanto inedita, doveva<br />

essere fatta scoprire e amare. Parlava dei materiali da utilizzare e dei colori. Poi si<br />

soffermava anche sui suoni sottolineando, con straordinaria dovizia di particolari, che<br />

aveva bisogno del rumore di una auto che, arrivando da lontano, si fermasse davanti<br />

all’hotel. Poi, chiese che soprattutto per il Richard II e per Tobie et Sara, il palcoscenico<br />

non scricchiolasse in quanto, quel dettaglio, avrebbe disturbato l’illusione di certe<br />

scene. Inoltre, chiedeva se fosse stato possibile inclinare leggermente il palco per il<br />

Richard II.<br />

Ma era la seconda lettera ad essere particolarmente interessante in quanto dettava,<br />

punto per punto, tutti i contenuti della conferenza stampa di presentazione della<br />

manifestazione e a cui lui non poteva essere presente.<br />

Bisognava sottolineare che quella manifestazione avrebbe avuto luogo, da quel<br />

momento in poi, ogni anno, con un programma sempre rinnovato (suggerì che si<br />

facessero delle anticipazione sulla prossima edizione, in cui contava di mettere in scena<br />

un altro Shakespeare e un Honoré de Balzac, e «[…] enfin un gran ballet avec musique:<br />

L’Apocalypse»).<br />

Indicò che si dicesse quali sforzi furono necessari e che non meno di 40-50 persone<br />

parteciparono alla realizzare di tutto questo; inoltre, si doveva sottolineare il fatto che la<br />

messinscena era stata preceduta da tre mesi di prove quotidiane a ritmi serrati.<br />

Inoltre, bisognava dire: che per tutti gli spettacoli si trattava di «création», cioè di<br />

testi originali per le opere (tutte inedite, in quanto mai rappresentate), così come per le<br />

scene, i costumi, le musiche (per Tobie et Sara); di come si stesse cercando di fare ad<br />

Avignone (attraverso gli spettacoli all’aperto alla Cour d’honneur e al Verger d’Urbain<br />

V) quello che altre grandi manifestazioni avevano già cercato di fare per altri campi<br />

dello spettacolo dal vivo (sottolineava di citare Salisburgo per la musica, Firenze per<br />

l’arte drammatica, Bayreuth per Wagner e Orange per la lirica e la tragedia francese e<br />

294


greca); che si trattava quindi di un evento di interesse nazionale, così come avevano<br />

compreso M. Bourdan (ministro) e M. Jaujard (direttore generale delle Belle Arti).<br />

Era necessario sottolineare il ruolo importante del CEAI, che aveva operato in<br />

Francia per far conoscere anche altre importanti troupe internazionali come l’Old Vic di<br />

Londra, La Scala di Milano, l’Opèra di Vienna o il Ballets Joos.<br />

Doveva richiamare il fatto che la troupe non era composta solo da artisti (nominando<br />

uno per uno quanti avevano collaborato per la manifestazione) e che Jean Vilar «c’est<br />

notre camarade et “patron”», non dimenticando di sottolineare le sue origini<br />

meridionali e indicare qualche sua nota biografica; inoltre doveva ricordare il fatto che<br />

senza il ruolo della municipalità niente di tutto questo sarebbe stato possibile.<br />

Ancora, rammentare i nomi: dello scenografo e del costumista; di tutti gli artisti, con<br />

particolare attenzione alle note biografiche di quelli con maggior esperienza e il fatto<br />

che Jean Vilar contribuisse al lancio di alcuni giovani talenti; particolare attenzione<br />

doveva essere data agli autori delle musiche.<br />

Durante la conferenza stampa doveva anche descrivere la scena degli spettacoli,<br />

spiegando alcune delle scelte fatte in termini di scenografia e di recitazione, nonché<br />

ricordare gli autori contemporanei dei testi, con particolare riferimento a Maurice<br />

Clavel, vincitore anche di premi come drammaturgo.<br />

Infine, doveva rammentare ai giornalisti presenti quando la troupe sarebbe arrivata<br />

ad Avignone (indicando anche l’ora di arrivo del treno alla stazione locale), orari e<br />

luoghi per le prove generali e quanto tempo l’organizzazione sarebbe stata presente ad<br />

Avignone.<br />

In calce alla lettera chiedeva all’amico di telegrafare immediatamente a M.me<br />

d’Ornhjem 1 , Segretario Generale della CEAI, domandandole urgentemente doppia copia<br />

di tutti i documenti del traduttore relativi ai testi teatrali e che fossero messi a<br />

disposizione della stampa estera.<br />

Non lasciava nulla al caso, Vilar. Il successivo 21 agosto Coussonneau scriveva a<br />

Vilar che la conferenza stampa era andata esattamente secondo le sue indicazioni e gli<br />

mandava in allegato una rassegna stampa. Poi, alcuni aggiornamenti: la scena del<br />

Riccardo II era pronta; quella per Tobie et Sara lo sarebbe stata il sabato successivo; i<br />

camerini erano stati predisposti. Inoltre, faceva alcune richieste: chiedeva a Vilar di<br />

mandare al più presto le sue indicazioni circa gli schizzi e i disegni per la scena e le<br />

illuminazioni che lo stesso Coussonneau gli aveva fatto avere qualche giorno prima; e<br />

per quanto riguardava il rumore di vettura, l’unico modo per ottenerlo era una<br />

registrazione radio su disco.<br />

1 Così il Cahiers de la Maison Jean Vilar, n. 92, ricordava Mme d’Ornhjelm annunciando la sua<br />

scomparsa alla fine del 2004: «Nous apprenons avec tristesse et respect, le décès d’une personnalité qui<br />

joua un rôle essentiel auprès de Jean Vilar dans l’histoire du Festival […]». Nata nel 1909 a Parigi, da<br />

padre svedese (era un diplomatico di stanza in Francia) e madre greca, madame d’Ornhjelm era una<br />

donna colta e intelligente. Prima donna a frequentare il prestigioso Institut des Études Politiques, durante<br />

la guerra continuerà l’opera del padre nell’aiutare inglesi e americani. Alaric d’Ornhjelm, infatti, a causa<br />

delle informazioni rese agli inglesi durante l’occupazione fu arrestato e deportato ad Auschwitz, dove<br />

morirà. Al momento della divisione della Germania, nel 1945, è inviata a Berlino. L’anno successivo<br />

nasce il CEAI, il cui comitato di direzione è presieduto da Jean-Jacques Brochier. Chrystel d’Ornhjelm ne<br />

diviene subito il segretario generale: tra le altre cose, nel 1946, il CEAI è incaricato di organizzare il<br />

“mese dell’UNESCO” in occasione della prima conferenza generale di questo organismo internazionale.<br />

Nella primavera del 1947, come visto, Jean Vilar chiede l’aiuto di Chrystel d’Ornhjelm per<br />

l’organizzazione degli spettacoli per Avignone. Il CEAI, decondo i desideri di Vilar, diventerà il<br />

principale referente della municipalità di Avignone per tutti gli aspetti organizzativi. Chrystel d’Ornhjelm<br />

resterà segretario generale di questa associazione fino al suo dissolvimento (N.d.T.).<br />

295


Come avveniva nella tradizione teatrale, un altro strumento di comunicazione<br />

fondamentale era il tableu de service (la bacheca con gli ordini di servizio): oggi, al<br />

Festival di Avignone, entrando negli uffici della direzione era difficile trovare appeso,<br />

da qualche parte, il tableu de service, in quanto queste informazioni viaggiavano via email<br />

e tramite newsletter ad uso interno. In altri casi, invece, specie nel lavoro a teatro e<br />

durante le prove di uno spettacolo, questa pratica antichissima permaneva. Ecco alcuni<br />

esempi di note che lasciava Jean Vilar.<br />

«Il s’agit à partir de ce soir de faire très attention aux déroulements des tableaux.<br />

Si chacun assume ses devoirs de comédien, seuls doivent arrêter la répétition les manquements<br />

de la mise en scène.<br />

Il ne s’agit plus à présenter de faire appel à votre bonne volonté. Il s’agit de jouer comme<br />

devant le public.<br />

Chacun de nous, je l’espère, sait bien ce qu’indique d’attention de scrupules, de tenue, cette<br />

simple phrase.<br />

N’oubliez pas que je suis sans recours contre un retard. Mais enfin, en pareil cas, j’ai pour<br />

l’avenir une bonne dose de haine, et de mépris».<br />

Quanto segue si riferiva invece al secondo giorno di prove ad Avignone, il 29 agosto<br />

del 1947:<br />

«Bien des choses sont valables dans les dix tableaux que nous avons répétés hier soir pour la<br />

première fois en Avignon.<br />

Cependent, la première constatation que nous avons à faire est que le sort de ce premier spectacle<br />

dépend de la fidélité de tous à une des disciplines sévères de notre métier. Elle est simple. Je me<br />

permettrai de la résumer en vous rappelant qu’à qualques jours d’une première, la bonne volonté<br />

doit faire place à la volonté, et la gentilesse au dévouement.<br />

Plusiers d’entre nous dirigeant des services dont dépend à prèsent le sort de ce festival. Ces<br />

camarades risquent d’arriver sous peu au bout de leurs forces. Et ce qui est plus grave, le temps<br />

risque de leur faire défaut.<br />

Pour ma part, j’ai tout fait pour, jusqu’ici, concilier la valeur de l’œuvre à réaliser et les besoins et<br />

les forces de chacun. Je n’y suis pas toujours parvenu. À present, seule m’intéresse la qualité des<br />

trois spectacles. J’oublirai donc de ménager la patience de tous et les forces de tous les comédiens<br />

jeunes. Quoi qu’il en soit, je vous remercie d’avoir, pour ce premier soir, assumé cette première<br />

répétition, sans un mot de lassitude.<br />

Il s’agit de recommencer demain. /Jean Vilar»<br />

Questo era il famoso comunicato che Jean Vilar diffuse in quella occasione<br />

memorabile: «Le rappresentazioni che noi daremo ad Avignone dal 4 al 10 settembre<br />

inaugurano un ciclo di arte drammatica. / Tra le mura di questo Palazzo, che impone<br />

nella notte la sua quiete e la sua forza, noi vorremmo poter dare ogni anno degli<br />

spettacoli capaci di misurarsi, senza troppo sfigurare, con queste pietre e con la loro<br />

storia. / Poiché è cosa vana proporre un programma senza giustificarne in anticipo gli<br />

scopi, noi ci spieghiamo: si tratta di unire, come una volta, l’arte generosa del teatro con<br />

il riposo e il piacere dell’uomo. E non più quel riposo esasperato che i teatri chiusi<br />

impongono agli spettatori della grande città, ma quello che la terra, la pietra e il cielo<br />

propongono all’attenzione di tutti nel corso di feste eccezionali. E lo sappiamo bene che<br />

l’arte della scena demerita ogni volta in cui sfugge alle esigenze del cerimoniale, che sia<br />

di ordine confessionale o ideologico. / Questo Palazzo, questa dimora dei Papi francesi<br />

del tempo che fu, è forse tra tutti i luoghi del mondo il più adatto a sostenerci nel nostro<br />

impegno. / Eppure: poiché siamo riusciti a pervenire a questa prima manifestazione;<br />

poiché abbiamo incontrato l’aiuto e la fiducia; poiché ci è permesso di credere che<br />

296


questa opera del primo giorno non sarà unica; per tutto questo, non è più a noi che per<br />

quest’anno spetta la decisione ed è con molta fiducia che noi attendiamo il giudizio di<br />

tutti 1 ».<br />

Jean Vilar non era, dunque, solo un grande artista e dal punto di vista organizzativo<br />

non dominava solo “l’arte dell’arrangiarsi”. Quest’ultima era legata all’esigenza di<br />

sviluppare pratiche di lavoro “inventando” letteralmente soluzioni a problemi continui<br />

di ordine operativo, in condizioni di emergenza, legate soprattutto alle prime edizioni<br />

del Festival. Inoltre, Vilar si dimostrò straordinario nell’individuare i suoi collaboratori<br />

e nel gestirne i rapporti.<br />

Soprattutto durante il periodo alla guida del TNP, la cui struttura organizzativa fu la<br />

stessa che diresse il Festival in quegli anni, tutti i suoi collaboratori non cessarono di<br />

scoprire e di evidenziare in lui i caratteri dello straordinario organizzatore, del manager,<br />

del leader. L’avventura del TNP fu importante non solo perché, per lungo tempo, la sua<br />

struttura coincise con quella dell’organizzazione del Festival di Avignone; in quel<br />

periodo molti dei problemi di ordine gestionale incontrati a Parigi d’inverno divennero<br />

comuni a quelli riscontrabili ad Avignone durante l’estate e costituirono un esempio<br />

emblematico di come Vilar sapesse coniugare il suo originale stile drammatico (cosa<br />

che ne fecero un attore ed un regista di grande talento) ad una grande creatività ed<br />

originalità anche nel far nascere, praticamente dal nulla, un modo nuovo di gestire un<br />

grande teatro e una grande manifestazione. Molte delle soluzioni sperimentate a Parigi,<br />

infatti, vennero presto portate ad Avignone, per essere replicate o semplicemente<br />

migliorate e adeguate alle esigenze specifiche del Festival.<br />

Subito dopo la nomina a direttore del TNP, Jean Vilar devette affrontare il problema<br />

del personale. In questo caso non si trattava di cominciare da zero, c’era già una<br />

struttura, seppur con enormi problemi. Così Bardot, autore di una bella biografia di<br />

Vilar, riprese quella situazione specifica:<br />

«“[…] Jean Vilar est confronté à un autre problème, celui du personnel. Qui faut-il reprendre?<br />

Qui faut-il congédier? Il décide de réemployer toutes les ouvreuses, l’huissier pour lequel, dit-il “je<br />

n’ai aucune observation à faire pour l’instant”, les concierges et M. Fresnac qui pourrait devenir<br />

chef du personnel. […] En ce qui concerne les 17 machinistes, les 6 électriciens et les 6<br />

accessoiristes, Vilar décide d’engager des négociations avec la Fédération du spectacle pour fixer<br />

les modalités de réemploi.<br />

Vilar distribue alors les emplois. L’admnistrateur général sera Jean Rouvet; le secrétaire<br />

général à la propagande, Claude Planson; le prospecteur, Maurice Coussoneau, déjà lié par un<br />

contrat jusqu’au 31 octobre; l’assistant d’administration Jean-Claude Hulot; le conseiller juridique<br />

Mme Marescot; le directeur musical, Maurice Jarre; les conseillers artistiques Léon Gischia, Jean-<br />

Claude Moulinot, Charles Chezeau et peur-être Sonrel. Les comédiens retenus pour le 1er octobre<br />

sont: Gérard Philipe, Jean Négroni, Charles Denner, René Belloc, Jean Leuvrais, André Schlesser,<br />

Jean-Paul Moulinot. Les comédiennes sont: Françoise Spira, Monique Chamette, Jeanne Moreau<br />

et Lucienne Le Marchand» (Bardot, 1997: 227).<br />

Molti di questi nomi erano collegati alla nascita del Festival di Avignone o a quello<br />

specifico periodo della sua vita professionale. Si trattava di persone di cui si fidava.<br />

Inoltre, rimasi colpito da questo documento, attraverso cui si poteva capire quale era<br />

l’ambiente che Vilar costruiva con i suoi collaboratori: era una trascrizione della<br />

formula contrattuale con la quale scritturava tutti, personale artistico, amministrativo e<br />

tecnico.<br />

1 Tratto dall’originale riprodotto in:AA.VV., Vilar par lui même, p. 68 (N.d.T.).<br />

297


«Art. A: M… a l’honneur de faire au service de la Compagnie Théâtre national populaire du…<br />

au…<br />

Art. B: M… s’engage à mettre au service du Théâtre national populaire toutes ses qualités<br />

professionnelles. Il s’engage à travailler dans le meilleur esprit au sein de la Compagnie. Il<br />

s’engage à n’y exercer aucune propagande confessionnelle au politique susceptible de porter<br />

atteinte à la bonne marche du travail et à l’union générale. […]» (Bardot, 1997: 245).<br />

E nell’introduzione dello specifico accordo con gli artisti si leggeva:<br />

«[le comédien] n’ignore pas que l’entreprise TNP est une œuvre nationale et comme telle<br />

implique de l’artiste plus encore que dans un théâtre de secteur privé un sens absolu des devoirs<br />

civiques et professionnels. Il doit avoir la passion de la chose bien faite, admettre que les directives<br />

du metteur en scène ou du directeur obéissent strictement et uniquement à ce souci» (Bardot, 1997:<br />

228).<br />

“Onore” e “unità”, “senso del dovere” e “passione”: su questo si basava il rapporto di<br />

collaborazione tra Vilar e tutti coloro che lo seguivano. E il lettore capisce quale<br />

carisma potesse avere un uomo che era in grado di infondere questi principi nelle<br />

persone che lo circondavano. La situazione di partenza non era certo facile e parlare di<br />

“onore” e “unità” in quelle condizioni poteva suonare come artificioso. Eppure, “non si<br />

poteva dire di no” a Vilar, e, soprattutto, tutti si fidavano della sua guida.<br />

Dicevo che le condizioni di partenza erano difficili: si partì con un apporto personale<br />

di Vilar di 500 mila franchi. Pensando ai contratti con gli artisti, propose loro un<br />

trattamento fisso di 30 mila franchi lordi versati a tutti i membri della troupe, ai quali<br />

aggiungere 800 franchi per rappresentazione e il rimborso per le spese di trasposto. Le<br />

altre condizioni: M. Vilar era il solo giudice per quanto concerneva l’attribuzione delle<br />

parti, gli artisti potevano partecipare ad un film solo previa richiesta a M. Vilar. Pensi il<br />

lettore cosa questo potesse significare per un attore come Gérard Philipe, considerato un<br />

divo, nel pieno della sua carriera. Ma Philippe era legato a Vilar da un rapporto di<br />

affetto e di stima, per altro reciproci, con pochi eguali.<br />

In particolare, Sonia Debeauvais, a lungo una delle collaboratrici di punta di Jean<br />

Vilar, raccontava con dovizia di particolari il modo in cui Vilar e i suoi più stretti<br />

collaboratori prendevano le decisioni, agivano, risolvevano questioni di quotidiana<br />

amministrazione e facevano scelte strategiche di lungo periodo di fronte a problemi di<br />

ampio respiro. Sonia Debeauvais:<br />

«Je suis entrée dans l’équipe du TNP en 1956. L’avais reçu la troupe peu de temps avant,<br />

quand j’étais femme de consul à Anvers. De retour à Paris, je cherchais du travail et je tombe sur<br />

une petite annoce dans l’Express: le TNP recherche une sécrétaire d’administration. Je suis reçue<br />

par Jean Rouvet qui, d’abord méfiant, m’engage finalement pour une poste plus intéressant. Après<br />

deux ans au TNP, où je m’occupais du journal Bref, de l’association des amis de Bref et des<br />

diverses manifestations annexes (conférences, dialogues, etc.), Rouvet m’a fait descendre à<br />

Avignon. Nous étions très peu à avoir ce privilège. J’ai donc pris le train de nuit et j’ai découvert<br />

Avignon au petit matin, Avignon vide, avec les garçons qui balaient les terrasses des cafés sur la<br />

place de l’Horloge. A huit heure j’étais dans la tente de Rouvet qui me dit: “Vous avez huit jours<br />

pour remplir la Cour, pour la première des Caprices de Marianne, le 15 juillet”. Je ne connaissais<br />

rien ni personne à Avignon! Il m’a présenté Paul Puaux le matin même. Avec lui, j’ai sillonné la<br />

région. Nous sommes partis voir les cheminots, les usines du Pontet, les Caisses d’allocations<br />

familiales. Nous avons résussi à convaincre les comités d’entreprise, les associations culturelles.<br />

Paul connaissait très bien le terrain, il était du pays et maîtrisait la situation. Aux travailleurs qui<br />

nous disaient qu’ils voulaient faire paisser en priorité leurs rivendications salairales, Paul répondait<br />

que s’ils attendaient le règlement de leurs conflits pour s’occuper des problèmes culturels, ils<br />

n’auraient jamais ni la force ni le temps de s’y intéresser. Les contacts étaient forts, directs,<br />

298


chaleureux. Pour moi, tout cela était très concret. Cette impression charnelle m’est restée. Revenir<br />

à Avignon chaque année, c’était comme retoucher terre. Le bonheur de la ville er de la vie se<br />

confondaient».<br />

Al momento della sua nomina Jean Vilar si trovava subito di fronte ad un problema<br />

notevole: il palazzo di Chaillot, che doveva ospitare il TNP era occupato dall’ONU.<br />

Con le parole di Sonia Debeauvais: «C’est une occasion de manifester par un coup<br />

d’éclat qu’au TNP rien ne sera comme ailleurs 1 ».<br />

Il 15 novembre del 1951 il pubblico fu convinto a passare due giorni assieme alla<br />

compagnia del TNP: il prezzo del biglietto era veramente irrisorio, ma l’obiettivo era<br />

quello di avvicinare il pubblico a quel luogo “nuovo”. Nel pomeriggio del sabato il<br />

programma prevedeva un concerto, seguito da un recital di Maurice Chevalier. Poi,<br />

dopo la cena, fatta assieme all’équipe del TNP, la prima rappresentazione del Cid a<br />

Parigi. La domenica mattina era in programma il primo incontro col pubblico di Jean<br />

Vilar e degli artisti: era una novità assoluta per quei tempi. A seguire, sempre nella<br />

mattinata, la prima rappresentazione di Mère Courage. Il week-end sarebbe terminato,<br />

per la gioia collettiva, con un grande ballo assieme a tutta la troupe. Nel corso degli anni<br />

successivi ne seguiranno molti altri: era diventata una piacevole consuetudine.<br />

Ma di fatto, solo il 30 aprile dell’anno successivo Vilar e la sua troupe presero<br />

possesso della loro sala, dopo aver passato cinque mesi in tournée forzata, girando per<br />

la periferia di Parigi, in un palco mobile attrezzato ad una delle porte della città, ma<br />

anche all’estero, in provincia, oltre che al teatro degli Champs-Elysées.<br />

Per un teatro di produzione, con una compagnia stabile, la mancanza della sala<br />

teatrale era un fatto piuttosto grave: era come se mancassero i macchinari, la “fabbrica”,<br />

gli attrezzi e i reparti principali di una qualsiasi industria; la “produzione” la devi fare<br />

altrove, con problemi logistici notevoli, essendo la troupe costretta a portarsi dietro le<br />

attrezzature e le scene, i costumi e i materiali di scena.<br />

Continuando il confronto con quanto avveniva oggi al Festival di Avignone, anche<br />

Hortence Archambault e Vincent Baudrillier lamentarono l’assenza di uno spazio<br />

“relativamente tranquillo” che fosse completamente a disposizione degli artisti nelle<br />

ultime settimane prima dello spettacolo: ad oggi, le prove avvenivano direttamente negli<br />

spazi del Festival con notevoli problemi di rotazione e di utilizzo degli spazi.<br />

Anche qui, si era cercato di ovviare ad alcuni problemi pratici anticipando, per<br />

esempio, il montaggio della scena nella Cour d’honneur, in modo da evitare che le<br />

prove avvenissero durante i lavori dei tecnici. Ma anche in questo caso tutto ciò aveva<br />

un costo evidente.<br />

Anche Vilar aveva problemi di “spazio”, e nella sala del Teatro di Chaillot incontrò<br />

gli stessi problemi del palco della Corte d’onore. Direttamente dal racconto di Sonia<br />

Debeauvais:<br />

«Quelle est alors la situation? Jean Vilar se trouve intallé dans le quartier le moins populaire de<br />

Paris, le XVI arrondissement. La salle est immense (2.700 places), très peu faite pour le théâtre.<br />

L’ouverture de la scène est de 70 m; le spectateur du dernier rang se trouve à 50 m du plateau.<br />

Le trois premières saisons, il n’est pas question de remplir pendant plusieurs mois cette nef<br />

immense. Aussi la troupe ne joue-t-elle à Paris qu’en novembre, décembre, février et mars. Tout le<br />

reste de l’année elle est en tournée, à l’étranger, en province, en banlieue et l’été à Avignon. Les<br />

créations doivent se succéder à un rytme haletant. L’équipe est réduite: une vingtaine de<br />

1 Roy, 1987: 118 (N.d.T.).<br />

299


comédiens pour jouer, à certaines périodes, sept pièces en alternance. Il n’y a que sept cadres<br />

techniciens.<br />

Il faut attendre la quatrième saison (1953-1954) pour voir la troupe rester à Paris du 3<br />

novembre au 13 mars, sans abandoner pour autant ses représentation en banlieue» (Roy, 1987:<br />

118-199).<br />

Ma Jean Vilar non era certo tipo da scoraggiarsi: non si era lasciato impressionare<br />

dalle dimensioni della Cour d’honneur, e non era certo uno spazio come quello di Parigi<br />

a preoccuparlo. Dal punto di vista tecnico, la sala teatrale e il palcoscenico costituiscono<br />

l’essenza della macchina teatrale. Come poteva una sala da 2.700 posti essere un<br />

problema? In effetti lo era, e non solo per poterla riempire, ma soprattutto per questioni<br />

tecniche e legate alla recitazione: lo spettacolo dal vivo era legato alle esigenze<br />

“fisiche” dell’attore che doveva recitare sfruttando la sua voce e senza (o con pochi)<br />

aiuti di natura tecnica. E poi era anche un problema per gli spettatori: una persona che si<br />

trovava a 50 metri dal palcoscenico, anche se riusciva a sentire alla perfezione grazie ad<br />

una acustica eccezionale, avrebbe avuto comunque i suoi problemi a poter vedere tutti i<br />

dettagli della scena. Ma il problema di Vilar non era quello di riempire la sala (o non<br />

solo). Desiderava che lo “spettatore del TNP si sentisse a casa propria”. E in effetti,<br />

proprio a partire dalla stagione 1953-1954 Vilar mise in pratica a Parigi, d’inverno,<br />

quello che stava imparando ad Avignone durante l’estate.<br />

Ancora Sonia Debeauvais:<br />

«Mais c’est sans attendre qu’est inventée, per étapes, une nouvelle forme de relation avec le<br />

public. Toutes les mesures d’organisation mises en œuvre progressivement et qui se heurtent<br />

chaque fois à de lourdes résistances, ont un même objectif: faire tomber les barrières qui<br />

empêchent un spectateur non initié d’aller au théâtre, le faire se sentir chez lui au TNP» (Roy,<br />

1987: 119, corsivo nostro).<br />

Oggi si direbbe che Jean Vilar stesse mettendo a punto delle strategie di marketing<br />

per raggiungere un nuovo pubblico, cioè per creare nuove fette di mercato, allargando la<br />

torta di quello già presente. Ma vediamo a cosa aveva pensato davvero.<br />

«Certaines de ces innovations peuvent paraître ne concerner que des petits détails matériels.<br />

Chacune pourtant joue un rôle important en modifiant le climat de l’accueil. Enumérons-les<br />

rapidement:<br />

1. D’abord, et c’est fondamental évidemment, le prix des places est très bas: de 100 francs à 400<br />

francs. A cette époque, le prix des places à la Comédie-Française allait de 400 francs à 1200<br />

francs, celui des théâtres privés était bien sûr beaucoup plus élevé encore.<br />

2. Le programme du spectacle, vendu 1 franc, comporte le texte de la pièce, avec des photos,<br />

sans aucune publicité. Cette innovation est essentielle car lorsqu’un spectateur accède pour la<br />

première fois à une œuvre avec laquelle il veut familiariser, il lui est extrêmement utile de pouvoir<br />

la relire tranquillement chez lui, alors qu’il a encore dans l’oreille les voix des comédiens et qu’il<br />

est aidé par son souvenir de la mise en scène. Sans le même souci, le TNP publie un modeste<br />

journal mensuel, Bref, qui présente les œuvres inscrites au répertoire.<br />

3. Les formules de location sont mulipleés: location par correspondance, avec envoi des billets,<br />

location par téléphone, location pendant les entractes, mais pas de location par les agences, qui<br />

auraient prélevé leur bénéfice sur le prix des places. Aucun de ces systèmes de location n’existait<br />

avant le TNP.<br />

4. L’heure du spectacle est avancée à 20 heures, pour permettre aux spectateurs de rentrer plus<br />

tôt chez eux. Les portes du théâtre son ouvertes dès 18 heures 30 et in peut dîner sur place<br />

simplement, au son d’un orchestre.<br />

5. Enfin, tous le pourboires (aux ouvreuses, aux dames vestiaires) sont supprimés. Peut-être ce<br />

dernier détail est-il un des plus importants, car il a beaucoup contribué à donner au spectateur<br />

l’impression – justifiée – de n’être pas un client qu’on exploite» (Roy, 1987: 120).<br />

300


In alcune note realizzate dall’organizzazione del TNP furono raccolti alcuni dati e<br />

alcune cifre significative:<br />

«[…] Le Palais de Chaillot a été remis à Jean Vilar dans un grand état de dénuement.<br />

À la fin de son mandat, Jean Vilar aura racheté pour 45 M<strong>IL</strong>LIONS de matériel technique,<br />

acquis à l’État (Clause 7 du Cahier des Charges). Soit: le montant de la subvention d’État pour le<br />

1953.<br />

En 27 mois: 332 représentation d’auteurs français (61%) (dont 318 de Corneille, Molière,<br />

Musset); 207 reptrésentation d’auteurs étrangers (39%) (dont 145 de Shakespeare, Büchner,<br />

Kleist).<br />

Le “Programme” vendu au TNP apporte le texte complet de l’œuvre, agrémenté de<br />

photographies de scène, à l’exclusion de toute publicité.<br />

110.000 brochures ont ainsi été vendues au cours de l’exercice 1953. 1 spectateur sur 3 achète<br />

la brochure.<br />

[…] Sait-on que l’État récupère 24% de la subvention en taxes et impôts divers (11 millions<br />

pour l’exercice 1952)?<br />

Sait-on que les dimensions de la salle de Chaillont contraignet à dépensere en nettoyage et<br />

entretien (4 millions annuels), chauffrage et éclairage (6 millions annuels), 22% de la subvention<br />

de l’État?<br />

Si l’on ajoute que le rachat du matériel technique indispensable – dont le Palais de Chaillot<br />

était démuni, et qui reste, après acquisition par le Directeur, propriété de l’État – a nécessité<br />

l’engagement du tiers de la subvention d’État (accordée pour les 27 mois écoulés).<br />

[…] En 27 mois: 810.000 spectateurs atteints, soit environ 1.500 par représentation (soit: la<br />

Comédie Française – Salle Richelieu – comble pendant 540 représentations consécutives, et<br />

refusant chaque soir 50 spectateurs).<br />

[…] Actuellement, pour cette seule saison d’Hiver à Chaillot, (depuis le 1er novembre 1953):<br />

48 représentations, 88.668 spectateurs, 1.847 par représentation.» (Memento…)<br />

Ben presto il pubblico cominciò ad essere sensibile all’ambiente particolare che<br />

regnava al TNP. Ma più di ogni altra cifra, furono le testimonianze come quella<br />

successiva che riempirono il cuore di gioia a Jean Vilar:<br />

«“Un dimanche, à l’Amicale du reclassement professionel, on nous avait donné des billets pour<br />

un théâtre: le TNP. Personne ne voulait y aller. Moi, je n’avais jamais été au théâtre. Les billets<br />

étaient là et nous y sommes allés. Le théâtre était grand et tout m’apparut simple: les décors, les<br />

acteurs. Quelque chose s’est noué en moi, j’étais accroché… Pendant cette soirée, je peux dire, j’ai<br />

été heureux… J’étais assis, personne ne semblait me critiquer, et en même temps, j’avais<br />

l’impression d’appartenir à quelque chose. Ce qu’on jouait ce soir-là, je ne m’en souviens pas,<br />

mais c’était beau. Avec ma femme, nous sommes retournés plusieurs fois au TNP. Le programme<br />

que nous avons le plus aimé, c’est Roses rouges pour moi. C’est vraiment la vie d’un ouvrier avec<br />

quelques chose de plus. J’ai acheté le texte et je l’ai prêté à un ami. Il a mis huit mois pour le lire,<br />

mais ça lui a plu. Pour nous ce sont des efforts. Le soir, nos yeux se ferment et nous dormons”»<br />

(Roy, 1987: 120).<br />

Si trattava del racconto fatto da un operaio, raccolto in un articolo de Le Figaro<br />

littéraire: nel ricordare gli avvenimenti degli ultimi trenta anni della sua vita ci teneva a<br />

ricordare quella prima serata a teatro e le esperienze legate al TNP.<br />

Per capire come questa enorme “vitalità” potesse giovare anche al Festival di<br />

Avignone, era in questi anni che Jean Vilar propose quello che oggi definiremo un<br />

completo restyling della comunicazione, sia del TNP che del Festival. Mi riferisco alla<br />

creazione del logo del TNP e del simbolo del Festival, le famose “tre chiavi”.<br />

Su questi aspetti Jean Vilar fu un vero precursore rispetto ai suoi colleghi<br />

contemporanei. Tra l’altro amava circondarsi di artisti veri e collaborare direttamente<br />

301


con loro anche su quelle questioni, come nel caso della creazione delle famose<br />

locandine ad opera di Jacno. Un altro esempio in tal senso era, ovviamente, quello della<br />

straordinaria collaborazione con Gischia per quanto riguardava costumi e scene. Ma su<br />

questo aspetto Vilar non era il solo, in quanto anche altri grandi pittori amavano<br />

collaborare con famosi registi teatrali per la realizzazione delle scene di spettacoli di<br />

prosa o di lirica. Ad ogni modo, quello tra Vilar e Gischia era un connubio oramai<br />

consolidato e per nulla saltuario. Jean Vilar gestiva tutto questo non attraverso una<br />

organizzazione esterna che lavorasse come una agenzia di comunicazione. Si rivolgeva<br />

direttamente ad altri artisti con cui spesso lavorava, come si direbbe oggi, in esclusiva 1 .<br />

Gischia, di fatto, era entrato a tutti gli effetti nella troupe di Vilar. Praticamente, la<br />

stessa cosa può dirsi per Jacno, specie negli ultimi anni al TNP.<br />

In quegli anni, tanto al TNP quanto al Festival di Avignone, Vilar dovette gestire<br />

anche faticosi rapporti con i poteri politici e soprattutto, l’amministrazione statale e<br />

locale. Da questo punto di vista, gli eventi non cambiano molto col passare del tempo:<br />

Vilar ieri, come Faivre d’Arcier oggi, i direttori del Festival di Avignone erano parte<br />

integrante di un sistema istituzionale che era anche loro compito “governare”.<br />

Ad ogni modo, tra problemi burocratici e pesanti pressioni, gli anni tra il 1951 e il<br />

1955 furono particolarmente difficili. E al di là del tempo “perso” a rispondere a critiche<br />

spesso ingiuste e attacchi senza fondamento, le esigenze amministrativo-burocratche a<br />

volte senza senso, avevano forti ripercussioni sull’andamento della gestione del TNP,<br />

mettendone a rischio la stessa esistenza: basti pensare alle difficoltà legate al rinnovo<br />

dell’accordo tra TNP e Ministero; o alla querelle relativa al ruolo del TNP a Parigi; per<br />

non parlare delle ingiustificate riduzioni di finanziamento che il TNP, vista la sana<br />

amministrazione che Vilar riusciva a tenere, subiva rispetto ad altre realtà parigine.<br />

In alcune note del novembre del 1952 Jean Vilar scriveva di aver sottolineato alcune<br />

frasi di un vecchio articolo di André Antoine e relative alla sua prima direzione<br />

dell’Odéon, nel 1896. L’Odéon era tuttora una delle più prestigiose istituzioni e sale<br />

teatrali parigine, uno dei 13 Etablissement Nationals che oggi costituivano l’ossatura<br />

del teatro pubblico francese.<br />

In quell’articolo Vilar notava come: «[…] Depuis les dernières années de l’autre<br />

siècle, s’il est certain que les goûts et les styles on changé, les conflits entre le<br />

responsable d’un théâtre national et les pouvoirs publics, entre ce responsable et les<br />

administrations – et une certaine presse – sont à quelque chose près identiques» (da<br />

“Memento”).<br />

Subito dopo, nelle note sul suo giornale relative alla stessa giornata, sottolineando la<br />

presenza dell’ispettore delle finanze, tale Lagrenée, a controllare i suoi conti 2 , annotò<br />

1 Per quanto riguarda la comunicazione e la pubblicità delle organizzazioni artistico-culturali, non ho<br />

trovato molti riferimenti nella letteratura di management, nonostante si tratti di un argomento di estremo<br />

interesse e che meriterebbe quindi di essere approfondito. Le questioni in gioco, infatti, sono degne di<br />

attenzione, in quanto, con riferimento al ruolo del marketing e delle pratiche di tale disciplina applicate ad<br />

un contesto specifico come quello della produzione artistica: non morire di “eccesso di marketing”, per le<br />

organizzazioni artistiche, significa banalmente non cedere a logiche “commerciali”, come lascerebbero<br />

intendere taluni sterili (pre)giudizi? Oppure, più realisticamente, significa, sempre per le organizzazioni<br />

artistiche, percorrere la propria concezione del marketing alla ricerca di un utilizzo “sacralizzato” di<br />

politiche e strumenti che non hanno, per definizione, l’unico obiettivo di “profanare” un fenomeno di<br />

consumo per sua stessa natura “non ordinario”? Anche su questi temi Jean Vilar fu un grande precursore<br />

(N.d.T.).<br />

2 Piccola nota di colore scritta di proprio pugno da Vilar su questo episodio: «La première exigence de<br />

Lagrenée a été de demander l’ouverture du coffre-fort du théâtre. Ceci fait, m’assure Marionnet [Georges<br />

302


con amarezza che aveva fatto lui stesso esplicita richiesta al Segretario di Stato alle<br />

Belle Arti di avviare quella verifica e questo in seguito a certe campagne stampa contro<br />

di lui, sulla gestione del TNP.<br />

Ma torniamo al racconto di M.me Debeauvais. Accogliere bene il pubblico,<br />

comunque, non era sufficiente per la missione e le strategie che Vilar voleva portare<br />

avanti per il TNP e per il Festival. Era necessario andare a cercare il pubblico potenziale<br />

laddove questo si trovava. Anche in questo caso, Vilar inventò letteralmente un modo di<br />

lavorare che divennne assolutamente classico: le riduzioni per i circoli aziendali ne<br />

costituivano un esempio ineccepibile. Non si trattava semplicemente di piazzare in giro<br />

per la città coupon che dessero diritto a riduzioni, una volta presentati al botteghino del<br />

teatro. L’idea di Vilar era davvero geniale (per l’epoca): appoggiarsi sulle forze più<br />

attive di una azienda e su quelle persone che, sia per la funzione che svolgevano<br />

nell’organizzazione, sia per volontariato, si sentivano responsabilizzati rispetto ai<br />

proprio colleghi di lavoro. I primi “circoli” o “groupements”, spesso non ancora<br />

organizzati come li conosciamo oggi, furono quelli delle fabbriche come la Renault o al<br />

ministero delle Poste, Telegrafo e Telefono. Per questi spettatori, il TNP decise di<br />

proporre le proprie creazioni in “avant-première”, vale a dire alla “prima della prima”,<br />

a cui invece, tradizionalmente e fino a quel momento, partecipavano solo i critici<br />

teatrali 1 . I prezzi dei posti venduti per le prove generali erano ovviamente ancora più<br />

bassi dei prezzi normali. A testimoniare il successo dell’iniziativa, per soddisfare le<br />

domande dei “groupements” il numero delle “avant-premières” dovette passare da 10<br />

nel 1953 (19.500 spettatori) a 33 nel 1956-1957 (con oltre 65.000 spettatori). Ma non<br />

era tutto. Sentiamo ancora Sonia Debeauvais:<br />

«En 1957, l’importance qu’avait prise ce public et le climat de confiance établi avec les<br />

responsables des groupements permirent au TNP d’aller plus loin et de proposer un abonnement à<br />

cinq créations dans la saison.<br />

[…] En 1956-1957, première année de l’abonnement, 109 associations souscrivent 17.320<br />

abonnements, soit 86.600 places. En 1962-1963, dernière année sous la direction de Jean Vilar,<br />

361 associations prirent 32.000 abonnements, soit 160.000 places. 160.000 places vendues ferme<br />

avant même l’ouverture de la saison. […] Au cours des sept années dont il est question, il y eut<br />

peu de changements dans l’organisation de ce système sur le plan technique. Sinon qu’il fut jugé<br />

plus sain et plus juste, en 1960, de ne plus organiser des avant-premières réservées au public des<br />

groupement, mais de le mêler au public ayant pris ses billets individuellement» (Roy, 1987: 122).<br />

L’incredibile successo di questa formula si basava su due principi tanto semplici<br />

quanto fondamentali: la lealtà tra pubblico e teatro per quanto riguardava il numero di<br />

posti assegnati e il rigore e la precisione con cui avveniva la gestione amministrativa dei<br />

biglietti. Il pubblico sapeva bene che non poteva tenere comportamente fraudolenti, non<br />

si trattava di un “pozzo senza fondo” e, in effetti, c’era una sorta di<br />

autoregolamentezione anche dal lato della domanda. Inoltre, il numero di posti riservati<br />

a tariffe ridotte era stabilito ad inizio anno e non venivano fatte deroghe sia nel caso di<br />

Marionnet era il capo-contabile del TNP], l’on s’est mis à compter jusqu’à – j’ai dis bien – la dernière<br />

pièce de vingt sous!». Al di là del rigore e della professionalità che sicuramente animavano il buon<br />

Lagrenée, ispettore delle finanze, immaginare la scena fa sorridere, soprattutto visti gli strumenti di cui<br />

devono essere forniti oggi gli ispettori delle finanze e gli esperti delle società di controllo per scovare<br />

eventuali “irregolarità” di aziende di ben altra dimensione e con riferimento a casi ben più eclantanti in<br />

altri settori (N.d.T.).<br />

1 Forse è inutile sottolinearlo, ma il Sindacato dei critici d’arte non tardò a presentare le proprie<br />

rimostranze al direttore del TNP (N.d.T.).<br />

303


successi clamorosi, sia nel caso opposto di abbonamenti invenduti. Per quanto<br />

riguardava il secondo aspetto, i biglietti (quelli veri, tutti numerati, non dei contrassegni<br />

o altro) venivano spediti per posta assieme al regolamento, con un piano della sala<br />

destinato ad agevolare la ripartizione dei posti tra gli aderenti ai vari “groupements”.<br />

Come sottolineava la stessa Sonia Debeauvais, tanta attenzione per questi che<br />

all’apparenza erano solo dettagli, servivano a far comprendere al lettore come oggi ci<br />

sia una sorta di indifferenza rispetto a specifiche politiche messe in atto dalle/nelle<br />

organizzazioni teatrali. Tale indifferenza si ha sia dal lato dell’offerta che da quello<br />

della domanda, sfociando nella inconprensione rispetto alle reciproche esigenze. Oggi,<br />

infatti, molti teatri replicano in modo abitudinario le proprie scelte di prezzo e di<br />

distribuzione non rendendosi conto di come possa risultare determinante comprendere le<br />

specifiche esigenze del pubblico o, magari, modificare le scelte per situazioni legate alla<br />

gestione stessa del botteghino/biglietteria. Detto in altri termini, la stessa organizzazione<br />

teatrale sembra trascurare determinanti scelte che riguardano, nella sostanza, il<br />

marketing e alcuni importanti processi di gestione. All’opposto, gli stessi spettatori<br />

risultano così abituati a determinati servizi o abitudini di fruizione, da non comprendere<br />

completamente tutte le problematiche di ordine operativo che sono dietro alle scelte<br />

fatte dal teatro. Il cambio dei turni rispetto agli anni precedenti, o il semplice<br />

cambiamento nella disposizione della biglietteria, l’aggiunta di una nuova modalità di<br />

distribuzione dei biglietti, spesso ingenera nel pubblico confusione e ingiustificato<br />

malessere.<br />

Oggi, qualcosa di simile a questo stato d’animo, poteva essere verificato con<br />

riferimento all’apertura della biglietteria del Festival. Tradizionalmente la vendita<br />

ufficiale dei biglietti apriva nel fine settimana che precedeva, di circa un mese, il primo<br />

spettacolo. Il sabato era il giorno dedicato agli abitanti della grand Avignon; il lunedì<br />

successivo l’apertura era allargata per tutto il resto del pubblico (compresa l’apertura<br />

degli acquisti via internet e nei centri convenzionati, come ad esempio nei centri<br />

FNAC). Il pubblico formato dagli “affezionati” del Festival non mancava di lamentarsi,<br />

anno dopo anno, per il trattamento riservato loro, come ad esempio: continue<br />

rimostranze per le code (più o meno lunghe); la necessità di organizzarsi per tempo, fin<br />

dal primo giorno di prevendita; la relativa disorganizzazione percepita esternamente.<br />

Immancabilmente, ogni anno, centinaia di persone non sarebbero mancate per nulla al<br />

mondo dal partecipare a quel rito collettivo che era la coda per i biglietti. Era un<br />

momento di condivisione, di incontri e di reincontri, di scambio di opinioni e di<br />

suggerimenti, di confronto sull’ultimo spettacolo visto, sull’ultimo festival o sull’ultima<br />

manifestazione a cui si era partecipato, su quello che si andrà a vedere, sugli artisti noti<br />

e su quelli sconosciuti.<br />

Trovi estremamente evocativa questa descrizione dell’apertura della vendita dei<br />

biglietti 1 :<br />

«Avignon, samedi 9 juin 2001, premier jour de la location en avant-première aux haitants du<br />

Grand Avignon pour la 55e édition du Festival. Il est 7h 30 et dans la cour de l’Espace Saint-<br />

Louis, une cinquantine de personnes attendent l’ouverture, assises tout autour du cloître.<br />

Neuf heures, les portes s’ouvrent enfin. L’atmosphère est fébrile, chacun en prévision de cet<br />

instant a rédigé sa liste de spectacles et rassent le moment comme solennel; presque tous ont pris<br />

soin d’emporter le programme “ou cas où”. Cette éventualité que l’on n’ose imaginer, pourtant<br />

arrive deux heures après le début de la location, lorsque, pour certaines date, des spectacles<br />

affichent déjà complet. La rumeur se propage dans le cloître, l’ambiance s’assombrit. Une dame<br />

1 Pedler, Bourdonnaud 2002: 131 (N.d.T.).<br />

304


crie: “C’est un scandale, il n’y a plus de places pour la première d’Arditi.” Effectivement, le<br />

contingent de dix mille billets mis en vente pour la “journée des Avignonnais” a vite été épuisé,<br />

certains ayant acheté au réservé jusqu’à cinquante places»<br />

Le relazioni con il pubblico costituivano da sempre un aspetto fondamentale<br />

dell’organizzazione del Festival e tale aspetto era strettamente collegato con la<br />

programmazione. In questo estratto, relativo al 2004, ne parla Pascale Bessadi, per<br />

l’appunto “responsable des relations avec le public” del Festival di quell’anno:<br />

«L’annullation du Festival 2003 a t’elle eu eu des réparcussions sur les réservations pour les<br />

spectacles de cette année? “C’est vrai que les réservations ont démarré plus tardivement.<br />

L’annullation de la précédente édition a indéniablement eu un effet psychologique sur le public.<br />

Mais depuis la conférence de samedi beaucoup de gens ont acheté des places. Et rien qu’à la suite<br />

de la conférence de lundi avec Thomas Ostermeier 1700 places ont été réservées. Sur une jauge de<br />

128000 places, nous en avons vendu 73000”.<br />

Certains spectacles sont-ils plus demandés que d’autres? “La demande est très équilibrée. Il nous<br />

reste de la place dans tous les spectacles. Le spectacle de Sidi Larbi Chekraoui est un peu plus<br />

demandé car c’est une star et le Cloître des Carmes où il présente son spectacle fin juillet est bien<br />

moins grand que la cour d’honneur par example”.<br />

Quel est votre public? De quelles régions provient-il? “Cette année nous allons mieux le savoir car<br />

jusqu’à présent seules les pesonnnes qui réservaient par téléphone nous donnaient leur adresse.<br />

Désormais nous allons les domander automatiquement. Nous savons néanmoins qu’il provient en<br />

majorité de la région Paca et de la région parisienne et de plus en plus du Langue-doc-Roussillon<br />

et de la région Rhône-Alpes”.<br />

Quel pays sont le plus représentés parmi vos spectateurs? “La plupart des étrangers sont<br />

italiens, suisses au allemands. Quelques Américains viennent aussi au festival. Les Japonais, eux,<br />

sont de plus en plus nombreux”» (da “La Provence”, dell’8 luglio 2004).<br />

La biglietteria, ancora oggi, nonostante le tecniche informatizzate e le incredibili<br />

modalità per differenziare la vendita dei biglietti, per gestire il contatto con il pubblico,<br />

costituiva un elemento dell’organizzazione estremamente delicato. Ed era anche un<br />

luogo di straordinario significato, che potrebbe essere carico di simboli e una<br />

fondamentale macchina comunicazionale se sfruttata al meglio. Anche se di fatto,<br />

spesso, diventa “solo” il luogo in cui si cominciano a fare i calcoli su come stanno<br />

“andando le vendite”. Nella rassegna stampa trovai questo estratto recente, successivo<br />

di una settimana rispetto a quello precedente, circa a metà del Festival, dove veniva<br />

fornito un aggiornamento sugli acquisti dei biglietti:<br />

«La tourmente de 2003 serait-elle balayée? L’édition 2004 semble en tout cas avoir redonné le<br />

sourire à nombre d’acteurs du festival – organisateurs en tête –. Le public est là, bel et bien.<br />

L’heure n’est peut-être pas au record, certes. Mais la fréquentation se présente sous de bons<br />

auspices selon les premiers bilans. Côté In, la location a pris son envol, le week-end dernier. Si<br />

70000 places étaient vendues voilà huit jours, on atteint désormais 86000 places vendues. “Les<br />

réservations ont vraiment démarré les 10 et le 11 juillet, puis les jours suivants”, commente<br />

Pascale Bessadi, responsable du service location. Quelque 1200 places s’arrachent ainsi, au Cloître<br />

Saint-Louis ou par téléphone chaque jour. Elle avoue également une répartition homogène entre<br />

les diffèrents spectacles. Désormais, le pari réside dans la fidélité du public, en deuxième partie de<br />

festival. Comme chaque année, une deuvième série de représentations commencent… auxquelles<br />

il faut intéresser les spactateurs. Si “Tempus Fugit”, le spectacle de Sidi Larbi Cherkaoui et<br />

“Maison de poupée”, mis en scène par Thomas Osteirmeier affichent complet, nombre de places<br />

restent disponibles, à partir du 20 juillet pour “Peer Gynt”, “Un homme est un homme” ou encore<br />

“La chute des Dieux”» (da “La Provence”, del 17 luglio 2004).<br />

305


Facciamo un salto al 2005, e questa volta osserviamo cosa accade ad N. il giorno<br />

dell’apertura ufficale delle prevendite al pubblico nazionale e internazionale.<br />

13 giugno, Cloître Saint-Louis: meno di un<br />

mese dall’avvio della 59esima edizione del<br />

Festival. Intanto un primo aspetto. Per chi non<br />

fosse a conoscenza della consuetudine relativa<br />

all’apertura anticipata della bigliettera per gli<br />

avignonesi, e non fosse stato ancora avvezzo a<br />

leggere i quotidiani locali, che invece<br />

sottolineano per tempo la cosa, sarebbe rimasto<br />

sorpreso del cartello che capeggiava ancora<br />

all’ingresso della Cloître Saint-Louis la mattina<br />

del 13: si annunciava che la distribuzione dei<br />

tagliandi per l’ordine di accesso alla biglietteria sarebbe cominciata alle ore 7 dell’11<br />

giugno e la biglietteria avrebbe aperto alle ore 9 (come nel 2001).<br />

Erano le 9 di mattina: in quel giorno l’apertura era fissata alle 11 ed un cartello<br />

annunciava che la macchinetta dei “segnaposto” (per intenderci, un modello tale e quale<br />

a quello che il lettore può trovare al supermercato o in qualche ufficio pubblico) sarebbe<br />

stata predisposta a partire dalle 10 e 30. Nella parte alta del cartello si consigliava gli<br />

spettatori di munirsi dell’apposito il tagliando segnaposto; più in basso, col carattere<br />

della stessa dimensione, si chiedeva cortesemente di trattare con cura la macchinetta<br />

distributrice e di evitare di danneggiarla. All’ingresso della bibliettera, sotto i portici che<br />

circondano Cloître Saint-Louis, in un locale il cui accesso al pubblico era separato<br />

rispetto all’ingresso nella sede degli uffici del Festival, c’erano già una decina di<br />

persone. Tra queste, un signore e una signora si erano presi la briga di raccogliere i<br />

nominativi delle persone a mano a mano che arrivano in modo da avere una lista<br />

semiufficiale in attesa che la delicata macchinetta segnaposto venisse posizionata<br />

nell’apposito spazio. Ero il numero 24. Tra le 9 e le 9 e 30 il numero di persone arrivò<br />

ad una trentita e l’organizzazione cominciò a predisporre, in fondo ad uno dei porticati,<br />

un tavolino con acqua e caffè per tutti gli spettatori in attesa.<br />

Cloître Saint-Louis era uno spazio accogliente: le ali<br />

del palazzo che formano i porticati del chiostro sono<br />

chiaramente ristrutturati da poco. Come capitava<br />

spesso, vi era un misto di moderno e antico: porte a<br />

vetri e spazi aperti si aprivano sulle pareti di pietra<br />

chiara e tutto sommato l’effetto scenico era bello e la<br />

funzionalità mantenuta. Al centro della corte del<br />

chiostro c’era una fontana: nulla di eclatante dal punto<br />

di vista estetico, ma anch’essa era funzionale rispetto al<br />

contesto. In mezzo, disposti ordinatamente, tre da una<br />

parte e tre dall’altra, sei enormi platani sembravano gli<br />

antichi guardiani della corte e garantivano ombra e un<br />

po’ di fresco. Non sembrava di essere in pieno centro<br />

città, si sentiva poco rumore, nonostante fossimo a<br />

pochi metri dalla stazione centrale e vicino ad una delle<br />

arterie più trafficate di Avignone.<br />

306


Le varie ali del palazzo si dividevano gli spazi un lussuoso albergo e l’Istituto<br />

superiore delle tecniche di spettacolo. E gli uffici amministrativi e la direzione del<br />

Festival di Avignone, ufficialmente trasferitasi in quegli spazi da Parigi.<br />

Attorno alle 10 arrivammo ad una cinquantina di presenze, esclusi quelli che erano<br />

passati, avevano seganto il loro nome sulla lista gelosamente e impeccabilmente tenuta<br />

dai due signori, per tornare attorno alle 10 e 30. Da conteggio superficiale che nulla<br />

aveva di statistico, la maggioranza era composta da persone con più di 50 anni. Qualche<br />

quarantenne. Pochissimi tra ventenni e trentenni. Pochi gli stranieri: a parte me, una<br />

coppia di lingua tedesca, probabilmente svizzeri. Gli altri parlavano francese e<br />

verosimilmente non dovevano venire da molto lontano. Un gruppo cominciò a discutere<br />

del Festival di Aix-en-Provence, che sarebbe cominciato poco prima di quello di<br />

Avignone. Come ogni anno.<br />

Molte delle signore presenti, diligentemente, avevano in mano il loro programma e si<br />

erano disegnate delle impeccabili tabelle con gli spettacoli da vedere, le giornate e il<br />

numero di posti da acquistare. Anche qui non era difficile immaginare che non si<br />

trattava per loro della prima volta che partecipano a quel rito: per una di loro, era il<br />

decimo o forse l’undicesimo festival, non ricordava bene; per un’altra, gentile e affabile<br />

soprattutto quando seppe quanta strada avevo fatto per essere lì, era sicuramente oltre il<br />

ventesimo. Forse per quel delicato pudore tutto femminile, non aveva voluto<br />

specificare.<br />

***<br />

Episodi come quelli che avevo cercato di riportare, mi facevano riflettere: quanto di<br />

quel fervore innovativo Jean Vilar riuscì a portare al Festival di Avignone? E quanta di<br />

quella passione era rimasta, sotto forma di “cultura organizzativa” nella memoria<br />

collettiva dell’organizzazione-Festival? Nel periodo della sua conduzione del Festival,<br />

fino alla sua morte, i meccanismi di apprendimento erano evidentemente guidati dalla<br />

straordinaria leadership di Jean Vilar, anche se fu costretto ad abbandonare, a poco a<br />

poco, il ruolo artistico per dedicarsi sempre più esclusivamente alla gestione. Con il suo<br />

307


successore, Paul Puaux, la continuità era garantita dal fatto che i due avevano lavorato<br />

assieme a lungo.<br />

Il lettore avrà interesse a sapere che il vero passaggio cruciale tra il primo quarto di<br />

secolo dell’organizzazione del Festival e l’attuale situazione sembrava legato molto alla<br />

perdita di alcuni valori di fondo e di una “cultura organizzativa” nel passaggio<br />

dall’intelligente volontariato di Vilar e Puaux al professionismo tecnico di Faivre<br />

d’Arcier e Crombecque.<br />

Dunque, si trattava di fare un breve viaggio all’interno della retorica della cultura<br />

organizzativa di una organizzazione artistica: una forma di controllo normativo basato<br />

sulla costruzione di una “ideologia” che, dalla mia prospettiva, andava ben oltre i<br />

ristretti confini organizzativi del Festival di Avignone. Ad ogni buon conto, non potevo<br />

non rendere conto delle implicazioni etiche e pratiche di una tale ideologia<br />

organizzativa, pervasiva con riferimento alle sue applicazioni concrete, ai suoi effetti<br />

sulle persone, anche con riferimento alle limitate frontiere organizzative. Va da sé che<br />

restava valida l’avvertenza con cui avevo iniziato: il punto di osservazione di processi<br />

così articolati non poteva essere un singolo reparto della filiera (cognitiva) ma doveva<br />

restare la filiera stessa. Sempre di creare confini si trattava, ma dei confini quanto meno<br />

più labili e in grado di fornire un paesaggio più completo di un territorio che andava<br />

esplorato nella sua infinita interezza.<br />

L’impressione che ne ricavai, restando a quel reparto specifico tra Cloître Sanit-<br />

Louis e gli altri luoghi del Festival, era fortemente legata ad una delle immagini più<br />

ricorrenti di Jean Vilar, una foto in bianco e nero, circondato da una folla ostile e<br />

malevole, tra i contestatori del ’68 di Avignone, credo in place des Carmes, con al<br />

fianco il fidato Paul Puaux. Durante “l’età d’oro” del Festival era possibile parlare di<br />

identità e continuità, all’interno delll’atmosfera di lavoro che veniva descritta dalle<br />

persone vicine al grande artista e fondatore. Al Festival c’era molto di Vilar da questo<br />

punto di vista. Egli era capace di fare da legame di una serie impressionante di gruppi di<br />

lavoro che, spesso, facevano capo a strutture o organizzazioni diverse, tutte, di fatto,<br />

esterne al Festival. Tutto ciò permise al Festival di sviluppare processi in un qualche<br />

modo coordinati senza l’esigenza di avere né una pianta organica né una qualche forma<br />

strutturata di “organigramma”. Chiedere a qualcuno di provare a descrivere le<br />

interazioni tra persone e gruppi di lavoro che operavano nel/per il Festival di Avignone<br />

significava farsi raccontare una serie interminabile di episodi apparentemente scollegati<br />

all’origine dei quali c’era una precisa volontà o decisione di Jean Vilar o di Paul Puaux.<br />

Ma c’erano comunque alcuni aspetti, alcune scelte di natura operativa, che si<br />

discostavano e non potevano essere replicate al Festival a partire dall’esperienza del<br />

TNP. Il festival era altra cosa: era una manifestazione periodica, che dura un mese, con<br />

caratteri produttivi diversi rispetto a quelli di una compagnia stabile. Vilar lo sapeva, e<br />

ciò emerse soprattutto quando il TNP non fu più il principale “fornitore” di spettacoli<br />

del Festival stesso: cioè quando venne meno quella straordinaria sinergia operativa e<br />

produttiva che Vilar era riuscito a mettere assieme e a tenere unita per una decina<br />

d’anni. Per quanto riguardava Avignone, proprio in quella fase, Vilar aveva il problema<br />

di far comprendere a tutti cosa intendesse lui per un “festival di creazione” che non<br />

avesse alle spalle una struttura produttiva propria, e di richiamare l’attenzione su quel<br />

concetto ogniqualvolta, per motivi i più vari, sembrava che l’identità del Festival si<br />

discostasse da quella strada maestra. Successe più volte, anche durante gli anni più<br />

importanti della sua direzione. E successe regolarmente ad ogni cambio di direzione,<br />

negli anni a seguire.<br />

308


A quel punto, cosa accadde all’organizzazione del Festival di Avignone? Quali<br />

ripercussioni ci furono a livello operativo? Dal punto di vista della programmazione,<br />

nella sostanza, il distacco non fu poi così duro. Per certi versi lo stesso Vilar (ma anche<br />

il suo primo successore al TNP) trovò salutare tale stato di cose. Per il Festival, in modo<br />

particolare, si aprirono nuove prospettive dal punto di vista delle esperienze teatrali.<br />

Dopo il “periodo d’oro”, quindi, il Festival, dal punto di vista artistico, visse un vero e<br />

proprio periodo di rinnovamento.<br />

Jean Vilar era già in grado di ergersi oltre il suo campo d’osservazione diretto,<br />

allargava il suo raggio d’azione allungando lo sguardo tutt’attorno, come faceva da<br />

giovane quando era seduto in riva al mare di Sète e guardava oltre l’orrizzonte. Era<br />

innegabile che la sua leadership, il suo carisma fossero questioni molto concrete, in<br />

quanto egli stesso prendeva molto seriamente le implicazioni dei suoi comportamenti,<br />

era estremamente critico rispetto alle proprie decisioni, conseguenze delle sue azioni.<br />

Oggi, l’atmosfera stessa di Avignone sembrava essere permeata di quel vigoroso<br />

“sentire comune” che però rischiava di perdersi lungo i mille rivoli della memoria: della<br />

memoria di quello che stava diventando un ulteriore “corpo di storia e teoria” che<br />

andava incastonandosi, in modo sistematico e compatto, in una storia già secolare. Ma,<br />

in effetti, ieri come oggi, il Festival di Avignone era davvero una comunità organica e<br />

indifferenziata, qualcosa di più di una omogeneità di pensiero e qualcosa meno di un<br />

pensiero unico e omologato, per quanto concerneva le basi morali di quell’agire<br />

comune? I “portavoce” dell’organizzazione, oggi ancora più che in passato, sembravano<br />

basarsi sul principio che i concetti che erano stati tramandati in modo “chiaro”, che non<br />

erano in discussione, andavano ripetuti all’infinito, rivendicando l’autorità conferita<br />

dall’esperienza passata, dalle competenze accumulate e da una presuta oggettività<br />

scientifica nel diffondere tali idee principali ai membri della comunità. Piaceva anche a<br />

me pensare che vi fosse qualcosa di “genetico”, di strutturalmente intimo, nell’agire dei<br />

membri di quella comunità professionale: ma i “discorsi sulla cultura” (organizzativa)<br />

che sentivo non mi permettevano di nutrire altrettanta fiducia rispetto ai contenuti di una<br />

comunicazione di marketing (anche interno al Festival) basata su verità fondamentali<br />

che non sembravano davvero così salde.<br />

Mi si dirà che dopo sessanta anni doveva essere un copito agevole quello di<br />

conservare e trasmettere una cultura che ebbe una genesi tanto felice: ad Avignone,<br />

“anche le pietre dei palazzi parlano” della cultura del Festival, quasi come se sapessero<br />

di fare parte di un nuovo, grandioso, disegno da portare avanti in modo duraturo dopo<br />

quella straordinaria parentesi di cinque secoli prima. Il peso della storia e di una forte<br />

cultura era qualcosa di difficile da sostenere e nei miei, seppur brevi, passaggi ad<br />

Avignone, sentivo forte la sensazione di tale gravità, quasi fosse mischiata all’aria di<br />

festa presente al Festival. Non solo le pietre erano cariche di storia, ma anche l’aria di<br />

Avignone era pesantemente carica di ossigeno, carica di significati: ma è cosa nota che<br />

è più difficile, sebbene molto salutare, respirare in alta quota, in quanto bisogna avere<br />

polmoni allenati, come quelli del fondatore del Festival.<br />

Ad ogni modo, passando dai principi alle pratiche, chi cercasse all’interno degli<br />

uffici di Cloître Saint-Louis mansionari, regole chiare di sanzione e incentivo, contratti<br />

standard e formule di lavoro tradizionali rischiava, ancora una volta, di restare<br />

profondamente deluso. In mancanza di un quasi completamente assente controllo<br />

burocratico interno ai gruppi di lavoro del Festival, i meccanismi pratici e simbolici che<br />

incoraggiavano l’adesione al gruppo erano, invece, estremamente diffusi. In fondo, un<br />

“angelo custode”, un ragazzo impegnato nel ruolo di maschera e di guardiano, il<br />

309


personale del centralino o della biglietteria, il responsabile tecnico dislocato in uno degli<br />

spazi del Festival, i giovani dell’Istituto superiore che formava i futuri tecnici dello<br />

spettacolo, i responsabili delle singole funzioni, fino ai due direttori interagivano<br />

contemporaneamente su più livelli: pochi rituali organizzativi che si ripetono con<br />

frequenze differenti costituiscono solo l’occasione per creare ed esprimere concetti e<br />

sentimenti comuni prescritti dal ruolo che assumeva ciascun membro<br />

dell’organizzazione. Da un punto di vista strettamente operativo potevano essere più<br />

rilevanti gli incontri realizzati nella pausa pranzo, tra i ragazzi che lavoravano nel<br />

Gymnase Aubanel, al fresco delle piante del giardino interno; piuttosto che i comitati di<br />

direzione che si svolgevano ogni mattina a Cloître Saint-Louis. Gli “angeli custodi” non<br />

si incontravano di certo nell’ufficio “produzione”. Mentre era più probabile vedere un<br />

gruppetto di giovani con una targhetta al petto con suscritto “staff”: all’angolo tra rue<br />

Jean Vilar e place de l’Horloge; tra Cloître Saint-Louis e la Grand Poste, in fondo a cour<br />

Jean Jaurès, da dove partivano le navette per raggiungere i luoghi “fuori dalle mura”; o<br />

appena fuori dall’Eglise des Célestins, in place des Corps Saints; o correre su e giù tra<br />

rue des Lices e la splendida rue des Teinturiers, tra il Lycée Saint-Joseph e la Salle<br />

Benoît XII. In questi casi il controllo non poteva che essere decentrato e, insieme, più<br />

profondo: erano i responsabili diretti di un luogo ad avere la gestione diretta di quanto<br />

vi accadeva. I responsabili funzionali e i due direttori creavano il “contesto”,<br />

riservandosi il diritto di “dire l’ultima parola” circa eventuali “conflitti di<br />

interpretazione” su un evento specifico o un problema; l’ordinaria amministrazione ma,<br />

di fatto, non solo quella, erano demandate localmente, sul campo.<br />

Tra tutti i mondi “professionali” che le teorie sulla cultura organizzativa avevano<br />

avuto modo di studiare 1 , quello del Festival di Avignone presentava elementi comuni e<br />

specificità difficili da inquadrare. Che il Festival fosse qualcosa di unico, un prodotto<br />

della storia e dello stile manageriale del fondatore era indiscutibile; quanto di quello<br />

stile fosse ancora presente nell’attuale organizzazione del Festival, non ero in grado di<br />

affermarlo con certezza, benché i segnali di una forte cultura e di una comunità di<br />

pratiche solida erano altrettanto evidenti. Questione aperta era invece stabilire se tale<br />

risultato, in parte “culturale” e in parte frutto di “adattamento” (soprattutto ad opera di<br />

Alain Crombecque e di Bernard Faivre d’Arcier), poteva essere una caratteristica<br />

comune di organizzazioni simili o di altre organizzazioni artistiche. La gestione della<br />

cultura all’interno del Festival, seppur con modalità e pratiche non sempre coerenti o<br />

semplicemente evidenti, a volte in modo meccanico o, in alcuni casi, involontariamente,<br />

senza azioni deliberate, aveva, comunque, prodotto una modalità organizzativa<br />

efficiente. E questo senza quello scontro tra la “cultura amministrativo-gestionale” e<br />

quella “artistica”, che pur sempre dovevano tra loro coesistere: se di dialogo tra<br />

“culture” e “discorsi” differenti si trattava, indubbiamente la cultura organizzativa e le<br />

soluzioni ai problemi manageriali fornivano un valido supporto alla cultura artistica ed<br />

alle problematiche di ordine estetico che dovevano restare centrali.<br />

Al di là di ogni possibile forma di distribuzione del potere (attraverso la gestione<br />

della cultura) all’interno di una organizzazione artistica (e non solo), non era un caso,<br />

forse, che il funzionamento del più importante dei Festival di teatro contemporaneo<br />

avesse, da sempre, poggiato le sue basi su una effettiva gestione “duale” della sua<br />

organizzazione: in sostanza, la presenza di una coppia di “direttori” garantiva che, in<br />

modo più o meno visibile, contemporaneamente in prima linea, trovassero piena<br />

1 Ad esempio: Barley, Kunda 2004; Boje et al. 2004; Czarniawska 1997; Latour 1991; Van Maanen 1988<br />

(N.d.T.).<br />

310


soluzione e condivisioni gli aspetti organizzativi e strategico-operativi di una macchina<br />

altrimenti complicata da mettere a punto. Una best practice, come si direbbe oggi, o<br />

forse solo un caso fortunato ripetutosi più volte in sessanta anni di storia: ad ogni buon<br />

contro, un insegnamento interessante, questo sì, buono per tutte le organizzazioni<br />

artistico-culturali. Anche in Italia.<br />

311


XXIII<br />

(Organizzare la messa in scena del Festival. L’evoluzione della macchina scenica: il Palazzo dei Papi e i<br />

luoghi del Festival. “Avignon, ville d’esprit”: la città dei Papi nella regione dei festival)<br />

In cui il lettore viene portato per le strette vie medievali della città di Avignone dove<br />

oggi, forse, si incrociano di destini futuri dello spettacolo dal vivo, e da dove ieri,<br />

sicuramente, prendeva il via una delle strade maestre del periodo del Rinascimento <br />

312


«Eppure, dicevo, la sensazione è che uno nella vita ha attaccato<br />

il Pendolo da tante parti, e non ha mai funzionato… E se<br />

nell’universo ci fossero punti privilegiati? Qui sul soffitto di<br />

questa stanza? No, non ci crederebbe nessuno. Ci vuole<br />

atmosfera. Non so, forse stiamo sempre cercando il punto<br />

giusto, forse è vicino a noi, ma non lo riconosciamo, e per<br />

riconoscerlo bisognerebbe crederci…».<br />

(U. Eco, Il Pendolo di Foucault, p. 253-254)<br />

Quando Avignone diventava teatro di un’avventura storica essa assumeva molto<br />

spesso i connotati di leggenda. E quando un luogo è carico di storia, tanto da generare<br />

leggende, ciò significa che, in un qualche modo e per un qualche motivo, è stato un<br />

crocevia di eventi fondanti. Avignone fu e, per quanto ci riguarda, per molti motivi<br />

differenti, è ancora oggi un crocevia di molte cose assieme.<br />

Da sessanta anni a questa parte organizzare un Festival era stato come appendere un<br />

Pendolo ad un soffitto o trovare un Aleph che gira, vorticosamente, sospeso nell’aria,<br />

nello scantinato di una vecchia casa. Ma il punto fermo di quell’universo che egli<br />

rappresenta o il suo centro infinito in cui tutto ciò che egli rappresenta vi accade, non<br />

può essere ovunque. Certo, potenzialmente basterebbe staccare il Pendolo dalla volta<br />

del Conservatoire e appenderlo sul soffitto di una lavanderia a gettoni ricavata in una<br />

originaria scuderia, addossata a delle antiche mura, e il risultato, sulla carta, sarebbe lo<br />

stesso; e in ugual modo, nel retro della stessa lavanderia, nel ripostiglio delle scope, un<br />

giorno ci si potrebbe accorgere dell’esistenza di un Aleph, “di un punto in cui<br />

convergono tutti i punti”, senza dover andare nel sottoscala dell’edificio di via Garay.<br />

Ma in effetti, si potrebbero cercare dei posti migliori, perché, in fondo, ci vuole<br />

“atmosfera” e per riconoscere il punto giusto “bisognerebbe crederci”.<br />

Allo stesso modo un Festival non lo si può creare sempre e ovunque. Il problema era<br />

quello di riconoscere il punto migliore e il momento dove c’era l’atmosfera adeguata:<br />

insomma, il posto giusto! Ed Avignone lo era, sembrava fatta apposta: per appenderci<br />

un Pendolo, magari alla volta della Grande Cappella del Palazzo dei Papi o nell’abside<br />

della Chiesa dei Celestini; o per trovarci un Aleph volteggiante tra le pietre lavorate che<br />

formano la stanza segreta del Tesoriere, nella Torre del papa, nel Grande Ambulacro o<br />

nascosto in qualche remoto angolo di ciò che restava del Convento dei Carmelitani.<br />

O magari per realizzarci quel “sogno che facciamo noi tutti”, punto centrale attorno<br />

a cui e all’interno del quale, ruota tutto il teatro contemporaneo.<br />

Come tutti sanno «per il popolo di Prato, gente dalla testa sulle spalle, scettica e<br />

pratica, il maggior interesse rimane, oggi come ieri, l’arte della lana». Questa<br />

caratteristica fece di Prato una città che, al contrario di tante altre, non diede i natali a<br />

troppe illustri persone diventate famose solo per i loro ghiribizzi, per i loro desideri più<br />

o meno riprovevoli, o per atti eroici. La vivacità delle genti di Prato fu quasi<br />

esclusivamente rivolta agli affari, tant’è che se a Siena o in Umbria si narrano le<br />

leggende di Pia de’ Tolomei o di Margherita da Cortona, a Prato una delle poche storie<br />

che «di generazione in generazione, continua ad essere narrata ai bambini» è quella di<br />

un mercante e di un gatto.<br />

La leggenda, che ripresi dal bel libro di Iris Origo, narrava di quando gli avventurosi<br />

mercanti toscani si spinsero per mare fino alla «remota isola chiamata Canaria», e un<br />

mercante, in particolare, fu invitato a pranzo dal Re:<br />

313


«Il mercante veggendo la mensa apparecchiata con li tovaglioli, sopra di essi una mazzuola di<br />

un braccio (del che il mercante non sapeva interpretarne la causa); ed essendo posti a mensa, e<br />

venendo le vivande, all’odore delle quali quivi compariva quantità di topi, bisognava con quella<br />

mazza cacciarli se volevano mangiare… E ritornatosi alla nave, la mattina vegnente il mercante<br />

ritornò, portando seco nella manica una gatta. E quando cominciò a venire le vivande,<br />

comparirono i topi: et il mercante cavò dalla manica la gatta, la quale in poco tempo ammazzò<br />

venticinque o trenta topi, e li altri si fuggirono. E dicendo il signore al mercante: Questo animale è<br />

celeste! soggiunse il mercante: “Signore mio, avendo Vostra Signoria fatta tanta cortesia, non<br />

posso ristorarla con altro, che farli presente di questa gatta…”.<br />

Il Re, grato, accettò il dono, ma prima che il mercante lasciasse l’isola lo mandò ancora a<br />

chiamare, regalandogli gioielli per un valore di 4.000 scudi. L’anno seguente il mercante ritornò di<br />

nuovo, portando con sé un gatto e ricevendone in cambio altri 6.000 scudi. Così il mercante di<br />

Prato rientrò a casa trasformato in un ricco signore: si chiamava “Francesco di Marco Datini”».<br />

Come la stessa Iris Origo affermava, quella “graziosa storiella” fu, in effetti,<br />

attribuita a molti altri mercanti e «non può venire seriamente legata al soggetto [del suo]<br />

libro. Francesco di Marco (all’epoca i cognomi non avevano l’importanza che gli<br />

attribuiamo al giorno d’oggi) non andò mai alle Canarie né mai si spinse oltre<br />

Avignone, e in tutta la sua vasta corrispondenza mai si accennava ad un gatto. Tuttavia,<br />

che una tradizione tanto persistente abbia continuato ad identificare questa storia con<br />

lui, denota la posizione che egli tenne, ed ancora tiene, nel ricordo dei suoi concittadini.<br />

Ed infatti la vera storia della sua fortuna non era meno straordinaria della leggenda<br />

stessa. Una storia che cominciava nel 1350 quando, ragazzo di quindici anni, avvolto in<br />

un mantello scarlatto (unico particolare giunto sino a noi) lasciava tutto solo la Toscana<br />

per andare a cercare fortuna nella grande città di Avignone, e terminò con la donazione,<br />

in punto di morte, di tutte le sue ricchezze ai poveri della città natale» (p. 4).<br />

Francesco Datini fu uno straordinario imprenditore, e a cavallo del Quattrocento era<br />

a capo di un impero economico che da Prato si estendeva in buona parte del<br />

Mediterraneo occidentale, da Firenze a Pisa, da Genova ad Avignone, da Barcellona a<br />

Valencia, fino a Maiorca e Ibiza. Il lettore potrà obiettare che Francesco Datini non fu<br />

certo l’unico mercante italiano di successo del Trecento e non fu l’unico ad andare ad<br />

Avignone. E ciò è fondamentalmente vero. Ma quel che fa di Francesco di Marco da<br />

Prato un personaggio considerevole fu il fatto che, come si legge nella quarta di<br />

copertina del libro di Iris Origo, «dedicò alla scrittura un tempo non inferiore a quello<br />

che dedicava agli affari, e “immagazzinò” le sue carte con la stessa cura con cui<br />

imballava e conservava le sue merci». Alla fine dell’Ottocento quando, in modo del<br />

tutto casuale, furono trovate le sue carte, pressoché intatte, alcuni studiosi di Prato si<br />

trovarono davanti a «centocinquanta lettere, più di cinquecento registri e libri di conto,<br />

trecento contatti di società (la maggior parte di altre compagnie minori collegate alla<br />

sua), quattrocento contratti di assicurazione e parecchie migliaia di polizze di carico e<br />

assegni. […] Oltre a raccontare la storia di una vita e di una impresa, quelle carte erano<br />

il più grande manuale commerciale del Trecento, un enorme catalogo nel quale erano<br />

documentati e descritti gli strumenti con cui i mercanti italiani, insieme ai loro colleghi<br />

di altri paesi, avevano trasformato le regole del commercio internazionale».<br />

Dunque, Francesco di Marco nacque a Prato; si poteva ragionevolmente supporre che<br />

l’anno di nascita fosse il 1335 e il luogo fosse quella Porta Fuia che stava rapidamente<br />

scomparendo sotto i colpi di piccone della demolizione della prima cerchia di mura<br />

314


cittadine 1 . Durante la tremenda peste del 1348, la stessa che ispirò al Boccaccio il suo<br />

Decamerone, il padre, Marco di Datino di Toscanello di Accompagnato di Bonfigliolo,<br />

e la madre, monna Vermiglia, morirono. I due fratelli sopravvissuti alla peste (il piccolo<br />

Marco e Stefano) vennero affidati alla tutela di Piero di Giunta del Rosso, loro parente<br />

ed esecutore testamentario dei genitori, e alle amorevoli cure di monna Piera di Pratese<br />

Boschetti. Francesco nutrì profondo affetto e rispetto per monna Piera, che considerò<br />

sempre come fosse sua madre. Piero di Giunta tenne a lungo un quadernetto che aveva<br />

riservato per l’amministrazione dell’eredità lasciata a Francesco dai genitori, lasciando<br />

in questo modo traccia di tutti i movimenti che fece il ragazzo nel periodo che trascorse<br />

a Prato e, soprattutto, a Firenze. Fu proprio a Firenze, entrato a bottega, che il il giovane<br />

Francesco maturò il progetto di seguire le orme di molti altri fiorentini, dandosi presto<br />

alla vita da mercante (era iscritto all’arte dei tavernieri) e valutando la possibilità di<br />

andare a cercare fortuna all’estero e, in particolare, in Provenza, divenuta capitale della<br />

Cristianità. Nel marzo del 1350, con i risparmi di Firenze e con il denaro proveniente<br />

dalla vendita di un possedimento paterno, Francesco partì via mare alla volta di<br />

Avignone, dando inizio ad una favolosa avventura economica che gestì per oltre<br />

sessanta anni.<br />

All’epoca dell’arrivo di Francesco di Marco, Avignone era uno dei più importanti<br />

mercati d’Europa, crocevia dei traffici che venivano da Nord lungo la valle del Rodano,<br />

e da Est, centro commerciale e di incontro tra le due aree del continente più dinamiche<br />

dell’epoca: l’Italia e le Fiandre. Da Inghilterra e Fiandre arrivavano lana e panno; grano,<br />

orzo, lino e armi (attraverso le valli della Duranza e i passi del Moncenisio e del<br />

Monginevro) arrivavano dalla Lombardia; dai porti della Provenza e della Linguadoca<br />

giungevano spezie, colori, sete orientali; da Roussillon e attraverso il Col de Pourtus,<br />

lana, olio e frutta spagnoli. Ma, ancora più importante, risalendo il grande fiume,<br />

affluivano ad Avignone i mercanti toscani provenienti da Pisa, per comprare le lane<br />

fiamminghe e inglesi e i panni pesanti ancora grezzi, e per lasciare il panno lavorato<br />

finemente dell’Arte di Calimala 2 , le sete e i broccati provenienti dall’entroterra toscano,<br />

le lavorazioni di Perugia e Arezzo, nonché tutto l’artigianato d’oro e d’argento di<br />

Firenze.<br />

Non si seppe molto dell’operosità del Datini a Avignone, ma le tracce che lasciava<br />

delle sue attività permettevano comunque di immagine quanto fu in grado di realizzare<br />

in poco tempo. Anche la sua vita privata fu oggetto di studio, visto che grande parte dei<br />

suoi cospicui scritti riguardavano le lettere private alla famiglia e alla moglie. Il lettore<br />

attratto da queste antiche vicende dal sapore tanto moderno, sappia che, in effetti, il<br />

quadro dei rapporti umani tra Margherita e Francesco poteva portare a rappresentazioni<br />

di comportamenti tanto biasimevoli, quanto, a tratti, anche di gustosa e attraente<br />

1<br />

Per la biografia di Francesco di Marco Datini mi sono rifatto, ovviamente, a Federigo Melis (1966) e al<br />

libro di Iris Origo (N.d.T.).<br />

2<br />

Le compagnie di Calimala fiorentine si distinguevano da quelle più famose dei lanaioli per il tipo di<br />

attività svolta e per l’organizzazione dei processi produttivi: oggi, con linguaggio moderno, si direbbe che<br />

svolgessero attività prettamente industriali di trasformazione, curando la rifinitura dei panni,<br />

concentrandosi sull’operazione della tintura, realizzate con materie prime proprie o di fornitori a loro<br />

volta specializzati, attraverso personale stabile e con l’ausilio di artigiano non vincolati dal punto di vista<br />

lavorativo, impiegati come liberi professionisti. Le corporazioni della lana, invece, svolgevano attività<br />

integrate, lungo l’intera filiera produttiva, affiancando tale attività a quella mercantile-bancaria,<br />

svolgendo quindi anche tutti i servizi finanziari collegati. Oggi, si tratterebbe di una sorta di “holding”<br />

con attività diversificata. Il lettore può fare riferimento a Melis 1991 e alle ricerche dell’Istituto<br />

Internazionale di Storia Economica “F. Datini” di Prato (N.d.A.).<br />

315


quotidianità, per un osservatore odierno. Con buona probabilità, era indubbio, infatti,<br />

che Margherita fosse donna saggia e premurosa, e per certi versi molto “moderna”; così<br />

come era fuori discussione che, invece, Francesco, con tutte le attenuanti del caso se si<br />

vuole, ebbe spesso atteggiamenti da marito trascurato ed esigente, incline al tradimento.<br />

Ma in questo momento mi premeva attenermi ad alcuni altri fatti: Francesco, forse<br />

anche piegandosi ai consigli insistenti di amici e parenti (sic!), si sposò in età piuttosto<br />

avanzata per l’epoca, con la fiorentina Margherita di Domenico di Donato Bandini,<br />

figlia di un ricco commerciante che risiedeva anch’egli ad Avignone; e i racconti che si<br />

fecero del loro matrimonio nella Avignone del 1376 narravano di una celebrazione e di<br />

festeggiammenti fastosi. Ad ogni modo, per motivi che molto più in là il mio lettore<br />

potrà apprezzare, al momento ero interessato al Francesco di Marco quale operatore<br />

economico del tardo medioevo. E per quanto atteneva il suo lavoro, Francesco dava<br />

prova di buon senso, rettitudine e onestà nella conduzione degli affari, notevoli capacità<br />

innovative, il tutto condito da sentimenti di attenzione per quanti lavorassero con lui e<br />

per lui. E in termini di attenzione alla qualità del rapporto con i suoi clienti, nelle<br />

migliaia di lettere che lo riguardarono, il Datini, per alcuna delle aziende che egli<br />

dirigeva, non ebbe mai lamentele per imperfezioni nelle forniture, per la tempestività<br />

degli approvvigionamenti, per aggravi dei costi e nei prezzi, per operazioni commerciali<br />

e bancarie sin senso stretto.<br />

Oltre la metà della sua dinamica attività commerciale fu realizzata attorno all’azienda<br />

di Avignone: in seguito gli aggregati aziendali si moltiplicheranno notevolmente. Nel<br />

suo Aspetti della vita economica medievale 1 , Federigo Melis, riferendosi al Datini,<br />

sottolineava come: «La distribuzione delle compagnie mercantili ubbidisce all’ordinata<br />

successione geografica delle zone alle quali erano preposte: esse vengono ubicate<br />

dall’arco che va dall’Atlantico al Levante, con frequenti salienti interni, ossia il<br />

retroterra – dovuti all’azione degli elementi originari (della compagnia di Firenze sulla<br />

rappresentanza di Venezia) e, di rimbalzo, all’azione di quelli derivati (dalla<br />

rappresentaza di Venezia, la penetrazione in Germania, continuando nell’esempio) – e<br />

con salienti esterni, ossia l’avanmare (attraverso la filiale di Maiorca e, meno, da quella<br />

di Valenza si aprivano il Marocco e l’Algeria) 2 ».<br />

Ma prima di giungere a tale evoluzione, Francesco di Marco dovette attraversare fasi<br />

differenti, a seconda del suo ruolo nelle aziende in cui lavorava. Tra il 1350 e il luglio<br />

del 1363 non si hanno informazioni e documentazioni sulla sua attività.<br />

Verosimilmente, non avendo una posizione di responsabilità e lavorando come “fattore”<br />

in aziende altrui, non sentì l’esigenza di tenere alcun documento ufficiale. Nel 1363<br />

divenne socio di una compagnia, quella con Niccolò di Bernardo, che verosimilmente<br />

egli aveva già servito come fattore, forse su raccomandazione di monna Piera, sua<br />

madre adottiva. «Viene, poi, accolto in due società – con Tuccio, prima, e con Toro, in<br />

seguito – caratterizzate da originali diramazioni discendenti da lui stesso, che rimane,<br />

tuttavia, in posizione subordinata 3 ». Ciò gli permise di maturare notevolmente,<br />

consolidarsi economicamente e prepare lo stadio successivo, quando, a partire dal 1373<br />

si cimentò in una considerevole azienda individuale, avvelendosi di parecchi<br />

collaboratori e gestendola grazie ad una serie di ottime operazioni. Tale azienda si<br />

allargò attraverso verie “associazioni in partecipazione” in cui Francesco rivestì il<br />

duplice ruolo di socio di capitale e di socio lavoratore. Questa doppia distinzione fu una<br />

1 Melis 1966 (N.d.T.).<br />

2 Ibidem: 134 (N.d.T.).<br />

3 Ibidem: 135-136 (N.d.T.).<br />

316


vera novità nel panorama delle “normali compagnie” dell’epoca e Francesco la maturò<br />

attorno al dicembre del 1382, al suo ritorno in Italia: «l’ammissione di un socio d’opera<br />

puro […] e, dall’altro, il “maggiore” […] stabilito lontano, che la guidava nelle linee<br />

generali della gestione e nei rapporti via via insorgenti con ulteriori aziende da lui messe<br />

in moto 1 ».<br />

Torniamo indietro di qualche anno rispetto all’arrivo di Francesco di Marco da Prato,<br />

perché la storia di Avignone non può prescindere da quella dei papi. Il fascino attuale di<br />

Avignone, infatti, era dovuto in buona parte a quell’incredibile periodo storico che<br />

andava dalla fine del 1200 agli inizi del 1400. Poco più di un secolo per lasciare un<br />

segno indelebile nella Storia.<br />

In quel periodo, le lotte tra Guelfi e Ghibellini rendevano estremamente incerte el<br />

vicende italiane (e non solo) e, in particolare, degli Stati pontifici. Inoltre, lo scontro tra<br />

Bonifacio VIII e Filippo il Bello di Francia che i libri di scuola fecero ricordare per il<br />

famoso “schiaffo di Anagni”, portarono Benedetto XI a stabilirsi a Perugia.<br />

Bertrand de Got, arcivescovo di Bordeaux, fu eletto successore di Benedetto XI il 5<br />

giugno del 1305, al termine di un lunghissimo conclave. Avuta notizia della sua<br />

elezione, Clemente V arrivò a Lione il giorno di Ognissanti del 1305 e ricevette la<br />

corona papale il successivo 14 novembre. Divenuto subito oggetto di pressioni da parte<br />

di Filippo il Bello, gli influssi del re di Francia durarono per tutto il pontificato: ciò<br />

spiegava anche la scelta di Lione per l’incoronazione, essendo una città in cui da poco<br />

l’influenza del re divenne preponderante. Clemente V decise così di non recarsi a Roma<br />

e la corte pontificia continuò ad esere itinerante. Verso il Natale del 1305 il pontefice<br />

annunciò la sua partenza per la Guienna, antico feudo francese dei re d’Inghilterra in cui<br />

era nato da Bernard de Got, signore di Villaudrant. La carriera del futuro Clemente V<br />

cominciò proprio nel priorato nei pressi di Agen. Studiò diritto a Orléans e a Bologna;<br />

fu canonico di Bordeaux e di Arger fino al 1295. Uno dei suoi fratelli, diventato<br />

arcivescovo di Lione nel 1289, lo fece nominare vicario generale. Durante il pontificato<br />

di Celestino V entrambi si misero in luce: l’uno fu nominato cardinale e Bertrand<br />

cappellano pontificio, carica, quest’ultimam che gli fu confermata da Bonifacio VIII che<br />

lo nominò quindi vescovo di Comminges nel 1295. I due fratelli de Got ebbero anche<br />

rilevanti compiti diplomatici vista l’epoca di conflitto tra Inghilterra e Francia. Il loro<br />

ruolo di mediatori facilitò ulteriormente la loro carriera, tant’è che Edoardo I di<br />

Inghilterra ebbe una parte notevole nella nomina di Bertrand de Got a arcivescovo di<br />

Bordeaux, alla fine del 1299. Il nuovo papa, nel maggio del 1306, intraprese un viaggio<br />

per Bordeaux, dopo aver sostato a Cluny, Nevers, Bourges e Limoges. Tra l’aprile 1307<br />

e l’agosto del 1308 soggiornò a Poitiers, prima di realizzare quel viaggio nel sud della<br />

Francia che lo avrebbe portato ad Avignone. Era il 9 marzo del 1309 che arrivò nella<br />

città che ritenne ideale per attendere il concilio generale che aveva convocato a Vienne<br />

per il 1° ottobre 1310. Fu a cavallo di questo periodo che si consumò la controversa<br />

vicenda legata all’ordine militare dei Templari, sotto l’egida di Filippo il Bello che<br />

aveva posto come vincolo al suo appoggio per la crociata la soppressione degli ordini<br />

militari internazionali a vantaggio di un Ordine nuovo posto sotto la sua autorità. Nel<br />

1307 il re fece arrestare tutti i Templari del regno, la cui sorte divenne ben presto legata<br />

al processo di Bonifacio VIII. Clemente V non volle compromettere la memoria del suo<br />

predecessore, pagando questo con il sacrificio dei Templari. L’Ordine fu sottoposto a<br />

giudizio nel concilio generale di Vienne che si tenne solo nell’ottobre del 1311, quando<br />

1 Ibidem: 136 (N.d.T.).<br />

317


il pontefice prese personalmente la decisione di sopprimere l’Ordine con una bolla del<br />

22 marzo 1312. I beni dei Templari furono donati all’Ordine degli Ospitalieri.<br />

All’inizio del XIV secolo «Avignone era una cittadina di circa seimila abitanti,<br />

situata in una felice posizione lungo il Rodano. Il celebre ponte Saint Bénézet, che<br />

collegava i territori del regno di Francia con quelli dell’Impero, era un ulteriore punto<br />

strategico e inoltre all’epoca reappresentava l’ultimo ponte prima di giungere al mare; la<br />

localizzazione geografica molto favorevole della città aveva già attirato del resto un<br />

gran numero di mercanti. La signoria di Avignone apparteneva completamente, dal<br />

1290 – data in cui Filippo il Bello cedette la propria parte – a Carlo II d’Angiò, re di<br />

Gerusalemme e di Sicilia, nonché conte di Provenza, ma la città era anche molto vicina<br />

al Contado Venassimo, proprietà ecclesiastica dal 1274 1 ».<br />

L’organizzazione della corte papale non era molto diversa da quella di tutti i principi<br />

dell’epoca. Clemente V fece il suo ingresso in città accompagnato da prelati, dignitari,<br />

funzionari della Curia, familiari e domestici. La mobilità del papato non rendeva facile<br />

la vita e il lavoro di corte. Ma ciò non toglie che, nell’ambito della politica accentratrice<br />

del papa, ci fu uno sviluppo della specializzazione e di un apparato amministrativo della<br />

Curia sempre più complesso. Anche in termini di dimensioni la corte papale crebbe a<br />

dismisura: «gli ufficiali diventarono progressivamente salariati esterni, alloggiati non<br />

più nel Palazzo dei Papi, ma in città. Nonostante [la professionalizzazione generale del<br />

sistema] i papi mantennero tutti i legami personali, scegliendo sempre uomini di fiducia,<br />

sia che si trattasse di loro parenti, sia che fossero semplicemente loro compatriori… La<br />

corte rimase quindi una sorta di clientela del pontefice 2 ».<br />

Il papato di Giovanni XXII doveva essere un pontificato di transizione: dopo la<br />

morte di Clemente V, il 20 aprile 1314, il conclave riunitosi a Carpentras, che fu anche<br />

minacciato e assediato da bande di soldati pagati dei nipoti di Clemente V, ci mise due<br />

anni a convergere su un solo nome, e Giovanni XXII salì al soglio pontificio solo il 7<br />

agosto 1316. Ma a ben vedere, come spesso accade e nonostante l’esteriore debolezza<br />

del nuovo pontefice, egli governò con fermezza e un certo attaccamento spirituale verso<br />

la sua carica, fino al 1334, quasi novantenne: fu il più lungo pontificato del XIV secolo.<br />

Giovanni XXII fu vescovo di Avignone per due anni dal 1310. Il suo predecessore,<br />

Clemente V, considerava Avignone un soggiorno temporaneo tant’è che solo nel 1309,<br />

di fatto, entrò stabilmente in città, posando però gli occhi sul convento dei Domenicani,<br />

all’epoca il più vasto della città. Ma come forse il lettore avrà inteso, quelli non erano<br />

anni sereni e sicuri, neanche per gli uomini di potere, tant’è che sentitosi più volte<br />

minacciato, Clemente V si rifugiava spesso nel Palazzo vescovile, seguendo una lunga<br />

tradizione che vedeva i pontefici del XIII secolo, in fuga dal caos della politica romana,<br />

condurre vita itinerante in varie città dei loro stati italiani: a Viterbo, Anagni, Orvieto,<br />

Perugia, Tivoli e Ferentino. Giovanni XXII seguì dunque una tradizione consolidata<br />

risiedendo in quello che era già stato il suo palazzo vescovile. Ma la situazione politica<br />

di Avignone era molto particolare e risultava intollerabile al pontefice: da un lato,<br />

infatti, la città non apparteneva alla Chiesa e il nuovo pontefice, di fatto, era ospite del<br />

re di Sicilia e conte di Provenza, Roberto d’Angiò; dall’altro, l’edificio che intendeva<br />

occupare, essendo il più sicuro e appropriato, non gli apparteneva, essendo ospite del<br />

vescovo su suolo d’altri.<br />

Secondo gli storici, Giovanni XXII era mosso da una effettiva volontà riformatrice e<br />

la decisione di stabilire in modo duraturo la sede della Chiesa di Roma ad Avignone era<br />

1 Vingtain, Sauvageot 1999 (N.d.A.).<br />

2 Ibidem: 26 (N.d.A.).<br />

318


iconducibile allo scopo di rendere più efficiente il governo della Chiesa. Strano destino<br />

quello di Avignone, chiamata, a distanza di molti secoli, ad essere laboratorio di<br />

“decentramento” politico e culturale.<br />

Ad ogni modo, fin da subito, la strategia del pontefice mirava a risolvere<br />

l’intollerabile situazione di considerarsi come un ospite attraverso la riconquista dei<br />

territori vicini di Avignone. Tale processo terminerà solo nel 1348 quando Clemente VI<br />

acquisto la città dalla regina Giovanna, contessa di Provenza. Ovviamente,<br />

l’insediamento più stabile di Giovanni XXII creò parecchi problemi di ordine<br />

organizzativo e logistico in quanto la Curia era composta, già all’epoca, da oltre<br />

cinquecento persone: familiari pontifici, funzionari, invitati e ospiti di riguardo, sedi<br />

amministrative. Oltre che nelle immediate vicinanze di Avignone, i primi terreni furono<br />

acquistati a Sorgues e a Châteauneuf-du-Pape, per ingrandire e costruire palazzi e<br />

dimore pontificie. Un esempio notevole, in tal senso, doveva essere la residenza di<br />

Pont-de-Sorgues, una sorta di palazzo-fortezza al centro del bel villaggio, alla<br />

confluenza della Sorgues e dell’Ouvèze, oggi però scomparso. Il palazzo permise al<br />

pontefice di avere un luogo “sicuro” anche per battere moneta, manifestazione di potere<br />

e di autonomia 1 . Parallelamente, gli sforzi di Giovanni XXII furono indirizzati alla<br />

trasformazione del palazzo episcopale di Avignone, legittimata a divenire sua residenza<br />

quando, con una bolla del luglio del 1318, si assegnò la carica vescovile di Avignone;<br />

inoltre furono edificati altri castelli a Châteauneuf, Noves e Bedarrides. In breve, anche<br />

se poco ci resta della sua opera di committente, fin dal secondo papa d’Avignone vi fu<br />

forte l’esigenza di stabilire una sede che fosse adeguata ad ospitare la Chiesa di Roma.<br />

In quell’epoca Avignone si avviò a diventare uno dei centri culturali più importanti<br />

d’Europa. Enrico Castelnuovo, nelle sue ricerche alla riscoperta di quel periodo artistico<br />

che si rivelò ben più fecondo di quanto si possa immaginare, sottolineò come vi fossero<br />

diversi elementi che permettevano di convergere su quel giudizio.<br />

In particolare, cosa che solo in apparenza era di secondaria importanza, assieme a<br />

papi e cardinali su Avignone confluì una grandissima quantità di libri, sia della<br />

biblioteca papale sia per il tramite di quelle cardinalizie. Inoltre, grazie a tale vicinanza<br />

fisica con il potere papale che, non dimentichiamolo, era pur sempre un influente<br />

“monarca”, gli intellettuali provenienti dal sud del Mediterraneo e dal centro Europa<br />

poterono tornare a contatto con straordinari manoscritti di testi antichi, per lo più «della<br />

gloriosa tradizione classica del Medioevo francese» e provenienti da Oriente, salvatisi<br />

grazie «all’attività degli scriptoria abbaziali carolingi e romanici 2 ».<br />

La conoscenza, all’epoca, aveva strutture cognitive non troppo diverse da quelle<br />

“moderne”: l’arte si diffondeva seguendo le rotte dei mercanti e quelle politiche; le<br />

corporazioni dei mestieri erano in grado di progettare “opere” grandiose e di gestirle<br />

attraverso istituti complessi come la “fabbriceria”; in Occidente, da tempo, si era<br />

tornati a leggere Aristotele; e, tra l’altro, Ruggero Bacone era morto solo da pochi anni.<br />

Ma la conoscenza dell’epoca viaggiava attraverso forme di riproduzione, seguiva flussi<br />

di distribuzione e si basava su regole e sistemi di governo delle relazioni ben diversi da<br />

quelli contemporanei: era quella specifica combinazione di mediatori cognitivi a<br />

caratterizzare la propagazione del sapere dell’epoca “pre-moderna” ma anche a<br />

1 A tal proposito è significativo che, appena fu concluso l’acquisto della città, l’officina di conio di Pontde-Sorgues<br />

fu abbandonata per essere trasferita nella città (N.d.T.).<br />

2 Castelnuovo 1991: 9 (N.d.T.).<br />

319


caratterizzare quell’incredibile sviluppo che permise venissero poste le basi per i<br />

passaggi storici successivi 1 .<br />

E ad Avignone tutto ciò stava accadendo: oltre che attraverso i libri, le conoscenze<br />

viaggiavano con le persone e «il vivace commercio dei manoscritti, il passaggio i grandi<br />

intellettuali italiani, francesi, inglesi e boemi, fossero essi addetti agli uffici curiali, o<br />

venuti ad Avignone come emissari dei loro re o come semplici viaggiatori» costituirono<br />

tutte fortunate coincidenze che alimentarono un fermento culturale notevole. Si trattava<br />

di «personaggi disparati, di formazione, di orientamento culturale, di interessi molto<br />

diversi; sono giuristi, notai, canonisti, storici, teologi, letterati, musici, politici; ma, dagli<br />

ingegni più conservatori a quelli più moderni, tutti sono vivamente interessati, seppure<br />

spinti da diverse motivazioni, alla conoscenza della cultura antica: non per nulla proprio<br />

qui ad Avignone, e non a Bologna o a Montpellier, Francesco Petrarca ricevette la sua<br />

educazione umanistica 2 ».<br />

Fermo restando che, anche dal punto di vista di insigni storici e storici dell’arte 3 , la<br />

politica culturale dei papi ad Avignone non seguì una strategia d’azione omogenea e<br />

precisa, oggi è indubbio che il periodo della “cattività avignonese” abbia contribuito in<br />

modo determinante a fare diventare la città della Valchiusa (Vaucluse) un centro vivace<br />

anche dal punto di vista artistico, oltre che economico e politico: «l’esistenza del<br />

grandioso organismo in cui era trasformata la curia obbligava praticamente quasi tutti<br />

gli intellettuali europei a venire in contatto con essa per ottenerne possibilità di<br />

sostentamento e di studio […]. Avignone insomma divenne un centro culturale<br />

importantissimo per il solo fatto che vi risiedeva la curia, per ciò che la curia era<br />

diventata, e per lo straordinario giro di interessi che attorno a essa gravitava. Esso ebbe<br />

una parte fondamentale nel diffondere in Francia la cultura protoumanistica italiana e<br />

d’altra parte nello stimolare lo sviluppo degli studi classici nella stessa Italia, arrivando<br />

a da luogo a un rapporto multiplo, una specie di cross-feritilization ove le esperienze di<br />

varie culture erano messe a paragone e arricchite dal reciproco contatto. A ciò si arrivò<br />

proprio nel corso del lungo pontificato di Giovanni XXII […]. Anche per le arti<br />

figurative furono allora poste le premesse per un’analoga molteplicità di rapporti, una<br />

nuova cross-fertilization che diverrà imponente sotto i successivi pontificati di<br />

Benedetto XII e di Clemente VI. Il problema va visto entro l’ambito del mecenatismo<br />

artistico papale che assunse in questi anni un aspetto nuovo e tale da caratterizzare<br />

originalmente il soggiorno avignonese della curia 4 ».<br />

Ebbi una percezione tanto simbolica quanto reale di tanta ricchezza e sfarzo quando<br />

rimasi colpito da un oggetto in particolare, durante una mia visita al Museo Nazionale<br />

del Medioevo di Parigi. All’Hôtel de Cluny, splendido esempio di architettura gotica del<br />

XV secolo, residenza privata che in parte sorgeva a ridosso delle antiche terme romane<br />

e ospitava la famosa Dama dell’unicorno, ebbi modo di vedere un esemplare delle<br />

famose “Rose d’Oro” pontificali. Uno degli oggetti preziosi più celebri, le rose d’oro<br />

venivano regalate a quanti il papa desiderava ringraziare pubblicamente di qualche<br />

grande servigio reso alla Chiesa. La consegna del regalo, di altissimo valore economico<br />

e simbolico, avveniva nel corso di una cerimonia che si svolgeva la quarta domenica di<br />

Quaresima. Sia Clemente V che Giovanni XXII ripresero questa tradizione che risaliva<br />

all’XI secolo. In quegli anni, in particolare, l’oggetto assunse la forma di un vero e<br />

1 Rullani 2004b (N.d.T.).<br />

2 Castelnuovo 1991: 10-11 (N.d.T.).<br />

3 Solo per citarne alcuni: Calstelnuovo 1991; Ariès, Duby 1999; Vingtain, Sauvageot 1999; Le Goff …<br />

4 Castelnuovo 1991:12 (N.d.T.).<br />

320


proprio ramo di rosaio il cui peso e ornamenti dipendevano dall’importanza della<br />

persona a cui era destinato. Durante il pontificato di Giovanni XXII ogni rosa costava<br />

circa un centinaio di fiorini (per avere un’ordine di grandezza, Clemente VI acquistò la<br />

città di Avignone per 80.000 fiorini: l’equivalente di 800 rose, materiale e manodopera<br />

comprese, ovviamente). Ornate di uno o più zaffiri e granati, dapprima furono<br />

importate, in regime di monopolio; da tale Rico Corboli, mercante italiano trasferitosi a<br />

Avignone; successivamente se ne cominciò la produzione direttamente ad Avignone da<br />

parte di Domenico di Jacopo da Siena. Quella che vidi a Parigi era la famosa rosa di<br />

Minucchio da Siena, regalata a Rodolfo III di Nadau, conte di Neufchâtel e alleato del<br />

papa nella lotta contro l’imperatore Luigi di Baviera.<br />

Il 20 dicembre 1334, poco tempo dopo la morte di Giovanni XXII, fu eletto papa<br />

Jacques Fournier, monaco cistercense, dal 1327 consigliere del defunto pontefice.<br />

Divenne Benedetto XII. Per quanto ebbe fama di essere uomo integerrimo, abile nel<br />

circondarsi di validi collaboratori, efficace nell’amministrazione (riusciva, nonostante le<br />

ingenti spese, a devolvere il 19 per cento del suo bilancio ai poveri), il suo attivismo<br />

politico e le sue decisioni di rafforzamento del potere temporale divennero un esempio<br />

di come funzionava, oramai, la Chiesa ad Avignone. Oltre alle ben note manifestazioni<br />

di protesta di Francesco Petrarca, un’ulteriore testimonianza dell’opinione pubblica<br />

dell’epoca era l’opera di Jean Dupin “Malinconie”, terminata nel 1340, e che conobbe<br />

un notevole successo. Eccone un estratto, così come riportata nella traduzione dal libro<br />

di Dominique Vingtain e Claude Sauvageot, “Avignone, il Palazzo dei Papi”:<br />

«E’ in Provenza, il titolo di signone, che il papa si è insediato, nella città di Avignone. In città ha la<br />

corte, ma è la sua famiglia che si è installata e si accaparra tutti i privilegi, i pastorali episcopali, le<br />

alte cariche.<br />

Il nostro papa è riuscito abilmente a trasferirsi: d’ora in avanti, il falco vuole spiccare da vicino i<br />

suoi voli! La sua casa è ben custodita: lui sta chiuso nel suo palazzo e nessuno gli può parlare, a<br />

meno che non porti con sé una grande borsa d’oro.<br />

Egli fa installare merli per difendere i suoi castelli, fa dipingere i suoi appartamenti e li fa guarnire<br />

di listelli, ecco le sue occupazioni e i suoi interessi (…).<br />

Il nostro papa non riflette su ciò che è stato il lento cammino di Cristo, sempre a piedi, senza<br />

scarpe. Ahimé, lui non si era installato da alcuna parte! In estate e in inverno lui camminava, col<br />

freddo e con la neve.<br />

Le istituzioni della santa Chiesa sono corrotte dalla simonia e da modi di agire indegni e disonesti.<br />

Non si vedrà più affidare una chiesa, un vescovado o un’abbazia se non per una bustarella – né un<br />

priorato, né una canonica. E’ una cosa davvero ignobile vendere Dio e la sua casa!<br />

Avignone la si vende e la si acquista. Normalmente, vi si chiedevano dei benefici gratuiti, ma ecco<br />

che la si chiama “il supermercato”. Mai un povero riuscirà a ottenere un beneficio se non<br />

acquistandolo a un prezzo smodato; le alte qualità intellettuali non hanno alcun valore.<br />

Il papa, nella sua maestà, pronuncia decisioni senza appello e conferma le dispense, ma rifiuta il<br />

contatto con la folla: ha troppa paura di essere avvelenato, si mostra in udienza con eccessiva<br />

parsimonia; se l’oro e le perle riescono a salvaguardarlo, e tutta quella ricchezza gli rende la vita<br />

facile, allora il suo potere durerà a lungo! Quando si fa richiesta di cambiare posto o assumere una<br />

carica, si tratta più di vendere che di dare: le ordinanze si pagano a un prezzo esorbitante (…).<br />

Il papa deve avere la mente lucida e risolvere i problemi, lui che è il magnifico giglio con cui sono<br />

lavate le nostre anime. Ha due bastoni di comando principali, il temporale e lo spirituale: il<br />

pastorale e la spada dritta (…).<br />

Ho fatto queste osservazioni e posto i miei principi sulla natura profonda del mondo temporale –<br />

se fosse quello che è sempre stato normalmente! Ma ecco che è tutto corrotto e traviato: bisogna<br />

necessariamente ammettere che il papa non ha conservato il suo ruolo (…)».<br />

(Jean Dupin, citato in Vingtain, Sauvageot 1999: 92-93)<br />

321


Sempre dal racconto intenso di Iris Origo: «Avignone, quando vi giunse Francesco di<br />

Marco, era, come molte altre città medievali, magnifica e squallida insieme e offriva un<br />

violento contrasto di lusso e di miseria. Clemente VI, il Papa che aveva per massima di<br />

non consentire che “alcun suddito lasciasse mai la sua augusta presenza insoddisfatto”,<br />

sedeva ancora sul trono papale, e la sua corte era considerata la più brillante d’Europa.<br />

Ma la piccola capitale di provincia, diventata ora centro della cristianità, era troppo<br />

angusta per contenere i suoi trentamila abitanti [per l’epoca l’equivalente di una<br />

metropoli moderna – n.d.t.] e il gigantesco palazzo papale, che dominava con la sua<br />

mole la città. Non riusciva nemmeno ad ospitare tutti i membri della Curia. Occorreva<br />

trovare alloggio in città agli innumerevoli visitatori – ambasciatori e postulanti,<br />

mercanti e viaggiatori – oltre ad abitazioni per cortigiani, impiegati e dipendenti della<br />

corte papale: occorreva sistemare le corti minori dei cardinali, le quali comprendevano,<br />

oltre alle guardie e al servitorame, legali, notai, cambiatori, artisti e mercanti. La città<br />

era talmente sovrapopolata che speciali funzionari, “taxatores domorum”, erano<br />

incaricati di assegnare le abitazioni ai membri della Curia, regolandone il fitto […non so<br />

perché ma leggendo questo dettaglio mi vennero in mente le agenzie immobiliari della<br />

moderna Avignone che affittano alloggi ai turisti e ai festivalieri per prezzi da capogiro<br />

– n.d.t.]. Infine, pigiate nel cuore della città, troviamo le basse e oscure dimore dei<br />

poveri, degli squattrinati studenti universitari [ad Avignone ha sede una plurisecolare<br />

università – n.d.t.], dei muratori e manovali dalle cui mani sorgevano i nuovi palazzi;<br />

dei servi, lavandaie, spazzini e portatori d’acqua, addetti ai prelati e ai nobili; dei<br />

mercati e degli artigiani che supplivano ai loro bisogni, e della grande orda di<br />

avventurieri, ladri e prostitute. Le abitazioni erano così vicine e affollate e le strette<br />

strade disselciate così maleodoranti, che anche in un’epoca in cui tali inconvenienti<br />

venivano accettati come un fatto inevitabile della vita cittadina, un ambasciatore<br />

aragonese se ne lamentava dicendo che il puzzo lo aveva fatto ammalare, e il Petrarca<br />

dichiarava di essere stato obbligato ad andare a Valchiusa, solo per goderne le bellezze,<br />

ma per non accorciare la sua vita.<br />

Dall’empia Babilonia, ond’è sfuggita<br />

Ogni vergogna…<br />

Son fuggit’io per allungar la vita<br />

Nel palazzo stesso del Papa lusso e ascetismo erano uniti. Tranne le finestre della<br />

cappella e della sala del Concistoro, tutte le altre, invece che da vetri, erano chiuse da<br />

impannate; i pavimenti delle stanze, scarsamente ammobiliate, erano coperti di stuoie, o<br />

cosparsi di giunchi o di lavanda. Tra i Papi, Urbano V elesse persino di dormire sul<br />

nudo tavolato. Le sale dei banchetti e delle udienze avevano i muri coperti da sargie<br />

pesanti e da ricchi arazzi italiani, spagnoli e fiamminghi, mentre il vasellame era<br />

d’argento e d’oro e anche le coppe, usate per assicurarsi che non vi fosse veleno nel<br />

vino dei prelati, erano di metalli preziosi, adorne di lingue di serpenti che si credeva<br />

possedessero il potere magico di rivelare la verità. Le mule e i cavalli dei cardinali<br />

avevano morsi d’oro e d’oro erano intessute le loro gualdrappe. “Presto”, scriveva<br />

Petrarca, “anche i ferri dei loro zoccoli saranno d’oro”.<br />

[…] Gran parte degli artisti e degli artigiani che vivevano nella città papale erano<br />

italiani. In un elenco del 1376 degli appartenenti alla confraternita di Notre Dame de<br />

Majour, quasi tutti gli artigiani e mercanti, su milleduecentoventiquattro nomi ne<br />

troviamo mille e cento italiano, dei quali settanta falegnami e carpentieri, e più di<br />

322


quaranta orafi, nonché innumerevoli tessitori e artigiani che lavoravano il cuoio, oltre ad<br />

alcuni armaioli, scalpellini, muratori e scultori. Simone Martini, venuto con tutta la<br />

famiglia ad Avignone, dietro richiesta del Papa, vi era morto sei anni prima dell’arrivo<br />

del Datini; ma molti dei suoi scolari continuavano a lavorare alla nuova cappella di San<br />

Giovanni, e il pittore ufficiale della corte di Clemente VI era un italiano, Matteo<br />

Giovannetti di Viterbo» (capitolo primo).<br />

Pierre Roger, eminente personalità del Sacro Coleggio, fu proclamato Clemente VI il<br />

7 maggio 1342, dal conclave riunito al Palazzo dei Papi: furono costruiti due enormi<br />

archi di pietra per collegare il Grande Tinello e la camera del Paramento con<br />

l’appartamento degli Ospiti. L’incoronazione, per l’ultima volta, si tenne nel convento<br />

dei Domenicani di Avignone, dove c’era ancora più spazio rispetto al palazzo di<br />

Benedetto XII.<br />

Clemente VI influì notevolmente sul periodo avignonese dei papi: «uomo brillante e<br />

amante del lusso, d’intelligenza non comune, abile diplomatico e amante delle arti,<br />

rimane il papa che scelse la città di Avignone senza esitazioni, acquistandola dalla<br />

regina Giovanna. […] Diventato papa, si era impegnato a difendere la sovranità e<br />

l’infallibilità pontificie. Lo stile di vita lussuoso, il Palazzo Nuovo edificato con grandi<br />

spese e il ruolo di mecenate da lui svolto erano altrettanti elementi fondamentali<br />

nell’esaltazione della majestas pontificia 1 ». Clemente VI dovette risolvere anche diverse<br />

queste diplomatiche: i problematici rapporti con Roma e con la rivolta del notaiotribuno<br />

Cola di Rienzo; le questioni angioine di Napoli, riuscendo a conservare<br />

l’autorità su quelle zone; le faccende imperiali, cercando una situazione di<br />

compromesso e proponendosi, per altro senza molto successo, come mediatore per porre<br />

fine alla guerra tra Francia e Inghilterra.<br />

Con l’acquisto della città aveva posto solide basi territoriali per l’espansione della<br />

Chiesa ben oltre il Contado Vanessino: a quel punto non vi furono più ostacoli alla<br />

realizzazione di un grande palazzo che potesse dare lustro alla Chiesa.<br />

Clemente VI morì a quasi sessanta anni, il 6 dicembre 1352, in un palazzo che<br />

strutturalmente era quasi identico a quello che vide Francesco di Marco e a quello che<br />

vediamo oggi: poco dopo aver celebrato una messa nella cosiddetta “cappella nuova” in<br />

cui ringraziò Dio per avergli permesso di vedere realizzati molti dei suoi progetti.<br />

Dopo pochi giorni dalla morte del papa, il conclave trovò immediatamente il<br />

consenso: venne eletto Etienne Aubert, cardinale e vescovo di Ostia, col nome di<br />

Innocenzo VI. Una volta eletto tentò di risolvere il problema delle ingerenze degli altri<br />

cardinali circa il controllo sul papato, adottando le medesime formule di Clemente VI<br />

per quanto atteneva la formazione della Curia e del Sacro Collegio: si circondò di<br />

uomini di sua fiducia e originari del sud-ovest della Francia.<br />

Inoltre, fece fondare la Certosa di Val de Bénédiction a Villeneuve-les-Avignon,<br />

costruita proprio nella sua proprietà cardinalizia.<br />

1 Vingtain, Sauvageot 1999: 184 (N.d.A.).<br />

323


XXIV<br />

(Organizzare la messa in scena del Festival. L’evoluzione della macchina scenica: il Palazzo dei Papi e i<br />

luoghi del Festival. Il “mito” della Cour d’Honneur)<br />

Dove viene posta particolare attenzione all’evoluzione della macchina scenica del<br />

Festival, parte integrante del suo mito, e a come vincoli apparenti di natura fisica possano<br />

diventare delle incredibili opportunità nelle mani delle persone giuste <br />

«Il y eut aussi le profonde space ouvert sue le ciel de la cour<br />

d’Honneur du palais des Papes, et la muraille de cette cour<br />

d’Honneur contre laquelle furent présentés nos premiers<br />

spectacles. / Aurais-je eu la perverse et secrète ambition de<br />

transporter en un tel lieu les décors du théâtre bourgeois, que la<br />

muraille d’Avignon lese eût écrasés dès le premier jour. Ainsi<br />

un lieu noble entre tous, et pur, ne supportait entre les chefsd’œuvre<br />

et lui-même aucun artifice. L’accord entre la pierre<br />

nue d’Avignon et Shakespeare, Corneille, Büchner et Kleist fut<br />

immédiat. Et il me confirma dans cette conviction que l’effort<br />

de régie des classiques populaires, œuvres adultes entre toutes,<br />

devait rompre avec l’esthétique encombrante et bavarde des<br />

théâtres d’argent»<br />

(da “Le Théâtre, service public”, di Jean Vilar)<br />

Varcando l’entrata principale del<br />

Palazzo, attraverso il portale degli<br />

Champeaux, accedendo all’ala dei<br />

dignitari, facevo un salto all’indietro di tre<br />

decenni rispetto all’arrivo di Francesco di<br />

Marco Datini in quel di Avignone: era mia<br />

intenzione ripercorrere la storia, per<br />

arrivare a capire come si giunse a quel<br />

possente palazzo che il giovane mercante di<br />

Prato si trovò dinnanzi nella metà del<br />

Trecento. Quello stesso palazzo che sei<br />

secoli dopo, ancora più maestoso, Jean<br />

Vilar decise di “adottare”, per fare nella sua<br />

Corte d’onore «une chambre d’écho où<br />

s’ajuste perpétuellement [la] tradition avec<br />

sa propre contemporanéité».<br />

L’espressione non era mia, l’avevo<br />

presa a prestito da Emmanuel Ethis,<br />

professore di sociologia della cultura a<br />

Avignone e profondo conoscitore del<br />

fenomeno-Festival di Avignone: era straordinariamente evocativa di quella sorta di<br />

“macchina del tempo” che era la Corte d’onore del Palazzo dei papi.<br />

Sopra il portale di ingresso vi erano poste le insegne di Clemente VI: uno scudo<br />

d’oro attraversato da una striscia azzurra con sei rose rosse; fu lui il committente di<br />

quella parte dell’edificio. Mi fu raccontato che, in modo un po’ maldestro, l’autore del<br />

restauro aveva invertito il senso delle chiavi che sormontavano il blasone, le quali,<br />

assieme alla tiara dalla triplice corona, rappresentavano i simboli del potere papale. La<br />

terza corona della tiara comparve proprio all’inizio del periodo avignonese. Inoltre,<br />

venni a sapere successivamente che le torrette e i merli, che mi ricordavano molto il<br />

324


complesso del Palais de Justice di Parigi e molti altri palazzi e castelli gotici posteriori,<br />

furono il frutto di successivi restauri di inizio secolo. Ai lati delle pareti, spiccavano<br />

diversi doccioni per lo scolo dell’acqua: ma i due più belli, forse completamente<br />

restaurati, li vidi sull’angolo sud-occidentale della corte del chiostro, all’interno delle<br />

mura, sulla parte del palazzo di Benedetto XII.<br />

La visita cominciava attraverso la Corte d’onore, accedendovi dal lato sud, dalla<br />

Grande cappella. Le pareti interne, spoglie ma maestose, imponenti, erano interrotte di<br />

tanto in tanto da finestre e bifore. Sulla parte di destra, la grande finestra<br />

dell’Indulgenza, una enorme polifora appoggiata nella parte nord del loggiato, situata<br />

all’ingresso della Grande Cappella di Clemente VI. Fu distrutta nel XIX secolo, ma i<br />

restauri successivi furono in grado di trovarne l’esatta ubicazione grazie ad alcune<br />

vestigia dei sostegni principali. La ricostruzione avvenne prendendo a modello una<br />

finestra della splendida abbazia di La Chaise-Dieu. L’angolo nord-occidentale della<br />

corte del chiostro di Benedetto XII era sormontato dalla torre della Campana. Il<br />

campanile si trovava nell’angolo sud-occidentale della corte del chiostro del palazzo.<br />

Come ebbi modo di appurare in<br />

seguito, il precedente «palazzo<br />

episcopale sorgeva sul lato meridionale<br />

della rocca dei Doms, a sud della<br />

cattedrale e di un insieme di edifici<br />

religiosi, secondo la tradizionale<br />

sistemazione dei vescovadi. L’insieme<br />

era composto dalla basilica di Sainte-<br />

Marie, dalla chiesa parrocchiale di Saint-<br />

Étienne, adiacente alla precedente, da un<br />

campanile, da un battistero dedicato<br />

probabilmente a San Giovanni e da un<br />

cimitero. A sud del primo gruppo si trovavano gli edifici dei canonici, la casa<br />

episcopale, quasi perpendicolare rispetto alla chiesa parrocchiale, infine un ospizio. Il<br />

palazzo episcopale era dotato di varie torri, di cui quella campanaria a ovest, una posta<br />

sopra o accanto alle latrine, infine quella che si trovava sopra la terrazza. La facciata<br />

occidentale del palazzo fiancheggiava la strada che portava alla cattedrale, mentre<br />

l’angolo a nord-est della costruzione dava su un’altra strada che lo separava dagli edifici<br />

del decanato. A est si trovava un frutteto o un giardino, e a sud, davanti all’entrata<br />

principale, una piazza 1 ». Oggi di tutto<br />

ciò non restava praticamente nulla, forse<br />

i segni delle fondamenta, ma nulla di<br />

visibile: un intero quartiere praticamente<br />

perduto e raso al suolo. L’unica traccia<br />

rimasta era quella fornita dagli archivi<br />

della Camera apostolica, fondamentale<br />

organo di governo della Chiesa, a cui era<br />

attribuito l’onere del tesoro e della<br />

contabilità pontificia.<br />

Dal momento in cui il papa progettò<br />

di spostare la sua residenza ad<br />

1 Vingtain, Sauvageot 1999: 62-63 (N.d.T.).<br />

325


Avignone, cento fiorini d’oro furono consegnati dal tesoriere all’esattore del vescovado<br />

perché potessero cominciare i lavoro di sistemazione. Alla fine del 1316, Guillaume<br />

Géraut detto di Cucuron, «componente della “famiglia pontificia”, assunse le funzioni<br />

di amministratore del cantiere del palazzo (administrator operum et edificiorum domus<br />

papalis Avinionensis, amministratore dei lavori e degli edifici della domora papale di<br />

Avignone […]). Vi lavorò fino al dicembre 1322, annotando quotidianamente sui<br />

registri le informazioni che ci consentono attualmente di ripercorrere a grandi linee lo<br />

svolgimento dei lavori». Guillaume de Cucuron era un direttore di cantiere dotato di<br />

molta esperienza e di pieni poteri: provvedeva direttamente a tutti gli aspetti dei lavori,<br />

«dall’acquisto dei materiali al pagamento dei salari, alle trattative per l’assegnazione dei<br />

lavori con i lapicidi, che intervenivano a titolo privato. Nel maggio del 1317 fu iniziata<br />

«la riparazione della torre che sormontava la camera del papa e che conteneva il tesoro<br />

apostolico: era infatti di primaria importanza che la persona del papa e il tesoro fossero<br />

alloggiati e protetti adeguatamente».<br />

Benedetto XII e Clemente VI operarono<br />

in modo del tutto simile, costruendo<br />

l’attuale torre del Papa e la torre detta del<br />

Guardaroba. In quel momento stavo<br />

camminando sulle vestigia del palazzo di<br />

Giovanni XXII e stavo ammirando la<br />

grandiosità delle opere successive. I lavori<br />

seguivano un andamento apparentemente<br />

disorganico, senza una precisa strategia:<br />

nell’aprile del 1317 fu cominciata la<br />

costruzione di una terrazza sotto il cortile<br />

della casa del vescovo; nell’ottobre dello stesso anno venne sistemata la cappella di<br />

Saint-Etienne, «la cui trasformazione in cappella pontificia era anche essa da annoverare<br />

tra le priorità»; lungo tutto il 1318 vennero realizzate diverse opere nuove e di<br />

adattamento dell’esistente; alla fine dell’anno furono aperti i cantieri per la sala<br />

dell’Udienza (unica parte verosimilmente visibile oggi); i due anni successivi furono<br />

consacrati alla sistemazione dei cantieri in corso; mentre dal 1323 si lavorò in parallelo<br />

nella Cattedrale e al Palazzo; tra il 1323 e il 1325 furono decorati il Concistoro e lo<br />

Studium del Palazzo, il portale della chiesa e gli appartamenti del papa; nel 1327-1328<br />

la sala dell’Udienza necessitò di ulteriori lavori di manutenzione al soffitto, fino a<br />

giungere alla costruzione di un edificio collegato nel 1332. Sempre dai registri pontifici<br />

emergeva come Guillaume fosse stato «sostituito da Raimond Mézier, mastro<br />

carpentiere con la qualifica di sovrintendente delle opere e degli edifici del palazzo, che<br />

lavorò al palazzo di Pont-de-Sorgues e a quello di Avignone fino al luglio 1323. Alla<br />

sua morte, gli succedette in un primo tempo il lapicida Pierre Audibert, che aveva<br />

lavorato alla ricostruzione del Concistoro e della galleria vicino al chiostro; quattro<br />

giorni dopo la nomina questi fu parzialmente sollevato dall’incarico, pur rimanendo<br />

tuttavia operativo nel cantiere, e l’amministrazione e la sovrintendente andarono allora a<br />

Arnaud Escudier, di professione fustaio, che conservò le sue funzioni fino al termine del<br />

pontificato di Giovanni XXII 1 ».<br />

1 Vingtain, Sauvageot 1999: 69. Inoltre: «Gli artigiani impegnati in un primo momento nella direazione<br />

dei lavori potevano in seguito proseguire con le rispettive attività sui cantieri pontifici, specialmente in<br />

quello del palazzo di Avignone, come impiegati; questi trasferimenti, cominciati durante il pontificato di<br />

Giovanni XXII, erano continuati con Benedetto XII. Può sorgere qualche dubbio sui metodi di lavoro di<br />

326


Alla sua morte, nel 1334, Giovanni XXII poteva disporre di un palazzo<br />

completamente risistemato e funzionale, anche se mi risultava difficile immaginare<br />

quella versione del Palazzo dei Papi andata perduta. Benedetto si trovò con un edificio<br />

profondamente modificato che confinava a nord con l’attuale «cattedrale di Notre-<br />

Dame-des-Doms, il battistero di Saint-Jean, il cimitero di Courtine e il chiostro dei<br />

canonici. Una strada fiancheggiava l’angolo nord-est, un’altra lo circondava a ovest e<br />

giungeva fino alla cattedrale. A Sud, si trovavano case private e strade e anche la sala<br />

dell’Udienza. Il confine orientale era costituito da un grande frutteto 1 ».<br />

Il ruolo di Benedetto XII fu ben chiaro per quanto riguardava il consolidamento del<br />

papato ad Avignone, e «l’epitaffio sulla sua tomba avrebbe conservato la memoria del<br />

lavoro compiuto in questo senso dal pontefice e del suo ruolo di grande edificatore:<br />

“Decessit in Avinionensi palatio quod ipse fabricare jusserat” 2 ».<br />

A cominciare dal 1335 i nuovi lavori furono affidati a Pierre Poisson, a differenza dei<br />

suoi predecessori, un laico, un capomastro con notevoli capacità organizzative e una<br />

probabile qualifica tecnica. Rispetto, per esempio, a Guillaume egli fu pagato molto –<br />

l’equivalente di un fiorino al giorno – però non poteva contare un una piena automia<br />

finanziaria, in quanto la Camera apostolica cominciò a pagare soltanto al momento del<br />

rendiconto e della presentazione delle note di spesa. Considerando l’ambizioso progetto<br />

di Benedetto XII, il quale giudicava la dimora papale ancora troppo piccola per ospitare<br />

tutti membri della Curia, i suoi uffici e i locali di lavoro necessari, nonché le ingenti<br />

somme di denaro indispensabili, era lecito domandarsi: «quali erano state le esigenze<br />

esposte al primo capomastro? Che parte aveva costui nell’elaborazione del progetto del<br />

palazzo? Ne esisteva uno iniziale, determinato da una visione d’insieme? 3 ».<br />

Per ripercorre le tappe di quell’immenso cantiere, così come trovai esposto nelle<br />

prime camere che visitai del Palazzo, i curatori di quella esposizione cercarono di<br />

seguire un ordine strettamente cronologico, anche grazie a delle ricostruzioni in tre<br />

dimensioni estremamente interessanti.<br />

Innanzitutto, i due poli essenziali del nuovo palazzo dovevano essere quelli collegati<br />

alla liturgia e all’appartamento del pontefice. Il primo cantiere che diresse Pierre<br />

Poisson, nel 1335, fu proprio quello per la Grande Cappella, ubicata esattamente dove si<br />

trovava l’antica cappella di Saint-Etienne, con però una lunghezza doppia verso est, in<br />

modo tale da innestarsi con la parte restante del palazzo. Qualche storico non esitava a<br />

ipotizzare che qualche fondamenta e alcune pareti della precedente cappella furono<br />

utilizzati per erigere quella nuova. Oggi, dopo un accurato restauro, la Grande Cappella<br />

era composta da un’unica grande navata lunga quasi quaranta metri e larga almeno<br />

nove, «con la volta restaurata a senso acuto con una fila di beccatelli su ogni lato e<br />

all’altezza dell’imposta. […] A est un abside piatta chiudeva la cappella […] illuminata<br />

da tre grandi finestre 4 ». Lo stesso anno venne aperto anche il cantiere per la costruzione<br />

della cosiddetta torre del Papa, in un’area esterna rispetto al palazzo originario di<br />

Giovanni XXII, una zona che il papa fu costretto ad acquistare e riadattare, addirittura<br />

tutti quei direttori, il sui rapido susseguirsi poco si adattava alla necessità di edificare un’opera omogenea,<br />

e ciò era reso ancora più difficile dall’assenza di piante o modelli. Certo, c’era sempre il cameriere il<br />

quale, data la continuità e l’importanza della carica, aveva probabilmente un ruolo fondamentale nella<br />

fase decisionale e di controllo operative delle imprese» (ibidem: 70). (N.d.T.).<br />

1 Ibidem: 94 (N.d.T.).<br />

2 Vingtain, Sauvageot 1999: 91 (N.d.T.).<br />

3 Ibidem: 97 (N.d.T.).<br />

4 Ibidem: 100-101 (N.d.T.).<br />

327


scavando la roccia viva. Inizialmente concepita, forse, come struttura autonoma, fin dal<br />

1336 venne collegata alle restanti parti del palazzo attraverso la costruzione dell’ala<br />

detta degli appartamenti privati. Secondo lo stesso procedimento, all’ala del Concistoro<br />

venne unita la torre delle Cucine mentre quella della Grande Udienza servì da sostegno<br />

della torre di Saint-Laurent. Ad ogni buon conto, la torre del Papa, la cui maestosa<br />

parete interna, oggi facava da quinta alle rappresentazioni degli spettacoli del Festival di<br />

Avignone, mi si presentava come un’enorme torrione di sei piani e come l’opera più<br />

fortifcata dell’intero edificio, destinata ad ospitare quanto vi era di più prezioso della<br />

corte di Avignone, le persone del papa e del camerlengo, nonché il tesoro e gli archivi.<br />

Il cantiere cominciò di fatto già nel 1335 e venne terminato, in tempi da primato, in<br />

meno di due anni: dapprima chiamata magna turris, e si potevano immaginare i motivi<br />

(era alta quarantasei metri e mezzo, larga diciassette e muri perimetrali di tre metri di<br />

spessore: come un palazzo di sedici piani – sic!); divenne poi la turris thesaurarie e,<br />

infine, con Clemente VI, turris papalis. Nel XVI secolo, probabilmente a causa degli<br />

splendidi dipindi della cappella di San Michele, venne soprannominata anche torre degli<br />

Angeli. La pianta della torre era quadrata, con un lato di una dozzina di metri, muri<br />

larghi tre metri, possenti contrafforti per sostenerla, una stanza per piano.<br />

La visita continuava proprio in quella direzione: si saltava, di fatto, il livello più<br />

basso, una cantina con volta a botte a tutto sesto, dove pare venisse stoccato il vino; e si<br />

passava direttamente di fianco alla stanza del Tesoro Basso, che «occupava un locale di<br />

nove metri di altezza, con volte a crociera ogivale che ricadono al centro su una colonna<br />

e si zoccoli non scolpiti dalla parte dei muri 1 ». L’unica porta che vi permetta l’acceso<br />

doveva essere quella che avevo appena varcato, formata da uno strano passaggio su più<br />

livelli «a volta a botte rampante 2 », credo sull’angolo nord-ovest. Potevo immaginare<br />

che era in questa sala che venivano conservati gli oggetti particolarmente preziosi,<br />

verosimilmente custoditi in scrigni, e poi borse di monete d’oro e d’argento, magari<br />

alcuni archivi particolarmente importanti. In seguito, attorno al 1369, sembra vi fossero<br />

state diverse casseforti con serrature: in quella denominata con la lettera Q, tra gli altri<br />

documenti, vi erano catalogate le lettere che attestavano l’acquisto di Avignone, con i<br />

sigilli di cerca della regina Giovanna e del marito Luigi. Oggi erano parzialmente<br />

visibili l’antica pavimentazione e gli accessi a quattro grandi caveau nel sottosuolo,<br />

rinvenuti di recente, nel 1985. Erano delle cavità poste a coppie sui due lati della stanza,<br />

ora ricoperte da una lastra di vetro, larghe poco più di un metro, di lunghezza variabile e<br />

profonde circa due metri. Erano delle casseforti molto particolari, forse chiuse da lastre<br />

mobili che si aprivano con dei sistemi di carrucole sostenute da travi di legno. Durate il<br />

periodo dei legati e dei vice legati pontifici, dopo il ritorno del papato a Roma, quella<br />

stanza rimase un deposito per archivi, pur subendo molte modifiche legate anche al fatto<br />

che, sembra, fosse stata visitata più volte anche da abili e audaci ladri. Pensare che nel<br />

XIX secolo divenne la lavanderia del reggimento di stanza ad Avignone.<br />

Tornando indietro per il passaggio che mi aveva permesso l’accesso, salendo qualche<br />

scalino, proprio sopra il Tesoro Basso, trovai la stanza del Cameriere: il soffitto, credo<br />

non completamente restaurato, era straordinariamente ricco con due travi a vista<br />

sostenute da due beccatelli decorati e interamente coperto di dipinti del XIV secolo.<br />

Poco più avanti, sulla parete sud, non accessibile, vi era un passaggio che doveva<br />

portare direttamente alla torre del Guardaroba. Già all’epoca dalla sala del Cameriere si<br />

poteva facilmente accedere alla stanza del papa: il cameriere o camerlengo era la figura<br />

1 Vingtain, Sauvageot 1999: 103 (N.d.T.).<br />

2 Ibidem: 103 (N.d.T.).<br />

328


più importante della corte a partire dal successore di Benedetto XII, in quanto era il<br />

principale collaboratore del papa per quanto atteneva tanto il governo della Chiesa,<br />

quanto l’amministrazione del palazzo. In seguito alla costruzione di una “Camera<br />

nuova” per il camerlengo, nell’ala dei Grandi dignitari, quella stanza venne destinata<br />

agli scudieri. Il soffitto era decorato in modo particolare, con dei grossi medaglioni con<br />

dei busti di profeti appoggiati alle travi principali. Subito sopra a quella stanza, si<br />

trovava la camera del Papa: dalla sua stanza, di cui mi era difficile comprendere<br />

l’organizzazione dello spazio visti i continui tramezzi nelle pareti e le finestre poste ad<br />

altezze differenti, il papa poteva facilmente raggiungere l’appartamento del suo<br />

camerlengo al piano inferiore, e da lì recarsi nel Tesoro Basso, oppure salire al piano di<br />

sopra dove era stata realizzata una grande biblioteca. Solo in seguito all’edificazione<br />

dell’ala orientale poté essere completato l’accesso attraverso una porta sul lato nord che<br />

portava allo Studium e alla camera del Paramento. Le pitture murali della camera del<br />

Papa dovevano essere straordinariamente ricche e vivaci: quelle visibili, restaurate in<br />

modo piuttosto grossolano, potevano comunque dare un’idea del decoro complessivo<br />

della stanza. Avvicinandomi alle pareti potevo distinguere dei rami di quercia con<br />

ghiande attaccate ed uno scoiattolo appoggiato sulle zampe posteriori; sempre dallo<br />

stesso lato ovest, altri animali appoggiati sui rami di quercia, tra cui un uccello visto di<br />

schiena e, più lontano, su un ramo quasi in secondo piano, un gufo o forse una civetta. I<br />

motivi erano per lo più arborei, con piccoli animali di bosco. I colori erano scuri, forse<br />

più a causa del trascorrere del tempo piuttosto che per scelta originale. Vicino alle<br />

ampie finestre sull’angolo nord-orientale della camera, prima dei due sedili di pietra che<br />

permettevano di aprire lo sguardo sui sottostanti giardini, erano raffigurate due curiose<br />

voliere sospese nel vuoto: successivamente lessi che si trattava «di voliere vuote […]<br />

sospese ad archi trilobati a trompe-d’œil. Un soggetto presente su tutte le pareti degli<br />

strombi delle due finestre della camera e ricorda il gusto dei pontefici per gli uccelli, da<br />

cui amavano essere circondati 1 ». Si trattava di una tecnica molto complessa, che sembra<br />

rimandassero niente meno che ai modelli di lampade in prospettiva che giotto realizzò<br />

tra Assisi e Padova. Ciò faceva intendere che, parte degli affreschi, fossero realizzati da<br />

una mano italiana, in quanto quella della prospettiva era una innovazione piuttosto<br />

recente proveniente d’oltralpe. Di fronte, sull’altra parete, altri motivi decorativi. Tutte<br />

le pareti e il soffitto di questa parte del palazzo erano affrescati con un motivo<br />

dominante dato del blu intenso di sfondo e dai rami di alberti (specie viti e quercia), che<br />

risaltavo con il color ocra. Più in basso erano anche affrescati dei flasi drappeggi.<br />

L’atmosfera data da quel pergolato era un po’ bucolica ma suggestiva.<br />

La stanza al terzo piano, che doveva contenere la biblioteca pontifica, costituiva il<br />

Tesoro Alto, uno spazio che, comunque, ancora oggi lasciavano forti dubbi sulla loro<br />

disposizione effettiva. Sulla sommità della torre era stato realizzato un torrione con<br />

mura parzialmente coperte dal camminnamento della ronda.<br />

Si proseguiva verso quelli che oggi sono chiamati “appartamenti privati”, un edificio<br />

rettangolare che si innestava nella torre del Papa da nord. Forse quella parte del Palazzo<br />

risaliva al 1336 o 1337, coeva alla costruzione della torre; ma non vi erano notizie certe<br />

su quella parte del cantiere che permisero di collegare la torre del Papa, l’ala adiacente a<br />

nord e il muro del giardino, nonché le decorazioni della Grande Cappella con pitture e<br />

vetrate. Il primo livello di quell’ala degli appartamenti privati, situato sottoterra rispetto<br />

al livello della Corte d’onore, era occupato dalla Grande Tesoreria, collegata a sud al<br />

1 Ibidem: 108 (N.d.T.).<br />

329


Tesoro Basso. Durante il pontificato di Benedetto XII tutti i servizi finanziari della<br />

Curia erano stato raccolti in questa area, proprio dove ora mi trovavo a leggere i<br />

tabelloni esplicativi. Probabilmente l’attuale sistemazione di quella zona non permetteva<br />

di capire l’importanza che rivestiva e l’incredibile vivacità che doveva regnare in quelli<br />

che, in sostanza, erano gli “uffici” principali della Curia: lì si gestiva un sistema fiscale<br />

che, esteso a tutta la cristianità, non aveva eguali all’epoca. Mi immaginavo quello<br />

spazio enorme diviso tra tramezzi, con spazi di lavoro differenti, con mobili di varia<br />

natura, arredi destinati alla custodia dei documenti, scaffali alle pareti, sedie, sgabelli,<br />

tavoli, leggii per consultare libri contabili.<br />

Mentre abbandonavo quello spazio riflettendo con piacere su come doveva svolgersi<br />

il lavoro lì dentro, salendo pochi scalini, mi ritrovai nella sala di Gesù, allo stesso livello<br />

del Concistoro a nord e della stanza del Camerlengo a sud, a costituire quasi uno spazio<br />

di collegamento tra quei due spazi. La denominazione, per la verità curiosa, deriva da<br />

una scritta risalente al 1370, nell’angolo sud-ovest della camera, nei pressi di uno dei<br />

contrafforti che ancoravano la torre del Papa a quella parte dell’edificio. In quella parte<br />

di parete vi erano «le tracce di un monogramma, I.H.S., inscritto a caratteri gotici in un<br />

medaglione composto da sei cerchi concentrici di vari colori, di circa sessantotto<br />

centimentri di diametro. Questo motivo di colore scuro era posto su uno strato giallo<br />

chiaro, su cui è tracciata in nero una decorazione che rappresenta corsi di finta muratura<br />

di centicinque per trenta 1 ». Ipoteticamente si trattava di un decoro che doveva occupare<br />

l’intera sala ma di cui era rimasta traccia solo in quell’angolo della stanza, appena sotto<br />

il soffitto.<br />

Il terzo livello di quell’ala era dato dalla camera del Paramento in cui il papa dava<br />

udienza, riceveva cardinali e notabili. Il nome doveva essere legato al fatto che, secondo<br />

gli usi del tempo, la stava, una sorta di salotto, doveva essere completamente ornata di<br />

tappezzerie. In questa sala potevano essere consacrati i nuovi cardinali e, solitamente,<br />

visi svolgeva la cerimonia della consegna della rosa d’oro. «La sala si trovava<br />

all’incrocio ddi diverse aree del palazzo: a sud e a ovest c’era il cuore degli<br />

appartamenti pontifici, a nord le aree di rappresentanza (Concistoro e Tinello); erano<br />

state costruite delle scale per recuperare le differenze di livello dovute alla pendenza<br />

naturale del terreno. Bisognava scendere dalla camera del Papa a sud per recarsi nella<br />

camera del Paramento, da cui si risaliva per accedere al Grande Tinello a nord, mentre<br />

un’ultima scala la collegata al Piccolo Tinello. I collegamenti tra i varsi spazi erano<br />

probabilmente regolati con delle porte provviste di più chiavi: una serratura e tre chiavi<br />

per la porta posta tra la camera di Paramento e il Piccolo Tinello, una serratura e sei<br />

chiavi per quella del Tinello, tutte destinate all’uso dei cubicolari del papa, addetti<br />

unicamente agli appartamenti privati 2 ».<br />

Dando uno sguardo fuori dalle finestre che dai corridoi in basso portavano verso l’ala<br />

occidentale dal palazzo, era possibile avere una visione d’insieme della sottostante<br />

Corte d’onore. Quando il palcoscenico non era montato o, comunque, scendendo dalle<br />

impalcature che portavano sulle tribune, era possibile rintracciare le vestigia di antiche<br />

costruzioni che rendevano irregolare il fondo della Corte. Mi stavo dirigendo da sud<br />

verso nord-ovest, verso l’ala sud del Palazzo vecchio, detta del Conclave. Quella parte<br />

dell’edificio non era attraente delle precedenti: anche ad un occhio disattento come il<br />

mio non sfuggivano tutti i rimaneggiamenti che quella parte del palazzo subì in seguito<br />

ai continui cambiamenti di destinazione. E in effetti, specie la presenza del genio<br />

1 Ibidem: 128 (N.d.T.).<br />

2 Ibidem: 131 (N.d.T.).<br />

330


militare modificò sensibilmente quei grandi spazi. In generale, quella che stavo<br />

attraversando era «un’ala riservata ai servizi e all’alloggio del personale, così come<br />

all’accoglienza di ospiti di alto rango 1 ». La porta principale del palazzo, che oggi era<br />

posta vicino all’ingresso del Centro Congressi ricavato proprio nell’ala del Conclave,<br />

era stata munita di sistemi di difesa molto robusti: «la porta […] che permetteva di<br />

passare dalla piazza dei Cancelli al cortile del chiostro, si trovava all’estremità orientale<br />

dell’ala del Conclave; al pianoterra, un passaggio formato da tre campate a volta ogivale<br />

dava accesso al chiostro, accesso saldamente difeso, da una parte dell’altra, da un<br />

sistema simmetrico composto da due saracinesche, due grandi piombatoi e due porte ad<br />

ante mobili. Se qualche nemico riusciva ad introdursi, poteve essere colpito dalle frecce<br />

scagliate dei soldati dalle tre feritoie scavate nel muro occidentale; al piano superiore, a<br />

livello del mezzanino, si trovava la camera destinata alla manovra delle saracinesche,<br />

che si estendeva fino all’alloggio dei coppieri e dei dispensieri del pane. […] Pare che<br />

dopo la costruzione del Palazzo Nuovo ordinata da Clemente VI, l’importanza della<br />

torre (funzionalmente legata alla difesa del portale d’entrata del Palazzo Vecchio) fosse<br />

diminuita, il che spiegherebbe assai bene lo spostamento dell’entrata principale verso la<br />

porta degli Campeaux 2 ».<br />

Fu a partire dal 1338 che i cantieri si concentrarono su quella parte del palazzo in cui<br />

mi trovavo. Durante i tre anni successivi fu ricostruita l’ala del Concistoro, intrapresa la<br />

costruzione della torre di Saint-Jean, quella della Cucina Nuova e della torre delle<br />

Latrine. Fu un cantiere di notevoli dimensioni, e complesso da organizzare visto che le<br />

squadre lavoravano in contemporanea su più punti: «nell’agosto del 1338 troviamo per<br />

la prima volta il riferimento alle fondamente della cappella del giardino (vale a dire la<br />

torre delle Cappelle o torre di Saint-Jean) e più tardi il compenso degli spaccapietre per<br />

quelle del Concistoro. Nello stesso periodo era stata rifatta la torre delle Latrine, le cui<br />

opere murarie vennero pagate il 1° luglio 1338, e poi il tetto, il 14 settebre 1339. Il 23<br />

ottobre successivo, negli archivi si parald i “latrine nuove”. Per quanto riguarda il<br />

completamento dell’ala del Concistoro, si sa che avvenne nel corso della seconda metà<br />

del 1339. Il 7 agosto erano stati pagati i tetti del Tinello e dela torre delle Cappelle; alla<br />

fine del mese di dicembre, le sedute del Concistoro si tenevano già nella grande sala del<br />

pianoterra […]. I lavori delle cucine erano stati gli ultimi a essere eseguiti […]. Infine,<br />

nel gennaio del 1342, era stato avviato il cantiere della torre di Trouillas, a cui si lavorò<br />

fino al 1342 e che fu l’ultima costruzione voluta da Benedetto XII 3 ».<br />

Il Palazzo, specie nei suoi nuovi edifici, dall’ala orientale a quella più meridionale,<br />

era addossato alla rocca e presentava quindi delle pendenze naturali che necessitavano<br />

di essere compensate con la costruzione di scale e di strutture di collegamento. La<br />

circolazione, in quelle aree, vista la loro funzione prevalentemente pubblica, doveva<br />

essere agevolata. L’accesso al Concistoro era possibile dal chiostro ad ovest, dove era<br />

stata realizzata una grande porta ogivale, oppure da sud. Sopra il Concistoro, attraverso<br />

le scale esterne che stavo percorrendo, costeggiando la galleria del chiostro, si arrivava<br />

al Grande Tinello, destinato ai ricevimenti importanti. All’angolo nord occidentale una<br />

scaletta lo collegava con la cucina al pianterreno e, ovviamente, con la cantina. Di<br />

fianco, si trovava la “dispensa”, la stanza in cui gli addetti al servizio preparavano la<br />

presentazione dei piatti. Oggi quest’ultima stanza era separata da un tramezzo e le<br />

cucine si trovavano in una torretta fatta costruire appositamente da Clemente VI. La<br />

1 Ibidem: 158 (N.d.T.).<br />

2 Ibidem: 158-159 (N.d.T.).<br />

3 Ibidem: 160-161 (N.d.T.).<br />

331


disposizione dei tavoli seguiva un rigido cerimoniale. Il papa si trovava seduto da solo<br />

al suo tavolo, davanti alla parete sud del Tinello: alla destra del papa i cardinali vescovi<br />

e i patriarchi, quindi i cardinali preti e alla sua sinistra i cardinali diaconi. I laici erano<br />

distribuiti a seconda del loro rango: l’imperatore sedeva i cardinali vescovi, mentre i re<br />

venivano disposti tra i cardinali preti.<br />

La torre delle Latrine fu eretta contro la<br />

facciata orientale della torre delle Cucine:<br />

non imponente, ma con un ruolo<br />

determinante di difesa del lato nord del<br />

giardino, era composta da una profonda<br />

fossa, sormontata da due livelli di latrine.<br />

La fossa era collegata alla fogna, che<br />

portava le acque delle cucine verso un<br />

canale sotterraneo. Sempre sul lato nord, la<br />

torre di Trouillas fu fatta costruire da<br />

Benedetto XII al posto di una torre<br />

preesistente: il pontefice volle realizzare un<br />

edificio imponente, altro oltre cinquanta metri e composto da sette piani. Oggi la torre<br />

era occupata dai locali dell’Archivio Dipartimentale.<br />

Clemente VI diede un impulso decisivo alla trasformazione definitiva del palazzo.<br />

Ad esempio, la sala della Grande Cappella, assieme alla Grande Udienza, costituiva la<br />

parte più bella del primo piano della parte meridionale. Le volte della Cappella, dedicata<br />

ai santi Pietro e Paolo, dovevano raggiungere i diciannove metri di altezza. Era formata<br />

da un’unica navata, divisa in sette campate con volte a ogiva. La luce era abbondante,<br />

proveniente da nove finestre molto ampie, in origine dotate di vetrate. Vi arrivai<br />

attraverso lo Scalone d’onore e il Grande Ambulacro. Il primo, che partiva dalla Corte<br />

d’onore, benché io vi arrivassi dal Grande Tinello e attraverso al finestra delle<br />

Indulgenze, era coevo alla costruzione della Grande Udienza e, fino al 1346 era la sola<br />

scalinata, visto che il Palazzo era dotato solo di scale a chiocciola oppure in scale a<br />

rampa dritta costruite nello spessore dei muri. «Il nuovo scalone, dotato di pianerottoli,<br />

avrebbe fatto epoca: spazioso, ben illuminati, era perfettamente adeguato alla solennità<br />

che il luogo doveva avere. Era facile immaginare cardinali e altri dignitari della Curia<br />

che si recavano in gran pompa alla Cappella; per Avignone si trattava sicuramente di<br />

una innovazione architettonica, ma anche per la Francia intera 1 ». La scala conduceva<br />

dapprima alla Loggia, molto aperta con una grande finestra traforata: dal punto di vista<br />

liturgico doveva avere una importanza notevole visto che era da lì che il papa si<br />

affacciava a salutare la folla sottostante, nelle Corte d’onore. La sommità dello scalone<br />

monumentale era sormontata dal Grande Ambulacro, una grande galleria lunga trentasei<br />

metri e larga sette e mezzo, costruita come spazio di raccordo e per sorreggere il peso<br />

delle enormi volte della Cappella.<br />

Il documento che attestava l’attività di Matteo Giovannetti alla torre della<br />

Guardaroba non era certo dei più esplici non essendo facile comprendere quale parte<br />

degli affreschi fossero davvero opera dell’artista viterbese. Molte erano invece le<br />

testimonianze che lo legavano al decoro della splendida cappella di San Marziale, al<br />

secondo piano della Torre di San Giovanni: «il 3 gennaio 1346 venivano pagati al<br />

Magister Matheus Johanneti de Viterbo pictor gli affreschi eseguiti nella cappella di San<br />

1 Ibidem: 219 (N.d.T.).<br />

332


Marziale nonché quelli, ora scomparsi, della cappella di San Michele 1 ». Giovannetti era<br />

un ecclesiastico, nominato priore da Benedetto XII e, successivamente, arciprete di<br />

Vercelli. Nacque attorno al 1300 e morì circa settanta anni dopo. Da Viterbo, per cause<br />

non ben chiare, il giovane pittore si trasferì dapprima ad Orvieto, città all’epoca<br />

particolarmente vivace, specie in concomitanza con il cantiere della cattedrale; in<br />

seguito trascorse alcuni anni ad Assisi, entrando in contatto con le opere di Giotto.<br />

Arrivò ad Avignone pochi anni prima rispetto a Francesco di Marco Datini, attorno agli<br />

anni quaranta del Trecento: tra il settembre del 1343 e l’aprile del 1367 il suo nome<br />

comparve diverse volte negli archivi della Camera apostolica. Fu molto attivo ad<br />

Avignone e a Villeneuve, ed ebbe importanti compiti di direzione dei cantieri che lo<br />

riguardavano. Il primo cantiere, forse il primo interamente diretto da lui, fu la cappella<br />

di Saint-Michel, in cima alla torre del Guardaroba. Fu nel 1344 che intraprese il decoro<br />

della cappella di Saint-Martial e del vicino Grande Tinello. Doveva essere<br />

estremamente abile nel gestire contemporaneamente le complessità tecniche<br />

(approvvigionamento delle impalcature, acquisizione dei pigmenti colorati, delle varie<br />

materie prime e delle attrezzature), delle risorse umane (scelta dei collaboratori e degli<br />

aiutanti, organizzazione del lavoro in “giornate” per ognuno), le difficoltà artistiche<br />

(progettazione e realizzazione di tre grandi composizioni diverse dal punto di vista<br />

iconografico). Tra il 1346 e il 1348 si dedicò anche alla cappella di Saint-Jean. Era<br />

indubbiamente un innovatore, capace e preparato: nel caso della vita di San Marziale 2 fu<br />

in grado di rappresentare episodi anche poco noti, mentre nel caso di San Giovanni si<br />

dimostrò in grado di associare in modo creativo immagini più tradizionali. La struttura<br />

dei suoi affreschi era quindi ricercata, così come la tecnica di realizzazione. Lavorò<br />

moltissimo anche nei dintorni di Avignone, specie a Villeneuve, anche se rimase ben<br />

poco delle pitture realizzate. La sua fama doveva essere notevole e la sua vita fu legata<br />

in modo indissolubile al papato, che seguì ovunque si spostasse: forse Giovannetti morì<br />

proprio a Roma. «Fu uno dei principali artefici, ad Avignone, della creazione di un<br />

ambiente artistico di grande ricchezza, in cui il papato ebbe ovviamente una funzione<br />

catalizzatrice. In breve tempo la città divenne il punto di incontro tra le correnti<br />

artistiche settentrionali e meridionali, ma anche il polo di diffusione di una nuova<br />

sensibilità nei vari paesi vicini 3 ».<br />

Lessi da qualche parte che, nel 1792, vale a dire un anno dopo che Avignone fu<br />

riunificata alla Francia, dopo oltre quattrocento anni di dominio della Chiesa, sembrava<br />

fosse stato approvato un progetto di demolizione per il Palazzo dei papi.<br />

Fortunatamente, non vi fu sollecitudine nell’esecuzione di quell’ordine ed oggi quasi<br />

settecentomila visitatori (uno dei siti storici più visitati di tutta la Francia) potevano<br />

ammirarne quell’autentico splendore.<br />

1 Castelnuovo 1991: 52 (N.d.T.).<br />

2 La scelta di rappresentare la vita di San Marziale, legata indubbiamente anche al fervore del culto di<br />

quel santo in alcune regioni della Francia, assumeva anche un connotato politico e simbolico, in quanto si<br />

intendeva legittimare il papato avignonese, «ponendolo sulla scia di San Marziale, inviato dall’apostolo<br />

Pietro ad evangelizzare la regione. L’intento del nuovo pontefice (che nel 1348 avrebbe acquistato<br />

Avignone), era essenzialmente politico. Marziale sotto forma di San Pietro dell’Aquitania, aveva fatto in<br />

passato della Gallia una sede degna della vera chiesa; Clemente VI e i suoi successori […] avevano fatto<br />

di Avignone la nuova capitale del mondo cristiano (Vingtain, Sauvageot 1999: 289)(N.d.T.)<br />

3 Vingtain, Sauvageot 1999: 284-285, ma anche Castelnuovo 1991 (N.d.T.).<br />

333


XXV<br />

(Organizzare la messa in scena del Festival. L’evoluzione della macchina scenica: il Palazzo dei Papi e i<br />

luoghi del Festival. L’allargamento verso nuovi spazi: la città come spazio scenico)<br />

Che tratta di come la città di Avignone e i suoi dintorni siano diventati un grande<br />

palcoscenico a cielo aperto <br />

334


«Potrei dirti di quanti gradini sono le vie fatte a<br />

scale, di che sesto gli archi dei porticati, di quali<br />

lamine di zinco sono ricoperti i tetti; ma so già<br />

che sarebbe come non riti nulla. Non di questo è<br />

fatta la città, ma di relazioni tra le misure del<br />

suo spazio e gli avvenimenti del suo passato<br />

[…]»<br />

(Itali Calvino, da Le città invisibili)<br />

Uscendo dall’ingresso principale del Palazzo dei papi, quello che da destra porta alla<br />

biglietteria e all’inizio della visita al monumento, lasciando sul fianco i ruderi di<br />

quell’antico portone in legno che tutt’oggi permette l’accesso diretto dalla Corte<br />

d’onore, mi si apriva allo sguardo quella che forse è una delle più belle piazze della<br />

vecchia Europa, frutto di una grandiosa concezione urbanistica. Nei secoli la città era<br />

sorta e si era sviluppata letteralmente accostata sulle pendici della Rocca dei Doms e<br />

anche all’inizio dal periodo papale le case si addossavano l’una all’altra fino ai piedi di<br />

quello che sarebbe diventato il Palazzo apostolico, collegate tra loro da strette vie i cui<br />

nomi sono scomparsi assieme agli stessi edifici di quel quartiere, proprio per lasciare lo<br />

spazio all’attuale, mastodontica, costruzione.<br />

Nel 1404, secondo le cronache del tempo, fu ordinato di abbattere buona parte delle<br />

case antistanti la fortezza papale, per evitare che eventuali aggressori potessero giungere<br />

indisturbati fin sotto le mura, sfruttando, per l’appunto quel labirintico passaggio e la<br />

protezione di tutte quelle basse abitazioni. Per quanto possa apparire paradossale, le<br />

fondamenta e le pietre di quegli immobili distrutti restarono a lungo in quella spianata,<br />

fino al 1603, quando furono donate per realizzare la costruzione di edifici nella vicina<br />

place Pie: un piccolo aneddoto che spiega anche quanta confusione e un certo<br />

abbandono dovessero regnare ad Avignone dopo il ritorno dei papi a Roma. Su una<br />

pianta della città del 1618 che ebbi modo di vedere all’Archivio Municipale, la piazza<br />

appariva ancora accidentata e non fu spianata che tra il<br />

XVIII e il XIX secolo. Durante la monarchia le esecuzioni<br />

capitali venivano realizzate proprio davanti a dove mi<br />

trovavo in quel momento, sotto la scalinata di ingresso del<br />

Palazzo. Poco più avanti, durante il periodo del Terrore,<br />

doveva essere posizionata la ghigliottina per le esecuzioni<br />

capitali: dapprima nella vicina place de l’Horloge, per poi<br />

essere trasferita proprio davanti al Palazzo, e restare in<br />

funzione tra l’8 marzo e il 26 giugno 1794. E pensare che<br />

adesso ci sono i tavolini dei bar e dei ristoranti, file<br />

interminabili di turisti in transito, musicisti e artisti di<br />

strada che si scambiano la scena lungo tutta la giornata,<br />

santoni, saltimbanchi e venditori di palloncini per bambini.<br />

Rivolgendo lo sguardo verso il lato sud della piazza si scorgeva quello che dovrebbe<br />

essere l’Hôtel Calvet de la Palun: l’edificio era della fine del Settecento, stretto tra rue<br />

Gérard Philippe e rue Jean Vilar (il secondo, fondatore del Festival e il primo uno dei<br />

suoi più grandi attori, altra leggendaria figura del teatro francese, prematuramente<br />

scomparso). Fin dal 1853 ospitava la sede locale della Banca di Francia. L’ingresso era<br />

rivolto verso place de l’Horloge, mentre in passato, al posto della moderna costruzione<br />

collegata all’enorme parcheggio sotterraneo dal lato di place du Palais des papes,<br />

doveva esserci la facciata principale e l’entrata. Chi vi passasse davanti ora riuscirebbe a<br />

335


stento a riconoscere una antica e larga finestra che poteva appartenere alla vecchia<br />

costruzione.<br />

Di fronte a me, il più “italiano” degli antichi palazzi di Avignone: l’Hôtel des<br />

Monnaies, costruito nel 1619 in occasione della rappresentanza diplomatica del cardinal<br />

Borghese. La facciata, così ricca, così barocca, con quella pietra in risalto e le<br />

decorazioni spropositate, contrastava parecchio con le linee così limpide e rigorose del<br />

Palazzo dei papi. Non ricordo di chi fosse opera, ma presumibilmente di un qualche<br />

artista italiano stabilitosi ad Avignone. Con la soppressione della legazione pontificia, il<br />

palazzo credo divenne caserma del battaglione di Cavalleria leggera; poi, dal 1770, della<br />

Gendarmeria, fino al 1840. Passato al servizio del Municipio, dal 1860 ospitava il<br />

Conservatorio di musica e, durante l’estate, l’accoglienza per il pubblico del Festival<br />

OFF di Avignone. Sul lato sinistro del Conservatorio due palazzi ottocenteschi<br />

ospitavano alcuni ristoranti, un bar che si allungava fin dentro la grande piazza, ed un<br />

albergo.<br />

Attraversando la piazza, costeggiando il<br />

Conservatorio, si scendeva di livello e si incrociava<br />

l’antica rue Balance. Qui, mi era stato raccontato<br />

che vi erano molti palazzi cardinalizi di cui oggi<br />

restava ben poco. Ancora visibile era la Tour de<br />

l’Officialité, un tempo adiacente al palazzo che fu,<br />

tra gli altri, anche dei vescovi di Avignone.<br />

In quel quartiere vi erano moltissime botteghe e<br />

atelier. Oggi vi erano edifici più tardi, un bar, due<br />

ristoranti, qualche negozio di souvenir tra rue<br />

Balance e la vicina a rue de la Vieille Poste. La<br />

ripida rue de la Pente-Rapide risaliva alla metà<br />

dell’Ottocento: in precedenza era parte della<br />

scalinata che permetteva di raggiungere la<br />

cattedrale, addossata alla rocca di calcare.<br />

Proseguendo verso nord potevo scorgere, in<br />

quella sorta di saliscendi, il Petit Palais, fin dal<br />

1317 palazzo cardinalizio di Arnaud de Via, nipote di Giovanni XXII. Nel 1336<br />

Benedetto XII, volendosi assicurare la proprietà del palazzo episcopale occupato a<br />

partire dal suo predecessore Giovanni XXII, il quale già aveva cominciato a farlo<br />

ricostruire, acquisì dagli esecutori testamentari di Arnaud de Via il palazzo e lo donò al<br />

vescovo di Avignone in cambio del palazzo episcopale. Alterne vicende, legate agli<br />

assedi che il Palazzo dei Papi subì durante quel complicato periodo a cavallo dello<br />

Scisma d’occidente, ridussero il Petit Palais in pessimo stato e venne ricostruito nel<br />

corso del XV secolo: quindi, vi risiedette anche il cardinale Giuliano della Rovere,<br />

prima di diventare papa Giulio II. Durante la visita di Luigi XIV ad Avignone, il<br />

palazzo era tornato così bello da poter ospitare la regina madre Anna d’Austria e il duca<br />

di Orleans.<br />

Nel 1767 una delle massicce torri fatte costruire da Giuliano della Rovere crollò.<br />

Considerato bene di interesse nazione del 1791, venne venduto e poi riacquistato<br />

dall’arcivescovo di Avignone del 1826 per farne un seminario. Attualmente era una<br />

bella sede museale con una notevole collezione di “primitivi italiani”. Dalle finestre e<br />

dagli spalti di questa ricca dimora, si poteva godere di uno dei più bei paesaggi della<br />

retrostante valle del grande fiume.<br />

336


Il complesso monumentale della piazza era completato, ovviamente, dalla Cattedrale<br />

di Notre-Dame-des-Doms, su un primo costone della rocca. La storia di questa<br />

cattedrale era affascinate: ricordavo a tal proposito i racconti che mi furono fatti da una<br />

guida turistica straordinariamente preparata e divertente, in occasione delle<br />

manifestazioni per i settecento anni dall’arrivo dei papi ad Avignone. Secondo alcuni<br />

storici, fin dal IV secolo, al posto dell’attuale cattedrale, vi era una basilica. Ricostruita<br />

in seguito, fu consacrata nel 1069, anche se l’edificio attuale, esempio di architettura<br />

romanico-provenzale, sembra risalisse alla seconda metà del XII secolo.<br />

In seguito agli interventi papali, molte cappelle vennero realizzate da Giovanni XXII,<br />

e nei secoli successivi, fino a tutto il Seicento. Durante la Rivoluzione Notre-Dame-des-<br />

Doms fu abbandonata per essere poi restituita al culto nel 1822 e sottoposta a restauri<br />

per tutta la prima metà dell’Ottocento. La Vergine dorata che sormontava il campanile<br />

fu eretta solo nel 1859: l’effetto era davvero spettacolare, sebbene eccessivo rispetto<br />

all’antica cattedrale sottostante e alle torri del vicino Palazzo dei papi. Quando si guarda<br />

da lontano la città, in una delle tante giornate di sole, magari dall’altra riva del grande<br />

fiume, il profilo di antica pietra delle grandi costruzioni della città viene contrastato con<br />

forza da questa scintillante luce dorata, quasi un faro che si staglia tra l’azzurro del cielo<br />

e il bianco del calcare.<br />

Scendendo con lo sguardo, il vestibolo, con i suoi pilastri corinzi e il suo frontone<br />

triangolare, costituiva, di fatto, una sontuosa imitazione dell’architettura antica.<br />

L’interno risultava affrescato già a partire dal XIV secolo ma di quei lavori restava<br />

molto poco. La volta all’ingresso, nel portico, era inaspettatamente bassa, decorata in<br />

modo caratteristico a cassettoni dipinti o scolpiti, del XVII secolo. Avanzando, a sinistra<br />

come a destra potevo ammirare comunque dei dipinti. La navata centrale poteva essere<br />

lunga una ventina metri, larga nove e alta circa quindici, in puro stile romanico. I<br />

successivi decori barocchi devono averne alterato profondamente l’aspetto primitivo,<br />

ancora così austero.<br />

La campata della navata era coperta da una cupola montata su un lucernaio<br />

ottagonale con una finestra per ogni lato. Era una costruzione dalla forma piuttosto<br />

curiosa, con un effetto spaziale altrettanto insolito: infatti, la campata presentava il lato<br />

più lungo frontalmente, e la lunghezza e la larghezza dovettero essere ricondotte<br />

successivamente alle stesse dimensioni, attraverso quell’inserimenti posteriore di otto<br />

archetti a formare dei dislivelli successivi; in quel modo era stato ottenuto un quadrato<br />

di circa cinque metri di lato. Da quanto<br />

ricordavo di aver ascoltato, si tratterebbe di<br />

una costruzione di sicuro effetto ma<br />

decisamente non comune in Francia:<br />

richiamerebbe invece le cupole di tipo<br />

bizantino. Credo di aver visto costruzioni<br />

simili nel mio girovagare per le antiche<br />

chiese di Venezia. Sulla destra della navata,<br />

mi fu detto, doveva scorgersi l’edicola<br />

funeraria di Giovanni XXII, tomba un<br />

tempo riccamente decorata e scolpita ma<br />

sottoposta ad un forte stato di degrado. Ad<br />

un primo momento non fui in grado di individuarla distintamente.<br />

Uscendo dalla Cattedrale, sulla destra potevo imboccate il cancello che, dal Calvario<br />

antistante, portava ai giardini della Rocca dei Doms. Abitato fin da epoca romana, vi fu<br />

337


costruito un castello e, successivamente, quel Forte di San Martino che, trasformato in<br />

deposito di povere da sparo, esplose in un incidente nel 1650, causando parecchi danni<br />

anche al vicino Petit Palais, agli edifici più prossimi e sventrando una parte della rocca.<br />

All’epoca, l’aspetto generale doveva essere davvero spoglio, come i suoi crinali attuali:<br />

la rocca era un’enorme massa calcarea, praticamente a picco sul Rodano, il quale cinge<br />

l’intera città a nord e a ovest, quasi come fosse un fossato naturale appena fuori dalle<br />

mura. Le scale che congiungevano le sponde del fiume, in basso, con il Palazzo dei<br />

papi, risalivano alla metà del Settecento, mentre la scala di Sant’Anna, anteriore al XII<br />

secolo, portava fino ai piedi del Palazzo e raggiungeva il luogo in cui si realizzavano le<br />

grandi assemblee comunali tra il XII e il XIII secolo.<br />

La trasformazione della Rocca nell’attuale, splendido, giardino pubblico, cominciò<br />

solo dopo la Rivoluzione di Luglio. Venne soppresso il cimitero creato durante la<br />

rivoluzione e si completarono le scale che portavano, a tutt’ora, fino alla mura<br />

rinascimentali e al Rodano. Per supplire all’assenza di acqua venne installata una pompa<br />

a vapore; mentre tra il 1863 e il 1865 una grande quantità di terra fertile venne<br />

trasportata in cima alla rocca stessa.<br />

Il paesaggio di cui si può godere da questa terrazza a<br />

strapiombo sulla valle del Rodano era davvero<br />

incantevole. Si potevano dominare i tetti di ogni<br />

costruzione circostante. Non vi era nulla più in alto, e il<br />

contrasto di colori era meraviglioso, anche in piena<br />

estate, con il verde dei prati e della vegetazione, oramai<br />

rigogliosa, innestata su quella rupe e tutt’attorno,<br />

l’azzurro del cielo, il cobalto delle rive, il colore dei<br />

mattoni e delle pietre chiare delle costruzioni.<br />

Aggirando la rocca per una delle possibili strade a<br />

disposizione, e scendendo accanto al Petit Palais,<br />

giungevo nuovamente nei pressi di rue Balance. Questa<br />

comunicava direttamente con i principali itinerari che<br />

ero costretto a seguire nei miei spostamenti all’interno<br />

della città antica: da place de l’Horloge, non doveva essere un caso che portasse dritta<br />

fino all’attuale porta du Rocher: un tempo era la strada principale della città e vi si<br />

affacciavano, come mi fu detto, molte importanti dimore cardinalizie. Oggi, terminata la<br />

via, e prima di arrivare alle mura e alle sponde del fiume, ci si imbatteva in una serie di<br />

strette viuzze con molte costruzioni contemporanee.<br />

Attraversando la piazza del grande palazzo da nord<br />

verso sud, invece di imboccare rue Jean Vilar, la quale<br />

costituiva spesso un collo di bottiglia per quanti<br />

passassero da place du Palais des Papes a place de<br />

l’Horloge, mi era capitato spesso di salire per rue de<br />

Mons. Una volta doveva essere più larga e incrociava<br />

direttamente le strade che si congiungevano con rue<br />

Balance. Era un vicolo, piccolo e spesso maleodorante,<br />

stretto tra la collina e le costruzioni sovrastanti e un nuovo<br />

palazzo che ospitava un albergo e un ristorante-pizzeria<br />

che dava direttamente su place de l’Horloge. Nel XV<br />

secolo si chiamava due de la Vice-Gérence; alla fine del<br />

Settecento diventò rue Cardinale. Sulla montagnola si<br />

338


ergeva tra il XII e il XIII secolo il Palazzo della Comune, attualmente ben più visibile<br />

dalla via retrostante più che dalla rue de Mons. Al tempo dei papi quell’edificio serviva<br />

da residenza ai due ufficiali: dal lato del Palazzo pontificale, al Maresciallo della corte<br />

romana; dal lato di San Pietro, al “viguier” della città. Successivamente ospitò il vicario<br />

generale del papa, fu assegnto all’Uditore o Vice-amministratore della Camera<br />

apostolica, in quanto impegnato nella giurisdizione demaniale e fiscale degli Stati<br />

pontifici di Avignone e del Contado, ma sotto la supervisione diretta della Camera<br />

apostolica di Roma. Oggi la “Cité du Palais” apparteneva a molti privati e all’interno<br />

era stata completamente modernizzata. Alle sue pendici, vi era uno spazio adiacente<br />

utilizzato per il Festival Off e un club-ristorante.<br />

Al numero 8 di rue de Mons (un tempo n° 4), il<br />

Palais de Crochans. Crochans era un antico feudo<br />

del principato d’Orange, l’attuale casa regnante in<br />

Olanda. Alla fine del XVII secolo il titolo passò a<br />

Louis-Henri de Guyon, decano della Rota romana e<br />

consigliere del Santo Uffizio, il quale sposò Jeanne-<br />

Marie de Marcel de Crochans. Furono realizzati<br />

molti lavori, che proseguirono anche con il figlio,<br />

Pierre-Louis, fino al portale di ingresso, austero,<br />

militaresco. Fu anche dimora del vescovo di<br />

Avignone, nonché sede di alcuni uffici<br />

amministrativi del dipartimento della Vaucluse,<br />

facendo perdere molti elementi caratteristici<br />

dell’architettura e dei decori dei bei saloni<br />

settecenteschi. Trascorsi molto tempo in<br />

quell’antico palazzo, su e giù per i passaggi della<br />

sua pancia: infatti, fin dalla sua apertura, nel 1977, ospitava la Maison Jean Vilar.<br />

Uscendo dal portone della Maison Jean Vilar non era inconsueto vedere Kader al<br />

lavoro nel suo ristorante, affrettarsi su e giù per il vicolo che dall’Hôtel de Crochans<br />

conduceva sino a place de l’Horloge, esattamente all’altezza dell’Hôtel de Ville. Eccolo<br />

Kader uscire dalle cucine, sul retro del palazzo mentre andava a servire dell’ottimo<br />

couscous o una delle sue saporite grigliate algerine. Era un angolo appartato, sebbene si<br />

trovasse all’interno stesso della grande piazza cittadina. Faceva piacere stare alla<br />

terrazza del suo ristorante; e poi, sia lui che la sua famiglia, furono incredibilmente<br />

gentili, ospitali.<br />

Place de l’Horloge era il regno di Kader il quale stava un momento ad incantare<br />

gruppi di turisti che gli passavano dinnanzi, con il suo improbabile inglese, un italiano e<br />

uno spagnolo quanto meno incerti, ma con una carica di simpatia e di amicizia<br />

ammirevoli. Quella piazza, che non poteva rivaleggiare con la vicina place du Palais<br />

quanto a monumentalità, costituiva comunque il centro cittadino, l’asse portante di<br />

Avignone. Cominciata nel XV secolo, molto probabilmente era l’antico foro della città<br />

romana. In seguito, collegata direttamente attraverso la rue Balance alle rive del fiume,<br />

all’altezza del famoso ponte di St. Benezet e della porte Ferruce, era sostanzialmente il<br />

luogo dove si svolgeva il principale mercato, trovandosi poco lontano dall’originario<br />

macello pubblico. Non a caso, nella metà del XV secolo veniva chiamata place du<br />

Masel, antico nome provenzale del macello, o place du Forum, vale a dire la piazza del<br />

mercato. In precedenza, nella seconda metà del Trecento, nell’ambito dei molti palazzi<br />

cardinalizi presenti in quell’area, fu edificata una torre che presto divenne parte del<br />

339


vicino monastero di Saint-Laurent, convento di Benedettini, il più antico della città.<br />

L’acquisto successivo di quei palazzi da parte della città era un evento della metà del<br />

Quattrocento. Fu proprio attorno a quella torre e appoggiandosi a quei palazzi che, a<br />

partire dal 1458 venne edificato il nuovo Municipio. La piazza fu ingrandita attraverso<br />

la demolizione di due case; e nel 1471 venne installato, in cima alla torre ancora affittata<br />

alle religiose di Saint-Laurent, un orologio. La piazza doveva il suo attuale nome<br />

proprio a quell’evento, e doveva essere ingrandita ulteriormente alla fine del<br />

Cinquecento: ma i costi eccessivi per l’allargamento e la sistemazione della vicina place<br />

Pie fecero desistere gli abitanti della città da tale proposito. L’attuale dimensione della<br />

piazza venne raggiunta, in parte, solo agli inizi dell’Ottocento quando, dopo ulteriori<br />

demolizioni e allargamenti, venne anche costruito il primo teatro cittadino, inaugurato il<br />

30 ottobre del 1825. Nel 1844-1845 venne demolito il vecchio Hôtel de Ville e la prima<br />

pietra fu solennemente posata nel marzo del 1845. Il nuovo municipio venne inaugurato<br />

nel settembre del 1851: dell’antico edificio non restò che la torre dell’orologio e qualche<br />

muro di palazzi precedenti. E fu proprio durante la costruzione dell’Hôtel de Ville che,<br />

nel 1846, il teatro bruciò in un terribile incendio. La costruzione che lo sostituitì era<br />

l’attuale Teatro Municipale, sede di spettacoli del Festival fin dalla sua prima edizione.<br />

Durante il secondo impero la piazza assumeva quindi il suo aspetto attuale, compresi<br />

i lavori di sistemazione del palazzo della Banca di Francia, con il nuovo ingresso.<br />

Sul lato sud-ovest della piazza, all’altezza dell’inizio di<br />

rue de la République, c’era il Palazzo du Roure, antica<br />

residenza della ricca famiglia di mercanti fiorentini dei<br />

Baroncelli. Oggi era la sede della prestigiosa Biblioteca du<br />

Roure, centro municipale. Giovanni Baroncelli fu agente di<br />

cambio, sergente d’armi del papa, collaboratore stretto<br />

della Camera Apostolica, specie nel periodo di Urbano V,<br />

incaricato degli acquisti di preziosi e pezzi di oreficeria,<br />

comprese le famose Rose d’oro papali. Ad ogni modo la<br />

famiglia si stabilì ad Avignone in modo definitivo solo alla<br />

fine del XV secolo. Pietro Baroncelli e il fratello Carlo,<br />

figli di Giovanni, ebbero stretti rapporti con le principali<br />

famiglie fiorentine dell’epoca, compresi di Medici e i<br />

Pazzi, e giocò un ruolo politico rilevante nelle relazioni con i della Rovere e con papa<br />

Sisto IV, causando la caduta di Carlo di Borbone e la sua sostituzione, come legato di<br />

Avignone, con il cardinale Giuliano della Rovere nel 1476. In quel periodo,<br />

conquistatosi la fiducia del papa, si occupò di molti affari per conto del papa stesso e di<br />

molti altri cardinali. Il palazzo attuale fu il risultato di successive modifiche<br />

architettoniche di edifici preesistenti e risalenti alla fine del Quattrocento. L’Hôtel dei<br />

Baroncelli era la più bella casa privata gotica di Avignone, con la sua grande porta di<br />

ingresso, surmontata da un decoro molto particolare, un ricco altorilievo scolpito<br />

direttamente nella parete. L’entrata era composta da una bella volta ogivale e<br />

all’interno, nella corte, delle gallerie su due piani si aprivano sui due lati, ad oriente e<br />

occidente. I dipindi del Salone delle Battaglie, al primo piano, che fecero a lungo la<br />

gloria del palazzo, furono realizzati dal Joseph-François Parrocel nel 1760: composti da<br />

quattro pannelli, due per lato, alti 1 metro e 85 centimetri e larghi 1 metro e 25<br />

centimenti, rappresentavano il Campo, la Preparazione all’attacco, il Combattimento e<br />

il Dopo battaglia.<br />

340


Durante la Rivoluzione il Palazzo fu confiscato, divenne sede del Comitato<br />

Rivoluzionario di Avignone, poi alloggio degli ufficiali generali di stanza ad Avignone.<br />

All’inizio dell’impero i Baroncelli tornarono a disporre del oro palazzo fino al 1907.<br />

Venduto, dopo la guerra divenne un centro culturale fervente, per essere poi ceduto<br />

definitivamente alla città di Avignone.<br />

Uscendo nel vicolo antistante il Palais du Roure, svoltando a destra si ritornava verso<br />

rue de la République. L’arteria principale di Avignone assieme a cour Jean Jaurès, un<br />

tempo si chiamavano corso e rue Bonaparte. La realizzazione dell’intera arteria fu<br />

divisa in tre cantieri che lavorarenno dal 1856 al 1867. Intanto, in fondo alla via, veniva<br />

terminata la stazione ferroviaria, con il primo treno per Parigi che partì il 29 giugno<br />

1854. Probabilmente, come sottolineava un vecchio sindaco di Avignone, senza rue de<br />

la Répubblique sarebbe presso ché ipossibile entrarea ad Avignone. Il primo troncone<br />

della strada si chiamava rue Saint-Marc, dal nome di un albergo vicino; quella strada<br />

arrivava all’altezza dell’attuale rue Théodore-Aubanel e al Convento di Saint-Martial o<br />

al portale Boquier. Oggi, degli antichi palazzi non era rimasto molto lungo quella via.<br />

L’attuale Museo Lapidario meritava un po’ di<br />

attenzione: si trattava della Cappella del Collegio dei<br />

Gesuiti, fondato nel 1564 su pressioni del cardinale<br />

Alessandro Farnese. La chiesa era tuttora intatta rispetto<br />

alle forme originali che assunse un secolo dopo la<br />

fondazione del Collegio. Nel 1768 i Gesuiti furono<br />

espulsi e sostituiti dai Benedettini. Dopo la Rivoluzione<br />

il collegio fu trasformato in caserma. La chiesa, per<br />

contro, non fu resa al culto che nel 1857 e trasformata in<br />

museo lapidario nel 1933 dopo essere classificata come<br />

monumento storico nel 1928.<br />

Oggi, se si attraversava rue de la Répubblique,<br />

all’altezza del Museo lapidario non si incontravano<br />

molte delle vie e degli edifici antichi che erano presenti<br />

fino alla fine dell’Ottocento.<br />

Restava però pressoché intatta rue de la Bouquerie, antico termine che indicava la<br />

macelleria e che fino al XV secolo era parte integrante dell’antica rue Saint-Marc (in<br />

parte sostituita, per l’appunto, da rue de la République). Risalendo la strada verso nord<br />

si entrava in una serie di quartieri della città rimasti suggestivi, passando sul retro del<br />

municipio e davanti la prefettura, fino alla splendida Eglise de Saint-Agricol. Dopo la<br />

cattedrale, era forse la più antica chiesa di Avignone, fondata dal suo patrono, lo stesso<br />

saint Agricol, vescovo di Avignone, nel VII secolo. Solo la sua facciata, apparentemente<br />

austera, rustica, meritava di essere contemplata: tipico stile provenzale, della seconda<br />

metà del XII secolo. Girando verso sinistra, ci si imbatteva: a destra, in rue Porte<br />

Fusterie, unica parte rimasta di una serie di vecchie strade medievali ancora<br />

estremamente caratteristica e pittoresca, e poi nella nobile place Carillon; poco più<br />

avanti, a sinistra in rue Joseph Vernet, dove, al n° 86, restando sulla sinistra, si arrivava<br />

al Musée Calvet, antico Hôtel de Villeneuve, livrea cardinalizia di Pierre d’Ailly,<br />

cancelliere dell’Univeristà di Parigi, vescovo di Puy e poi di Cambrai. Acquisato dal<br />

comune nel 1833, era una bella sede museale e ospitava spesso nel suo giardino interno<br />

spettacoli e incontri del Festival di Avignone. Esprit-Claude-François Calvet (1728-<br />

1810) era medico ma si occupò anche di archeologia, sua vera passione, di numismatica<br />

e di scienze naturali. Poco più avanti, prima che rue Joseph Vernet svolti con più<br />

341


decisione verso sinistra, dalla parte opposta della strada, si poteva imboccare rue Saint-<br />

Charles con l’omonimo antico Seminario, la cui Cappella è, oggi, anch’essa utilizzata<br />

per ospitare gli spettacoli del Festival. Ad un certo punto rue Saint-Charles incrociava<br />

Boulevard Raspail: a destra si arrivava al cortile e alla palestra del Lycée Mistral, luogo<br />

meno prestigioso e nobile, ma sicuramente funzionale per ospitare mostre, eventi e<br />

spettacoli (ebbi modo di assistere a Gens de Séoul, di Frédéric Fisbach, prossimo artista<br />

associato del Festival); proseguendo a sinistra, invece, si risaliva fino alla fine di rue de<br />

la République, all’inizio di cours J. Jaurès. Poco più avanti, rue du Portail-Boquier, che<br />

prendeva il nome dal fatto che questo vicolo portava direttamente alla porta di una<br />

prima cinta muraria della città; poi, Cloître Saint-Louis, o meglio, l’antico ospizio di<br />

Saint-Louis. Il quartiere, in precedenza, ospitava i locali della Studium, l’antica<br />

università di Avignone, che all’inizio del 1400 fu spostata nell’attuale sede, vicino al<br />

Porta Saint-Lazare. Antico noviziato dei Gesuiti, fondato nel 1589. L’edificio fu<br />

consacrato il 26 maggio del 1611, imponendo il nome di San Luigi, re di Francia.<br />

Dopo la Rivoluzione divenne convento dei Celestini e succursale dell’Hôtel des<br />

Invalides di Parigi. Nel 1850, in dopo la visita ad Avignone di Luigi Napoleone<br />

Bonaparte, presidene della Repubblica, l’edificio venne concesso alla città e, al posto<br />

degli invalidi militari, fu dedicato ai civili, prendendo il nome di ospizio di San Luigi.<br />

Uscendo dal vicolo, davanti ci si trova l’enorme blocco della Cité Administrative,<br />

racchiuso tra porte St. Michel e porte de la République. Costeggiando la Cité si arrivava<br />

fino all’Eglise des Célestins e al suo Cloître, altri luoghi magici del Festival di<br />

Avignone, all’interno della splendida e sempre animata place des Corps Saints.<br />

Proseguendo a sinistra e, all’incrocio con rue<br />

Henry Fabre, a destra, ci si immetteva in rue<br />

des Lices. L’angolo formato con rue des<br />

Teinturiers formava un quadrato in cui si<br />

raggruppavano alcuni degli spazi teatrali e dei<br />

luoghi del Festival più importanti: la corte del<br />

Lycée Saint-Joseph, il suo Gymnase e la sala<br />

Benoît-XII si trovavano esattamente nel cuore<br />

pulsante del Festival Off, in uno dei quartieri<br />

più affascinanti di Avignone. Rue Bonasterie<br />

(oggi rue Bonneterie), assieme alla contigua<br />

342


ue des Teinturiers costituvano un asse molto antico della città: i “bonastes”, in<br />

francese moderno, erano fabbricanti di cesti, mentre l’antica rue du Cheval-Blanc, per<br />

via di una locanda con lo stesso nome, nel XVIII secolo era la via principale del<br />

quartiere dei fabbricanti di panni di cotone, l’industria più importante della zona.<br />

Ancora nel 1856 vi erano concentrate nove fabbriche che occupavano oltre trecento<br />

operai.<br />

Tornando verso casa, verso nord, ed entrando nella zona pedonale di Avignone,<br />

passai per l’odierna place de la Principale, dal nome della chiesa di Notre-Dome-la-<br />

Principale, le cui origini risalivano all’XI secolo. Era il cuore medievale della città: tra i<br />

molti nobili palazzi, resti di antiche costruzioni ed edifici moderni, arrivai di fianco alla<br />

Chapelle des Pénitents blancs, tutto ciò che resta oggi di quella originaria chiesa: spazio<br />

tanto vecchio quanto affascinante, ma anche dall’accessibilità limitata. I Penitenti<br />

Bianchi erano una delle sette confraternite presenti ad Avignone all’inizio del 1500.<br />

Era tardi: proseguii per place du Change, costeggiando<br />

la centralissima rue des Marchands; arrivai a place Carnot,<br />

lasciandomi sulla sinistra l’Eglise de St. Pierre e imboccai<br />

rue Carnot, trafficatissima come sempre, visto che non era<br />

parte della zona pedonale che avevo appena abbandonato.<br />

A destra mi lascai il quartiere con Les Halles e place Pie,<br />

per dirigermi verso place du Portail Matheron. In un<br />

antichissimo palazzo era possibile vedere le tracce della<br />

precedente cinta muraria. Poco più avanti il quartiere di<br />

Santa Marta, il più vecchio ospedale di Avignone ed ora<br />

città universitaria. A metà strada, place des Carmes, con lo<br />

storico Cloître des Carmes: luogo memorabile tanto del<br />

Festival In quanto del Festival Off.<br />

Avevo una mezz’ora per passare in rue de la Croix, salire al mio appartamento e<br />

ripartire per il Lycée Aubanel. Al recital musicale di Szabados e Tarasov. Fu uno<br />

spettacolo indimenticabile. Pioveva. Avevo bisogno di un ombrello. Ad Avignone,<br />

statisticamente, piove trenta giorni all’anno.<br />

343


XXVI<br />

(Organizzare la messa in scena del Festival. La saga del Festival di Avignone: una macchina teatrale<br />

con sessanta anni di storia. Da principio la storia del Festival di Avignone è quella di Jean Vilar…)<br />

Dove il grande spettacolo del Festival è presentato come una saga in cui si sa quando<br />

tutto è cominciato ma non si prevede (ancora) un epilogo E in cui il protagonista<br />

principale è il fondatore del Festival, la sua leadership, il suo mito <br />

«Scrivere un romanzo o viverne uno non è affatto<br />

la stessa cosa, checché se ne possa dire, e<br />

tuttavia, non è possibile separare la nostra vita<br />

dalle nostre opere».<br />

(Marcel Proust)<br />

Jean Vilar nacque a Sète, il 25 marzo 1912, sul mare, nel sud della Francia, vicino a<br />

Montpellier. I suoi genitori avevano un piccolo, tanto disordinato quanto “poco<br />

ordinario”, negozio di merceria e di cappelli che già all’epoca era considerato d’altri<br />

tempi, al numero 13 di rue Gambetta, tra il mercato coperto e il teatro delle marionette.<br />

Per diversi anni ancora, fino alla giovinezza, quella casuale vicinanza fisica ad un teatro<br />

fu l’unico collegamento evidente tra Jean Vilar e il mondo dell’arte e dello spettacolo.<br />

M. Vilar-padre era un uomo piccolo, dal viso tondeggiante e, con l’avanzare dell’età,<br />

con una simpatica pancia rotonda. La famiglia proveniva dai Pirenei, aveva<br />

probabilmente origini catalane, ma Sète è un porto piccolo ma importante per la pesca e<br />

il commercio, e non era difficile immaginare come vi siano arrivati gli antenati di Jean<br />

Vilar; e probabilmente queste origini facevano di Etienne Vilar quello che si definirebbe<br />

come un uomo tutto d’un pezzo, con alcune caratteristiche peculiari: piccolo<br />

commerciante, repubblicano, alla vecchia maniera direbbero i francesi – ovvero secondo<br />

la prospettiva della Terza Repubblica –, patriota socialista, indipendente, radicale e<br />

anticlericale (pur non essendo un militante). Molte biografie riportano un aspetto<br />

interessante della curiosità intellettuale di quest’uomo. Leggeva tre giornali: «Le Petit<br />

Méridional, giornale moderato, per tenersi informato degli avvenimenti quotidiani del<br />

suo piccolo angolo di Provenza; L’Humanité, giornale fondato da Jean Jaurès, “le<br />

rassembleur des socialistes”; e L’Action Française, perché bisogna conoscere le idee dei<br />

nemici per poterli meglio combattere […] 1 ».<br />

Di queste sue origini, Jean Vilar, non si dimentichò mai: indubbiamente non fu facile<br />

per lui superare quella sorta di complesso dovuto ad un orizzonte culturale all’apparenza<br />

ostruito. E viene da sorridere a pensare con quanta timidezza il futuro direttore del<br />

Théâtre National Populaire (TNP) affrontò una conferenza nel grande anfiteatro della<br />

Sorbona a Parigi, sotto l’occhio severo dei più celebri uomini di lettere dell’epoca!<br />

Anche quello era un aspetto del suo carattere: era, e resterà sempre, un uomo dalla<br />

timidezza sconvolgente, semplice, ma con una genialità entusiasmante. E pensare che<br />

tutti, tecnici, macchinisti, elettricisti, attori, registi, artisti, funzionari, politici e uomini<br />

di cultura con cui ebbe a che fare sottolinearono un aspetto altrettanto incredibile: «Non<br />

era facile dire di no a quell’uomo!», incuteva un rispetto incredibile.<br />

L’episodio della conferenza alla Sorbona, anche riportato da molte biografie, ebbe un<br />

altro significato importante, un aspetto che guidò sempre le intenzioni e le scelte di<br />

Vilar uomo-di-teatro: era l’esempio di come il figlio di un piccolo commerciante della<br />

provincia avesse tutto il diritto di uscire dal suo “ghetto culturale” e di trovarsi lì, nel<br />

1 Bardot, 1991: 16 (N.d.T.).<br />

344


tempio del sapere universitario, e di come questa sua condizione iniziale, nonostante le<br />

sue abilità e talenti, costituisse, comunque, un problema in più da superare.<br />

Sète, dunque, stava stretta fin da subito a Jean Vilar: la città in cui era nato anche<br />

Paul Valéry e in cui nessuno lo conosce, in quei primi anni del Novecento, era animata<br />

da un gruppo di giovani (pochi per la verità) entusiasti e per lo più autodidatti: ma non<br />

sarà Paul Valéry, che ogni tanto torna al suo paese di orgine, a trasmettere a Vilar figlio<br />

la passione per la lettura. Vilar-padre leggeva molto, e si dà il caso che avesse una<br />

personale biblioteca con la più ricca collezione di autori antichi e moderni della zona.<br />

Etienne Vilar aveva anche un’altra passione: quella per la musica, la buona musica.<br />

Suonava il violino, e insisterà parecchio perché i figli faccessero lo stesso. Nella<br />

sostanza: «Etienne Vilar non era severo, piuttosto era rigoroso. Non voleva lasciare<br />

nulla al caso e l’educazione dei suoi figli in primo prima di tutto. Bisogna dirlo: questo<br />

tratto del carattere è ritrovabile in Jean. Il rigore dell’amministratore e del regista<br />

diventerà quasi leggendario e gli sarà qualche volta rimproverato 1 ».<br />

D’altro canto, l’arte e la musica a Sète erano poco altro: qualche compagnia di giro<br />

che si fermava al teatro municipale, altrimenti chiuso; un po’ di opera lirica; la mamma<br />

di Jean Vilar che cantava qualche aria famosa mentre bolliva i fagioli senza che potesse<br />

scoprire, in effetti, chi fosse l’autore di quelle note e di quelle parole.<br />

Le capacità di Jean come violinista erano tutte pratiche, frutto dell’esperienza: fece<br />

pochi esami al conservatorio, suonava in pubblico con alcuni amici solo per guadagnare<br />

qualche soldo tra i dodici e i quattordici anni, al Bar de la Marine. Ma era comunque un<br />

genio precoce: prova ne sia il fatto che amasse suonare anche il jazz, specie nei grandi<br />

caffè o in qualche paese vicino, durante le feste popolari. Certo, non al Bar della Marina<br />

che all’epoca era un magazzino tra i banconi del pesce da una parte e la chiesa<br />

dall’altra, un punto di appoggio modesto per i marinai e i lavoratori del porto, più<br />

funzionale che lussuoso.<br />

Il giovane Vilar si portò con sé anche un’altra passione: quella per il calcio. Giocava<br />

anche in una squadra del paese; nel sud della Francia, in quel periodo come ora, il calcio<br />

è cosa seria. E a quanto pare anche Vilar amava cimentarsi dando calci al pallone. E<br />

pensare che molti lo ricordano, in tenuta da calciatore, quando, da direttore del Festival<br />

di Avignone, amava organizzare partite di pallone assieme agli attori del TNP e a<br />

Gérard Philippe. Si divertiva, come si divertiva a scuola, ma neanche qui era brillante:<br />

se la cavava, niente di più, niente di meno.<br />

«Partire, bisogna partire 2 ». Il giovane Vilar aveva il mare davanti a sé, da sempre; e<br />

da sempre non si limitava a guardare lontano: scrutava la profondità dell’orizzonte che<br />

gli si apriva davanti, era smanioso di conoscere, di vedere. Come molti suoi amici,<br />

attorno ai vent’anni, vuole tagliare i ponti e partire.<br />

Un giorno disse: «Familles, je vous hais!». Raccontando quell’episodio, anche a<br />

distanza di anni, lo stesso Vilar ricordava una sorta di pulsione fisiologica: la famiglia,<br />

benché vi fosse molto legato, era una specie di prigione. Jean Vilar, comunque, non<br />

smise mai di ricordare l’affetto per i suoi genitori. Papà Etienne morì il 5 marzo del<br />

1965 a 94 anni; mamma Catherine poco dopo, il 20 febbraio 1966, a 82 anni. Lui,<br />

all’apice della sua carriera, ne fu molto colpito.<br />

Ma torniamo agli anni Trenta. Con circa mille franchi in tasca (l’equivalente per<br />

vivere qualche settimana) Vilar fece la valigia, di nascosto, occultandola nel negozio. Il<br />

1 Ibidem: 18 (N.d.T.).<br />

2 Ibidem: 28 (N.d.T.).<br />

345


padre la scoprì e si scatenò una scena violenta: Vilar non parlerà molto spesso di<br />

quell’episodio; di fronte ai rimproveri severi del padre ebbe sempre un atteggiamento<br />

pudico, un sentimento di colpa profondo. Ma questo non fu un ostacolo alla sua<br />

realizzazione: tenace e determinato, otto giorni più tardi saltò sul treno per Parigi.<br />

Sbarcato alla Gare de Lyon 1 completamente perso e disorientato, vede svanire<br />

velocemente i suoi mille franchi. La famiglia gli restò comunque vicino. Andò a vivere<br />

nel Quartiere Latino con un suo amico di Sète (quella dei “sètoise” in giro per la<br />

Francia era una vera e propria comunità, e questo avrà anche importanti risvolti per il<br />

futuro): fece lavori saltuari ma nel Natale di quello stesso anno, nel 1932, a meno di un<br />

mese dal suo arrivo a Parigi, tornò mestamente a casa. I genitori lo accolsero a braccia<br />

aperte, ma Jean Vilar ripartì, ancora una volta: con poco denaro in tasca (molto poco,<br />

Etienne e Chaterine non potevano fare di più) e con i genitori preoccupati di cosa andrà<br />

a fare e cosa diventerà il loro “petit” (come si usa dire nel sud della Francia).<br />

Successivamente Vilar si iscrisse alla Sorbona, ma senza entusiasmo. Il padre sognava<br />

per lui un futuro da professore di lettere. In effetti, però, il giovane Vilar scriveva,<br />

leggeva, rifletteva molto. Secondo i biografi, i suoi scritti giovanili erano laboriosi,<br />

carichi di simbolismo, nello stile più classico degli ultimi poeti del XIX secolo. Ad ogni<br />

modo, Jean Vilar era più spesso in giro per le strade di Parigi piuttosto che nelle aule<br />

della Sorbona e attraverso l’intermediazione di un amico riescì a trovare un impiego<br />

fisso come sorvegliante al collège Sainte-Barbe. Era il 25 gennaio del 1933 e vi resterà<br />

fino al primo luglio del 1935.<br />

L’impiego a Sainte-Barbe non aveva un gran salario ma era comunque un’entrata<br />

fissa che garantiva al giovane Vilar un minimo di tranquillità dal punto di vista<br />

economico. E lui ne aveva bisogno: non era propriamente un bohêmien come il suo<br />

amico musicista Antoine de Rosa, anche lui di Sète e anche lui a Parigi in quegli anni.<br />

Risale a questo periodo un piccolo aneddotto che racconta proprio Antoine de Rosa e<br />

che lo stesso Vilar confermerà di aver inventato. Infatti, parlando della sua messa in<br />

scena del Cid, racconterà ad un giornalista, in quanto iscritto alla Sorbona:<br />

«[…] qu’il avait échoué à un certificat dont le sujet portait sur le problème cornélien!<br />

Balivernes! Vilar n’a jamais échoué en quoi que ce soit puisqu’il n’a jamais rien présenté! Plein de<br />

malice, notre metteur en scène a inventé cette anecdote qui trâine dans toute les journaux de<br />

l’époque. Cela ressemble à un petit règlement de compte: on peut monter Le Cid sans être docteur<br />

en Sorbonne…» (Bardot, 1991: 32).<br />

Ad ogni modo, Vilar non era certo uno sprovveduto: leggeva, leggeva molto,<br />

soprattutto di notte, quando nel collegio di Sante-Barbe tutti dormivano. Era un<br />

appassionato del XVIII secolo francese ma leggeva veramente di tutto: Rousseau,<br />

Diderot, Omero, Stendhal, Gide, Maurois, Valéry, Goethe, Voltaire, Beaumarchais,<br />

Montaigne, Rutebeuf, Michelet, Pascal; ma anche Shakespeare, storia antica, teatro<br />

romantico, teatro classico.<br />

In un passo della biografia di Bardot si legge:<br />

«De l’enfance, Vilar sera directement projeté dans l’âge adulte. Entre 1918 et 1939, le monde<br />

n’a pas le temps de respirer et les jeunes gens n’auront pas le droit à la douceur de vivre qui<br />

accompagne les grands soubresauts. Le chômage, les crises politiques, l’intabilité ne sont pas<br />

propices au dévelopment harmonieux des jeunes intelligences et Vilar, comme bien d’autres, se<br />

1 La Gare de Lyon costituisce tutt’oggi un importante snodo del traffico della città di Parigi ed uno degli<br />

accessi principali alla città da sud…. Nei primi anni Trenta…<br />

346


sentira ballotté par des événements incontrôlables. Il se réfugie alors parmi ses chers auteurs du<br />

XVIIIe siècle. Il admire leur courage, leur tranquille supériorité intellectuelle, leur libertinage de<br />

bon goût, leur désinvolture gracieuse».<br />

Era quindi uno studioso che, seppur da autodidatta e non ancora ventiquattrenne,<br />

guardava indietro per poter poi allungare lo sguardo in avanti, lontano. Quando fu più<br />

maturo questo gli permise di guardare nel futuro, spesso più lontano di quanto potessero<br />

fare i suoi contemporanei, parlando di teatro come servizio pubblico e della<br />

responsabilizzazione del ruolo degli artisti nella società civile. Dall’archivio personale<br />

di Jean Vilar, tra le note che stava facendo studiando un’adattamento dei “Frères<br />

Karamazov” di Copeau, ad un tratto, emersero alcuni versi scritti in un angolo del<br />

quaderno:<br />

«Tu es venu vers moi, mélanconique/ Les mains tendues,/ Portant dans tes dix doigts la<br />

musique/ Des journées perdues»<br />

E ancora:<br />

«Viens dans les chemins, /Les mains dans les mains/ Et le sourire sur les lèvres./ Viens courir<br />

le long/ Des sentiers qui vont».<br />

Come sottolinea Bardot: «Ce sont de mauvais vers qui révèlent cependant le<br />

mélancolie et le besoin d’amitié du jeune surveillant de Sainte-Barbe» (ibidem: 33, il<br />

corsivo è mio).<br />

Dopo poco tempo, un avvenimento ed un incontro determinante, fecero cambiare la<br />

vita del giovane Vilar, decidendo del suo futuro. Questo era il racconto che fece il suo<br />

amico Antoine de Rosa di quella serata:<br />

«Alors, un soir, j’arrive à Sante-Barbe à huit heures. Vilar me dit: “Tu ne sais pas ce qu’on<br />

devrait faire? On devrait aller à l’Atelier.” Je lui dis: “Bougre mais c’est loin!” et je lui demande:<br />

“Poquoi?” Il me répond: “Parce qu’on m’a dit qu’on jouait une pièce de Ben Jonson, Volpone et il<br />

y a un type formidable qui joue là-dedans, un nommé Dullin.” Je lui dis: “Si tu veux, on y va à<br />

pied.” Nous y sommes allés comme ça! Nous sommes entrés à l’entracte, on s’est “enfilé”. Alors<br />

là c’est la révélation pour Vilar, la révélation, la révélation… […] À ce moment-là qu’est-ce que<br />

nous faison à la fine de la représantion? Nous allons vois Charles Dullin à qui Vilar demande s’il<br />

ne peut pas participer. Dullin répond: “Mais oui, vous n’avez qu’à venir tel jour et tel jour et vous<br />

mêlerez à nous”.<br />

Erano arrivati assieme fino alle pendici di Montmartre, in quella che allora si<br />

chiamava place Dancourt e che poi divennne proprio place Charles Dullin. Loro<br />

abitavano in pieno Quartiere Latino, nella zona del Panthéon. Oggi sono solo poche<br />

fermate di metropolitana; all’epoca, come oggi, era una bella passeggiata se fatta a<br />

piedi. Charles Dullin era nato nel 1885 e morto nel 1949 a Parigi: era stato attore,<br />

regista e importante teorico del teatro. Personaggio di fondamentale importanza per la<br />

storia del teatro, fino al 1940 condusse una esperienza artistica che lui stesso aveva fatto<br />

nascere nel 1921: l’Atelier. Non era una impresa teatrale ma un vero e proprio<br />

laboratorio, una sorta di organizzazione cooperativa, di scuola in cui metteva in pratica<br />

le proprie teorie attraverso tecniche che forzavano l’allievo ad esprimersi, a lasciarsi<br />

andare utilizzando anche degli esercizi particolari che sfruttavano tutti e cinque i sensi.<br />

Il suo modello era la commedia dell’arte e il teatro giapponese, ma si era interessato<br />

anche al teatro elisabettiano. L’essenziale per lui era il testo e proporre un realismo che<br />

347


non fosse né il naturalismo né l’imitazione della vita, ma un qualcosa che si fondasse<br />

sulla trasposizione del reale al teatro. Fu così che Vilar cominciò a fare del teatro. Dopo<br />

aver assistito al Volpone (nel 1932), le cronache parlano di un definitivo<br />

“innamoramento” di Vilar per il teatro alla ripresa del Riccardo III (il 4 novembre<br />

1933). L’influenza di Dullin su Vilar fu enorme. Il modo di lavorare del suo maestro, la<br />

sua passione, la sua attenzione maniacale per i dettagli, l’esigenza di studiare fin nei più<br />

piccoli aspetti l’opera: sono tutte caratteristiche che si ritrovano nelle descrizioni del<br />

Vilar maturo. Assistendo alle repliche del Riccardo III Vilar sentì che la sua vita<br />

sarebbe stata interamente dedicata al teatro, ma in quale ruolo giocare 1 : autore, attore,<br />

regista? Ad ogni modo era deciso: chiese al maestro di poter prendere parte ai suoi<br />

corsi. E benché Dullin mettesse in guardia tutti i sui allievi della difficile vita che<br />

stavano per intraprendere, Vilar era inamovibile: «[…] Les dés sont jetés 2 ». Dullin era<br />

duro ma giusto: costringeva i suoi allievi a non recitare per nessun’altro e a nessun<br />

prezzo (lui stesso applicava il “minimo salariale” per i suoi giovani esordienti); ma era<br />

un maestro incredibile. E Vilar apprezzava il rispetto per gli artisti e il lavoro onesto.<br />

Nel luglio del 1935 Vilar lasciò Sainte-Barbe e, per il periodo delle vacanze, tornò a<br />

Sète: ritrovò i suoi genitori, gli amici, ma gli mancavano i contrasti della capitale.<br />

A Parigi alloggiava e lavorava al teatro di Dullin: nel primo anno come figurante; poi<br />

come aiuto regista.<br />

Tra il 1937 e il 1938 compì il servizio militare, nel sud della Francia, poco lontano da<br />

casa. Non divenne mai un militarista, ma quel periodo trascorse in modo del tutto<br />

ordinario. Al congedo, alla fine del 1938, tornò a Parigi. Furono anni di povertà.<br />

Nel 1939 fece la prima esperienza teatrale fondando un gruppo teatrale con degli<br />

amici. Per tre serate, tra gennaio e febbraio, Vilar fece esperienza di organizzatore<br />

teatrale, coordinò il gruppo, mise in scena lo spettacolo.<br />

Poche settimane dopo, con la dichiarazione di guerra nel marzo del 1939, Vilar<br />

venne richiamato alle armi a Nizza, ancora nel suo amato sud. La famiglia Vilar visse<br />

un primo terribile dramma: la morte del figlio più piccolo, Lucien. Aveva solo 19 anni.<br />

Jean ne soffrì terribilmente. Lo stesso Jean Vilar, a soli 27 anni, rischiò la vita in seguito<br />

all’acuttizzarsi improvviso di una grave forma di ulcera allo stomaco. Si salvò, ma per il<br />

resto della sua vita soffrì di forti dolori, a volte insopportabili. Una sera, nel luglio del<br />

1954, ebbe una grossa crisi che non gli impedì di recitare il giorno successivo benché si<br />

trovasse in uno stato di indicibile sofferenza. Lo spettacolo fu stroncato senza che<br />

comunque nessuno si accorgesse del problema di salute di Vilar. Alla fine dello<br />

spettacolo Vilar si vedeva così: «Quarante-deux ans, un mètre soixante-quinze,<br />

soixante-trois kilos, ulcère perfora à l’âge de vingt-sept ans, névrite depuis trois mois,<br />

porquoi poursuivre une tâche qui réclame tous les jours un bon état de la condition<br />

physique? 3 ».<br />

Nel settembre del 1940, distrutto nel fisico dall’operazione, Vilar cominciò a cercare<br />

lavoro a Parigi; tentò anche di ricostituire una compagnia teatrale. Nonostante<br />

l’occupazione il teatro non si fermò. Fu congedato, di fatto, solo a metà dell’anno<br />

successivo. Il periodo della guerra fu terribile ma vi furono comunque esperienze che<br />

non mancarono di colpire il giovani Vilar lasciando un segno indelebile.<br />

1 Qui ho giocato volutamente con il verbo francese “jouer” che, tra i vari significati, ha anche quello di<br />

“recitare” (N.d.T.).<br />

2 Bardot, 1991: 38 (N.d.T.).<br />

3 Ibidem: 56 (N.d.T.).<br />

348


La più importante, senza dubbio, fu l’esperienza con la compagnia dei “Comédiens<br />

de la Roulotte”.<br />

Nel giugno del 1943 la sua prima messinscena fu La Danse de la Mort di Strindberg:<br />

trovò in affitto una sala privata convertita al teatro; ma le rappresentazioni dello<br />

spettacolo furono interrotte per una questione legata al mancato pagamento dei diritti<br />

d’autore di un testo era poco rappresentato in Francia. Nonostante questo, il nuovo<br />

gruppo di attori fu notato da alcuni giornalisti. E la prima prova di regia di Vilar gli<br />

diede la forza di trovare energie nuove per lanciarsi in una nuova sfida. Nell’agosto del<br />

1943 fondò la Compagnie des Sept. Tra gli attori partecipanti ci sarà anche quello che<br />

diventò l’amico di una vita, Maurice Coussonneau. Antoine di Rosa, con cui non<br />

interruppe mai i contatti, si mise in società con Vilar mettendo a disposizione la cifra di<br />

trentaduemila franchi.<br />

Lasciò il teatro privato di rue Vaneau e trovò in affitto una piccolissima sala appena<br />

rinnovata al numero 75 di boulevard du Montparnasse: sessanta posti a sedere ed un<br />

palco con una scena di quattro metri di apertura. Solo ad Avignone, dal lato del Festival<br />

Off mi capitò di vedere sale più piccole: forse il Théâtre de Poche era veramente il più<br />

piccolo teatro di Parigi! Con due spettacoli, di cui un altro di Strindberg, già ad ottobre,<br />

dopo oltre venti rappresentazioni, si poteva parlare di un successo artistico e finanziario.<br />

Fu grazie all’entusiasmo suscitato da quella avventura che, probabilmente, Vilar<br />

trovò la forza interiore per lasciarsi andare alla gestazione di nuove idee, nuove sfide. E<br />

da un film mancato nacque un’avventura teatrale memorabile. In effetti, si potrebbe<br />

riassumere così il racconto della nascita del Festival di Avignone. Anzi, per rendere la<br />

cosa ancor più verosimile rispetto a come andarono i fatti, dall’incontro tra un poeta, un<br />

critico e mercante d’arte moderna ed un attore e regista teatrale doveva nascere un film:<br />

di fatto nacque il Festival di Avignone.<br />

René Char, il poeta, non aveva mai conosciuto Jean Vilar se non per averlo visto<br />

recitare una volta in un film dal titolo “Les Portes de la Nuit”. Ma sia lui che l’amico<br />

Christian Zervos, che stava preparando una mostra d’arte su Picasso, Matisse, ecc., da<br />

realizzare al Palazzo dei Papi di Avignone, vedevano più lontano dello stesso Vilar,<br />

preannunciando per lui una bella carriera nel cinema. Ad ogni modo, l’idea di Char era<br />

quella di realizzare un film che avesse come soggetto uno dei suoi testi. Come<br />

preannunciato, quel film non fu mai realizzato; ma sia Char che Zervos avevano visto<br />

anche Meurtre dans la cathédrale, al Vieux-Colombier 1 (in una nota indicare cosa è):<br />

secondo loro tutto di quello spettacolo, dal testo ai “sobri” elementi scenici di Gischia<br />

(l’artista che ben presto cominciò a lavorare con Vilar disegnando le scene e i costumi),<br />

lo stile di recitazione e i costumi, fossero fatti su misura per proporre lo spettacolo “en<br />

plain air”, nel Palazzo dei Papi. Nell’aprile del 1947, in rue du Bac a Parigi, Zervos<br />

propose a Vilar di realizzare una rappresentazione di Meurtre dans la cathédrale<br />

all’interno del palazzo. In parte impaurito, in parte sorpreso per la proposta, in un primo<br />

momento Vilar rifiutò l’offerta. Dopo qualche giorno lo stesso Vilar propose a Zervos<br />

tre creazioni: il Richard II, di Shakespeare, mai proposto prima di allora in Francia; e<br />

due opere francesi, una di un autore in vita, Claudel, ovvero Tobie et Sara, l’altra,<br />

l’opera inedita di un giovane scrittore e drammaturgo, Maurice Clavel, ovvero Le<br />

Terrasse de midi. “A jouer l’aventure, il fallait la tenter entièrement”: così la pensava<br />

Vilar. E in effetti il progetto era piuttosto audace. Ma il successivo rifiuto di Zervos era<br />

1 Il Vieux-Colombier è una antica e prestigiosa sala teatrale parigina, oggi a gestione privata, ma che già<br />

agli inizi del ‘900 costituiva un importante palcoscenico per giovani attori e registi.<br />

349


legato al fatto che il budget di cui disponeva non prevedeva un piano simile. Lo stesso<br />

Zervos consigliò però a Vilar di recarsi dal sindaco di Avignone, il dottor Georges Pons,<br />

e dal suo “premier adjont”, M. Charpier, suoi amici, e di proporre la cosa. La<br />

sovvenzione della città fu di trecento mila franchi. Come vedremo, quella del ministero<br />

di cinquecento mila. In più, lo stesso Vilar mise di tasca propria altri trecento mila<br />

franchi. Il CEAI (Cercle d’échanges artistiques internationaux) mise a sua disposizione<br />

l’attività di segreteria organizzativa:<br />

«Il est juste que je rende hommage à celle qui m’a apporté depuis le début une aide efficace,<br />

Mme Chrystel d’Ornhjelm, Secrétaire Générale du Cercle d’échanges artistiques internationaux.<br />

Cai il fallait dès le départ nous appuyer sur le public le plus large, non seulement les Avignonnais<br />

et les Provençaux, mais les jeunes gens, français ou étrangers, qui aiment le théâtre et ne peuvent<br />

le connaître autant qu’ils le voudraient. Vous savez l’importance qu’ont prise depuis, au moment<br />

du Festival, les Rencontres Internationales de Jeunes organisés par le Centre d’échanges artistiques<br />

internationaux en collaboration étroite avec le TNP.» (Bref, n° 47 – 1961).<br />

Ma per fare del teatro ci voleva anche una scena. «Non so come mi fosse venuta<br />

l’idea» raccontò Jean Vilar «e non oso dire che si sia trattato veramente di una idea<br />

personale, in quanto dovette arrivare da alcuni avignonesi che me la suggerirono. As<br />

ogni modo, ad Avignone era di stanza un battaglione del genio militare. Neanche un<br />

reggimento, ma un battaglione, meno numeroso. Mi sono presentato al comandante e gli<br />

chiesi “Mi serve del materiale. Degli avignonesi influenti appoggiano la mia richiesta».<br />

Il comandante rispose che difficilmente il Rodano sarebbe entrato in piena durante le<br />

giornate di Arte drammatica: firmato un documento in cui Vilar si impegnava a far<br />

smontare tutto appena terminata l’avventura, l’accordo fu raggiunto. Il Rodano, intanto,<br />

per un bel po’ di settimane, continuò a scorrere tranquillo.<br />

Maurice Coussoneau, l’uomo tuttofare di Vilar, fu catapultato sull’isola della<br />

Barthelasse per vedere come appariva un ponte mobile montato sul Rodano. Avrebbero<br />

dovuto fare la stessa cosa dentro la Corte d’onore del Palazzo dei papi. Quello sarebbe<br />

stato il palcoscenico.<br />

Dopo le prime prove degli spettacoli realizzati ad Avignone, dopo settimane di<br />

lavoro a Parigi, il 28 agosto del 1947 Vilar si rivolgeva agli attori «[…] Per quanto mi<br />

riguarda, ho fatto tutto fino ad ora affinché si potesse conciliare il valore dell’opera da<br />

realizzare e i bisogni e le forze di ciascuno; non ci sono mai riuscito prima. Ad oggi, la<br />

sola cosa che mi interessa è la qualità dei tre spettacoli. Cercherò di disporre<br />

ulteriormente della vostra pazienza e della forza dei più giovani».<br />

I tre spettacoli andarono in scena alla Corte d’onore, al Giardino di Urbano V e al<br />

Teatro Municipale. Per sette rappresentazioni dei tre spettacoli ci furono 4.818 ingressi,<br />

di cui 2.990 paganti e 1.828 gratuiti. Le entrate erano dell’ordine dei 780 mila franchi.<br />

Due spettatori su cinque, in effetti, non pagarono per assistere allo spettacolo. Ci fu<br />

anche una certa polemica per i prezzi dei biglietti, non propriamente popolari per<br />

l’epoca. Ma le cose erano destinate ad evolvere. Ad ogni buon conto le razioni della<br />

stampa furono pressoché unanimi. Un vero, insperato, impetuoso successo artistico.<br />

L’ultima sera di rappresentazioni Jean Vilar domandò ai suoi attori: «Si continua?».<br />

La risposta fu, chiaramente, affermativa: «Si continua!».<br />

Sedici anni dopo, in un suo articolo sulla rivista “Bref” del TNP, ricordando l’inizio<br />

del Festival, Vilar scrisse: «Nel 1947, creare in provincia tre opere drammatiche era<br />

giudicato, non già una follia da parte di chi giudicavano e praticavano il teatro, ma<br />

molto semplicemente una impresa amatoriale. Una cosa da fare gridare allo scandalo un<br />

350


artista professionista! Tre prove generali in trentasei ore! Si, tre generali! E che lavori?<br />

Una pièce di uno Shakespeare sconosciuto, di un Claudel inedito e quella di un ragazzo<br />

di 26 anni!». Nel 1947 una sorta di sipario invisibile calava su Jean Vilar uomo. Si<br />

poteva affermare, come scrisse Jean-Claude Bardot nella sua biografia, che in quel<br />

momento finì la giovinezza di un uomo di 35 anni. All’inizio dell’avventura avignonese<br />

Vilar era già padre di famiglia – la piccola Dominique aveva 4 anni – e capo di una<br />

compagnia. «Fino a quel momento, i suoi fanti erano poco numerosi e le battaglie<br />

disperse e aleatorie. Con Avignone, nacque una stabilità di luogo, di pubblico e di<br />

compagnia. Si poteva già pensare che, senza Avignone, il TNP non sarebbe esistito. Se<br />

l’avventura avignonese è arrivata al momento giusto, si può considerare che quella del<br />

TNP, per contro, arrivò troppo tardi».<br />

Scriveva ancora Bardot: «Au début des années soixante, la réussite du Festival paraît<br />

sans faille. Même la disparition de Gérard Philipe n’a pu l’ébranler. La fragilité des<br />

débuts est devenue certitude. Les contradictions d’Avignon ont fait place à l’unité. Il y a<br />

un lieu: la Cour; une troupe: celle du TNP; un maître: Vilar; un style de spectacles, un<br />

rituel de la fête… et un espace de libre discussion: le Verger. Avignon est maintenant la<br />

Mecque du théâtre populaire français. […] En 1947, l’entreprise de Vilar était presque<br />

solitaire. En 1960, la France ne compte pas moins d’une cinquantaine de festivals […]».<br />

Nell’aprile del 1950 Jean Vilar viene a sapere di essere candidato per la direzione del<br />

Théâtre de l’Odéon: all’epoca era la seconda sala della Comédie-Française, nacque<br />

come centro di produzione autonomo per scorporo; oggi è uno degli Etablissement<br />

publics di cui è composto il sistema teatral francese. La lettera di Jean Vilar a Jeanne<br />

Laurent, sottodirettrice degli spettacoli e della muisca presso il Segretariato di stato alle<br />

Belle Arti, era un esempio di lungimiranza artistica e gestionale. Jeanne Laurent ebbe<br />

un ruolo determinante in quegli anni per le decisioni che si trovò a prendere e per le<br />

strategie future dello spettacolo in Francia. E stimava molto Jean Vilar, nel quale, fin<br />

dai tempi della nascita del Festival, vedeva l’unico capace di dare veramente seguito ad<br />

una politica di decentralizzazione e rinnovamento tanto artistico quanto organizzativo.<br />

Nella lettera, dal tono informale e amichevole, Vilar richiamava il fatto che non<br />

conoscesse gli elementi essenziali del Contratto di servizio, successivo al progetto di<br />

separazione dalla Sala di Luxembourg e della Comédie-Française. Ad ogni modo egli<br />

auspicava che quella sala fosse gestita da un direttore o da un responsabile della troupe<br />

della nuova generazione. In particolare, viste le difficoltà che avevano avuto altri teatri<br />

nati in modo simile (l’Atelier e Le Vieux-Colombier), si chiedeva se fosse veramente il<br />

caso di affidare la sala ad un amministratore piuttosto che ad una direzione artistica.<br />

Forse quella sala andava gestita secondo le specifiche preoccupazioni e i mezzi di un<br />

artista della scena, lasciando intendere che, in coppia con la Comédie-Française, durante<br />

la gestione di Gémier, aveva ben operato in termini economici, fermo restando che ora<br />

era necessario dare vita a dun progetto artistico più consistente rispetto al precedente.<br />

Era fuori questione, quindi, riprendere il progetto di Gémier, mentre era più importante<br />

avere una idea precisa per diversi progetti artistici. E si domandava: «L’Odéon potrebbe<br />

diventare il teatro francese contemporaneo?», sottolineando che «a Parigi manca un<br />

luogo teatrale che sia di combattimento», ma che sia coerente con un progetto<br />

complessivo. Una direzione artistica dovrebbe avere la forza di chiedere agli autori<br />

teatrali di realizzare liberamente opere coraggiose senza poi scadere «in forme più<br />

correnti, più commerciali». Vilar era già consapevole del fatto che la letteratura<br />

dramamtica dell’epoca usava «forme multiple», stili che si stavano discostando dalla<br />

tradizione: divisioni in tre atti, in due parti, in scene, ambientazioni multiple o singoli<br />

351


luoghi, disgiunzione dal tempo teatrale, dialoghi scritti in modo ricercato, fin anche<br />

elaborato, in versetti o in prosa e versi. E i generi si mescolavano, con drammi storicopopolari<br />

e tragedie in prosa. Citava Costeau e Pirandello, Claudel e Clavel, Camus e de<br />

Pichette, Salacrou, Sartre e de Mauriac, per sottolineare l’esigenza di dare un seguito<br />

alla nuova drammaturgia, poiché «non si può ignorare questo fatto fondamentale,<br />

quando si dirige un teatro nella nostra epoca». E a Parigi era necessario avere un teatro<br />

con quella visione strategica. Nella lunga lettera non lesinava consigli, indicava percorsi<br />

precisi, compreso quello legato alla troupe: il direttore di un teatro simile doveva offrire<br />

all’autore teatrale una troupe malleabile, flessibile, sia con riferimento agli attori, sia per<br />

quanto riguardava il regista. «Il direttore di questa sala, assumendo (lui solo in ultima<br />

istanza) le responsabilità della conduzione del teatro, offrirebbe all’autore i mezzi<br />

indispensabili di una interpretazione di qualità, di una regia esperta, di una<br />

amministrazione onesta. Facendo in modo che la pièce scelta ottenga, dalla parte del<br />

pubblico, tutta l’attenzione del caso». E i consigli pratici erano di una straordinaria<br />

pragmaticità, coerenti con uno progetto artistico che riguardava solo la realizzazione<br />

dello spettacolo ma che mirava a garantirne anche la distribuzione e la diffusione: «gli<br />

spettacoli sarebbero assicurati attraverso una troupe fissa ogni anno. Contratti di tre anni<br />

solo per i debuttanti. «Quello doveva essere un teatro di “produzione”, anche se poteva<br />

fare delle riprese di opere non messe in scena da molto tempo, o spettacolo poco<br />

rappresentati dopo la loro produzione. [Ovviamente] il teatro classico francese era<br />

lasciato alla Comédie-Française, […] e i classici stranieri potevano essere scelti tra<br />

quelli meno rappresentati in Francia. Queste opere straniere, di spirito, direi, moderno,<br />

rappresenterebbero nel teatro francese contemporaneo, un apporto indispensabile alla<br />

cultura e alla formazione del pubblico. Tre o quattro pièces all’anno».<br />

Prima di terminare la lettera, fece un richiamo, accorato, al caso di Avignone: «ho<br />

imparato molto» scriveva Vilar, «dai nostri calorosi amici della Vaucluse. Senza un<br />

budget pubblicitario, malgrado la caduta di quattro sindaci (in tre anni e mezzo), con il<br />

concorso degli Avignonesi, dei Parigini, di molti stranieri, e con pochi altri, noi<br />

abbiamo fatto questo Festival. Sempre minacciato, ma sempre là. E, mio dio, mi sembra<br />

proprio che non abbia una cattiva reputazione nel mondo. E le ricordo che è il solo in<br />

Francia e al di fuori della Francia, a proporre delle produzioni. Per quanto riguarda gli<br />

spazi scenici (la Corte e il Giardino), i costumi (Pignon, Gischia, Prassinos, Samazeuilh:<br />

non sono abiti affittati per duecentoventi personaggi in tre anni), la musica, e<br />

evidentemente le opere 1 ».<br />

In chiusura, chiedeva di poter conoscere e studiare il Contratto di servizio del teatro e<br />

i progetti della Direzione Generale delle Belle Arti, per poi essere in grado di presentare<br />

un progetto valido riguardante la gestione finanziaria dell’Odéon.<br />

La storia dice che non se ne fece, ma ben altre sfide stavano per arrivare per Jean<br />

Vilar. Intanto, il novembre dello stesso anno Vilar conobbe Gérard Philipe. Il racconto<br />

che, anni dopo, lo stesso Vilar fece di quell’incontro fu toccante, estremamente umano.<br />

L’incontro avvenne nel camerino di Vilar al termine di uno spettacolo al Théâtre de<br />

l’Atelier, a Parigi. Gérard Philipe, già attore noto non solo ai professionisti ma anche al<br />

grande pubblico, veniva a proporsi come interprete. «Sapeva bene che non avevo un<br />

teatro», ricordava Vilar, «e mentre mi struccavo, guardavo con la coda dell’occhio quel<br />

ragazzo celebre, che conoscevo poco e male. Alto, impettito, dai gesti rari, dallo<br />

sguardo chiaro e franco, la sua presenza era fatta tanto di una calma forza quanto di<br />

1 Da Vilar par lui-même (N.d.T.).<br />

352


fragilità». «A dieci anni di distanza», raccontò Vilar «comprendo meglio quella<br />

decisione soprendente. Il teatro è sempre una partita a poker, ma un poker in cui il bluff<br />

uccide. Solo degli attori sensati, ragionevoli, potevano ogni volta pagarsi l’avventura.<br />

Ebbene, era un ragazzo riflessivo, e proponendosi ad un regista senza compagnia, ad un<br />

produttore senza teatro, ad un animatore senza denaro, non faceva altro che obbedire ad<br />

uno di questi imperativi profondi che solo gli attori conoscono bene». Gli ricordò che<br />

aveva Avignone, e che stava preparando il quinto Festival, e «mi ricordai bene di<br />

avergli parlato del teatro popolare. Non impiegai quell’espressione, certo. Il teatro è il<br />

luogo di molti. Il perdurare di un’arte, la sua riuscita immediata, le sue sconfitte, i suoi<br />

tentativi, dipendono da centinaia di persone che fatto e disfano delle imprese. Ma dalla<br />

nostra reputazione di attori messa continuamente in discussione dipende la sorte della<br />

nostra arte, di questo stesso mestiere». Ricordò come non fosse giusto fare del teatro a<br />

1500 franchi a biglietto; che non si poteva realizzare del teatro solo per pochi<br />

privilegiati; il teatro non poteva essere per una classe, ma doveva appartenere a tutti.<br />

Vilar si fidò immediatamente di quel ragazzo, un attore che era considerato già un<br />

astro nascente di quella generazione, richiesto da molti autori e registi: se era venuto da<br />

lui, poteva fidarsi. E gli continuò a parlare di quello che sarebbe stato il “teatro<br />

popolare”, di Avignone e della sua ricerca di un teatro a Parigi. «All’epoca non sapevo<br />

che fosse così sensibile agli aspetti sociali del teatro». Due giorni dopo, incontrandosi<br />

nuovamente, Vilar gli portò una traduzione del Prinz von Homburg. Philipe rispose<br />

subito di si. Vilar aggiunse: «Et le Cid?». Abbassando la testa Philipe fece un sorriso 1 .<br />

Non c’era bisogno di aggiungere altro. In quelle giornate di novembre, a Parigi, nacque<br />

un’imprevista amicizia ed un idillio artistico che probabilmente ebbero pochi eguali<br />

nella storia recente del teatro. Ebbi modo di vedere una registrazione audio e video di<br />

quello spettacolo: l’anno successivo, ad Avignone, il Principe di Amburgo con<br />

protagonista Gérard Philipe, per la regia di Jean Vilar, alla Corte d’onore, passò alla<br />

storia come uno degli spettacoli più avvincenti e seducenti di tutta la storia del Festival.<br />

«Un rêve que nous faisons tous!».<br />

Nel 1951 l’anno della svolta. Il Théâtre National du Palais, non già di Chaillot, ma<br />

del Trocadéro: splendido luogo proustiano, in cui si consumò la gelosia del narratore<br />

per Albertine, dalla collina di Chaillot la place du Trocadéro dominava la riva destra<br />

della Senna e prendeva il nome da una fortezza spagnola conquistata dai francesi nel<br />

1823. Il palazzo del Trocadéro costruito nel 1878 per l’Esposizione Universale fu<br />

demolito nel 1936 per lasciare il posto, nel 1937, l’attuale Palais de Chaillot.<br />

Il teatro fu realizzato nel 1920, conoscendo alterne fortune. Vilar raccontava che fu<br />

avvertito della nuova situazione al TNP nell’agosto di quello stesso anno, vale a dire<br />

pochi giorni prima la morte di Louis Jouvet, uno degli attori più importanti del teatro e<br />

del cinema francese dell’epoca. «Il mio primo atto da direttore del Théâtre National<br />

Populaire non fu dunque una decisione, una distribuzione di ruoli, una prova. Fu seguire<br />

la bara di Louis Jouvet». Un giornale dell’epoca, già alla fine di luglio titolava: «Il suo<br />

trionfo al festival di Avignone da diritto a Jean Vilar di raggiungere Parigi».<br />

Da una lettera di Jeanne Laurent: «“Lei ha cambiato il corso della mia vita”, mi disse<br />

un giorno Jean Vilar. […] A rifletterci bene, mi sembra evidente che, lungi dall’essere<br />

una deviazione del corso della sua vita, la direzione del TNP, le circostanze politiche e<br />

amministrative sopraggiunte allo stesso momento, quello che mi permisero di offrirgli<br />

nel 1951, si inserivano nel prolungamento della strada intrapresa a partire da quel<br />

1 Ibidem: 89 (N.d.T.).<br />

353


pomeriggio del 1933, quando si diresse al teatro dell’Atelier, diretto da Charles Dullin.<br />

Questi diciassette anni di sforzi ostinati hanno fatto del giovane Sétois, una personalità<br />

capace di aprire una nuova era nella storia francese del teatro. Nel 1951, egli non aveva<br />

solo la competenze per svolgere il suo mestiere, ma anche l’autorità tale che gli<br />

permisero di attorniarsi di artisti affermati per realizzare degli spettacoli sempre più<br />

ammirevoli senza beneficiare di quelle generose sovvenzioni che vanno riconosciute<br />

oggi ai talenti […]».<br />

In una lettera che Vilar indirizzò a Gérard Philipe il lunedì di Pasqua del 1953 così<br />

scriveva 1 : «Mio caro Gérard, non sarai mai così felice come lo sono stato io ieri,<br />

domenica di Pasqua. Il teatro deserto, la mattina, entro nel mio ufficio. Un magnifico<br />

uovo di Pasqua (alto 50 centimetri) se ne stava dritto sul mio tavolo, con i segni<br />

distintivi (se oso dirlo) del TNP. Volendolo condividere con tutti, decido di aprirlo il<br />

giorno successivo. A mezzanotte, Rozan venuto ad assitere alle prove mi disse: “Ma<br />

non lo avete ancora aperto?” – “Non”. “Ebbene, credo che ciò che contiene vi farà<br />

ancora più piacere”. Quindi, apro e, piegati in un manifesto del TNP trovo i contratti<br />

firmati per l’anno prossimo di: Deschamps, Wilson, Sorano, Derras, Besson, Saveron,<br />

Rouvet, Le Marquet, Moulinot, Monique, Mollien, Pasque, Riquier, Ivernel; una lettera<br />

di impegno commovente di Jarre (che usciva oggi dalla clinica […]). Continuo: contratti<br />

firmati di Arnaud, Hatet, Minazzoli, Schlesser, Coussonneau, de Kerday, Magnat,<br />

Blancheteau, Marionnet. A questi contratti erano allegate delle lettere commoventi di<br />

attaccamento semplice e diretto di Augereau, Fouquet, Manchion, Rozan, Venaut,<br />

Fresnac, Patry (“al TNP da un anno, spero di restare a lungo ancora sotto la vostra<br />

direzione e aiutarvi con i miei deboli mezzi nell’opera che avete intrapreso. La prossima<br />

stagione mi vedrà fedele al posto in qualunque posto in cui vorrette piazzarmi. Vostro,<br />

devoto, Patry”), Demangeat (“Non c’è un contratto C. Demangeat sul lavoro. Nessun<br />

contratto scritto. Ce n’è un altro: quello dell’amicizia e dell’ammirazione senza riserva<br />

per il lavoro già fatto. La Direzione del TNP può stare sicura che sarò con lei per la<br />

stagione a venire e spero ancora molto a lungo. Con sincerità, vostro Demangeat”).<br />

Ho ancora molte cose da fare nella vita e percorrere l’avventura della scena, come<br />

sempre, certo. Ma questi fatti, queste testimonianze sono il piacere toccante, forte, della<br />

vita. A 20 anni ero povero e il teatro mi ripudiava. A 30 anni, ero malato e il teatro mi<br />

derideva e continuava a non accettarmi. A 31 anni, ho incontrato Anurée e poi… i<br />

bambini. A 40 anni, ho trovato un gruppo di uomini e di operai. La mia vita è bella.<br />

Ti voglio bene, Gérard. E so che anche tu me ne vuoi. Il nostro compito continua e<br />

continuerà anche dopo di noi. / Tuo Vilar».<br />

Da una nota di servizio scritta di proprio pugno da Jean Vilar: «Avignone 1953:<br />

19591 spettatori, in media 1630 per sera. A leggere le cifre, ci si accorge che l’impresa<br />

di Avignone creò molto aspettative. Da notare che la percentuale di spettatori al<br />

giardino (1400 posti) è molto più elevata che non alla Corte. Non ci furono delle<br />

rappresentazoni al giardino, per contro, l’anno precedente».<br />

Questa nota, invece, si riferiva al 6 febbraio del 1954 2 :<br />

«Incontro con Edouard Daladier, nuovo Sindaco di Avignone. Soggetto: il Festival, il<br />

comitato, il mio ritorno (…). Conclusioni: proporrò a E. Daladier, per iscritto, un piano<br />

di organizzazione del Festival.<br />

1 Ibidem: 135 (N.d.T.).<br />

2 Dal Memento: p. 55-59, ripreso in Vilar par lui-même: 156 (N.d.T.).<br />

354


Sempre Sabato. Il consigliere della Corte dei conti, de Shillaz, ha capito molto<br />

chiaramente i nostri problemi, la mia situazione, la mia vita dal momento della mia<br />

nomina in qualche modo va a picco, da due anni e mezzo a questa parte.<br />

Lunedì 8 febbraio 1954. Questa mattina alle 12 e 45, incontro con Edgar Faure,<br />

Ministro delle Finanze. Alle 19, André Marie: “Sono un fedele spettatore del TNP. Non<br />

sono un vostro nemico e…” (vedere la stampa, certi giornali riproducono certe frasi del<br />

ministro).<br />

Giovedì 11 febbraio. Il disgelo. Funziona sempre così […].<br />

12 febbraio. A mezzogiorno, a Senato, appuntamento con Debû-Bridel. Non<br />

dimentico i suoi attacchi contro di noi, proprio dalla tribuna del Senato, nel dicembre<br />

del 1951…<br />

Ad ogni modo, in quel 12 febbraio, Debû-Bridel parla… e aggiunge “A vosto avviso,<br />

chi ha provocato questa querelle contro di voi?”. Ho evitato di rispondergli.<br />

Lunedì 15 febbraio.<br />

Dunque, alle 11 e 30 incontro con il Senatore Lamousse. Mi annuncia e conferma ciò<br />

che Jaujard [n.d.t.: Direzione Belle Arti] e poi Edgar Faure mi hanno detto: 1)<br />

ricostituzione della cifra della sovvenzione, con l’annullamento dell’abbattimento di 12<br />

milioni previsto; 2) offerta di rinnovo del mio contratto […]».<br />

I primi anni al TNP non furono facili, critiche insensate e maligne misero a dura<br />

prova non tanto la pazienza e la salute di Jean Vilar, quanto l’esistenza stessa<br />

dell’impresa che gli era stata affidata. Ma di questo vorrei rendere conto al lettore<br />

successivamente. Il mio compito, qui e ora, era di cercare di delineare un quadro<br />

semplice e completo della personalità di un uomo che, forse suo malgrado, aveva fatto<br />

una parte rilevante della storia recente del teatro. Due furono le svolte decisive degli<br />

anni a seguire: l’abbandono del TNP, nel 1963; il Festival di Avignone del 1968.<br />

Il 21 febbraio, Jean Vilar annunciò la sua intenzione di non chiedere il rinnovo del<br />

suo contratto di direttore del TNP, che avrebbe avuto termine il 31 agosto del 1963.<br />

Jeanne Laurent, con queste parole, esprimeva la sua tristezza quando, il giorno stesso,<br />

seppe della notizia: «Sono atterrita! Apprendo in questo istante dalla radio l’annuncio<br />

della vostra partenza. Non riesco a crederci! Mi dispiace di essere obbligata a lasciare<br />

subito Parigi per non rientrare che nella notte tra domenica e lunedì. Vorrei vedervi<br />

lunedì sera dopo il recital di Evtouchenko… con la speranza che questo incubo abbia<br />

preso fine. Quale che sia il futuro, vorrei ridirvi che io vi sono personalmente<br />

riconoscente di aver accettato di sacrificare dodici anni della vostra vita per rivelare la<br />

“festa del teatro” a coloro che ne erano frustrati. A lunedì. Con tristezza. Jeanne<br />

Laurent». Il ministro André Malraux si affrettò a diffondere, a sua volta, un comunicato<br />

per affermare che le ragioni di Jean Vilar erano strettamente personali e che non<br />

bisognava vederci alcuni mistero: «Il ministro dello Stato, dispiaciuto per questa<br />

risoluzione, ha rinosciuto il valore degli argomenti di ordine personale, con i quali il<br />

signor Jean Vilar ha giustificato la sua decisione […]».<br />

Inutile dire che le reazioni di ordine pubblico furono moltissime e molto accese,<br />

tanto in Francia quanto all’estero e anche in Italia, dove Vilar era appena stato (nel<br />

dicembre del 1962) per un recital alla Scala di Milano e dove aveva molti amici (in<br />

modo particolare al Piccolo Teatro di Milano) e molti progetti da realizzare (specie nel<br />

campo dell’opera lirica).<br />

Fu allora che, dedicandosi con ancora maggior forza al Festival, Vilar cominciò ad<br />

interrogarsi anche sulla natura di quella manifestazione (1964): «Le Festival d’Avignon<br />

a dix-huit ans d’existence; il n’est plus un jeunot. Tel comédien, ou tel responsable qui,<br />

355


en 1947, avait moins de vingt-cinq ans en a aujourd’hui plus de quarante. Cette<br />

manifestation annuelle est désormais ferme et dourable. Bien, parfait, victoire, etc.<br />

Cependant où en sommes-nous? Que représentent ces festivals d’été aux yeux du<br />

public? Tourisme? Passe-temps d’un soir? Nuits d’été dans des enceintes historiques?<br />

Beaux costumes dans des éclairages ad hoc? Esthétisme des petits loisirs? Shakespeare<br />

en-veux-tu-en-voilà? Perception des taxes municipales? Accroissement des recettes des<br />

commerçants? Tout le monde est heureux, tout le monde se réjouit, c’est parfait.<br />

Cependant est-ce que les festivals n’ont d’autre ambition que de faire désormais partie<br />

de la panoplie du bonhomme moderne: frigidaire, télévision, 2 CV? Certes, un artiste<br />

doit, avant tout chose, comprendre la réalité et les besoins de l’homme de son temps.<br />

Cependant le théâtre n’est valable, comme la poésie et la peinture, que dans la mesure<br />

où précisement, il ne cède pas aux coutumes, aux goûts, aux besoins souvent grégaires<br />

de la masse. Il ne joue bien son rôle, il n’est pas utile aux hommes que s’il secoue ses<br />

manies collectives, lutte contre ses scléroses, lui dit comme le Père Ubu: merdre” 1 ».<br />

Il 1968, come dicevo, fu un altro anno fondamentale per Jean Vilar. Nel gennaio di<br />

quell’anno Jean Vilar stava continuando lo studio richiestogli dal ministero della<br />

Cultura per una riforma del sistema della lirica e della danza in Francia; e con Paul Puax<br />

incontrò Julian Beck, in una atmosfera estremamente amichevole: l’accordo tra i tre<br />

prevedeva che il famoso Living Theatre fosse presente al Festival di Avignone del 1968<br />

con tre spettacoli, al Cloître des Célestins. Tra quegli spettacoli, dal 24 luglio al 13<br />

agosto, era in programma anche una produzione in prima assoluta al Festival di<br />

Avignone, Paradise Now: sarebbe diventato uno degli spettacoli simbolo del Living.<br />

A febbraio si tenne la tradizionale conferenza stampa di Parigi, a presentazione del<br />

XXII Festival di Avignone. In seguito, ad aprile, Vilar partì per Mosca per studiare il<br />

funzionamento del Teatro Bolchoï.<br />

Il “maggio del 1968”, le contestazioni di Parigi: una rivolta nel nome di quel<br />

cambiamento che, per certi versi, Vilar appoggiava, voleva.<br />

Anche il Festival era a rischio, viste le contestazioni e per tutto il mese il gruppo di<br />

Jean Vilar si riunì di frequente a casa di Sonia e Michel Debeauvais, per fare il punto<br />

della situazione. Intanto, Julian Beck, dalla Sicilia, faceva sapere che aveva intenzione<br />

di recarsi ad Avignone con largo anticipo, a partire dal 13 maggio. In principio, non era<br />

atteso che per il 15 luglio. Il 10 maggio Puaux gli telefona a Bourges, dove Beck si<br />

trovava, per fargli sapere che era praticamente impossibile in pochi giorni organizzare<br />

l’alloggio gratuito per quatantuno persone. Beck rispose dicendo che la compagnia non<br />

aveva più denaro.<br />

1 Tratto da: “Où vont les festivals?”, da Le Théâtre, service public, è uno dei passaggi di Jean Vilar<br />

più noti e citati. Quando Vilar lascia il TNP (siamo nel 1963), per ri prendere stabilmente la direzione del<br />

Festival, va ad inventarsi un altro Festival di Avignone. Era una esigenza normale per lui quella di<br />

rimettere in discussione continuamente la sua stessa creatura: quello che stava cambiando era tuto il<br />

panorama teatrale francese e non solo. La decentralizzazione in Francia era parallela ai processi di<br />

“democratizzazione” a cui si assiteva anche in Italia (anche se con un po’ di ritardo). Nel deserto culturale<br />

della periferia parigina nascevano nuovi teatri. A Villeurbanne, il Théâtre de la Cité era diretto da Roger<br />

Planchon, diventando una organizzazione “pilota”, come il Piccolo Teatro lo fu per l’Italia. In effetti, il<br />

teatro di Planchon parecchi anni più avanti si vide ufficializzare il ruolo di successore dell’esperienza del<br />

TNP ereditandone la sigla e il marchio. In Italia, per l’appunto, si stabilizzava il fenomeno dei “teatri<br />

stabili”; in Germania si assisteva al rinnovamento delle strutture preesistenti; nell’Europa dell’est si<br />

gettavano le basi per quella che divenne la futura apertura “all’esterno delle barriere politiche” attraverso<br />

la cultura (N.d.T.).<br />

356


Il successivo 13 maggio quindici attori della compagnia del Living arrivarono ad<br />

Avignone e si installarono in quattro hotel che, messi a disposizione dal comune,<br />

verranno pagati solo in giugno. A partire dal giorno successivo il Living veniva<br />

presentato agli avignonesi con una serie di conferenze e di incontri pubblici. Era<br />

necessario mettere al corrente la città della loro presenza.<br />

Il 15 maggio arrivò il resto della compagnia e furono alloggiati nell’antico liceo<br />

Mistral: tutto avvenne in modo ordinato e la città e la popolazione parteciparono<br />

attraverso vari gesti di solidarietà e di volontariato. Il giorno successivo arrivarono da<br />

Parigi anche Julian Beck e Judith Malina, entusiasti dell’accoglienza e dell’ospitalità di<br />

Avignone. La città decise di versare, il 19 giugno, un primo acconto di 45mila franchi<br />

alla compagnia del Living. Dal canto suo, Julian Beck, in accordo con Jean Vilar, decise<br />

che il mondo migliore per partecipare agli eventi e per esprimere gratitudine fosse<br />

quello di recitare.<br />

Intanto, le costestazioni di Parigi continuavano e il 30 maggio, alle 16 e 30, Vilar<br />

ascoltò con tristezza e profondo rammarico le parole del discorso del Generale de<br />

Gaulle: in particolare, il passaggio dedicato ai “comitati di azione civica” scioccò<br />

profondamente Jean Vilar. La sua reazione fu immediata: un quarto d’ora dopo telefonò<br />

a Francio Raison, all’epoca direttore del settore teatro e responsabile delle Maisons de<br />

la culture al ministero degli Affari Culturali: «A partire da oggi, consideratemi come<br />

dimissionario per quanto concerne la mia missione di ricerca sull’Opera». Il giorno<br />

successivo scrisse al Ministro questa lettera:<br />

«Monsieur le Ministre,<br />

A votre demande j’ai accepté, voici plusieurs mois, d’étudier une réorganisation de la RTLN<br />

vivant à en faire l’instrument d’une nouvelle politique d’art lyrique et choréographique. Vous<br />

aviez bien voulu d’autre part m’indiquer que dans l’hypothèse où les conclusion de mon étude<br />

retiendraient l’attention du Gouvernement, il était dans vos intentions de me confier la direction du<br />

nouvel organismo qui succéderait à l’actuel établissement public.<br />

L’allocution radiodiffusée prononcée hier 30 may par Monsieur le Président de la République<br />

m’impose, disons en coscience, de reconsidérer l’acceptation de principe que je vous avais donnée.<br />

En dehors de décisions d’ordre constitutionnel devant lesquelles les citoyens ont le devoir de<br />

s’incliner, les propos du Chef de l’Etat comportent sur les origines de la crise actuelle et le<br />

mesures d’ordre envisagées des appréciations et des indications qui m’ont profondément heurté.<br />

Quel que soit le déroulement dans les jours à venir, vous me permettrez d’ajouter que je les crois<br />

de nature à créer entre nous tous des divisions et des antagonismes lourds de conséquence.<br />

Dans ces conditions, je tiens à vous faire connaître – j’en avais informé dès hier 17 heure le<br />

Directeur des théâtres e des maisons de la culture – que je ne porrai accepter aucune fonction<br />

officielle du Gouvernement auquel vous appartenez.<br />

Il va de soi cependant que je respecterai les obligations que j’ai contractées envers<br />

“l’Association technique pour l’étude des problèmes lyriques et chorégraphique” et que mes<br />

propositions en vue d’une réforme de la RTLN vous seront communiquées dans les délais prévus<br />

c’est-à-dire avant le 1 er juillet prochain.<br />

Je vous prie d’agréer, Monsieur le Ministre, avec mes regrets, l’assurance de ma haute<br />

considération.<br />

Jean Vilar».<br />

Intanto, durante la seconda metà del mese di maggio, ad Avignone, la presenza del<br />

Living Theatre, una compagnia di oltre quaranta persone composta certamente non da<br />

conformisti, dai comportamenti originali e stravaganti, continuava a non destare<br />

particolari problemi di ordine pubblico. Il clima restava comprensivo e tollerante.<br />

Dal 2 al 5 giugno, ad Avignone, l’équipe del Festival decise di riunire le compagnie<br />

presenti. Di fronte all’impossibilità di di ottenere la garanzia che le produzioni previste<br />

357


potranno essere rappresentate regolarmente a causa degli scioperi che si prolungavano<br />

da settimane, Jean Vilar decise di realizzare comunque il Festival limitandone il<br />

programma ai soli spettacoli stranieri non perturbati dagli avvenimenti: il Ballet du XX<br />

siecle di Béjart, nella Corte d’onore, il Living Theatre al Cloître des Célestins, il<br />

programma musicale, sempre al Cloître des Célestins e i tre film. Delle assemblee<br />

sostituirono i “Rencontres d’Avignon” che si svolgevano da quattro anni, in modo da<br />

permettere di avere uno spazio e dei momenti per la riflessione, aperti a tutti.<br />

Alla fine di giugno Jean Vilar inviò al Ministro il suo studio sull’Opera.<br />

Allegato al programma del Festival del 1971 vi era questo comunicato:<br />

«Jean Vilar ci ha lasciati questo 28 maggio, al levare del giorno, nel momento in cui<br />

questo programma vi viene inviato. Il XXV Festival avrà luogo come egli avrebbe<br />

voluto».<br />

Nel 1971, a soli 59 anni, Jean Vilar morì. Veniva a mancare l’uomo che aveva<br />

rappresentato la “coscienza” stessa del teatro francese lungo i decenni difficili del<br />

secondo dopoguerra.<br />

358


XXVII<br />

(Organizzare la messa in scena del Festival. La saga del Festival di Avignone: una macchina teatrale<br />

con (quasi) sessanta anni di storia. … poi sono venuti tutti gli altri, ma “[…] on ne succède pas à Jean<br />

Vilar!”)<br />

Che tratta dei successori di Jean Vilar alla guida del Festival, del peso della sua eredità,<br />

delle difficoltà di fare i conti con la Storia <br />

«Puisse chaque été qui passera désormais sur ces pierres<br />

rappeler à tous l’œuvre déjà accomplie et permettere ainsi<br />

d’autres aventures et d’autres espoirs»<br />

(Jean Vilar, all’apertura della 3^ edizione del Festival di<br />

Avignone)<br />

«Avignon, un rêve que nous faisons tous». Mai titolo di una esposizione fu più<br />

conveniente. Jacques Théphany, responsabile di quel progetto non mancò di esprimersi<br />

in questi termini: «Jean Vilar fu un papa che ebbe il suo vescovo, Paul Puaux. Se i loro<br />

successori, sorridendo, non hanno mai preteso di raggiungere il papato, i loro differenti<br />

soggiorni avignonesi sono assimilabili a dei pontificati. Non sarebbe curioso di vedere e<br />

ascoltare i nostri quattro papi, l’uno dopo l’altro, sognare il loro sogno di lanciatori di<br />

ponti, verso il pubblico, verso gli artisti, verso gli autori, verso la stampa, verso i<br />

politici, verso la Chartreuse 1 ? Ma è veramente nel destino dei ponti di Avignone quello<br />

di essere distrutti?»<br />

Dopo le prime due sale, dedicata a Jean Vilar, si entrava nella stanza dedicata a Paul<br />

Puaux, il successore designato:<br />

Nel luglio 1971 Puaux prendeva le redini del Festival Jean Vilar, con la precisa<br />

volontà di continuare quanto stava facendo il fondatore. Le riforme avviate negli anni<br />

precedenti vennero portate avanti e per un mese, durante l’estate, il Festival divenne una<br />

sorta di Maison de la Cultura a cielo aperto: mostre, concerti, aumento del numero di<br />

spettatori e di rappresentazioni, allargamento a nuovi spazi all’interno della città,<br />

maggiore amalgama con il resto della città e con la splendida Certosa di Villeneuve-les-<br />

Avignon. La programmazione si allargava agli artisti stranieri, l’Off si affermava come<br />

uno spazio di “contro-cultura”. Nel 1974 il CIRCA (Centro internazionale della ricerca,<br />

della creazione e dell’animazione), fondato l’anno precedente, organizzò il primo degli<br />

“Incontri della Certosa”. Ancora oggi costituisce un appuntamento fondamentale,<br />

strettamente collegato con la programmazione ufficiale del Festival.<br />

L’organizzazione del Festival di appoggiava ad un Consiglio culturale ospitato<br />

nell’Hôtel de Crochans, recente acquisizione del municipio, in attesa dell’apertura della<br />

Maison Jean Vilar. Il giorno successivo la sua inaugurazione, nel luglio del 1979, Paul<br />

1 Cittadina dalla storia particolare e ricca di monumenti, Villeneuve-les-Avignon fa parte del<br />

comprensorio urbano che gravita attorno ad Avignone (la cd grand Avignon). E’ un paese di circa 15 mila<br />

abitanti sorto, sulla sponda opposta del Rodano rispetto ad Avignone, in aperto contrasto con la città<br />

principale. Tra gli edifici storici più belli e impressionanti di Villeneuve c’è appunto il complesso della<br />

Chartreuse: la più grande “certosa” di Francia, di fatto è un borgo fortificato e arroccato su una altura<br />

sulla riva destra del Rodano, perfettamente visibile anche da Avignone in quanto nei suoi pressi finivano,<br />

verosimilmente, le arcate del famoso ponte di Avignone (il primo grande ponte sul Rodano nel sud della<br />

Francia), di cui oggi resta solo la parte avignonese attaccata alla riva sinistra del grande fiume. Oggi è uno<br />

straordinario spazio dedicato alla creazione artistica, centro di ospitalità per autori e traduttori, residenza<br />

per molti artisti, anche in preparazione di spettacoli inseriti poi nel programma del Festival, nonché luogo<br />

di rappresentazione di tali spettacoli (N.d.T.).<br />

359


Puaux presentò le sue dimissioni: la sua missione era compiuta, era giunto il momento<br />

di “laisser la place à de nouvelles imaginations”.<br />

Paul Puaux era fondamentalmente un educatore eccezionale, rappresentante<br />

regionale dei CEMEA (Centri di esercitazione ai metodi dell’educazione attiva 1 ).<br />

Incontrò Jean Vilar nel 1947, nella Corte d’onore.<br />

«Tu ti occupi di giovani?» disse Vilar, «Ebbene, portami dei giovani!». Aveva capito<br />

che Vilar aveva in mente una idea precisa di formazione di un nuovo pubblico,<br />

differente dal pubblico parigino. Dai suoi racconti traspariva il fatto che Puaux fosse<br />

travolto, sedotto dalla personalità e dalle capacità di Vilar. Raccontò spesso l’episodio<br />

legato alle prove del Richard II, di come rimase stupefatto ed emozionato<br />

dall’ambientazione e di come fosse differente il teatro “en plein air” rispetto al velluto<br />

rosso dei teatri che aveva frequentato fino a quel momento: Vilar, diceva Puaux,<br />

«sembrava veramente cercare il contatto con quel materiale così sorprendente che è la<br />

pietra, la pietra viva, che rendeva la recitazione ancora più sobria, più vera».<br />

Raccontava anche di come lo stesso Pablo Picasso volesse per sé e le sue tele il<br />

Palazzo dei papi; in particolare di un episodio, quando nel 1914, seduti sui gradoni del<br />

palazzo, Picasso disse a Georges Braque: «Il giorno in cui saremo capaci di appendere i<br />

nostri quadri su queste pietre, noi saremo diventati dei pittori». E Vilar come Picasso<br />

era estremamente attaccato a quelle pietre e al loro valore simbolico. Puaux riconosceva<br />

in Vilar un gusto per la sfida fuori dal comune: provava piacere nello stimolare la sua<br />

immaginazione. Inoltre sottolineava sempre che, al di là di quel che si potesse<br />

immaginare, Vilar era molto esigente con il suo pubblico, gli chiedeva una soglia di<br />

attenzione molto elevata, gli chiedeva tenuta e rispetto. Ma non era fine a se stesso: era<br />

rispetto dovuto a dei lavoratori in generale. Da qui, il suo rifiuto dei ritardatari. E da qui,<br />

la costruzione di una sorta di cerimoniale attorno alla rappresentazione: ovviamente non<br />

un cerimoniale “borghese”, niente tenuta da sera, ma neanche trasandati, in quanto il<br />

pubblico si riuniva per una attività che non era quotidiana. Vilar non voleva ritardatari<br />

ma faceva in modo di prevenire il problema: ecco dunque i famosi squilli di tromba che,<br />

ancora oggi ad Avignone, di quarto d’ora in quarto d’ora, annunciano l’entrata del<br />

pubblico “in sala” e l’approssimarsi dell’inizio dello spettacolo e la chiusura delle porte.<br />

Ma non era fine a se stesso: oltre a dare una sensazione di festa medievale, era un<br />

segnale forte, quasi a dire “Attentino, il va se passer quelque chose!”.<br />

I ricordi di Paul Puaux erano naturalmente legati a quelli di Vilar. Dunque<br />

rammentava di come Vilar riuscisse a coagulare attorno a se gli sforzi dell’intera città, e<br />

non poteva essere altrimenti visti i pochi mezzi che la sua troupe aveva a dispostone.<br />

M.me Struby, della locanda “de France”, aspettò tre anni per essere pagata dei pasti<br />

consumati della troupe il primo anno del festival, ma non ne fece mai un problema!<br />

Place de l’Horloge non era ancora invasa come oggi da turisti, terrazze di bar e<br />

ristoranti, automobili e durante quella “età d’oro” del Festival non era anomalo bere un<br />

pastis attorno a Gérard Philipe e ad altri attori della troupe di Vilar.<br />

Vilar aveva letteralmente creato la Corte d’onore: aveva preso un luogo vergine, fino<br />

a poco tempo prima praticamente abbandonato, e ne ha fatto il centro del sua estetica,<br />

del suo teatro. Inoltre, il pubblico aveva imparato a conoscere la compagnia teatrale, che<br />

tornava anno dopo anno; nei primi anni venivano messi in scena tre spettacoli e la gente<br />

1 Si tratta di una mia libera traduzione di Centres d’entraînement aux méthodes d’éducation active<br />

(CEMEA), un centro internazionale di formazione per animatori e educatori ancora operativo e che ebbe<br />

un ruolo pedagogico ed educativo fondamentale negli anni del secondo dopoguerra (N.d.T.).<br />

360


non parlava d’altro il giorno successivo. Puaux sottolineava sempre che «l’assenza di<br />

altri avvenimenti in città sacralizzava il Palazzo dei papi».<br />

Inoltre raccontava spesso degli inizi, di quando la responsabilità della gestione era<br />

affidata ad un comitato di notabili: forse non si poteva immaginare che, creato dal<br />

lungimirante “docteur” Pons, sindaco di Avignone nel dopoguerra, proprio per cercare<br />

di garantire una continuità istituzionale anche in caso di cambiamenti politici, sarebbe<br />

diventato una specie di apparato ipertrofico che chiedeva di intervenire finanche nella<br />

scelta degli spettacoli. «Inutile dire», diceva Puaux, «che tutto ciò non collimava con il<br />

temperamento di Vilar». In quel periodo Vilar, preso dai problemi che c’erano anche a<br />

Parigi con il TNP, aveva persino rassegnato le dimissioni. Puaux fece di tutto per fargli<br />

cambiare idea, addirittura con una raccolta di firme di dimensioni ciclopiche. Inoltre,<br />

lavorò in prima persona presso l’allora sindaco Édouard Daladier: nonostante le<br />

differenti posizioni politiche, i due si stimavano molto e il sindaco capì presto che<br />

l’avventura di Jean Vilar dava ben oltre le prospettive e i punti di vista delle pur brave<br />

persone del comitato. Non si trattava di un capriccio: era un vero momento di crisi e lui<br />

cercò di gestirlo con serietà. Vilar, tra l’altro, aveva posto serie condizioni per tornare:<br />

non voleva più discutere per il tramite del comitato, ma avrebbe resto conto<br />

direttamente al sindaco. Era il prezzo da pagare e, di fatto, l’ottenne. Ma si fece pregare<br />

parecchio, Vilar. Tanto che Puaux raccontava con quanta amichevole perfidia cercò di<br />

convincere anche Gérard Philipe ad intercedere presso Vilar: «Gérard Philipe» diceva<br />

Puaux, «quando voleva era capace di operazioni di seduzioni straordinarie!».<br />

Ovviamente Vilar finì col cedere.<br />

Il compito di Puaux, al fianco di Vilar, ma anche durante le edizioni che lo videro<br />

impegnato direttamente nella gestione, era quello di governare le relazioni con il<br />

pubblico del Festival, specie con quello professionale. Oggi si parlerebbe di relazioni<br />

pubbliche, ma all’epoca i metodi per raggiungere la stampa erano ben più complicati.<br />

Menzionava spesso episodi come questo, in cui, per informare, emozionare, stupire la<br />

critica, Maurice Clavel, segretario generale del TNP con Vilar, prendeva la sua moto per<br />

andare a sollecitare le redazioni marsigliesi e la presenza di qualche giornalista al di<br />

fuori dei frequentatori abituali. Tra l’altro, i giornali locali avevano permesso la<br />

formazione di un certo numero di giornalisti che, negli anni, divennero poi molto<br />

famosi. I più affezionati dei giornalisti non si accontentavano di arrivare alle sette di<br />

sera e di ripartire in treno la notte stessa: molti di loro soggiornavano ad Avignone,<br />

vivevano la città e il Festival, li capivano. Facevano più che della semplice<br />

informazione, ma ebbero, come diceva Puaux, «un vero e proprio ruolo di animatori sul<br />

Festival e per il Festival». In un articolo del 1948, diventato famoso tra mi amici del<br />

Festival, si leggeva: «Giovani, venite ad Avignone con tutti i mezzi, a piedi, in autostop,<br />

a cavallo! E’ necessario che vediate cosa succede in questo momento ad Avignone!».<br />

Effettivamente molti giovani frequentarono il Festival; già all’epoca l’île de la<br />

Bartelasse era stata approntata come enorme campeggio. Poco più tardi, naturalmente,<br />

Vilar volle che quei giovani pagassero nulla per poter alloggiare sotto una tenda! Il<br />

CEMEA, ovviamente, era l’organizzazione ideale per poter gestire un tale, gravoso,<br />

compito. Risaliva a quegli anni, tra l’altro, l’organizzazione del primo degli “Incontri<br />

internazionali della gioventù”.<br />

Arrivato al suo ventesimo anniversario, il Festival era cambiato molto, ma sempre<br />

lungo le linee guida di Vilar. Quell’anno fu però particolare per Paul Puaux. Alla fine<br />

della conferenza stampa di chiusura, nel ringraziare tutti, Wilson e il TNP, la<br />

municipalità, Vilar aggiunse: «Quanto a coloro che, attorno a Paul Puaux, animano<br />

361


attualmente il Festival di Avignone, li ringrazierò tra altri venti anni». E Puaux: «Fu<br />

allora che dietro di me sentii la voce di Sonia Debeauvais mormorare: “Hai capito,<br />

Paul? Dopo Vilar, sei tu il capo!”». Poco più tardi Michel Debeauvais interrogando<br />

Vilar chiese «Non pensa che bisognerebbe dare un titolo a Paul Puaux per poter<br />

esercitare tutte le sue attività?». In quella occasione venne coniato quel termine così<br />

curioso che Puaux si portò dietro per tutta la vita: “administrateur permanent”,<br />

amministratore permanente. Anche dopo la morte di Vilar mantenne quella espressione<br />

rifiutando ogni altri appellativo, compreso e soprattutto quello di “direttore del<br />

Festival”.<br />

«Ero consapevole del fatto che solo un creatore poteva “succedere”», diceva Puaux,<br />

«ed io mi consideravo come un lavoratore temporaneo. Ci voleva del tempo per<br />

realizzare la Maison Jean Vilar», il luogo in cui sarebbero state riunite tutte le<br />

testimonianze dell’avventura del TNP, del Festival e di tutta una vita. «Quello»,<br />

pensava Puaux, «doveva essere il mio ruolo». Poi, proseguiva «avrei cercato di passare<br />

il testimone ad un artista».<br />

Vilar gli aveva chiesto di proseguire nell’accoglienza ai giovani, spettatori e artisti,<br />

di aumentare il numero degli spazi, di continuare l’esperienza del teatro musicale, la<br />

ricerca di nuovi autori teatrali. Inoltre, il Festival Off «cominciava ad apportare una<br />

certa turbolenza che Vilar considerava come fosse una sorta di riconoscimento da parte<br />

dei giovani della necessità del Festival. Tant’è che avemmo degli incontri interessanti<br />

con la gente dell’Off: senza necessariamente arruolarli, abbiamo tentato di dare loro un<br />

certo numero di facilitazioni che a volte fui costretto a riprendermi (penso alla sala<br />

Benoît XII)… Ero in una sorta di circolo vizioso difficile da rompere: o invitavo sempre<br />

di più delle giovani compagnie – ma fino a che punto? –; oppure bisognava che l’Off<br />

restasse Off, vale a dire un avvenimento non organizzato, spontaneo, anche se gli si<br />

offriva il massimo delle possibilità… Retrospettivamente, credo che la migliore maniera<br />

di dare un senso all’Off, di evitare il disordine assoluto, era di avere per il Festival<br />

stesso una programmazione quanto più rigorosa possibile […]. Ho avuto per anni una<br />

relazione molto piacevole con quelli dell’Off, una sorta di banco di prova per il Festival<br />

stesso».<br />

Per quanto riguardava gli spazi «la Corte cominciava a diventare un problema»<br />

diceva spesso Puaux, visto che «la tendenza andava piuttosto per i luoghi più intimi. Ciò<br />

ci ha condotti a sviluppare la programmazione della danza e a invitare dei registi<br />

stranieri come Otomar Krejca e Benno Besson. Ma abbiamo anche invitato il mimo<br />

Marceau, per mostrare come, contrariamente a quanto si pensava e dicevano alcuni<br />

registi, questa Corte non poneva problemi per il numero di figuranti, per la quantità di<br />

alabardieri, ma solo di talento degli interpreti. Marceau lo dimostrò al più alto livello<br />

possibile, così come Judith Jamison o Carolyn Carlson. Se avessimo voluto togliere<br />

questa idea ai registi, ci sarebbe voluta una armata per riempire il palcoscenico della<br />

Corte».<br />

Come gli aveva insegnato Vilar, Puaux non proponeva mai la Corte ad un regista se<br />

prima questi non l’avesse vista, non avesse potuto prenderne coscienza: «bisognava<br />

vedere lo spirito di Avignone prima di decidersi a prendere un luogo come la Corte». Lo<br />

stesso Antoine Vitez, da molti accostato a Jean Vilar quanto a carisma e capacità,<br />

realizzò progetti per la Chapelle des Pénitents e, poi, per Cloître des Carmes. Diverse<br />

volte Paul Puaux gli disse «Se tu hai un progetto, vieni a parlarmene, ma è necessario<br />

che sia un progetto come noi lo amiamo fare, come per gli altri registi». Vitez realizzò<br />

spettacoli memorabili, ma ogni volta ripeteva che per lui Cloître des Carmes era un<br />

362


luogo ideale, tra l’altro, apprezzato da molti registi, soprattutto in quel periodo, quando<br />

conservava le sue rovine, la sua galleria, i suoi cinquecento posti (oggi sono un po’<br />

meno). Spesso Vitez chiese il permesso a Puaux di andare nella Corte, anche con i suoi<br />

attori, per fare delle prove, per vederla completa. Il suo avvicinamento a quel luogo fu<br />

graduale, calcolato. Come nel caso di Ariane Mnouchkine: Puaux aveva una forte<br />

passione per il suo teatro, e non per nulla la considerava l’erede potenziale di Vilar. Ma<br />

il Théâtre du Soleil presentò il suo spettacolo Les Clowns, in un luogo fuori dalle mura<br />

della città, non conforme, ma coerente con la loro visione artistica.<br />

Un altro rapporto artistico particolare fu quello con Bob Wilson. Ad esempio, in<br />

occasione dello spettacolo Einstein on the beach Wilson non volle sbottonarsi troppo<br />

circa le sue reali intenzioni creative. Wilson non era propriamente l’emblema di quel<br />

teatro popolare come lo considerava Paul Puaux, ma l’idea era quella di cercare di<br />

presentare al pubblico ogni possibile evoluzione dello spettacolo e del teatro. Alle<br />

risposte molto astratte che Wilson dava alle richieste di chiarimenti di Puaux, questi<br />

oppose, con la ferma convinzione, le ragioni del Festival e l’esigenza di continuare a<br />

coltivare il rapporto col pubblico. Alla fine, raccontava Puaux: «mi ha raccontato che si<br />

trattava di un sogno fatto un bambino e che si era messo a disegnare…». Melly (moglie<br />

di Paul Puaux) ebbe l’idea di mettere assieme quella gran quantità di disegni e di<br />

pubblicarli come fumetto per il programma. E la cosa fu fatta. «Per un mese»,<br />

raccontava Puaux, «affidai il teatro municipale a Bob Wilson, il più bel regalo che<br />

potessi fargli, come mi disse… Era il miglior modo per preparare il pubblico: lo<br />

spettacolo necessitava di molte persone, ma non potevo pagargli un esercito di tecnici.<br />

Allora reclutai degli studenti delle Belle Arti di Avignone e di Valence che vennero a<br />

lavorare e dipingere con lui. Tutti quei ragazzi vivevano in città, trasmettevano le voci<br />

del lavoro di Bob Wilson… Ho sempre creduto a questo genere di comunicazione.<br />

Anche in quel caso facemmo il nostro di lavoro in direzione del pubblico». A dire il<br />

vero, ancora oggi quello spettacolo costituisce una vera e propria icona nella storia del<br />

Festival.<br />

«Ci sono diverse ragione» spiegava Puaux «che mi hanno portato alle dimissioni, nel<br />

1979. In primo luogo, consideravo il mio compito concluso. Mi ero sempre detto che,<br />

dopo la morte di Vilar, il mio sarebbe stato un lavoro temporaneo e che un giorno un<br />

creatore doveva prendere le redini. Inoltre, la Maison Jean Vilar era operativa fin<br />

dall’inaugurazione del luglio del 1979. Per me, era la parte essenziale del mio compito,<br />

quella che dovevo assolutamente raggiungere. Ed era fatta. Mi sentivo più libero. E’<br />

anche vero che l’epoca era differente, apparivano nuove forme teatrali, l’Off<br />

proliferava… Tenendo conto della mia età, ero ancora l’uomo che poteva rispondere<br />

alle questioni di quel tempo?». Tutto andava bene e Vilar gli aveva sempre detto che se<br />

bisogna dare le dimissioni lo si deve fare quanto lo cose funzionano. «Lessi la mia<br />

lettera di dimissioni» disse Puaux «a tutto il gruppo all’una di mattina, nel giardino del<br />

Festival, poi convocai una conferenza stampa…».<br />

Nella primavera precedente aveva avvicinato uno degli artisti che egli considerava in<br />

grado di trasformare completamente il Festival. Béjart non aveva forse contribuito al<br />

prestigio della danza moderna proprio partendo da Avignone? Puaux pensava che fosse<br />

l’uomo giusto in quella situazione, ma non gli rispose mai. L’altra artista a cui aveva<br />

pensato era, evidentemente, Ariane Mnouchkine: l’aveva contattata quarantotto ore<br />

prima delle sue dimissioni garantendole che l’avrebbe fatta accettare dalla città e di fare<br />

tutto quanto fosse stato possibile per aiutarla, si sarebbe proposto come suo<br />

amministratore… Ariane Mnouchkine, all’epoca, stava realizzando la sua serie di<br />

363


Shakespeare, domandò a Paul Puaux ventiquattro ore di tempo per pensarci e poi<br />

rispose: «Ho da costruire ciò che devo costruire alla Castoucherie [la sede del suo<br />

Théâtre du Soleil – n.d.t.], questa serie di Shakespeare che voglio fare, non mi sento<br />

disponibile per una tale responsabilità». Era molto emozionata per la proposta fattale da<br />

Paul Puaux. Intanto, quest’ultimo non vedeva altri creatori con quelle caratteristiche e<br />

che fossero potenzialmente disponibili. Inoltre non voleva che si aprisse una sorta di<br />

corsa alla candidatura, come per i centri drammatici nazionali. «Mi sono detto»<br />

ricordava Paul Puaux «che bisognava trovare una personalità capace di amministrare ciò<br />

che il Festival stava per diventare. Mi immaginavo una sorta di sinergia tra la<br />

Chartreuse, con la quale ero già in continuo contatto, la Maison Jean Vilar, il Festival,<br />

forse lo stesso Teatro Municipale, il Consiglio culturale… Avignone disponeva di una<br />

specie di risorsa regionale. Necessitava, dunque, di una personalità capace di mantenere<br />

una coerenza tra tutte queste istituzioni e di svilupparle». In quelle riflessioni ricordava<br />

come lo stesso Jean Vilar si domandasse se aveva senso continuare il Festival o se<br />

dovesse avere una sua fine naturale. «Una avventura teatrale nasce, vive, muore» diceva<br />

Vilar, e forse bisognava avere il coraggio di ammetterlo, così come le grandi avventure<br />

teatrali non hanno un successore. «Non si succede a Jean Vilar nella Corte d’onore».<br />

Sulla scorta di questi pensieri si augurava che il Festival fosse ancora più diverso di<br />

come lo stava immaginando in quel momento.<br />

«Ho avuto una fortuna considerevole, ho vissuto una avventura che fa di me un<br />

privilegiato. Sono molto felice perché ho la sensazione di aver vissuto l’avventura del<br />

secolo, nell’epoca in cui bisognava viverla. E’ meraviglioso poter dire ciò!».<br />

Bernard Faivre d’Arcier era nato ad Albertville nel 1944, ma era a Lione che la sua<br />

famiglia si stabilì: il padre era un ingegnere, costruiva dighe, e la sua famiglia era di<br />

origini nobili. Arcier è infatti un piccolo paese della Franche Compté, nel nord-ovest<br />

della Francia, antico feudo del ramo paterno della sua famiglia a partire dal XIV secolo.<br />

Anche la madre faceva parte di una famiglia benestante e di nibili origini: i Teillard de<br />

Chazelles. In quelle zone, anticamente, o si era militari o preti. E in effetti la famiglia in<br />

cui crebbe Bernard Faivre d’Arcier era numerosa, cattolica e tradizionalista, molto<br />

attaccata al servizio alla nazione e alla cosa pubblica. I primi studi, ovviamente, furono<br />

negli istituti religiosi, a Chambéry e Lione.<br />

Nel settembre del 1979 Bernard Faivre d’Arcier (o BFA come lo ribattezzeranno i<br />

giornalisti) fu cooptato dala Città di Avignone e dallo Stato per dirigere il Festival di<br />

Avignone. Trasformò la struttura del Festival in Associazione di gestione dotata di un<br />

proprio budget presieduta dal Sindaco della città. Il suo mandato di direttore,<br />

rinnovabile, era di tre anni. I mezzi finanziari aumentarono, i mecenati furono<br />

sollecitati, un nuovo manifesto del Festival servì a simbolizzare il cambiamento. La<br />

programmazione integrava, diventandone logica conseguenza, quel cambiamento: la<br />

danza-teatro, l’audiovisivo e le manifestazioni a carattere spettacolare, il teatro di strada,<br />

fuochi d’artificio o sfilate di moda. Nascevano delle aree tematiche: il vivente e<br />

l’artificiale, l’anno dell’India, previsto per il 1985. Una specifica riflessione veniva<br />

realizzata attorno a famiglie di artisti accomunati da poetiche comuni: ad esempio,<br />

l’arcipelago di Lavaudant (importante regista della nuova generazione francese di quegli<br />

anni). Nel 1981, con la vittoria della sinistra e di François Mitterrand, il potere politico<br />

si dà appuntamento ad Avignone. Nel 1984 le incertezze legate alla volontà di<br />

finanziare l’attività conducono Bernard Faivre d’Arcier, il cui mandato era già stato<br />

rinnovato, a dare le dimissioni all’inizio del festival di quell’anno. Parte lasciando<br />

364


aperte importanti questioni relative alla creazione artistica, ai pubblici, alle dimensioni<br />

della manifestazione, alla parte riservata al teatro internazionale.<br />

Per sommi capi questo era il biglietto da visita, il riassunto di quel primo periodo di<br />

Faivre d’Arcier ad Avignone, così come era ricostruito nel pannello di ingresso della<br />

stanza a lui dedicata nella mostra del 2003. Del primo periodo: perché Faivre d’Arcier,<br />

come il lettore già sa, tornerà a dirigere il Festival, fino ai drammatici eventi del 2003.<br />

«Tra i diversi nomi indicati per prendere la successione di Paul Puax dopo le sue<br />

dimissioni nel 1979, il mio era stato avanzato dall’assessore alla cultura dell’epoca,<br />

Dominique Taddéi» ricordava Faivre d’Arcier «Il sindaco, Henri Duffaut, vecchio<br />

ispettore delle imposte, era, diciamo, favorevolmente impressionato dal giovane nipote<br />

di ispettore delle finanze quale io ero, e che lui, una sera, aveva invitato alla sua tavola,<br />

in un risotoramente furiosamente di fine secolo… Mi sentivo davvero spaesato! Fu in<br />

quella occasione che scoprii che il Festival non aveva un budget previsionale: il sindaco<br />

si rimetteva alla probità di Paul Puaux che negoziava i contratti molto in ritardo». Pur<br />

essendo il Festival una regia municipale, il sindaco non aveva mai firmato un solo<br />

assegno di proprio pugno. La città non faceva altro che versare una sovvenzione che<br />

riequilibrasse il forte deficit che veniva presentato alla fine di ogni edizione. «Per puro<br />

caso» ricordò «domandai a Henri Duffaut un aumento di due milioni di franchi,<br />

improvvisando una succinta ripartizione: un quarto di quell’aumento sarebbe servito per<br />

la produzione, un secondo quarto per la comunicazione, un terzo all’organizzazione,<br />

l’ultimo… per gli imprevisti. Arrivati al dessert, Henri Duffaut mi accordò il suo<br />

appoggio». Fu così che Bernard Faivre d’Arcier arrivò alla direzione del Festival di<br />

Avignone, senza avere la ben che minima esperienza ma con l’impressione di aprire un<br />

ciclo nuovo. «La prospettiva stessa di riconsiderare i fondamenti di una tale impresa»<br />

diceva Faivre d’Arcier «corrispondeva perfettamente al mio temperamento da ideatore e<br />

realizzatore di progetti». Ma ci volle del tempo perché il “suo” progetto per Avignone<br />

prenda veramente forma. All’inizio, soprattutto, Faivre d’Arcier si trovava catapultato<br />

all’interno di un meccanismo che funzionava attraverso ingranaggi che lui non era in<br />

grando di comprendere fino in fondo. Non aveva conosciuto Jean Vilar e veniva da un<br />

contesto che non era propriamente quello che Paul Puaux immaginava come profilo per<br />

il suo successore. «Mi aveva più accettato che scelto» diceva Faivre d’Arcier con<br />

riferimento a Paul Puaux. Ma nonostante questo, lungo tutto il primo anno di lavoro,<br />

ogni settimana, ogni giorno, «Paul mi ha accompagnato e consigliato. Mi ha tenuto per<br />

mano e fatto apprendere tutto sul funzionamento e le difficoltà del Festival. Un ruolo<br />

importante lo ebbero anche Philippe Tiry, responsabile dell’ONDA, centro nazionale di<br />

promozione alla distribuzione teatrale in Francia, e Bernard Tournois, responsabile della<br />

Certosa di Villeneuve-les-Avignon, luogo che il giovane Bernard Faivre d’Arcier<br />

frequentava già negli anni Settanta come volontario. Da giovane funzionario del<br />

Ministero della cultura, Faivre d’Arcier ebbe un ruolo determianante per accordare in<br />

finanziamenti necessari per svolgere alcune importanti opere di restauro di quello spazio<br />

tanto affascinante.<br />

Faivre d’Arcier non aveva conosciuto Jean Vilar e non lo aveva nemmeno mai visto<br />

recitare, non veniva dalla sua “scuola” di pensiero: né, ovviamente, dal punto di vista<br />

artistico visto che non era un artista; né dal punto di vista manageriale e quindi del tipo<br />

di leadership che Vilar era in grado di personificare. La formazione di Faivre d’Arcier<br />

era legata all’università e agli studi della prestigiosa scuola della amministrazione<br />

pubblica francese, era quindi molto teorica; e la sua pratica era legata alle burocrazie<br />

centrali come giovane funzionario del ministero. Questo Paul Puaux lo sapeva e molto<br />

365


del suo tempo lo passava stando accanto al nuovo giovane direttore. Un altro aspetto<br />

rilevante era legato al fatto che, come riferito dallo stesso Faivre d’Arcier, gli uffici del<br />

Festival erano a Parigi e buona parte del lavoro, quello più lungo, difficile ed oscuro, si<br />

faceva a Parigi. L’équipe del suo primo festival che si dedicava a questo lavoro, per<br />

restare fedele allo spirito di Paul Puaux, era molto ridotta: la direzione, in sostanza era<br />

formata da lui e da Guillaume Gronier e Monique Coutance. Tutto il loro tempo, specie<br />

il primo anno, nel 1981, era consacrato all’organizzazione del Festival. Nonostante tutto<br />

quell’impegno, i problemi non mancavano. «Formavamo un trio di direzione che» come<br />

confermava Faivre d’Arcier «era votato per i due terzi del tempo a disposizione<br />

all’organizzazione del Festival. E il restante terzo del tempo lo trascorrevamo per la<br />

riflessione e alla ricerca artistica, patendo molto per questa sproporzione, di tutto quel<br />

tempo dedicato agli ingrati compiti che non toccavano direttamente né il pubblico, né i<br />

finanziatori, né la stampa». Inoltre, il gruppo di lavoro di Faivre d’Arcier soffriva molto<br />

la mancanza di contatto e di abitudine al contatto con gli artisti. Fu per quella ragione<br />

che al suo ritorno, nel 1993, volle tenere per sé solo la direzione artistica, lasciando che<br />

la bravissima Christiane Bourbonnaud assumesse tutti i compiti logistici di cui, tra<br />

l’altro, si occupava anche nel priodo di direzione di Alain Crombecque.<br />

«Mi ricordo» spiegava Faivre d’Arcier «che realizzavamo le “bibles” (i programmi<br />

di sala che erano distribuiti prima di ogni spettacolo) la vigilia stessa per il giorno<br />

successivo; non disponevamo di alcuno strumento di lavoro moderno; ci dibattevamo in<br />

uno stato di emergenza perpetuo che non ci autorizzava ad essere lucidi. Gli facevamo<br />

fronte con energia e candore, certo, ma più di una volta fummo presi alla sprovvista<br />

dalla pressione del pubblico e dei giornalisti. Li conoscevo poco, qualche volta li<br />

confondevo e commisi delle gaffe tremende! E non avevo nemmeno una grande<br />

conoscenza dei professionisti, dei loro rituali e delle loro gerarchie segrete…».<br />

Inoltre, scoprì a sue spese che neppure al suo interno il Festival era poi così unito,<br />

essendo composto da settori contrapposti, indipendenti: la programmazione del cinema<br />

veniva realizzata senza la supervisione del direttore; il teatro musicale e Radio France<br />

costituivano un centro decisionale autonomo… «Cominciavo ad intuire che il Festival<br />

doveva ritrovare la sua unità di progettazione».<br />

Ancora, all’epoca (eravamo nei primi anni Ottanta), vi era ancora poca confidenza<br />

tra attori e ballerini, c’era una sorta di incomunicabilità tra due mondi dell’arte dal vivo<br />

considerati tanto diversi: eppure la danza aveva fatto da tempo l’ingresso al Festival (già<br />

con Béjart, più di un decennio prima). Altro problema era quello delle professionalità<br />

tecniche messe a disposizione dal comune (che all’epoca era ancora l’organo di gestione<br />

del Festival) e della situazione della Cour d’honneurs, i cui apparati tecnici e<br />

l’equipaggiamento avevano bisogno di un ammodernamento. L’immagine seguente era<br />

piuttosto evocativa: «venivo a prendere possesso di un appartamento antico, senza<br />

dubbio eccezionale, ma che era necessario rinnovare interamente».<br />

Con quella analogia, probabilmente, Faivre d’Arcier non si riferiva solo alla<br />

questione legata agli spazi scenici e alle attrezzature.<br />

L’esigenza di rinnovamento che il nuovo direttore cercava di lanciare riguardò in<br />

primo luogo le linee della comunicazione, a cominciare dal manifesto, abbandonando le<br />

“tre chiavi” che Jacno aveva disegnato per Jean Vilar quasi trenta anni prima.<br />

Nonostante tutto il buon senso e i buoni propositi del caso, ad esempio cercando di<br />

proporre la grafia di Jean Vilar per le scritte e chiedendo l’aiuto di un artista (il pittore e<br />

scenografo di Georges Lavaudant), così come fece lo stesso Vilar a suo tempo, non gli<br />

vennero risparmiati gli strali della critica. «Il messaggio non fu recepito come speravo»<br />

366


disse Faivre d’Arcier «ma non era quello il punto essenziale: ad ogni modo era più<br />

facile cambiare le apparenze piuttosto che di fare evolvere le questioni di contenuto». E<br />

continuava: «Non avevo assimilato il fatto che il Festival portava non solo il nome della<br />

sua città di nascita ma anche quello del suo fondatore:Festival-d’Avignon-Jean-Vilar 1 .<br />

[…] Pertanto era il mio modo, sincero e sensibili, di pagare il mio debito col passato!».<br />

Anche dal punto di vista delle scelte artistiche, Faivre d’Arcier non sentiva la prima<br />

edizione come totalmente sua: il fatto di essere fortemente spalleggiato e sostenuto da<br />

Paul Puaux non gli permetteva di cominciare un percorso che sentisse veramente come<br />

personale. Molte delle scelte che aveva fatto portavano infatti il segno forte della<br />

presenza di Paul Puaux: «non sapevo ancora giocare con nessuna delle tre chiavi di<br />

Avignone. Bisognava che abbordassi l’edizione del 1981 del Festival affermando delle<br />

scelte che fossero più trancianti, ma come assumere il peso della storia aprendosi anche<br />

alle nuove generazioni?».<br />

In effetti, l’edizione del 1981 fu un continuo gioco di equilibri tra le istituzioni<br />

teatrali e la giovane creazione, con una forte apertura agli spettacoli stranieri. E in<br />

effetti, in quel periodo «credo di aver percepito che la discussione riprendeva di vigore,<br />

che Avignone usciva da un periodo di consenso per ritrovare il gusto della polemica».<br />

Faivre d’Arcier sentiva di tenere il pubblico in sospeso tra la poetica e la scoperta, la<br />

tradizione e il tentativo delle forme nuove. Da un punto di vista strategico, Faivre<br />

d’Arcier sapeva che «ancora oggi, Avignone resta il solo festival al mondo da cui si<br />

attende una leadership intellettuale illuminate e regolatrice degli stili artistici del teatro<br />

contemporaneo! Paul Puaux aveva assunto questa coerenza attraverso la sua fedeltà a<br />

Vilar e proponendo una visione di politica culturale illustrata da un programma. Sempre<br />

il peso della storia: la sua programmazione corrispondeva alle problematiche che<br />

attraversavano il teatro, riprese nei colloqui che ritmavano lo svolgimento del Festival».<br />

Da lui si attendeva certamente che fosse l’uomo in grado di garantire le prospettive care<br />

al Festival di Avignone e le sue coerenze artistiche. Ma non ci si poteva aspettare anche<br />

che fosse il “garante dell’ispirazione artistica” di una scuola di pensiero estetica. Non a<br />

caso Puaux aveva pensato a Maurice Béjart e ad Ariane Mnouchkine per svolgere quel<br />

compito. Faivre d’Arcier confessava che l’altro artista al quale Paul Puaux poteva<br />

pensare era Antoine Vitez, ma i due non ebbero mai un livello di complicità e di<br />

adesione alla causa adeguato per condividere un tale compito. «Un maestro alla testa di<br />

una grande istituzione come Avignone avrebbe rassicurato: Vilar, Vitez, Stein,<br />

Strehler…», come giustamente ricordava Faivre d’Arcier, era ancora l’epoca dei grandi<br />

registi. Furono ragionamento come questi che spinsero Faivre d’Arcier a concepire una<br />

architettura nuova per il Festival del 1983, una sorta di arcipelago artistico che<br />

ritroveremo venti anni più tardi sotto forma di “artista associato” nel progetto di Vincent<br />

Baudrillier e Hortence Archambault. «Si trattava» spiegava Faivre d’Arcier «di chiedere<br />

ad un artista di presentare una creazione e la ripresa di un suo spettacolo, e di invitare<br />

una famiglia artistica a sua scelta». Ma quel tipo di progetto aveva delle ripercussioni<br />

economiche notevoli in quanto necessità di risorse specifiche per permettere la<br />

creazione degli spettacoli degli artisti invitati. E in quel periodo il Festival non aveva i<br />

mezzi per assicurare da solo la realizzazione di tali progetti.<br />

1 In effetti, specie nelle prime edizioni, il nome di Jean Vilar fu ben presente anche nel nome della<br />

manifestazione e capeggiava in tutte le forme di comunicazione ufficiali, dai programmi alle locandine,<br />

questo specie negli anni in cui lo stesso Vilar doveva combattere a livello locale (oltre che nazionale) per<br />

vedersi riconosciuti i propri meriti e, quindi, per ottenere adeguati finanziamenti per realizzare i suoi<br />

progetti artistici (N.d.T.).<br />

367


Se quindi la presentazione di “costellazioni artistiche” creava dei problemi, Faivre<br />

d’Arcier ipotizzò allora di individuare dei temi. «Sempre il demone della coerenza»,<br />

sbottava Faivre d’Arcier. Nel 1984 si pervenne così ad un progetto globale “Le Vivant e<br />

l’Artificiel”, basato su tre incontri. Nel pomeriggio il pubblico era coinvolto nella visita<br />

ad una mostra insolita, destinata a confondere il reale e il virtuale. «Un centinaio di<br />

artisti», raccontava Faivre d’Arcier «e altrettanti scienziati vi parteciparono, sotto il<br />

coordinamento di Louis Bec, lui stesso artista plastico e ricercatori. In serata, il pubblico<br />

ritrovava il tempo dello spettacolo dal vivo e infine, nel cuore della notte, erano<br />

presentate, sull’isolotto Piot, delle notti artificiali mescolate ad immagini virtuali,<br />

ritrasmissioni e concerti “live”». L’allora direttore non riuscì a continuare quel progetto<br />

che meritava di essere ulteriormente affinato per diventare più convincente. In oltre, «un<br />

tale itinerario perturbava troppo le abitudini: il pubblico di Avignone era già troppo<br />

sollecitato da ogni sorta di evento accessorio per seguire un itinerario obbligato…».<br />

Intanto il contratto di Faivre d’Arcier veniva rinnovato per due anni (1985-1986) anche<br />

se Michel Guy, già segretario di stato alla cultura e ministro e in quel periodo vicepresidente<br />

del Festival, già prospettava un suo avvicendamento con Alain Crombecque.<br />

Alla fine, gli eventi precipitarono per altri motivi. Con le parole di Faivre d’Arcier:<br />

«Jean-Pierre Roux, nuovo sindaco di Avignone, trovò una idea “per riconciliare gli<br />

Avignonesi con il loro Festival”: mi annunciò che Mireille Mathieu sarebbe stata la<br />

madrina della prossima edizione e che avrebbe cantato in apertura nella Corte d’onore,<br />

l’affare era già stato concluso con il suo agente. Devo confessare», continuò con spirito<br />

«che non mi immaginavo ad assistere all’incontro di Mireille Mathieu con Ariane<br />

Mnouchkine che doveva fare le prove de La Nuit des Rois?». Il comune tenne a freno<br />

fermò il progetto fuori le mura del grande palazzo: Mireille Mathieu avrebbe avuto il<br />

suo show, e il comune avrebbe messo a disposizione enormi sforzi tecnici per garantire<br />

l’evento. «Ebbi forte la sensazione che il mio principale partner mi avesse<br />

abbandonato!». Con tutti gli spazi del festival da allestire, la maggioranza dei tecnici<br />

comunali era impegnati alla realizzazione del palcoscenico per la cantante. «Estenuaro o<br />

scoraggiato diedi le dimissioni pensando che solo la crisi avrebbe smosso qualcosa. Di<br />

fatto la stampa reagì e, soprattutto, Michel Guy che impose presto il nome di Alain<br />

Crombecque. Fu una buona successione poiché Alain passò l’estate al mio fianco e fece<br />

il miglior uso di ciò che era all’epoca previsto per il 1985, Le Mahâbhârata nella cava<br />

di Boulbon e Antoine Vitez nella Corte d’onore. Anche se conservo un gusto un po’<br />

amaro per le circostanze nelle quali la crisi sorse, mi sono, poi, tranquillizzato<br />

constatando che la crisi era necessaria e che la sua uscita fu positiva».<br />

Lo spettacolo simbolo del periodo di direzione di Alain Crombeque è senza ombra di<br />

dubbio Mahâbhârata, di Peter Brook, alla Carrière Boulbon: una trentina di attori,<br />

provenienti da ovunque, un testo tratto dall’epopea in sanscrito, uno dei più vasti poemi<br />

mai scritti, anni di preparazione e… quasi dieci ore di rappresentazione! Non ce ne<br />

voglia il seppur bravo artista francese Olivier Py, ma nulla a che vedere con le sue<br />

maratone teatrali, l’ultima delle qualsi presentata al Festival del 2005. E come<br />

evidenziato altrove, la Carrière de Boulbon è diventato un luogo mitico, quasi quanto la<br />

Cour d’honneur: mezzo naturale (o mezzo artificiale), una sorta di teatro greco<br />

veramente all’aperto. Lo spettacolo cominciava al crepuscolo per seguire il normale<br />

andamanto degli eventi, terminando all’alba.<br />

Nel pannello che accoglieva il passaggio alla stanza della mostra dedicata ad Alain<br />

Crombecque si leggeva: «Doppia firma per la programmazione 1985 che rivela un<br />

luogo magico: la cava di pietra dell’impresa Callet a venti chilometri da Avignone. Il<br />

368


festival, di buona lena, prende un regime di crociera a vantaggio di una dimensione<br />

festiva, notturna e campestre. Poeti e autori sono invitati sulla scena, favoriti, tra gli<br />

altri, dagli interpreti mitici di Vilar e con il concorso della SACD. Ritorna una<br />

esposizione nella grande cappella del Palazzo dei papi. Mescolanza di culture sull’asse<br />

Nord-Sud.<br />

Nel 1987 il Centre Acanthes, proveniente dal Festival di Aix-en-Provence, apre le<br />

porte della creazione musicale contemporanea.<br />

Nel 1989 l’aumento della marte dovuto a mecenati d’impresa nel finanziamento del<br />

Festival suscita qualche indecisione. La Città impone un cambiamento nel gruppo di<br />

direzione. Il Festival deve far fronte ad un eccesso di sfide e di tensioni che ne<br />

modificano la vocazione.<br />

Nel 1992, dopo la morte di Michel Guy, Alain Crombecque, chiamato a succedergli,<br />

termina il suo mandato nella tormenta provocata dalla ridiscussione dello statuto degli<br />

intermittenti.<br />

«Avignone, il Festival, è per me come una vita anteriore» diceva Crombecque «[…]<br />

la mia memoria su Avignone è totalmente frammentaria, fatta di costellazioni.<br />

Nonostante questo, il percorso è chiaro, leggibile. Si tratta di una vita intera».<br />

Crombecque riconosceva che non era possibile separare la leggenda del Festival da<br />

colui che l’ha resa possibile, Jean Vilar: «era una scenario originario. La rivelazione di<br />

un incontro con la Corte d’onore del Palazzo dei papi, poi questo momento di<br />

comunione tra una estetica e un luogo. […] Quando Vilar faceva le prove si trovava<br />

come “ai margini” del lavoro degli attori che egli non dirigeva veramente, e lo<br />

spettacolo nasceva quasi improvvisi, come in un proceso alchemico». Vilar sembrava<br />

quasi contemplare la Corte d’onore, proprio perché, spiegava Crombecque «la<br />

Avignone degli inizi era un luogo silenzioso, religioso. Nessun altro festival era<br />

portatore di una tale aura. Ho sempre pensato che l’atto iniziale di Avignone fosse di un<br />

ordine differente, un ordine poetico. Uno dei miracoli di Avignone, fin dall’inizio, è il<br />

suo pubblico. Si diceva che sarebbe venuto anche se non di fossero stati spettacoli. E’<br />

qualcosa che, credo, vada oltre un consumo culturale, alla ricerca di questi momenti di<br />

grazia di cui Avignone, la città come festa, è così generosa. Più tardi, ci furono le<br />

paillettes, il rumore, il furore, e la festa ha flirtato con la fiera, come in una violenta<br />

corte dei miracoli. […] Oggi ci sono delle Avignone multiple, inseparabili, e nelle quali<br />

ci si perde come in un dedalo, dove regnano tanto l’ordine quanto la confusione. A volte<br />

ho l’impressione che il cuore del Festival, la Corte d’onore, sia come un centro divorato<br />

dalla sua periferia». Anche se la Avignone originale perdura, esiste ancora, meno<br />

visibile, ma sempre presente. «Io ho prima di tutto cercato di essere in accordo con le<br />

forze oscure dell’origine» affermava Crombecque «ero pieno di entusiasmo, nel senso<br />

più originale del termine: gli dei erano con me. Avevo l’impressione di arrivare in un<br />

Festival totalmente pacificato, senza tensioni politiche e ideologiche, e una<br />

organizzazione perfettamente operativa. A volte, però, mi assaliva una dolorosa<br />

angoscia, quella della mia legittimazione. Tanti altri avrebbero potuto perseguire tanto<br />

quanto me se non meglio l’avventura mitica del TNP! Per essere ammesso in questa<br />

magica cerchia, avevo qualche idea semplice, che consisteva soprattutto nel tessere dei<br />

legami o nel riattivare quelli che erano stati sciolti o allentati, tra la città e gli uomini.<br />

[…] Così, ho voluto celebrale, con un pubblico quanto più vasto possibile, gli autori<br />

contemporanei, che considero come essenziali […]. E ho invitato i registi che erano,<br />

all’epoca, i più adatti per comprendere e perpeturare la tradizione. [Inoltre] Avignone ha<br />

sempre amato molto i grandi attori. Quando Gérard Philippe venne a recitare ne Le Cid<br />

369


e ne Le Prince de Hombourg, era già l’attore adulato del Diable au corps. Invitare<br />

Daniel Auteuil o Michel Piccoli venne da sé. Ci sono anche le istituzioni atipiche, le<br />

sorprese che arrivano dalla semplice disponibilità. Non somigliano giocoforza alla<br />

tradizione ma hanno la natura di quei fortunati eventi legati alle leggi nascoste della<br />

città. E’ in queste condizioni che, per esempio, è venuto Anatoly Vassiliev.<br />

L’ambasciata mi aveva inviato un messaggio per fare un viaggio a Mosca al fine di<br />

incontrarlo e avevo capito che si tratta di qualcosa di urgente. Che qualcuno di<br />

sconosciuto in URSS potesse partecipare ad un grande festival, uscire dall’URSS senza<br />

l’avallo del ministero della Cultura e con un contratto privato, era praticamente un<br />

momento storico… E, infine, ci sono tutti coloro che avrei voluto invitare ma senza<br />

successo, grandi e piccoli progetti. Degli incontri mancati per impossibilità o per la<br />

mancaza di tempo. Nella Corte avrei voluto vederci Peter Stein, Klaus Michael Grüber,<br />

Luca Ronconi… Avrei voluto vederci Michel Piccoli recitare Lear. Avrei anche voluto<br />

contribuire a sviluppare la parte segreta della Certosa, questo ammirabile contrappunto<br />

del Festival, questo luogo privilegiato della condivisione e della trasmissione. Avrei<br />

senza dubbio voluto essere in grado di intervenire sul “fuori-festival”, questo vivaio di<br />

talenti nuovi da scoprire, trasformandone le condizioni economiche». E ancora «Forse,<br />

quel dialogo permanente, espressione della democrazia, che il Festival provocava,<br />

sarebbe potuto essere meglio canalizzato, più organizzato, gli si avrebbe potuto dare<br />

maggiore significato. Avrei apprezzato per esempio una sorta di accademia estiva, con<br />

degli uditori liberi, dei soggetti specializzati. In fondo, avrei voluto forse condurre il<br />

grande teatro dello spazio urbano in luglio, tutti i grandi flussi sotterranei, tutti i<br />

movimenti della superficie […]».<br />

Ognuno ha la sua Avignone. «La mia» diceva Crombecque «è fatta di incontri e di<br />

immagini. […] L’altra sera pensavo che Avignone è diventata per me il luogo<br />

dell’assenza. Pensavo a tutti quegli esseri luminosi che vi avevano fatto la loro<br />

apparizione e che era successivamente spariti. [Inoltre] tutto era stato fatto grazie alla<br />

casualità degli incontri, alla fortuna e alle contraddizioni della Storia. Tutto vi era<br />

strano, vi venivano da molto lontano, l’origine segreta e l’incredibile espansione di<br />

quella che è diventata una istituzione, la mia irruzione in quel processo, io, lo spettatore<br />

professionale, ma anche lo studente contestatore che aveva così fortemente infamato<br />

quella stessa istituzione… Non posso parlare di Avignone se non in modo soggettivo.<br />

Non ho una prospettiva politica di Avignone, professionale. E’ un luogo come non ve<br />

n’è altrove, sublime, magnificato dall’architettura e della Provenza, che, nel mese di<br />

luglio, provoca degli oscuri stati nell’animo, in cui fascinazione e disprezzo si alternano.<br />

Mi ricordo che non erano affatto difficile rendere Avignone desiderabile».<br />

Al momento del suo ritorno alla direzione del Festival, Bernard Faivre d’Arcier, fin<br />

dal 1989, era a capo del Dipartimento di Teatro e Spettacolo al Ministero della cultura.<br />

370


XXVIII<br />

(Organizzare la messa in scena del Festival. La saga del Festival di Avignone: una macchina teatrale<br />

con (quasi) sessanta anni di storia. La Maison Jean Vilar: quando la memoria conta)<br />

In cui il lettore viene portato per mano là dove è conservata la memoria di una<br />

organizzazione con sessanta anni di storia e in cui scoprirà che spesso la storia è pesante da<br />

sostenere <br />

«Mi disse: – Ho più ricordi io da solo, di quanti non ne<br />

avranno avuti tutti gli uomini insieme, da che mondo e mondo<br />

–. Anche disse: – I miei sogni sono come la vostra veglia –. E<br />

anche: – La mia memoria, signore, è come un deposito di<br />

rifiuti –.»<br />

(da “Funes, o della memoria”, di J.L. Borges)<br />

La distribuzione della memoria, o meglio, il fenomeno della ritenzione nel<br />

linguaggio degli studiosi “evolutivi”, non è per nulla banale 1 . Come sintetizzato<br />

egregiamente da Weick, se una organizzazione deve apprendere qualche cosa, allora il<br />

modo in cui la memoria si distribuisce, la qualità e la precisione di quella memoria, le<br />

condizioni in cui essa viene elaborata o trattata, diventano caratteristiche fondamentali<br />

che impattano sulla forma stessa che assumerà l’organizzazione. March e Olsen 2<br />

mostrano notevole consapevolezza e lucidità in tal senso nell’affermare che: «In<br />

situazioni in cui si fa appello alle interpretazioni e alle spiegazioni, un certo tempo dopo<br />

l’evento, la “memoria” organizzativa (ad esempio, archivi, budget, statistiche, ecc.) e il<br />

metodo di reperimento influenzeranno in modi diversi il grado in cui i vari partecipanti<br />

possono usare eventi passati, promesse, obiettivi, supposizioni, comportamenti ecc. Il<br />

pluralismo, la decentralizzazione, la mobilità e la volatilità dell’attenzione sono tutti<br />

fenomeni che tendono a produrre un’ambiguità percettiva e attitudinale<br />

nell’interpretazione degli eventi.<br />

Weick, citando da “I principi di psicologia” di W. James, suggeriva che «la<br />

ritenzione di un’esperienza ha una connotazione chiara: “ritenzione significa facoltà di<br />

rievocare, e nient’altro. La sola prova che qualcosa sia una ritenzione è che la<br />

rievocazione abbia realmente luogo. La ritenzione di una esperienza è, in poche parole,<br />

solo un altro modo di definire la possibilità di pensarla di nuovo, o la tendenza a<br />

pensarla di nuovo, nelle sue circostanze passate”».<br />

Collegandomi a quanto stavo cercando di propinare al mio lettore, e a quanto tra<br />

breve racconterà N., vale a dire considerando la memoria come una particolare<br />

“conoscenza connettiva” che sceglie la migliore combinazione di specifici mediatori<br />

(strutture logiche, forme virtuali, flussi logistici, relazioni) per poter viaggiare nel tempo<br />

e nello spazio 3 , dietro alla questione della memoria vi erano affascinanti problemi:<br />

cartelle di archivi non contengono solo “innocenti” dati e informazioni sotto forma di<br />

numeri, inseriti in tabelle o grafici 4 ; le procedure operative standard, come suggeriscono<br />

Graham Allison, Charles Perrow, Norman Maclean, Barry Turner, Paul Mayer, Diane<br />

1 Il lettore può fare riferimento al capitolo 8 di Weick 1993 (edizione italiana del suo libro del 1969) e il<br />

capitolo 6 di Rullani 2004a (N.d.T.).<br />

2 March, Olsen 1976: 63 (N.d.T.).<br />

3 Rullani 2004a, 2004b (N.d.T.).<br />

4 Weick 1993: 286; Rullani 2004b (N.d.T.).<br />

371


Vaughan o Hans Blix 1 , possono causare crisi internazionali, spaventosi incidenti o,<br />

come nel caso degli “intermittenti” pericolose crisi organizzative e di sistema; il<br />

controllo sulla stesura dei verbali delle riunioni può influenzare molto il funzionamento<br />

delle organizzazioni 2 ; e ed è solo attraverso processi di “accountability” ragionevoli che<br />

le organizzazioni culturali del nostro paese possono cominciare a liberarsi delle<br />

pressioni “esterne”, per operare autonomamente 3 .<br />

La formula di Weick “come posso sapere quello che penso fino a che non vedo<br />

quello che dico”, che avevo proposto tempo addietro anche per interpretare<br />

l’organizzare dei processi di creazione di identità e linguaggi artistici nel caso dei<br />

festival, ricondotta al caso della ritenzione N. la vedrà tramutarsi in: “come posso<br />

sapere quello che penso, poiché ho dimenticato quello che ho detto?”.<br />

Avignone, 10 luglio 2006<br />

***<br />

Ore 17,00 – Maison Jean Vilar.<br />

Nel foglietto dei “Rencontres de la Maison Jean Vilar” e nella mia “guide du<br />

spectatuer” mi ero annotato quell’appuntamento: «Michel Bataillon. “La mémoire d’un<br />

art volatil”». Più sotto si leggeva: «Intervento sulla costituzione, il trattamento e la<br />

valorizzazione degli archivi teatrali da parte di Michel Bataillon, autore di “Una sfida in<br />

provincia”, cronaca della decentralizzazione teatrale condotta da Roger Planchon nella<br />

metropoli lionese. Il primo cofanetto di due volumi, pubblicato per le edizioni Marval<br />

nel 2001, presenta gli anni della fondazione del Théâtre de la Comédie, dal 1950 al<br />

1957, e gli anni dell’espansione del Théâtre de la Cité, 1957-1972. Un secondo<br />

cofanetto di tre volumi, apparso nel settembre del 2005, tanto pieno di illustrazioni<br />

quanto il primo, racconta il secondo episodio di questa avventura: gli anni dal 1972 al<br />

1982 quando Roger Planchon e Patrice Chéreau dirigono assieme il TNP-Villeurbanne,<br />

e gli anni dal 1982 al 1986, nell’attesa dell’arrivo di Georges Lavaudant».<br />

Insomma, all’apparenza, uno spaccato di un importante pezzo di storia del teatro<br />

francese recente. Ma come spesso accade, le aspettative, già profonde, furono superate<br />

dalla realtà delle cose: fu davvero un incontro stimolante.<br />

Al di là della presentazione di un’opera, in tre tappe, dalle sembianze colossali e<br />

ancora “in progress” (mancando l’ultima tappa), fui colpito dal dibattito incentrato sul<br />

tema del materiale d’archivio; sia laddove esiste già un archivio, per opera di qualcuno<br />

che si è preso il disturbo di far vivere la memoria di una organizzazione (e la Maison<br />

Vilar con la collaborazione della BNF era un ottimo esempio); sia, soprattutto, nelle<br />

organizzazioni dove la memoria ancora non c’è e sarebbe opportuno crearla per non<br />

rischiare di perdere tutto, secondo quella che è la più rigorosa delle leggi del teatro, vale<br />

a dire che si tratta della più effimera delle arti.<br />

1 Allison, Zelkow 1999; Perrow 1984; Vaughan 1990, 1996; Maclean 1992; Mayer 2003; Blix 2004.<br />

Inoltre: March, Simon 1958; March 1989; Weick 1993 (N.d.T.)<br />

2 Cohen, March 1974 (N.d.T.).<br />

3 Per una sintesi rinvio a Zan 2003, ma tutta la sua vasta produzione scientifica ha mostrato cosa possono<br />

produrre la “memoria” e la reiterazione di meccanismi di funzionamento originari nell’evoluzione delle<br />

organizzazioni artistico-culturali (N.d.T.).<br />

372


Roger Planchon, ad esempio, sembra avesse sempre affermato la propria volontà di<br />

perseguire fino in fondo questa regola: il suo desiderio era quello di distruggere tutto<br />

quello che realizzava, di non lasciare segno se non nella memoria della gente.<br />

Fosse stato per lui, da come mi presentavano alcuni episodi, non andrebbe speso un<br />

solo euro per cercare di fare un lavoro che è contrario alla logica stessa del teatro, a cui<br />

lui credeva ciecamente! Ovviamente, gente come Michel Bataillon (che lavorò assieme<br />

a Planchon per trenta anni) e come Marie-Claude Billard (a capo dell’antenna<br />

avignonese della BnF che si occupa dell’archivio del Festival di Avignone e della<br />

Maison Vilar) non la pensano allo stesso modo.<br />

L’opera di cui si parlò in quel pomeriggio alla Maison Vilar era la testimonianza di<br />

quanto complicato fosse un lavoro sulla memoria, specie laddove era necessario basarsi<br />

quasi esclusivamente su quelli che Bataillon chiamava i “sopravvissuti”<br />

dell’organizzazione, vale a dire a coloro che avevano vissuto di persona gli eventi che si<br />

intendevano consegnare ai posteri.<br />

Mi sentii per certi versi gratificato da quell’intervento, benché il mio non sarebbe<br />

stato un lavoro di catalogazione e di memoria come quello proposto da Bataillon (e<br />

soprattutto non nelle dimensioni e con le risorse messe a disposizione, seppur molto<br />

faticosamente, per un progetto come quello!). Il mio era soprattutto un lavoro di analisi:<br />

era pur sempre una ricerca che mirava ad un qualche risultato che non fosse la semplice<br />

contemplazione o descrizione di quanto avveniva: fermarsi a quello avrebbe significato<br />

restare nell’ambito della catalogazione o, al massimo, della storia del teatro. Non mi<br />

risultava che né l’uno né l’altro fossero il mio mestiere (o presunto tale, al momento!).<br />

Nell’ascoltare la questione degli archivi che in parte non ci sono ancora e<br />

dell’abitudine che ogni organizzazione teatrale dovrebbe avere di mantenere quanto più<br />

possibile la propria memoria, mi venivano sempre in mente gli amici del teatro di<br />

Udine; in uno dei primi incontri che feci con Paolo, ancora durante la mia tesi di laurea,<br />

ricordo che mi portò nel loro archivio. Era una stamberga, all’interno del giardino<br />

posteriore della sede di via Crispi, con una porta parzialmente sfondata e con una<br />

enorme quantità di materiale accatastato, stoccato, come in un magazzino.<br />

In fondo, esasperando un po’ il suo pensiero, i problemi di una organizzazione<br />

artistica molto attiva sono legati, come diceva Planchon (come facevano i miei amici in<br />

Italia), alla logica di …continuare a funzionare meglio che si riesce!<br />

Finché sono tutti vivi e vegeti non c’è motivo di spendere preziosi quattrini e molto<br />

tempo, per un lavoro scritto o sotto forma di immagini, sulla memoria. In quella fase di<br />

caotico funzionamento e di disperata sopravvivenza la memoria delle persone è il<br />

migliore posto dove le esperienze del passato possono restare stoccate a lungo. A<br />

lungo… ma non per sempre!<br />

Avignone, 11 luglio 2006<br />

***<br />

Ore 11,00 – Maison Jean Vilar.<br />

In mattina, alla Maison Vilar, vissi in prima persona cosa significhi davvero avere<br />

memoria di una organizzazione, di una avventura, di una storia, e cosa comporti cercare<br />

di mantenerla e, per quanto possibile, gestirla per valorizzare il presente e il futuro<br />

attraverso la conoscenza del passato.<br />

373


Quella mattina, infatti, alcuni protagonisti del primo Festival di Avignone, del<br />

Festival del 1947 (sic!), furono invitati ad uno degli incontri programmati dalla Maison<br />

Vilar.<br />

Nel programma si leggeva: «Nous étions au premier festival en 1947» (Noi eravamo<br />

al primo festival nel 1947), di Paul-Louis Mignon, presidente della Società di storia del<br />

teatro, con Léone Nogarède, Jean-Pierre Jorris, Jean Leuvrais. In occasione del<br />

sessantesimo Festival, come non ritornare alle sue orgini e alle condizioni eroiche della<br />

sua nascita? Leggendario, il Festival? Primo di tutto una avventura umana, molto<br />

umana, piena di gioia, di emozioni e di furore che i nostri invitati, animati da una<br />

fiamma sempre giovane, non mancheranno di trasmetterci. Altri testimoni tra di noi:<br />

Sonia Debeauvais, Philippe Avron…».<br />

Fin da subito, anche se non li conoscevo o non li riconoscevo, pur avendone visto le<br />

foto, aver letto di loro e, in alcuni casi, visto delle immagini video, erano<br />

riconoscibilissimi rispetto alle altre persone intervenute nel cortile della Maison Jean<br />

Vilar: era palpabile l’emozione che loro provavano nel trovarsi in molti, riuniti nello<br />

stesso luogo, a celebrare gli antichi fasti, a rendere preziosi ricordi lontani che, chissà<br />

quante volte, avevano tirato fuori dai cassetti della memoria.<br />

Non si trattava di vecchi e arzilli pensionati, portati qui a forza da parenti, amici e<br />

responsabili dell’incontro! Pur avendo tutti almeno ottanta anni, sapevano di far parte di<br />

una storia che non era solo la loro, ma che fu anche quella di tanta altra gente che con<br />

loro, e ammirando loro, vissero avventure lontane. Non vi era tristezza nei loro<br />

comportamenti e nei loro visi ma sicuramente emozione forte, specie in alcuni di loro;<br />

non vi era la banale nostalgia dei tempi che non torneranno più, quella, a volte, cocciuta<br />

presunzione, praticamente inamovibile convinzione che il passato (il loro) fosse stato<br />

senz’altro meglio del presente. Erano e sono artisti, vivono il presente così come il<br />

teatro ha insegnato loro, secondo l’idea stessa e la logica dell’effimero.<br />

Sarebbe eccessivo un comportamento troppo conservatore per questa gente. Loro<br />

sanno bene che non si può vivere il presente fotocopiando il passato.<br />

Ad ogni modo non mancavano di difendere quello che hanno contribuito a creare, il<br />

modo in cui lo aveva fatto, rigorosi interpreti del ruolo che oggi (e da sempre) sanno di<br />

dover interpretare: quello di testimoni attivi, partecipanti, di eventi unici.<br />

Perché non si può vivere al meglio senza passato.<br />

Una memoria che altre persone, istituzioni, intere organizzazioni hanno il dovere e il<br />

compito di preservare dal tempo in quanto quelle persone, loro, si portano appresso un<br />

sapere che ha il dovere di essere in qualche modo sedimentato in una forma fisica meno<br />

instabile e sottoposta ad inevitabile logorio. Ma come farlo?<br />

C’era in ciascuno di loro, sia sul piccolo palco predisposto nella corte interna<br />

dell’Hôtel de Crochans, sia tra i loro amici in platea, una sottile, timida riservatezza nel<br />

loro modo di essere che quasi subito scomparve una volta alzato il sipario, sicuri di<br />

conoscere alla perfezione una parte che essi stessi avevano contribuito a scriversi. Ma<br />

faceva comunque effetto la dignitosa fatica con cui alcuni salirono i pochi gradini che<br />

portavano al palchetto nella corte della Maison Vilar.<br />

Ecco che la memoria non ha la forma classica di stoccaggio di uno schedario più o<br />

meno guasto, con tanti cassetti e qualche lettera mangiata dall’umido del tempo che ne<br />

riprende un indice in evoluzione continua, ma sempre più lenta col trascorrere degli<br />

anni. Per alcuni di loro, magari dopo qualche istante, bastava un dettaglio per attivare un<br />

ricordo inizialmente solo in parte offuscato, una cosa che ad una persona normale può<br />

risultare apparentemente insignificante ma che nella loro mente opera come un<br />

374


attivatore neurale: il nome di una persona; una azione prima compiuta dietro le quinte; il<br />

particolare di una illuminazione o di un costume di scena; una parola o una frase<br />

apparentemente banale ma che riecheggia in modo diverso in quanto, all’epoca, usata da<br />

Vilar durante una prova…<br />

Quanto sano orgoglio nelle loro parole, nel loro modo di porsi e di precisare alcune<br />

questioni che altri invece semplificavano o su cui sorvolavano, considerandoli dettagli<br />

di poco conto. Per loro i dettagli sono importanti tanto quanto il fatto di essere ancora lì<br />

a raccontarli.<br />

E’ ai dettagli che si aggrappano per mantenere la loro memoria, per continuare a dare<br />

un senso alla loro esistenza.<br />

***<br />

Nella mia esperienza avignonese, quindi, avevo avuto modo di vedere cosa<br />

significasse davvero propagare una “memoria cognitiva” che utilizzasse<br />

contemporaneamente mediatori strutture, forme, flussi e relazioni differenti per svolgere<br />

al meglio il proprio compito.<br />

La “Maison Jean Vilar” (MJV) non è, quindi, un archivio storico, un archivio<br />

organizzativo, come ve ne possono essere molti. Non è neppure un archivio divenuto<br />

“museo aziendale”; o quanto meno non è un “museo” nel senso più arcaico che<br />

generalmente si può dare ad un luogo antico che conserva la memoria di qualcosa.<br />

Jacques Téphany, da tempo parte integrante della “famiglia” della MJV, fu nominato<br />

suo direttore proprio dopo l’edizione del Festival del 2003. In questi termini egli espose<br />

i suoi programmi per lo sviluppo futuro della MJV, in una intervista realizzata per il n°<br />

89 de “Les Cahiers de la MJV”.<br />

«Evocando il sabotaggio, l’assassinio o il suicidio – si può scegliere – dell’edizione<br />

del 2003 del Festival di Avignone, il presidente Roland Monod, nel suo ultimo<br />

editoriale [dei Cahiers de la MJV], “La Diète d’Avignone”, ha valutato che vi sia stata<br />

una pausa “per ragioni di salute”. Quale è lo stato di salute, oggi della MJV?»<br />

«Diciamo che attraversa una crisi tardiva di crescita e di emancipazione», rispose<br />

Jacques, «Nutrito da una passione per il fondatore del Festival, Paul Puaux ha<br />

immaginato e animato questa Maison nella fedeltà allo spirito di Jean Vilar. La sua<br />

scomparsa cinque anni fa ha creato un vuoto enorme […]. Ci manca molto, ma,<br />

qualunque cosa facciamo, il tempo passa, il paesaggio cambia, c’est la vie même!<br />

Dunque, onore a Melly Puaux per aver continuato ad alimentare la fiamma. La forza,<br />

oggi, è ripartire con un nuovo passo».<br />

«Dal 2000 è stato incaricato di una missione di studio per riflettere sull’avvenire<br />

della MJV. Quali sono state le conclusioni?»<br />

«Il presidente Francio Raison auspicava di ricevere il cambio. Pensava fosse<br />

necessario di lasciare una base fondativi per il futuro. Quale membro fondatore della<br />

Maison, la conosco abbastanza bene. Allora ho lasciato il Consiglio di amministrazione<br />

per condurre questa ricerca esplorativa, in una Maison ancora impregnata del doglio per<br />

Paul Puaux… Mi sono sforzato di aprire delle piste di lavoro, di fare uno “stato<br />

dell’arte” del Festival, di potare uno sguardo critico sul mandato dei direttori che si sono<br />

succeduti dalla scomparsa di Vilar. Avevo proposto di intitolare questa prospettiva:<br />

Paul, Bernard, Alain et les autres… Vale a dire, Puaux, Faivre d’Arcier e Crombecque.<br />

375


C’era così, praticamente fatto, il filo conduttore dell’esposizione del 2003, Avignon, un<br />

rêve que nous faison tous.<br />

Il mancato rinnovo del mandato di Bernard Faivre d’Arcier alla direzione del<br />

Festival ridesterà la pertinenza dell’idea. La sua proposta di coprodurre l’esposizione<br />

rese possibile la realizzazione nel 2003 di una mostra solo intravista e pensata dal 2000.<br />

Un solo rammarico: non averla potuto presentare prima. Forse, avrebbe permesso a<br />

molti (artisti, politici, pubblico…) di cogliere l’originalità del Festival e di evitare il<br />

fallimento della scorsa estate. Infatti, essa proponeva al visitatore molte informazioni e<br />

ricordi per meglio comprendere la crisi dell’azione culturale.<br />

Seconda conclusione di quella missione di ricerca: bisognava modernizzare la<br />

gestione dell’Associazione. Si imponeva un rinnovamento, a livello statutario e<br />

professionale. Fu effettuato il cambiamento di presidente: Roland Monod anima<br />

l’Associazione Jean Vilar con attaccamento, affezione. Sotto il suo impulso, il consiglio<br />

di amministrazione e gli uffici operativi lavorano assiduamente. Oggi, una direzione<br />

permanente professionale e remunerata è finalmente divenuta una realtà (Paul Puaux era<br />

pensionato, letteralmente faceva del volontariato). In questa prospettiva, la missione<br />

sollecitava il ministero della cultura […] un aumento progressivo della sovvenzione fino<br />

a due milioni e mezzo di franchi, cosa che fu accettata. L’obiettivo proposto nel 2000<br />

sarà raggiunto nel 2004, con il rispetto, da parte di Jean-Jacques Aillagon dell’impegno<br />

preso dal suo predecessore. Anche simbolicamente era indispensabile che il ministero<br />

tendesse alla parità di intervento rispetto alla Città che ci mette a disposizione uno<br />

splendido edificio, l’Hôtel de Crochans, e cinque agenti territoriali. Questo sforzo è<br />

molto importante e va sottolineato».<br />

«Questo aumento dei mezzi le permette di sviluppare nuove attività?».<br />

«L’aumento del contributo dello Stato è stato, per così dire, interamente impegnato al<br />

rilancio artistico. Accanto alla responsabilità dei progetti che mi sono stato affidati nel<br />

2003, abbiamo potuto arricchire la linea editoriale dei Cahiers de la MJV concepiti<br />

come una tribuna sempre aperta all’insieme delle nostre competenze, progettare<br />

l’esposizione Avignon, un rêve que nous faison tous con il concorso di collaborazioni<br />

esterne, creare un sito internet e, arrivando problematiche operative odierne, procedere<br />

ad urgenti ristrutturazioni nelle zone di accoglienza del pubblico, ecc.».<br />

«Conosciamo la formula di Paul Puax dopo la scomparsa di Jean Vilar, nel 1971:<br />

“On ne succède pas à Jean Vilar”. Come intende succedere a Paul Puaux?».<br />

«Non si succede a Paul Puaux! Ma se mi è permessa una sottolineatura, per otto anni<br />

Paul Puaux ha ben diretto il Festival di Avignone e ha ben lavorato alla successione di<br />

Jean Vilar…<br />

Il capitolo che gli è dedicato nell’esposizione dell’anno scorso è il primo resoconto<br />

della sua esperienza alla testa del Festival. Lui che non voleva avere la guida – non<br />

voleva essere che l’uomo di Jean Vilar – ha saputo, attorniato da un gruppo, rinnovare il<br />

Festival. Le stagioni 1978 e 1979 che coroneranno il suo “pontificato”, per esempio,<br />

sono tanto memorabili quanto alcune grandi estati di Vilar. Mi viene in mente Godot,<br />

del Cercle de craie, senza dimenticare le apparizioni precedenti di Merce Cunningham<br />

o di Bob Wilson che non facevano propriamente parte del suo universo personale. Paul<br />

Puaux si è così ostinato ad illustrare il teatro generato dal movimento della<br />

decentralizzazione drammatica…<br />

Per quanto riguarda la MJV, la sua opera maggiore, la mia convinzione è che non si<br />

può morire al timone della nave. Paul Puaux è rimasto fino a quando le forze lo<br />

sostennero, lasciando che si confondessero la persona del fondatore con quella<br />

376


dell’istituzione. Da cui la difficoltà, dopo la sua scomparsa, di dare a questa Maison una<br />

identità che le sia propria, e di considerarla come uno strumento contemporaneo.<br />

Grazie alla Città di Avignone, grazie al ministero della Cultura, grazie al sostegno<br />

del Consiglio generale della Regione, potremo, nei tra anni a venire, aprire il cerchio<br />

delle competenze all’interno della Maison.<br />

E così dobbiamo anche trarre maggiore giovamento dalla presenza, in seno alla<br />

Maison, della Biblioteca nazionale di Francia, e appoggiarci alle sue collezioni. Non si<br />

tratta di riprodurre in piccolo, qui ad Avignone, ciò che la BnF fa in grande a Parigi.<br />

Tutto l’interesse del matrimonio tra la BnF e l’associazione Jean Vilar risiede nella<br />

nostra capacità di concepire e realizzare dei progetti leggeri e poco dispendiosi».<br />

«Questa ambizione è conforme con la missione della Maison: al di là della<br />

conservazione e della promozione del patrimonio di Jean Vilar, sforzarsi di alimentare il<br />

dibattito culturale e teatrale».<br />

«E’ la lettera dello statuto. Ciò che è esemplare in Vilar, è che l’uomo si è sempre<br />

rimesso in gioco e non ha mai cessato di allargare le sue prospettive. Il contrario della<br />

sclerosi! Quale esempio per tanti altri! Come ha saputo, senza fermarsi, capire che<br />

doveva passare la mano! A Georges Wilson, evidentemente, per il TNP, a Maurice<br />

Béjart, quando comprese il ruolo che la danza andava occupando nelle arti dello<br />

spettacolo, a Lucine Attoun per affidargli la cura del repertorio contemporaneo, a<br />

Bernard Tournois, per portare ad Avignone delle esperienze televisive in tempi non<br />

sospetti… Non aspirava a dei saggi, a delle prove ermetiche ma ad un allargamento a<br />

quante più persone possibile della conoscenza e del piacere del conoscere. L’intuizione<br />

di Vilar, l’anticipazione era sempre appassionante, ivi compresa e forse soprattutto nelle<br />

contraddizioni: secondo le sue stesse parole, apprendista stregone, Vilar fu il primo ad<br />

essere preoccupato della forza delle cose che avevano condotto, non senza ragione, i<br />

“sessantottini” a qualificare Avignone come il supermercato della cultura. Ma ogni<br />

epoca reclamerebbe un mercato come questo in cui Vilar coltivava l’utopia di un luogo<br />

di festa e di riflessione dove si parlava da pari a pari, preparando le lotte dell’autunno,<br />

l’utopia di un laboratorio della dimensione di una città dove tutta una generazione aveva<br />

conosciuto la felicità attraverso il teatro?<br />

Noi dobbiamo riposizionare la MJV al centro di questi dibattiti. E’ in questa logica<br />

che i Cahiers si sforzeranno di allargare la loro linea editoriale al di là del mondo<br />

strettamente teatrale e dello spettacolo dal vivo. Le ultime uscite hanno dato priorità alla<br />

parola degli artisti e dei responsabili culturali; perché non aprirli, a seconda delle<br />

occasioni, agli storici, ai sociologi, ai filosofi…, in complementarietà con i dossier<br />

propri delle nostre esposizioni?<br />

Anche il sito internet risponde a questa preoccupazione, è certo che Jean Vilar si<br />

sarebbe interessato alle nuove tecnologie, e in particolare a internet, tanto era avido di<br />

tutto ciò rendesse possibile la condivisione. La tela costituisce sempre il mezzo<br />

privilegiato per far conoscere e brillare il pensiero e l’opera di Vilar. Ora esiste anche il<br />

quadro. Negli anni che arriveranno, in collaborazione con la Biblioteca nazionale di<br />

Francia, l’associazione intraprenderà la strada delle “diffusione” dei suoi fondi<br />

mettendoli in rete. Il sito già offre dei collegamenti multipli con il Festival di Avignone,<br />

con gli altri centri di ricerca specializzati e, naturalmente, con il nostro partner<br />

essenziale, la BnF. Più che una finestra, la MJV ha la vocazione ad essere una casa del<br />

dialogo».<br />

«Il legame con il ministero della Cultura è storico ed essenziale. Intende lavorare in<br />

futuro anche con il ministero dell’Educazione nazionale?».<br />

377


«Localmente, i legami con l’università sono già numerosi e fertili. Lavoriamo in<br />

particolare con l’Unità di ricerca teatrale e il gruppo di ricerca di Sociologia di<br />

Avignone. E’ nostra abitudine sviluppare collaborazioni con le università della regione,<br />

voltarci verso Aix e Marsiglia e, naturalmente, offrire una vetrina utile alle università e<br />

ai ricercatori del mondo intero.<br />

[…] da più di venticinque anni è stato fatto un enorme lavoro di prossimità e<br />

possiamo alimentare nuove ambizioni proprio perché la MJV mette in gioco un capitale<br />

di affezione e attaccamento inestimabile! Le stesse collezioni di Vilar, che costituiscono<br />

evidentemente il nostro tesoro, sono presentate quasi quotidianamente ad un gran<br />

numero di studenti, condotti qui da insegnanti che sono dei veri militanti del teatro<br />

popolare! L’avventura teatrale più significativa della seconda metà del XX secolo è<br />

concentrata qui: il TNP di Jean Vilar e il Festival di Avignone, archivi, foto, manifesti,<br />

programmi, decori, costumi… A tutto ciò si aggiungono una biblioteca di 25.000 opere<br />

e una videoteca con più di 1.100 titoli».<br />

«In cosa la Maison è più di un centro di conservazione?»<br />

«Faccio parte organicamente di una rete che riunisce il Centro nazionale del teatro,<br />

quello della danza, Hors-les-murs, e della Maison Antoine Vitez… Eppure, non posso<br />

fare a meno di pensare che qui, come altrove, si tratta soprattutto di una questione di<br />

legittimazione. La MJV non è solo un centro di risorse ma anche un centro di ritorno. E’<br />

animata da una dimensione etica che obbliga ad accostarsi ad essa con un certo spirito.<br />

Bisogna restare sensibili a ciò che raccontato coloro che hanno frequentato Vilar:<br />

secondo loro, quest’uomo di taglia media incuteva rispetto e soggezione nei suoi partner<br />

e nei suoi interlocutori. Questo senso dell’onore, lo si accosta a Jean Vilar,<br />

naturalmente, ma anche alla figura spesso ispirata, nella sua semplicità, di Paul Puaux.<br />

Siamo tenuto ad una coerenza storica, ad una esigenza morale di servizio pubblico. Si<br />

dice che ciò che ha permesso al popolo di amare Victor Hugo era quel suo mischiare<br />

familiarità e distinzione. L’espressione dipinge perfettamente Vilar, Puaux, e chiarisce,<br />

ai miei occhi, la nozione stessa di teatro popolare».<br />

«La riflessione sul senso e il valore culturale del Festival è essenzialmente vilariana.<br />

Questa preoccupazione è andata sparendo nel corso degli anni?».<br />

«Bernard Faivre d’Arcier spiega molto bene, nell’intervista pubblicata sui Cahiers<br />

(n° speciale 87, del luglio 2003), che l’obbligazione di rispettare una coerenza<br />

programmatica con delle tematiche sociali, politiche e culturali lo ha spesso<br />

imbarazzato. Egli avrebbe auspicato di avere la libertà di lavorare a suo piacimento<br />

piuttosto che avere delle obbligazioni storiche. Il Festival d’Automne, per esempio, non<br />

è costretto a questa coerenza. Ma il Festival di Avignone non è né il Festival d’Automne<br />

né quello di Nancy. La specificità di Avignone non è quella di cristallizzare uno stato di<br />

coscienza e di creazione di cui si rende conto ogni estate secondo l’obbligo democratico<br />

e repubblicano del servizio pubblico?».<br />

«Bisogna dedurne che il Festival di Avignone è essenzialmente politico? Senza<br />

evocare il forum socialista […], constatiamo che la rivendicazione o l’ambizione<br />

“cittadina”, come si dice oggi, non ha cessato di amplificarsi».<br />

«Preferisco l’aggettivo civico a cittadino. Più umile, meno “porta-bandiera”. Sulla<br />

scorta di Vilar, tutti i direttori si sono sentiti tenuti ad un obbligo di coscienza. Ma non è<br />

per questa ragione che hanno fatto del teatro sociale. Il Festival di Avignone è prima di<br />

tutto un festival d’artisti e quindi di creazione. Nel 1958, in piena crisi costituzionale (e<br />

Vilar è senza alcuni dubbio uno dei più accaniti contro le condizioni che hanno portato<br />

al potere il generale de Gaulle e l’instaurazione della V Repubblica), si recita Les<br />

378


Caprices di Marinane che non sono propriamente un modello di letteratura politica! Ma<br />

il progetto resta tenuto assieme da una troupe impregnata di spirito civico e di<br />

responsabilità pubblica – a cominciare dall’aspettativa di essere meritatamente pagati<br />

con del denaro pubblico. Non bisogna mai perdere di vista il fatto che con Vilar si tratta<br />

sempre meno di stile piuttosto che di morale. “Notevole programma” per i tempi che<br />

corrono…».<br />

«Resta il fatto che Avignone è diventato un ricevimento politico-culturale che<br />

riunisce tutta la professione e numerose istituzioni. Ed è anche “l’agguanto, il tranello”<br />

a cui il ministro non può sottrarsi, in cui è atteso ogni anno…».<br />

«A partire dal 1981, la presidenza di François Mitterand ha posto la cultura al centro<br />

del discorso politico. I re entrano sacri a Reims; per sacralizzare la cultura, Mitterrand<br />

ha scelto Avignone in quanto culla delle origini. Questo lascia una tratta per molti<br />

anni».<br />

«Dice di rammaricarsi del fatto che Avignone sia diventata un mercato piuttosto che<br />

la manifestazione di una contro-cultura… Come la MJV può sperare di distinguersi?<br />

Proponendo anch’essa degli incontri e dei dibattiti?».<br />

«Ogni estate Avignone crolla sotto i dibattiti, i colloqui e i forum! E in effetti si tratta<br />

proprio di distinguersi, di parlare distintamente. Come farlo? Senza dubbio, prima di<br />

tutto, ritrovando una forma di umiltà magistrale che costituiva il marchio di fabbrica di<br />

Paul Puaux. […] Bisogna poter ritrovare dei maestri, delle autorità intellettuali,<br />

artistiche, politiche… per sfuggire ai dibattiti in tutte le direzioni in cui nessuno si<br />

riconosce e si basano sul proprio “io-me” senza alcuna attenzione all’altro».<br />

«[…] Non si trovano nel mondo teatrale di oggi molti spiriti che hanno la levatura di<br />

Vilar o di Vitez; meno ancora nella politica si trovano persone capaci di fare riflessioni<br />

come quelle di Ralite o di Lang…».<br />

«La Maison può essere un interruttore. Può offrire a delle personalità artistiche o<br />

intellettuale un quadro per condurre una riflessione. Non abbiamo bisogno di vedette o<br />

di mostri sacri per i dibattiti televisivi. Auspichiamo di riunire dei veri contributi,<br />

discutibili, discussi, ma riflessivi […]».<br />

«Quale posto può ancora occupare il teatro nella vita cultural del nostro paese?».<br />

«Come non si può essere colpiti dall’infatuazione del pubblico popolare per il teatro<br />

di strada? C’è un mutamento straordinario. Molti giovani animatori vedono nei centri<br />

drammatici dei luoghi chiusi ai quali la popolazione, nella sua maggioranza, non ha<br />

accesso. Il teatro di strada ha aperto una breccia significativa. I centri drammatici e tutte<br />

le forme “istituzionali” hanno le spalle al muro e gli avvenimenti del 2003 sono senza<br />

dubbio l’espressione di questa crisi, al di là delle rivendicazioni corporative. L’elitario<br />

per tutti di Antoine Vitez, dal sapore vilariano, è un incantesimo? La gente del teatro di<br />

strada hanno risolto il problema: loro sono toccati nel più gran numero possibile! Ma,<br />

dilemma: il pubblico è contento credendo che sia gratuito. Illusione, naturalmente,<br />

poiché gli spettacoli cono pagati dalle collettività locali! I consiglieri comunali offrono<br />

del pane e degli occhi, si tratta di un comportamento di comodo, dell’intrattenimento<br />

della clientela… […]».<br />

«La nomina di Vincent Baudrillier e di Hortence Archambault rinnoverà la<br />

collaborazione tra la MJV e il Festival?».<br />

«Sono due animatori molto attenti, li si sente disponibili e nutrono per la Maison un<br />

affetto vero. La MJV deve fare conoscere la memoria fresca a vitale del Festival:<br />

dobbiamo interessarci alle giovani generazioni e, come dice Argon, ricordarci<br />

dell’avvenire».<br />

379


Nello stesso numero dei Cahiers del MJV, comparve un’intervista a M.me Marie-<br />

Calude Billard, conservatore in capo dell’antenna avignonese della Biblioteca nazionale<br />

di Francia.<br />

«Può ricordarci in quali circostanza la Biblioteca nazionale si è installata a Avignone<br />

nel 1979?».<br />

«Il Dipartimento di Arti dello spettacolo è un dipartimento tematico dedicato alla<br />

rappresentazione teatrale nella sua globalità. E’ l’ultimo nato dei dipartimenti<br />

specializzati dell’attuale BnF, creato nel 1976, a partire dalle importanti collezioni<br />

teatrali messe assieme attorno alla donazione effettuata dal collezionista e bibliofilo<br />

Auguste Rondel. I direttori dell’epoca, André Veinstein e Cucile Giteau, hanno visto iin<br />

quel luogo privilegiato del teatro che è Avignone, la possibilità di prolungare la loro<br />

azione in favore della memoria dello spettacolo facendola vivere proprio in prossimità<br />

del Festival. Il sostegno logistico della municipalità, la presentazione di esposizione<br />

durante l’estate ad un pubblico largo ma mirato, l’apporto delle collezioni della MJV e<br />

lo sviluppo di una biblioteca, tutto ciò formava un contesto interessante. L’esposizione<br />

Lorenzaccio all’apertura della Maison nell’estate del 1979 fu prodotta dall’allora BN,<br />

che contribuì molto al funzionamento quotidiano e alla produzione delle manifestazioni<br />

dei primi anni. In seguito, i ruoli si ripartirono. Oggi, le collezioni parigine sono<br />

regolarmente messe a disposizione per le esposizioni. La videoteca, concepita nell’anno<br />

del patrimonio, nel 1980, è gestita dall’associazione. La biblioteca è di pertinenza del<br />

Dipartimento delle Arti dello spettacolo e sviluppa delle attività di documentazione e di<br />

archiviazione».<br />

«Possiamo parlare di decentramento?».<br />

«Siamo una antenna regionale trapiantata attraverso mezzi finanziari e risorse umane<br />

del Dipartimento delle Arti e dello spettacolo. L’equivalente di 5 posti a budget sono<br />

impegnati alla MJV, e rappresentano uno sforzo apprezzabile se si considera gli effettivi<br />

globali del Dipartimento. Non ci sono dei trasferimenti di competenze ma le gli<br />

incarichi della BnF sono messi al servizio delle istanze regionali: costituzione delle<br />

collezioni e messa a disposizione del pubblico senza condizionamenti e limitazioni di<br />

accesso. Vengono qui da Aix, Marsiglia, Montpellier, Nîmes, Valente e a volte Nizza e<br />

Tolosa!».<br />

«Quali sono le differenze tra il Dipartimenti di Parigi (per il quale si parla di un<br />

trasferimento dall’Arsenale alla sede-Richelieu, per raggiungere gli altri dipartimenti<br />

specializzati della BnF) e la MJV?»<br />

«Noi agiamo in termini di complementarietà con un’offerta di 25000 opere (studi e<br />

tesi teatrali) e una cinquantina di riviste in corso, che coprono la materia delle<br />

spettacolo, ma anche l’economia e la decentralizzazione culturali. Una parte del fondo è<br />

ad accesso libero e l’insieme delle collezioni è consultabile sul luogo. I libri entrati<br />

successivamente al 2000 appaiono nel catalogo in linea del sito internet della BnF.<br />

[…] L’originalità del lavoro realizzato dal gruppo di Avignone concerne il Festival<br />

(in e off) con il quale collaboriamo dall’apertura della Maison. Cataloghiamo i<br />

manifesti, i programmi, le locandine delle compagnie e assicuriamo la rassegna stampa<br />

quotidiana. In partnership con il Festival ufficiale, elaboriamo dei dossier si spettacolo a<br />

partire dagli articoli della stampa nazionale e locale, acquistiamo foto, conserviamo i<br />

programmi degli spettacoli e i materiali diffusi dalle compagnie invitate. Questi<br />

documenti rappresentano un accrescimento continuo, di molti metri lineari di materiale,<br />

ogni anno. Dal 1999, sono integrati all’interno del catalogo delle Arti dello spettacolo,<br />

ugualmente consultabile dal sito della BnF. Abbiamo anche costituito una base dati su<br />

380


tutti gli spettacoli del Festival dalla sua origine. La nostra vocazione alla conservazione<br />

del patrimonio è molto operativa e riguarda tutto quanto si rapporti col Festival […]».<br />

«E al di là di Avignone?»<br />

«Siamo interessati alla memoria dello spettacolo su scala cittadina, di dipartimento e<br />

della regione, archiviando i documento secondo una classificazione geografica e sotto<br />

una classificazione per compagnia e luogo dello spettacolo. Regolarmente invitati a fare<br />

parte delle commissioni di aiuto alle compagnie regionali, vedo molti spettacoli e ricevo<br />

le loro informazioni. […] Conservare tutti gli archivi artistici delle creazioni in regione<br />

è un obiettivo realizzabile solo attraverso mezzi supplementari ed una estensione dei<br />

magazzini. Se gli spazi di presentazione al pubblico sono soddisfacenti, gli spazi di<br />

stoccaggio del secondo piano della Maison devono essere rivisti per accogliere in modo<br />

conveniente delle nuove collezioni».<br />

«La digitalizzazione dei documentanti non potrebbe essere una soluzione per festire<br />

gli spazi della biblioteca?».<br />

«Certo, una volta regolato il problema dei diritti morali e di durata della vita del<br />

supporto digitale […] anche se non tutto sarà possibile digitalizzare. Quanto alla BnF,<br />

se sviluppasse una politica di digitalizzazione, non dovrebbe comunque mancare alla<br />

sua vocazione di preservare le sue collezioni originali, sempre preferibili alle<br />

riproduzioni la momento di realizzare delle esposizioni».<br />

«La BnF dispone naturalmente dei propri mezzi di comunicazione. Che cosa vi<br />

aspettate dal sito internet della MJV, appena rinnovato?».<br />

«Noi potremo mettere in rete la base di dati sugli spettacoli del Festival, continuata<br />

fin dal 1999 dal gruppo di lavoro del Festival. E potremo anche valorizzare<br />

indicizzazione degli articoli apparsi nelle riviste di teatro che riceviamo. Attualmente, i<br />

cataloghi informatizzati della BnF non tengono conto di questo lavoro di<br />

documentazione molto prezioso per tutti gli studiosi e i ricercatori. E invece ora sarà a<br />

disposizione di chi consulterà il sito della Maison. Con il catalogo della videoteca e le<br />

principali ricchezze del Fondo Jean Vilar, avremo in linea degli strumenti perforanti per<br />

utilizzare al meglio le fonti della Maison».<br />

«Considerando l’investimento importante che rappresenta la MJV per i tre partner<br />

della convenzione che la costituiscono (Città, BnF, Associazione Jean Vilar), come<br />

caratterizzare l’azione comune in futuro?».<br />

«Sono possibili almeno due orientamenti differenti e, perché no, complementari,<br />

mettendo l’accento da una parte sull’arricchimento e la valorizzazione all’interno delle<br />

larghe collezioni della Maison, e dall’altro su un programma d’azione, di incontri e di<br />

riflessioni in materia culturale. Vilar, a suo tempo, ha fortemente alimentato il dibattito<br />

culturale e le collezioni costituite partendo dalle tracce della sua opera al TNP e al<br />

Fesitival sono già state valorizzate attraverso molte esposizioni e pubblicazioni. Ora è<br />

forse necessario stabilirne un inventario preciso, comunicabile a tutti.<br />

Per quanto riguarda la BnF e il Dipartimento della Arti dello spettacolo, il primo<br />

orientamento appare più conforme alla sua missione, ai suoi compiti. Lo sviluppo della<br />

memoria contemporanea del Festival di Avignone e delle memorie connesse passa non<br />

solo per l’archiviazione ma anche per il trattamento documentario che rende il loro<br />

contenuto accessibile e utilizzabile per differenti operazioni di valorizzazione che noi<br />

possiamo condurre in porto: pubblicazioni, mostre e semplicemente degli atelier rivolti<br />

alle scuole. Come a Parigi, le collezioni specializzate sono contigue ai fondi generali<br />

della biblioteca e della videoteca, le specificità degli uni si arricchisce della generalità<br />

degli altri.<br />

381


Nel futuro della BnF ad Avignone ci sono delle potenzialità che costituiscono, a mio<br />

avviso, una sfida per i prossimi anni, in quanto oggi ci troviamo ad un bivio. Ogni<br />

partner della MJV deve in effetti trovare nella concertazione la prospettiva di un<br />

rinnovamento soddisfacente della convezione trentenaria che arriverà a scadenza nel<br />

2007».<br />

Jan Fabre chez Jean Vilar!<br />

***<br />

Le storie del Festival di Avignone, i singoli episodi che possono essere riscoperti<br />

ripercorrendone gli eventi, sembrano essere intrecciati da una qualche forza superiore:<br />

sono talmente tante e varie le vicende da domandarsi se tutto ciò possa rispondere a<br />

realtà, o sia solo il frutto di un’abile regia, talmente folle o smisuratamente geniale,<br />

capace di creare tante situazioni tutte così drammaticamente teatrali.<br />

A voler testimoniare cosa significhi realmente per la MJV e per il Festival di<br />

Avignone fare i conti con la propria storia, mi venne in mente una singolare querelle<br />

relativa all’esposizione del 2005 dedicata al geniale e controverso artista fiammingo Jan<br />

Fabre, artista associato di quella 59^ edizione.<br />

Come scrisse Jacques Téphany nel numero speciale dei Cahiers dedicato all’evento<br />

«La casualità degli eventi ci ha curiosamente favoriti: la nostra mostra Avignon, un rêve<br />

que nous faisons tous ha avuto infatti, nel 2003, un rilievo particolare dovuto<br />

all’annullamento del Festival. Il suo prolungamento, Vilar connais pas, beneficiando del<br />

2004 dello slancio di simpatia generato dal nuovo Festival, ha confermato la pertinenza<br />

della sua proposta. Lungo il filo rosso di questa riuscita, noi pensavamo – e pensiamo<br />

ancora – di perseguire le nostra esplorazione di un Festival che resta un punto<br />

sintomatico della società francese dal 1947. Abbiamo cominciato una riflessione e una<br />

ricerca sulle pratiche culturali dei Francesi, in particolare con i giovani studenti in<br />

comunicazione culturale dell’università di Avignone, ma davanti l’ampiezza<br />

dell’impresa, ci è apparso che dovesse trovare un suo più corretto quadro nel 2006, anno<br />

del sessantesimo Festival di Avignone.<br />

E’ per questo che quando, nel dicembre scorso, Vincent Baudriller ci ha reso<br />

partecipi di una sua inquietudine di non trovare alcun luogo corrispondente al progetto<br />

espositivo consacrato all’opera plastica di Jan Fabre, gli abbiamo proposto che quella<br />

installazione si facesse tra le mura della MJV.<br />

Ben presto abbiamo compreso tutte le difficoltà della proposta, misurato il suo<br />

paradosso, considerati i rischi. Non erano l’arte e la persona di Jan Fabre in discussione,<br />

quanto piuttosto ciò che essi rappresentano dell’arte contemporanea, l’immagine che<br />

essi ne danno. Noi sapevamo che alcune delle persone più familiari della Maison<br />

avrebbero avuto delle reticenze su questo progetto: “Pas de ça chez Vilar!”. Ma<br />

“questo” cosa? Non avvicinarsi all’artista associate del Festival, non sarebbe come<br />

rinunciare ad una collaborazione ancora più produttiva visto l’apprezzamento tra le<br />

nostre due équipes, e rivelare così il nostro timore essere al centro dell’avvenimento?<br />

Dunque, coerenza.<br />

D’altra parte, da quanto tempo la MJV non ha messo la creazione artistica al centro<br />

della propria attività? Sena rinunciare ad essere ciò che è essenzialmente, un centro di<br />

fonti documentarie, di riflessione (e tornerà dunque a questi amori a partire del 2006!),<br />

la sua équipe si riunisce oggi a sostenere un dibattito attorno ad un artista considerevole<br />

382


e discusso. Un dibattito, quindi, al centro del quale l’opera di Jan Fabre ha il ruolo di<br />

una leva, di uno strumento e non di un fine. Una disputa senza dubbio attorno a delle<br />

imposture e delle aberrazioni ma anche a dei colpi di genio dell’arte contemporanea. Un<br />

invito, più che una provocazione, a incontrarci attorno ad un fenomeno di società dove<br />

si affrontano guardiano del tempio e perversità mercantili, sincerità artistica e<br />

“impiccagioni”.<br />

In breve, collocando l’opera di un artista come Jan Fabre al centro della Maison, noi<br />

possiamo sia scioccare che stupire positivamente, e aprire la riflessione comune sulle<br />

questioni pressanti di oggi attorno all’arte di essere contemporanei».<br />

In quello stesso numero speciale Sonia Debeauvais, collaboratrice di Jean Vilar e<br />

attuale vice presidente dell’Associazione, decise di prendere posizione al momento<br />

dell’avvio di quel progetto, nel dicembre del 2003. Successivamente le posizioni di<br />

Sonia Debeauvais furono via via più moderate, fermo restando che la sua interessante<br />

testimonianza costituì comunque un modo per affermare, ancora una volta, singolarità e<br />

problematicità della MJV.<br />

Questo scrisse M.me Debeauvais:<br />

«Carissimo Jacques,<br />

Mi pongo molte domande circa il progetto di esposizione consacrata al Jan Fabre.<br />

A dire il vero, ho creduto in un primo momento che questa mostra dovesse prendere<br />

posto nella hall della MJV, dando un seguito prolungando così il percorso che avevi –<br />

con ragione – iniziato attorno a Platonov e a Thomas Ostermeier. Quali che siano le mie<br />

prevenzioni a riguardo dell’artista associato dell’edizione 2005, questa forma di<br />

collaborazione con il Festival mi sembra fruttuosa non porta alcun attacco alla posizione<br />

specifica della Maison, così come percepita dal pubblico.<br />

Ma il progetto che sembra svilupparsi al momento con Jan Fabre mi appare molto<br />

chiaramente come di altra natura: facendone il soggetto della grande esposizione<br />

annuale della MJV noi ci schiereremmo sotto il gonfalone di un’altra famiglia di<br />

pensiero. Ci metteremmo a seguire una moda elitaria, che è contraria ai valori che noi<br />

difendiamo. Siamo – e io lo credo almeno – assolutamente d’accordo sui nostri<br />

obiettivi: trasmettere con gli strumenti che si sono propri ciò che è ha valore nel nostro<br />

patrimonio; aprirsi parallelamente al mondo contemporaneo e, quello che ai miei occhi<br />

e fondamentale, tentare di occupare un posto specifico e particolare nel mondo culturale<br />

in cui, attualmente, tutti i valori si mischiano in una gerarchia fabbricata dai media.<br />

Sono persuasa del fatto che siamo in grado di occupare questa posizione, anche se<br />

difficilmente. Grazie a te siamo sulla buona strada. Ma se inforchiamo lo snobismo<br />

regnante, perderemo su tutti i fronti. Il pubblico non ci capirà più nulla, gli amici della<br />

Maison resteranno confusi, la nostra identità si perderà nella nebbia.<br />

Dunque, sono assolutamente contraria al progetto di realizzare la nostra esposizione<br />

annuale attorno a Jan Fabre, ma d’accordo perché essa si tenga nella hall, attualmente<br />

ingrandita, durante il Festival.<br />

Tu mi risponderai che è facile adottare questo tipo di posizione quando non si<br />

vedono i problemi che da lontano (sottolineo che non ho detto “dall’alto”!). So bene che<br />

il tempo scorre veloce, che non siamo ricchi, che una coproduzione con il Festival di<br />

Avignone è di interesse per una sana gestione, aggiunta all’amicizia che ci lega<br />

all’équipe del Festival… Ma continuo a pensare fermamente che, per la prima volta, con<br />

Jan Fabre ci allontaneremo dalla nostra ragion d’essere.<br />

383


Tu troverai delle argomentazioni assolutamente giuste e esatte da oppormi. E farai<br />

probabilmente ciò che avrei deciso di fare. Ma era necessario almeno che ti scrivessi<br />

questa lettera, tutta d’un tratto e senza calcoli».<br />

Roland Monod intervenne nel dibattito in questi termini, sottolineando che: «Non so<br />

se un dio nel rinnovamento si manifesti in Jan Fabre e se questo rinnovamento possa<br />

rispondere alle mia intime attese. D’altronde, l’interrogazione non mi sembra tanto<br />

“perché Jan Fabre nella Corte d’onore?” quanto “perché non del teatro (di testo)?”. Il<br />

solo precedente: l’estate del 1968… La storia torna indietro o il teatro non sa più cosa<br />

dire, mentre si esauriscono le variazione sul come dirlo? Programmare uno spettacolo<br />

nella Corte d’onore è oggi come ieri una vera sfida per i direttori del Festival e per gli<br />

artisti. Vilar per primo, dal 1966, aveva previsto che il teatro era più del teatro. E aprì la<br />

Corte a Béjart. […] Vilar oggi farebbe appello a Jan Fabre? E cosa penserebbe di una<br />

esposizione dedicata all’opera plastica di questo creatore proteiforme nella Maison che<br />

porta il suo nome? Forse egli ricorderebbe che non ha fatto che lavorare con pittori, che<br />

certamente il più inflessibile nemico dell’arte è la moda, ma che una ricerca creatrice<br />

che si afferma da più di venti anni (come nel caso di Jan Fabre) affonda senza dubbio le<br />

sue radici più in profondità della moda e non rileva più del semplice snobismo. La<br />

trasgressione non è sempre provocazione. Certi giorni, bisogna osare di dire sì.<br />

L’Arte non ha per vocazione di suscitare uno spirito di consenso. “Non sono venuto<br />

per portare la pace ma la spada”. La spada che taglia e obbliga a scegliere da che parte<br />

stare. L’autorità è sempre strattonata tra la speranza di proclamare che il teatro<br />

contribuisce alla coesione di un sentimento che unisce e l’intuizione contraria che debba<br />

fare scoppiare le illusioni consensuali e letargiche».<br />

E conclude: «La MJV non è una fabbrica a gas nel regno delle istituzioni culturali.<br />

Non è né un museo né un luogo di creazione, è un legame tra un passato non così<br />

lontano in cui il teatro si faceva con e per il pubblico e un presente di dubbi e di<br />

intimidazioni in cui il teatro prende a prestito troppo spesso le regole del gioco al poker.<br />

Anche quella dello spettatore è una attività da preservare».<br />

Per inciso, la mostra su Jan Fabre ebbe un successo notevole; ancora una volta, da<br />

una piccola disputa, da un dibattito interno all’organizzazione, fu possibile dare senso<br />

alle esperienze che passano, rispondere cioè alla tragica questione di “cosa fare con<br />

quello che si sa”.<br />

384


XXIX<br />

(Epilogo. Struttura, forma e flussi di conoscenza al Festival di Avignone. Creare “fiction” per produrre<br />

conoscenza al Festival di Avignone: le strutture cognitive dello spettacolo teatrale)<br />

In cui, con l’idea di finzione teatrale, il lettore prende coscienza di come lo spettacolo<br />

sia un potente mediatore di conoscenza, attraverso cui è possibile fare “veramente”<br />

esperienza del mondo “reale” E in cui il lettore capisce cosa significa creare un<br />

programma artistico di un Festival, per «dire quello che pensa per sapere quello che è» <br />

«Il guerriero della bellezza / è qualcuno che si<br />

riconosce da lontano; / è un portatore di segni, /<br />

i segni naturali della sua forza / e del suo<br />

coraggio (atleta dell’emozione); / il suo corpo è<br />

il suo blasone».<br />

(Jan Fabre)<br />

«On sait pas ce qui provoque l’évocation d’une<br />

image, à quel moment l’image rude, concrète, se<br />

détache, puis croise d’autres images, d’autres<br />

charges, idées, pensées, matière, matériaux, et se<br />

transforme. Parfois ce sont des jeux de reflets et<br />

d’autres fois on ne sait pas. En tous cas, c’est lié<br />

à une sensibilité de l’œil qui emmagasine et trie,<br />

qui transmet au corps, à l’esprit. Et après, ça<br />

travaille…»<br />

(Josef Nadj)<br />

La nostra storia, il mio viaggio, proseguiva attraverso il “racconto” di quello che se<br />

forse non è il documento più importante, quasi certamente costituisce quello più atteso<br />

del Festival: il suo programma, la «bibbia» del Festival.<br />

In termini di contenuti, ripresi una vecchia riflessione: una programmazione teatrale<br />

poteva essere intesa come un particolare “testo estetico 1 ”, dotato di eventuali “paratesti”<br />

di accompagnamento 2 costituiti da tutte le altre conoscenze di cui ha bisogno per<br />

diventare conoscenza connettiva 3 , attraverso cui il “mondo possibile” costruito<br />

dall’organizzazione artistica entra in contatto con il “mondo possibile” degli spettatori 4 .<br />

In questa prospettiva, l’organizzazione della produzione, la gestione delle risorse<br />

umane, le strategie di marketing, la comunicazione fino alle logiche di gestione della<br />

brand image di una organizzazione artistica altro non fanno che alimentare il “discorso<br />

estetico” che restava l’istanza semiotica principale.<br />

Altrimenti detto, gli strumenti di management altro non erano che “motori semiotici”<br />

che (come un “paratesto”) accompagnavano e per certi versi completavano il contenuto<br />

del “testo estetico 5 ”, veicolando, con i propri “discorsi”, il linguaggio artistico di una<br />

1 Eco 1975 (N.d.A.).<br />

2 Genette 1972, 1982 (N.d.A.).<br />

3 A questo punto può essere superfluo per il lettore (sic!) il rinvio bibliografico. Ad ogni modo, a costo di<br />

essere ridondante: Rullani 2004a, 2004b (N.d.T.)<br />

4 Il lettore può fare riferimento, ancora una volta, al concetto di opera aperta di Umberto Eco (2004),<br />

trovandovi tutti i collegamenti che ritiene leciti con il concetto di conoscenza connettiva di Enzo Rullani<br />

(2004a, 2004b) (N.d.T.).<br />

5 In questa prospettiva, tanto a livello di codifica che di decodifica del messaggio (artistico), possono<br />

intervenire molteplici altri processi comunicativi e quelli veicolati, ad esempio, dal marketing e dai suoi<br />

strumenti sono uno di questi. Come il lettore avrà inteso, questi processi comunicativi altro non sono che<br />

385


comunità epistemica (quella dell’organizzazione, degli artisti coinvolti nella “stagione”<br />

teatrale e del pubblico) che tendeva a socializzare la “cultura” prodotta diventando il<br />

centro di una comunità semantica: si veniva a creare, cioè, una comunità non<br />

localizzata, che condivideva non solo il modo di produrre conoscenza (la sua struttura<br />

logica), ma si basava anche sullo sviluppo di una “sensibilità estetica” che agiva come<br />

mediatore riproduttivo; in questo modo si alimentava la propagazione di correnti<br />

artistiche, di forme di pensiero, di mode teatrali, di stili di vita e, da ultimo, di<br />

conoscenza applicabile, da parte dello spettatore, ai più vari contesti di utilizzo<br />

quotidiano 1 .<br />

Mutuando l’idea dagli studi di psicologia cognitivista e psicologia sociale, pensavo<br />

che attraverso linguaggi e pratiche, veicolando i meccanismi imitativi e di<br />

sovrapposizione cognitiva di tali esperienze artistiche 2 , le attività gestionali e<br />

organizzative potrebbero avere un compito determinante per ridurre le difficoltà della<br />

percezione legate a quella che Umberto Eco chiama «ambiguità estetica» costituita «da<br />

una deviazione sul piano dell’espressione [a cui] corrisponde una qualche alterazione<br />

sul piano del contenuto 3 ». Un testo estetico, infatti, era una struttura cognitiva<br />

complessa 4 , un «laboratorio di tutti gli aspetti della funzione segnica 5 ». Nell’ambito<br />

degli studi organizzativi, Karl Weick 6 mi suggeriva che tra i vari motivi per cui gli<br />

individui attivano processi di costruzione di senso (sensemaking) vi è anche la<br />

confusione da “eccesso di interpretazione”: anche nella generazione di un messaggio 7 ,<br />

non si trattava di un semplice problema di “ignoranza” dello spettatore (causa, invece,<br />

di incertezza) che si risolveva fornendo maggiori informazioni; ridurre la confusione<br />

(che generava “ambiguità estetica”) del messaggio “artistico” dell’organizzazione<br />

“artistica” attraverso il supporto dei discorsi di management (e i messaggi del marketing<br />

ne erano solo una componente) significava, invece, fornire allo spettatore informazioni<br />

di tipo diverso rispetto a quelle di cui già disponeva. Restava inteso che il “testo<br />

estetico” a cui facevo riferimento in quel caso non era dato semplicemente dal singolo<br />

spettacolo della stagione teatrale o della programmazione; così come non era facile<br />

approssimarlo all’intera stagione o ad un singolo cartellone (ad esempio, di prosa e di<br />

musica). Credo sia più attendibile e interessante fare riferimento ai possibili percorsi che<br />

ciascuno spettatore era in grado di generare all’interno della proposta culturale<br />

dell’organizzazione artistica.<br />

Tutto ciò potrebbe generare ulteriore complessità da gestire, specie a livello di scelte<br />

di management (e non solo di marketing e di comunicazione); ma nel caso della<br />

produzione artistica, «nella logica dell’interpretazione di un’opera aperta 8 », il ruolo del<br />

pubblico restava determinante nella personalizzazione del proprio consumo. E non<br />

tenere conto di questa proprietà costitutiva di ogni fenomeno estetico 9 mi sembrava<br />

altre conoscenze che si innestano del “motore cognitivo” prodotto dalla proposta di senso dell’insieme di<br />

spettacoli teatrali che confluiscono in una programmazione (N.d.T.).<br />

1<br />

Rullani 2004b, Crisci 2006a (N.d.A.).<br />

2<br />

Sono certo che il lettore troverà interessanti queste letture: Festinger 1957, Neisser 1976, Weick 1993,<br />

Rullani 2004 (N.d.T.).<br />

3<br />

Eco 1975: 330 (N.d.T.).<br />

4<br />

Rullani 2004b (N.d.T.).<br />

5<br />

Eco 1975: 329 (N.d.T.).<br />

6<br />

Weick 1995 (N.d.T.).<br />

7<br />

In generale, Eco 1975; per il teatro Elam 1981 (N.d.T.).<br />

8<br />

Eco 2004 (N.d.T.).<br />

9<br />

Goodman 1985; Genette 1998, 1999; Eco 2004 (N.d.T.).<br />

386


svilire l’essenza stessa di ogni prodotto culturale e sottovalutare, fino a deresponsabilizzare,<br />

il compito del management nelle organizzazioni artistiche.<br />

***<br />

In effetti, specie negli ultimi anni, il programma definitivo del Festival, quello che<br />

cominciava a girare fin da due o tre mesi prima dell’inizio della manifestazione, era un<br />

documento ricco, pieno di contenuti, che valeva quindi la pena di osservare con<br />

attenzione. In questa parte, darò conto al lettore, in modo particolare, delle edizioni del<br />

2004 e del 2006, sottolineando il ruolo degli artisti associati e l’impronta che essi<br />

lasciarono nella creazione dell’offerta del Festival. Dell’edizione del 2005, del suo<br />

programma, dei suoi artisti, del suo messaggio, mi riservo di ragionare in seguito.<br />

Posso rassicurare il lettore sul fatto che la scelta del periodo di riferimento non<br />

risultava arbitraria e riduttiva in quanto le tre edizioni costituivano un unico discorso<br />

estetico che vorrei ricostruire per lui. Desidero solo lasciargli degli ulteriori<br />

suggerimenti che vorrei egli tenesse in dovuta considerazione lungo le pagine a<br />

seguire 1 : i) «l’esperienza non è quello che succede all’uomo. E’ quello che l’uomo fa<br />

con quello che gli succede»; ii) inoltre, «non possiamo scoprire quello che non<br />

possiamo ottenere fino a che ci sforziamo di non provare»; iii) infine, «immaginate di<br />

fare un gioco di sciarade e di dover rappresentare il titolo di un film. Immaginate che il<br />

titolo del film che vi viene dato sia Sciarada. Cerchereste probabilmente di collocarvi in<br />

qualche modo “fuori” dal gioco e di indicarlo in modo che gli osservatori comprendano<br />

che la risposta è l’attività stessa in cui sono impegnati in quel momento. Ahimé,<br />

probabilmente gli osservatori non coglieranno questa sottigliezza e grideranno invece<br />

parole come “indicare”, “dito”, “eccitato”, “tutto questo”, e così via».<br />

L’essenza del programma di un festival, sia dal punto di vista del management<br />

dell’organizzazione che lo realizzava, sia da parte del pubblico (o di tutti i “pubblici”),<br />

era contenuta in quegli esempi. Vorrei quindi suggerire al lettore, sia esso interessato<br />

alla prospettiva del management o a quella del pubblico, di considerare un programma<br />

artistico semplicemente come «un’azione che prepara il campo all’attribuzione di<br />

significato 2 ».<br />

In generale, ogni anno il Festival proponeva un programma in gran parte costituito da<br />

nuove produzioni. Di fatto, vedremo come queste potevano essere divise in prime<br />

assolute, les “créations”, (spettacoli mai portati in scena o creati appositamente per il<br />

Festival), nuove messe in scena di testi contemporanei o già presenti nel repertorio del<br />

Festival stesso, oppure spettacoli creati all’estero (spesso in lingua originale) ma mai<br />

presentati prima in Francia.<br />

Si trattava dunque di spettacoli che la direzione artistica del Festival “prenotava” per<br />

lo specifico progetto di quell’anno e non di collezioni di spettacoli visti in precedenza<br />

ed invitati successivamente a far parte del programma di una determinata edizione. Nei<br />

sessanta anni di storia del Festival, ciò aveva permesso di mantenere inalterata l’idea di<br />

un Festival di “creazione”, in cui cioè la componente produttiva doveva restare<br />

1 Questi esempi non sono miei ma li ho tratti direttamente dal capitolo 6 di Weick 1993. Ringrazio ancora<br />

il prof. Weick per gli esempi straordinariamente evocativi che riesce a trasmettere: anche trascorrendo<br />

settimane sulla faccenda, difficilmente sarei riuscito a trovare immagini più efficaci (N.d.T.).<br />

2 Weick 1993: 207 (N.d.A.).<br />

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preponderante 1 . Dal programma del 1996 si leggeva una buona descrizione del processo<br />

che portava alla selezione degli spettacoli:<br />

«Le Festival est donc en majorité composé de spectacles qui ont été retenus, par la direction<br />

artistique, sur projet. Le Festival n’est donc pas la colletion de spectacles vus ailleurs et invités<br />

ensuite. C’est dir la part de risque pris chaque année, en étroite coopération avec les metteurs en<br />

scène et les chorègraphes. Il y a chaque soir au Festival, une, deux, trois, voire quatre “premières”<br />

ce qui justifie la curiosité de tant de critiques et de professionnels présents à Avignon. Le choix<br />

des spectacles est le résultat d’un long processus commencé 18 mois plus tôt, par l’étude de projets<br />

reçus par le Festival ou initiés par lui. […] Le Festival n’est pas une structure d’accueil et de<br />

répartition de spectacles existants, comme on le ferait pour l’allocation de stands dans une foire<br />

commerciale. C’est le résultat d’une sélection différente chaque année, comportant un ou des<br />

thèmes majeurs, mais toujours attentive à la qualité du projet en tant que tel (qu’il s’agisse du<br />

texte, des intentions de mise en scène, de la distribution, de la scènographie, etc.)<br />

Plusieurs centaines de projets sont reçus et examinés par la direction du Festival, dont les<br />

responsables s’efforcent, par de constant voyages en France et ailleurs, et les conseils de<br />

professionnels multiples, voire de correspondants à l’Étranger, de connaître les travaux antérieurs,<br />

en cours ou à venir, des metteurs en scène et chorégraphes» (il corsivo è mio).<br />

Nonostante fossero trascorsi diversi anni, il progetto artistico dei nuovi direttori del<br />

Festival, a partire dal 2004, e relativo ai quattro anni successivi, restava fortemente<br />

ancorato a quei principi espressi da Bernard Faivre d’Arcier nel 1996.<br />

Prima di aprire il programma del 2004, stampato su della bella carta lucida, con una<br />

impaginazione e dei colori molto eleganti, accattivanti, mi veniva in mente come le cose<br />

funzionavano al tempo di Jean Vilar. In quel caso la proposta artistica che il grande<br />

fondatore portava ad Avignone era il frutto del suo specifico percorso che realizzava<br />

direttamente sul posto, direttamente dentro la “sua” Corte d’onore. E così funzionò sia<br />

agli esordi sia durante il concomitante periodo di gestione del TNP e del Festival. Anzi,<br />

nonostante fosse così fortemente impegnato a Parigi, il progetto estetico di Vilar per<br />

Avignone restava sempre “specifico”, tagliato su misura.<br />

Le cose cambiarono solo con la fine dell’esperienza al TNP dal 1963, e ancor di più<br />

dal 1966: in quei casi anche Jean Vilar dovette fare i conti con la realizzazione di un<br />

progetto estetico che doveva basarsi su proposte artistiche non più direttamente “create”<br />

da lui. In quel momento, forse, il Festival di Avignone cominciò ad avere una<br />

“programmazione” così come la intendiamo oggi.<br />

Ad ogni modo, il progetto di Vincent Baudrillier e Hortence Archambault prese il via<br />

in quella particolare atmosfera del 2004.<br />

«Abbiamo sognato questo nuovo capitolo della storia del Festival come una grande<br />

festa della arti della scena. Allo stesso tempo, una stessa città, faremo incontrare degli<br />

universi artistici forti e singolari, ragionando gli con gli altri e attraverso i quali ognuno<br />

potrà disegnare il proprio percorso di spettatore.<br />

Ogni Festival verrà inventato con la complicità di un artista associato per tracciare<br />

con lui la mappa di un territorio artistico. Al di là delle proprie creazioni, sono le sue<br />

problematiche, le sue pratiche, i suoi entusiasmi ad ispirare liberamente l’insieme della<br />

programmazione. Quest’anno, a condividere questa avventura, abbiamo invitato il<br />

1 Abbiamo visto come questo a volte sia stato oggetto di discussione e di aspri dibattiti lungo la storia del<br />

Festival. In effetti, in alcuni momenti il Festival ha mantenuto forte questa sua identità, per così dire,<br />

storica così come l’aveva immaginata lo stesso Vilar. In altri momenti, per motivi che per lo più erano di<br />

ordine economico, ma spesso avevano anche dei risvolti in termini di scelte artistiche, il programma del<br />

Festival dava l’impressione di perdere questo suo connotato così importante della produzione nuova.<br />

388


egista berlinese Thomas Ostermeier, poi sarà il turno dell’artista fiammingo Jan Fabre<br />

nel 2005, del coreografo Josef Nadj nel 2006 e del regista Frédéric Fisbach nel 2007».<br />

Come ho anticipato, io mi riferirò a due dei primi tre “episodi” di questa “saga<br />

estetica”.<br />

Nell’editoriale del programma del 2004, i due direttori continuarono con la<br />

presentazione del primo artistica associato.<br />

«Thomas Ostermeier è una delle voci più originali del teatro tedesco e della scena<br />

contemporanea. Giovane erede della “vecchia Europa”, dà vita ad un teatro impegnato<br />

nella realtà sociale, civico e politico. Non cessa di visitare gli autori del suo tempo, di<br />

trasporre i grandi testi del passato nella nostra quotidianità e pratica, con i suoi attori, un<br />

teatro d’insieme, di troupe, con una energia e un senso della festa teatrale eccezionali. A<br />

partire dal suo universo e dalle nostre discussioni, senza forzare la mano, ma attraverso<br />

un gioco di corrispondenze, abbiamo realizzato la costellazione di artisti che compone<br />

questa edizione».<br />

E ancora: «Che parlino francese o tedesco, spagnolo o fiammingo, italiano o<br />

persiano, è nella lingua comune e sempre reinventata del teatro, della danza, della<br />

letteratura e della poesia, della musica e delle arti visive, che questi artisti interrogano il<br />

nostro rapporto con la nostra società, la nostra storia, il nostro tempo. Questo Festival,<br />

inventato nella complicità franco-tedesca, è per noi un segnale forte di una Europa<br />

culturale possibile, riconciliata, costruita sulla memoria della sua storia e capace di<br />

prevedere il futuro. […] La nostra ambizione è quindi di favorire questo incontro<br />

fondamentale tra l’opera e lo spettatore perché sia il più ricco e più emozionate<br />

possibile.<br />

Per fare ciò abbiamo invitato gli artisti, creatori, registi, a sognare la loro Avignone,<br />

incontrando la città e i suoi luoghi, le sue pietre e le sue luci. La ricchezza del loro<br />

universo ci incita a scoprirli. Così, attorno alle loro creazioni, proponiamo a volte<br />

differenti chiavi per entrare nella loro opera attraverso altri spettacoli, concerti, letture,<br />

film – appartenenti al loro repertorio o di artisti “complici” – delle esposizioni, dei<br />

dibattiti e degli incontri.<br />

«[…] Preoccupati come Thomas Ostermeier del divenire della nostra società, in un<br />

mondo in continuo convulso cambiamento, abbiamo auspicato che questa nuova<br />

edizione sia anche quella delle riflessioni e degli interrogativi condivisi, che il Festival<br />

di Avignone diventi un “teatro” delle idee in cui condurremo il public a dei dibattiti con<br />

gli attori e pensatori del nostro tempo<br />

[…] Vi invitiamo a percorrere liberamente questo 58° Festival attraverso tutte le sue<br />

forme, dagli spettacoli agli incontri, dalle undici di mattina all’una del giorno<br />

successivo, dal Palazzo dei papi al villaggio di Rasteau. A voi di trovare il vostro<br />

percorso, di far dialogare le opere, di condividere le vostre esperienze.<br />

Noi abbiamo sognato questo Festival, a voi di farlo vivere».<br />

Il fascino della proposta, forse più evidente ora rispetto al passato, ma anche ciò che<br />

apparentemente risultò più frustante per il pubblico (soprattutto per la critica e<br />

soprattutto per l’edizione successiva) erano legati ad un unico aspetto: «di fronte ad un<br />

discorso senza punteggiatura», apparentemente senza senso come il famoso Finnegans<br />

Wake di Joyce, lo spettatore poteva trovarsi di fronte «ad un flusso di esperienza [senza]<br />

nessuno attorno che gli dica quali sono le parti buone, quelle cattive, quelle interessanti<br />

e quali banalità. Tutte queste sono decisioni che comportano una focalizzazione 1 ».<br />

1 Weick 1993: 217 (N.d.A.).<br />

389


Quanto pronto era il pubblico “ordinario” del Festival di Avignone a mettere alla prova<br />

la sua capacità di “attenzione” e di “focalizzazione”? Gli spettatori sembrarono<br />

appassionarsi. La critica e restanti parti dell’opinione pubblica, forse, non riuscirono ad<br />

estrapolare «parte del discorso dal suo contesto» col risultato che «l’ambiente messo a<br />

fuoco per essere esaminato è un ambiente diverso da quello originale […] che era<br />

inserito in un testo». A quel punto, tutte le discussioni sulla forma del testo estetico,<br />

dalla lingua straniera o l’assenza di autori teatrali e di testi propriamente detti,<br />

l’abbondante presenza del linguaggio del corpo, costituivano estrapolazioni della realtà,<br />

processi di focalizzazione che invece di concentrarsi sul contenuto ponevano<br />

l’attenzione sulla sua riproduzione.<br />

Ma questa è una misera e scorretta anticipazione di altri fatti su cui lavoreremo<br />

assieme in altro momento. Torniamo ora alla lettura di N., alle prese con lo scartabellare<br />

nel programma del Festival del 2004.<br />

Non bisogna prendere sottogamba le citazioni all’inizio di un testo. Costituiscono un<br />

fondamentale “paratesto” e senza dubbio un qualche significato dovranno pure averlo.<br />

La speranza è che diano informazioni utili e non siano fini a se stesse.<br />

Resta il fatto che le successive due pagine (4 e 5), marmoree nella loro filigrana,<br />

scure, contenevano una foto in negativo del capo di Thomas Ostermeier, quasi impressa<br />

nel marmo utilizzato per l’impaginazione. All’altezza di una tempia, in un riquadro<br />

bianco, quello che doveva essere un suo aforisma: «E’ necessario risvegliare il corpo<br />

dell’animale fantastico che è il teatro attraverso delle messinscena sorprendenti, capaci<br />

di entrare nell’intimità sociale di ciascun individuo. Poiché il tema noi amiamo consiste<br />

nel riunire, mentre il mondo d’oggi – in cui si oppongono ricchi e poveri, est e ovest,<br />

nord e sud, ecc. – conduce a separare».<br />

Il Woyzeck: un classico del teatro tedesco. Di Georg Büchner. Era quello lo<br />

spettacolo principale che Thomas Ostermeier propose all’apertura della Corte d’Onore:<br />

dall’8 all’11 luglio. «Ecco il soldato Woyzeck, questo tormentato personaggio<br />

dell’opera di Büchner (1813-1837) trasposta in una terra di nessuno della periferia delle<br />

grandi città europee». L’ambientazione era legata ad una sorta di caserma che, benché<br />

non faccia più parte dalla nostra quotidianità, era diventata una di quelle “città” edificate<br />

attorno al cemento, «luoghi in cui si perpetua una gerarchia e una violenza che non<br />

hanno nulla da invidiare alle caserme». Lo spettacolo presentava «una energia e una<br />

vitalità, ereditate dalla grande tradizione del cabaret tedesco, che vengono esaltate fin<br />

quasi al parossismo, tra follia e furia». In quanto «il mondo è pazzo! Il mondo è bello!»,<br />

come urlava Woyzeck in una scena. Ammaestrato e ridotto ad essere un servitore dal<br />

suo superiore, umiliato dalla donna che ama, tormentato da un medico lui stesso malato<br />

discepolo della scienza sperimentale e della ragione strumentale, questo povero reietto<br />

dalla vita disperata vacillava, traballava, perdeva ogni speranza. L’umanità che<br />

presentava il regista tedesco era rabbiosa e dominata dal denaro e ruotava attorno ad una<br />

simbolica baracca, ad un calore e ad un clamore indecifrabili, sulla colonna sonora e sul<br />

ritmo di improbabili cantanti rap: l’immagine che ne risultava era quella del «cervello di<br />

Woyzeck» che non era altro che «la sede del caos umano e urbano». E veniva messo in<br />

scena un omicidio, un omicidio «come mai lo si era visto da molto tempo».<br />

Riempito di numerose scene mute inventate dal regista, realizzato come la scena e il<br />

montaggio di un film da parte di Thomas Ostermeier e dell’autore dell’adattamento<br />

Marius von Mayenburg, questa messinscena così «fisica mostra l’onirico disincanto di<br />

Woyzeck all’interno di una critica sociale dei tempo presenti».<br />

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«Tre grandi pannelli pubblicitari […] che coprivano quasi del tutto il grande muro<br />

leggendario», riportava Armelle Héliot su Le Figaro del 10 luglio, «Marche note,<br />

impercettibilmente modificate. Fotografie che utilizzano la sintassi di routine dei<br />

mercati: corpi perfetti, muscoli atletici, abbandoni erotici, tocchi omosessuali.<br />

Narcisismo trionfante del mondo di coloro che posseggono. […] In quel grande lavoro –<br />

che si può anche discutere su certi punti ma che poggia su un irreprensibile<br />

distribuzione – c’era tutta l’intelligenza del testo di Büchner». Uno spettacolo<br />

complessivamente duro, iperrealista, che colpiva e che scontava anche il fatto di essere<br />

lo spettacolo di apertura del Festival nella Corte d’onore, ma in cui l’artista associato<br />

dimostra «di essere un regista ispirato e sensibile, ultrasensibile e che va al cuore<br />

dell’opera, all’osso ai nervi. La lingua, le parole, il pensiero, gli interrogativi, i<br />

sottotitoli sono perfettamente integrati ai pannelli della pubblicità ma resta inconsueto<br />

per il grande pubblico che non ha l’obbligo di aver letto il Woyzeck [originale]».<br />

In Nora (Maison de poupée), di Henrik Ibsen, Ostermeier continuava la sua<br />

riflessione sulla “nuova borghesia” moderna: al Teatro municipale, dal 15 al 19 e dal 20<br />

al 22 luglio. All’interno di un assurdo loft arredato come una casa delle bambole<br />

vivevano Helmer, impiegato di banca appena promosso direttore, e la sua spensierata e<br />

leale compagna Nora. Sono il ritratto pubblicitario di quella borghesia felice che regna<br />

nelle città di tutto il mondo avanzato. In Francia, è comune sentire parlare di “bobos”<br />

per designare questa vera e propria classe sociale. Il testo teatrale del 1880 ha una tale<br />

forza che il regista tedesco non aveva bisogno di stravolgerlo: si trattava di un attacco<br />

duro, diretto nel profondo dell’anima di una coppia di privilegiati falsamente felice,<br />

della fine del secolo. Sicuramente una casa delle bambole: ma in cui la bambola, la<br />

sposa e la madre perfetta, si tramutava in una specie di matrioska che lo spettacolo<br />

cercava di scoprire, di dischiudere, di disfare: «a poco a poco le maschere cadono» una<br />

ad una. «Attraverso uno dei più bei ritratti di donna della storia del teatro, di cui<br />

Thomas Ostermeir modifica il contorno finale, viene svelato il viso nascosto delle<br />

nostre intimità…».<br />

«Governare una visione: cosa si può chiedere di più ad un regista?», scriveva sempre<br />

Armelle Héliot su Le Figaro del 17 luglio del 2004, «Penetrare in un universo,<br />

riconoscere una pièce del repertorio “moderno” ed essere pervaso dalla forza che essa<br />

conserva. Thomas Ostermeier compie tutto ciò alla perfezione in Nora di Henrik Ibsen.<br />

E se il direttore della Schaubühne modifica lo svolgimento della pièce, non la tradisce in<br />

nulla […] la tende, le dona un nervosismo minacciante, l’adatta quindi ad un modo di<br />

vivere che molti spettatori devono riconoscere. Ma senza spigersi verso un<br />

qualunquistico teatro borghese/bobo 1 boulevardiano. Si è immersi in una tragica<br />

distruzione e gli interpreti, magnifici, audaci, che non smettono di mettersi in gioco,<br />

accolgono alla perfezione la volontà del regista. Una interpretazione eccezionale»<br />

terminava la giornalista, «tenue, tesa, acrobatica e commovente. Con un’ulima<br />

immagine indimenticabile…». E Fabienne Darge, dalle colonne di Le Monde dello<br />

stesso giorno scriveva: «Sono perfetti quei due, hanno tutto per essere felici e lo sono:<br />

sono giovani, sono belli, sono ben vestiti, hanno denato, un bell’appartamento e dei bei<br />

bambini. […] E soprattutto, si amano. […] Nel loro loft di vetro e metallo gli Helmer si<br />

apprestano a festeggiare Natale … ma qualcosa si inceppa […]. La scena finale<br />

maginfica, forse l’unica libertà che si concede Ostermeier rispetto al testo originale, in<br />

1 In Francia, col termine “bobos” si identifica una specifica classe sociale, i bourgeois-bohèmiens, i<br />

borghesi “falsamente felici e innocenti”, che secondo la sociologia moderna sono tipici della classe<br />

medio-alta di molti Stati avanzati (N.d.T.).<br />

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cui si vede una donna, Nora, trovare il cammino della verità: incapace di risolvere il su<br />

conflitto interiore, uccide suo marito con quello stesso revolver che…».<br />

Al Gymnase del liceo Saint-Joseph, dal 13 al 16 luglio, il regista tedesco propose il<br />

testo di una autrice contemporanea irlandese, Enda Walsh: Disco Pigs. I due<br />

protagonisti avevano «l’âge de la rage et de la frime»: Pig e Runt, due adoloscenti,<br />

teenagers, venivano rappresentati su un ring, mentre facevano a pugni con le loro parole<br />

d’amore, di gioia, di collera, come un gruppo rock’n roll. Un ragazzo e una ragazza,<br />

impegnati a vivere e a scoprire le utopie con «une féroce énergie. Amis inséparables,<br />

amants incurables, jumeaux d’adoption: sur le tempo d’un batteur endiablé présent sur<br />

scène, deux conteurs insurgés à la gouaille de prolos balancent leurs obscénités dans un<br />

argot bien à eux». Imbottiti di serie televisive, nutriti a marmellata industriale, ricoperti<br />

da gadget digitali, Pig e Runt facevano esplodere tutti i loro diciassette anni attraverso il<br />

ritmo della musica in cui erano perfettamente calati, in un corpo a corpo distruttivo, fino<br />

ad un vero e proprio faccia a faccia con il pubblico. Erano ancora talmente vicini al<br />

mondo dell’adolescenza: un’isola selvaggia in cui soldi, carriera e amicizie interessate<br />

sembravano infrangersi ancora nella nascita di un idillio, nella fiamma di un grande<br />

ideale. Nati lo stesso giorno e alla stessa ora, nessun pericolo sembrava potesse mettersi<br />

di traverso rispetto alla loro complicità. Il tempo era dalla loro parte, avevano l’età in<br />

cui tutto era possibile. Ma il tempo stesso troncò di netto i loro sogni infantili: «alors,<br />

dans une dernière danse, ils songent à cette jeunesse disparue comme à un paradis<br />

perdu, avec l’euphorie de la dernière chance». Uno spettacolo teatrale concepito come<br />

un concerto rock, terminava la nota nel programma del Festival.<br />

Sia il programma del 2004, sia quello del 2005 venivano poi interrotti, quasi a<br />

formare delle sezioni, da alcuni saggi e commenti di artisti, storici, filosofi, giornalisti.<br />

A pagina 12 del programma del 2004 si leggeva: “Du vivant et des certitude”. A<br />

scrivere che un drammaturgo e romanziere che ha collaborato alla creazione di Peer<br />

Gynt, di Ibsen, presentato ad Avignone per la regia di Patrick Pineau.<br />

In quel breve saggio provava ad immaginarsi un ipotetico dialogo tra qualcuno che<br />

considerava il teatro come una cosa obsoleta che non era più in grado di interessare o di<br />

coinvolgerci, e un interlocutore che non aveva delle certezze sul ruolo che poteva<br />

giocare il teatro al giorno d’oggi ma che era convinto che se ne debba avere un bisogno<br />

urgente e pressante, che era necessario inventarlo, reinventarlo, soprattutto nei confronti<br />

di se stesso, contro ciò dentro cui è stato catturato e lo ha immobilizzato. Veniva da<br />

pensare che il termine “dal vivo” andasse definitivamente cercato altrove. Preso dallo<br />

sconforto di non riuscire a creare un dialogo che non fosse falso e astratto, decise che<br />

forse era meglio organizzare diversamente il suo intervento, limitandosi a “lasciasi<br />

andare ad alcune notazioni senza altre collegamenti se non quelli dell’impossibilità di<br />

certezze alle quali aggrapparsi”.<br />

Arrivò a concludere che vorrebbe, in ogni istante, essere sorpreso dal teatro, vorrebbe<br />

che il teatro gli parlasse del mondo in una forma musicale, che non lo rinvii a delle<br />

rassicuranti certezze, che non lo lasci mani danzare di gioia, che lo faccia ridere e<br />

piangere allo stesso tempo, un teatro in cui niente coincida mai con il niente, in cui si<br />

possa essere presi da un intenso momento di pensiero e di pura sensazione, in cui<br />

l’intelligenza, la radicalità e la forza teatrali siano così grandi che non li si possa<br />

dimenticare, che diano la sensazione della semplicità, della limpidezza.<br />

In testi come Woyzeck, Homme pour homme e Peer Gynt vi sono i grandi enigmi,<br />

equivoci tra carnevalesco e tragedia… «L’immagine di Peer Gynt che cerca se stesso<br />

392


come Diogene, con una lanterna accesa in pieno giorno alla ricerca di un umano.<br />

Tentando di farsi un destino saltando da un presente all’altro».<br />

Peer Gynt venne presentato nella Corte d’onore, dal 16 al 25 luglio (con una pausa il<br />

19). Patrick Pineau creò uno spettacolo di oltre quattro ore e mezza… «Un poeta<br />

entrava nella Corte. Un vagabondo delle campagne norvegesi, un contadino che suo<br />

malgrado conduce la sua vita su un battello, racconta e si racconta delle storie», storie<br />

sui troll delle montagne, sulle sue donne sedotte…». Ibsen, maestro delle profondità<br />

dell’animo umano, scrisse questo straordinario poema drammatico nel 1867. La casa di<br />

Peer Gynt, che racconta le pellegrinazioni di un avventuriero, era una azienda agricola<br />

nella valle di Gudbrandsdal. La sua missione era «essere se stesso, costi quel che costi»,<br />

una ricerca di se stesso come una bussola: «questo Rimbaud dei fiordi cerca ciò che è il<br />

“me” in un mondo sperduto, l’estensione infinita degli spazi geografici e mentali che<br />

può essere moltiplicato quanto si vole». In scena pochi oggetti, con cui giostrano un<br />

gruppo di attori dalla grande complicità per la più bella e pericolosa delle avventure:<br />

«quella dell’uomo partito alla ricerca di se stesso».<br />

Un homme est un homme, di Bertolt Brecht, fu messo in scena da Bernard Sobel<br />

nella splendida cornice del Théâtre du Châteaublanc, per dieci rappresentazioni, tra il 14<br />

e il 25 luglio. Brecht scrisse questa opera dolorosa, basata «sulle rovine dell’umanismo<br />

borghese», nell’immediato primo dopoguerra. «Quel massacro della gioventù del<br />

continente, questa violazione generalizzata dei valori del mondo occidentale, questa<br />

messa in discussione dell’ordine del mondo antico […], tutto ciò conduce – con altro –<br />

a cercare di pensare all’Uomo in termini nuovi e di immaginare le condizioni necessarie<br />

ad un nuovo inizio». Tornare a quel contesto attraverso questa sperimentazione teatrale<br />

che vede implicato un giovane uomo d’inizio secolo, significava riprendere, in una<br />

condizione di incertezza addirittura accentuata, un cantiere che restava tuttora aperto.<br />

«Galy Gay esce di casa un bel mattino per fare la spesa, lasciando la sua compagna a<br />

casa. Uomo ingenuo e semplice, dopo un certo incontro e tutta una serie di metamorfosi<br />

e di prove, si trasforma in un perfetto capo di guerra. Trasformazione forse moralmente<br />

criticabile, ma molto vantaggiosa dal punto di vista dell’interessato. Che questa capacità<br />

di cambiamento sia positiva, ciò resterà un postulato per Brecht, addirittura un dogma.<br />

Tornerà a mettere mano alla pièce a più riprese, attenuando la metamorfosi del civile in<br />

uccisore, senza mai sopprimerla».<br />

Ancora al Théâtre du Châteaublanc, il 7, 8 e 9 luglio, andò in scena Kokain<br />

(Cocaïne) su un testo adattato dal romanziere italiano Pitigrilli (1893-1975) e messo in<br />

scena da un altro grande regista tedesco della nuova generazione Frank Castorf.<br />

«Non si è mai veramente seri quando si ha diciassette anni. Tito Arnaudi, eroe<br />

libertino degli anni venti del romanzo dell’italiano Pitigrilli non sfugge alla regola.<br />

Questo giovane dandy lascia la quiete dei suoi studi per la vivace vita parigina. Avido di<br />

nuove esperienze, scrive un reportage dirompente sull’oppio del popolo delle notti delle<br />

orge: la cocaina». Droga, erotismo, estasi: «mi uccido per vivere il mio disgusto. Ogni<br />

uomo intelligente arrivato a 28 anni dovrebbe fare altrettanto» concluse Tito.<br />

Sempre nell’ambito della costellazione degli spettacoli che gravitavano attorno<br />

all’artista associato, René Pollesch presentò Pablo in der Plusfiliale (Pablo su<br />

supermaché Plus), quattro rappresentazioni al Gymnase du Lycée Saint-Joseph: lo<br />

spettacolo, in tedesco, era un «invito allo spaesamento, geopolitico e teatrale […] in uno<br />

spazio scenico – realizzato da Bert Neumann, scenografo del prestigioso teatro berlinese<br />

Volksbühne, doproduttore dello spettacolo – formato da tre container» e in cui era<br />

possibile seguire una clip permanente e le azioni di Pablo, un giovane che vivacchia con<br />

393


un impego al supermercato discout le cui pratiche di lavoro non differiscono molto da<br />

quelle di una città del «terzo mondo sviluppato e asfittico che servono oggi da modelo<br />

sociale e urbano alle metropoli occidentali». Pablo viveva attorniato da una sorta di<br />

comunità solidale, in una quotidianità fatta di posti di lavoro falsificati, di contrattazioni<br />

collettive biasimevoli, di un sindacalismo deviato e delinquente. Lo spettacolo<br />

costituiva parte di una vera e propria trilogia ed era organizzato su una struttura simile<br />

ad una telenovela brasiliana, un feuilletons un po’ kitch che si moltiplicava all’infinito,<br />

una sorta di «cavallo di Troia» che doveva servire allo spettatore per penetrare un<br />

messaggio profondo in modo semplice e universale. Le tribolazioni del protagonista<br />

erano improbabili, deliranti ed esilaranti, un racconto apparentemente senza senso di un<br />

eore che vorrebbe eludere tutte le frontiere gerarchiche e geografiche.<br />

A quel Festival era presente anche Pippo Delbono, attore, autore e regista italiano,<br />

con uno spaccato affascinante della sua produzione artistica: Urlo, rappresentato dal 13<br />

al 24 luglio, alla Carrière Boulbon, uno spazio grandioso quanto la Corte d’onore, ma,<br />

se possibile, anche più aspro, difficile, selvaggio. Dai racconti che in seguito mi fece<br />

Pippo Delbono, fu una avventura, terribile, ma straordinariamente preziosa. Poi, al<br />

Teatro municipale, l’Enrico V, due rappresentazioni: una rivisitazione allucinata e<br />

terribile della tragedia di Shakespeare, una metafora di tutte le guerre.<br />

«E venne la notte sulla cava di Boulbon, e si levò un lungo “urlo”, un lungo pianto<br />

rauco che risuonava sulle pietre …», scrisse Fabienne Darge su Le Monde del 15 luglio:<br />

«E fu notte anche sul piccolo villaggio come ce ne sono sempre, appoggiato sulla<br />

sabbia, e si vedono apparire a poco a poco delle creature da sogno o di una fiaba. Con i<br />

loro rituali calmi, che avevano la dolcezza dell’incubo. E c’era soprattutto Bobo,<br />

l’incomparabile attore microcefalo, sordo e muto, della compagnia di Pippo Delbono,<br />

piccolo re incerto, tra due lunghi ufficiali in smoking nero. Poi il suo pasto, in cui tutti i<br />

commensali avevano gli occhi bendati di bianco, e quest’uomo in nero seduto su una<br />

sedia, con la sua lunga ombra scura sulla sabbia dell’arena». Lo spettacolo di Pippo era<br />

quasi un dipinto, un susseguirsi di immagini «felliniane, da periferia… E Pippo Debono<br />

seduto su una sedia, contro il muro di una piccola casa, a leggere ancora le parole di<br />

Ginsberg: “Ho visto i migliori spiriti della mia generazione che si laceravano il cervello.<br />

Ho visto i migliori elementi della mia generazione che urlavano e urlavano, menomanti.<br />

Che camminavano tutta la notte con le scarpe piene di sangue, che si trafiggevano tre<br />

volte con il pugnale senza mai morire…». Tutto era cominciato con un grido e «tutto<br />

con un urlo terminerà, un lungo pianto rauco, lungo come il tempo degli uomini e le<br />

loro coontraddizioni lanciate alla notte, e non si sa cosa sia stato più bello, le parole di<br />

Ginsberg o la voce di Giovanna Marini, la presenza di Bobo o quella di Umberto Orsini,<br />

le fiabe di Pippo Delbono sulla figlia del re, o questa cava, magica caverna teatrale a<br />

cielo aperto, magnifico scrigno di pietra che ricorda agli uomini la loro fugacità e la sua<br />

eternità. Ma sapevamo di ave vissuto un grande momento di teatro, che resterà scolpito<br />

nei cuori eternamente. Il più grande forse di questo Festival di Avignone, ma per questo<br />

bisognerà aspettare la fine per dirlo».<br />

***<br />

Niente più carta patinata, come nel 2004, ma un formato ripreso dal 2005,<br />

riconoscibile e unificante: un’unica linea “editoriale”, nel segno della continuità. Sulla<br />

copertina del 2006, al posto della scultura di Jan Fabre, un dettaglio del manifesto<br />

ufficiale, con un’immagine cara a Josef Nadj. Si trattava del 60° Festival di Avignone e<br />

394


i due direttori non potevano non ricordarlo: «1947, Yvonne e Christian Zervos<br />

organizzano una esposizione d’arte contemporanea che riuniva tra gli altri Ricasso,<br />

Braque, Patisse, Léger nel Palazzo dei papi. Invitano anche un giovane regista<br />

raccomandato dal poeta René Char, Jean Vilar. Dopo aver rifiutato di riprendere il suo<br />

ultimo successo parigino, egli propose loro di creare tre spettacoli ad Avignone. Quella<br />

sfida è resa possibile grazie all’appoggio illuminato del sindaco della città, il dottor<br />

Pons. Così, in quel tempo di dopoguerra, in cui l’Europa si ricostruiva, Jean Vilar<br />

inventa il suo teatro: un grande testo, una compagnia di attori, un palcoscenico nudo, un<br />

pubblico numeroso, il cielo stellato… Si augurava di dare un nuovo respiro all’arte<br />

teatrale in Francia. Da allora, il Festival di Avignone non ha smesso di trasformarsi<br />

restando sempre fedele allo spirito d’origine: un luogo in cui il teatro si inventa, dialoga<br />

con le altre arti e si apre ad un largo pubblico. Più di tre generazioni di artisti e di<br />

spettatori si sono incrociati da sessanta anni per fare vivere questa incredibile avventura<br />

umana e artistica, sempre in movimento. Fare e guardare il teatro con convinzione e in<br />

tutta libertà, senza circoscriverlo ad una sola verità, è la scommessa continuamente<br />

rinnovata che ci auguriamo di condividere con tutti».<br />

Poi, qualche parola sul programma, su Nadj, sulle linee conduttrici del Festival: «E’<br />

dalla Voivodina, a nord dell’attuale Serbia, che parte per raggiungere Budapest e poi<br />

Parigi agli inizi degli anni Ottanta. A metà strada tra teatro e danza, alimentato dalla<br />

letteratura, dalla poesia, dalla pittura e dalla musica, il suo linguaggio si compone di<br />

immagini in continua metamorfosi. In ciascuno dei suoi spettacoli, offre un modo per<br />

partecipare e condividere il suo universo misterioso, tragico, tenero e divertente, fuori<br />

dal tempo».<br />

Mi colpì la ricerca dei termini e degli argomenti: ebbi modo di incontrare Josef Nadj,<br />

soprattutto come spettatore interessato, e di approfondire la conoscenza della sua<br />

poetica: nelle poche righe introduttive, in effetti, vi erano, ben celati, molti dei temi che<br />

erano cari all’artista che avevo imparato ad amare, a stimare, fin dall’anno precedente.<br />

Subito dopo i due direttori, opportunamente, aggiungensero: «Nelle nostre<br />

conversazioni con lui, due immagini ritornavano con insistenza: la terra come<br />

evocazione delle radici e dell’identità, il fiume come luogo del movimento, del possibile<br />

avvicinamento verso l’altro. I nostri scambi hanno portato a questo bisogno di apertura<br />

e di curiosità degli artisti che dialogano con altre culture, altri linguaggi per sviluppare<br />

la loro propria scrittura, che si alimentano della tradizione o del sapere dei maestri per<br />

trovare la loro propria modernità, che cercano di dominare la loro arte per creare<br />

liberamente».<br />

Mi piaceva la metafora del programma artistico come territorio da esplorare: non<br />

bisognava abusarne, in quanto come ogni metafora resta un potente contenitore di<br />

immagini fin tanto che serve evocare. L’idea del territorio e dell’incontro di storie era<br />

pertinente, lo era sempre stato nella produzione artistica. Nel caso della<br />

programmazione del Festival del 2006, nel caso di quello spettacolo che andò in scena<br />

per tutto il mese di luglio, c’erano due storie che, intrecciate a tutte le altre, potevano<br />

riassumere il carattere, lo spirito, l’estetica stessa di quella proposta di senso: Josef Nadj<br />

e Pippo Delbono.<br />

La presentazione effettiva, all’interno di Josef Nadj del programma ufficiale, fu<br />

affidata alla penna di Myriam Blœdé, ricercatrice all’Institut d’esthétique des arts<br />

contemporains – IDEAC, del CNRS, e autrice di un libro che raccoglieva la storia<br />

artistica di Josef Nadj, Les tombeaux de Josef Nadj: «Tutto comincia a Kanizsa. E’ un<br />

fatto, Kanizsa è la città natale di Josef Nadj, ma non è solo questo: è il nocciolo, uno dei<br />

395


focolari attorno ai quali la sua arte si dispiega. Da diverse generazioni è in questa<br />

piccola città del centro dell’Europa centrale, ai confini tra Oriente e Occidente, sulla<br />

riva occidentale di un affluente del Danubio, la Tisza, che vive la sua famiglia. Ed è là<br />

che è cresciuto, in questa regione spezzettata dalla Storia e nella cultura ungherese, la<br />

sua, dominante a livello locale, ma minoranza a livello nazionale. Kanizsa, in effetti, si<br />

trova in Voïvodine, provincia settentrionale della Serbia-Montenegro, altimenti detto,<br />

quando Nadj nacque nel 1957, in Iugoslavia. Al di là di questi dati e del contesti che<br />

essi designano, al di là di quello che essi possono suggerire o lasciare supporre, Kanizsa<br />

è un universo mitico, una somma di memorie ereditate o inventate, un territorio<br />

favoloso in cui l’opera del coreografo affonda le proprie radici e che l’arricchisce. Sotto<br />

il suo doppio aspetto, reale/immaginario, essa è il quadro di riferimento di tre delle sue<br />

prime opere – Canard pékinois, 7 peaux de rhinocérons, Les Echelles d’Orphée –, del<br />

suo recente solo, Journal d’un inconnu, e della sua ultima creazione, Last Landascape.<br />

E quando, provando “il bisogno di allargare le sue cerchia”, Nadj si rivolge verso la<br />

letteratura alla quale consacrerà tutta una parte della sua creazione, prima di avvicinarsi<br />

a Borges, Dante e Beckett, prima di immergersi in Kafka, Schulz, Roussel o Michaux, è<br />

con Géza Csàth, e poi con lo scrittore viaggiatore Vojnich Oskar, entrambi originari<br />

della Voivodina, che di confronta.<br />

[…] Josef Nadj è prima di tutto un creatore di immagini [e fin dal 1986, quando<br />

fonda la sua compagnia] si mette ad elaborare il suo linguaggio, a costruire un universo<br />

scenico totalmente singolare. A metà strada tra danza e teatro, dominato, lo abbiamo<br />

detto, dalle immagini in continua metamorfosi, vi regna una atmosfera tragica, ma un<br />

tragico che vacilla attraverso il riso, la burla, l’ironia. Fino a quando l’immagine si<br />

sostituisce alla parola, il testo, anche nelle pièce che Nadj dedicò agli scrittori, è ridotto<br />

ad una sorta di prelinguaggio che interviene su un modo puramente drammatico,<br />

musicale. La musica, per contro, vi gioca un ruolo determinante. Ed è molto spesso<br />

l’occasione per suscitare un dialogo».<br />

La fotografia e le arti plastiche, benché in parte nascoste dalla dominante attività<br />

sulla scena, costituivano, in effetti, una parte fondamentale dell’opera di Josef Nadj.<br />

Ebbi modo di trovare una conferma visitando l’esposizione alla Maison Jean Vilar<br />

dedicata proprio a Josef Nadj. E lo immaginai già l’anno precedente, assistendo al<br />

poetico spettacolo Last Landscape, in coppia con il compositore e percussionista<br />

Vladimir Tarasov: un modo per «guardare con tutto il corpo, vedere come un pittore,<br />

trasporre una visione, creare uno spettacolo a partire da queste esperienze»; in sintesi<br />

Last Landscape era questo, un accattivante dialogo tra musica e danza, con le immagini<br />

su scena che si sostituiscono alle parole. Le sue erano straordinarie sequenze di un<br />

quadro in divenire, una continua trasformazione dello spazio, un sapiente gioco di luci e<br />

di ombre, effetti della prospettiva. Di tutta evidenza si trattava di uno straordinario<br />

autoritratto, in quanto l’origine di tutto era proprio quel luogo reale, a lui tanto caro,<br />

quelle pianure a cavallo nella antica terra di Pannonia, sul fiume Tisza, a mostrare la sua<br />

concezione dell’arte: «forse uno specchio teso a tutte le riflessioni – l’orizzonte (il non<br />

luogo, l’utopia) di una leggibilità da scoprire. Uno specchio che avanza, come un<br />

orologio ma regolato! 1 ».<br />

Asobu, “gioco” in giapponese, era uno spettacolo nato da un laboratorio realizzato<br />

proprio in Giappone, con sei danzatori di quel paese, di cui quattro maestri della<br />

1 Blœdé 2006: 26 (N.d.T.).<br />

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misteriosa tradizione di danza butô. Sei rappresentazioni, tra il 7 e il 13 luglio, nella<br />

Corte d’onore del Palazzo dei papi, con le musiche dal vivo di Vladimir Tarasov.<br />

E poi c’era «Paso Doble», con Miquel Barcelo. Rosita Boisseau, su Le Monde,<br />

recensisce in questi termini lo spettacolo: «Il pittore Miquel Barcelo e il coreografo<br />

Josef Nadj si sono incontrati. La loro performance comune al Festival di Avignone,<br />

presentata domenica 16 luglio nella chiesa dei Celestini, ha combinato impatto plastico<br />

e emozione pura. Come fosse un sol corpo, il pubblico presente si è alzato per una<br />

ovazione, trasporato dalla sontuosa evidenza di un’opera grandiosa […].<br />

Completamente ricoperti di terra rossa, dalla testa ai piedi, come il muro e il pavimento<br />

di argila sui quali si sono affrontati per un’ora, terminando un lavoro di forza, stanchi<br />

ma raggianti. […] Più che un duo ben affiatato, Paso Doble era un passo a tre, tra due<br />

uomini e la terra, la nutrice ancestrale, l’idea della grotta, della nascita, della morte. Ma<br />

è anche la bellezza dell’arte e dei suoi limiti. L’argilla affascina per la sua capacità di<br />

lasciarsi modellare per meglio avvolgere, quasi digerire, coloro che la toccano. Questa<br />

ambivalenza costituisce la venatura stessa delle azioni di Barcelo e Nadj…».<br />

Dal programma: «A forza di frequentare il pittore e le sue opere nel suo atelier, di<br />

dormirci anche la notte e giocare con le ombre, i contorni degli oggetti e delle tele, alla<br />

luce di una candela, una voglia spontanea è nata in Nadj: entrare del quadro. Questa<br />

proposta formulata al pittore delle metamorfosi organiche, Miquel Barcelò, ha in<br />

seguito preso la forma di una performance. I due artisti hanno immaginato un muro fatto<br />

di argilla rossa, quella di Kanizsa, città natale del coreografo e quella delle opere in<br />

ceramica di Barcelò […] terreno comune del loro incontro sul quale ognuno osa entrare<br />

nell’universo dell’altro. Una avventura fatta di scambi tra pittore-coreografo e<br />

coreografo-pittore […]. Ritorno alle origini, forme arcaiche evocative dell’arte rupestre,<br />

lavoro in rilievo, profondità delle superfici, sovrapposizione delle tracce successive,<br />

ferite della materia, fino a quando, poco a poco, i corpi spariscono come assorbiti<br />

dall’argilla, lasciando posto ad un’opera, ogni sera differente, effimera».<br />

Pippo Delbono ad Avignone, nel 2006, presentò qualcosa di più di una conferenzaspettacolo,<br />

come gli organizzatori cercarono di far passare quella straordinaria,<br />

commovente e racappricciante opera che era Racconti di giugno, quattro<br />

rappresentazioni al Musée Calvet. Ricordo anche il giorno della conferenza stampa che<br />

Pippo realizzo a Cloître Saint-Louis: il povero giornalista ebbe grosse difficoltà a<br />

presentare i quei termini lo spettacolo. Dal programma del Festival: «Sulla scena giusto<br />

una tavola, una sedia, un bicchiere. Ridotto all’essenziale, il teatro elementare di Pippo<br />

Delbono si mette a nudo. In Racconti di giugno, solo sul palcoscenico, l’attore e regista<br />

italiano […] libera l’intensità di un percorso votato alla necessità degli uomini e del<br />

teatro. A metà strada tra il confidenziale e la conferenza pubblica, l’esposizione intima<br />

di questa ricerca esistenziale celebrata tra pudore e spudoratezza, tra silenzi eloquenti e<br />

un dire crudo e a volte improvvisato. Come un funambolo, Pippo Delbono cammina sul<br />

filo dei suoi pensieri, evoca questa “memoria fisica della ferita” che fonda i suoi<br />

spettacoli e si sviluppa attraverso una scrittura di scena poetica, elaborata a partire del<br />

corpo». Si trattava effettivamente solo di una confessione pubblica? Il teatro di Pippo,<br />

da quando imparai a frequentarlo ed amarlo (solo) pochi anni fa era profondamente,<br />

intimamente collegato con la sua “biografia”: Urlo, Gente di Plastica, Il Tempo degli<br />

Assassini... In questo caso Pippo elaborava una sorta di personale “canzoniere”, solo<br />

apparentemente improvvisato (nel senso di scompagiato e senza senso) e invece<br />

straordinariamente strutturato.<br />

La prima volta che salì su un palco era un bimbo, aveva cinque anni, aveva i capelli<br />

397


lunghi e chiari: era a Varazze, nel teatro parrocchiale e “il piccolo angelo” impersonava<br />

Gesù. Ma «alla vigilia dello spettacolo erso stato a mangiare da mia nonna e, siccome<br />

mi ero avvicinato troppo alla padella sul fuoco mi sono bruciato una guancia. Quando<br />

sono entrato in scena avevo il viso completamente tumefatto. Fu la mia prima<br />

esperienza di teatro… e già cominciavo il mio personale confronto con l’handicap».<br />

Il racconto di quel pomeriggio ad Avignone intrecciava vicende quotidiane a<br />

esperienze personali vive, intramezzate da ampi brani scelti dal suo repertorio, da quegli<br />

spettacoli allestiti in passato e che lo resero celebre e amato: l’Enrico V di<br />

Shakesperare, ovviamente; ma anche Sarah Kane, purtroppo rivisitata per un problema<br />

di diritti d’autore che lui spiegò in modo divertente, da straordinario affabulatore,<br />

riuscendo così ad aggirare l’ostacolo e a parlarne comunque; e poi Genet e Pier Paolo<br />

Pasolini.<br />

«Al tempo di Pasolini, ero piccino, erano gli anni Sessanta, gli anni del boom<br />

economico, tutti compravano le prime Fiat 600, le prime lavatrici, i primi telvisori; mi<br />

ricordo che mio padre veniva a prendere mia sorella e me a scuola, e ci chiamava da<br />

lontano in genovese. Nell’epoca in cui tutti erano proiettati verso il nuovo, la modernità,<br />

nessun bambino parlava più in dialetto, e provavamo molta vergogna. Ma era una sua<br />

espressa volontà…» (tratto da La rabbia, uno degli spettacoli di Pippo).<br />

Da piccolo lui amava il teatro parrocchiale, si divertiva e poi suo zio e suo padre<br />

avevano una predilezione per il teatro comico: recitavano spesso commedie di Gilberto<br />

Govi (1885-1966), un grande attore e autore del teatro dialettale genovese. Erano degli<br />

“amatori”, ma nel significato più profondo del termine: «erano animato dall’amore per<br />

il teatro. Mio padre, ad esempio, rientrava tardi dal lavoro – era impegato in un ospedale<br />

– e, dopo cena, ripartiva per anadare alle prove, anche per due, tre, quattro ore a volte;<br />

ma quello lo rendeva felice, e gli dava vitalità. Mio padre aveva una relazione molto<br />

forte con l’arte, con la musica e la poesia. Allo stesso tempo era un uomo che provava<br />

una sorta di difficoltà a vivere e l’immagine della sua melanconia si mischia nei miei<br />

ricordi con la sua passione per la musica». Anche a Pippo fu iniziato ad ogni tipo di<br />

strumento (violino, pianoforte, chitarra), gli piaceva in modo particolare la fisarmonica,<br />

anche se in generale la musica «mi annoiava un po’, era come una costrizione». Nello<br />

spettacolo che lo lanciò definitivamente nel mondo del teatro, Il tempo degli assassini,<br />

vi era una scena in cui riprendeva la fisarmonica e suonava in modo ossessivo sempre lo<br />

stesso passaggio: «non so se fossero veramente le stesse note ma quella scena<br />

riprendeva un episodio di anni prima in cui partecipando ad un concerto, mi perdetti<br />

d’animo e riuscii solo a ripetere continuamente lo stesso motivo. Fu una sensazione<br />

terribile».<br />

Perché, dunque, Pippo fece quella scelta, ad Avignone come già in Italia, quando un<br />

mese prima aveva presentato per la prima volta quei suoi Racconti di giungno? A ben<br />

vedere durante lo spettacolo e alla fine dello stesso, ebbi forte la sensazione che in fin<br />

dei conti non era molto diverso da come lavorara solitamente: certo, mancavano i suoi<br />

terribili e allucinai affreschi di scena realizzato con i suoi attori che si muovono in spazi<br />

improbabili. Tra l’altro, lui aveva la particolarità di apparire chiaramente in scena come<br />

il regista dello spettacolo, non stava dietro le quinte, anzi, il suo retropalco era tra il<br />

pubblico e sulla scena: in quel caso, lui era il regista e lui era la scena, lui era la storia e<br />

lo spettacolo, il testo drammatico e quello spettacolare. Aveva solo bisogno dell’aiuto di<br />

Pepe per le musiche. L’incontro con Pepe Robledo credo avvenne nella prima metà<br />

degli anni Ottanta. Pepe proveniva da una compagnia (Libre Teatro Libre) trasferitasi in<br />

Europa dal Sud America, dopo il colpo di stato in Argentina. Quell’incontro arrivò in un<br />

398


momento particolare della vita di Pippo: «Vorrei raccontarvi una storia. C’era una volta<br />

un ragazzo che viveva in un piccolo villaggio della costa ligure. Una sera, entrò in un<br />

caffè e là incontrò un giovane uomo che bevevo una birra. Come questa. Ma con molta<br />

eleganza. Era un tipo strano, o almeno il ragazzo lo trovò molto molto strano. Presto<br />

divennero amici. E fecero assieme molti viaggi. Parigi, Amsterdam, Londra,<br />

Bruxelles… Il giovane uomo porterà il ragazzo sulla strada dell’alcol, del sesso e<br />

dell’eroina. E il giovane uomo amava correre la notte sull’orlo del precipizio. Non<br />

amava fare il bagno nel mare se questo non era molto agitato. E cominciarono gli<br />

scontri tra noi. Una notte, in un hotel di Marrakech, il ragazzo entrò nella camera dove<br />

dormiva il suo amico. Aprì dolcemente la porta per non svegliarlo, si distese al suo<br />

fianco e pensò: “Amico mio, io vorrei ucciderti”. E sapete come è finita. Ebbene,<br />

l’amico è moto. […] Anche io avevo un amico. Ed è morto. Un incidente. Non è strano<br />

tutto questo?» (da Il tempo degli assassini).<br />

Pippo raccontava che Vittorio aveva «una personalità complessa. Per otto anni quella<br />

fu una amicizia totale, esclusiva, una combinazione di amore e odio. Con lui ci si<br />

ritrovava sempre i situazione improbabili, al limite. Era una relazione passionale,<br />

completamente schizofrenica, dalla quale non riuscivo mai a liberarmi». Il teatro du<br />

forse il mezzo che permise a Pippo di staccarsi da Vittorio «e ad ogni modo più o meno,<br />

coincise il periodo in cui cominciò a fare uso di eroina e la mia iscrizione alla scuola di<br />

teatro della provincia, a Savona. Fu il mio primo grande tradimento». In quel periodo<br />

Pippo frequentava anche l’università, studiava economia: «per mia madre […] dovevo<br />

fare studi seri». La scuola di teatro, per contro, non lo soddisfava, non completamente.<br />

Ma a ben vedere fu proprio il direttore di quella scuola che gli parlò di Grotowski e<br />

della presenza del suo grande attore, Ryszard Cieslak, a Pondera. «Per me fu un<br />

percorso angosciante» raccontava Pippo «poiché per la prima volta dopo molto tempo<br />

mi lanciavo in una avventura senza Vittorio, lasciando il mio contesto familiare.<br />

Quando fai del teatro nella tua città resti in un ambiente che conosci, questo ti permette<br />

di conservare un equilibrio. […] Fu una esperienza scioccante. Accadde di tutto e,<br />

soprattutto, scoprii fino a che punto il teatro poteva toccare intimamente l’animo<br />

umano. Mi rendevo conto che potevo farci entrare la mia vita, le cose che mi<br />

appartenevano. Non si trattava più di lavorare sul testo di qualcuno d’altro o di<br />

incarnare un personaggio, ma di impegnare se stesso. Era una situazione magica,<br />

misteriosa, ma anche inquietante». Ma era esattamente ciò che stava cercando.<br />

Costretto ad abbandonare la scuola di teatro di Savona, cominciò una nuova<br />

avventura, all’Odin Teatret, in Danimarca, nel gruppo di ricerca creato da Eugenio<br />

Barba, in cui lavoravano anche gli attori del Gruppo Farfa, riuniti attorno alla<br />

straordinaria attrice danese Iben Nagel Rasmussen; e che ospitò anche la compagnia di<br />

Pepe, proveniente dall’Argentina. Fu all’interno del Gruppo Farfa, nel 1983, che Pippo<br />

incontrò Pepe. In quell’anno suo padre morì: «stavo attraversando un momento molto<br />

difficile con Vittorio, con la mia famiglia». E Pepe lo invitò a partire con lui per la<br />

Grecia, in qualità di assistente, per andare ad animare un laboratorio teatrale. «Vittorio<br />

mi incoraggiò ad andare», raccontava Pippo «ma al momento della mia partenza non<br />

trovavo più il mio passaporto: dopo la sua morte, sua madre trovò il mio portafoglio,<br />

nascosto in un cassetto, tra le sue cose…».<br />

E ancora: «Il giorno dell’incidente di Vittorio, mi sentivo molto male, come se<br />

sapessi quel che stava per accadere. Prima della mia partenza insistette molto perché gli<br />

lasciassi la mia moto, con la quale avevamo fatto una infinità di viaggi assieme. Non<br />

volevo, ma alla fine gliela lasciai. Quando rientrai in Italia, era in coma profondo. Per<br />

399


due mesi feci quaranta chilometri tutti i gironi per potergli stare vicino, andata e ritorno<br />

da Varazze a Genova. Poi, morì. […] Dopo la morte di Vittorio toccai il fondo, ma<br />

trovai anche il coraggio di saltare il fosso e di dedicarmi completamente al teatro.<br />

Quando oggi dico ai miei attori che bisogna lavorare senza pensare, ebbene mi riferisco<br />

esattamente all’esperienza che feci in quel periodo».<br />

Mentre riflettevo sulla sua storia, completando il suo racconto con i miei ricordi,<br />

risuonava prepote Summertime interpretata da Janis Joplin, uno dei tanti topoi,<br />

sfacciatamente ripresi dall'artista ligure in ogni suo spettacolo.<br />

Mi accorsi che sul tavolo non c’era un bicchiere. C’era un bottiglia di birra. Forse<br />

della stessa marca di quella che bevve una sera, tanti anni prima, con Vittorio. Non era<br />

solo una conferenza: c’erano tutti i segni vivi della paradossale vitalità di questo grande<br />

artista, il suo gesto poetico, il suo lavorare sui contrasti, smaccati, prorompenti, tra voce<br />

e musica. Il training imparato all’Odin e appreso grazie al suo “maestro” Pepe furono<br />

molto utili, anche se non te l’aspetti tanta energia vocale dal suo fisico.<br />

Nelle parti di “collegamento”, quando il racconto diventava davvero personale,<br />

sfiorando forse l’apologia della “vita da bohème”, stava proprio evocando le sue scelte<br />

d’amore, la tossicodipendenza, la frenesia sessuale, i viaggi, gli “incontri con uomini<br />

straordinari” – da Arafat a, quello, vitale, con Bobò, dalla Regina d’Olanda a quello con<br />

Iben Nagen Rassmussen – e che avevano segnato il suo percorso esistenziale ed<br />

artistico. Alle mie spalle, alla console, vicino ad uno degli enormi platani che<br />

dominavano la corte interna del Musée Calvet, si percepiva la “presenza silenziosa e<br />

affettuosa, creativa e dialettica” di Pepe Robledo: Pippo giocava la carta del mettersi a<br />

nudo verbalmente: e da instancabile incantatore, faceva di quel suo “canzoniere”<br />

«l’ennesimo ammaliante e liquoroso canto capace di trasportare il pubblico in una<br />

poesia tanto immediata ed elementare da risultare dirompente. La magia si compie,<br />

ancora di nuovo, ma Delbono sapientemente tiene sotto controllo reazioni e situazioni,<br />

da consumato uomo di teatro: sgrida il fotografo invadente, fa un check<br />

dell’amplificazione subito dopo aver devastato gli spettatori con i suoi dolorosi ricordi,<br />

regala battute divertenti e divagazioni site specific. Insomma, con Racconti di giugno,<br />

Pippo Delbono porta a compimento – e forse ad un nuovo passo – quel binomio<br />

arte/vita che ha attraversato la ricerca teatrale del Novecento. Se ne fa emblema, senza<br />

reticenze, dandosi – teatralmente – in pasto a quel pubblico pronto a divorarlo 1 ».<br />

Le vite di Josef Nadj e di Pippo Delbono avevano in comune il fatto di essere storie<br />

vissute per l’arte, in modo coerente all’arte che creavano.<br />

1 Quest’ultima espressione non era mia ma di Andrea Porcheddu, critico teatrale che recensì, sul sito<br />

“delteatro.it”, lo spettacolo di Pippo in Italia, prima delle rappresentazioni al Festival di Avignone<br />

(N.d.T.).<br />

400


XXX<br />

Epilogo. Struttura, forma e flussi di conoscenza al Festival di Avignone. La (ri)produzione teatrale al<br />

Festival di Avignone tra estetica, competenze, linguaggi formali e norme<br />

Che tratta di come la riproduzione di uno spettacolo teatrale passi attraverso i luoghi i<br />

cui esso stesso viene creato, in un viaggio tra estetica e linguaggi formali, competenze<br />

artistiche (e non solo) e norme più o meno condivise <br />

«Che spiegazione dare della singolare incapacità del dottor<br />

P. di interpretare, di giudicare, un guanto per quello che è?<br />

Era evidente che in questo caso egli non riusciva a formulare<br />

un giudizio cognitivo, pur essendo in grado di produrre<br />

numerose ipotesi cognitive. Un giudizio è intuitivo, personale,<br />

comprensivo e concreto: noi “vediamo” come stanno le cose,<br />

in relazione tra loro e con noi stessi. Era proprio questa<br />

capacità di vedere, di stabilire relazioni che mancava al dottor<br />

P. Qual era la causa? Una mancanza d’informazione visiva, o<br />

un difetto nell’elaborazione dell’informazione? (Questa<br />

sarebbe la spiegazione data da una neurologia classica, che<br />

procede per schemi). Oppure il difetto era nell’atteggiamento<br />

del dottor P., per cui egli non era in grado di mettere ciò che<br />

vedeva in relazione con se stesso?»<br />

(Oliver Sacks,<br />

da L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello)<br />

«La selezione è il processo organizzativo che genera le risposte alla domanda: “Che<br />

cosa succede qui?”. Il processo di selezione sceglie i significati e le interpretazioni<br />

direttamente e seleziona gli individui, i dipartimenti, i gruppi o gli obiettivi<br />

indirettamente. Il processo di selezione ospita il processo decisorio, ma è fondamentale<br />

ricordare che il processo decisorio nel modello dell’organizzazione significa selezionare<br />

delle interpretazioni del mondo e diverse serie di estrapolazioni da quelle<br />

interpretazioni, e usare poi questi compendi come limitazioni sull’azione susseguente 1 ».<br />

Ancora Karl Weick, che mi ricordava come, nella formula “come posso sapere<br />

quello che penso fino a che non vedo quello che dico?”, il processo di selezione<br />

costituisce il processo del “vedere”. Con l’avallo di Umberto Eco, quale studioso<br />

“dell’estetica dell’opera aperta”, e in accordo con il ruolo determinante che Enzo<br />

Rullani assegnava alla “riproduzione” del materiale cognitivo già lavorato nella fase<br />

della strutturazione, sia l’organizzazione artistica sia il pubblico, ed in ogni caso, tutti<br />

coloro che erano implicati nella sua produzione e distribuzione, attraverso il momento<br />

della riproduzione dello spettacolo teatrale, smettevano di generare e classificare “cose”<br />

quali dati, parole, azioni e avvenimenti, e cominciavano a selezione i significati da<br />

attribuire a tali elementi “ambigui”, assegnando loro un “valore estetico”.<br />

Tutto ciò, nel caso dello spettacolo da vivo, avveniva in modo relativamente<br />

semplice o mirato dal punto di vista della sua collocazione spazio-temporale: in quel<br />

“hic et nunc” che spesso veniva confuso come il momento in cui lo spettacolo veniva<br />

“creato”, ma che di fatto coincideva solo con il momento in cui una conoscenza<br />

artistica, sotto forma di rappresentazione teatrale, vedeva la luce all’interno del contesto<br />

stesso che lo aveva generato. Come direbbe Rullani, quella conoscenza doveva fare<br />

ancora molta strada e subire ancora parecchie lavorazioni prima di diventare davvero<br />

“conoscenza connettiva pronta all’uso”.<br />

1 Weick 1993, capitolo 7 (N.d.T.).<br />

401


Al Festival di Avignone il luogo simbolo in cui avveniva tutto ciò era,<br />

innegabilmente, la Corte d’onore del Palazzo dei papi. Ma c’era di più: accanto alla città<br />

di Avignone, quella indicata sulle cartine geografiche, quella nota ai turisti, vi era<br />

un’altra Avignone, quella che emergeva, trovava piena manifestazione in modo periodo,<br />

la Avignone del Festival. Una ristretta cerchia di luoghi, selezionati all’interno degli<br />

spazi cittadini, con la sua urbanistica, la sua topografia, la sua storia, le sue<br />

frequentazioni, i suoi simboli. E durante il mese di luglio, la prima città, quella reale,<br />

visibile nel quotidiano, lasciava il posto alla città della “finzione teatrale”: quest’ultima<br />

non meno tangibile della prima, la quale era costretta a trovare una qualche forma di<br />

convivenza con la sua versione “spettacolare”.<br />

In un bel saggio, Emmanuel Ethis scriveva:<br />

«Mais lorsque débute le rituel du Festival, lorsque la Cour d’honneur recouvre la cour de<br />

pierres, le mythe reprend ses droits. Et que l’on soit metteur en scène ou comédien, critique ou<br />

simple spectateur, au moment où l’on s’apprête à “faire la Cour d’honneur” ou à “se faire la Cour<br />

d’honeur”, on sait d’emblée que c’est bien à une épreuve, au sens le plus acrive du terme, que l’on<br />

va participer. Entrer dans la Cour, s’est accepter de pénétrer un temps dans une sorte de puits géant<br />

où les éléments naturels – mistral, poussière et froid – apparaissent comme autant de<br />

manifestations des fantômes du passé venus mesurer ici leur force à celle des acteurs, bien de ce<br />

mond. Au reste, dans la Cour, pas une seule représentation n’existe pour elle-même, pas une n’est<br />

commentée sans appeler une nécessaire comparaison avev une autre qui aurait mieux ou moins<br />

bien “habité” le lieu. En réalité, aucun théâtre en France ne se trouve être à ce point le dépositaire<br />

du passé. C’est sans doute là que se dévoile la singularité d’Avignon, ce lieu où l’on n’a de cesse<br />

de réactualiser le goût fertile pour la nostalgie d’une commaunauté de spectateurs toujours à<br />

réunir».<br />

La Corte d’onore, quale luogo di riproduzione dello spettacolo, e in cui avvenivano i<br />

processi di selezione di significato da parte di una ristretta cerchia di “partecipanti”, a<br />

causa del peso stesso del suo “mito” e del simbolismo che essa stessa evocava,<br />

sembrava fungesse da vero e proprio “laboratorio cognitivo” a se stante: era una sorta di<br />

“ambiente percettivo” particolarmente favorevole allo svolgimento del suo compito,<br />

creato artificialmente, in quanto i fenomeni di percezione estetica risultavano rinforzati<br />

dalle preferenze, dagli scopi, dalle idiosincrasie, dai desideri, dalle stesse aspettative<br />

degli spettatori. Era un ambiente “non ambiguo”, in cui la legittimazione delle “pietre” e<br />

della “storia” permetteva di rendere meno complicato il processo stesso di decodifica<br />

del messaggio estetico.<br />

Con le parole di Weick: «L’ambiente costruito sostituisce quello naturale solo<br />

quando non è ambiguo ed è accreditato, solo quando le persone che cercano di<br />

comprendere un input ambiguo in corso compongono un processo di selezione<br />

utilizzando molte norme e pochi cicli e trattano il nuovo input come un prodotto<br />

conosciuto piuttosto che sconosciuto. Oppure, nel caso del processo di costruzione,<br />

l’accreditare un ambiente costruito non ambiguo ha come risultato che le persone fanno<br />

letteralmente quello che hanno fatto in precedenza, a prescindere dai cambiamenti<br />

ecologici in corso. L’enactment accreditato apparirà stereotipato, di routine, e avrà una<br />

stretta somiglianza con una procedura operativa standard 1 ». Detto altrimenti, invece di<br />

usare i mediatori riproduttivi che “vanno per la maggiore” in altri contesti produttivi,<br />

come tecnologie digitali e simulazioni (e che nel caso dello spettacolo, venivano spesso<br />

confusi con i supporti fisici che servivano per supportare la “distribuzione”), in modo<br />

strumentale, qualunque esperienza estetica, anche legata a “forme nuove”, doveva pur<br />

1 Weick 1993: 246 (N.d.T.).<br />

402


sempre muovere i propri primi passi “riproduttivi” attraverso artefatti, simboli e norme<br />

condivise dai contenuti, in primo luogo, estetici 1 .<br />

Weick mi metteva in guardia sul fatto che anche un ambiente “organizzativo” come<br />

quello della sala teatrale, era molto meno “oggettivo” di quanto si potesse immaginare.<br />

La sala, la “fabbrica” per eccellenza del teatro, o meglio il suo “reparto” più importante<br />

e accessibile dall’esterno, era il contesto che più di ogni altro poteva alimentare una<br />

visione “conservatrice” del processo di selezione: da un lato, proprio perché era difficile<br />

cambiare l’interpretazione che si fornisce ad un ambiente, «l’organizzazione mostra una<br />

certa inerzia e una certa lentezza a cambiare» il modo di proporsi; dall’altro, anche il<br />

pubblico non accettava con facilità i cambiamenti collegati al luogo “per eccellenza”<br />

deputato alla interazione estetica con l’organizzazione artistica.<br />

Nella scelta della strategia di selezione nonché delle relative interpretazioni degli<br />

spettacoli, tanto l’organizzazione artistica quanto il pubblico cercavano di essere<br />

“ragionevoli” se non “razionali” pervenendo però a risultati al quanto modesti in quanto<br />

quello che si imponevano nei loro tentativi decisionali erano «delle precedenti<br />

interpretazioni di sequenze causali che hanno funzionato, cioè delle mappe causali di<br />

ambienti precedentemente costruiti»: la scelta di un artista noto all’artista associato<br />

semplificava molto il compito della direzione artistica; così come, dal lato del pubblico,<br />

le scelte si semplificavano se decideva di assistere allo spettacolo di una compagnia già<br />

nota o di disertare alcuni luoghi a tutto vantaggio di altri, già frequentati, e dove si<br />

ritiene di trovare gli spettacoli migliori. Questo modo di risolvere i problemi<br />

dell’ambiguità (estetica, nel caso dello spettacolo teatrale) attraverso costruzioni mentali<br />

precedenti, aveva come conseguenza il fatto che alcune esperienze venivano trascurate,<br />

mentre altre venivano classificare come routine, eventi “da-non-perdere”, o quanto<br />

meno, familiari (coerentemente con la logica dell’opera aperta).<br />

Da dove partiva, quindi, questo affascinante meccanismo della selezione? Il<br />

materiale grezzo che entrava nella selezione consisteva, tipicamente, «in costruzioni<br />

ambigue e in mappe causali di ambiguità variabile 2 ». Il problema di fondo è che gli<br />

stessi input possono generare una varietà di output in quanto intervengono sempre, in<br />

termini di comunicazione, un qualche disturbo o un di gioco di parole, che a loro volta<br />

costituiscono non solo una componente “comunicazionale”, ma una vera e propria<br />

“seconda comunicazione”: ma filtrare un disturbo o un gioco di parole generati in un<br />

costesto “estetico” non era facile come ridurre le distorsioni di una radio che funziona<br />

male. L’ambiguità che si ingenerava nell’ambito di un testo estetico aveva a che vedere<br />

più con la trasmissione stessa del messaggio: l’ambiguità, vista dal lato del pubblico, era<br />

data dal fatto che uno stesso input (estetico) proveniente dal contesto teatrale poteva<br />

generare più output (in termini interpretativi).<br />

1 Mi veniva in mente la diatriba sui sottotitoli nella Corte d’onore. Per non confondere mezzo e fine,<br />

tornava ad avere poco senso se lo spettacolo nella Corte d’onore fosse stato in tedesco e sottotitolato in<br />

francese. I sottotitoli o l’utilizzo di altri “strumenti” che agevolano il fenomeno della “riproduzione”<br />

costituiscono solo elementi a supporto della selezione di senso: ancora una volta, sono estranei al<br />

trasferimento della conoscenza artistica, in quanto non costitutivi dello spettacolo, ma elementi<br />

“gestionali” aggiuntivi. La conoscenza non si stava trasferendo per via dei sottotitoli, ma restava ancorata<br />

alla messa in scena realizzata in quello specifico contesto. Non so come la pensasse in tal senso Jean<br />

Vilar: ma credo che sua concezione di teatro popolare non avesse nulla contro l’utilizzo delle tecnologie.<br />

La “sua” Corte d’onore non avrebbe temuto i sottotitoli, qualora lo spettacolo fosse stato all’altezza delle<br />

aspettative (N.d.T.).<br />

2 Ibidem: 249 (N.d.T.).<br />

403


«Spesso è difficile distinguere fra enactment e selezione», diceva Weick «poiché in<br />

entrambi avviene una certa attribuzione di significato 1 ». Ma se capita spesso di<br />

confondere il “dire” col “vedere”; allo stesso modo, quando si afferma che «credere è<br />

vedere», allora era possibile affermare che la ritenzione (come fissazione di un serbatoio<br />

di convinzioni) è accreditata e diviene quindi un input della selezione. In altri termini, se<br />

la ritenzione consiste in un “magazzino” di ambienti costruiti (per certi versi molto<br />

simile ai meccanismi che permettono la diffusione, la logistica, della conoscenza<br />

immagazzinata), questi ambienti «vengono rimandati al processo di selezione e<br />

agiscono come ambienti sostitutivi per il mondo esterno selezionando particolari<br />

interpretazioni 2 »<br />

Nel caso dello spettacolo teatrale, la sua stessa struttura cognitiva mi permettava di<br />

riuscire a tenere sufficientemente distinti il momento della strutturazione da quello della<br />

riproduzione: e come sottolineava Weick, era così possibile comprendere come il<br />

contesto in cui avveniva la riproduzione generava a sua volta significati aggiuntivi e<br />

riduttivi dell’ambiguità intrinseca dello spettacolo teatrale che non era ancora andato in<br />

scena. Per un professionista del teatro questa affermazione apparirà superflua o, quanto<br />

meno banale: ma nel caso dei processi produttivi “tradizionali”, ma anche nel caso del<br />

teatro di innovazione, si ha spesso la tendenza a fare confusione tra i due momenti<br />

(enactment-selezione e strutturazione-riproduzione).<br />

Nel caso della Corte d’onore, quel straordinario “luogo dell’immaginario”, o meglio,<br />

quel macchinario cognitivo così potente, era in grado di generare fenomeni di<br />

riproduzione unici: altra ovvietà; ma ora almeno sapevamo in quale prospettiva<br />

inquadrarla. Ethis, in particolare, sottolineava come «tenendo conto delle attese che si<br />

generano attorno alla Corte d’onore, è raro che se ne esca completamente soddisfatti. La<br />

Corte è divenuta un simbolo che sfida la realtà stessa dell’atto teatrale, quello dell’attore<br />

e del regista come quello dello spettatore, interrogandone con forza il senso che prende,<br />

oggi, l’espressione “essere a teatro” 3 ». Sempre parafrasando le parole di Ethis:<br />

«comprendere questo “essere spettatori” [significa andare] alla ricerca qui di un se<br />

stesso improbabile che dovrebbe costituire un tutt’uno, quasi organico, con l’insieme di<br />

persone riunite in quel luogo. In ciò il Festival ha raggiunto la sua forma più codificata,<br />

conferendo ai materiali sociali che lo compongono una dimensione di tradizione che<br />

mira a deificare il teatro con gli ornamenti di un incontestabile rito moderno». La<br />

strategia di codificazione di certi tipi di strutture cognitive, apparentemente lontana<br />

dalla logica della cooperazione interpretativa 4 di una conoscenza artistica, in questo<br />

caso specifico operava al massimo delle sue potenzialità. Se la “selezione” che entrava<br />

in gioco durante la “riproduzione” di uno spettacolo all’interno della Corte d’onore<br />

rimetteva in gioco l’interpretazione dello spettacolo stesso rimuovendo in parte<br />

l’ambiguità di cui era permeato, potevo anche spiegarmi il peso incredibile di quel<br />

fenomeno di “negoziazione” di senso che era stato intrapreso dallo stesso Jean Vilar fin<br />

dagli esordi e che lui stesso cercò di “rivedere” a partire dalla seconda metà degli anni<br />

Sessanta, senza, forse, essere completamente compreso dal pubblico. D’accordo con<br />

Ethis, era possibile «tornare alla Avignone degli anni Sessanta, permettendo di<br />

comprendere come la Corte fosse stata il luogo di rinegoziazione della tradizione<br />

festivaliera inventata, come la sua architettura fosse stata (ri)pensata, e indirettamente,<br />

1 Ibidem: 257 (N.d.T.).<br />

2 Weick 1993: 260 (N.d.T.).<br />

3 Ethis 2002: 75 (N.d.T.).<br />

4 Eco 2004a (N.d.A.).<br />

404


come si perpetuava la tradizione più espressiva delle sfide di quella invenzione, e come,<br />

infine, i pubblici che l’hanno riempita fossero stati, fino ad ora, i testimoni attivi di<br />

questo capitolo essenziale della nostra storia culturale».<br />

Jean Vilar, ma anche i suoi successori, avevano chiaro in mente questo ruolo<br />

determinante della Corte d’onore: ecco, dunque, che se da un lato si potevano spiegare<br />

le scelte artistiche degli spettacoli che essa era chiamata ad ospitare; dall’altro<br />

risultavano quanto meno difficili da spiegare gli atteggiamenti di quanti non vedevano<br />

nei signali provenienti dalla Corte di un meccanismo di adattamento e di cambiamento<br />

che invece, a volte, non si produceva. Quando parte del pubblico comincià a domandarsi<br />

i motivi per cui, nella Corte d’onore, vi fossero sempre meno spettacoli “tradizionali”, o<br />

“grandi testi”, o “grandi attori”, ebbene, era entrato in un meccanismo in cui aveva<br />

perso di vista i segnali che dovevano provenire da quello specifico contesto<br />

“riproduttivo”: soffermarsi sulle scelte estetiche a monte impediva, forse, ad alcuni<br />

spettatori, a certa critica, ad alcuni professionisti, di attivare meccanismi di selezione<br />

che andassero nella direzione dell’adattamento piuttosto che della replicazione di una<br />

tradizione che stava cambiando sotto i loro occhi senza che se stessero accorgendo.<br />

Il concetto di “tradizione inventata” utilizzato da Ethis meritava un richiamo, in<br />

quanto egli utilizzava una interessante definizione dello storico inglese Eric J.<br />

Hobsbawn, secondo cui «una tradizione inventata [era] un insieme di pratiche di natura<br />

rituale e simbolica governate da delle regole apertamente o tacitamente accettate e che<br />

cercano di inculcare certi valori o norme di comportamento ripetitivi, la qual cosa<br />

implica, automaticamente, una continuità col il passato. Infatti, qualora ciò sia possibile,<br />

esse tentano normalmente di stabilire una continuità con un passato storico e<br />

appropriato 1 ».<br />

Questo concetto “lasco” di tradizione si adattava bene all’idea di adattamento<br />

nell’organizzazione che passava attraverso il concetto di “riproduzione” dello spettacolo<br />

teatrale: l’ordine apparente generato dalla Corte d’onore, ma anche da qualunque altro<br />

1 Citato in Ethis 2002: 76 (N.d.A.).<br />

405


contesto decisionale di una organizzazione, «viene sopravvalutato e gli si concede<br />

erroneamente credito per quanto riguarda il successo adattivo. Avendo ottenuto del<br />

credito, le azioni ordinate vengono riattuate in futuro, forse strette ancor di più, e<br />

improvvisamente l’organizzazione si scopre senza più contatti con i cabiamenti che<br />

avvengono e gravata di una struttura antiquata e stretta 1 ». Ecco come il luogo simbolo<br />

del Festival di Avignone poteva trasformarsi in un “problema”, nel momento in cui<br />

nessun artista si sentiva in grado di affrontare questi meccanismi di selezione cognitiva<br />

collegati alla memoria storica e alla “tradizione inventata” che ancora molto pubblico<br />

aveva negli occhi (e nella mente).<br />

Lo spazio della Corte d’onore, così come lo spazio storico del Giardino di Urbano V,<br />

avevano un ruolo determinante nel progetto iniziale di Jean Vilar: l’accessibilità fisica e<br />

mentale ai luoghi della riproduzione teatrale passavano per dispositivi come quelli che<br />

aveva messo in atto fin dal 1947, con riferimento tanto ai prezzi dei biglietti quanto alla<br />

architettura della sala stessa. Per quanto riguardava il primo aspetto, rifacendomi<br />

all’indagine condotta da Ethis e colleghi dell’Università di Avignone 2 , emergeva come i<br />

prezzi percepiti dal pubblico per gli spettacoli dell’In fossero effettivamente<br />

mediamente più elevati di quelli medi ipotizzati dagli stessi spettatori per accedere agli<br />

spettacoli dell’Off.<br />

Ma era possibile trovare degli interessanti spunti su almeno tre questioni più<br />

generali: «la relazione che il pubblico intrattiene con il valore accordato al prezzo di un<br />

posto; il modo in cui gli spettatori formulano degli auspici che riflettono la realtà<br />

istituzionale esistente; infine, il ruolo giocato dalla Corte d’onore nel confronto dei<br />

differenti prezzi in corso nel Festival 3 ». Ad esempio, lo scarto tra quello che era<br />

considerato il prezzo del Festival istituzionale rispetto a quello del Festival fringe era<br />

meno marcato di quel che si potesse immaginare. Quindi, la rappresentazione del prezzo<br />

dei posti nell’In e nell’Off non divideva troppo il pubblico, tenendo conto, in sostanza<br />

di un piccolo scarto che era collegato alla realtà delle due manifestazioni. Una realtà che<br />

non era nota tanto in termini istituzionali (nel 2000, sottolineava Ethis, oltre il 70%<br />

degli intervistati non sapeva che Bernard Faivre d’Arcier fosse il direttore del Festival<br />

In e oltre il 90% non conoscenza il nome di Alain Léonard, direttore dell’Off), quanto<br />

riferibile ai “differenti luoghi” e alle “diverse modalità” in cui le manifestazioni si<br />

realizzavano Ethis, nel commentare quelle tabelle, sottolineava, inoltre, come,<br />

contrariamente ai contestatori del ’68, oggi nessuno metteva in dubbio che la cultura<br />

non dovesse avere un valore economico.<br />

Per quanto riguardava il ruolo della Corte d’onore: nel momento in cui si verificava<br />

come nel 2000 (a cui i dati della tabella si riferivano) che il prezzo più alto della Corte<br />

d’onore fosse effettivamente di 200 franchi (circa 30 euro) e il più basso di 60 franchi<br />

(meno di 10 euro), mentre il Festival Off andava dai 90 ai 30 franchi (tra i 15 e 5 euro);<br />

era possibile evidenziare come i prezzi percepiti dal pubblico non si discostassero<br />

eccessivamente da quelli reali, dimostrando di avere perfettamente interiorizzato le loro<br />

aspirazioni con riferimento all’offerta del Festival (tanto In quanto Off).<br />

Anche lo spazio fisico ebbe un suo ruolo determinante in tal senso: la prima Corte<br />

d’onore, quella che Vilar riuscì a mettere assieme con l’aiuto dei militari del genio, era<br />

costruita utilizzando le passerelle che venivano adoperate in caso di esondazione del<br />

Rodano, poggiate su dei grossi bidoni di benzina, mentre i posti a sedere all’interno<br />

1 Weick 1993: 259 (N.d.A.).<br />

2 Ethis 2002 (N.d.T.).<br />

3 Ibidem: 92-93 (N.d.T.).<br />

406


della corte erano dati da delle seggiole posizionate davanti a quel palco improvvisato;<br />

bisognerà attendere il 1967 per vedere comparire le gradinate ed un palcoscenico che<br />

fosse adatto anche alla danza (Béjart presentò il suo primo spettacolo nella corte l’anno<br />

precedente); la Corte del 1982 arrivò a contenere 2250 persone; mentre la versione<br />

(definitiva) del 2002 conteneva poco meno di 2000 spettatori.<br />

Come sottolineò uno scenografo: «Aujourd’hui […] c’est un endroit qui me plaît<br />

parce qu’il n’a pas été conçu par un architecte. On sent que c’est une architecture qui<br />

s’est costruite au fur et à mesure de la vie, des événements, des désirs. […] Cette Cour<br />

fait partie de plusieurs lieux dans le monde et particulièrement en Europe, qui posent<br />

toujours le même dilemme: ou je fais avec ou je fais contre. Soit on renforce ce qu’elle<br />

est, on lui ajoute des éléments qui théâtraliseront et correspondent fonctionnellement au<br />

spectacle sue le quel on traviale, comme si la Cour avait été fait pour lui; on peut, par<br />

example, ajouter des morceaux de mur. Soit on fait contre en jouant la contrainte. C’est,<br />

dans ce cas, iconoclaste. Les deux modalités sont valables. Mais il ne faut pas en avori<br />

peur». Il pubblico, in quella nuova disposizione, era disposto in modo molto omogeneo,<br />

quasi a creare una effettiva comunità attorno ad una scena predisposta per opitare<br />

un’opera come avveniva nel teatro greco e romano. Un modello antico di<br />

“riproduzione”, ma che era tornato straordinariamente attuale.<br />

La nuova disposizione fisica della “sala” rafforzava l’idea che l’organizzazione del<br />

Festival cercava di non andare contro quella «regolarità di schemi e per [quegli]<br />

orientamenti del comportamento non ambigui» che normalmente gli individui<br />

(compreso il pubblico) sembrano preferire. In sostanza, l’evoluzione di un “ambiente”<br />

come la Corte d’onore poteva esercitare un effetto (in termini di selezione) sulle<br />

possibili interpretazioni che rigenerava e rafforzava, basadosi su delle percezioni di<br />

ambienti già costruiti che venivano “controllati, rivisti, aggiornati”: la ritenzione, quale<br />

input della selezione, permetteva di reinterpretare e rinnovare i fenomeni “riproduttivi”,<br />

nel momento in cui era in grado di garantire l’esercizio di tale effetto in modo più o<br />

meno costante «per lunghi periodi di tempo».<br />

In una situazione come quella, Weick avrebbe segnalato che «i) è l’ambiente<br />

costruito, piuttosto che quello fisico, a operare la selezione; ii) il modo tipico in cui<br />

un’organizzazione scinde le decisioni è che le informazioni conservate vengano<br />

accreditate nel processo di selezione e screditate nel processo di costruzione; iii) la<br />

ritenzione e il credere controllano il vedere, proprio tanto quanto il vedere controlla il<br />

credere; iv) adatto a un ambiente costruito significa che le interpretazioni e le<br />

classificazioni sono compatibili con gli ambienti precedenti costruiti 1 ».<br />

La Corte d’onore, come “laboratorio” della riproduzione cognitiva di uno spettacolo<br />

teatrale aveva una caratteristica che, percepita ampiamente dal pubblico, la rendeva quel<br />

luogo speciale che era: era in grado di contenere l’incredibile varietà di significati che<br />

gli spettatori potevano attribuirle restituendo, generando essa stessa, una varietà<br />

altrettanto grande di significati. Con le parole di Weick: se «la varietà all’interno di un<br />

sistema deve essere grande almeno quanto la varietà all’interno dell’ambiente contro la<br />

quale cerca di regolarsi»; allora «è a causa della varietà necessaria che le<br />

organizzazioni devono preoccuparsi di mantenere una diversità sufficiente all’interno<br />

dell’organizzazione per avvertire con precisione la varietà presente nei cambiamenti<br />

ecologici al suo esterno 2 ». Quanta complessità c’era da gestire in termini di “mondi<br />

possibili” che gli artisti del festival erano in grado di produrre ricavando il maggior<br />

1 Weick 1993: 261 (N.d.T.).<br />

2 Ibidem: 263 (N.d.T.).<br />

407


valore riproduttivo possibile da ogni singola pietra della città? Ogni luogo, se da un lato<br />

era in grado di fornire una perfetta “ambientazione” per il progetto estetico dell’artista<br />

di turno, dall’altro restituiva all’artista stesso e all’organizzazione, amplificate e, per<br />

certi versi, “filtrate” le sensazioni dello spettatore: questi si trovava alle prese con quella<br />

specifica riproduzione-rappresentazione teatrale realizzata in quel luogo che, oltre a<br />

fornire, lui stesso, un elemento di decodifica del messaggio artistico dello spettacolo,<br />

andava decodificato, a sua volta, quale componente dello stesso 1 .<br />

In questa prospettiva: la varietà di interpretazioni (dell’artista ma anche del pubblico)<br />

che poteva essere gestita all’interno della Corte d’onore, nel caso dello spettacolo Je<br />

suis sang dell’artista fiammingo Jan Fabre, presentato per la prima volta nel 2001; non<br />

poteva essere la stessa della rappresentazione dello stesso che ebbi modo di vedere al<br />

grande teatro di Udine nel maggio del 2005, poco prima che lo stesso Jan Fabre tornasse<br />

ad Avignone in qualità di artista associato (e che ripresentasse il medesimo spettacolo<br />

nel medesimo contesto della Corte, ma con un risultato di critica completamente<br />

rovesciato). Allo stesso modo, lo spettacolo del 2006 di Josef Nadj e Miguel Barcelo,<br />

Paso Doble, per motivi differenti, non aveva ragione di esistere al di fuori del contesto<br />

in cui esso fu creato, vale a dire nell’abside e nella navata centrale dell’Eglise des<br />

Célestins: non fu un caso che quello spettacolo non venne mai più riprodotto dal vivo,<br />

ma solo diffuso su supporto digitale.<br />

“Registrare” questi fenomeni “ambigui”, vale a dire la varietà necessaria che le<br />

organizzazioni artistiche (ma tutte le organizzazioni) dovrebbero essere in grado di<br />

gestire, significa però dotarsi di strumenti potenti e di processi cognitivi che devono<br />

risultare altrettanto “ambigui”, “sfocati”: in questo modo i responsabili delle<br />

organizzazioni avrebbero una maggiore probabilità di successo nel trattare l’ambiguità<br />

se «riuniscono insieme in un processo molti cicli concatenati diversi e debolmente<br />

vincolati. [Infatti] i processi ambigui sono alquanto disordinati, lavorano spesso a<br />

obiettivi che si intersecano, e hanno spesso l’apparenza di essere dispersivi e poco<br />

efficaci. Questa apparente inefficacia testimonia che il processo sta lavorando, e non<br />

che ha funzionato male 2 ». Se si tenesse nel dovuto conto questo aspetto ogni qualvolta<br />

una organizzazione incontra dell’ambiguità nella strutturazione e nella riproduzione<br />

della conoscenza, molti studiosi di processi decisionali, di strategia d’impresa, di<br />

marketing strategico o di consumer behavior avrebbero forse meno difficoltà nel cercare<br />

di dare interpretazioni realistiche a molti dei fenomeni che essi studiano. Detto<br />

altrimenti, riflettevo sul fatto che: così come la Corte d’onore era in grado di<br />

identificare, selezionare i significati delle esperienze di consumo artistico nel momento<br />

stesso in cui venivano generati e messi a contatto con il pubblico (una sorta di<br />

“racconto” al «futuro anteriore»); allo stesso modo vi dovevano pure essere alcuni<br />

contesti organizzativi (e solitamente sono proprio quelli in cui avviene la riproduzione<br />

della conoscenza), che erano in grado di registrare l’ambiguità che proveniva<br />

dall’ambiente per restituirlo all’organizzazione (attraverso «uno sguardo retrospettivo»).<br />

E se questi contesti davvero venissero studiati in modo accurato, da differenti punti di<br />

vista tra loro interdipendenti? Quante informazioni di carattere strategico-operativo<br />

potrebbero restituire alle valutazioni dei manager e degli attori organizzativi?<br />

Nel labirintico svilupparsi degli spazi teatrali all’interno e fuori dalle mura di<br />

Avignone (sia dal lato del Festival In, sia nella versione Off) vi era un territorio di<br />

1 Ad esempio Elam (1980) analizzava questo fenomeno attraverso per la semiotica del teatro. Neisser<br />

(1976), in generale, ci vedeva una interessante componente del suo ciclo percettivo (N.d.T.).<br />

2 Ibidem: 267 (N.d.T.).<br />

408


conoscenze strutturate e riprodotte che non potevano essere monitorate ed elaborate<br />

esclusivamente sulla base dei tassi di riempimento dei luoghi medesimi: e questo era<br />

valido sia per la «topografia selvaggia» 1 del Festival Off, sia per l’apparente ordine dei<br />

percorsi proposti dal Festival In. Le “storie” che possono essere raccontate su ciò che è<br />

avvenuto in quei luoghi durante le rappresentazioni, qualcosa di un po’ più articolato<br />

rispetto alla conferenza stampa di fine Festival, permetterebbero di realizzare<br />

interessanti processi di “attribuzioni retrospettiva di significato” che è uno dei materiali<br />

grezzi più rilevanti per i precessi di enactement, per la strutturazione di nuova<br />

conoscenza. Inoltre, proprio perché è più facile «trovare il senso di una storia basata su<br />

eventi passati» e «degli eventi accompagnati da una storia sono più comprensibili di<br />

quelli che non lo sono», allora la riproduzione teatrale mi sembrava quanto di più<br />

attinente al processo di selezione, in quanto solo al momento della rappresentazione in<br />

un luogo ben preciso e in un dato momento era possibile prendere coscienza di ciò che<br />

si aveva di fronte.<br />

1 Georges Banu, in Festival d’Avignon 1996, primo capitolo (N.d.T.)<br />

409


XXXI<br />

(Epilogo. Struttura, forma e flussi di conoscenza al Festival di Avignone. La logistica al Festival di<br />

Avignone: distribuire flussi di conoscenze (artistiche), nel tempo e nello spazio)<br />

Dove la distribuzione teatrale viene paragonata ad un flusso di saperi che si muovono<br />

nel tempo e nello spazio, alla ricerca del loro prossimo utilizzatore <br />

410


«Un essere organizzato non è dunque una semplice<br />

macchina, poiché quella non ha altro che la forza motrice, ma<br />

possiede in sé una forza formativa autopropagantesi, che<br />

comunica alle sue componenti che non ce l’hanno di per sé,<br />

organizzandole; ciò non può essere spiegato con la sola<br />

facoltà meccanica del movimento»<br />

(Immanueal Kant, da Critica della facoltà di giudizio)<br />

Cosa accadeva quando gli spettacoli del programma del Festival entravano nella<br />

memoria collettiva del pubblico? Se la programmazione artistica del Festival era un<br />

momento determinante per la costruzione di percorsi (estetici) del pubblico,<br />

retrospettivamente come reagiva quest’ultimo: dove andavano gli spettatori e con cosa<br />

entravano più a contatto? E l’organizzazione-Festival: come manteneva memoria della<br />

propria storia artistica, dell’evoluzione delle proprie scelte estetiche? Questione, questa,<br />

che aveva molto di gestionale, ma che, con le dovute cautele, aveva anche dei risvolti<br />

non meramente contabili. La “contabilità” dello spazio cognitivo, ad Avignone come<br />

altrove, deve avere solo un ruolo strumentale alla sua interpretazione: perché, come<br />

sempre, non si può chiedere ai numeri più di quanto essi possano dare.<br />

Per il momento si trattava di problemi di distribuzione (della memoria) tutti interni al<br />

Festival, in quanto della distribuzione in senso ampio della conoscenza attraverso gli<br />

spettacoli che escono dal contesto del Festival stesso ne parleremo a tempo debito.<br />

Il Festival di Avignone, quindi, costituiva uno spazio-tempo che alimentava la<br />

distorsione e l’incompletezza dei messaggi artistici che aveva immaginato di registrare<br />

attraverso la programmazione e quindi la rappresentazione degli spettacoli. Detto<br />

altrimenti, se il Festival fosse una macchina fotografica con una pellicola perfetta in<br />

grado di restituire all’osservatore l’immagine completa che esso voleva dare: a) non vi<br />

sarebbero distorsioni dovute a dispersione e ad alterazioni delle relazioni tra spettacoli<br />

più o meno enfatizzati; b) non vi sarebbe incompletezza dovuta al fatto che qualcuno ha<br />

tralasciato qualcosa.<br />

Il fatto che tempi e luoghi circa lo schema di presentazione della programmazione<br />

del Festival possano generare «cattive superfici mnemoniche» non costituiva in sé un<br />

problema se si era consapevoli della cosa. Ma, strategicamente, come si spiegavano le<br />

scelte “riproduttive” e di “diffusione” del Festival? Come giungere ad una coerente<br />

strategia di riduzione delle distorsioni e delle incomprensioni derivanti da spettacoli<br />

solo parzialmente selezionati nei percorsi del pubblico se non addirittura tralasciati?<br />

Realizzare un programma artistico non significava solo produrne il contenuto, ma,<br />

ancora una volta, gestirne la riproduzione e la distribuzione interna al Festival, secondo<br />

regole di governo delle relazioni che ne permettessero il massimo valore di<br />

propagazione possibile per tutti. Ciò aveva un impatto notevole sul “magazzino” di<br />

conoscenza conservata tanto dall’organizzazione artistica che aveva prodotto lo<br />

spettacolo (tra cui lo stesso Festival), quanto dal pubblico che lo aveva fatto proprio<br />

all’interno di un suo specifico percorso, più o meno consapevole che fosse stato. Un<br />

magazzino, prendendo a prestito, ancora una immagine proposta da Weick, non era un<br />

luogo «in cui vengono riposte le cose sperando di poterle ritrovare nella stessa identica<br />

forma di quando erano state immagazzinate la prima volta 1 ». Così, il ricordo di uno<br />

spettacolo, di una esperienza estetica, di un rapporto artistico con un regista o una<br />

compagnia, in generale, ogni nostra esperienza, non resteranno nella memoria tanto<br />

dell’organizzazione artistica quanto del pubblico (dei vari pubblici di riferimento) così<br />

1 Weick 1993: 293 (N.d.T.)<br />

411


come sono state realizzate. La riproduzione di uno spettacolo teatrale e il collegato<br />

meccanismo di ritenzione erano davvero dei fenomeni enigmatici e per certi versi<br />

ineffabili. Ma erano di straordinaria importanza quando si ha a che fare con una<br />

conoscenza tanto delicata, proprio perché effimera. E dal modo in cui “ricordiamo”<br />

l’esperienza questa diventava conoscenza utilizzabile con modalità molto differenti,<br />

proprio perché «il ricordo è ogni giorno più simile a un sillogismo che a una fotografia:<br />

generalmente seguiamo dei gradini che si susseguono nel passato; solo raramente lo<br />

rievochiamo in un panorama istantaneo. […] Noi traduciamo costantemente la nostra<br />

esperienza in simboli, li immagazziniamo nella memoria e reperiamo i simboli invece<br />

dell’esperienza stessa. Quando viene il momento di rievocare, cerchiamo di ricostruire<br />

l’esperienza a partire dai simboli ricordati 1 ».<br />

In una prospettiva simile, pressoché nessuno dell’organizzazione-Festival «controlla,<br />

comprende o vede l’intero insieme». Cercare di capire ciò che li circondava era<br />

fondamentale, ad esempio, per la direzione (ma lo era anche per il pubblico) se non si<br />

voleva incorrere troppo spesso in quella paradossale, ma estremamente comune,<br />

situazione per cui «le persone all’interno dell’organizzazione sembrano agire in modi<br />

che contraddicono quanto affermano» in contesti differenti 2 .<br />

L’esempio di Jean Vilar, vista anche la minore “complessità” che era chiamato a<br />

gestire, dal punto di vista strettamente artistico, specie nei primi anni del Festival,<br />

costituiva un caso di “ritenzione” estremamente localizzata: forse lui era veramente<br />

l’unico depositario della strategia di fondo che lui chiamava “teatro popolare”, creando,<br />

forse i presupposti per un disequilibrio tra elasticità e stabilità della memoria. Era<br />

esattamente quanto lamentava Faivre d’Arcier, costretto a fare “i conti con la storia” per<br />

questioni e pratiche che andavano ben al di là del ragionevole. L’elasticità al<br />

cambiamento derivava dalla capacità di fare sempre più spesso a meno della “memoria”<br />

per esplorare soluzioni nuove 3 ; essa risultava però in contrasto con l’esigenza di<br />

conservare nel tempo un certo senso dell’identità e delle tradizione, proprio perché<br />

«ogni unità sociale è definita in parte dalla sua storia, da quello che ha fatto e da quello<br />

che ha ripetutamente scelto. [E] l’elasticità cronica distrugge l’identità».<br />

In questi termini si andava direttamente a toccare la questione delle scelte effettuate<br />

dal pubblico: quali ragioni e quali giustificazione fondavano tali scelte? Gli spettatori,<br />

indubbiamente, sceglievano nell’ambito di una offerta tanto diversificata quanto<br />

relativamente omogenea, se riferita a quella sorta di legame implicito che riuniva<br />

organizzatori e spettatori attorno ad una definizione comune del teatro. E quest’ultima<br />

era il prodotto stesso della storia del Festival: si trattava di quello famoso spazio di<br />

costrizioni, di obblighi, di limitazioni per i responsabili della programmazione unito ad<br />

un meccanismo fiduciario, poco i per nulla rimesso in questione, da parte degli<br />

spettatori. In altri termini, Il Festival di Avignone non costituiva una offerta tra le tante<br />

altre, nell’ambito di un insieme di divertimenti culturali proposti durante l’estate nella<br />

regione dei festival.<br />

In effetti, mi sembrava di poter affermare come non fosse attorno ai dettagli della<br />

programmazione che potevano elaborarsi il successo o la sconfitta di una edizione del<br />

Festival, ma piuttosto sulle fluttuazioni possibili nel modo di aderire globalmente ad una<br />

proposta artistica complessiva. Quindi, il Festival, per mantenere e sviluppare della<br />

fiducia, dovrebbe ravvivare continuamente la memoria che il pubblico ha della<br />

1<br />

Questo passo è citato in Weick 1993: 293 (N.d.T.).<br />

2<br />

Ibidem: 294 (N.d.T.)<br />

3<br />

Nelson, Winter 1982; Di Benrnardo, Rullani 1985, 1990; Warglien 1990; Narduzzo 2003 (N.d.T.).<br />

412


manifestazione stessa e, contemporaneamente, mostrare la sua capacità a rimettere in<br />

gioco le routine e i vantaggi acquisiti col tempo. La coscienza o la memoria di questo<br />

tipo di patto sono lontani dall’essere identici presso ogni spettatore. Quindi, le ragioni di<br />

un possibile declino futuro del Festival andrebbero ricercate nell’ambito della rottura di<br />

questo patto implicito piuttosto che enl’ipotetico errore di programmazione artistica.<br />

In questa logica, la classifica del Festival, costituita a partire dal tasso di riempimento<br />

dei luoghi la cui capienza era molto varia, non poteva essere interpretata come la<br />

traduzione di gusti dei festivalieri. In effetti, l’Edouard II di Marlowe, creato per la<br />

Corte d’onore nel 1996 dal regista Alain Françon, era arrivato in testa ale proferenze,<br />

della 50^ edizione del Festival, con più di 15000 spettatori ed un tasso di riempimento<br />

dell’(84%), nonostante fosse stato accolto freddamente dala critica. Ma questo può<br />

essere ragionevolmente confrontato con lo spettacolo La fin des monstres presentato lo<br />

stesso anno dal Jean-Paul Wenzel, e anche questo vittima di una critica negativa: questo<br />

spettacolo, rappresentato lontano dal centro di Avignone, sotto il capitello di Montfavet,<br />

ebbe un tasso di copertura che non superò il 29%. Semplicemente una cattiva<br />

“location”? Non necessariamente visti i successi ripetuti degli spettacoli di Bartabas.<br />

Per altri spettacoli, esistevano poi delle dinamiche proprie che potevo verificare<br />

dall’analisi dei dati proposti ancora dall’indagine di Ethis e colleghi. Ad esempio,<br />

un’offerta particolarmente originale collegata ad un forte sostegno da parte di un<br />

pubblico di “fedeli supporter” di un artista, potevano spiegare il caso dello spettacolo di<br />

413


Olivier Py, il quale, con il so Cabaret, tredicesimo per capienza complessiva e settimo<br />

per numero di spettatori, raggiunse il tasso record di riempimento della sala del 114%!<br />

Questo strumento, ovviamente, era puramente indicativo, ma serviva a gettare uno<br />

sguardo su una problematica rilevante in termini di scelte: oltre al luogo, le date<br />

all’interno della programmazione generale e del calendario dell’intero Festival, nonché<br />

gli effetti sul tasso di riempimento visto che non si tratta sempre dello stesso pubblico<br />

lungo le tre settimane di programmazione, erano alcuni dei parametri che, senz’altro,<br />

servivao a realizzare delle scelte coerenti.<br />

La tensione ad ogni modo esisteva, in quanto non era pensabile che uno spettatore<br />

del Festival di Avignone fosse «particolarmente docile e che accettasse volentieri di<br />

lasciarsi imporre i giudizi di gusto che variavano lunghi gli anni e al succedersi di<br />

ciascun gruppo di direzione»: fin dai tempi di Jean Vilar lo spettatore era considerato<br />

come un “componente” determinante del processo di creazione. Il pubblico di<br />

Avignone si confrontava direttamente, quotidianamente con i professionisti, si<br />

preoccupava di dare il proprio punto di vista.<br />

Se si potessero osservare dall’alto gli spostamenti di uno spettatore del Festival di<br />

Avignone, quansi a voler individuare una sorta di logica profonda nelle sue scelte<br />

all’interno della programmazione, sarei stato spinto a pensare ad una sorta di apparente<br />

celebrazione religiosa, una “processione”, legata ad alcuni passaggi percepiti come<br />

“immancabili”, quasi a seguire il resto della folla in modo cerimonioso. A ben vedere le<br />

cose stavano diversamente. Dietro quei percorsi apparentemente senza senso o guidati<br />

dagli altri “fedeli”, potevano nascondersi logiche ben più sottili e processi di scelta ben<br />

414


più sofisticati. Si potrebbe pensare ad un gusto “dominante” espresso da una sorta di<br />

comunità o entità collettiva identificabile, in modo approssimativo come “il pubblico<br />

del Festival”. Ma non era del pubblico che intendevo discutere ora. La mia riflessione<br />

riguardava piuttosto la “logistica” interna, quasi “urbana” del Festival: in breve, la<br />

“logistica degli spettacoli” (e quindi, giocoforza, degli spettatori), questa sorta di<br />

gestione della conoscenza all’interno di uno “spazio distribuito” che per il momento, e<br />

con riferimento allo spettacolo teatrale, era personale e locale; ma che si preparava a<br />

diventare quanto meno metropolitano e, sicuramente, globale nel momento in cui lo<br />

spettacolo teatrale lasciava il suo contesto di origine.<br />

Questo processo avveniva in più fasi, almeno<br />

due, forse tre: i dati “di base” per organizzare<br />

questo processo il pubblico li aveva già a marzo,<br />

con la presentazione del programma di massima<br />

del Festival; poi, ne aveva una versione più<br />

approfondita con la pubblicazione completa del<br />

programma, qualche settimana dopo, tra maggio<br />

e giugno; infine, potevo individuare l’effettivo<br />

momento di avvio del processo di “ritenzione”<br />

successivo ad una fase di “scelta più o meno<br />

consapevole e rischiosa”, con l’ottenimento del titolo che dava il diritto a partecipare<br />

all’esperienza teatrale: l’acquisto del biglietto (più spesso dei biglietti) in una delle<br />

possibili modalità (direttamente alla biglietteria di Cloître Saint-Louis, prima dell’inizio<br />

del Festival, alle biglietterie dei singoli spettacoli, telefonicamente, attraverso internet<br />

passando per la Fnac locale, acquistandolo da chi lo metteva in vendita per un<br />

qualunque motivo). A quel punto la “selezione” di cosa “trattenere”, di cosa fare<br />

memoria tra le esperienze artistiche offerte, si legava al problema, questo si tutto di<br />

ordine pratico, dei limiti di capienza stabiliti per ciascuno spettacolo. Su una<br />

cinquantina di spettacoli presenti nel programma del Festival In: alcuni potevano<br />

contare su spazi teatrali con una capienza massima di qualche centinaio di posti, come<br />

ad esempio la splendida Chapelle des Penitents Blancs che, a seconda del dispositivo<br />

scenico, poteva arrivare a duecento posti, garantendo una capienza massima di un<br />

migliaio di posti nel caso di quattro o cinque rappresentazioni di uno stesso spettacolo;<br />

per contro, uno spettacolo, anche esso proposto in quattro o cinque rappresentazioni<br />

nell’altrettanto affasciante spazio del Cloîtres des Carmes, poteva raggiungere una<br />

capienza quasi tripla. Era di tutta evidenza che la visibilità di uno spettacolo era<br />

strettamente collegata con la posizione che esso doveva occupare all’interno della<br />

programmazione. Ricordavo molti casi emblematici in cui le scelte di quella natura si<br />

rivelarono lietamente infelici visto il successo dello spettacolo. Ad esempio, nel 2005, i<br />

biglietti per gli spettacoli di Gisèle Vienne, rappresentati proprio alla Chapelle des<br />

Penitents Blancs e basati sui testi provotatori, violenti e straordinariamente esasperanti<br />

di Dennis Cooper, Catherine e Robert Robbe-Grillet, andarono presto esauriti<br />

nonostante la domanda fosse ancora notevole: molti spettatori e tra quelli anche io,<br />

fummo attirati solo successivamente, a Festival iniziato, da quegli spettacoli, nonostante<br />

Gisèle Vienne fosse un’artista già nota al pubblico esperto. Nel mio caso, inoltre, si<br />

trattava, guarda caso, di scelte che avevo fatto settimane prima ma che, ora, potevano<br />

essere modificate, adattate, alla luce delle mie nuove preferenze, di nuovi percorsi che<br />

stavo scoprendo: ma la capienza prevista per i suoi spettacoli non fu tale da soddisfare<br />

tanta attenzione. Di tutta evidenza, si trattava di un problema di natura “logistica”, di<br />

415


una scelta precisa e assolutamente lecita, corretta nel momento in cui fosse stata<br />

oggetto, come di fatto fu, di una lucida strategia i cui effetti non potevano che essere<br />

apprezzati ex-post.<br />

Come ogni buon economista della cultura non smetterà mai di sottolineare, la<br />

questione della rigidità del “processo produttivo” dello spettacolo dal vivo ne dovrebbe<br />

costituire una delle caratteristiche dominanti: forse ora il mio lettore potrà controbattere<br />

da solo a tale fallace ipotesi, sottolineando a sua volta che la “capienza degli spazi<br />

teatrali” non costituisce di per sé il problema “produttivo” che esaurisce tutte le possibili<br />

lavorazioni cognitive che portano alla diffusione dello spettacolo teatrale. Un problema<br />

di distribuzione, di natura logistica, un collo di bottiglia all’interno di un processo di<br />

produzione complesso, è tipico di ogni filiera cognitiva senza che a ciascuna falla di un<br />

processo produttivo debba venire assegnato uno specifico “morbo di Baumol” a<br />

sottolinearne una inefficienza che è solo transitoria oppure dovuta ad un modo scorretto<br />

o incompleto di osservare il fenomeno 1 .<br />

Quindi, la mappatura, il gioco di incroci, tra numero di rappresentazioni di una<br />

spettacoli e dimensioni della sala che ne ospitava la riproduzione diventava una<br />

fondamentale problematica di scelte in cui le possibili combinazioni, pur essendo, sulla<br />

carta, pressoché infinite (ma limitate), di fatto erano finite e, sostanzialmente,<br />

“determinate” da tutta una serie di pre-condizioni (vicoli di natura cognitiva autoimposti<br />

dalle scelte stesse dell’organizzazione) collegabili alle fasi precedenti del processo di<br />

realizzazione del Festival. Se proprio di “limitazioni” di natura logistica si poteva<br />

parlare, ebbene si trattava di circoscrivere le problematiche di natura “distributiva”<br />

collegate alle scelte di strutturazione e di riproduzione che erano state fatte in<br />

precedenza per ogni spettacolo della programmazione.<br />

Ecco dunque che i “flussi” collettivi di spettatori, da uno spazio all’altro del Festival,<br />

a seguire il proprio percorso, la propria mappa di quel territorio artistico praticamente<br />

sterminato, subivano dei vincoli spazio-temporali che, in modo più o meno<br />

consapevole, erano frutto della gestione delle fasi antecedenti del processo produttivo.<br />

Con una certa lungimiranza, forse, era anche possibile tenere conto delle esigenze di<br />

diffusione degli spettacoli con riferimento alle fasi successive della filiera cognitiva del<br />

teatro, ad esempio agevolando spettacoli che non erano ancora inseriti, o non in modo<br />

completo, nei circuiti di diffusione, attraverso le tournée nazionali e internazionali dopo<br />

il Festival.<br />

Non sarà sfuggito al lettore il fatto che abbia fatto allusione a dei “vincoli spaziotemporali”,<br />

con riferimento alla logistica interna al Festival. Ebbene, quanto riferito per<br />

la gestione degli spazi, andava infatti esteso anche richiamando la dimensione temporale<br />

delle scelte distributive interne al programma. Osservando, infatti, il calendario degli<br />

spettacoli riproposto in modo attento e intelligente nell’ultima pagina del programma e<br />

nella piccola “guida dello spettatore”, il lettore attento poteva tranquillamente<br />

evidenziare questa triplice dimensione presente in quella fase della “lavorazione<br />

1 Rinviando a quanto già il lettore ha avuto modo di leggere pagine addietro (nelle prime tre parti di<br />

questo lavoro), potrei qui solo aggiungere che i problemi della “moderna” logistica, che colpiscono i<br />

processi produttivi dei settori economici considerati più avanzati (dalla distribuzione di massa, alla<br />

componentistica, dalla elettronica avanzata alla biomeccanica), sono oggi oggetto di appassionanti studi<br />

da parte di molti ricercatori di economia, management e ingegneria. Credo che nessuno studioso<br />

assennato si sia preso il disturbo di affermare che questi settori, con specifiche problematiche legati ai<br />

mediatori logistici attraverso cui si sviluppano una parte (per altro rilevante) dei loro processi produttivi,<br />

possano considerarsi come “settori regressivi” o “settori economici a produttività stagnante” (Baumol,<br />

Bowen 1966) (N.d.T.).<br />

416


cognitiva”: un tabellone che, per la semplicità e l’eleganza con cui riusciva a spiegare<br />

tutta la complessità di cui era depositario, poteva considerarsi degno del più potente dei<br />

sistemi integrati di gestione a supporto della logistica di una moderna impresa<br />

industriale. In realtà, quindi, bisognava prestare attenzione al fatto che le scelte<br />

“distributive” (dell’organizzazione e del pubblico) non venivano effettuate in modo<br />

immediato, ma si iscrivevano all’interno di un processo, probabilmente anche piuttosto<br />

rapido, o in cui, comunque, il fattore tempo giocava un ruolo importante nell’attivazione<br />

della decisione, ma che non era possibile ricondurre al semplice atto di acquisto di un<br />

biglietto. Una ulteriore riflessione: in una logica strettamente di marketing, e al<br />

momento stesso in cui venivano diffusi, non era facile collegare i dati sulla<br />

frequentazione degli spettacoli in funzione dei gusti degli spettatori. Al di là del fatto<br />

che non poteva esserci una confrontabilità diretta tra spettacoli che avevano seguito<br />

“percorsi produttivi” diversi, collegati anche alla scelta del loro “spazio di<br />

rappresentazione”; il fenomeno “vero” che stavo osservando, era legato al fatto che la<br />

presenza del pubblico ad uno spettacolo non poteva essere collegata automaticamente<br />

ad un giudizio favorevole a posteriori sullo stesso, né, tanto meno, sulla certezza a<br />

priori di assistere ad una rappresentazione di proprio gradimento.<br />

Quando immaginavo di fondare questi ragionamenti sulla logica dell’equilibrio tra<br />

elasticità e stabilità dei processi di ritenzione, avevo in effetti in mente un fenomeno<br />

particolare collegabile al pubblico e alla storia del Festival. La critica al Festival, parte<br />

integrante della sua stessa esistenza, era collegata fortemente al passato: molti dei<br />

giudizi del pubblico sulla programmazione del Festival sembravano ancorati alla<br />

«legittimità storica di Jean Vilar 1 », il padre fondatore, come se quella sua avventura<br />

costituisse l’orizzonte di riferimento non oltrepassabile della pratica teatrale<br />

contemporanea (nel senso di odierna). La «versione conservatrice dell’ortodossia<br />

vilariana», creava una sorta «di impasse sulle condizioni contemporanee della<br />

produzione e delle ricezione teatrale 2 ». Nella mia prospettiva, l’impasse era legato ai<br />

processi che permettevano di collegare riproduzione e distribuzione della conoscenza<br />

internamente al Festival, durante il Festival e nell’ambito del suo programma. Ecco,<br />

dunque, che l’elasticità serviva affinché le pratiche (le modalità di “partecipazione”) in<br />

corso potessero venire modificate per essere adattate ai mutamenti dell’ambiente<br />

(artistico) che venivano proposto dall’organizzazione al pubblico. Un eccesso di<br />

elasticità, per contro, impedisce che «l’organizzazione conservi nel tempo un senso di<br />

identità e di continuità. Ogni unità sociale è definita in parte dalla sua storia, da quello<br />

che ha fatto e da quello che ha ripetutamente scelto. L’elasticità cronica distrugge<br />

l’identità». All’opposto, la stabilità nei fenomeni di ritenzione costituiva il meccanismo<br />

per trattare in modo economico le situazioni nuove, «poiché ci sono nel mondo delle<br />

regolarità che l’organizzazione può sfruttare se ha una memoria e la capacità di ripetere.<br />

Tuttavia la stabilità cronica non è funzionale, perché modi di risposta più economici<br />

potrebbero non venire mai individuati; ciò, a sua volta, significherebbe che nuovi aspetti<br />

ambientali non verrebbero mai notati 3 ».<br />

I meccanismi di fiducia che regolavano le scelte di come “distribuire” la<br />

programmazione all’interno dello spazio-tempo del Festival, erano collegati a processi<br />

interpretativi che, in modo brillante, Weick riassumeva in questi termini 4 : i) «sapendo<br />

1 In Ethis 2002: 118 (N.d.T.).<br />

2 Ibidem: 119 (N.d.T.).<br />

3 Weick 1993: 298 (N.d.T.).<br />

4 Weick 1993: 300 (N.d.T.).<br />

417


quello che so ora, dovrei cambiare il modo in cui classifico e collego il flusso di<br />

esperienza?»; e ii) «sapendo quello che so ora, dovrei agire diversamente?». Il primo<br />

processo, di tutta evidenza, era legato alla selezione; il secondo era collegabile ad una<br />

revisione delle classificazioni e, quindi, di costruzione attraverso l’enactment. Tutto<br />

questo per spiegare come la logistica di uno spettacolo teatrale, specie nella fase di<br />

riproduzione (ovvero alla prima rappresentazione nel luogo di origine) ma anche in<br />

quella di diffusione della conoscenza connettiva, costituiva una sorta di logistica<br />

inversa, rovesciata, basata sul discredito 1 e sul meccanismo della decisione sdoppiata:<br />

prafrasando Karl Weick, le organizzazioni artistiche sono necessariamente costrette a<br />

screditare, in parte, quello che conosco in termini di esperienze artistiche accumulate e<br />

di comportamenti di consumo del pubblico, e non solo perché hanno l’esigenza di<br />

mettere costantemente in dubbio ciò che sanno per certo. In altre parole: «quando<br />

sosteniamo che le organizzazioni devono in parte screditare la loro conoscenza passata,<br />

intendiamo anche che un’organizzazione dovrebbe trattare come certe quelle cose di cui<br />

dubita. Dubitare significa screditare le informazioni non ambigue, agire senza esitazioni<br />

significa screditare le informazioni ambigue. Quando le cose sono chiare, dubitate;<br />

quando siete in dubbio, trattate le cose come se fossero chiare. Questo è il pieno e<br />

simmetrico significato dello screditare 2 ».<br />

Infine, un’ultima osservazione: se la regolarità dell’adesione del pubblico poteva,<br />

qualche volta, lasciare pensare che l’offerta di spettacoli si inscrivesse in una sorta di<br />

“mercato capzioso”, secondo una sorta di gerarchia dell’offerta classificata in termini di<br />

capienza disponibile, le indagini che avevo considerato e ciò di cui avevo fatto io stesso<br />

esperienza, mi permettevano di costruire un’idea di pubblico “socialmente diversificato<br />

e animato da uno spirito critico”, per il quale i luoghi del Festival costituivano un<br />

supporto sensibilmente appropriato per l’esercizio del “giudizio” sulla esperienza<br />

artistica complessiva. La formula stessa del Festival di Avignone dimostrava «una<br />

grande plasticità e un capacità di restare identica a se stessa pur trasformandosi<br />

profondamente».<br />

Provare ad analizzare l’interazione tra “offerta” e “pubblico”, restando all’interno del<br />

programma del Festival, e considerandola in una logica di processi di “ritenzione”, mi<br />

permetteva di assumere una prospettiva particolare: tenere, per quanto possibile,<br />

artificialmente distinti processi che avvenivano in reparti differenti, vale a dire, quanto<br />

avveniva, in termini di riproduzione e di distribuzione dello spettacolo dal punto di vista<br />

dei processi interni all’organizzazione-festival, rispetto alle stesse lavorazioni cognitive<br />

osservate dall’ottica del pubblico. Altrimenti detto, stavo cercando di distinguere per poi<br />

mettere assieme, il testo teatrale del Festival, quanto avveniva all’interno<br />

dell’organizzazione, con il suo testo spettacolare, ovvero le relazioni tra<br />

l’organizzazione-Festival e il suo pubblico.<br />

Ed era di quest’ultima parte della metafora tra spettacolo e festival che N. voleva,<br />

ora, discutere col lettore, portandola alla sua attenzione.<br />

1 «La parola discredito è una parola forte che in generei indica il rifiuto di accettare qualcosa come vero.<br />

Lo screditare non significa che si debba prendere per falsa una mappa causale e rifiutare di accettarne una<br />

parte qualsiasi. La sfumatura che vogliamo preservare è, invece, che ci sono delle buone ragioni per<br />

mettere in discussione la precisione e l’affidabilità di ambienti costruiti, che si dovrebbe essere diffidenti<br />

a proposito di ogni versione privata del mondo e che la credibilità di quell’ambiente costruito non è<br />

garantita» (Weick 1993: 306) (N.d.T.).<br />

2 Weick 1993: 306 (N.d.T.).<br />

418


5<br />

<strong>IL</strong> TESTO SPETTACOLARE DEL <strong>FESTIVAL</strong>: TERRITORI,<br />

COMUNITÀ E RETI


XXXII<br />

(Prologo. Le componenti spettacolari del Festival di Avignone)<br />

In cui continua la metafora dello spettacolo dal vivo, prendendo in considerazione<br />

questa volta la componente spettacolare della rappresentazione teatrale, ovvero il suo<br />

rapporto col pubblico <br />

«Pensare, analizzare, inventare (mi scrisse pure) non sono<br />

atti anomali, sono la normale respirazione dell’intelligenza.<br />

Glorificare l’occasionale esercizio di questa funzione,<br />

tesaurizzare pensieri antichi e lontani, ricordare con incredulo<br />

stupore ciò che il doctor universalis pensò, è confessare il<br />

nostro languore o la nostra barbarie. Ogni uomo deve essere<br />

capace di ogni idea, e credo che nell’avvenire sarà così».<br />

(Jorge Luis Borges, Pierre Menard, autore del Chisciotte)<br />

Nel suo racconto “La ricerca di Averroé”, Jorge Louis Borges rappresentò come<br />

meglio non si potrebbe il significato più profondo dell’idea di teatro.<br />

Il protagonista di quel suo racconto fantastico, il grande medico e filosofo arabo<br />

Averroé, si trovava a dover risolvere «un problema d’indole filologica, connesso con<br />

l’opera monumentale che lo avrebbe giustificato davanti al mondo: il commento di<br />

Aristotele. Questo greco, fonte di tutta la filosofia, era stato dato agli uomini affinché<br />

insegnasse loro tutto ciò che si può conoscere; interpretare i suoi libri, come gli ulema<br />

interpretano il Corano, era l’aduo proposito di Averroé. Poche cose registrerà la storia<br />

più belle e più patetiche di questo consacrarsi di un medico arabo ai pensieri di un uomo<br />

dal quale lo separavano quattordici secoli. Alle difficoltà intrinseche dobbiamo<br />

aggiungere che Averroé, non conoscendo il siriano e il greco, lavorava sulla traduzione<br />

di una traduzione. Il giorno prima, due parole dubbie lo avevano arrestato al principio<br />

della Poetica. Le parole erano tragedia e commedia. Le aveva trovate, anni prima, nel<br />

terzo libro della Rettorica; nessuno nell’ambito dell’Islam, aveva la più piccola idea di<br />

quel che volessero dire».<br />

In un momento di ozioso pensiero «lo distrasse una strana melodia. Guardò<br />

attraverso l’inferriata del balcone: giù nel patio, giocavano alcuni ragazzi seminudi.<br />

Uno, in piedi sulle spalle di un altro, faceva evidentemente da muezzin; con gli occhi<br />

chiusi, salmodiava: “Non c’è altro dio che Allah”. Quello che lo sosteneva, immobile,<br />

faceva da minareto; un terzo, inginocchiato nella polvere, rappresentava i fedeli. Il<br />

giuoco durò poco; tutti volevano essere il muezzin, nessuno i fedeli e il minareto.<br />

Averroè li udì litigare in dialetto volgare, cioè il primitivo spagnolo della plebe<br />

mussulmana della penisola».<br />

In seguito si ricordò che «il mercante Abulcasim Al-Asharì, ch’era appena tornato<br />

dal Marocco, avrebbe cenato con lui quella sera in casa dell’alcoranista Farach.<br />

Abulcasim diceva di aver toccato i regni dell’impero di Sin (la Cina); i suoi detrattori,<br />

con la speciale logica dell’odio, giuravano che non aveva mai toccato la Cina, e che nei<br />

templi di quel paese aveva bestemmiata Allah». Dopo aver lavorato fino al crepuscolo,<br />

Averroè si ritrovò a discutere in casa di Farach. Quando si spostarono in giardino,<br />

cominciarono a parlare di rose. «Abulcasim, che non le aveva neppure guardate, giurò<br />

che non c’erano rose come quello che ornano le ville andaluse. Ma Falach non si lasciò<br />

corrompere; osservò che il dotto Ibn Qutaiba descrive una straordinaria varietà di rosa<br />

perpetua, che nasce nei giardini dell’Indostan e i cui petali, d’un rosso acceso, recano<br />

caratteri che dicono: “Non c’è altro dio che Allah, e Maometto è il suo profeta”».


Successivamente intervenne Averroè, il quale «dichiarò, profigurando le remote ragioni<br />

di un ancora problematico Hume: “Mi costa meno ammettere un errore del dotto Ibn<br />

Qutaiba, o nei copisti, che ammettere che la terra dia rose che recano sui petali la<br />

professione della fede”.<br />

“Così è. Grandi e vere parole,” disse Abulcasim.<br />

“Un viaggiatore,” ricordò il poeta Abdalmalik, “parla di un albero i cui frutti sono<br />

verdi uccelli. Meno ci costa credere a ciò che a rose con caratteri”.<br />

“Il colore degli uccelli,” disse Averroè, “sembra facilitare il prodigio. Inoltre, frutti e<br />

uccelli appartengono al mondo naturale, ma la scrittura è un’arte. Passare da foglia a<br />

uccello è più fcile che da rose a caratteri”».<br />

La discussione si fece accesa e «Farach espose lungamente la dottrina ortodossa. Il<br />

Corano – disse – è uno degli attributi di Dio, come la Sua pietà; lo si copia in un libro,<br />

lo si pronuncia con la lingua, lo si ricorda nel cuore; l’idioma, i segni e la scrittura sono<br />

opera degli uomini, ma il Corano è irrevocabile ed eterno. Averroé, che aveva<br />

commentato la Repubblica, avrebbe potuto dire che la madre del Libro è come il suo<br />

modello platonico, ma pensò che la teologia era tema del tutto inaccessibile ad<br />

Abulcasim».<br />

(continua…)<br />

***<br />

Da qui in avanti, pensai, il mio lettore poteva continuare da sé.<br />

Quindi, così come feci con il dissennato consiglio di qualche pagina addietro, ora<br />

vorrei che il mio lettore si dedicasse, con la consueta attenzione e l’impegno di sempre,<br />

alla bella lettura del racconto di Borges. Anche in questo caso e in tutta onestà, le<br />

suggestioni che ne trarrà non sarei stato in grado di trasmetterle meglio (sic!).<br />

422


XXXIII<br />

(Il Teatro popolare di Jean Vilar. Storia della nascita di una politica teatrale francese e il fenomeno dei<br />

“Rencontres” al Festival di Avignone: creare significati attraverso la discussione)<br />

In cui il lettore può comprendere come e dove nascono le politiche culturali di un paese<br />

e chi le gestisce veramente e in cui scopre come non sia facile costruire letteralmente e<br />

condividere una strategia d’azione <br />

«La presenza di un disaccordo fra i membri di un gruppo, a<br />

proposito di qualche notizia o di qualche opinione, nella<br />

misura in cui viene percepita da questi membri, crea<br />

indubbiamente dissonanza cognitiva. […] Vorrei a questo<br />

proposito affermare che gli elementi cognitivi che<br />

corrispondono a una qualche opinione che una persona<br />

possiede, risulteranno dissonanti di fronte alla consapevolezza<br />

che un’altra persona possiede un’opinione contraria […]».<br />

(Leon Festinger, da Teoria della dissonanza cognitiva)<br />

Affermare che le credenze guidino la creazione di senso con riferimento alle azioni<br />

che realizziamo quotidianamente poteva anche apparire un capriccio teorico ed un modo<br />

quanto meno stravagante se non flebile: i) per affrontare il tema della relazione tra<br />

organizzazioni artistiche e pubblico; ii) e più in generale, per abbordare il tema dei<br />

processi decisionali in cui gli individui sono “normalmente” implicati nelle loro azioni<br />

quotidiane. Ad ogni buon conto, «identità, retrospezione, enactment, processo sociale,<br />

continuità temporale, informazioni selezionate e plausibilità» erano oramai caratteri<br />

assunti dalla mia retorica e con cui il mio lettore aveva, in parte, preso confidenza;<br />

l’intendimento dei miei discorsi, in buona sostanza, non era altro che quello di<br />

affrontare ogni oneroso, impegnativo viaggio alla scoperta dei problemi di gestione di<br />

una qualunque organizzazione attraverso una prospettiva che possa in qualche misura<br />

essere “attendibile” rispetto ai fenomeni reali con cui ci stiamo confrontando.<br />

“L’amplificazione di piccoli indizi”: anche questa non era una espressione<br />

eccessivamente inedita e su cui ora ragioneremo, seppure da una prospettiva differente<br />

rispetto al racconto di N. dei tragici avvenimenti dell’annullamento del Festival di<br />

Avignone. In altri termini, le pagine che seguono sono «una ricerca di contesti<br />

all’interno dei quali i piccoli dettagli si adattano gli uni agli altri e creano senso. Sono le<br />

persone che interagiscono a rafforzare le loro impressioni». Ancora una volta, quindi,<br />

mi stavo occupando della fiducia che «viene costruita progressivamente via via che i<br />

dettagli acquistano coerenza e le spiegazioni permettono deduzioni sempre più<br />

accurate». Anche in questo caso, come direbbe Rullani e con buona pace di chi crede<br />

nella perfetta pianificazione strategica dell’agire umano, i processi di creazione di senso<br />

costituivano un modo per accomodare al meglio la massa di esperienze che le persone<br />

hanno a disposizione, un modo per arrangiarsi all’interno di quella caotica moltitudine<br />

di significati che essi possono dare alle loro azioni, al fine di sostenere una qualche idea,<br />

seppur vaga, che si sono fatti su ciò che sta accadendo sotto i loro occhi.<br />

Come nei nebbiosi racconti di Nerval, tanto ben commentati da quell’acuto creatore<br />

di senso e affabulatore che è Umberto Eco, gli individui, continuamente alla ricerca di<br />

conferme e di verifiche, sembravano essere molto più coscienti di quanto possano<br />

“razionalmente” apparire, circa il fatto che il senso da loro creato era quanto mai<br />

transitorio ed effimero, «e può fallire da un momento all’altro». Credenze e azioni erano<br />

due delle principali dimensioni che potevano fornire una qualche coerenza a questo<br />

processo.<br />

423


Dunque, le credenze: «inserite in cornici come le ideologie o i paradigmi,<br />

influenzano quello che le persone rivelano e lo svolgersi degli eventi 1 ». Nella creazione<br />

di senso, credere significa vedere o meglio, anche qui utilizzando una espressione che<br />

non può più sorprendere molto il mio lettore più attento, «credere significa rilevare in<br />

maniera selettiva […] e avviare azioni capaci di offrire sostanza alla credenza: le<br />

credenze influenzano il modo di svolgersi degli eventi quando producono una profezia<br />

che si auto-realizza».<br />

Poiché sono le persone a fornire il materiale per le credenze, attorno alle discussioni<br />

tra persone si dovrebbe assistere a una continua interazione al fine di «ridurre la varietà<br />

delle credenze che sono ritenute rilevanti, la varietà di quello che viene rilevato e la<br />

varietà di quello che viene profetizzato». Inoltre, le stesse interazioni si possono<br />

realizzare attorno alle aspettative: «vista la preoccupazione delle organizzazioni per la<br />

previdenza, la pianificazione strategica, la previsione e l’estrapolazione, potremmo<br />

scoprire che le profezie che si auto-realizzano diventano strumenti ordinari, deliberati,<br />

ogni volta che le persone si concentrano sul futuro. Mentre si soffermano su quello che<br />

potrebbe accadere, le aspettative via via si articolano sempre meglio, si rafforzano e<br />

diventano una forza potente nella loro stessa validazione 2 ». Ammetto che non sarei<br />

riuscito a trovare parole differenti per esprimere altrettanto lucidamente lo stesso<br />

concetto. Quindi, discussioni e aspettative costituiscono delle interessanti regolarità<br />

della creazione di senso che parte dalle credenze. Qualora non apparisse ancora evidente<br />

il legame, tali dimensioni le troveremo accostate, attraverso il racconto di N., a due<br />

particolari relazioni tra organizzazione-Festival e il suo pubblico: quella con la critica<br />

teatrale; quella con il pubblico (professionale e non) che partecipa tutt’oggi all’offerta<br />

molto diversificata di dibattiti e incontri organizzati nell’ambito del Festival. Per<br />

affrontare entrambe le dimensioni di analisi, N. ci guiderà soprattutto all’interno del<br />

caso esemplare del 2005, durante il tanto discusso Festival di Jan Fabre e, più lontano<br />

nella memoria, al caso, altrettanto eclatante, degli incontri che Jean Vilar volle<br />

fortemente a partire del 1964 e che si svolsero con una certa continuità di forma fino al<br />

1970.<br />

Ma non era tutto. Anche, e forse soprattutto, l’azione costituiva una interessante<br />

dimensione della creazione di senso: «quale che sia la coerenza di un processo di<br />

sensemaking, essa può sorgere dall’attenzione per quello che le persone fanno, invece<br />

che per ciò che credono». Citando una delle stimolanti ricerche di William Starbuck 3 ,<br />

Weick mi ricordava che «le organizzazioni sono sistemi di attività che generano azioni.<br />

[…] Malgrado il versante pubblico delle organizzazioni le indichi come sistemi<br />

razionali progettati per il raggiungimento di scopi, le organizzazioni sono anche sistemi<br />

debolmente interconnessi, nei quali l’azione è sottospecificata, razionalizzata in maniera<br />

inadeguata e controllata solo nei casi di deviazioni estreme 4 ». Nell’analizzare le<br />

relazioni di produzione e di distribuzione degli spettacoli inseriti nella programmazione<br />

del Festival di Avignone N. si soffermava su una questione all’apparenza speculativa e<br />

1<br />

Ovviamente, faccio riferimento a Weick 1997, ma, in linea generale il lettore può risalire a principi<br />

generali rintracciabili in Kuhn e Lakatos. Per un interessante concetto di “credenza” negli studi<br />

organizzazioni vorrei richiamare un bel saggio di Sproull del 1981. Nella letteratura di management degli<br />

spunti interessanti sono naturalmente rintracciabili in tutta la vasta produzione di strategia, di<br />

organizzazione aziendale, di marketing avente per oggetto il concetto di “fiducia” (N.d.T.).<br />

2<br />

Weick 1997: 146 (N.d.T.).<br />

3<br />

Starbuck 1983 (N.d.A.).<br />

4<br />

Weick 1997: 146. March, Simon 1958; March 1991, 1994; Minzberg 1973, 2001; Simon 1979, 1981,<br />

1986, 1991a, 1991b, 1997 (N.d.T.).<br />

424


astrattamente concettuale: «esiste una considerevole dimensione di azione autonoma<br />

che si manifesta indipendentemente dai requisiti del sistema formale e in risposta a una<br />

varietà di segnali. Per quanto diverse possano essere le origini, queste azioni autonome<br />

continuano ad avere effetti. Lasciano tracce. Modificano le persone, i materiali e le<br />

aspettative. Lasciano dietro di sé enigmi per il sensemaking. Queste azioni forniscono il<br />

“dire” che le persone devono vedere per scoprire che cosa pensano. Il sensemaking<br />

nasce dalle azioni piuttosto che dalle credenze. Abbastanza stranamente, questa<br />

inversione apparentemente irrazionale della formula prima pensa, poi agisci<br />

nell’opposta prima agisci, poi pensa, si risolve nella formula razionale per eccellenza<br />

vedere per credere. Quello che le persone continuano a dimenticare è che ciò che<br />

vedono è solitamente il risultato delle loro stesse azioni precedenti. Ciò che vedono è<br />

qualcosa che loro hanno creato. Questa sequenza somiglia alla profezia che si autorealizza,<br />

salvo non essere spinta dalla profezia. Invece, qui c’è un risultato in cerca di<br />

una profezia 1 ».<br />

Gli spettacoli teatrali, nel loro processo di produzione e di distribuzione, lasciano<br />

tracce “visibili”, dal punto di vista “cognitivo”, del loro passaggio: ma disegnare<br />

semplicemente le linee che collegano il loro passaggio nel tempo e da un luogo all’altro<br />

non era sufficiente a fornire una rappresentazione realistica di quello che accade tra gli<br />

interstizi delle reti d’azione rappresentate da flussi cognitivi in movimento 2 . In altri<br />

termini, coloro che osservano il fluire delle proprie azioni e partono da queste e dagli<br />

effetti che generano sulla creazione di senso, non possono ignorare la propria<br />

responsabilità nel momento in cui si pongono la questione “che cosa significa?”. «I<br />

processi di sensemaking che hanno origine nell’azione coinvolgono l’impegno e la<br />

manipolazione. L’impegno implica un’interpretazione centrata sulla spiegazione dei<br />

comportamenti di cui le persone sono responsabili. E la manipolazione implica il dare<br />

stabilità a un sistema di eventi altrimenti instabile in modo tale che sia più facile<br />

spiegarli. La manipolazione comporta la semplificazione del mondo percepito tramite<br />

operazioni sul mondo stesso, invece che su colui o colei che lo percepisce 3 ».<br />

In breve, con riferimento alle relazioni tra l’organizzazione-Festival e i suoi pubblici<br />

di riferimento, il lettore si troverà a dover fronteggiare fenomeni “elusivi” dal punto di<br />

vista dei contenuti dei processi decisionali. Ma era possibile trovare almeno quattro<br />

modi differenti attraverso cui «le persone impongono delle cornici ai flussi continui e<br />

collegano le cornici con le informazioni a vantaggio del significato»: attraverso le<br />

credenze, assumendo la forma “del discutere” e “del formulare aspettative”; attraverso<br />

le azioni, assumendo la forma “del prendere impegni” e “del manipolare”.<br />

Nello specifico N. raccontava di come «quando le persone individualmente vedono<br />

che cosa pensano, non significa che altri con altri interessi vedano le stesse cose e<br />

pensino allo stesso modo». In tal senso, molto di rado la creazione di senso consiste in<br />

atti e valutazioni accondiscendenti e incruente: l’intera nostra storia era costellata di<br />

“discussioni” più che di “piacevoli conversazioni”, vale a dire «la forma più comune di<br />

interazione è quella in cui si sta sempre discutendo in momenti particolari, in luoghi<br />

specifici, con certi ascoltatori». Per quanto tali ragionamenti siano, quindi, validi per<br />

molti altri processi cognitivi del Festival di Avignone, vorrei ora richiamarli e porli<br />

all’attenzione del lettore con specifico riferimento al ruolo della “discussione” sulla<br />

politica culturale che il Festival, in quanto organizzazione, aveva da sempre cercato di<br />

1 Ibidem: 147 (N.d.T.).<br />

2 Latour 2006 (N.d.T.).<br />

3 Weick 1997: 148 (N.d.T.).<br />

425


alimentare. Cohen, March e Olsen 1 descrivono un’organizzazione come «un insieme di<br />

procedure di discussione e di interpretazione, oltre che di soluzione di problemi e presa<br />

di decisioni», mentre N. ci mostrava quanto, soprattutto per Jean Vilar, la scoperta degli<br />

scopi stessi del Festival di Avignone dovesse passare per un processo sociale di<br />

discussione e per il dibattito, in una situazione in cui un ruolo determinante era giocato<br />

dai livelli di giustificazione dell’operato dell’organizzazione artistica nonché i livelli di<br />

legittimazione dell’intero sistema teatrale 2 . Lo stesso Jean Vilar, al termine della prima<br />

edizione di quelli che diventarono i famosi “Rencontres d’Avignon”, nel luglio del<br />

1964, tenne a precisare: «Mi domando, nel momento in cui stiamo per lasciarci, se<br />

questi incontri non siano stati l’evento più istruttivo che io abbia mai vissuto dopo il<br />

mio ingresso alla scuola d’arte drammatica [del mio maestro] Charles Dullin 3 ».<br />

La discussione e l’argomentazione attraverso il dialogo non dovevano<br />

necessariamente far pensare ad atteggiamenti di ira o di astio: benché lo stesso Jean<br />

Vilar avesse ben in mente l’esperienza dei primi anni Cinquanta, quando non gli furono<br />

risparmiate aspre e, spesso, inconsistenti critiche pubbliche, i suoi “Rencontres”<br />

divennero storici proprio grazie alla loro forma e al fatto che attraverso la discussione<br />

«le persone realizzavano con il ragionamento il passaggio da un’idea all’altra». La<br />

differenza tra le polemiche improduttive ed una costruttiva discussione erano legate al<br />

fatto che le prime non possedevano alcune delle caratteriche che rendevano tale una<br />

effettiva discussione, vale a dire la presenza di: «un salto inferenziale dalle credenze<br />

esistenti (ecco perché si dice che il discutere è azionato dalla credenza) all’adozione di<br />

una nuova credenza o al rinforzo di una antica; una regione percepita che giustifichi tale<br />

salto; una scelta tra due o più affermazioni in competizione tra loro; un modo per<br />

regolare l’incertezza relativa all’afferazione scelta – dal momento che qualcuno ha<br />

operato un salto inferenziale, la certezza non può essere né nulla né totale; infine, la<br />

disponibilità a rischiare un confronto con i propri pari su quella affermazione 4 ».<br />

In generale, «più utili al sensemaking sono coloro che forniscono spiegazioni invece<br />

di valutazioni, descrizioni o classificazioni», in quanto il descrittore che non presentava<br />

una discussione significativa poteva confrontarsi unicamente con l’accuratezza della sua<br />

descrizione 5 mentre il classificatore non forniva al lettore nulla su cui dibattere, a parte<br />

l’appropriatezza delle categorie e della selezione dei dati.<br />

1<br />

Cohen, March, Olsen 1972: 25 (N.d.T.).<br />

2<br />

I casi di crisi intra e inter organizzative costituiscono, ancora una volta, elementi di indagine di estremo<br />

interesse anche per quanto riguarda questo specifico processo cognitivo. Jean Vilar sapeva bene, fin<br />

dall’esperienza al TNP, cosa comportasse legittimare il proprio operato all’interno del nascente sistema<br />

teatrale francese; lo stesso dicasi, più recentemente, per il “mancato dibattito” relativo all’affaire degli<br />

intermittenti dello spettacolo. Negli studi di management, ad esempio, l’analisi del processo decisionale<br />

della crisi di Cuba può essere ricostruita attraverso il complesso processo sociale collegato alla<br />

discussione e al dibattito tutto interno a gruppi di potere in cui la legittimazione reciproca aveva un ruolo<br />

determinante. Rinvio il lettore a Anderson 1983 e, soprattutto, al bel lavoro di Graham Allison e Philip<br />

Zerlikow del 1999, nonché al libro di Robert McNamara del 1995, significativamente intitolato “In<br />

Retrospect” (N.d.T.).<br />

3<br />

Poirrier 1997: 17 (N.d.T.).<br />

4<br />

Citato in Weick 1997: 150 (N.d.T.).<br />

5<br />

Ciò mi porta a richiamare, ancora una volta, il tema fondante di questo lavoro, vale a dire l’esigenza di<br />

creare delle buone narrazioni, con importanti fondamenti epistemologici e tecnici (leggi di metodo), da<br />

contrapporre ad un utilizzo a volte meramente strumentale che viene fatto della descrizione nelle ricerche<br />

che si richiamano alla grounded theory (Glaser, Strauss 1967) o allo studio di caso (Yin 1989, 2005). Non<br />

è un caso che Herbert Simon (1981, 1991a, 1991b, 1997), Karl Weick (1993, 1997), Barbara Czarniawska<br />

(2000, 2004) o, su posizioni seppur differnti, Bruno Latour (2004, 2006) richiamino, negli studi delle<br />

426


***<br />

Tra il 1964 e il 1970, in un particolare momento dell’evoluzione artistica ma anche<br />

organizzativa del Festival e della sua vita, Jean Vilar propose la realizzazione di una<br />

serie di incontri a tema che dovevano avere come comune denominatore la discussione<br />

su argomenti legati alla “politica culturale”. Recentemente, questa formula era stata<br />

oggetto di ricerca da parte del Comité d’histoire del Ministero della Cultura e della<br />

Comunicazione francese 1 , ed era oramai opinione diffusa che quegli incontri ebbero un<br />

ruolo determinate per la nascita e la formalizzazione delle politiche culturali sul teatro<br />

durante gli anni sessanta; d’altro canto, l’atmosfera politica era particolare e quel<br />

decennio era ritenuto di fondamentale importanza per la futura evoluzione dello Stato<br />

francese e per il rapporto tra questi e le “collectivités locales” (i vari livelli di enti locali<br />

in Francia). Era a quella ricerca che mi rifaccio ora per completare le mie riflessioni.<br />

In quel periodo, un ruolo di attore principale del sistema culturale era giocato anche<br />

dal ministro André Malraux: ministro incaricato degli affari culturali durante ben tre<br />

governi, guidati da Michel Debré, Georges Pompidou e Maurice Couve de Murville,<br />

tutti sotto la presidenza di Charles de Gaulle 2 .<br />

Come lo stesso Vilar sottolineò:<br />

«Une des intentions des organisateurs de ces Rencontres est de vous entraîner dans un commun<br />

complot. Ce que l’on appelle dans les jeux d’enfants, dans les casermes et ailleurs, la “courteéchelle”<br />

– c’est-à-dire le complot pour se libérer, l’entraide immédiate et active – est encore le<br />

plus sûr moyen de franchir ces murs au-delà desquels, nous espérons, se trouvent une égalité qui<br />

n’est plus de fiction, une compréhesion plus fraternelle, une liberté plus évidente et – celles-ci ne<br />

peuvent aller sans cette autre – une égale répartition des biens de culture» (Jean Vilar, 20 luglio<br />

1964, riportato in Porrier, 1997).<br />

Recuperando alcune fasi del racconto della vita di Vilar e della storia del Festival, gli<br />

incontri si inserirono nel momento in cui Vilar stesso lasciò la direzione del TNP (di<br />

fatto, dal febbraio 1963), si occupò di opera lirica in Italia, alla Scala di Milano, pose<br />

fine al monopolio produttivo dello stesso TNP all’interno del Festival di Avignone<br />

(significativo l’invito ad Avignone di Roger Planchon e il suo Thèâtre de la Cité), e al<br />

monopolio della prosa, con l’apertura alla danza attraverso Maurice Béjart (sempre nel<br />

1966) e al cinema (Jean-Luc Godard nel 1967).<br />

In un contesto come quello, di ripensamento e di cambiamenti, Vilar propose che il<br />

Festival diventasse anche luogo deputato alla riflessione sul ruolo della cultura nella<br />

società contemporanea. Fin dall’inverno del 1963 contattò Michel Debeauvais, membro<br />

del club Jean-Moulin, con l’obiettivo di mettere in pratica il suo progetto. Debeauvais<br />

sembrava l’uomo giusto per questo tipo di evento: direttore di ricerca all’Institut de<br />

Développement économique et social (IDES) dell’Università di Parigi, già console<br />

aggiunto ad Anversa, dove aveva conosciuto il TNP attraverso le tournée e sua moglie<br />

scienze del sociale, l’utilizzo del “pensiero narrativo” per la creazione di conoscenza valida (Bruner<br />

2005). Resta inteso che neppure le (cattive) narrazioni alimentano, automaticamente, la discussione se<br />

non sono in grado di presentare le caratteristiche che Weick ha sottolineato in precedenza (N.d.T.).<br />

1 Porrier, 1997, Travaux et documents n° 6 (N.d.T.).<br />

2 E’ significativo rilevare che durante tutta la successiva presidenza di Georges Pompidou si alterneranno<br />

molti ministri della cultura, con una frequenza che ha dell’incredibile: con la sola e significativa<br />

eccezione, quella di Jacques Duhamel (ministro per 2 anni e 4 mesi), la durata media dell’incarico degli<br />

altri ministri succedutisi tra il 1969 e il 1974 è di meno di 10 mesi di permanenza (Beaulieu, Dardy 2002).<br />

427


Sonia (che divenne un personaggio chiave del progetto) era già in contatto da tempo con<br />

il TNP e con Avignone.<br />

Le regole del gioco, ricordate nel 1966 da Michel Debeauvais, erano piuttosto chiare:<br />

«il gruppo che costituiamo non è rappresentativo. I nostri scambi ne risulteranno più<br />

liberi. Riuniamo, molto semplicemente, delle esperienze diverse: amministratori dello<br />

Stato assime a sociologia, azione internazionale, teatro, maison della cultura,<br />

insegnamento, economia… Tutto ciò pone dei problemi di comunicazione. Ci vorrà<br />

qualche giorno per familiarizzare con il linguaggio degli uni e degli altri. Inoltre, la<br />

dimensione del nostro gruppo imponeva, se tutti dovevano prendere la parola ad ogni<br />

seduta, che nessuno parlasse per oltre cinque minuti consecutivi. Abbiamo scelto la<br />

formula che ci lascerà maggiore libertà: niente presidente, né mozioni finali, ma ad ogni<br />

riunione, una breve esposizione di introduzione destinata a porre delle questioni e ad<br />

aprire il dibattito, non a risolvere tutto subito. In seguito, si tratterà di confrontare delle<br />

esperienze e delle visioni del futuro 1 ». Jean Vilar conferì ai Rencontres un tono quasi<br />

solenne e prestò sempre una grande attenzione alla loro preparazione. La Camera dei<br />

notai, luogo interno al palazzo dei Papi, era oltremodo simbolico come luogo e, inoltre,<br />

presentava una forma e una struttura particolarmente adatti al dibattito: la tavola che<br />

accoglieva i partecipanti era disposta a ferro di cavallo, mentre dei banchi al centro<br />

erano a disposizione degli ascoltatori.<br />

I temi scelti per i Rencontres testimoniavano l’importanza degli interrogativi posti:<br />

- il 1964, fu dedicato allo “Sviluppo culturale” e le domande principali da cui doveva<br />

partire il dibattito erano “perché la cultura?”, “quale pubblico?”, “quale bilancio e<br />

quali prospettive per il teatro drammatico?”, “la cultura è redditizia?”, “lo stato<br />

doveva avere una politica culturale?”;<br />

- nel 1965 il dibattito fu incentrato su “La scuola e la cultura” attorno a tre temi<br />

principali, “la scuola come istituzione culturale”, “l’eduzione degli adulti e la<br />

cultura”, “bisogna formare gli aritisti?”;<br />

- nel 1966 la questione delle politiche culturali fu affrontata a lovello decentrato, sul<br />

tema “Sviluppo culturale regionale”;<br />

- il 1968, nell’ambito di un Festival preso d’assalto dalle prosteste, i Rencontres, che<br />

dovevano essere dedicati allo studio della politica culturale di sette città, non<br />

poterono avere luogo, sostituite da un tema di dibattito generale “Il teatro nella<br />

società”, nell’ambito dell’organizzazione per commissione e secondo l’indirizzo<br />

che fornì proprio Michel Debeauvais. I gruppi di lavoro erano divisi per temi, quali<br />

“Il rolo politico dello spettacolo”, “Il pubblico”, “Teatro e rivoluzione”, “Nuove<br />

forme del teatro”, Il teatro e il potere”, “Libertà di espressione”. I colloqui furono<br />

fortemente disturbati tanto che, dopo la partenza del Living (il 31 luglio), Jean Vilar<br />

decise di rispondere ai contestatori attraverso un dibattito pubblico organizzato al<br />

Giardino di Urbano V il 3 agosto nel pomeriggio;<br />

- nel 1969 i Rencontres ufficiali furono ospitati dalla città di Grenoble, nel marzo di<br />

quello stesso anno, mentre ad Avignone vennero organizzati dei laboratori tematici<br />

aperti al pubblico su “Insegnamento e azione culturale”, “Animazione delle arti<br />

plastiche” e “La politica culturale”;<br />

- nel 1970, infine, i ritorno ufficiale dei Rencontres ad Avignone si svolse all’interno<br />

di un nuovo quadro istituzionale, nell’ambito della Commissione francese<br />

1 Poirrier 1997: 21 (N.d.T.).<br />

428


dell’Unesco, incaricata di realizzare una riunione internazionale sullo «sviluppo<br />

culturale a livello di collettività locali».<br />

La singolarità dei Rencontres non andava comunque sovrastimata, nel senso che le<br />

possibilità di dibattito erano molteplici: restava il fatto che quei dibattiti al Giardino di<br />

Urgano V risultarono sempre estremamente produttivi e scientificamente rilevanti, in<br />

quanto attivarono una vera e propria azione di studio su tutti quei fenomeni,<br />

mobilitando importanti studiosi.<br />

Con riferimento ai partecipanti, era necessario in primo luogo individuare gli<br />

ideatori, sempre presenti alle manifestazioni: Jean Vilar, Michel Debeauvais e Paul<br />

Puaux, quest’ultimo dapprima come consigliere comunale di Avignone, poi come<br />

membre del Consigliere culturale della città e, a partire del 1970, come amministratore<br />

del Festival». La scelta degli interventi era soppesata con cura dagli organizzatori. Un<br />

ruolo determinante a livello scientifico era quello di Joffre Dumazedier, studioso al<br />

CNRS e fondatore di un gruppo di ricerca su quei temi 1 . In generale politici, locali e<br />

nazionali, ricercatori, operatori culturali, amministratori, artisti, sindacati, costituivano i<br />

partecipanti e il pubblico principale dell’iniziativa. Tema controverso fu sempre quello<br />

del peso relativo e quindi della rappresentatività dei politici eletti presenti ai Rencontres.<br />

Dal punto di vista sostanziale, invece, i politici presenti interpretarono un ruolo<br />

importante nell’incoraggiare delle esperienze comuni considerate pionieristiche. Ad<br />

esempio, lo studio lanciato dal Servizio studi del ministero su sette città campione<br />

(Avignone, Strasburgo, Rennes, Grenoble, Annecy, Aubervilliers e Bourges) era in gran<br />

parte legata ai politici presenti l’anno precedente. Gli amministratori locali e statali<br />

provenivano, per lo più dalle medesime collettività locali maggiormente coinvolte nei<br />

progetti di quegli anni. Lo stesso dicasi per gli artisti che, collegati a centri e istituzioni<br />

operanti in differenti città, furono relativamente numerosi fin dal primo anno. Lo Stato,<br />

sempre rappresentato attraverso il Servizio di studi e ricerche e dall’amministrazione<br />

centrale del ministero degli Affari Culturali: Gaëtan Picon (1964), Emile-Jean Biasimi<br />

(1964, 1965, 1966), Pierre Moinot (1967), André Collier (1969) e Francis Raison (1967<br />

e 1970). Infine, il carattere internazionale degli incontri fu particolarmente significativo<br />

con amministratore e politici provenianti, tra i più assidui, da Belgio, Svizzera,<br />

Germania Federale, Romania, Iugoslavia, Italia, San Marino, Danimarca, Svezia.<br />

Nel 1967 Jean Vilar scriveva: «Riunire se non unire il responsabile politico eletto<br />

dalla collettività e il responsabile culturale, tale era lo scopo di queste giornate<br />

avignonesi. […] Ricordiamo che non si tratta di pervenire ad ogni costo ad una unità<br />

che nasconda sotto un falso buon umore i problemi essenziali. Imparare le<br />

prooccupazioni e i problemi inevitabili degli uni come degli altri; studiare in comune le<br />

cose nazionali della cultura; eliminare il parassitismo; conciliare, quanto meno in vista<br />

di una azione comune, a questo doveva essere impiegato il tempo di questi incontri<br />

futuri […]. La ragione d’essere, dunque, di questi Rencontres d’Avignon è di preparare<br />

il responsabile politico rispetto a quelle rivendicazioni nuove, soprendenti per alcuni ma<br />

ogni hanno più precise, più vive, inevitabili 2 ».<br />

1 Non mancarono i contributi di studiosi di fama, come Edgar Morin, Pierre Bourdieu e Jean-Claude<br />

Passeron, il quale animò il dibattito nel 1965 con un intervento intitolato “La disuguaglianza davanti la<br />

scuola come principio della disuguaglianza davanti alla cultura”. Ne uscirono anche accesi dibattiti dal<br />

punto di vista teorico e metodologico tra scuole di studiosi di sociologia differenti. Inoltre, in quegli anni<br />

si sviluppò notevolmente il Servizio studi del ministero, il quale diede un notevole impulso a questo tipo<br />

di ricerche (N.d.T.).<br />

2 Poirrier 1997: 37 (N.d.T.).<br />

429


In termini di risultati, in effetti, era possibile dire che assunsero un significato<br />

completamente nuovo espressioni come «decentramento», «politica culturale»,<br />

«democratizzazione», «sviluppo culturale». Quest’ultimo, ad esempio, venne «definito<br />

come la valorizzazione delle risorse fisiche e mentali dell’uomo in funzione dei bisogni<br />

della persona e della società […]. E’ un concetto formale che ha, in primo luogo, un<br />

valore storico e operativo per una società pluralista che è chiamata in questo nuovo<br />

ambito ad un progresso della pianificazione concertata 1 ». Così come i partecipanti<br />

fornivano il loro contributo, lo stesso facevano poi i rappresentanti dello Stato e delle<br />

collettività locali, specie quando concetti come quelli richiamati finivano col diventare<br />

specifici richiami normativi, concetti condivisi, pratiche operative. Nel 1970 Jean Vilar<br />

dichiarava: «Un ministro, o piuttosto un governo deve concepire, proporre e infine<br />

imporre una politica culturale generale, dettagliata e approfondita, alla collettività. Resta<br />

poi alla collettività di rifiutarla se non è d’accordo. Ma è molto peggio l’incertezza, la<br />

buona volontà, il lirismo, l’amabilità, il nulla 2 ».<br />

***<br />

Oggi, la discussione ad Avignone avveniva con formule molteplici, in modo più o<br />

meno coordinato, nell’ambito di modelli che si erano diffusi nella pratica, con gli anni.<br />

Ma non vi era nulla che fosse strutturato come nel caso dei Rencontres d’Avignon, che<br />

restarono, nella sostanza, un esperimento mai più ripreso. I nuclei principali restavano<br />

Cloître Saint-Louis per gli incontri e i dibattiti “ufficiali” del Festival In, la Maison Jean<br />

Vilar, nell’ambito delle proprie attività istituzionali, con un ricchissimo programma di<br />

appuntamenti, e i vari spazi del Festival Off.<br />

Ad esempio, in chiusura del vorticoso Festival del 2005, la consueta conferenza<br />

stampa finale venne inserita all’intenro di uno degli incontri pressoché quotidiani<br />

organizzati dal Festival stesso: i Regards critiques animati da due noti studiosi e critici<br />

teatrali come Georges Banu e Bruno Tackels. Fu uno degli incontri più animati a cui<br />

assitetti e credo l’unico a cui parteciparono contemporaneamente di due direttori,<br />

l’artista associato, gli animatori di quello spazio ed un pubblico agguerrito e variegato.<br />

«Grazie di essere intervenuto così numerosi a questo ultimo Regards critiques che<br />

assume una forma un po particolare poiché serve anche da bilancio a questa 59^<br />

edizione del Festival di Avignone». Era Hortence Archambault ad introdurre l’incontro.<br />

E continuò: «siamo dunque in compagnia di Georges Banu e Bruno Tackels che hanno<br />

seguito l’insieme del Festival proponendo degli incontri con gli artisti, ai quali dalle 11<br />

e 30 era possibile assistere per dare uno sguardo trasversale alle proposte artistiche di<br />

questa programmazione. Gli chiederemo quindi di intervenire in un secondo momento.<br />

Ora, Vincent Baudriller farà un bilancio, poi interverrà Jan Fabre. In seguito voi<br />

[riferendosi al pubblico] avrete la parola».<br />

«Prima ancora di un bilancio artistico» disse Vincent Baudriller «il primo bilancio<br />

oggetto che proviamo a fare è quello di un successo di frequentazione. Noi avremo le<br />

cifre definitive solo domani, ma stimiamo il numero di ingressi a 123.000 – contro i<br />

108.000 dell’anno scorso – anche se l’obiettivo non è quello di crescere tutti gli anni.<br />

Sui 123mila ci sono 110mila biglietti venduti, vale a dire un taso di frequentazione<br />

dell’85% che si è ripartito uniformemente sull’insieme delle proposte – ed è un fatto<br />

1 Ibidem: 39 (N.d.T.).<br />

2 Ibidem: 52 (N.d.T.).<br />

430


importante – con una media superiore al 90% fino al 23 luglio (quando di solito si ha<br />

una diminuzione nell’ultima settimana). Questo tasso è anche migliore di quello<br />

dell’anno passato. Due tendenze apparse lo scorso anno si cono confermate: la crescita<br />

della tariffa giovani, accordata ai minori di 25 anni e agli studenti, attorno ad un +20%<br />

rispetto all’anno passato. Rispetto all’insieme dei biglietti, la tariffa giovani rappresenta<br />

il 9%. E’ bene per il Festival e per il suo futuro, un po’ meno bene per le finanze, ma<br />

non necessariamente nel medio termine. L’altro fenomeno importante è il numero di<br />

biglietti venduto ogni giorno, che chiamiamo le “vendite allo sportello”, che hanno<br />

raggiungo una media di 1000 al giorno. Coloro che dicevano che il Festival era stato<br />

disertato o che c’era un abbandono del pubblico, non sono stati giusti. Qui, agli<br />

sportelli, c’era ogni giorno qualcuno che veniva agli incontri organizzati del mattino,<br />

che aveva sentito parlare degli spettacoli nei dibattiti, nei caffè, che aveva letto i<br />

giornali. Abbiamo venduto più di 20000 posti durante il Festival, cosa che costituisce un<br />

fenomeno abbastanza nuovo. In più stimiamo in 13000 i biglietti alle manifestazioni<br />

gratuite, una cifra ancora in forte aumento. […] Inoltre, questa cifra denota anche il<br />

successo dell’idea di costruire dei percorsi attorno all’opera degli artisti. L’esposizione<br />

dell’opera plastica di Jan Fabre alla Maison Jean Vilar è un successo di affluenza. Altro<br />

successo per Marina Abramovic, con la sua pièce The Biography Remix che era<br />

collegata all’esposizione gratuita della Chappelle Saint-Charles, e ad altre<br />

manifestazioni». Poi si entrava nel merito degli aspetti artistici.<br />

Sempre Vincent Baudrillier: «Devo ricordare che abbiamo fatto la scelta quest’anno<br />

di produrre molti spettacoli su posto, per venire incontro al rapporto particolare con la<br />

creazione di Jan Fabre. I tre quarti degli spettacoli di quest’anno sono dunque stati creati<br />

in seguito alla scelta di inserirli nella programmazione. […] Si trattava di un grosso<br />

rischio, all’altezza però di ciò che è Avignone, uno dei simboli del servizio pubblico<br />

dello spettacolo dal vivo. Ciò ha necessitato di accompagnare gli artisti nella loro<br />

creazione e di condividerne il rischio artistico. […] Abbiamo fatto anche la scelta di<br />

presentare quest’anno il teato nella sua diversità di forme. Certo, un teatro della<br />

scrittura, del testo, classico o contemporaneo, ma anche un teatro che si appoggiava più<br />

sul corpo con la danza, o sull’immagine con il teatro visivo (come con Romeo<br />

Castellucci) o la performance (come con Marina Abramovic). Questo Festival è stato<br />

concepito come un luogo di dialogo tra queste forme della scrittura di palcoscenico.<br />

[…] Le divisioni suscitate sono state differenti. C’è stata una parte del pubblico,<br />

molto attento, che alla fine dello spettacolo si esprimeva in modi controversi, certi<br />

essendo estremamente sconvolti e una parte che, entrata meno nelle proposte, vedi<br />

rigettandole, esprimendo alla fine una realtà ostile. Sulle proposte che creavano una<br />

tensione particolare tra sala e scena, degli spettatori hanno scelto di lasciare lo<br />

spettacolo nel corso della rappresentazione – e questi casi non sono così numerosi – ma<br />

la parte che restava, spesso, teneva a manifestare il suo sostegno applaudendo. […]<br />

Molte delle reazioni hanno aperto il dibattito, dibattito organizzato come questo, ma<br />

anche improvvisato, per le strade, ai caffè, nelle navette. Raramento ho visto Avignone<br />

con tanta discussione. La parola circolava. Si dibatteva su quello che fosse davvero il<br />

teatro con passione a testimoniare la vitalità di questi artisti alla ricerca di nuove forme<br />

capaci di trasmettere questa energia, desiderio di parole, e anche dell’energia degli<br />

spettatori che hanno saputo percepirla. Ma [ora] vorrei dare la parola a Jan Fabre. Con<br />

lui noi abbiamo sognato questo festival, lo abbiamo realizzato durante due anni. Vorrei<br />

che ci dicesse come lui ha vissuto questa traversata nelle 59^ edizione».<br />

431


«Prima di tutto» esordì Jan Fabre «vorrei ringraziare il gruppo di Hortence<br />

Archambault e di Vincent Baudriller. La loro equipe è fantastica […]. La loro<br />

gentilezza, generosità, disponibilità sono uniche. Lo sottolineo, donare energia gli uni<br />

agli altri, essere cortesi gli uni verso gli altri, è alla base dello scambio, del festival<br />

stesso. Poi, vorrei ringraziare la mia compagnia. Hanno lavorato giorno e notte, e gliene<br />

sono riconoscente. La prima cosa che desideravo dire» continuò dopo una breve pausa<br />

«è che sono contento, sorpreso del pubblico in Francia. E’ molto vivo. Ci sono dei<br />

dibattiti, dei confronti tra punti di vista, delle accoglienze con delle standing ovation o<br />

al contrario delle reazioni negative. Queste sono ogni volta delle reazioni individuali,<br />

che sfuggono in parte all’influenza della stampa e dei media. E’ il pubblico del futuro. E<br />

sono pieno di speranza per questo Festival. Vorrei anche ringraziare gli artisti e le altre<br />

compagnie, che sono venuti qui con le loro produzioni, come era stato detto, e hanno<br />

preso il rischio di farsi conoscere creando. E’ meno facile che venire con una pièce già<br />

provata e rappresentata. A Josef Nadj, che sarà l’anno prossimo l’artista associato,<br />

auguro più successo che a me. Mi auguro anche che la stampa cambi, abbia più una<br />

funzione di intermediario tra il pubblico e il lavoro piuttosto che di distruzione del<br />

lavoro […]. Avrebbe potuto rendere omaggio diversamente alla presa del rischio<br />

artistico».<br />

Hortence Archambault, riprendendo la parola, avviava la discussione, lasciando il<br />

microfono alla platea.<br />

«Sono una giornalista di Beaux-Arts Magazine», a parlare era Sabrina Weldman «e<br />

sono scioccata dal proposito di Jan Fabre. Non si può generalizzare e di “la” stampa.<br />

C’è certa stampa chiusa, reazionaria che non interessa neppure me; c’è un pubblico con<br />

dele reazioni diverse anche, aperte o chiuse; ma adesso opporre il pubblico e la stampa<br />

mi sembra un’abuso. Significa dimenticare che in certe epoche, la stampa ha sostenuto<br />

l’avaguardia che il pubblico non comprendeva».<br />

«Penso in effetti» rispose Baudrillier «che “la” stampa non possa essere catalogata<br />

comme non possa essere catalogato “il” pubblico. Come ha detto in un certo qual modo<br />

Jan Fabre, la stampa ha fatto un lavoro importante per accompagnare questa<br />

programmazione che ha conosciuto una copertura eccezionale. Durante il Festival, la<br />

stampa regionale, nazione e internazionale – i giornalisti stranieri sono numerosi qui tra<br />

noi – ha fatto un lavoro di osservazione, di commento favorevole o meno alle creazioni<br />

che ha giudato gli spettatori nel logoro sguardo, non per influenzarli in una opinione che<br />

avrebbero potuto farsi ma per alimentare quello sguardo. Che una parte della stampa<br />

abbia oltrepassato quel ruolo imballandosi su dei commenti che non erano forse<br />

completamente giusti per mostrare ciò che accadeva qui, ebbene questo non è<br />

comprensibile».<br />

«Ho assistito» ribatteva una spettatrice «a quasi tutti i dibattiti di Cloître Saint-Louis<br />

dall’inizio del Festival. Partecipo a tutti i Festival da più di trenta anni. Sono<br />

professoressa e credo di far parte di un pubblico aperto all’innovazione. Ma nonostante<br />

questo sono rimasta delusa, vedi irritata da questo Festival In, anche se ci sono stati<br />

degli spettacoli che mi sono piaciuti. Ho tre domande. La prima riguarda la<br />

rappresentazione della violenza in forma non critica. Il sentimento di malessere che ho<br />

provato talvolta non mi sembrava tale da essere considerato come una presa di<br />

coscienza. Seconda domanda, l’importanza delle immagini video. Anche se sono aperta<br />

alla scomposizione del teatro in quanto genere definito, l’immagine assolutamente<br />

gratuita come in After/Before ha quanto meno dissipato il mio piacere, invece, per lo<br />

spettacolo Kroum per la regia di Krzysztof Warlikowski, o Le Cas de Sphie K. di Jean-<br />

432


François Peyret. Terza domanda, conferire la programmazione ad un artista non<br />

specializza troppo il Festival In attorno ad una sola famiglia artistica?».<br />

Hortence Archambault suggerica di raccogliere altre domande per poi rispondere a<br />

tutte.<br />

«Io ho passato tre settimane interessanti», diceva uno spettator «sia perché c’erano<br />

dei luoghi di discussione. Seconda cosa, ho scelto di non prendere dei rischi e sono<br />

andato a vedere La Mort de Danton, Hamlet, i poemi di Apollinaire letti da Trintignant.<br />

La stampa mi ha influenzato. In medicina esiste il concetto di soglia. Passata una certa<br />

soglia, variabile a seconda del paziente, la medicina fa ammalare. Forse possono<br />

spingere le regole del teatro fino ad una certa soglia, al di là della quale, lo rompe».<br />

«Ho quindici anni di Festival alle spalle», diceva un amministratore locale «ma<br />

questo resta quello che più mi ha sconvolto e che nei mesi a venire, mi aiuterà di più.<br />

Sono un amministratore locale che si batte da anni per lo sviluppo culturale. A livello di<br />

un piccolo comune questo è difficile. Ho avuto la fortuna qui di vedere degli artisti<br />

prendere dei rischio in un festival come questo. E questo mi serve da lezione e da<br />

esempio. Certo, ci sono stati alcuni spettacoli mi hanno disturbato, ma non dimentico<br />

che senza la creazione, noi che lavoriamo nell’ambito della cultura, saremo presto<br />

sprovvisti e senza mezzi di fronte al potere crescente delle leggi del mercato. In questo<br />

ottica, sono emozionato dal coraggio dei di retori, che non conosco, e bisognerà<br />

difenderli nei mesi che verranno».<br />

Un altro spettatore interveniva dicendo «Sono un festivaliere da più di venti anni,<br />

delegato alla cultura a Manila, nelle Filippine. E’ il festival più difficile che abbia<br />

dovuto subire. Anche se sostengo il vostro percorso – mi ricordo l’anno scorso di Pippo<br />

Delbono che ci lasciò scioccati – mi domando se non si possibile dirigere il Festival<br />

vero le “arti della scena”. […] Poi, non si può esagerare con il termine “creazione”.<br />

Diventa una forzatura. Ci sono stati dei creatori qui che hanno dato prova di pigrizia.<br />

Per Pascal Rambert con After/Before dov’è la creazione? Le Groupov di Jacques<br />

Delcuvellerie, idem. Vi domanderi maggiore vigilanza per l’anno prossimo – poiché so<br />

che una sorda polemica è cominciata, si sente parlare di “messa sotto tutela”, che<br />

possiate conservare la vostra libertà di direttore artistico».<br />

«Riprendo la parola per rispondere a questo intervento», disse Vincent Baudriller «e<br />

per correggere l’espressione di “messa sotto tutela”. Il ministro ha riaffermato<br />

pubblicamente che non intende, evidentemente, intervenire nella programmazione. Il<br />

nostro mandato è di quattro anni. Abbiamo proposto un progetto che è stato fatto<br />

proprio dagli ennti pubblici finanziatori. Questo sogno d’Avignone non è nato sessanta<br />

anni fa da un programmatore come me, ma da un artista. Abbiamo cercato di ritrovare<br />

quello spirito. Abbiamo concepito ogni anno come una esperienza singolare per lo<br />

spettatore. L’anno scorso, eravamo con un artista della tradizione vilariana, Thomas<br />

Ostermeier, che lavora riunendo un autore, degli attori, degli artisti costumisti, delle luci<br />

e del suono…, per creare assieme un’opera. Quest’anno con Jan Fabre abbiamo<br />

interrogato il teatro nei suoi limiti, facendo dialogare un lavoro di creazione che si<br />

effettua a partire dalla scrittura, dal testo, e un altro che si appoggia sull’immagine, sul<br />

corpo. Non si tratta di prendere posizione per o contro ma di mettere in dialogo la<br />

diversità del teatro. Sta di fatto che la programmazione è stata concepita tenendo conto<br />

di questa idea di soglia di un intervento precedente faceva cenno, e permetteva di<br />

adattare il percorso attraverso le proposte e la sensibilità di ciascuno.<br />

Per quanto concerne il video, mi sembra che ce ne fossero meno dell’anno passato…<br />

Per la produzione, il video, più faciel da utilizzare, permette di sviluppare la pesia, il<br />

433


liguaggio artistico. Il video in sé non fa uno spettacolo più o meno buono, ma quando<br />

un artista se ne impadronisce questo può allargare le espressioni artistiche proposte un<br />

un palcoscenico…».<br />

«Pratico le arti plastiche come educatrice», intervenne una giovane donna, «la mia<br />

priorità è visiva. Mi sono quindi interessata agli spettacoli di Castellucci, Jan Fabre,<br />

Christian Rizzo. Stiamo cambiado di cultura. Come si è passati dal Medioevo al<br />

Rinascimento e dal Rinascimento all’arte classica, per rotture nella continuità, questi<br />

spettacoli strettamente plastici corrispondono a delle rotture. […] Conoscevo già<br />

Castellucci e Fabre. All’uscita da L’Histoire des larmes, che mi ha entusiasmata, ho<br />

parlato con della gente di buona fede, anche anziano, che cercavano delle spiegazioni. Il<br />

lavoro dell’eduzione del pubblico è essenziale. […] Bisogna creare delle azioni per<br />

spiegare il senso della creazione e delle scelte di programmazione».<br />

«Sono un ingegnere ricercatore di France Telecom» si presentò una signora<br />

newyorkese «dunque non sono assolutamente di questo settore ma sono venti anni che<br />

vengo al Festival. Quest’anno ho acquistato 52 biglietti. Sono venuta con una amica<br />

poetessa brasiliana, mia madre di 80 anni, e degli amici di New York di 40 anni. Siamo<br />

completamente entusiasti della programmazione. Essa torna alle origini del Festival con<br />

la provocazione, la riflessione. Giusto una incertezza nei confronti di Jan Fabre che<br />

certamente è un grande artista plastico, ma mi sembra che non sappia usare il media<br />

della parola. Si ho amato L’Histoire des larmes, nel Roi du plagiat il testo era povero.<br />

Avevo l’impressione che ci prendesse per degli imbecilli. […] Siamo in un momento in<br />

cui c’è davvero bisogno di riflessione e per questo ho anche amato Les Vainqueurs<br />

d’Olivier Py, di cui si è parlato poco. Ad ogni modo, se la vostra direzione ha bisogno<br />

di sostegno, non esitate a fare appello al pubblico».<br />

Una volta di più: «Un rêve que nous faisons tous!».<br />

434


XXXIV<br />

(Il Teatro popolare di Jean Vilar. Le tante facce di un “Festival di creazione”: dalla produzione “in<br />

proprio” alla co-produzione internazionale, dal TNP alle tournée internazionali)<br />

In cui si può guardare l’altra faccia della produzione teatrale ad Avignone per capire<br />

quanto sia importante creare reti internazionali (di distribuzione) per diffondere il<br />

linguaggio dell’arte <br />

435


436


437


«Il mondo […] non è stato creato una volta, ma<br />

tutte le volte che è sopravvenuto un artista<br />

originale».<br />

(Marcel Proust, À la recherche du temps perdu)<br />

«La cause de la folie que représentait la<br />

décentralisation? La coscience que, sans<br />

l’intervention du génie dans tous les domaines,<br />

la civilisation française courait le plus grand<br />

péril. Il n’était pas dans mon pouvoir de faire<br />

surgir des Shakespeare et des Molière. J’ai voulu<br />

faire en sorte de susciter les instruments, les<br />

troupes permanentes, qui leur permettraient de<br />

s’exprimer si, par chance, ils existaient»<br />

(Jeanne Laurent)<br />

Le azioni sono fondamentali punti di riferimento per la creazione di senso. «Se le<br />

aspettative preparano la strada, da un punto di vista comportamentale, alla propria<br />

conferma, […] le azioni preparano la strada, da un punto di vista cognitivo, alla propria<br />

continuazione». L’impegno ad agire e la manipolazione sono due esempi di processi di<br />

creazione di senso guidati dall’azione per cui una persona è responsabile (impegno) o<br />

che ha operato un cambiamento visibile nel mondo che richiede spiegazione<br />

(manipolazione). Le differenze principali sono che il processo di impegno si focalizza<br />

su un’azione singola, mentre la manipolazione si focalizza su molteplici azioni<br />

simultanee. In aggiunta, il processo di impegno pone un maggiore incentivo sulla<br />

spiegazione e sulla cognizione come mezzi tramite i quali è creato il senso, mentre la<br />

manipolazione pone enfasi maggiore sul cambiamento effettivo che si verifica<br />

nell’ambiente. La decisione attenta e l’elaborazione sociale dell’informazione giocano<br />

un ruolo maggiore nell’impegno che nella manipolazione. Inoltre, è più difficile<br />

produrre un impegno, poiché è richiesta una situazione specifica che tende a verificarsi<br />

solo in rari momenti all’interno di un’organizzazione. La manipolazione è una<br />

procedura di sensemaking più potente nelle organizzazioni. La manipolazione riguarda<br />

il coraggio. L’impegno riguarda l’astuzia 1 ».<br />

Provai ad identificare nelle scelte di coproduzione del Festival di Avignone un<br />

esempio di creazione di senso guidata dall’impegno ad agire della direzione artistica;<br />

mentre associai la manipolazione nella creazione di senso alla rete di relazioni di<br />

distribuzione che collegava gli spettacoli, i coproduttori, il Festival di Avignone come<br />

luogo di riproduzione e i luoghi di distribuzione attraverso le tournée nazionali e<br />

internazionali. Cercherò ora di spiegare cosa intendo, partendo da alcune riflessioni di<br />

qualche tempo prima.<br />

Considerando il concetto dell’organizzare la produzione teatrale, avevo cercato di<br />

evidenziare come i processi di “apprendimento” in una rete di relazioni organizzative<br />

interne al Festival avevano un forte carattere path-dependent con riferimento della<br />

conoscenza prodotta e trasferita in quello specifico reparto della filiera cognitiva 2 .<br />

Nelle fasi, o meglio, nelle lavorazioni cognitive che avevano portato alla<br />

1 Weick 1997: 169-170 (N.d.T.).<br />

2 Baum 2002; Brown, Duguid 1991, 2000; Cohen 1991; Cohen, Levinthal 1989, 1990; Levinthal 1991,<br />

1997; Levitt, March 1988; Nooteboom 1999, 2000. Ma anche: Denrell, March 2001; Dosi et al. 1999;<br />

Barney 1996, 2001; Egidi, Nardutto 1997; Grant 1996a, 1996b; Levinthal, March 1993; March 1991;<br />

Narduzzo, Warglien 1991; Nelson, Winter 1982 (N.d.A.).<br />

438


strutturazione del programma del Festival di Avignone e la sua riproduzione, vale a dire<br />

all’eplorazione di territori artistici collegati alle esperienze estetiche delle<br />

organizzazioni teatrali presenti nel programma, avevo cercato di seguire le tracce<br />

lasciate dalle infinite conoscenze diffuse presenti in punti diversi dell’organizzazione-<br />

Festival: si trattava di andare alla ricerca dei segni lasciati da quei meccanismi di<br />

codificazione della conoscenza attorno ai quali si creavano l’identità e i linguaggi<br />

dell’organizzazione, i discorsi (artistici e di management) collegati ad una “comune<br />

visione estetica”. In breve: attorno al Festival di Avignone si coagulava una vera e<br />

propria comunità epistemica, in cui ogni singolo progetto artistico, oppure ogni<br />

costellazione di progetti e di collaborazioni artistiche, avevano codificato un “agire<br />

comune” attraverso cui realizzare i processi produttivi nei quali erano coinvolti.<br />

Per completare il ragionamento sulla filiera cognitiva che si stava muovendo e<br />

configurando sotto i miei occhi, dovevo almeno cercare di immaginare cosa potesse<br />

accadere allo spettacolo teatrale “creato” e, in ogni caso, “riprodotto” e “diffuso”<br />

all’interno del contesto locale del Festival, nel momento in cui si sganciava dalla<br />

programmazione del Festival e dai luoghi di “origine” per spostarsi in altri contesti<br />

(ancora artistici). Nel caso delle organizzazioni artistico-culturali, era possibile<br />

riaffermare che l’incontro delle specificità contestuali (in questo caso con riferimento a<br />

specifiche tradizioni artistiche e all’evoluzione di identità organizzative “autogenerate”<br />

a livello locale) costituiva una componente determinante nei processi di propagazione<br />

del valore tra locale e globale, in particolare a valle della complessiva filiera cognitiva<br />

dello spettacolo dal vivo in cui agiscono soggetti, organizzazioni e contesti (sistemi di<br />

relazioni) attraverso le proprie strategie e comportamenti 1 .<br />

La principale risorsa distintiva di un contesto come quello attivato dal Festival di<br />

Avignone sembrava essere rappresentata proprio dall’insieme delle capacità esclusive<br />

delle persone che lo componevano, nonché dalla possibilità che tali persone<br />

interagiscano tra loro e con gli altri elementi del territorio stesso (non solo fisicamente<br />

inteso). Il tema dell’identità di quel “paesaggio artistico” che ruotava attorno al Festival,<br />

in quella ottica, nasceva dall’esigenza che avevo inteso esprimere, ad esempio, con<br />

forza, da Bernard Faivre d’Arcier, di coltivare l’unicità di quel contesto, elemento che<br />

ne distingueva il “posizionamento competitivo” rispetto ad altri contesti, rendendolo<br />

unico 2 . Se la funzione dei contesti territoriali come risorsa per sostenere la propagazione<br />

della conoscenza sembrava già emergere nei “discorsi di management” (teorici e<br />

pratici), il passo ulteriore poteva essere quello di sviluppare un modello interpretativo<br />

dei processi di creazione del valore nei contesti (transnazionali, o comunque non solo<br />

1 Gli studi di management sui territori considerati come fattori su cui si innestano specifici processi<br />

“micro” di sviluppo economico, sono sempre più diffusi. Un contesto territoriale poteva essere analizzato<br />

«[…] come contenitore dinamico di fattori generativi e attrattivi di competenze e conoscenze capaci di<br />

rendere quei luoghi flessibili, ossia in grado di rispondere alla varietà offerta e domandata» (Pilotti, 2000:<br />

3). Proseguendo tale parallelo tra imprese e territori, dalla letteratura specifica sul marketing territoriale<br />

(Valdani, Ancarani, 2000) o sui distretti industriali (Becattini 1987, 1990, 1998, 2000; Grandinetti,<br />

Tabacco, 2003; Grandinetti, Rullani 1996; Rullani, 2002a), emergeva appunto come le politiche<br />

competitive delle imprese siano sempre più interconnesse e dipendenti dalle risorse specifiche dei territori<br />

nei quali sono insediate: «[...] imprese e territori co-evolvono alla ricerca di vantaggi competitivi essendo<br />

gli uni reciprocamente risorse critiche per la competitività degli altri» (Valdani, Ancarani, 2000: 23). In<br />

termini di economia della conoscenza questo era però solo il punto di partenza di un ragionamento che<br />

andava fatto su più livelli di analisi (N.d.T.).<br />

2 Tra gli altri: Ancarani, 1999; Valdani, Ancarani, 2000; Biggiero, Sammarra, 2002; Rullani, 2002a<br />

(N.d.A.).<br />

439


locali) inserendo in questo meccanismo proprio il ruolo che veniva giocato dalla<br />

conoscenza e da forme distintive di essa: quella prodotta, per l’appunto, dalle<br />

organizzazioni artistico-culturali 1 . A queste ultime, dunque, poteva essere affidato il<br />

compito di «fungere da interfaccia cognitiva tra locale e globale […] 2 » a partire da<br />

adeguati livelli di legittimazione nei contesti locali di riferimento, proprio come quelli<br />

messi in azione dal Festival di Avignone.<br />

Nel caso specifico del Festival, cosa significava «selezionare e ritenere risorse<br />

cognitive presenti a livello locale al fine di ricombinare conoscenze e attivare “nuovi”<br />

contesti d’uso a livello globale attraverso un processo evolutivo che si realizza<br />

nell’ambito di reti cognitive estese 3 », vale a dire, che riguardano un’intera filiera dello<br />

spettacolo dal vivo e non solo alcuni reparti localizzati in una specifico contesto?<br />

Nel caso delle organizzazioni teatrali, in generale, il punto di partenza del<br />

ragionamento proposto era il riconoscimento, da parte di queste, dell’esigenza di<br />

attivare processi di variazione nelle risorse che risultavano carenti a livello locale, cosa<br />

che è strettamente collegata all’esigenza di legittimare tale scelta strategica nei confronti<br />

delle istituzioni pubbliche e degli attori del contesto di origine (sia locale che<br />

nazionale). In tale ragionamento si inserivano i festival e, in particolare, il Festival di<br />

Avignone in quanto, quando le relazioni interne al contesto di partenza del processo di<br />

propagazione risultano adeguatamente sviluppate, risulta effetivamente più agevole<br />

perseguire con successo strategie di trasferimento della conoscenza connettiva che<br />

circola sotto forma di spettacolo teatrale.<br />

Il processo di propagazione cognitiva delle organizzazioni teatrali, quindi, poteva<br />

essere paragonato a quello delle piccole imprese locali, considerando entrambe le realtà<br />

come nuovi attori della “globalizzazione” che attivavano nuove formule organizzative e<br />

canali (le reti) rispetto a quelle proposte dal prototipo delle imprese multinazionali (il<br />

canale gerarchico) o delle relazioni di mercato in senso stretto (di stampo<br />

mercantilista) 4 . Come poteva estendersi una filiera cognitiva come quella teatrale<br />

semplicemente sfruttando meccanismi di mercato o altri sistemi “automatici” di<br />

regolazione? In fondo, non bisognava dimenticare in quale momento (questa volta<br />

storico) era nato il Festival di Avignone, nell’immediato secondo dopoguerra in assenza<br />

di “istituzioni” che potessero in un qualche modo “guidare” l’evoluzione del sistema<br />

stesso.<br />

In tale prospettiva, il Festival di Avignone realizzava anche, e soprattutto, un<br />

processo di creazione di “reti lunghe” di trasferimento della conoscenza connettiva sotto<br />

forma di spettacolo teatrale che coinvolgeva, come attori principali, i singoli<br />

spettatori/consumatori, le organizzazioni artistiche e i vari contesti locali di riferimento<br />

da cui tali conoscenze partivano per poi ritornarvi arricchite da un punto di vista<br />

“cognitivo”. In fondo, gli spettacoli e le esperienze artistiche di Avignone non sarebbero<br />

andate a formare i cartelloni e le stagioni teatrali tanto dei luoghi di origine quanto della<br />

rete di contesti che erano stati, in un qualche modo, toccati dal complesso processo di<br />

1 Crisci, Moretti 2004 (N.d.A.).<br />

2 Facevo riferimento a Grandinetti, Moretti 2004 e a Crisci, Moretti 2004. La figura, poco più avanti nel<br />

testo, riproponeva una rappresentazione dell’internazionalizzazione cognitiva quale processo evolutivo<br />

che avevo realizzato in precedenza. Molte di quelle riflessioni le trovai in Grandinetti, Rullani 1996<br />

(N.d.T.).<br />

3 Crisci, Moreti 2004: capitolo 7, Becker 1982. Ma in generale: Hakansson 1982, 1987; Hakansson,<br />

Snehota 1995; Lomi 1991, 1997a, 1997b; Lomi, Larsen, Ginsberg 1997; Lorenzoni 1992; Noria 1992;<br />

Ring, Van de Ven 1992; Soda 1998; (N.d.A.).<br />

4 Grandinetti, Rullani, 1996 (N.d.A.).<br />

440


produzione dello spettacolo stesso? E non si trattava di mera ricerca di uno sbocco<br />

“distributivo” e di riempire quindi un calendario di tournée che fosse sufficiente a<br />

garantire la “convenienza economica” del singolo progetto: molto spesso, infatti, la rete<br />

di distribuzione precedente e successiva al Festival era già fittissima, proprio perché<br />

strettamente collegata ai rapporti di co-produzione e alle collaborazioni artistiche che<br />

non solo si formavano ad Avignone, come nel caso di una “fiera commerciale”; la<br />

cooperazione tra organizzazioni artistiche veniva attivata dallo stesso Festival di<br />

Avignone, recuperando ex post (al fine di ritrasferirla) o creando ex ante (al fine di<br />

propagarla) la mappa di un territorio artistico in divenire che si sarebbe manifestata solo<br />

mesi dopo, con l’avvio delle stagioni invernali.<br />

Tale processo poteva essere definito, in piccolo, come una forma di<br />

“globalizzazione” su basi cognitive molto particolari e regolata da sistemi di relazione<br />

complessi locali-globali? Sicuramente era un processo “globale” che risultava governato<br />

da una forma distintiva di conoscenza, quella artistica, con specifici mediatori<br />

cognitivi 1 , soprattutto di distribuzione e di integrazione, ma nono solo, in quanto: la<br />

produzione artistica si fondava su una divisione (transnazionale) del lavoro cognitivo,<br />

con la capacità di creare nuove conoscenze che faceva capo a individui, artisti e<br />

organizzazioni teatrali presenti in diversi paesi e contesti territoriali, impegnati sia nella<br />

produzione che nella distribuzione di conoscenza artistica; la presenza di flussi di<br />

1 Grandinetti, Rullani, 1996; Rullani, 2002b, 2003 (N.d.A.).<br />

441


trasferimento di conoscenze (artistiche ma anche organizzative e gestinali) collegavano<br />

tra loro persone, spettatori e contesti nazionali impegnati nel singolo progetto, legame<br />

che si attuava e si perpetuava attraverso i codici artistici propri dello spettacolo teatrale;<br />

la condizione di “interdipendenza cognitiva” era legata al fatto che la conoscenza<br />

prodotta dalle organizzazioni artistiche risultava idiosincratica e strettamente connessa<br />

con quanto accadeva in altri contesti (geografici e artistici) e nelle altre organizzazioni<br />

teatrali che avevano contribuito a generarla (proprio perché la conoscenza – anche<br />

artistica – nasceva contestuale prima di cercare di diventare globale).<br />

Utilizzando lo spettacolo teatrale come metafora del concetto che intendevo<br />

esprimere, quest’ultimo nasce contestuale (a quel punto, si trattava di un caso specifico<br />

rispetto a ciò che poteva essere valido per qualsiasi altro processo produttivo basato<br />

sulla conoscenza) per venire trasferito da un contesto all’altro attraverso processi di<br />

codifica-decodifica dei suoi “contenuti-messaggi” estetici, veicolato da tutte le<br />

trasformazioni (cognitive) che lo hanno reso propagabile e “utilizzabile” in contesti<br />

differenti, dapprima rimanendo in ambito artistico. Ebbi modo di assistere ad un<br />

esempio molto semplice ma lampante di uno degli aspetti “cognitivi” (forse quello più<br />

evidente) legati a processi di condifica e de-condifica dalla conoscenza connettiva<br />

attraverso cui si attiva il passaggio, ricorsivo, dal locale al globale e di ritorno ad un<br />

contesto locale differente da quello di partenza: Je suis sang di Jan Fabre, costituirà un<br />

esempio di come lo stesso spettacolo, presentato “su piazze” diverse possa produrre<br />

risultati “cognitivi” molto differenti, e non solo nello spazio, ma anche nel tempo.<br />

Lo spettacolo teatrale poteva risultare utile per comprendere il modo in cui<br />

inquadrare i fenomeni della “globalizzazione” delle e attraverso le organizzazioni<br />

teatrali e cosa comporti considerare tale problematica con riferimento al trasferimento di<br />

flussi di conoscenze di natura gestionale e organizzativa attraverso “reti lunghe” anche<br />

transnazionali.<br />

Una rete (transnazionale) basata su simili meccanismi di formalizzazioneintegrazione<br />

del trasferimento della conoscenza, ovvero su “media comunicativi e<br />

fiduciari 1 ”, poteva contare su processi di apprendimento e di accreditamento che<br />

estendevano l’area della produzione e utilizzazione delle conoscenze stesse,<br />

aumentando la portata e la fedeltà 2 della “rete” stessa come canale di globalizzazione.<br />

Lo spettacolo teatrale, o meglio il “testo estetico” e tutti i “discorsi di management”<br />

che lo accompagnavano, era in grado di giungere fin dove il linguaggio e la capacità di<br />

decodificarlo risultavano noti e comprensibili ad una comunità epistemica ma, ora,<br />

anche semantica. Non si trattava di un problema di natura “linguistica” nel senso stretto<br />

del termine: il fatto che uno spettacolo fosse in tedesco, in inglese o in francese, non<br />

evitava che, inserito in un’altra programmazione artistica e in un contesto di relazioni<br />

molto lontano da quello originario (lo spettacolo “creato” ad Avignone e che poteva<br />

essere presentato in una lunga tournée in tutta Europa), venga percepito nella propria<br />

interezza, oppure giunga solo parzialmente allo spettatore.<br />

1 Grandinetti, Rullani, 1996 (N.d.A.).<br />

2 Portata e fedeltà sono due parametri attraverso cui valutare l’efficacia/efficienza dei canali di<br />

internazionalizzazione analizzati da Grandinetti e Rullani (1996). La portata fa riferimento alla mole di<br />

informazioni che risulta possibile trasferire in un dato tempo, mentre la fedeltà attiene al grado di<br />

distorsione e di rumore che interviene nel trasferimento della conoscenza attraverso l’utilizzo di uno<br />

specifico canale (gerarchia, mercato o rete). L’estensione valuta invece l’ampiezza (dal punto di vista<br />

numerico e geografico) dei collegamenti tra potenziali produttori e utilizzatori di conoscenza, in questo<br />

caso, nell’ambito della piattaforma interorganizzativa del Progetto Adriatico (N.d.A.).<br />

442


Più in generale, utilizzare la rete come canale di trasferimento della conoscenzaspettacolo<br />

comportava la necessità di esaltare il patrimonio di esperienze poste in essere<br />

dai partner di un progetto artistico: un network di questo tipo, per poter funzionare ed<br />

adempiere ai compiti ad esso assegnati, non può limitare il proprio operato ad una<br />

condivisione di sapere operativo e strumentale (scambio di “informazioni” basate sulla<br />

contiguità fisica degli attori). Questo tipo di trasferimento della conoscenza continuava<br />

ad avere natura costestuale ed esigeva “vicinanza fisica” (aspetto questo che spesso<br />

costituisce un vincolo per progetti artistici in condizioni di scarsità di risorse, soprattutto<br />

economiche) 1 . Parlare, dal punto di vista cognitivo, di trasferimento e propagazione<br />

della conoscenza “a valle” della filiera dello spettacolo dal vivo comportava estendere i<br />

meccanismi di integrazione della conoscenza appunto attraverso strumenti più potenti e<br />

meno vincolanti dello scambio fisico (di prodotti/informazioni), come i media<br />

comunicativi e fiduciari 2 (comune concezione dei processi di produzione di conoscenza<br />

artistica distintiva).<br />

Con riferimento alle reti di relazioni produttive del Festival di Avignone, c’erano<br />

tutti i presupposti teorici per parlare di “globalizzazione cognitiva” 3 , in quanto la<br />

riscoperta della varietà riguardava: le storie proposte (storie umane, artistiche,<br />

organizzative); i processi di internazionalizzazione, in un settore (quello delle<br />

organizzazioni artistiche) storicamente transnazionale 4 ; i modelli organizzativi<br />

(derivanti dalle differenti esperienze prese in considerazione dai partner nonché dalla<br />

creazione della stessa piattaforma di lavoro comune sotto forma di programmazione<br />

artistica); gli ambienti nazionali; le strategie perseguite dalle singole organizzazioni. Se<br />

dunque pareva accettabile rileggere i processi di “globalizzazione” cognitiva prodotta<br />

dalle organizzazioni teatrali che partecipavano al Festival di Avignone nella prospettiva<br />

dell’economia della conoscenza (e l’arte teatrale costituiva un produttore di conoscenza<br />

1 E’ possibile distinguere modalità differenti attraverso cui “produttori e utilizzatori di conoscenza”<br />

cercano di attivare la comunicazione e la cooperazione nell’ambito di reti transnazionali: attraverso la<br />

semplice condivisione (o scambio); o attraverso l’integrazione (formalizzazione). Attraverso la<br />

condivisione (scambio) i partecipanti di una rete, nell’ambito della rispettiva autonomia, si mettono nella<br />

condizione di “condividere il medesimo contesto di esperienza” (Grandinetti, Rullani, 1996). Ciò<br />

comporta la realizzazione di forme embrionali di reti (o quasi-reti) in cui «ciascuna impresa aumenta il<br />

pool di informazioni a cui ha accesso, e la sfera di utilizzazione delle proprie, grazie al fatto di investire<br />

nella costruzione e manutenzione di un sistema comunicativo-cooperativo entro il quale vengono<br />

scambiate informazioni e conoscenze anche complesse» (ibidem: 267). Alcuni pensieri li trassi da:<br />

Hakansson, Snehota 1995; Levinthal, Warglien 1999; Lipparini 1995, 1998; Lomi, Larsen 1996; Axelrod,<br />

Cohen 2000 (N.d.T.).<br />

2 Grandinetti, Rullani, 1996 (N.d.A.).<br />

3 La globalizzazione poteva intesa come «[…] un orizzonte mondiale di senso che viene prodotto e<br />

conservato nella comunicazione e nell’agire da una pluralità di persone e di automatismi sociali. […] Il<br />

problema chiave della globalizzazione produttiva contemporanea non è quello di trasferire merci, capitali<br />

o anche conoscenze bell’e pronte da un paese all’altro, ma è quello di innescare processi virtuosi di autoapprendimento<br />

e di auto-trasformazione nei contesti locali finora rimasti ai margini della<br />

modernizzazione» (Rullani, 2003). Ancora, Rullani sottolinea che: «[...] La globalizzazione sviluppa<br />

effetti positivi solo se viene governata [dai soggetti], ma per esserlo servono regole condivise che tutelino<br />

i diversi interessi in causa, dando senso e potere alla loro interazione (valorizzazione delle risorse locali,<br />

sostenibilità ecologica degli investimenti, diritti minimi dei lavoratori, nuove regole fiscali, graduazione<br />

dei compensi alla proprietà intellettuale, ecc.)» (Rullani, 2003) (N.d.T.).<br />

4 L’internazionalizzazione nei “fattori” può infatti riguardare le collaborazioni produttive attraverso<br />

responsabili artistici comuni, la condivisione e lo scambio di attori e operatori, la condivisione di<br />

esperienze organizzative, l’ospitalità e la distribuzione degli spettacoli nei cartelloni stagionali di teatri e<br />

festival internazionali. Tra gli altri: Salvemini, Soda 2001; Collodi, Crisci, Moretti 2004. E in generale:<br />

Lipparini 1998; Soda 1998 (N.d.T.).<br />

443


distintiva), era possibile evidenziare che la scelta della rete come specifico mediatore<br />

relazionale per il trasferimento dello spettacolo teatrale risultava strettamente collegato<br />

con l’esigenza di trasferire conoscenze molto complesse (conoscenze artistiche e<br />

rappresentazioni culturali create da “specialisti” e comunità di professionisti 1 ) in una<br />

situazione in cui le risorse cognitive non risultano scarse ma si moltiplicano<br />

continuamente con livelli di efficacia e di propagazione che potevano risultare<br />

sconosciuti a molti altri settori economici 2 .<br />

Partire da forme di semplice scambio per giungere a reti di conoscenza<br />

transnazionali, vale a dire utilizzare anche mediatori cognitivi che risultano, invece,<br />

dimenticati o non del tutto compresi dalla teoria economica e di management, può<br />

costituire una sorta di trasizione per arrivare a forme di integrazione del sapere<br />

attraverso vere e proprie “reti cognive 3 ”. Ma le organizzazioni teatrali già “lavorano la<br />

conoscenza” in quella direzione, giocoforza verrebbe da dire, viste le peculiari<br />

combinazioni di “mediatori cognitivi” che adottano “normalmente” nei processi<br />

produttivi con le riguardano. Dalla “semplice” condivizione di esperienze operative e di<br />

un linguaggio estetico (sul “fare teatro”, nel caso specifico) si poteva cioè giungere ad<br />

una effettiva condivisione cognitiva tra i partner di un progetto artistico (ovvero a<br />

pensare ad una concezione comune del teatro e a come innovare le modalità<br />

organizzative per realizzare quella concezione estetica del teatro) attraverso «standard,<br />

codici e linguaggi impiegati nella de-contestualizzazione delle rispettive esperienze 4 »:<br />

erano proprio quelle le componenti fondamentali per la comprensione del prodotto<br />

teatrale considerato come principale mezzo comunicazionale attraverso cui le<br />

organizzazioni artistiche possono passare dalla codificazione alla de-condificazione<br />

delle proprie esperienze 5 . In sostanza, nelle organizzazioni teatrali lo scambio e<br />

l’integrazione delle competenze locali trovava un importante strumento cognitivo<br />

proprio nello spettacolo teatrale, attraverso il quale il canale della rete transnazionale<br />

riesce a codificare e decodificare le conoscenze trasferendole anche in contesti globali.<br />

Il caso delle organizzazioni teatrali era emblematico della capacità cognitiva del<br />

1<br />

Brown, Duguid 1991; Barley, Orr 1997; Barley, Kunda 2004; Wenger, 2000; Micelli, 2001; Narduzzo,<br />

2003 (N.d.A.).<br />

2<br />

Grandinetti, Rullani 1996 (N.d.A.).<br />

3<br />

Grandinetti, Rullani, 1996 (N.d.A.).<br />

4<br />

Grandinetti, Rullani, 1996: 268 (N.d.T.).<br />

5<br />

Già altrove il prodotto teatrale, inteso nella propria interezza e in una prospettiva manageriale, era stato<br />

definito come «[…] un’esperienza cognitiva legata ad una attività artistica, guidata da una proposta di<br />

senso, resa possibile da determinate condizioni e servizi di accessibilità, all’interno di una comunità di<br />

riferimento» (Moretti, 1999; Crisci, 2001, 2002). Lo spettacolo teatrale, attraverso le sue componenti<br />

comunicazionali (Elam, 1988), fornisce un esempio di quel processo che, visto invece in termini di<br />

marketing relazionale, porta alla co-evoluzione tra le conoscenze dell’organizzazione artistica (che<br />

produce e distribuisce lo spettacolo, contenitore della propria identità organizzativa) e dello spettatore<br />

(che, guidato dall’interfaccia con gli artisti, mette in gioco il proprio sapere per la comprensione dello<br />

spettacolo uscendone arricchito dal punto di vista cognitivo) (Crisci, 2001; Grandinetti 1993; Busacca,<br />

Grandinetti, Troilo, 1999; Troilo, 2002). Ripensando all’esempio che N. proporrà in seguito (lo spettacolo<br />

di Jan Fabre) e considerando l’innovazione come “processo evolutivo in una ecologia di routines” è<br />

possibile descrivere ed interpretare il comportamento dell’organizzazione innovativa) con riferimento<br />

all’oggetto dell’innovazione (il processo di creazione di conoscenza artistica) (Bernardi, Warglien 1992;<br />

Di Bernardo, Rullani 1985, 1990; Nelson, Winter, 1982; Warglien 1990). Nel caso specifico, la ricerca di<br />

nuovi linguaggi e la modificazione dei codici che permettono l’interpretazione della performance teatrale<br />

da parte degli spettatori, costituiscono altrettanti casi in cui vengono generate nuove regole per quanto<br />

riguarda il contesto teatrale (modalità con cui si gestisce l’interfaccia artista/pubblico) o vengono<br />

modificate routine “tradizionali” circa il modo di realizzare la performance (Elam, 1980) (N.d.A.).<br />

444


prodotto teatrale: se le piccole imprese transanazionali devono attuare sforzi enormi per<br />

rendere possibile l’integrazione delle conoscenze, implementando formule organizzative<br />

articolate attraverso cui gestire l’internazionalizzazione; le organizzazioni artistiche da<br />

sempre possono sfruttare, come punto di partenza, le capacità comunicazionali<br />

(universali) dello stesso prodotto teatrale, che si presta esso stesso a fungere da<br />

integratore di conoscenze.<br />

La programmazione del Festival di Avignone, così come la volle Jean Vilar, era<br />

quindi basata anche su una rete di co-produzioni da cui si sarebbe poi diramata<br />

un’altrettanto fitta rete di distribuzione di spettacoli: tali reti costituivano una<br />

rappresentazione estremamente attendibile del conteso di riferimento attivato durante il<br />

Festival e dal Festival; un’assunzione di impegno diretto nella produzione che costituiva<br />

anche un utile strumento attraverso cui manipolare i processi di sensemaking delle<br />

organizzazioni partner basati su quella azione collettiva 1 .<br />

Mi veniva in mente il caso del “progetto Adriatico”: un esempio di quanto fitte<br />

possano essere le relazioni che si intrecciano attorno ad un progetto artistico<br />

internazionale. Collegato al Festival di Avignone del 2000 attraverso uno spettacolo<br />

“creato e diffuso” nel quadro di una rete di produzione teatrale europea 2 , il “progetto<br />

Adriatico” mirava proprio a costituire un’altra rete di collaborazioni. Un gruppo di teatri<br />

italiani, con l’intenzione di esplorare o di tornare a percorrere possibili percorsi artistici,<br />

in parte abbandonati per i tragici fatti della guerra nella ex Iugoslavia, si presentarono ai<br />

potenziali partner suggerendo loro: «siamo venuti nei Balcani perché non sappiamo chi<br />

siamo, e vogliamo che voi ce lo diciate». Ricordando le travagliate esperienze passate e<br />

parlando del contesto balcanico, durante il racconto i protagonisti di quel progetto<br />

nascente non mancarono di sottolineare che: «[…] sappiamo poco di quanto è accaduto,<br />

e anche sapendo certe cose non potremo mai arrivare a capire. Se si vuole andare al<br />

fondo di una realtà occorre stare lì, viverla profondamente. Se invece si vuole<br />

“semplicemente” presentare qualcosa, uno spettacolo, un progetto, a quella realtà, allora<br />

è meglio pensare a una forma di progetto itinerante. […] Ma la cosa più utile, forse, è<br />

legarsi a un luogo, lavorare in un posto, starvi molto tempo: per capirlo a fondo e<br />

veramente 3 ».<br />

***<br />

1 Weick, 1977, 1979, 1995, 2002 (N.d.A.).<br />

2 Crisci, Moretti 2004. In particolare, lo spettacolo in questione era Hotel Europa, in cui «sono entrati<br />

cinque coproduttori (Intercult, Bologna 2000, Bonner Biennale, Festival d’Avignon, Wiener Festwochen,<br />

con il sostegno di Commissione Europea, Theorem, Svenska Instituten) e otto partner internazionali che<br />

hanno svolto il lavoro nei propri paesi, i primi chiamati ad un intervento economico e i secondi<br />

all’organizzazione e alla logistica (luoghi di prova e di spettacolo, trasporti e ospitalità ecc.). Il budget<br />

complessivo dell’operazione è di circa quattro miliardi di lire, e coinvolge oltre quaranta persone, cinque<br />

luoghi diversi in Europa, con un mese di permanenza in ogni luogo» (da Porcheddu, 2001) (N.d.T.).<br />

3 Tratto da: Porcheddu 2001, il corsivo è mio. Ancora, in altre parti della narrazione tra i consigli,<br />

soprattutto di operatori e artisti locali, emergeva l’importanza di un punto di incontro fisico, arrivando<br />

anche a suggerire la creazione di un «luogo di incontro e di studio». Questo aspetto veniva infatti<br />

percepito come la principale causa del fallimento di alcune esperienze passate o semplicemente della<br />

scarsa stabilità e frequenza delle relazioni che si instaurarono con tanta fatica e spesso con elevati<br />

investimenti iniziali (economici e sociali). Lo spettacolo teatrale costituiva una modalità per attivare<br />

l’ambiente che le organizzazioni teatrali stavano esplorando, riducendo così le ambiguità intrinseche<br />

nell’esperienza stessa. Ed fu proprio su uno spettacolo che lavorarono per arrivare ad creare un senso<br />

comune (Weick, 1979) (N.d.T.).<br />

445


Quanto segue costituisce un’altra storia, una versione rivista di un’altra narrazione<br />

che realizzai in occasione di un’altra ricerca 1 . La fonte del racconto era il libro Adriatico<br />

– Manuale per un viaggio teatrale nei Balcani, pubblicato da Andrea Porcheddu, critico<br />

teatrale italiano, nel 2001 2 .<br />

La voce narrante, dunque, non coincide con la prospettiva di chi scrive, ma<br />

costituisce un ulteriore punto di vista, esterno anche al gruppo dei partner italiani del<br />

progetto: «Il mio incarico di “testimone” di questo percorso, mi ha spinto ad essere<br />

osservatore a volte distante, ma con il tempo sempre più spesso partecipe. Ora mi<br />

attende il compito di narratore, di autore di questo ‘libro di bordo’ che, come un<br />

portolano dal sapore antico, possa portare allo scopo finale, quello della creazione del<br />

Progetto Adriatico 3 ».<br />

Il diario della fase iniziale del Progetto Adriatico era suddiviso in tre parti: la<br />

“Nascita del Progetto Adriatico” (da p. 9 a p. 20); “Adriatico” (da p. 21 a p. 72); e una<br />

sorta di appendice con “Le fasi degli incontri” e le “Strutture teatrali e persone<br />

incontrate” (da p. 73 a p. 79). La parte centrale del testo, intitolata “Adriatico”, era<br />

composta a sua volta da quattro parti ben distinte e da una conclusione, intitolate:<br />

“Tracciando le linee di una mappa”, “Lo sguardo di Ulisse”, “L’Adriatico è ancora<br />

lontano”, “Altri sguardi, altre parole”, “Per una prima conclusione”. Tale suddivisione<br />

del testo non risultava priva di importanza anche ai fini di questa mia libera<br />

interpretazione.<br />

I protagonisti di quella storia erano i responsabili artistici e organizzativi di un<br />

gruppo di teatri italiani alla riscoperta di se stessi e di quella che viene percepita come la<br />

loro comune identità artistica: Paolo e Alberto del Css Teatro stabile di innovazione del<br />

Friuli Venezia Giulia, di Udine; Carlo del Teatro Kismet O.per.A di Bari; Marco ed<br />

Ermanna del Teatro delle Albe – Ravenna Teatro. «[…] Alla base [della loro poetica]<br />

c’è un’idea di teatro in movimento, di teatro che è comunità, che è a sua volta incontro.<br />

Lo spettacolo è frutto di ricerca e di attenzione: ricerca artistica e attenzione al contesto<br />

urbano, alla storia del proprio territorio e della propria lingua, all’innovazione stilistica e<br />

contenutistica. Teatro dove l’aspetto organizzativo è fondamentale anche per il fatto<br />

artistico» (p. 27).<br />

Come sottolineava, ancora, il narratore, quella della nascita del Progetto Adriatico<br />

era: «[…] una storia di viaggi. Di spostamenti veloci, a volte faticosi. Ed è una storia di<br />

incontri, tappe di avvicinamento, fatti assieme soprattutto [cercando] persone, un<br />

incontro umano che fosse (anche) teatrale, artistico, poetico. Un viaggio fatto di tante<br />

tappe, italiane e straniere, e di tante scoperte” (p. 28, il corsivo è mio). Ancora, era «un<br />

1 Crisci, Moretti 2004 (N.d.T.).<br />

2 Ancora una volta, ipotizzando che le organizzazioni apprendono dalle loro esperienze, l’analisi del<br />

racconto relativo alla nascita del Progetto Adriatico poteva fornire una spiegazione alle «modalità in cui<br />

le organizzazioni trasformano eventi rari in interpretazioni della storia, e il modo in cui bilanciano<br />

l’esigenza di consenso sulle interpretazioni con quella di interpretare correttamente la storia [stessa]»<br />

(March, Sproull, Tamuz 1991). Nello specifico, questo esempio, intrecciato ad una molteplicità di<br />

personaggi e di situazioni che ruotavano e ruotano attorno al Festival di Avignone, costituiva un caso<br />

emblematico di come possano essere estremamente fitte e intricate le relazioni che si instaurano<br />

all’interno di “reti lunghe” di produzione e di distribuzione teatrale. Dalle poche informazioni che il<br />

lettore troverà nel racconto, egli potrebbe anche provare a disegnare una possibile mappa degli attori<br />

coinvolti nella vicenda: si accorgerà di quanto complesso possa essere seguire le tracce lasciate da una<br />

forma di conoscenza connettiva come lo spettacolo teatrale quando questo si propaga lungo tutta la filiera<br />

cognitiva, sotto strutture, forme e flussi diversi, seguendo regole relazioni molteplici a seconda del<br />

contesto in cui si trava di volta in volta (N.d.T.).<br />

3 Porcheddu 2001: 28, il corsivo è mio (N.d.T.).<br />

446


acconto di luoghi e persone», alla scoperta di «una strana mappa che svela percorsi<br />

poco battuti, a volte segue direttrici marginali, altre si insinua nelle strade principali<br />

delle capitali, ma subito conduce verso inattese periferie, verso strade lontane da circuiti<br />

turistici abituali» (p. 29, il corsivo è mio).<br />

La rappresentazione successiva forniva un quadro di sintesi del percorso relativo al<br />

Progetto Adriatico, ponendo particolare attenzione alla fase di progettazione.<br />

Lo sguardo di Ulisse<br />

Il primo incontro, informale, avvenne a Rubiera, nei pressi di Bologna, il 24 giugno<br />

del 2000. Erano presenti, tra gli altri, Paolo, Carlo e il narratore. L’occasione<br />

dell’incontro era un convegno su “Teatro popolare di ricerca”, indubbiamente un tema<br />

evocativo per i protagonisti della storia. Il contesto ambientale era per certi versi<br />

affascinante: la Corte Ospitale, uno splendido edificio duecentesco lunga la via dei<br />

pellegrini diretti a Roma. Subito nacque l’idea del “manuale di viaggio”: un diario dove<br />

raccogliere tutte le riflessioni di quella che per il momento era una idea nascente.<br />

Vennnero fatti alcuni nomi, potenziali collaborazioni; e vennero individuati i prossimi<br />

incontri, il primo dei quali era a Santarcangelo di Romagna.<br />

L’incontro durante il Festival di Santarcangelo avvenne il 13 luglio. Era una tappa<br />

fondamentale e avviene, anche in questo caso, in un luogo e in un contesto<br />

assolutamente suggestivi: «santarcangelo, per chi la conosce, è una festa. Un paese che<br />

rimane nel cuore e un festival che si tramuta in un sogno. […] Questo magico<br />

appuntamento, per quindici giorni sconvolge il luglio della pacata cittadina a due passi<br />

da Rimini. Sotto la rocca, nelle piazze, nelle strade, nei teatri, si fa spettacolo: ed è<br />

447


un’euforia contagiosa, litigiosa, appassionata” (p. 32). Di fatto, era «il primo incontro<br />

collettivo dei tre teatri» alla presenza del «redattore del diario di bordo» (p. 33) ed aveva<br />

l’obiettivo di chiarire molti dei punti che erano ancora in sospeso.<br />

Dalle domande che si ponevano reciprocamente i partecipanti alla riunione, e dalla<br />

discussione aperta che ne scaturì emerse chiaramente che: «E’ un sentire comune: i tre<br />

[teatri] hanno scelto la forma del viaggio verso i Balcani per ri-scoprire, confrontandosi<br />

con un mondo diverso eppure vicinissimo, le proprie identità, le proprie attitudini, il<br />

proprio modo di fare e vivere il teatro» (p. 33). E ancora: «Applicare l’attenzione<br />

all’altro per conoscere noi stessi» era la strada comune che i partner italiani decisero di<br />

seguire, e su cui tutti erano d’accordo.<br />

Ma anche i problemi e le difficoltà erano evidenti: «Restano irrisolti molti dubbi,<br />

molte incertezze: a chi interesserà la vocazione transnazionale dei teatri italiani<br />

impegnati nel ‘Progetto Adriatico’? Ce ne sarà davvero bisogno? E poi come indirizzare<br />

il progetto? Quali gli obiettivi prioritari? Quali gli scopi finali?» (p. 34).<br />

Dopo oltre un mese, verso la fine di agosto, ci furono altre riunioni di lavoro, in<br />

Friuli, tra Udine, Fagagna e Osoppo; ed anche in questo caso gli incontri avvennero nel<br />

pieno dell’attività, durante i lavori del laboratorio teatrale annuale dell’Ecole des<br />

Maitres, un corso di formazione internazionale e itinerante, diretto da Franco Quadri, e<br />

organizzato dal Css in collaborazione con l’Ente Teatrale Italiano e alcuni importanti<br />

centri di formazione teatrale europei 1 . Quell’anno il Maestro chiamato a dirigere la<br />

scuola era Eimuntas Nekrosius, con un lavoro su Il gabbiano di Cechov 2 . La formazione<br />

degli artisti, nel settore teatrale, era da sempre un lavoro costantemente in bilico tra<br />

abilità, talento e tecnica, creatività e scientificità: «Nekrosius regala agli allievi<br />

intuizioni e genialità, metodo e nobile artigianato. E loro rispondono con entusiasmo,<br />

decisi ad apprendere, a rubare quanto più possibile da un simile maestro, a fare tesoro di<br />

questa esperienza» (p. 35).<br />

In quelle giornate veniva aggiornata l’agenda degli incontri a seguire e veniva stilato<br />

un elenco, in continua evoluzione, di persone da contattare, da sentire, eventualmente,<br />

da coinvolgere.<br />

Con gli incontri di agosto terminava la fase di confronto sostanzialmente “interno” al<br />

gruppo dei partner italiani del progetto (“Lo sguardo di Ulisse”). Per tutto il mese di<br />

settembre si susseguirono i viaggi e gli incontri in Italia (ma non solo) con altre realtà,<br />

altre esperienze, tutti realizzati per preparare i viaggi “al di là dell’Adriatico”.<br />

Al di là dell’Adriatico<br />

1 Franco Quadri, noto critico teatrale italiano, così descriveva il progetto in una delle pubblicazioni<br />

ufficiali di presentazione: «Dal 1990 l’Ecole des Maîtres ha rappresentato nel contesto europeo un<br />

progetto pedagogico e artistico innovativo. L'iniziativa ha perseguito lo scopo di porre a diretto contatto<br />

un numero scelto di giovani attori di alcuni paesi europei, già entrati in attività dopo essersi diplomati<br />

nelle rispettive accademie d'arte drammatica, coi più importanti Maestri scenici della prosa.<br />

L’esperimento si è sviluppato in atelier brevi e ravvicinati o di più lunghe durate, comunque non superiori<br />

ai due mesi, distinti dal loro carattere itinerante e dal significato rilevante che vi assumeva l'approccio ai<br />

testi scelti in lingue diverse, sulla base di metodi di lettura e di applicazione differenti, con l'effetto<br />

dinamico di mettere in gioco gli stessi Maestri nel corso di questi seminari, non sempre destinati a una<br />

dimostrazione finale, ma passibili anche di confluire in veri e propri spettacoli» (N.d.A.).<br />

2 Anche le reti cognitive collegate ai processi di produzione scientifici sono, spesso, difficili da seguire<br />

(Latour 1991, 2006): le ricerche sono a volte collegate tra loro attraverso nodi che, sotto forma di<br />

esperienze, costituiscono l’annello di congiunzione tra un progetto di ricerca e l’altro. La ricerca a cui<br />

faccio ora cenno coincise proprio con il periodo che N. trascorse assistendo alle prove dello spettacolo di<br />

Nekrosius, Il gabbiano, appena prima del suo debutto alla Biennale di Venezia (N.d.T.).<br />

448


Il 10 settembre il narratore era a Narni, piccolo centro dell’Umbria: «[…] Sorprendo<br />

Maurizio mentre scruta la scena, sprofondato in una poltrona di platea: segue attento i<br />

gesti dei giovani laboratoristi […]. Scivoliamo fuori dal buio del teatro ottocentesco e<br />

raggiungiamo la piazza» (p. 38). Presso il Teatro Comunale, lo scenografo Maurizio<br />

Agostinetto era impegnato in una fase del progetto “Porti del Mediterraneo”: l’incontro<br />

con i responsabili artistici di quel progetto avvenne più avanti; l’obiettivo di quel giorno<br />

era raccogliere l’incredibile esperienza di Maurizio, il racconto «affascinante e<br />

sconvolgente» del progetto internazionale a cui aveva lavorato a Pristina, in Kosovo. Il<br />

progetto, a carattere tipicamente multidisciplinare, aveva visto coinvolti psicologi,<br />

antropologi, pedagogisti, registi, operatori culturali; si intitolava Il corpo esiliato:<br />

attraverso un laboratorio per circa quaranta persone, era stato formato un gruppo di<br />

persone all’uso di strumenti psicoterapeutici. Tale gruppo «[…] è destinato ad affrontare<br />

ed elaborare i traumi di guerra e al tentativo di recupero delle tradizioni popolari presso<br />

gruppi che hanno vissuto la terribile esperienza dell’esodo» (p. 39). L’esperienza di<br />

Agostinetto non era stata solo umana ma anche fortemente professionale: le difficoltà di<br />

dover lavorare all’interno di un gruppo già costituito e di dover quindi modificare il<br />

proprio approccio di lavoro si legarono all’incredibile arricchimento del suo percorso<br />

artistico. Valeva la pena riportare il racconto del narratore su come era nata e si era<br />

sviluppata un’idea artistica, da dove fosse venuta l’ispirazione, di quanto importante<br />

fosse il ruolo del contesto e vivere quella realtà a stretto contatto con chi l’aveva vissuta<br />

“dal vivo”. «Pensare ad un progetto scenico» raccontava il narratore «[…] implicava<br />

fare i conti con una memoria spesso violentata: l’idea di Agostinetto di lavorare sul<br />

concetto di “soglia”, luogo di passaggio e di purificazione, ha fatto emergere questi<br />

reconditi aspetti dei laboratoristi, così come, allo stesso tempo, i semplici oggetti usati<br />

per la scena (un tappeto, uno scendiletto …) avevano per loro un valore enorme, quali<br />

oggetti della memoria. Un semplice tappeto può ricordare una casa distrutta, una<br />

famiglia persa, può far capire che valore possa avere la casa: se in Occidente si avverte<br />

il culto della facciata, dell’apparenza, della casa, lì, nel mondo slavo, esiste, invece, il<br />

culto dell’interno, il rito dell’accoglienza: quando un ospite entra nella casa è sacro …»<br />

(p. 40).<br />

Tra il 20 e il 21 settembre tre eventi (due incontri ed una riunione) segnarono<br />

profondamente il lancio del Progetto Adriatico. Bologna, diventò una tappa che<br />

meritava attenzione e analisi.<br />

In quei giorni c’erano tutti i protagonisti: Marcella, Paolo, Carlo, il narratore. Al<br />

Teatro Duse, nell’ambito delle manifestazioni per Bologna-Capitale della Cultura 2000,<br />

era in programma la prima di Hotel Europa, «coproduzione internazionale che vede<br />

Intercult, la struttura svedese diretta da Chris Torch, tra i promotori […]. Dodici registi<br />

provenienti dell’Europa dell’Est, [sono] chiamati a cimentarsi su uno stesso tema, con<br />

drammaturgia di Goran Stefanovski» (p. 41). Chris, che divenne presto uno dei<br />

protagonisti del progetto, descriveva il percorso che aveva portato alla realizzazione del<br />

progetto: «in Hotel Europa sono entrati cinque coproduttori (Intercult, Bologna 2000,<br />

Bonner Biennale, Festival d’Avignon, Wiener Festwochen, con il sostegno di<br />

Commissione Europea, Theorem, Svenska Institutet) e otto partner internazionali che<br />

hanno svolto il lavoro nei propri paesi, i primi chiamati a un intervento economico e i<br />

secondi all’organizzazione e alla logistica (luoghi di prova e di spettacolo, trasporti,<br />

ospitalità ecc.). Il budget complessivo dell’operazione è di circa quattro miliardi di lire,<br />

449


e coinvolge oltre quaranta persone, cinque luoghi diversi in Europa, con un mese di<br />

permanenza in ogni luogo» (p. 42).<br />

Il giorno successivo (il 21 settembre) cominciava con l’appuntamento con Bruna<br />

Gabardelli che, assieme a Febo Dal Zozzo, guidava la compagnia teatrale bolognese<br />

Laminarie. L’interesse per l’esperienza che raccontava Bruna nasceva dal fatto che il<br />

suo gruppo avava operato direttamente a Mostar e Sarajevo in passato; la sua<br />

testimonianza risultò utile sia per comprendere la modalità con cui aveva approcciato<br />

una «realtà complessa come quella della ex Iugoslavia», sia per capire che «lì esisteva<br />

un teatro nuovo, un teatro dove l’arte era usata come “arma” culturale» (p. 44). Dal suo<br />

racconto emergeva tutta la straordinaria ricchezza culturale di quei contesti: «Durante la<br />

guerra i teatranti di Mostar hanno continuato a lavorare, non hanno mai smesso di<br />

mandare segnali verso altri paesi, verso l’Italia, ma pochi li hanno accolti …» (p. 45).<br />

Questo aspetto colpì molto i partner italiani e venne ripreso e confermato dalle altre<br />

esperienze che raccolsero di lì a poco, sull’altra sponda dell’Adriatico.<br />

Sempre in mattinata cominciò la riunione al Teatro Duse con alcuni degli artisti e<br />

degli operatori che hanno lavorato al progetto Hotel Europa. Erano presenti un<br />

coreografo sloveno, un regista macedone, Ivan Popovski (regista russo-macedone che i<br />

protagonisti incontrarono anche successivamente), un regista bulgaro, un attore<br />

albanese, un organizzatore sloveno. Le sensazioni iniziali di quella giornata erano, fin<br />

da subito, contraddittorie: «L’incontro stenta non poco a decollare: ci sono difficoltà e<br />

diffidenze. […] Si avverte una distanza. Lo spettacolo [le prove: n.d.t.] non ci ha molto<br />

convinto, e forse anche gli artisti non sono pienamente soddisfatti dell’esito della prima.<br />

[…] L’incontro della mattina, quindi, parte sotto nefaste suggestioni. La sala del Duse è<br />

affollata: si sente l’odore di tabacco dell’Est, girano pacchetti di sigarette bulgare<br />

Victory, o le slovene Boss. E’ ancora mattina, e non tutti sono felici di essere lì: devono<br />

provare, devono mettere a punto lo spettacolo …» (p. 46). In quella fase la percezione<br />

comune si riassume nell’idea che: «l’Adriatico è ancora lontano. Dobbiamo ancora<br />

attraversarlo. Forse questo è il problema. Sono già passati alcuni mesi da quando<br />

abbiamo affrontato il “Progetto Adriatico” e ancora non abbiamo visto, non abbiamo rivisto,<br />

non abbiamo incontrato il mare … Le persone che sino a questo momento hanno<br />

voluto parlare con noi sono state senza dubbio preziose, ma ora sembra giunto per tutti<br />

il momento di andare (o ‘tornare’ dopo gli anni di guerra) in quei luoghi, in quelle città»<br />

(p. 50).<br />

Quella convinzione aprì la strada al successivo periodo, tra la fine di settembre e<br />

l’inizio di dicembre del 2000: «Altri sguardi, altre parole».<br />

Altri sguardi, altre parole<br />

Il primo viaggio nei Balcani e la permanenza a Belgrado di Alberto e del narratore,<br />

tra il 23 e il 25 settembre, furono “una piccola avventura” (p. 51): un problema di visti<br />

fece ritardare la partenza di un giorno rispetto a quanto programmato 1 ; il giorno<br />

successivo l’aereo da Roma per Francoforte era in ritardo; successivamente, Alberto e il<br />

narratore riuscirono a prendere la coincidenza a Francoforte per Belgrado aiutati<br />

dall’efficienza, tutta tedesca, degli operatori Lufthansa che velocizzarono al massimo le<br />

1 Milosevic, ancora ufficialmente al potere e in vista delle elezioni, aveva negato l’accesso ai giornalisti.<br />

Come sottolinea lo stesso narratore: «[…] Io, con il mio piccolo tesserino dell’Ordine, al pari di un<br />

inviato della CNN …» (Porcheddu 2001) (N.d.T.).<br />

450


pratiche doganali e i controlli; a Belgrado, accolti dalla pioggia insistente, non risultava<br />

la loro prenotazione alberghiera salvo, poi, scoprire che quello non era l’albergo giusto.<br />

Inoltre, il 24 settembre 1 , proprio a Belgrado, si svolgevano le prime elezioni<br />

democratiche del “dopo-Milosevic” e i protagonsti di quella prima tappa “al di là<br />

dell’Adriatico” si trovarono a vivere la Storia in prima persona: «[…] nei giorni<br />

incredibili del voto democratico, Belgrado celebrava il suo piccolo rito teatrale. C’era il<br />

Bitef Festival, forse il principale evento artistico della città, un festival importante … E<br />

il teatro? Il teatro c’era, partecipava alla gioia: agli spettacoli del Bitef tanta gente,<br />

giovanissimi, attenti, curiosi 2 » (p. 25).<br />

L’incontro con i responsabili del Bitef fu cortese, efficace: emersero le difficoltà<br />

economiche (il Festival era stato privato dei finanziamenti statali); il regime “tollerava”<br />

l’esistenza del festival perché non poteva di fatto “chiuderlo d’autorità”; importanti<br />

erano i finanziamenti e i progetti internazionali tanto che «l’edizione del 2000 era stata<br />

finanziata per il novanta per cento dalla Germania» (p. 54).<br />

Sempre il 24 settembre c’era in programma un altro appuntamento, «forse<br />

l’appuntamento più toccante»: si trattava del Centro di decontaminazione culturale. Lo<br />

dirigeva una «signora dal sorriso fraterno», il cui racconto appassionò Alberto e il<br />

narratore: «[…] Mostra la cartina della ex Iugoslavia affissa alle pareti: i luoghi del<br />

conflitto e dei massacri e, in evidenza, sull’altra costa, Aviano e Gioia del Colle 3 ,<br />

ovvero il Udine e Bari» (p. 55). Affascinanti le “suggestioni” che proponeva: seguendo<br />

la metafora del mare, sottolineava come ci fossero storie di incredibile crudeltà proprio<br />

lungo il mare. Le splendide città di Mostar e Sarajevo erano diventate tristemente<br />

famose in occidente; e a causa della «nuova geografia disegnata dalla follia del<br />

conflitto» (p. 56), una intera generazione (giovani che oggi hanno ventitrè o ventiquattro<br />

anni) era cresciuta senza aver visto il mare. La metafora del mare del Progetto Adriatico<br />

giocava brutti scherzi.<br />

Il viaggio nei Balcani si interruppe per una breve parentesi in Italia (a Roma, il 3<br />

ottobre) e in Francia (a Marsiglia, il 7 ottobre): ma questi incontri erano una sorta di<br />

flashback.<br />

A novembre vennero programmati gli ultimi incontri: a Spalato, a Zagabria, a<br />

Skopje. Erano diversi gli appuntamenti preparati e si succedetterò con estrema rapidità.<br />

Alcuni furono particolarmente significativi.<br />

A Spalato (in Croazia), il 1° novembre, Paolo e il narratore incontrarono i<br />

responsabili del Teatro Nazionale Croato. Era una struttura importante per il rilancio<br />

della ricerca e dei linguaggi teatrali: «l’energica e simpaticissima responsabile della<br />

struttura ha chiamato due giovani registi come responsabili artistici, a cui ha<br />

coraggiosamente affidato i settore dell’Opera e della Prosa» (p. 62). La discussione con<br />

loro fu incredibilmente produttiva: c’era «[…] immediata sintonia sulle linee politiche e<br />

1 Solo pochi giorni dopo (tra il 9 e il 10 ottobre) una incredibile rivolta popolare costrinse Milosevic e il<br />

potere ad accettare i risultati delle libere elezioni e pone fine in modo pacifico alla dittatura, dando vita<br />

alla giovane democrazia Serba (N.d.T.).<br />

2 In un’altra parte della narrazione si legge: «E’ bello il pubblico di questi spettacoli: ci sono tanti ragazzi,<br />

giovani, giovanissimi. Sono molto reattivi, attenti: quando scoprono che siamo italiani ci parlano con<br />

piacere, chiedono notizie, vogliono aggiornamenti sulla vita teatrale italiana. […] Non si pensa, a vederli<br />

lì nel foyer – ragazze carine, giovanotti robusti e simpatici vestiti bene, alla moda – che rischiano di avere<br />

un golpe, di subire altri bombardamenti, altre tragedie» (Porcheddu 2001) (N.d.T.).<br />

3 Aviano e Gioia del Colle sono sedi di due delle basi aeronautiche statunitensi in Europa più attive nei<br />

giorni dei bombardamenti e costituiscono importanti centri logistici e operativi a supporto delle<br />

operazioni della Nato nell’area mediterranea e medio-orientale (N.d.T.).<br />

451


artistiche espresse dal Teatro: apertura alla città, rinnovamento del pubblico, attenzione<br />

alla giovane produzione anche proveniente da altri paesi, seguendo un’idea di teatro<br />

pubblico di ricerca» (p. 63).<br />

Altro incontro, altra esperienza incredibile, meno istituzionale all’apparenza, ma<br />

altrettanto importante: il Centro delle Arti Drammatiche, definito come «un progetto<br />

ombrello per altri progetti» artistici (p. 64). Il Centro si occupava della produzione di<br />

film-documentari sulla guerra nei Balcani, realizzava una rivista bimestrale, costituiva<br />

un osservatorio per il teatro indipendente e per la danza contemporanea, collaborava per<br />

la realizzazione di festival e manifestazioni culturali. Attraverso il Centro si generavano<br />

relazioni trasversali su progetti diversi, artisti e intellettuali che costituivano «[...] un<br />

gruppo molto unito, una generazione, che lavora assieme: si creano spontaneamente<br />

collaborazioni tra artisti di diverse discipline, e tutti concorrono volentieri alle<br />

produzioni altrui. C’è un fermento, dunque, collettivo e pervasivo» (p. 64).<br />

Infine, l’ultima tappa del viaggio: la Macedonia. Anche qui un incontro significativo,<br />

quasi dovuto visto che il Dramski Teatar con il regista Aleksandar Popovski erano stati<br />

indicati da più parti come importanti interlocutori. Proprio Popovski era impegnato in<br />

un progetto artistico che gli sta molto a cuore: la messa in scena del testo di Goran<br />

Stefanovski “Divo meso 1 ” (si trattava dello stesso drammaturgo del progetto Hotel<br />

Europa). Descrivendo lo spettacolo sottolineava che «[…] la Iugoslavia aveva una sua<br />

identità. Ora invece, tutto si può comprare e noi dobbiamo continuamente provare chi<br />

siamo, dimostrare che questa non è solo un’area di mafia e di contrabbando …» (p. 71).<br />

Così il narratore concludeva il racconto di quella lunga fase di lavori: «Abbiamo<br />

incontrato delle persone, degli artisti, che a pieno titolo potrebbero entrare, e sono<br />

entrate – semplicemente, naturalmente – nella formulazione del “Progetto Adriatico”.<br />

Hanno dato e daranno il loro coontributo grazie al loro lavoro, alla creazione, alla<br />

produzione, alla discussione continua. Hanno dato la loro disponibilità all’ascolto.<br />

Cercavamo dei partner, e li abbiamo scoperti […]» (p. 72).<br />

Quelle parti del “manuale di viaggio” erano state concepite per raccogliere le<br />

esperienze degli incontri realizzati in questa particolare fase del “Progetto Adriatico”:<br />

era, dunque, una storia organizzativa, la narrazione (parziale) di un progetto artistico<br />

attraverso cui «gli attori interpretano cosa sta succedendo per se stessi e per il<br />

pubblico 2 ». L’interpretazione di questi eventi costituiva una possibile chiave di lettura<br />

della creazione di un network teatrale internazionale, ovvero delle “note di regia” di una<br />

potenziale e soggettivamente plausibile rappresentazione del fenomeno dell’organizzare<br />

costruito dai partner del progetto 3 .<br />

Analizzare la nascita del Progetto Adriatico in una prospettiva di sensemaking<br />

comportava, essenzialmente, descrivere e interpretare il senso della frase che<br />

probabilmente guidava tutto il racconto del progetto stesso: «Siamo venuti nei Balcani<br />

perché non sappiamo chi siamo, e vogliamo che voi ce lo diciate» (p. 43: il corsivo è<br />

mio). Con quella felice formula Chris riassumeva lo spirito del progetto, nella riunione<br />

1 Lo spettacolo Divo Meso costituì un tassello importante per la realizzazione del Progetto Adriatico: fu<br />

presentato in esclusiva in Italia dal 23 al 25 aprile del 2002 nell’ambito della stagione teatrale del Css a<br />

Udine (2001-2002). Pur precedendo il progetto stesso (e quindi non facendone parte direttamente), il caso<br />

dello spettacolo Divo Meso costituiva una esperienza nell’esperienza, una sorta di icona per l’intero<br />

progetto (N.d.T.).<br />

2 Czarniawska 1997: 131 (N.d.A.).<br />

3 March, Sproull, Tamuz 1991; Weick 1969 (N.d.A.).<br />

452


svoltasi il 20 ottobre a Bologna. Come sosteneva Karl Weicl, il sensemaking/organizing<br />

era tutto racchiuso nella ricetta che spiegava il modello del processo evolutivo<br />

rappresentato di seguito, e che nella prospettiva del gruppo di teatri italiani assumeva<br />

questa notazione: «come possiamo (noi) sapere quello che pensiamo (noi) fino a che<br />

non vediamo quello che (loro) dicono?».<br />

Traducendo questa formula nel caso della nascita del progetto Adriatico, i teatri<br />

italiani si ponevano il problema di “vedere” ciò che avevano “detto” e questo<br />

coincideva col problema di conferire significato (retrospettivamente) al proprio operato,<br />

recuperando quell’identità artistica (la loro concezione di teatro) che costituiva sia il<br />

collante del progetto sia la stessa ragion d’essere delle singole organizzazioni in esso<br />

impegnate; ma per sapere ciò che pensavano, i teatri italiani si erano resi conto di dover<br />

utilizzare il punto di vista dei loro partner balcanici, dovevano cioè (ri)vedere (dopo i<br />

fatti della guerra) quello che queste organizzazioni dicevano, in quanto “loro” avevano<br />

ancora chiara quell’identità che i teatri italiano stavano invece (ri)cercando (in altri<br />

termini, le organizzazioni teatrali dei balcani “sanno ancora quello che pensano”).<br />

Il collegamento tra cambiamento ecologico e enactment era, ancora una volta,<br />

fondamentale per spiegare, nell’ambito del processo dell’organizzare, della costruzione<br />

soggettiva dell’ambiente. L’enactment andava inteso, appunto, come un’attività di<br />

focalizzazione, «di mettere a fuoco alcune parti dei flussi di esperienze per dedicarvi<br />

maggiore attenzione» 1 . Nel caso di Adriatico, i protagonisti della storia avviarono un<br />

“ciclo percettivo”, un modo nuovo di percepire il mondo, che quelle organizzazioni si<br />

stavano contraendo. Molti eventi, come per esempio un incontro informale tra Paolo e<br />

Chris proprio ad Avignone, permettevano di rielaborare i materiali grezzi del<br />

cambiamento in atto. In una nota interna del Css si leggeva: «I giorni che ho trascorso<br />

ad Avignone lo scorso luglio si sono rivelati estremamente utili per gli incontri fatti e le<br />

idee che sono emerse. Incontrandomi proprio con Chris sul tema Adriatico, […] ha<br />

proposto l’immagine di uno specchio nord-sud, che vede l’Adriatico riflettersi nel Mar<br />

Baltico: una caratteristica geofisica simile (entrambi possono essere definiti mari<br />

chiusi), identiche caratteristiche geopolitiche (Paesi dell’area occidentale che hanno “di<br />

fronte” Paesi dell’area orientale dell’Europa), necessità di accrescere l’intensità del<br />

confronto e del dialogo ugualmente comuni».<br />

La parte introduttiva del racconto, il paragrafo del Manuale di viaggio intitolato “La<br />

nascita del Progetto Adriatico”, era costellata di interpretazioni retrospettive di processi<br />

(decisionali) in divenire: l’enactment era anche costruzione sociale della realtà. Il<br />

1 Weick 1993: 68 (N.d.T.).<br />

453


narratore riportava le prime impressioni di Paolo e Carlo, subito dopo i primi incontri,<br />

mentre si stavano formando le prime aspettative sul progetto: «L’evoluzione naturale<br />

del progetto si è delineata in un passaggio dallo studio interno alla struttura del Css al<br />

confronto esterno: è cresciuta la necessità di approfondire relazioni con altre attività<br />

teatrali, avviare collaborazioni e condivisioni, affrontare apertamente differenze e<br />

nuove e diversi punti di vista» (p. 12, il corsivo è mio). E ancora: «Adriatico è diventato<br />

l’oggetto, l’idea per poter essere construttori: di ponti, relazioni, occasioni di crescita,<br />

di conoscenza; per noi anche di ritrovare quel teatro ‘sociale’ vivo e presente che<br />

avevamo lasciato nove anni fa. La strada che stiamo percorrendo non ha una<br />

destinazione precisa, viaggia verso un territorio che non abbiamo volutamente<br />

predeterminare, ma che sarà individuato insieme ai partner e agli amici che abbiamo<br />

incontrato e che incontreremo» (p. 13, il corsivo è mio). «Volevamo lavorare insieme e<br />

per questo trovare un pretesto per ciscuno significativo: un minimo comune<br />

denominatore. Per rispondere a quella domanda avevamo bisogno di esserci sul campo e<br />

il nostro campo non poteva che essere questo. Non ne abbiamo potuto fare a meno» (p.<br />

15, corsivo nostro).<br />

Un ulteriore esempio di enactment nel caso di un nascente progetto di collaborazione<br />

era relativo alla riunione di Bologna con i responsabili artistici dello spettacolo Hotel<br />

Europa: l’attivazione dell’ambiente poteva essere analizzata ricostruendo le mappe<br />

causali degli avvenimenti 1 .<br />

1 Potevo provare ad isolare questo circuito principale (DMCVN): la percezione di diffidenza iniziale (D)<br />

ha generato un aumento dei punti di vista emersi durante la discussione (M); a sua volta questo a generato<br />

un aumento del tentativo di comprensione reciproca (C) che ha reso possibile un confronto su un numero<br />

limitato di soluzioni (V); tra queste soluzioni è emersa l’ipotesi della collaborazione artistica e<br />

organizzativa (N); il fatto di trovare un sostanziale accordo ha di fatto ridotto la percezione di difficoltà<br />

iniziale (D). Poteva essere un ciclo causale che controbilanciava le deviazioni (ha un numero dispari di<br />

segni negativi, uno) ed era sostanzialmente un ciclo stabile (Weick 1993): il collegamento tra D e C era<br />

stato mediato dall’introduzione di un’ulteriore variabile (M), e i tanti punti di vista differenti emersi<br />

durante il colloquio avevano fornito il tramite per il confronto e la comprensione reciproca; questa aveva<br />

generato una maggiore varietà di soluzioni e di idee valide (V) fino a giungere alla comune idea che fosse<br />

possibile collaborare (creare un network) per migliorare la situazione di insoddisfazione (N). Poteva<br />

sembrare un paradosso rispetto alle aspettative inziali e alla percezione generale al termine dell’incontro,<br />

ma di fatto la riunione con gli operatori dell’est europeo era risultata molto importante: dall’ambiguità di<br />

fondo e dalla diffidenza iniziale si era passati ad una sostanziale condivisione delle soluzioni. La<br />

diffidenza degli operatori si trasformava da diffidenza sui contenuti e sui motivi dell’incontro a diffidenza<br />

formale, relativa alla formula che poteva essere migliore rispetto alle scottanti, deludenti esperienze<br />

passate. In modo più o meno voluto, i partner italiani avevano posto le basi per la loro interpretazione del<br />

contesto in cui si stavano recando; ora avevano una mappa causale attraverso cui leggere la mappa<br />

geografica degli incontri che stavano per attivare (N.d.T.).<br />

454


«Bologna, Teatro Duse, 21 settembre 2000. Attorno al grande tavolo di una saletta<br />

del Teatro Duse si raccolgono numerosi artisti e operatori che hanno lavorato al<br />

progetto “Hotel Europa”. Con loro anche Chris Torch e Goran Stefanovski.<br />

L’incontro stenta non poco a decollare: ci sono difficoltà e diffidenze. Lentamente,<br />

però, la discussione si avvia. Lo spettacolo non ci ha molto convinto, e forse anche gli<br />

artisti non sono pienamente soddisfatti dell’esito della prima.<br />

[…] L’incontro della mattina, quindi, parte sotto nefaste suggestioni. La sala del<br />

Duse è affollata: si sente l’odore di tabacco dell’Est, girano pacchetti di sigarette<br />

bulgare Victory, o le slovene Boss.<br />

Si fa un primo giro di tavolo: Chris Torch si assume il compito di interprete. I primi<br />

455


interventi vertono sulla situazione teatrale e culturale dei singoli paesi. Ci parlano, ma<br />

non credono molto in noi: non sanno chi siamo, che vogliamo. Ci fanno racconti<br />

abbastanza standard, che comunque danno un quadro di ciò che vivono e di come<br />

lavorano.<br />

Poi sta a noi. […] Lentamente, molto lentamente, il gelo si scioglie. Si fa qualche<br />

passo verso la comprensione comune, si azzarda qualche ipotesi operativa. Ma loro non<br />

ci credono fino in fondo, non sembrano convinti, né troppo interessati.<br />

Si uscirà da lì, molte ore dopo, con l’impressione di non aver “creato” quella<br />

comunità, di non aver trovato “quell’incontro” che auspicavamo.<br />

Gli artisti, insomma, sembrano spossati dalla veemente “attenzione” che l’Occidente<br />

ha riservato loro: la diffidenza nei confronti di progetti fatti solo per spillare soldi<br />

dall’Unione europea, di incontri casuali, di scelte unilaterali, li porta lontano».<br />

Quello che segue è un riassunto ragionato degli interventi: ho pensato fosse<br />

opportuno tentare di riportare il flusso della discussione e le parole di ciascuno.<br />

M. F. (coreografo, Slovenia): «In Slovenia si sta discutendo di come sostenere la<br />

produzione artistica indipendente. In questa fase si sta tentando la forma delle residenze<br />

artistiche, incoraggiati anche dal Consiglio d’Europa, che ha invitato il nostro paese a<br />

sostenere maggiormente la cultura».<br />

U. K. (organizzatore, Slovenia): «[…] Si sta tentando, anche all’Est, una politica di<br />

finanziamento dello spettacolo dal vivo legato al progetto, superando la prospettiva del<br />

sostegno fisso. In Slovenia esisteva una tradizione di gruppi indipendenti, quindi il<br />

paese si è trovato maggiormente preparato a gestire il cambiamento rispetto ad altri.<br />

Comunque c’è una grande differenza tra strutture statali e gruppi indipendenti e, anche<br />

per questo, si cerca di colmare il gap avviando progetti residenziali. La produzione<br />

artistica, infine, è sicuramente maggiore della domanda: si può dire che a Lubiana ci<br />

siano più artisti che spettatori. Quindi gli artisti devono guardare all’estero e devono<br />

avere successo all’estero per affermarsi, poi, anche in Slovenia. A questo proposito, le<br />

relazioni con l’Italia non sono “istituzionalizzate”, ma individuali, personali: da noi si<br />

conosce, però, solo il Mittelfest, e non c’è un grande scambio tra i due paesi. […] Il<br />

primo passo potrebbe essere quello di scambiarsi informazioni, il secondo di scambiarsi<br />

idee, il terzo di fare qualcosa, qualche progetto concreto».<br />

D. K. (regista, Macedonia-Albania): «In Albania è molto difficile, allo stato attuale,<br />

capire chi o cosa debba essere sovvenzionato. Fino a qualche anno fa esisteva una legge<br />

per la cultura che definiva una strategia nazionale. Questa legge, però, era interpretata in<br />

modo diverso tra chi la vedeva come una linea generale-politica e chi la intendeva in<br />

modo strettamente pratico. […] Tutto ciò ha scatenato una problematica lotta fra teatri:<br />

alcuni dei quali vivevano bene grazie ad appoggi politici, con finanziamenti che<br />

consentivano anche dodici produzioni l’anno, mentre altri, per tre anni consecutivi, non<br />

sono stati in grado di pagare stipendi e debiti. L’aspetto positivo di questa situazione è<br />

che ha costretto il teatro a una riflessione sulle strutture e sull’attività. Ora, però, si sta<br />

tentando di cambiare una situazione troppo asservita alla politica. Le uniche produzioni<br />

che possono mostrarsi, in questa fase, sono quelle che hanno partner internazionali:<br />

questo è stato capito da molti manager, anche macedoni, che si sono attivati nella<br />

ricerca di coproduttori stranieri. Quello che potrebbe rendere utile il “Progetto<br />

Adriatico”, dunque, è un approccio per piccoli passi: guardare alla realtà locale, senza<br />

pensare a progetti troppo grandi, e intervenire nella produzione di eventi artistici».<br />

N. D. (regista, Bulgaria): «In Bulgaria si vive, a grandi linee, la stessa situazione che<br />

caratterizza l’Albania. Esiste una rete di cinquantadue teatri, alcuni dei quali dovranno<br />

456


essere chiusi per ragioni economiche: il problema è decidere i criteri per chiudere o<br />

sostenere un teatro. Esiste una discreta attività di scambio con altri paesi, una<br />

collaborazione internazionale, ma mancano informazioni e comunicazioni».<br />

I. P. (regista, Russia-Macedonia): «La Russia è molto lontana dall’Adriatico, e ha<br />

una situazione interna molto complessa. […] Tanti artisti si sentono come “sospesi nel<br />

vuoto”. Il problema, allora, è di aprire nuovi spazi dove fare un’attività indipendente dal<br />

potere politico».<br />

Chris Torch: «Esistono vari modi per dare vita a una partnership internazionale, per<br />

esempio puntando alla formazione di organizzatori per lo spettacolo dal vivo».<br />

D. K.: «In Macedonia esistono molti grandi spazi per lo spettacolo, […], ma non ci<br />

sono persone in grado di farli vivere: c’è ancora l’attesa di un segnale di vita da parte<br />

delle istituzioni, e così resta tutto bloccato, fermo …»<br />

Goran Stefanovski: «[…] esiste più di un legame tra i paesi: ma quando verrete,<br />

come amici e colleghi, dovrete stare attenti nel proporre il “Progetto Adriatico”. Il paese<br />

è molto stanco, e dopo tutto quello che ha passato, ora subisce una diversa “invasione”:<br />

oggi ci sono almeno dieci organizzazioni non governative per ogni persona. Il che mi<br />

pare davvero troppo».<br />

D. K.: «Occorre dunque fare una riflessione sul rapporto tra teatro e guerra. La<br />

Fondazione Soros ha finanziato una struttura per artisti che lavorasse nei campi<br />

profughi, in particolar modo nel teatro per l’infanzia e i ragazzi. I giovani trovavano,<br />

infatti, un sostegno reale e concreto nel teatro. […] Quando i profughi sono potuti<br />

tornare alle loro case, la struttura ha continuato a lavorare nella formazione e nel<br />

training per lo sviluppo della cultura infantile. All’inizio questo progetto aveva una<br />

funzione umanitaria, ora ha una valenza politica, sociale e artistica. L’aspetto politico è<br />

stato importante per trovare finanziamenti. […] Il tutto come detto ha una forte valenza<br />

internazionale».<br />

M. F.: «Mi sembra che incontri simili, però, siano piuttosto deludenti. Per quel che<br />

mi riguarda avevo maggiori attese dalle collaborazioni internazionali. Anche per questo<br />

“Progetto Adriatico” mi sembra che si stia costruendo un “pre-teatro” di cui non<br />

sentiamo grande bisogno. Il modo di procedere, invece, per creare qualcosa che<br />

risulterebbe utile e interessante, potrebbe essere quello di collegare e informare, di<br />

collegare informazioni».<br />

N. D.: «Anch’io ho la sensazione che riunioni simili siano piuttosto inutili […]. Qui<br />

siamo come due findanzati, seduti a un tavolino, che devono spostarsi il giorno dopo ma<br />

chiaccherano di niente».<br />

I. P.: «Non sono molto d’accordo: in realtà non abbiamo nulla da perdere a stare qui<br />

a parlare. Si tratta, a mio parere, di ritrovarsi attorno a un tavolo, di nuovo, entro breve<br />

tempo, per discutere di un progetto concreto, al quale potremmo dare la nostra adesione.<br />

Credo che una delle esigenze prioritarie sia quella della creazione di un centro di<br />

documentazione, legato all’informazione e alla formazione».<br />

«La seduta di lavoro si scioglie. […] Da un lato si avverte una cauta apertura, un<br />

interesse generalizzato, a trovare punti di discussione o di lavoro in comune. Dall’altra,<br />

al tempo stesso, si sente quella certa diffidenza, quella ritrosia a sentirsi coinvolgere in<br />

progetti che non siano estremamente concreti ed economicamente stabili. Appare chiara<br />

comunque l’esigenza, avvertita da tutti, di incrementare gli scambi con l’Italia, scambi<br />

molto attivi, invece, con Germania, Svezia, Francia; di aumentare le informazioni e la<br />

conoscenza reciproca; di lavorare su progetti formativi; di intessere rapporti di<br />

coproduzione».<br />

457


«E l’Adriatico è ancora lontano. Dobbiamo ancora attraversarlo. Forse è questo il<br />

problema. […] E si presenta subito un’occasione preziosa per farlo: il Bitef, il maggior<br />

festival di Belgrado, a settembre. Nei giorni delle elezioni».<br />

***<br />

Nel parallelo tra i percorsi di internazionalizzazione delle organizzazioni artistiche e<br />

quelli, ad esempio, delle piccole imprese, appariva chiaro che il passaggio dallo<br />

scambio alla integrazione del sapere sia collegato con la condivisione non tanto di<br />

semplici competenze operative e di base (tipico di forme di internazionalizzazione<br />

gerarchica o mercantile riferibili cioè al prototipo dell’impresa multinazionale) quanto<br />

delle competenze distintive delle singole organizzazioni: proprio quelle capacità e<br />

conoscenze che erano tipiche dell’ambiente locale, il quale «fornisce risorse, relazioni e<br />

conoscenza peculiari, non acquisibili attraverso relazioni standard di mercato 1 ».<br />

Per esempio, risultava possibile dare una risposta, nell’ottica dell’evoluzione dei<br />

processi di internazionalizzazione, alla domanda «A chi interessa la vocazione<br />

transnazionale dei teatri italiani impegnati nel Progetto Adriatico? Ce ne sarà davvero<br />

bisogno?»:<br />

«Quando nell’ambiente locale viene ad attenuarsi il valore competitivo delle risorse endogene,<br />

allora l’internazionalizzazione selettiva delle piccole imprese (circoscritta solo a poche funzioni)<br />

diventa un blocco evolutivo insormontabile. […] In questa situazione alla piccola impresa non<br />

rimane che ridefinire il rapporto tra proiezione locale e internazionale: coinvolgendo nel processo<br />

di internazionalizzazione le attività core dell’impresa, rilanciando in questo modo su una base più<br />

estesa il processo di apprendimento internazionale, e liberando la formula imprenditoriale da un<br />

radicamento locale divenuto troppo stretto». Nella sostanza: «[…] il quadro dei processi di<br />

internazionalizzazione delle piccole e medie imprese risulta al contempo articolato e dinamico:<br />

articolato, in quanto ammette una pluralità di profili soggettivi; dinamico, in quanto offre percorsi<br />

evolutivi che ripropongono in forme nuove lo stesso rapporto locale/internazionale che si è visto<br />

caratterizzare in modo specifico la piccola impresa 2 ».<br />

In termini di processi produttivi (anche del Festival di Avignone), così come le<br />

singole organizzazioni teatrali attivano “a livello locale” nuovi percorsi strategici al fine<br />

di creare nuove opportunità di sviluppo e nuovi modelli di gestione; nel momento in cui<br />

a livello locale vengono meno (in quantità/qualità o intensità) alcune di quelle<br />

conoscenze distintive che possono avviare e completare i processi di creazione del<br />

valore, quelle stesse organizzazioni cercano di integrare le loro conoscenze originarie<br />

ricostruendo e rimodellando il proprio contesto di riferimento 3 . In altre parole,<br />

rileggendo il rapporto locale/globale come l’esigenza di continuare ad evolvere<br />

(attraverso innovazione e apprendimento), le organizzazioni artistiche andavano a<br />

cercare le conoscenze di cui necessitano “a livello internazionale” in modo tale da<br />

“rigenerarle” o “integrarle” a livello locale ricostituendo o arricchendo continuamente il<br />

loro contesto di partenza, col fine ultimo di renderlo, ancora, un ambiente favorevole ai<br />

loro processi di creazione e diffusione della conoscenza artistica.<br />

1 Grandinetti, Rullani 1996: 276 (N.d.T.).<br />

2 Grandinetti, Rullani, 1996: 277 (N.d.T.).<br />

3 Weick, 1997 (N.d.A.).<br />

458


XXXV<br />

(Il Teatro popolare di Jean Vilar. La “rumeur d’Avignon” e il “caso-Jan Fabre” al Festival di Avignone<br />

2005. Il ruolo della critica teatrale nella creazione delle aspettative: profezie che si autoavverano o<br />

opinion leadership?)<br />

Che tratta di come la critica teatrale influisca sul processo di propagazione della<br />

conoscenza artistica, e in cui il lettore prende confidenza con l’idea che la critica possa<br />

fungere da opinion ledear in grado di indirizzare verso la realizzazione delle profezie che<br />

essa stessa contribuisce a creare <br />

«Je veux qu’il soit sincère, grave, profond, se<br />

sachant investi, à l’égard du poète, d’une<br />

fonction créatrice, digne de collaborer à la<br />

même œuvre que lui et de porter, comme lui, la<br />

responsabilité de la culture»<br />

(Jacques Copeau,<br />

nel definire il ruolo del critico)<br />

Il processo di creazione di senso costituiva un fenomeno in cui ci si arrabatta con<br />

ogni risorsa a disposizione: avevamo visto che in svariati episodi di gestione<br />

intervengono le forme pià disparate di dimensioni cognitive attraverso cui alimentare<br />

tale processo. Un esempio molto particolare di possibile discussione era una<br />

valutazione; ma questa diventava o si riconduceva ad una “non-discussione” quando<br />

«all’ascoltatore non vengono lasciate alcuna base per giudicare se il salto valutativo sia<br />

degno di approvazione o di riprovazione». Sempre da una citazione fatta da Karl Weick,<br />

459


straordinariamente eloquente: «quando un critico che sta operando una valutazione<br />

dichiara esplicitamente i criteri utilizzati per arrivare al suo giudizio, insieme ai<br />

fondamenti filosofici o teorici su cui si basano, e quando ha fornito dati per mostrare se<br />

l’esperienza retorica soddisfa o non soddisfa questi criteri, allora ha attuato una<br />

discussione. Il lettore avrà diversi tipi di scelte: può accettare o rifiutare i dati, accettare<br />

o rifiutare i criteri, accettare o rifiutare la base filosofica o teorica dei criteri, e accettare<br />

o rifiutare il salto inferenziale che unisce i dati ai criteri 1 ».<br />

Inoltre, tra le forme di creazione di senso basate sulle credenze avevamo incontrato<br />

anche l’aspettativa. Se provavamo a mettere assieme queste due particolari dimensioni<br />

(discussione come valutazione e creazione di aspettative) potremmo essere in grado di<br />

affrontare l’interpretazione che N. cercò di dare agli avvenimenti del 2005 e che videro<br />

implicati con vigore da un lato i professionisti di quella particolarissima forma letteraria<br />

e giornalistica che era la critica d’arte e dall’altro la direzione del Festival di Avignone<br />

e, in modo particolare, l’edizione del Festival che ruotò attorno alla figura dell’artista<br />

fiammingo Jan Fabre.<br />

«Le credenze possono essere una risorsa-chiave anche quanto sono incorporate in<br />

aspettattive che guidano le interpretazioni e influenzano gli eventi bersaglio 2 ». In tal<br />

senso, come osservava anche Brunsson 3 , «le credenze che sono al centro del<br />

sensemaking per aspettativa assomigliano alle credenze singolari, fortemente sentite,<br />

generiche della razionalità dell’azione più che alle credenze ragionate e specifiche della<br />

razionalità della decisione». Detto altrimenti, le aspettative, se possibile, sono anche più<br />

direttive di quanto lo siano le discussioni, proprio perché hanno la tendenza «a filtrare<br />

l’input in maniera più rigorosa, sollevando un mucchio di problemi relativi<br />

all’accuratezza, all’errore e ai limiti della costruzione sociale 4 ».<br />

Vorrei provare a fornire una rappresentazione il più intuiva possibile di questo<br />

affascinante fenomeno. Bruner, ad esempio, ne La mente a più dimensioni sottolineava<br />

come la “sopresa” costituisca un argomento assolutamente interessante per gli studiosi<br />

della mente in quanto «spalanca una finestra sul mondo della presupposizione: la<br />

sorpresa è la risposta alla mancata conferma di una presupposizione, ossia, com’è ovvio,<br />

di ciò che si dà per scontato, di ciò che ci si aspetta che accada». Usando una immagine<br />

dello stesso Bruner, e semplificando notevolmente la questione, sembra che i nostri<br />

sensi si siano sviluppati per reagire in modo differente alle “versioni attese” e alle<br />

“versioni inattese” del mondo. In modo appena più formale, Bruner desciveva in questi<br />

termini quel processo estremamente dinamico: «il sistema nervoso immagazzina<br />

modelli del mondo che, per così dire, lavorano un po’ più velocemente rispetto al ritmo<br />

delle cose. Se ciò che colpisce i nostri sensi collima con le attese, con lo stato previsto<br />

dal modello, possiamo lasciare che la nostra attenzione si allenti un po’, si diriga altrove<br />

e perfino che si addormenti. Se invece i dati sensoriali contraddicono le attese, allora il<br />

sistema entra in allarme. […] Lo studio delle percezioni umane mostra quanto il nostro<br />

sistema percettivo sia potentemente condizionato da questo principio fondamentale. Le<br />

soglie percettive, ossia la quantità di tempo e di stimoli necessari a vedere e a<br />

riconoscere un oggetto e un evento, sono strettamente dipendenti dalle nostre<br />

aspettative. Quanto più un evento è atteso, tanto più ci riesce facile coglierlo. […]<br />

Quanto più l’informazione è inattesa, tanto più tempo richiede la sua comprensione.<br />

1 Weick 1997: 151 (N.d.T.).<br />

2 Weick 1997: 158 (N.d.T.).<br />

3 Brunsson 1995 (N.d.T.).<br />

4 Weick 1997: 159 (N.d.T.).<br />

460


Tutto ciò è alquanto banale» continuava Bruner «ma presenta implicazioni che non lo<br />

sono affatto. Significa, infatti, che, entro certi limiti che è impossibile definire, la<br />

percezione è uno strumento del mondo così com’è stato strutturato dalle nostre attese.<br />

Inoltre, i processi percettivi complessi sono caratterizzati dalla tendenza ad assimilare,<br />

se possibile, ciò che si vede o si sente a ciò che ci si aspetta. […] In realtà, ciò che gli<br />

esseri umani fanno quando percepiscono qualcosa, consiste nel prendere tutti quei<br />

frammenti che possono estrarre dall’insieme degli stimoli ricevuti e, ove essi collimino<br />

con le attese, nel leggere il resto sulla scorta del modello che hanno in mente 1 ».<br />

E Weick aggiungeva: «L’aspetto cruciale delle aspettative e del loro ruolo nel<br />

sensemaking è che esse possono essere auto-correttive. Quando gli eventi sembrano<br />

divergere rispetto alle aspettative, possono essere accomodati sia le aspettative che<br />

l’evento stesso. La possibilità di un adattamento comune è la lezione importante per il<br />

sensemaking implicita negli studi sulle profezie che si auto-realizzano: […] queste non<br />

riguardano semplicemente i modi in cui i preconcetti erronei influenzano gli effetti e le<br />

dinamiche delle relazioni interpersonali. […] Le profezie, ipotesi, anticipazioni – in<br />

qualsiasi modo si scelga di chiamarle sono strutture minime attorno alle quali può<br />

prendere forma l’input come effetto di una sorta di stimolazione attiva. Tale<br />

stimolazione è spesso guidata dalla credenza, e le credenze che la guidano sono spesso<br />

aspettative. […] Questo significa che le aspettative [delle persone] inevitabilmente<br />

saranno una forza che plasma quel mondo di cui cercano di farsi un’idea. Vedono le<br />

cose che loro stessi hanno costruito. Vedono quello che si aspettano di vedere. Non<br />

sorprende che lo facciano combinando l’attenzione selettiva e l’influnza diretta<br />

sull’oggeto, perché nel percepire si è sempre attivi 2 »<br />

Fatte tali avvertenze, cominciamo il nostro racconto dai primi mesi del 2005.<br />

***<br />

Nato nel 1958 in un sobborgo di Anversa (la parte fiamminga del Belgio), Jan Fabre<br />

era a tutti gli effetti un personaggio noto a livello internazionale, per certi versi un<br />

artista controverso 3 , ovvero vagamente inquietante e con qualcosa di diabolico nei suoi<br />

atteggiamenti e nella sua espressione estetica 4 . Ma era indubbiamente un grande artista<br />

plastico, scultore e coreografo; ma si cimentava anche come attore e cineasta, editore,<br />

autore teatrale e regista: lo stesso Fabre amava definirsi un “artista totale”, alimentando<br />

così la sua immagine multiforme e la sua fama di artista geniale, cosa che per altro ebbi<br />

modo di confermare di persona nell’ambito della sua presenza ad Avignone nel 2005.<br />

Era, infatti, agli eventi di quella estate del 2005 a cui sto per fare riferimento, anno in<br />

cui una sorta di generale “malcontento” colpì l’edizione del Festival. Gli elementi del<br />

1 Bruner 2005: 58-61 (N.d.T.).<br />

2 Weick 1997: 159-161 (N.d.T.).<br />

3 «Sulfureux», come sentii dire e lessi da parte dei francesi (N.d.T.).<br />

4 Artista noto a livello internazionale, con opere e spettacoli realizzati, ospitati e presentati in tutto il<br />

mondo, Jan Fabre resta fortemente legato alla sua terra: considera il fiammingo come lingua principale<br />

attraverso cui esprimere la sua arte e i suoi scritti più importanti sono in fiammingo e solo<br />

successivamente vengono tradotti in francese o in inglese; l’inglese è l’unica lingua in cui, per altro, lo<br />

stesso Jan Fabre si esprime nelle occasioni ufficiali; la sua compagnia teatrale ha sede nel quartiere in cui<br />

è nato e dove tutt’ora risiede la famiglia; il suo obiettivo esplicito resta quello di affrancare un’intera zona<br />

dallo stato di degradazione e di abbandono in cui versa attualmente, cercando di rendere quanto più<br />

accessibile possibile l’atelier ai suoi concittadini. Non è un caso che molte sue opere plastiche siano<br />

sparse per tutta Anversa e per tutto il Belgio (N.d.T.).<br />

461


“caso Avignone 2005 1 ” erano diversi, ma semplificando al massimo l’analisi, mi era<br />

possibile affermare che i contenuti degli spettacoli, riconducibili a quella particolare<br />

forma di teatro contemporaneo di cui Fabre era espressione 2 , avevano profondamente<br />

diviso l’opinione pubblica (spettatori e critica) a causa del linguaggio e della tecnica<br />

(teatrale) utilizzati e della conseguente difficoltà di comprensione dei messaggi. Nei casi<br />

più estremi, come nella “diatriba” tra Le Figaro e Jan Fabre 3 , (un vero e proprio “caso<br />

nel caso”), le critiche più severe rigurdavano l’assenza di un testo teatrale propriamente<br />

detto e, più in generale, la formula stessa del Festival e, quindi, le scelte stesse dei suoi<br />

due direttori.<br />

Nel dicembre del 2004 Jan Fabre era già ad Avignone per lavoro. La Provence,<br />

quotidiano locale della Vaucluse, registrava la notizia il 14 dicembre: «Jan Fabre:<br />

“cerco una bellezza liberata dell’ideologia”. Dopo il regista tedesco Oskar Ostermeier<br />

nel 2004, il creatore fiammingo è l’artista associato della prossima edizione del Festival.<br />

In questi giorni era ad Avignone per lavorare». Tra le righe dell’articolo: «Più<br />

arrabbiato o più impegnato? Ecco dunque Jan Fabre, artistista associato del Festival<br />

2005. Questo lascia presagire una programmazione piuttosto rivolta verso il metafisico<br />

piuttosto che verso il sociale? “io cerco una bellezza liberata dell’ideologia”, spiegava<br />

Jan Fabre, arrivato in tarda serata. Il Festival sarà più centrato sull’artista che sul<br />

cittadino? Vi evocherà più la liberazione dell’individuo piuttosto che di quella della<br />

società? Jan Fabre rivendica, in effetti, un’opera molto autobiografica, e centrata, non<br />

senza provocazione, sul corpo: corpo biologico, sangue e scheletri, bello o mostruoso,<br />

conquistante o asservito, erotico, glorioso, metamorfico… […] L’uomo è l’artista<br />

attraggono irresistibilmente: i suoi “ispiratori” sono Marcel Duchamps o Andy Warhol,<br />

Antonin Artaud – “il più grande pensatore del teatro” dice Fabre “non è solo un uomo<br />

con un metodo ma anche con una linea di comportamento” –. I suoi riferimenti alle arti<br />

plastiche – “la pittura fiamminga primitiva è un riferimento costante per me” – sono<br />

continui, così come le sue ricerche sulle metamorfosi del corpo umano – “ma non<br />

smetto mai le mie ricerche, continuo ancora, sono giovane e ancora un artista con un<br />

ego, si diventa un maestro quando si è più anziani …”».<br />

Ancora su la Provence, questa volta del 5 marzo 2005: «“Festival di Avignone: una<br />

edizione a rischio”. Di Jan Fabre l’artista associato, Vincent Baudriller evoca “la visione<br />

poetica”. Ma l’artista plurale e radicale creerà senza dubbio delle polemiche».<br />

1 Anche in seguito farò riferimento al libro di Banu, Tackels 2005 (N.d.T.).<br />

2 Come il lettore può immaginare, pur non essendo possibile identificare un’unica corrente estetica<br />

nell’ambito delle numerose e differenti esperienze artistiche proposte ad Avignone nell’estate del 2005<br />

(Banu, Tackels 2005), le caratteristiche comuni di questi spettacoli erano comunque delineabili come<br />

segue: ruolo ridotto del testo o meglio l’utilizzo poco “tradizionale” della parola e dei codici teatrali<br />

tradizionali; importanza dell’uso dell’immagine (a volte dai contenuti forti); fondamentale presenza<br />

scenica degli attori/danzatori; commistione tra recitazione e danza nonché utilizzo di linguaggi artistici<br />

differenti (teatro, danza, musica, video, arti plastiche) e delle nuove tecnolgie multimediali; ricerca e uso<br />

di spazi teatrali non convenzonali e di nuove modalità per ottenere forme nuove di coinvolgimento<br />

“diretto” del pubblico (N.d.T.).<br />

3 La storia artistica di Jan Fabre, ovviamente, non poteva essere ricondotta agli ultimi avvenimenti del<br />

2005. La sua arte si era sviluppata lungo un percorso lungo, che lui stesso non esitava a collegare<br />

addirittura alla sua infanzia e giovinezza. A livello internazionale, quindi, l’attenzione per questo artista<br />

non si era limitata agli ultimi mesi di quell’anno. Restando in Francia, ad esempio, già nel novembre del<br />

2004 Fabre era stato duramente criticato per uno spettacolo presentato al Théâtre de la Ville di Parigi (in<br />

presenza del ministro della cultura francese). Ma già dagli anni ’80 e ’90 le sue opere plastiche, le sue<br />

performance e gli spettacoli teatrali avevano cominciato a girare il mondo, diventando un “caso artistico”<br />

di particolare interesse soprattutto per gli addetti ai lavori (N.d.T.).<br />

462


Su Le Monde dell’8 marzo del 2005, in seguito alla presentazione ufficiale del<br />

Festival di Avignone, si leggeva: «“L’uomo in tutte le sue forme nel programma del<br />

Festival d’Avignone”. Jan Fabre presenterà ad Avignone cinque proposte: L’Histoire<br />

des Larmes, creazione per la Corte d’onore del Palazzo dei papi, che aprirà il Festival<br />

l’8 luglio (fino al 13), un incrocio di teatro, danza e musica. Ci sarà in seguito, sempre<br />

nella Corte d’onore, di Je suis sang (conte de fées médiéval), la ripresa di uno spettacolo<br />

mostrato al Festival del 2001 (dal 15 al 17 luglio). Quindi, Jan Fabre arriverà anche con<br />

due monologhi puramente teatrali: L’Empereur de la perte (dal 20 al 22 luglio) e Le Roi<br />

du plagiat (dal 25 al 27 luglio). Una esposizione alla Maison Jean Vilar completerà<br />

questa immersione nell’universo del creatore fiammingo».<br />

Su Le Figaro del 1° aprile si leggeva: «“Tra Avignone e Aix, il grande scarto. Le due<br />

grandi manifestazioni estive si sviluppano secondo logiche totalmente differenti, l’una<br />

si specializza, l’altra si apre”». Secondo Armelle Héliot, ricordando i fasti del passato e<br />

l’idea del “poeta” e di Vilar da cui il Festival era nato, non era dato di sapere fino a che<br />

punto di due direttori attuali potessero aver chiaro l’insegnamento del passato:<br />

Avignone, al contrario di Aix, sembrava si stesse richiudendo su se stessa, al limite<br />

dell’autoreferenzialità, dedicando una programmazione più ai professionisti, al pubblico<br />

“informato”, anch’egli “professionale”. E concludeva: «Amiamo Avignone, ma non<br />

vediamo come il pubblico potrà resistere a lungo ai trattamenti di choc che gli sono<br />

riservati da parte della Città dei papi. L’idea di Vilar resta pertanto pertinente [“l’idea di<br />

un poeta”]».<br />

Libération del 26 giugno dedicava un ritratto completo dell’artista fiammingo,<br />

ricordando lo spettacolo che tanto fece scalpore nel 2004 a Parigi: Crying Body, definito<br />

all’epoca da Le Figaro «blasfemo, costernante, decadente e umiliante». E il nuovo<br />

spettacolo di Jan Fabre L’Histoire des larmes si preannunciava come il seguito di quelle<br />

sue ricerche estetiche, una sorta di trittico assieme a Je suis sang. Fedele alla sua<br />

immagine, interpellato circa la sua presenza ad Avignone, si dichiarò ansioso e pieno di<br />

inquietudini al solo pensiero di lavorare nella Corte d’onore: «è come guardare un<br />

quadro di Jerome Bosch. Ci si senti così piccoli. Immaginate poi le lacrime, il sangue e<br />

il sudore che sono colati tra quelle mura prima di me». Quasi una immagine profetica.<br />

Intanto, prima di Avignone, c’era un “Progetto Jan Fabre” che lo attendeva anche a<br />

Udine, in Italia: tra il 7 e il 18 maggio, il CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli<br />

Venezia Giulia, nell’ambito della XXIII edizione di Teatro Contatto 2004-’05 (marchio<br />

della sua stagione teatrale), presentò tre spettacoli realizzati da Jan Fabre (per<br />

complessive sei serate e otto repliche) ed un incontro pubblico con il famoso artista<br />

fiammingo 1 . Uno dei tre spettacoli era proprio Je suis sang, che avrebbe riproposto<br />

poche settimane dopo nella Corte d’onore.<br />

Il 21 maggio il Corriere della Sera recensiva in questi termini lo spettacolo presentato<br />

a Udine: «“Corpi nudi, feriti, martoriati, incisi (con gioia). Je suis sang di Jan Fabre al<br />

Nuovo di Udine per la rassegna dedicata all’artista fiammingo”. Da scale invisibili<br />

calano fragorosi guerrieri in corazza e slip, subito travolti nella lotta; danzano<br />

vergini/spose in bianco, felici di mostrare il loro “nuovo” corpo; mentre in primo piano<br />

un satiro fuma il sigaro, si travolgono l’un l’altra figure fantastiche alla Bosch. Corpi<br />

nudi, feriti, martoriati, incisi. E, in ogni caso, sangue (finto ma credibile). E’ una tavola<br />

per sacrifi il palcoscenico del Je suis sang di Jan Fabre al Nuovo di Udine ma trasmette<br />

sensualità, godimento perché “uccidere un nemico, o diventare donna è gioia fisica”.<br />

1 Bortoluzzi, Collodi, Crisci, Moretti 2006 (N.d.T.).<br />

463


L’esortazioe dell’artista Jan Fabre, rinascimentale post litteram, “mistico<br />

contemporaneo” per autodefinizione, è allora questa: poiché dal Medioevo ad oggi –<br />

anzi, da 2500 anni – l’immagine spirituale e fisica che l’uomo dà si se stesso è sempre<br />

la medesima, aggressiva, assetata, torniamo alle origini della vita: al sangue, anima del<br />

corpo, flusso, libertà, quinto elemento presocrativo. A impedire che il rosso affresco si<br />

colori di grand guignol è la bellezza: delle immagini, dei corpi senza freni degli attoridanzatori-musicisti<br />

(che per il loro fascinoso corego si farebbero davvero a pezzi). “La<br />

bellezza mi rende felice”, dichiara infatti il colto fiammingo che usa la prospettiva<br />

multipla dentro una cornice classica, fa trascrivere i canti polimorfici medievali in<br />

partitura per pazze chitarre rock, mescola Bibbia e John Lennon, francese e latino. Per il<br />

suo grande rigore, l’insieme di parola, musica, corpi nudi è sublime. E sub limen: non<br />

sconfina mai nel gratuito. Preceduto da Quando l’uomo principale è una donna, assolo<br />

della danzatrice dalle forme androgine Lisbeth Gruwez, Je sui sang è stato seguito in<br />

questi giorni dalla performance L’Ange de la Mort: sullo schermo, William Forsythe,<br />

nel suo magistero di coreografo; dal vivo, Ivana Josic, nella sua perfezione di<br />

interprete».<br />

Il 15 maggio, una recensione de “Il Piccolo”, quotidiano di Trieste, dello stesso<br />

spettacolo: «“Jan Fabre: felicemente rapito dalla bellezza guerriere. Il sangue, nostro<br />

tabù contemporaneo, in un allestimento che vuol fare sensazione”.<br />

Cos’è che la rende felice? – chiede una spettatrice. E lui, Jan Fabre, senza pensarci su<br />

nemmeno un attimo: la bellezza. La bellezza che ti rivolta dentro, che ti attraversa gli<br />

organi, che ti fa esplodere il pianto davanti a una pittura. “Essere rapito dalla bellezza”.<br />

Non è una bellezza canonica quella che rapisce Jan Fabre. Quarantasei anni, capelli<br />

grigi, scompigliati, folti, occhi affaticati e un viso di quelli che dicono che ha vissuto ed<br />

è stato felice molto. Artista indispensabile – si è detto ieri a Udine – per intendere la<br />

storia dell’arte e dello spettacolo dei due decenni appena passati. Jan Fabre ha voluto<br />

essere presente al secondo degli spettacoli che il CSS in collaborazione don la<br />

Fondazione CRUP e illycaffé hanno messo assieme nel progetto “Fabre, omaggio a un<br />

artista totale”, l’iniziativa che prosegue con altri spettacoli da domani fino al 18 maggio.<br />

Si parla di teatro, di danza, di arti visive, in questo incontro che l’artista belga ha aperto<br />

a tutto il pubblico udinese. Si ricordano le sue sculture – rivestite da decine di migliaia<br />

di corazze di coleotteri o da frammenti di ossa animali – i suoi spettacoli fluviali –<br />

cinque, sei, otto ore, nelle quali ripetizione e disciplina diventano valori formali – il suo<br />

interesse per la letteratura mistica medievale e Hildegard van Bingen. “Voglio essere un<br />

mistico contemporaneo” dice. “E’ una professione che non esiste più. Voglio<br />

riabilitarla. Ma nella memoria restano prima di tutto le impressioni dello spettacolo<br />

visto la sera prima, Je suis sang, io sono sangue, dove quelle parole si sono già tradotte<br />

in immagini. Non è davvero il bello classico ciò che lo ispira. Ma una bellezza<br />

selvaggia, guerriera, estrema. La bellezza della pittura medievale e del rinascimento<br />

fiammingo, studiato e amato sulle tavole di Bruegel, Bosch, van Eyck. A volte sembra<br />

proprio che lo spettacolo voglia trasferire in scena le immagini surreali del Bosch pittore<br />

di inferni e paradisi. Soprattutto gli inferni, le torture, la umiliazione e la santificazione<br />

dei corpi. Fabre è un artista corporale e sul corpo esercita le proprie riflessioni. Lo<br />

denuda, lo espone, lo incide, lo apre, lo sconquassa, lo fa sanguinare. “Il sangue, corpo<br />

del futuro, è in me, succo misterioso, visita tutti gli organi”, dice l’affascinante testo col<br />

quale Fabre accompagna questa parata di immagini spesso crudeli, raccapriccianti,<br />

spudorate. Comunque sensazionali, che non lasciano cioè indiffenti. E che sia sangue<br />

vero (come a volte è) o finto (una miscela di tè, vino, vernice colorata) ciò che si riversa<br />

464


in palcoscenico è il tabù sanguineo, questa nostra sacra eredità medievale, a essere presa<br />

di mira. Il fiume rosso carminio che ci attraversa, l’anima liquida che di continuo si<br />

rinnova, mentre in scena, gli interpreti vengono squartati su tavolacci anatomici, le<br />

spose in bianco vengono deflorate, i maschi evirati, la pelle incisa e martoriata. E<br />

brillano coltellacci, spade, sciabole, bisturi, pugnali, e risuona il rumore del metallo da<br />

affilare. Arnesi da macellaio, da chirurgo-barbiere, danze con armature e nudi corpo a<br />

corpo, atlanti della nostra geografia circolatoria, vene a arterie, cicatrici. Un picolo<br />

demonio, liscio e paffutello, fuma il sigaro e guida il sabba di streghe a cavallo delle<br />

scope. “Si riconosce in quella figura demoniaca” chiede qualcun altro tra il pubblico. E<br />

Fabre, scultore della bellezza estrema: “Si, sono proprio io”».<br />

Il 13 maggio era apparsa una intervista su “Il Messaggero Veneto”.<br />

«Jan, come giunge alla scelta dei suoi artisti? Le audizioni per un teatro totale come<br />

il suo saranno sicuramente impegnative e articolate».<br />

«Seleziono i miei danzatori sulla base di prove di tecnica classica e moderna,<br />

sull’interpretazione del repertorio della compagnia e poi attraverso un lavoro di<br />

improvvisazione che tiene conto della personalità e della souplesse. E’ un test che<br />

combina intelligenza e immaginazione, dove la sessualità è un elemento importante. Le<br />

tappe, in genere, sono molteplici: da una serie di audizioni in tutta Europa gli artisti<br />

confluiscono poi ad Anversa, dove sono invitati a seguire i miei workshop. E’ in quel<br />

momento che maturo una scelta per la compagnia».<br />

«Qual è l’ispirazione che muove poi alla creazione?»<br />

«Il mio è un percorso che non è mai cessato. Per esempio, il lavoro che presenterò<br />

stasera, Je suis sang, svela un disegno che attraversa vent’anni di ricerca ed è partito<br />

con disegni e assoli sul tema. Solo negli ultimi periodi ho scritto un nuovo testo sui<br />

significati del sangue: significati sociali, politici, medici, filosofici. Tutto il mio lavoro<br />

creativo è connesso al mio pensiero dell’umanità e dell’arte».<br />

«Partendo dal corpo e utilizzando il linguaggio della danza, come si giunge a un<br />

lavoro come Je suis sang che combina il sangue con il Medioevo?»<br />

«Per me è importante il corpo, non la danza. Tutto il mio lavoro si basa sul corpo:<br />

cos’è il corpo fisico, politico, erotico, sociale. Il corpo diventa un grande laboratorio<br />

interiore ed esteriore. Il Medioevo, poi, mi ha sempre affascinato perché sono<br />

fiammingo e il mio primo incontro con l’arte plastica è stata la pittura fiamminga<br />

primitiva. Guardandola, sono rimasto fisicamente e mentalmente choccato: riguadava il<br />

corpo di Cristo, le stimmate, per me era una grande body performance. Prima d’allora<br />

non conoscevo la performance e l’installazione».<br />

«Il Medioevo è per lei anche la storia di una dualità del corpo…».<br />

«La dualità del corpo si collega alla quaresima e al carnevale. Ecco cosa rimane oggi<br />

nella nostra società di questa dualità: la libertà di mangiare e di muoversi del carnevale<br />

e l’astinenza, il rifiuto mentale della quaresima. Molti sono i segni provenienti da quel<br />

periodo cheh oggi abbiamo perso».<br />

«Lei parla dei suoi artisti come guerrieri della bellezza. Chi sono?».<br />

«Sono i tre tipi di corpo del Medioevo: oratores (preghiera, riflessione, pensiero e<br />

parola), bellatores (combattenti, cavalieri e guerrieri) e laboratores (ricerca e lavoro).<br />

Rappresentano per me tre tipi di espressione corporea scenica che insieme costituiscono<br />

i guerrieri della bellezza, simboli, appunto, della fusione di umanità e bellezza».<br />

«Come utilizza il linguaggio della danza nella sua ricerca?».<br />

«Utilizzo la danza per cercare il corpo: io non sono un coreografo, uno un artista. C’è<br />

una grande differenza».<br />

465


***<br />

Nel passo successivo, i direttori del Festival descrivevano le linee guida del<br />

programma di quella edizione e le caratteristiche di quelle tendenze, linguaggi ed<br />

espressioni teatrali contemporanee:<br />

«[Questi artisti] Ils interrogent, à travers leurs créations, notre qualité d’êtres humain dans sa<br />

dimension sprituel et animale. Ces artistes interpellent le relation que nous entretenons avec notre<br />

corps, nos rêves et nos fantasmes, notre rapport à la beauté mais aussi à la violence qui parfois<br />

cohabitent en nous, notre rapport à la science, à nos limites et à la loi, notre besoin de croire e<br />

d’aimer. Il nous entraînent à penser notre humanité d’aujorid’hui et imaginer celle de demain. En<br />

sondant leur intimité il affirment la possibilité de trouver quelque chose qui s’apparenterait à<br />

l’universel ou au sacré pour, peut-être, réenchanter le monde. En quête d’utopies, ces poètes<br />

recherchent aussi de nouvelles formes théâtrales pour tanscender leur paysage intérieur, leur vision<br />

du monde et les partager dans l’espace et le temps de la représentation. Le corps et le verbe sont<br />

les matérieux premiers de ces artistes de théâtre et de danse qui conçoivent souvent leur création<br />

de façon globale et nourissent leur langage d’autres formes d’arts – cinéma, arts plastiques,<br />

musique, performances – effaçant parfois la frontière entre les genres»<br />

(da l’Éditorial du programme du Festival, Festival d’Avignon, 2005)<br />

Solo poche settimane dopo, ad Avignone, le cose non andarano altrettanto bene, e<br />

rispetto ad Udine l’opinione pubblica fu decisamente divisa. Di seguito una breve<br />

rassegna stampa “ragionata” di due degli spettacoli di Jan Fabre: Je suis sang e<br />

L’Histoire des larmes, quelli che N. ebbe modo di vedere di persona e per i quali, quindi<br />

sentiva di poter, quanto meno dire, “io c’ero ed in effetti…”.<br />

«Jan Fabre, l’agitateur macabre du festival» titolava “La Vie” del 21 luglio. «La<br />

scelta degli organizzatori del festival aveva da far pensare. Perché offrire gli onori del<br />

Palazzo dei papi quattro spettacoli e una esposizione a un artista così diabolico? I<br />

direttori volevano dare a vedere un particolare universo poetico e coerente. E coerente<br />

Jan Fabre lo è di ceto. Le sue creazioni sono il riflesso delle sue ossessioni: nostalgia del<br />

Medioevo, fascinazione per i fluidi corporei (sangue, lacrime, sudore, urina, sperma),<br />

ammirazione per gli insetti, romanticismo utopico, anticlericarismo primario…<br />

Inlassablement, il les reprend d’une création à l’autre et finit par tourner en rondi».<br />

E continuava «[…] Les deux créations présentées dans la Cour d’honneur, l’Histoire<br />

des Larmes et Je suis sang, sont assez soft. Si elles démontrent son indéniable talent de<br />

plasticien – avec de beaux tableaux où les danseurs vêtus de blanc esquissent de subtils<br />

mouvements au milieu de grands récipients de verre –, les textes sont d’une grande<br />

vacuité. Le public ne s’y trompe pas, qui hue un spectacle qui ne le choque même plus,<br />

masi l’ennuie. L’agitateur scénique fait chou blanc. Et quand un danseur urine sous nos<br />

yeux, on se contente de regretter qu’il n’y ait pas eu mieux pour ouvrir le festival.<br />

N’aurait-il pas été plus avisé d’offrir la Cour d’honneur à un artiste comme Jean-<br />

François Sivadier, dont La Vie de Galilée et la Mort de Danton comptent parmi les<br />

grandes réussites d’Avignon?». Jan Fabre dimostrava ancora una volta il suo innegabile<br />

talento di artista plastico ma, la critica cominciava a toccare il fatto che “i testi sono<br />

estremamente vacui”, con una parte del pubblico che fischia degli spettacoli che,<br />

secondo il giornalista, non hanno più nemmeno la forza di soprendere, ma annoiano.<br />

“La Marseillaise” del 20 luglio, nel raccontare l’Histoire des larmes partiva<br />

dall’immagine, già di per sé controversa, del manifesto ufficiale del Festival 2005: “un<br />

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uomo, di tutta evidenza Jan Fabre, seduto su una tartaruga, su una spiaggia, rivolto<br />

verso il mare: «[…] Abbiamo visto tutti sui muri della città, nelle vetrine dei negozi e<br />

soprattutto sul programma del Festival questa fotografia di una scultura che rappresenta<br />

un uomo un po rigido seduto sul dorso di una tartargura gigante di fronte al mare».<br />

«Il y a deux versions de l’affiche, une représentant l’homme sur sa tortue de profil et<br />

l’autre de dos. Qu’évoque cette affiche? Pourquoi l’avoir choisie pour illustrer ce<br />

cinquante-neuvième festival? Certes, il s’agit d’un photographie d’une œuvre de Jan<br />

Fabre, l’invité d’honneur du festival mais encore…».<br />

Nel domandarsi perché scegliere una simile immagine per il manifesto del Festival,<br />

tanto valeva domandarlo per le strade di Avignone. La divisione tra i punti di vista<br />

relativi al manifesto diventava metafora di come il pubblico aveva accolto, in modo<br />

altrettanto scomposto, spaccato in due, lo spettacolo Histoire des Larmes:<br />

«En cours, les avis des étudiants s’affrontent et les interprétations vont bon train. Le virulence<br />

des arguments ressemble étrangement à celle des points de vue échangés sur le spectacle Histoire<br />

des Larmes. Sur la beauté de l’affiche, deux champs s’affrontent clairement, Cristina et Dalia,<br />

alliées dans leurs goûts, sont formelles “J’aime pas l’affiche du festival d’Avignon”. En la<br />

regardant de plus près pourtant les points de vues affinent et les interprétations sont nombreuses?<br />

Dalia étudiante mexicaine pense que l’affiche est intéressante parce que “nous sommes parfois<br />

comme la tortue, durs et forts à l’extérieur, mais en réalité à l’intérieur nous sommes fragiles”.<br />

Blanca elle y voit “la volonté de l’homme qui veut prendre les rennes de ses sentiments pour se<br />

montrer aux autres”. Lydia ne trouve pas l’affische belle mais pense qu’elle est une bonne<br />

illustration du festival “La tortue symbolise l’acte de création. Dans certaines histoires primitives<br />

sur l’origine de la terre, celle-ci se serait formée à partir d’une carapace de tortue. Cette sculpture<br />

symbolise donc bien le festival, puisque le théâtre est un art très ancien comme la tortue et<br />

l’homme représente les gens de théâtre, c’est-à-dire les metteurs en scène, les auteurs et les<br />

comédiens, ces gens qui utilisent et veulent guider cette immense créativité”. Yuniko (étudiante<br />

japonaise) donne de cette affiche de nombreuses pistes interprétatives: “premièrement, il est<br />

possible que la tortue sumbolise le festival d’Avignon, avec un intérieur (IN) et un extérieur<br />

(OFF). Deuxièmement, la tortue peut signifier l’éternité, c’est un animal primitif, elle vit<br />

longtemps. Elle symbolisent la force et sur elle un homme bien plus petit, qui semble diriger la<br />

tortue. Alors que celle-ci s’avence ver la mer. Il y a donc une sorte d’équilibre entre les duex<br />

êtres.” Cristina y voit davantage une lutte entre “l’Homme qui veut diriger la tortue et la tortue qui<br />

marche vers la mer, on peut penser que la tortue est dominée par l’homme mais elle marche<br />

inexorablement vers la mer, lentement, en toute sécurité, c’est un animal du passé, qui ne voudra<br />

pas changer”». Un modo come un altro perché «il dibattito tra Natura e Cultura sia nuovamente<br />

aperto».<br />

Armelle Héliot su “Le Figaro” del 18 luglio titolava: «“Je suis sang” di Jan Fabre.<br />

Per turisti arrabbiati». E continuava: «La ripresa, giusto per il fine settimana, di Je suis<br />

sang, conferma la pessima impressione della creazione del 2001: la pièce è adescatrice e<br />

l’effetto sorpresa non funzione neanche più. Jan Fabre comunque non manca di idee.<br />

Quando il pubblico entra nella Corte d’onore i danzatori sono già presenti e<br />

compongono un pittoresco quadro à la Jérôme Bosch». La descrizione delle immagini<br />

serano comunque un pochino dissacranti: «[…] un homme, fesses à l’air et un entonnoir<br />

sur la figure, court, une lanterne à la main, tandis qu’un Asterix armé d’un tapemouches<br />

frappe sur des tables métalliques. Un bourreau aiguise ses couteaux, des baignoires<br />

métalliques donnent le frisson, comme les tables frottées frénétiquement par des homme<br />

encapuchonnés. Un amour blond et grassouillet en string pourpre fume un cigare et<br />

attire l’attention en faisant le pitre tandis que la comédienne Els Deceukelier, en robe de<br />

veuve, affublée d’un gros manuscrit sur la tête, toise le public. Le décor est planté,<br />

drôle, spectaculaire». Poi l’avvio dello spettacolo: «L’ingresso dei soldato in armatura,<br />

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totalmente in concordanza con la facciata del palazzo produce sempre il più bello degli<br />

effetti e il loro ballo meccanismo va conteggiato tra i migliori momenti della serata.<br />

Allo stesso modo, il solo sfrenato di un colosso in armatura, che affronta con la spada<br />

un nemico invisibile resta ugualmente un memorabile momento di danza». Ma,<br />

continuava la giornalista: «quando i pesonaggi parlano, lo spettacolo svolta nel ridicolo,<br />

mischiando scherzi da studenti e Grand-Guignol. Le grida di spose che esibiscono le<br />

loro culottes macchiate di sangue e i gemiti di uomini maldestramente circoncisi con<br />

un’ascia inondati di sangue e che scivolano nelle pozzanghere, la sfilata di mostri con<br />

orribili moncherini e altri traversimenti d’orrore non provocano altro che risa e disgusto.<br />

Mascherate e esibizionismo regnato sovrani sul palcoscenico fino alla scena finale. Se i<br />

muri d’acciaio fatti dai tavoli riversi si rivelano sempre impressionanti, i fiumi di<br />

sangue che dovrebbero colarci sotto sono sfortunamente rimasti bloccati la prima sera.<br />

La Corte d’onore quest’anno non è altro che un imbroglio per turisti attratti da questo<br />

luogo dal glorioso passato. I veri amanti del teatro, quelli che discutono tra loro, trovano<br />

la loro felicità nell’Off o commentano scherzando gli spettacoli dell’In. Josef Nadj avrà<br />

i suoi problemi a ridare nel 2006 l’antico blasone alla città, che non sarà altro, molto<br />

presto, che un grando Off, se la Corte d’onore non ritrova la sua vocazione originale: il<br />

teatro con i grandi testi e degli autentici registi. O dei coreografi con la statura di un<br />

Béjart. Lui fit entrer la danse au Palais des papes» .<br />

Meno duro ma altrettanto critico “L’Humanité” del 18 luglio 2005: «[…] Dura più di<br />

un’ora e meza e, per essere onesti, non ci si annoia un secondo. Danzano tutto il tempo e<br />

banzano bene. Il lavoro dei ballerini sul palsco è impressionante per forza, energia,<br />

audacia. Si potrebbe pensare che ci sia della tirannia in Fabre per riuscire a spingere fino<br />

a tanto, fino all’ultima aferesi di suoi danzatori la cui performance è rimarcabile. “Nous<br />

sommes en 2005 après J.-C., mais nous sommes encore en Moyen Âge”, s’entend-on<br />

dire de manière récurrente. Ed è qui che nasce la polemica. Si, c’è una ambiguità in<br />

questo proposito, ma è la sua vauità assoluta che colpisce in primo luogo. […] Poiché<br />

non è una gran scoperta dire che il mondo va male. Il mondo è più antico del teatro. […]<br />

L’ambiguità, per tornare a lei, riposa tutta su questa fascinazione sistematica della<br />

violenza, qui esacerbata per non dire magnificata. Così facendo, l’artista fiammingo è<br />

sufficientemente astuto per sottolineare delle distinzioni salutati, quasi a ricordare che<br />

siamo a teatro e che qui tutto è un’illusione. Forse è troppo volergli accordare<br />

l’importanza della polemica, vana, circa ciò che voleva significare, al punto di<br />

dimenticare ciò che succede sul palco. Immaginiamo per un istante che le turbolenze del<br />

mondo spariscano dal teatro: avremo delle belle storie tranquillizzanti, che finirebbero<br />

sempre bene…». E concludeva: «On s’indignerait alors d’un théâtre dansé d’une<br />

noirceur volontairement revendiquée. On peut lui objecter qu’il serait temps de<br />

dépasser le simple constat. C’est peut-être générationnel. Lui, comme Rodrigo Garcia,<br />

par example, enfoncent le clou et semblent avoir fait leur petit commerce de la noirceur<br />

du monde».<br />

«Danse, texte, images, plastiques, musique rock pulsante, sa frénésie chauffée à<br />

blanc fait advenir un ordre du monde régi uniquement par le lois de l’imaginaire et du<br />

théâtre». “Le Monde” del 17 luglio spiegava in questi termini quello che non era<br />

percepito proprio come un disastro artistico: «Quella era la sua forza: questa poetica, di<br />

una stravaganza delirante secondo alcuni, trova una espressione organica e un<br />

compimento del disegno. Sulla scena trasoformata in un campo magnetico senza uscita,<br />

il teatro diventa un gestione ultimo, mai visto, che trascina verso dei territori<br />

inesplorati».<br />

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E in merito al debito di riconoscenza e ai riferimenti di Jan Fabre a Antonin Artaud:<br />

«[…] Jan Fabre peut citer Antonin Artaud. Leurs points communs éclatent dès que l’on<br />

relit par example Le Thèâtre et la Culture. Artaud y assure “qu’il faut croire à un sens<br />

de la vie renouvelé par le théâtre et où l’homme impavidement se rend le maître de ce<br />

qui n’est pas encore, et le fair naître. Et tout ce qui n’est pas né peut encore naître<br />

pourvu que nous contentions pas de demeurer de simples organes d’enregistrement”.<br />

Maestro dell’insurrezione, Jan Fabre riesce con Je suis sang ad attivare una finzione che<br />

getta in faccia al mondo l’appetito di violenza che costituisce l’essere umano. Bisogna<br />

dire che qusto soggetto, per poco che vi si immerga, libera numerose immagini<br />

reversibili». Tra le immagini evocate:<br />

«Rituel orgiaque pour sorciers en rupture de conbustible, cette pièce écharpée par les sons des<br />

guitares donne à voir une expèrience des limites que peu d’acteurs ou de danseurs peuvent tenir<br />

jusqu’au tout. Leur jouissance à faire sauter le couvercle des conventions vaut à elle seule le<br />

détour. […] Après L’Histoire des larmes, sans sauver, la reprise de Je suis sang – premier volet<br />

d’une trilogie sue le corps –, ce rituel de “possession” qui, une fois enclenché, ne connaît aucun<br />

frein, peut faire reculer par son mysticisme secoué: sa déraison spectaculaire néanmoins<br />

s’impose».<br />

I toni non cambiavano neppur nei quotidiani del suo paese. «Jan Fabre: immagini<br />

forti, testo debole», così titolava “La libre Belgique” del 14 luglio:<br />

«Artiste associé d’Avignon 2005, il s’y dévoile sous de multiples facettes. De la plus brillante<br />

– le plasticien, dont l’expo “For intérieur” donne la mesure – à la plus décevante; l’auteur, en<br />

l’occurrence, de L’Histoire des larmes. Si Jan Fabre scénographe a parfaitement intégré l’espace<br />

monumental de Cour (où il créait en 2001 Je suis sang, conte médiéval auquel il donne ici une<br />

sorte de suite Renaissance), il pèche singulièrement par indigence quant au verbe qu’il y injecte».<br />

E, in merito allo specifico spettacolo L’Historie des larmes:<br />

«On voudrait croire, d’abord, à une forme de näveté, de candeur dans le personnage campé par<br />

François Beukelaers, chevalier du désespoir célébrant notre corps douloureux et glorieux, l’eau qui<br />

le compose, les liquides intimes qu’il sécrète, la sueur, l’urine, les larmes. Mais très vite on est<br />

gêné par ses proférations sentencieuses (“la vie est comique pour ceux qui pensent, et tragique<br />

pour ceux qui ressentent”), sinon agacé par la complaisance de ce texte, à mi-chemin de la<br />

dissertation pompeuse et du journal d’adolescent (un pseudo-Diogène hurle à tout vent qu’il<br />

cherche un homme). Ainsi les “ta gueule!” et autres “stop that!” rugis au début face aux<br />

nourrissons braillards se révèlent-ils bientôt prémonitoires. Tout comme le “Save Our Souls” de<br />

chiffons blancs accroché qu mur à la fine, traduit très à propos notre grand “au secours” intérieur.<br />

Tous cela hélas suffit, et amplement, à anéantir le pourtant puissant potentiel plastique de l’œuvre.<br />

Car Fabre demeure un imposant créateur d’images. Très belles, les échelles grimpant à l’assaut du<br />

Palais. Très séduisants, les innombrables vases dont la transparence capte des lumières<br />

somptueuses. Très énergiques et généreux, les plus de vingt acteurs, danseurs, musiciens lancés<br />

dans cette aventure. Très vive, en conséquence, l’impression d’être pris dans un bruyant tourbillon<br />

de vacuité, par une pièce vaine».<br />

Ancora Armelle Héliot, dalle colonne de “Le Figaro” del 9-10 luglio, questa volta,<br />

però ad osannare il Jan Fabre-artista plastico:<br />

«Le Bic. Stylo Bic. Comme le baron. Le bleu Bic. La longue patience et la rage, mêlées.<br />

Flambant haut. Et bleu. De toutes les pièces de Jan Fabre réunies pour une exposition qui prétend<br />

qu’elle livre un peu de son âme en accrochant aux cimaises et en installant au milieu des salos de<br />

l’hôtel de Crochant certaines de ses œuvres plastiques, ces dessins au stylo Bic sont les plus<br />

puissants, les plus singuliers, les plus spécifiques. On les montre mois souvent que les films, les<br />

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vidéos de performances, les installations avec cire et scarabée ou les personnages avec punaises et<br />

clous, les dessins de tortues, l’os animal fût-il humaine – les vertèbres du pauvre sapiens. On les<br />

montre moins parce que celui qui assure qu’il nous livre ici son “for intérieur” est un habile<br />

stratége de la dissimulation.<br />

L’épate, l’esbroufe, voire la provocation, Jan Fabre les pratique en toute volonté. On est pas<br />

certain qu’il calcule lucidement tous ses effets. Ainsi, lorsque, il y a quelques années, il avait<br />

demandé, par un courrier officiel adressé et à la direction du festival et à la Société des auteurs et<br />

compositeurs dramatiques (SACD) organisatrice du cycle “le vif du sujet”, quelques dépouilles de<br />

“chiens fraîchement morts” (sic! et cela ne s’invente pas, on a lu les lettres à l’époque et ce n’était<br />

pas des faux, et on a lu aussi les réponses en appellant à la loi française) pour “accompagner” un<br />

solo par ailleurs inoubliable de danse donné dans une chapelle, on ne veut pas croire qu’il ait agi<br />

dans la clarté d’un desir d’horrifier…<br />

[…] Il y a dans l’exposition présentée dans le cadre de la Maison Jean Vilar, des signes de<br />

réconciliation qui ne peuvent laisser indifférent. Mais on aimerait beaucoup que la direction du<br />

festional dise pourquoi cette exposition n’est pas dans le grande chappelle du Palais des papes où<br />

elle prendrait toute sa force et son sens. Maia, d’abord, en ce monde, en ce 59e Festival tellement<br />

bien ancré en son temps, peut-on appuyer sur le mot “sens” sans que l’on pense que l’on dit des<br />

gros mots? La réconciliation, c’est celle de l’institution avec l’administration du festival. Mais<br />

n’est-ce pas par défaut que la Maison Jean Vilar se voit accueillir cette manifestation?<br />

Nous avons dit, on le répète, que les espaces ne conviennent pas aux travaux de Jan Fabre. Il y<br />

a ici des pièces qui appellent la grandiose mise en scène d’un palais médiéval. C’est donc<br />

dommage. Mais cela rassurera les tièdes. Cela fera des œuvres d’un artiste exaspérant par ses<br />

faiblesses ou son cynisme – parce qu’après tout, pourquoi se refuser à la mode? – des objets de<br />

consommation bourgeoise. Ce qui est dommage. C’est faire peu cas de ce “for intérieur” que Jan<br />

Fabre dit mettre à l’épreuve dans ce parcours qui pourrait être d’initiation».<br />

Salvo poi stroncare letteralmente lo spettacolo di esordio al Festival di Avignone.<br />

«“L’Histoire des larmes” de Jan Fabre. Happening puéril». Altro titolo de “Le Figaro”<br />

dell’11 luglio, con la cronaca completa della serata della “prima” dello spettacolo di Jan<br />

Fabre, funestata dalla presenza degli intermittenti dello spettacolo e …del Ministro della<br />

Cultura:<br />

«Les intermittents qui ont tenté de saboter la soirée d’ouverture per leurs hurlements ne se<br />

doutaient pas qu’ils allaient susciter le gag le plus drôle de la soirée. Après avoir patiemment<br />

attendu que le tapage diminue, les artistes, hommes et femmes en costume blanc allongés sur des<br />

oreillers, ont commencé le spectacle en criant eux aussi à qui mieux mieux, simulant la douleur, et<br />

couvrant les voix des perturbateurs qui en devenaient ridicules!<br />

L’Histoire des larmes de Jan Fabre n’a rien en commun avec The Crying Body que le metteur<br />

en scène anversois a présenté cet hiver, au Théâtre de la Ville. Pas de quoi s’émouvoir cette fois,<br />

Jan Fabre ayant limité ses provocations à quelques plaisanteries de potache, telle la scène du bon<br />

gros garçon juché sur une échelle, qui exhibe son sexe pour se soulager dans un flacon qu’il<br />

montre fièrement au public!<br />

On ne comprend pas comment le plasticien qui fait preuve de tant d’imagination et de talent<br />

dans les œuvres qu’il expose à la Maison Jean Vilar puisse se satisfaire d’une création aussi<br />

brouillonne et vide de sens pour inaugurer le Festival dans la Cour d’honneur. Après les pleurs et<br />

hurlements des neuf personnages que neuf autres tentent de consoler par tous les moyens, y<br />

compris la fessée, un Chevalier du désespoir en grand manteau de fourrure récite d’une belle voix<br />

grave un texte creux et redondant à demi emporté par le vent et que personne ne cherche à<br />

comprendre tant il ressasse les mêmes mots, “larmes, sueur, pisse, etc.”. Jan Fabre n’expose que<br />

ses fantasmes dans ce long monologue, fil conducteur d’un spectacle purement visuel. Les dix-huit<br />

danseurs dont on admire l’énergie et l’abnégation se déshabillent, brandissent leurs slips à bout de<br />

perche, se promènent à demi nus ou courent comme des hystériques dans un asile psychiatrique,<br />

au rythme de cinq tambours géants disposés sur les côtés du plateau. Un Diogène en caleçon vert,<br />

grosses lunettes, longue barbe et tignasse hirsute, traverse réguilièrement la scène, lanterne à la<br />

main, à la recherche d’un homme, avant de regagner son tonneau. C’est un des quelques gags plus<br />

ridicules que drôles qui rompent la monotonie engendrée par ces “larmes” qui n’émeuvent<br />

personne.<br />

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Le spectacle comporte néamoins quelques belles images, classiques comme l’apparition d’une<br />

femme en robe blanche à une haute fenêtre du palais, et une idée vraiment originale, digne du<br />

plasticien, quand les danseurs accrochent sue le mur, à l’aide d’échelles, d’innombrables<br />

mouchoirs pour composer les lettres SOS qui forment ensuite “Save our Souls”. Des centaines de<br />

vases, pots, éprouvettes en verre symbole de récipients pour recueillier les larmes ou autres<br />

humeur du corps – disposées sur le plateau et soigneusement éclairées – font également bel effet,<br />

mais cela est peu, et les batailles d’oreillers, les grenouilles qui coassent, les garçons qui ronflent<br />

et les habituelles exhibitions de nus – les femmes heureusement ont des corps splendides – ne<br />

suffisent guère à combler la soirée. Porquoi utiliser le majestueux cadre du Palais des papes pour<br />

ce genre de happening puéril et déjà ringard? Le public y attend du théâtre ou de la danse, peu<br />

importe, mais un spectacle de qualité, de consistant et d’enrichissant. La Cour d’honneur n’est pas<br />

la cour des Miracles».<br />

Anche il principale quotidiano economico francese, “Les Echos” del 12 luglio,<br />

prestava attenzione al Festival di Avignone e al suo artista associato fiammingo:<br />

«C’est, en principe, un spectacle sur les larmes. La soirée commence par les cris d’une moitié<br />

des acteurs-danseurs; dans le vaste espace de la cour où se dresse une succession d’échelles, ceuxci<br />

se roulent à terre en hurlant, tandis que l’autre moitié des interprètes fait mine de les apaiser.<br />

Rien n’y fait. Habillés puis nuis, les malheureux hurlent toujours. C’est alors que la soirée est prise<br />

en main par un meneur de jeu, appelé “Chevalier du désespoir”, qui porte la parole de l’auteur. Ce<br />

personnage, joué avec un agréable roublardise par François Beukelaers, nous explique tout: il ne<br />

s’agit pas seulement des pleurs, mais des principales sécrétions du corps, larmes, sueur et urine. Et<br />

l’aède de développer longuement l’idée que “pisser” est un vrai bonheur, une véritable forme<br />

d’expression, tandis que les acteurs mâles agitent leur organe sexuel pour simuler l’acte qui<br />

produit des “larmes génitales”! Le grand enjeu de la soirée va être de recuellir les larmes en tout<br />

genre. Le palteau s’encombre de récipients de toutes tailles, avec lesquels les danseurs font<br />

d’invraisemblambles numéros d’équilibre. Au terme de tableaux qui alternent le déchaînement,<br />

l’apaisement et la clownerie, le porte-parole se retire en célébrant sa propre pensée “médiévale”.<br />

Désormais Jan Fabre va éprouver la nudité du scarabée. Sour la carapace, un cerveau poétique<br />

proche du néant! Quand il écrivait en latin comme dans “Je suis sang” (qui sera redonné<br />

prochainement en Avignon), on pouvait imaginer que ses mots obscurs, joués trop vite pour qu’on<br />

puisse les saisir, détenaient une magie à nulle autre pareille. Une fois mis à nu, comme ses<br />

danseurs, son language et sa pensée s’avèrent d’une affligeante insignifiance. Pauvre provocation.<br />

C’est celle d’un collégien attardé, d’un pseudo-révolutionnaire institutionel. On ne aime pas moins<br />

sa troupe. D’une magnifique vitalité. Quand il lui laisse la liberté de danser, elle est proche de la<br />

transe, sur fond de tambours énervés. A ces moments-là, le spectacle prend un éclat qu’il perd<br />

aussitôt quand tout ne ressemble plus qu’à des parcours obligés (jouer avec l’objet qu’on vient de<br />

mettre sur la scène, jeter ses vêtements et les reprendre, et ainsi de suite).<br />

Il y a vingt-cinq ans, Jan Fabre introduisait quelque chose de neuf avec un art de la répétition<br />

metelée des gestes. L’an dernier encore, sa décortication des mouvements d’une danseuse seul,<br />

dans une chapelle avignonnaise, était un magnifique travail de précision. La conclusion s’impose:<br />

Fabre est plus un chorégraphe qu’un poète. Il n’est en rien le génie tous azimuts qu’il voudrait<br />

être. On sauvera aussi le plasticien, dont on peut voire une série d’œuvres à la Maison Jean Vilar<br />

sous le titre “For intérieur”: n’y figurent pas seulement ses agglomérés de scarabées, mais aussi<br />

des dessins au crayon, des peintures au Bic et à l’acrylique, où il maîtrise son propos, qui est de<br />

trouver un moyen terme entre la technique des grands maîtres et une absudité toute moderne.<br />

Mais, quand , sur la scène, il étale ses larmes, c’est à pleurer».<br />

Le “Le Monde” del 10-11 luglio dedicava un lungo articolo agli spettacoli di Jan<br />

Fabre ad Avignone, in particolare con riferimento alla rappresentazione di apertura del<br />

Festival, sempre carica di particolari significati:<br />

«Le corps selon Jan Fabre laisse Avignon perplexe. Très attendue, “L’Histoire des larmes” de<br />

l’artiste flamand a ouvert le 59 e Festival d’Avignon, vendredi 8 juillet. Un mètissage de thèâtre et<br />

de danse dont la beauté plastique ne masque pas le déficit de sens.<br />

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Avant même que L’Histoire des larme, spectacle mis en scène par Jan Fabre, ouvre la<br />

cinquante-neuvième édition du Festival d’Avignon, la saga a failli tourner vinaigre. Vendredi 8<br />

juillet, à 22 h 20, au moment où des personnages vêtus de blanc apparaissent sur le grand plateau<br />

de la Cour d’honneur du Palais des papes, des cris retentissent en haut des gradins. On entend un<br />

mot d’ordre: “Dehors le ministre!” hurlé, scandé, par plus d’une quarantaine de personnes debout<br />

et frappant les mains. Parmi les spectateurs, le ministre de la culture et de la communication,<br />

Renaud Donnedieu de Vabres, ne bouge pas. Le fracas se pursuit pendant vingt bonnes minutes,<br />

divisant le public: en bas des gradins, ceux qui réclament le spectacle et en haut ceux qui se<br />

rebellent et ont payé leur place pour le faire savoir. Selon le service de presse du Festival, les<br />

agitateurs seraient des membres de collectifs de précaires. Quelques minutes auparavant, sur le<br />

parvis du Palais des papes, des groupes de personnes distribuaient des tracts au nom de la<br />

Coordination national de intermittents et précaire, signés avec le soutien d’Alternative libertaire,<br />

du Non socialiste, de la Ligue communiste révolutionnaire. Le spectre de l’été 2003, avec les<br />

annullations des festival, a un bref instant plané sur le Palais des papes.<br />

Vincent Baudriller, directeur du Festival d’Avignon, a alors sauté sur le plateau avec Jan Fabre.<br />

“Vous avez pu vous exprimer, laissez à leur tour les artistes s’exprimer”, a-t-il lancé. Sous les<br />

huées et les applaudissements, les vingt-trois acteurs-danseurs et musiciens de la troupe du<br />

Flamand installé à Anvers, artiste-associé de cette edition d’Avignon […], prennent d’assaut la<br />

scène.<br />

Pour le metteur en scène, plasticien et perfomer, qui place son œuvre sous le signe de la<br />

confrontation à tous les niveaux, le défi ne manque pas d’ironie. Surtout que le premier tableau de<br />

son Histoire des larmes semble directement faire écho aux hurlements des manifestants: étalés sur<br />

le dos, les jambes en l’air, les personnages, tous habillés en costards blancs, jouent les gros bébés<br />

en braillant à qui mieux-mieux. D’autant plus fort d’ailleurs qu’il s’agit bel et bien de couvrir les<br />

voix des manifestants. Et ça marche! Du coup, on rit (un peu jaune tout de même) et le spectacle<br />

prend soudain un goût violemment farceur en se déséquilibrant vers le grotesque.<br />

Cette veine, dans laquelle Jan Fabre exelle, finit par étrangement colorer la pièce. Après avoir<br />

étouffé leurs bébés hurleurs sous les oreillers, les parents n’ont plus qu’à hululer leur douleur en se<br />

répandant, tandis qu’une femme essore des mouchoirs trempés pendant les presque duex heures du<br />

spectacle. Fable de l’humanité passée au filtre de ses larmes et autres humeurs corporelles telles la<br />

sueur ou l’urine, L’Histoire des larmes tire sur les ressorts d’une grandiloquence qui peut parfois<br />

être drôle mais sombre aussi dans le gag.<br />

Revendiquant un corps humide, vivant, jouissant et libre, loin de toute retenue et aseptisation,<br />

Fabre fait passer le message à travers trois personnages: le Chevalier du désespoir (François<br />

Beukelaers), le Rocher (Anny Czupper) femme et mére pleureuse professionnelle, et le Chien alias<br />

Diogène (Geert Vaes), assurément le plus drôle de toute l’entreprise, qui jaillit de son tonneau<br />

comme un diable en slip vert et cherche un homme pour mieux lui pisser dessus.<br />

Entre ses incartades, quelques images somptueuses et inédites s’intercalent. Sur le plateau<br />

cerné par des échelles et des vases en verre transparent de toutes les formes et proportions, les<br />

dansuers, nus, se transforment en porteurs de vases, sorte de sculptures vivantes mi-chair, mi<br />

verre. Ces récipients sont préts à recueillir leurs sécrétions mais aussi les larmes de Dieu,<br />

autrement dit la pluie, que les interprètes réclament à grands pas glissés et élastiques.<br />

Danse d’appel au déluge, placée sous le signe de la transe grâce aux percussions orageuses<br />

interpretées en direct (la musique, d’une impeccable fulgurance, d’Eric Sleichim), L’Histoire des<br />

larmes se piège parfois dans son jeu d’accessoires pour finir par s’en servir comme alibi. La beauté<br />

plastique ne suffit pas toujours à muscler le sens d’une image, aussi saisissante soit-elle. Lors-qu’à<br />

la fin les mouchoirs accrochés les uns à la suite des autres le long composent le mot “S.O.S.”, on<br />

ne sait plus tout à fait de quelle urgence ni de quel sauvetage il s’agit. Même si la célébration du<br />

corps dans sa crudité et sa vérité est évidemment au cœur de la pièce, son propos esplose au point<br />

de se perdre de vue.<br />

Vendredi 8 juillet, les spectateurs sont visiblement restés perplexes. Jan Fabre était très<br />

attendu. Plus encore que d’habitude. Flambeau de cette édition avignonnaise, il incarne un<br />

éclatement de la forme théâtrale classique dénoncé par certains. Et son spectacle The Crying Body,<br />

(Le Monde du 26 novembre 2004), présenté au Théâtre de la Villette à Paris, lui a valu d’être<br />

vilipendé devant le Parlement flamand par un député du Vlaams Belang, parti d’extrême droite.<br />

Coup de poing dans les conventions et la décence avec ses femmes en train de pisser debout et sa<br />

scène collective de masturbation, The Crying Body déchiquetait les apparences pour revendiquer la<br />

vérité de l’humain au plus près de lui-même. Avec cette Histoire des larmes, Jan Fabre a<br />

472


frénétiquement occupé la scène avec le talent incontestable qu’on lui connaît, mais sans nous<br />

liquéfier d’émotion.<br />

Deuxième spectacle de la trilogie sur le corps, L’Histoire des larmes, servie haut les cœurs par<br />

une compagnie d’interprètes de haute volée, prolonge Je susi sang, crée pour le Festival d’Avignon<br />

2001 et qui sera repris dans une nouvelle version au Palais des papes»<br />

«Avignon commence très mal» titolava “France soir” dell’11 luglio. «Rarement on a<br />

vu spectacle inaugural faire autant l’unanimité pour en dénoncer… la nullité. L’Histoire<br />

des larmes de Jan Fabre, qui est à l’évidence un spectacle raté, a été copieusement huée<br />

par le public lors de sa première représentation, vendredi soir:<br />

[…] Le spectacle a commencé sous les huées des militants, rapidement recouvertes par<br />

d’autres cris plus efficaces, ceux des interminables vagissemments de bébés hurleurs déboulés sur<br />

scène. Jan Fabre a décidé de nous raconter L’Histoire de larmes, et la vie commence toujours par<br />

les pleurs du nouveau-né, c’est bien connu, et bien cliché. S’ensuit une heure et cinquante de<br />

bribes de phrases ineptes avec vingt danseurs et trois acteurs dont l’un, ermite comme Diogène<br />

dans son tonneau, nous répète: “Je suis un chien qui cherche les hommes”. Un autre est “un<br />

chevalier du désespoir” qui veut “sauver le Moyen Age de la Renaissance” et affirme que “la<br />

sueur, la pisse et les larmes sont plus sincères que mes paroles”. Le texte, censé être poétique, n’a<br />

rien à nous dire d’un beau sujet de départ: le corps, selon Fabre, est aussi fait de fluides, de larmes<br />

et de sueur. Malgré quelques belles images comme ces souffleurs de larmes, et ces porteurs de<br />

verres censés se remplir de pleurs, on reste de marbre. On aurait aimé pleurer de rire ou en raison<br />

de la beauté, mais c’est juste à pleurer, tout court.<br />

On en voudrait à Jan Fabre s’il ne nous faisait découvrir ses grands talents de sculpteur à la<br />

Maison Jean Vilar. Quelle imagination fertile et quel humour débridé, dans ces autoportraits<br />

géants faits de punaises dorées, dans ces croix devenant épées, cette Nature morte d’un paon géant<br />

traversé par un cercueil, au ces champs de bataille constitués par des armées de scarabées! C’est<br />

drôle, étonnat et spirituel, à l’image de sa statue inagurée dans Avignon par le ministre: un<br />

immense buste de Fabre en bronze, L’Homme qui pleure et qui rit, d’où jaillissent des gouttelettes<br />

d’eau et un son de rire. C’est kitsch, mais très drôle».<br />

Nell’intervista apparsa sempre l’11 luglio in calce alla recensione di “France soir”, e<br />

concessa dopo la prima rappresentazione de L’Histoire des larmes, Jan Fabre commentò<br />

l’accoglienza tiepida che il pubblico gli assicurò.<br />

Il titolo dell’articolo-intervista era eloquente circa il pensiero che veniva attribuito a<br />

Fabre: «Jan Fabre, créateur flamand: “Le public pense comme il veut”».<br />

«Qual è la sua reazione dopo la prima che non ha propriamente sedotto il pubblico?»<br />

«Il pubblico pensa ciò che vuole» esordì Jan Fabre, «per noi, in ogni caso, le condizioni<br />

della recitazione sono state estremamente difficili. Il debutto dello spettacolo è stato<br />

molto perturbato, abbiamo dovuto attendere quasi un’ora al freddo, c’era evidentemente<br />

una energia molto negativa. In quel momento mi sono anche accorto che la Corte<br />

d’onore non era una buona scena per il soggetto. Nessuno poteva vedere le lacrime, la<br />

traspirazione dei corpi, in uno spazio così grande. Je suis sang, che sarà ripreso nella<br />

Corte d’onore si presta molto di più a quel luogo».<br />

«In questo spettacolo» domandò il giornalista «ci sono molte meno provocazioni<br />

rispetto a Je suis sang. Ha messo la testa a posto?»<br />

«Assolutamente no» rispose Jan Fabre, «Lei sa che io non calcolo mai il livello di<br />

provocazione perché nessuno sa come le persone reagiscono. Ciò che è sicuro è che il<br />

sangue rivela violenza, così come con le lacrime volevo mostrare la poesia del corpo.<br />

Cambia tutto».<br />

«Lei è all’origine di molti spettacoli invitati quest’anno. Cosa risponde a quanti<br />

trovano che non vi è più del teatro in questi spettacoli?»<br />

473


«La definizione del teatro è facile, sono degli artisti che vengono sulla scena di fronte<br />

ad un pubblico. Allora tutto è teatro, anche se non vi è un testo. Credo che bisogna<br />

rispettarci, rispettare gli artisti. Ci trattano male, mentre noi siamo dei creatori, gente<br />

seria che prende seriamente quel che fa».<br />

«Ha inaugurato una sua statua ad Avingnone, L’Homme qui pleure et qui rit 1 , nella<br />

quale lei tiene in mano un libro intitolato Je suis une erreur [Io sono un errore]. En êtesvous<br />

une?»<br />

«Quel libro è il titolo di una delle mie pièce. Non penso di essere uno sbaglio, ma per<br />

molta gento lo sono senz’altro...».<br />

***<br />

«Parlare del pubblico o parlare per il pubblico?» Era il titolo del saggio che Jean-<br />

Louis Fabiani, Damien Malinas e Emmanuel Ethis aveva scritto per il libro curator da<br />

Georges Banu e Bruno Tackels, Le cas Avignon 2005. Regard critiques, dedicato<br />

proprio ai fatti di quella edizione del Festival di Avignone.<br />

Il loro punto di vista su quella faccenda mi incuriosiva molto: oltre allo sguardo<br />

“scientifico” di tre studiosi di sociologia della cultura; ovviamente loro fornire un<br />

contributo collegato anche al loro sguardo di “osservatori” oramai attenti e permanenti<br />

delle vicende del Festival 2 . Ma c’era di più.<br />

«Se il pubblico di Avignone costituisce fin dalle sue origini un insieme socialmente e<br />

culturale abbastanza coerente che lo distingue per diversi aspetti da altri grandi incontri<br />

estivi […] è anche impossibile concludere che si tratti di un’attore collettivo che possa<br />

levarsi come un uomo solo. Quali che siano le forme che l’offerta di spettacolo ha<br />

1 La statua, anch’essa oggetto di aspre polemiche dovute al costo presunto dell’opera (pare a carico<br />

dell’amministrazione comunale e di quella regionale) fu in effetti posizionata nel Giardino di Urbano V,<br />

sotto gli alberi e le antiche mura del lato ovest del complesso apparato di strutture adiacenti e, in parte<br />

collegate, al Palazzo dei papi (N.d.T.).<br />

2 Partendo dalla constatazione che il Festival di Avignone non era un festival estivo come tutti gli altri,<br />

avevano buon gioco a sottolineare come quel luogo privilegiato in cui era possibile tanto discutere di<br />

culatura e di teatro, tanto affrontarsi apertamente articolando l’eterno confronto tra politica e cultura. «Il<br />

lavoro di oggettivazione che permette l’analisi non passionale del pubblico permette di apportare un<br />

contributo di altro genere rispetto al punto di vista interessato e di mobilitazione di persone che cercano di<br />

solo altri sostenitori per la loro causa». Una prima questione: il dibattito e la critica, anche quella che si<br />

era manifestata in passato al Festival di Avignone, mirava sempre a mettere in dubbio la sopravvivenza<br />

stessa del Festival. Nella storia di Avignone si erano sprecati i falsi pronostici di una prossima<br />

distruzione, implosione o morte naturale della manifestazione. In particolare «se il tenore generale delle<br />

recriminazioni contro il gruppo dirigente precedente – Bernard Faivre d’Arcier e Christiane<br />

Bourbounnaud – era di natura completamente differente rispetto a quello indirizzato oggi al nuovo gruppo<br />

– Vincent Baudrillier e Hortence Archambault – vi sono comunque delle analogie strutturali tra le prime e<br />

le seconde: ritroviamo la problematica di una adulterazione dello spirito originale, del dimenticare il<br />

proposito civico di Jean Vilar a vantaggio delle nuove forme di considerazione che firmano il certificato<br />

di morte del vero teatro». A seconda della natura della critica giornalistica, i tre studiosi, in effetti,<br />

individuavano una prima dimensione del fenomeno secondo cui: in un caso potremo avere una visione<br />

tipicamente d’avanguardia, progressista, fustigatrice delle derive commerciali o consensuali alla<br />

programmazione (principalmente si tratterebbe della stampa di sinistra e si iscriverebbe in una<br />

dimensione apparentemente poco istituzionale); in un altro caso, la critica sarebbe collegabile ad una<br />

dimensione più conservatrice e istituzionale, spesso sostenuta dalla stampa di destra o dai media più<br />

generalisti. Ma, segnalavano anche che «la profezia apocalittica, che costituisce un argomento costante<br />

del discorso culturale, non può essere ricondotta ad un’unica “semplice” dimensione». Esprimeva in<br />

modo permanente una tensione che ruotava anche e soprattutto attorno agli obiettivi che dovevano essere<br />

assegnati ad una istituzione culturale (Banu, Tackels 2005: 44-46) (N.d.T.).<br />

474


potuto assumere nel tempo, vi è sempre una costante: uno spettacolo non può essere<br />

apprezzato se non è aperto alla discussione pubblica. Il visitatore che arriva per la prima<br />

volta al Festival è sempre sorpreso dal carattere particolarmente pregnante di questo<br />

quadro di discussione del teatro, della sua iscrizione cittadina». La riflessione<br />

successiva mi sembrava ulterioremente interessante: «è per questo che il Festival, il<br />

quale nel corso del tempo ha tenuto conto delle costrizioni legate alle trasformazioni nei<br />

modi di consumo culturale, ha sempre resistito alla tendenza formattatrice del<br />

divertimento estivo. Il carattere “studioso” del Festival sopravvive all’evidenza, ai<br />

riorientamenti successivi o alla varietà degli stili di direzione: Avignone include un’arte<br />

della disputa che l’osservatore occasionale può intepretare come il sintomo di una crisi<br />

finale». Poco più avanti leggevo come al Festival di Avignone vi fosse un modo<br />

particolare di rapportarsi tra organizzatori, attori, registi e spettatatori: «il Festival<br />

permette il manifestarsi di una comunità il cui principio organizzatore risiede nella<br />

legittimazione attraverso l’istanza stessa del Festival del “prendere la parola” e<br />

nell’essenza del teatro attraverso l’insieme dei partecipanti. Il dispositivo esiste dai<br />

tempi di Vilar: non si tratta di un elemento di decoro, e anche se non è sempre attivo e<br />

non è in grado di mobilitare tutti gli spettatori, resta comunque un elemento costitutivo<br />

del patto. Avignone resta fondato sulla affermata compresenza di attori e spettatori. Per<br />

essere chiari: l’immagine di un Vilar piuttosto moderato, esteticamente come<br />

politicamente, non è completamente falsa. Ma essa tende a occultare un’altra<br />

dimensione, forse più centrale di una sperimentazione cruciale riguardante il posto<br />

dell’arte nella città e i fini della città in quanto tale».<br />

In effetti, già durante l’estate del 2003 (e Bernard Faivre d’Arcier non mancò di<br />

ricordarlo nel tentativo di giocare fino in fondo la carte della legittimazione) il Festival<br />

aveva dimostrato di poter cristallizzare il dibattito pubblico e di contribuire a quella che<br />

Fabiani, Malinas e Ethis chiamano «una intensificazione emozionale delle sfide cultuali.<br />

Avignone era simultaneamente un sintono e un sismografo, un emblema della nazione<br />

riunita “sotto il cielo provenzale” e un fermento di destabilizzazione».<br />

«Il carattere scandaloso del Festival era d’altro canto stato oggetto di molti articoli<br />

nella seconda metà di giugno e il pubblico era già stato preparato da questa cronaca di<br />

un disastro annunciato. Senza mettere in questione la sincerità dei giornalisti ostili a<br />

questa edizione del Festival, bisogna segnalare l’organizzazione coerente di un quadro<br />

di interpretazione sistematicamente ostile all’interno del quale tutti gli elementi, fossero<br />

anche dei comportamenti ricorrenti nella storia del Festival, potevano dare senso ed<br />

esprimersi come una rivolta dello spettatore. […] I giornalisti ostili alla<br />

programmazione 2005 hanno dunque rinforzato la loro convinzione e hanno per così<br />

dire prodotto essi stessi l’avvenimento che dovevano descrivere. Notiamo<br />

semplicemente che vi si trovano tutti i caratteri tipici di una self-fulfilling prophecy<br />

attraverso la quale l’avvenimento accade in parte per la forza dela parola che ne ha fatto<br />

oggetto di annuncio».<br />

Scriveva Walter Lippmann: «Quali che siano le prove di ammissione, l’ambiente<br />

solciale, una volta formatosi, non è una mera classe economica, ma qualcosa che<br />

assomiglia di più a un clan biologico. L’appartenenza è connessa intimamente<br />

all’amore, al matrimonio e ai figli, o, per parlare più esattamente, agli atteggiamenti e ai<br />

desideri che vi sono implicati. Perciò, nell’ambiente sociale le opinioni si imbattono nei<br />

canoni della Tradizione Familiare, della Rispettabilità, del Decoro, della Dignità, del<br />

Gusto e della Forma, i quali compongono l’immagine che l’ambiente sociale ha di sé,<br />

475


un’immagine inculcata con assiduità nei figli. In questo quadro viene dato tacitamente<br />

ampio spazio a una versione autorizzata di ciò che ogni ambiente sociale è invitato ad<br />

accettare nel suo intimo come posizione sociale degli altri 1 ».<br />

E se fosse stato questo l’errore di Jean Vilar, l’anello debole del suo incredibile<br />

lavoro a favore di un “teatro popolare”, diventato presto oggetto di una definzione<br />

generale da “istinto del gregge” da parte dei “figli” del grande fondatore, poco disposti<br />

ad apprendere la lezione ma più propensi ad “accettare quanto la collettività imponeva<br />

loro”? Ancora una volta, l’incombente peso della storia.<br />

1 Lippmann 2004: 39 (N.d.A.).<br />

476


XXXVI<br />

(Il Teatro popolare di Jean Vilar. Il Festival di Avignone vissuto dagli spettatori. “Avignon, le public<br />

réinventé”: la manipolazione delle esperienze artistiche condivise)<br />

Dove si vede come gli spettatori vivono il sogno del Festival di Avignone <br />

1 Le citazioni sono tratte da: Blœdé 2006 (N.d.T.).<br />

«C’est la matière que nous construit et non<br />

l’inverse. Il faut donc lui donner rendez-vous,<br />

être ouvert pour pouvoir être sensible à cela 1 »<br />

(Josef Nadj)<br />

477


«Paso Doble» nell’Eglise des Celestins<br />

«Comme la première répétition consistait à lire<br />

toute la pièce, j’ai attendu mon tour, j’ai dit ma<br />

réplique: “Qui es-tu? Comment tu t’appelles?”.<br />

Et puis je suis parti en déclarant que, de ma vie,<br />

jamais je ne ferais de théâtre. J’étais tellement<br />

vexé… Mais il fallait quand même que je bouge,<br />

alors j’ai choisi de faire de la lutte grécoromaine»<br />

(Josef Nadj)<br />

Per quanto nel suo teatro utilizzi assai poco la parola, Romeo Castellucci è<br />

straordinariamente espressivo quando parla della sua arte. In un recente incontro, non<br />

ricordo bene né dove né in quale occasione, gli ho sentito pronunciare queste<br />

osservazioni, quasi un suo “manifesto poetico”:<br />

“L’incontro col pubblico si percepisce attraverso una reazione magnetica e collettiva.<br />

Ma la cosa più interessante è l’ineffabile, qualcosa che va più a fondo di una reazione<br />

immediata, che pure c’è. È come se la rappresentazione colasse dentro lo spettatore e<br />

provocasse una reazione intima, capace di rivelarsi anche dopo molto tempo. In diverse<br />

occasioni, dopo gli spettacoli, gli spettatori si sono rivolti a me parlando del mio lavoro,<br />

e descrivevano spettacoli che io non conoscevo più o che non avevo mai conosciuto…”.<br />

Mi venne in mente una situazione vissuta assieme e che risaliva al Festival di<br />

Avignone del 2005 quando, in un incontro a Cloître Saint-Louis, una deliziosa signora<br />

del pubblico aveva fornito una sua delicata e strabiliante lettura dell’episodio di Berlino<br />

della Tragedia 1 . “Bene! Ero stato fatto fuori! [Lo spettacolo non mi apparteneva più] Si<br />

può dire, allora, che l’intimità dello spettatore è davvero il palcoscenico definitivo. …Io<br />

rifiuto l’idea di presentare un progetto che abbia un significato, o tanto peggio, un<br />

messaggio, un giudizio. Non posso fare un commento del mondo. Di come è ingiusto.<br />

Non sono capace di consegnare al pubblico un oggetto, perché ciò significherebbe<br />

assumere una posizione. Il dovere morale per me risiede nella trasmissione di una<br />

immagine. Buona o cattiva non fa differenza. Deve essere esatta. Punto. È l’esattezza<br />

che trafigge il cuore umano. Io voglio essere ovunque e allargarmi nello spazio per<br />

essere trapassato da tutte le cose di questa realtà. E poi non amo la decorazione; è un<br />

ambito che rispetto, ma non mi appartiene. Il lavoro da un’altra parte, credo”.<br />

Ed è questo che tu chiami Teatro? “Teatro. Non voglio dire teatro con la T<br />

maiuscola. T maiuscole o minuscole non mi interessano. Dico, teatro. Scavando in<br />

questa parola – se ha ancora un senso il ricorso all’etimologia – scopriamo che teatro è<br />

il luogo della visione. D’accordo? Non il luogo della visione di qualcosa che qualcuno<br />

ha prodotto per te, perché allora entreremmo nella pedagogia del mondo della<br />

comunicazione. Il teatro non appartiene al mondo della comunicazione. Non ha nulla da<br />

comunicare. Mai. Teatro, secondo l’idea greca, è il luogo in cui lo spettatore produce<br />

con il suo stesso sguardo l’oggetto della sua contemplazione. Lo sguardo tragico,<br />

l’esperienza della tragedia, sono un’esperienza intima. Non esistono fatti e avvenimenti<br />

tragici in sé. Esiste uno sguardo tragico che è capace di caricare di tragico qualsiasi<br />

cosa. Le cose immense e quelle infinitamente piccole. …Questo è interessante, perché è<br />

1 Si tratta di B. #03 Berlin, il terzo episodio del Ciclo della Tragedia Endogonidia, uno spettacolo “a<br />

tappe”, una grande avventura teatrale, della Sociètas Raffaello Sanzio realizzato in tre anni di lavoro in<br />

dieci differenti città europee (N.d.T).<br />

478


da qui che emerge il ruolo fondamentale dello spettatore. Non quello dell’artista. Solo<br />

uno spettatore può vedere l’immensità della tragedia, ovunque 1 ”.<br />

Crediamo che a Romeo sarebbe piaciuto lo spettacolo che N. andrà a raccontare: c’è<br />

molto di questa poetica in Josef Nadj; e c’era molto di questa poetica in buona parte di<br />

quel sessantesimo Festival di Avignone. Alla fine molti se ne accorsero e la condivisero<br />

e forse anche per questo è stato un bel Festival.<br />

***<br />

Era il pomeriggio del 26 luglio e credo fosse stato un mercoledì, ma dopo tre<br />

settimane di Festival, ad Avignone, i giorni non hanno più i nomi usuali, lo spazio si<br />

concentra e il tempo sempra dilatarsi tanto da modificare la velocità con cui gli eventi si<br />

manifestano; non è un luogo e un periodo dell’anno come altri, è una sorta di aleph, “un<br />

punto in cui si concentrano tutti i punti”.<br />

N. era arrivato con più di mezz’ora di anticipo, visto che si trattava di uno spettacolo<br />

“à placement libre”. La navata di sinistra lo accolse in un buio quasi completo, in<br />

contrasto con il vigore della luce solare estiva all’esterno e la tenue luce dei riflettori<br />

sull’altro lato. Sempre a sinistra, da cui stava ancora affluendo il pubblico dall’ingresso<br />

laterale alla chiesa, le varie cappelle, le colonne, le alte pareti oramai disadorne, e quello<br />

che restava del presbiterio ospitavano le opere della mostra di Miquel Barcelo e che egli<br />

aveva già visitato: “Cheval crucifié 2 ”, “Mapamundi III 3 ”, “Vase des Vases 4 ”, “Deserto<br />

giallo 5 ” e “Poissons blancs avec 2 hameçons 6 ” si trovavano su un tavolo appena<br />

all’ingresso; di fianco, “Sin titulo 7 ”; poi, una maschera dalla forma animale, appesa alla<br />

parete della prima cappella e la famosa “Tête de cochon 8 ”; ancora una serie di vasi<br />

scolpiti, alcuni anche di grosse dimensioni, “Grand pot aux scories 9 ”, “Peix blau 10 ” e<br />

“Pane 11 ”; e a lato del presbiterio, “Les 3 C. 12 ”, “Pouple à l’envers 13 ” e “Scène de<br />

copulation sur tarbouret noir 14 ”. Inoltre, alcune pareti spoglie delle cappelle laterali<br />

erano state ricoperte di graffiti. In fondo alla prima navata, tornando verso l’uscita, era<br />

stato sistemato un video con gli estratti di due documentari: uno di questi riprendeva<br />

parte del lavoro che Barcelo stava realizzando nella Cattedrale di Majorca, sua città<br />

natale 15 .<br />

1 Per alcuni spunti interessanti in chiave di consumer behavior: Belk, Wallendorf, Sherry 1989;<br />

Hirschman, Holbrook 1992; Bourgeon 2000 (N.d.A.).<br />

2 1999, Les Raires, 27x75x56 cm. (N.d.T.).<br />

3 1999, Les Raires, diametro di 40 cm. per 40 cm. di altezza (N.d.T.).<br />

4 2001, Vietri (Italie), diametro di 28 cm. per 54 cm. di altezza (N.d.T.).<br />

5 1999, Les Raires, diametro di 48 cm. per 75 cm. di altezza (N.d.T.).<br />

6 2001, Vietri (Italie), 33x65 cm. (N.d.T.).<br />

7 2001-2002, 75x67x15 cm. (N.d.T.).<br />

8 1996, diametro di 26 cm., 17 cm. di altezza e 30 cm. di lunghezza (N.d.T.).<br />

9 1999, Galerie Bischofberger, Zurich, 140x90 cm. (N.d.T.).<br />

10 1998, 21x36 cm. (N.d.T.).<br />

11 2001, Vietri (Italie), 40x25 cm. (N.d.T.).<br />

12 2000, Les Raires, 148x58 cm. (N.d.T.).<br />

13 2001, Vietri (Italie), diametro di 74 cm. per 9 cm di altezza (N.d.T.).<br />

14 2000, Les Raires, 117x52 cm. (N.d.T.).<br />

15 Tra gli altri, in Joy, Sherry 2003, Thompson, Hirschman 1995 e Holt 1997 trovai interessanti riflessioni<br />

collegabili a parte di quella mia esperienza, specie con riferimento all’esposizione di Miquel Barcelo<br />

(N.d.T.).<br />

479


Sotto e dietro la tribuna, praticamente davanti agli occhi di chi entrava, era ricavato il<br />

“retropalco” e il deposito di scena; sulla destra, anch’essi ben visibili al pubblico, molto<br />

vicini alla base della tribuna, gli strumenti del tecnico delle luci e dell’artista che aveva<br />

realizzato i suoni dello spettacolo; più avanti, sotto una cappella o un altare secondario<br />

di quella che forse era la navata di destra, si vedeva una costruzione in legno. Anche<br />

l’anno scorso, pensò N., c’era un qualcosa di simile ma ospitava una sala molto<br />

particolare di un’altra mostra (ma quella era un’altra storia): «non so se fosse<br />

esattamente la stessa casetta di legno, le somigliava molto, ma quest’anno doveva<br />

fungere da camerino dei due artisti». Alle spalle del pubblico, che già era numeroso<br />

sulla tribuna mobile in ferro montata in quella che doveva essere la navata centrale della<br />

chiesa, cominciava ad entrare una bella luce chiara e naturale che, dall’alto, andava a<br />

riflettersi esattamente sotto l’abside, all’altezza del transetto e proprio davanti a ciò che<br />

restava dell’altare. Il palcoscenico era rialzato, a trenta o quaranta centimetri dal suolo,<br />

sicché anche lo spettatore di media statura in prima fila, seduto a non più di un metro e<br />

mezzo dalla struttura, aveva una visuale perfetta anche in altezza; il fondo della scena<br />

era formato da un piano verticale, leggermente inclinato all’indietro rispetto al primo,<br />

col quale, in sostanza, andava ad intersecarsi a formare un angolo di poco più ampio di<br />

novanta gradi. Sia il palco orizzontale che il piano inclinato, a formare una sorta di libro<br />

aperto, erano ricoperti da un grosso strato di argilla all’apparenza quasi perfettamente<br />

liscio: di un colore rosso natuale l’uno, artificialmente bianco, l’altro, sul piano<br />

inclinato. Inoltre un filo d’acqua doveva scorrere su quella scena improvvisata,<br />

impercettibile alla vista e all’udito se non fosse stato per il forte riverbero prodotto dalle<br />

luci artificiali; con tutta probabilità doveva mantenere costante la consistenza, la<br />

plasticità dei due strati di terra. La struttura, nel suo complesso, era abbastanza<br />

voluminosa creando uno spazio scenico complessivo inusuale: la parete di fondo, più<br />

alta della statura di un uomo, formava una sorta di quinta o retropalco dietro al quale già<br />

tutti immaginavamo ci fosse celato qualcosa; anche in larghezza e in profondità<br />

occupava molto spazio, dal transetto fino a buona parte dell’abside, esattamente sotto la<br />

volta della chiesa. Vista la posizione, mi aspettavo che da un momento all’altro, un<br />

enorme pendolo d’argilla cominciasse a penzolare dall’alto a ricreare un altro simbolico<br />

punto di stabilità cosmica 1 . L’interno della chiesa, anche a causa della temperatura<br />

esterna, forse per l’acqua che scorreva sulla scena, e certamente per la presenza di molte<br />

persone concentrate in uno spazio che non era poi molto ampio, accentuava tanto la<br />

sensazione di umidità e di calore quanto la percezione di precarietà e di relativo<br />

abbandono di quel luogo tanto affascinante.<br />

Lasciamo ancora per un attimo N. all’interno dell’Eglise des Celestins: lo<br />

ritroveremo poco prima dell’inizio dello spettacolo. Come probabilmente il lettore sa,<br />

secondo l’uso romano, i terreni di sepoltura dovevano trovarsi fuori dalla città, lungo la<br />

via principale. Lessi da qualche parte che ad Avignone, dove tra l’altro, poco lontano da<br />

questi luoghi c’è uno splendito museo lapidario, i ritrovamenti più importanti furono<br />

realizzati all’inizio del ‘900 tra la Porte de la République e cours Jean Jaurès (oggi<br />

costituiscono una delle principali vie di accesso alla città, a due passi dalla stazione<br />

1 Oltre all’effetto emotivo che voleva suscitare, il richiamo abbastanza esplicito (degli autori – sic!) alla<br />

volta della antica chiesa abbaziale di Saint-Martin-des-Champs che ospita il pendolo più famoso,<br />

incastonata nel complesso più tardo del Conservatoire des Arts et Métiers di Parigi, serve anche a dare al<br />

lettore un’immagine attuale e realistica della chiesa e dell’effetto scenico complessivo. In effetti, dal<br />

punto di vista architettonico i due luoghi si dovevano somigliare parecchio nonostate l’attuale decadenza<br />

della chiesa di Avignone (N.d.A.).<br />

480


centrale), l’attuale Cité administrative (davanti alla quale si sta scavando ma per<br />

realizzare un enorme parcheggio sotterraneo), rue Henri-Fabre e Place des Corps-Saints,<br />

fino alla Porte Saint-Michel. Oggi è un’area piuttosto vasta all’interno delle mura<br />

rinascimentali, ma in passato si trovava all’esterno della città più antica e da qui, per<br />

oltre un chilometro in direzione di Arles vi erano appunto i terreni di sepoltura lungo<br />

l’antichissima via Domizia, risistemata (per questioni militari) da Agrippa fin dal 22<br />

a.C. ma preesistente a tale data. Provenendo dai Pirenei, attraversava il sud della Francia<br />

permettendo di arrivare sino a Milano.<br />

L’Eglise des Célestins, che faceva parte di una più ampia struttura con molti edifici<br />

annessi, fu uno degli ultimi interventi dei Papi durante il loro periodo avignonese, in<br />

un’area nei pressi della quale vi era anche l’omonimo convento e, poco lontano, il più<br />

antico monastero-collegio di Saint-Martial, uno dei più importanti di Avignone. Molta<br />

storia è passata per Avignone e ogni singola pietra di questa città ha assistito a vorticose<br />

vicende. Il nostro lettore avrà senz’altro sentito parlare, quanto meno dai vecchi ricordi<br />

scolastici, del periodo avignonese della corte papale: ebbene, per eventi che lasciamo<br />

alla curiosità del lettore approfondire o che egli potrà riscoprire scavando nella sua<br />

memoria, Clemente V era arrivato da Perugia nel sud della Francia subito dopo la sua<br />

elezione, nel 1305; di fatto si installò ad Avignone nel 1309 e il papato vi soggiornerà<br />

fino al 1377 quando Gregorio XI farà il suo ritorno a Roma appena prima delle vicende<br />

che portarono allo scisma d’occidente. Poco lontano rispetto alla chiesa dei Celestini<br />

sorgeva anche il palazzo in cui fu firmata la vendita di Avignone a Clemente VI, nel<br />

1348, da parte di quella regina Giovanna alla cui storia si appassionò anche Dumas<br />

padre nei sui celebri racconti criminali. A lungo Avignone sarà una città “italiana” in<br />

terra francese.<br />

La chiesa fu edificata tra il 1396 e il 1401 proprio su un antico cimitero in cui<br />

trovavano sepoltura “des pauvres suivant la cour romaine 1 ”: la storia vuole che, nel<br />

1387, vi fosse seppellito anche il giovane cardinale di origine lorena Pierre de<br />

Luxembourg, morto a soli diciannove anni. Visto che già in vita era in odore di santità,<br />

la sua tomba non poteva certo essere un posto normale e in seguito al moltiplicarsi dei<br />

miracoli, divenne presto luogo di venerazione, tanto che Marie de Blois, allora regina di<br />

Sicilia, già nel 1389 fece costruire una cappella in legno. Clemente VII, l’antipapa di<br />

Avignone, subito dopo ordinò agli esecutori testamentari del futuro beato Pierre de<br />

Luxembourg 2 di fare costruire in quel luogo un monastero e che fosse affidato all’ordine<br />

dei Celestini, fondato di recente e molto in voga all’epoca. Già nel 1394 cominciarono i<br />

lavori e il re Carlo VI di Francia in persona, il 24 giugno dello stesso anno, mandò gli<br />

zii, duchi di Berry e di Borgogna, e il fratello, il duca di Orléans, a deporre la prima<br />

pietra. Il primo architetto fu il celebre Perrin Morel, di Lione, ma originario delle isole<br />

Baleari.<br />

Scelsi con cura il mio posto: le prime file erano occupate, ma non sarebbero state<br />

comunque oggetto del mio interesse. Piuttosto, ricordo che salii qualche gradino; contai<br />

tre, quattro, cinque, sei file. Qui poteva andare bene: mi diressi verso il centro, quasi in<br />

asse con la volta absidale. Ben presto venni raggiunto da altro pubblico, altrettanto<br />

impaziente: una coppia nord americana (ma che parlava francese), non giovane ma<br />

neppure troppo matura, alla mia sinistra; una coppia di anziane signore alla mia destra.<br />

In attesa dello spettacolo, pensavo che oggi dell’Eglise des Célestins e degli edifici ad<br />

1 Per il lettore incuriosito, queste informazioni sono tratte da Girard 1958 (N.d.T.).<br />

2 Per questioni complicate da spiegare ora, la sua beatificazione arriverà “solo” nella prima metà del ‘500<br />

(N.d.T.).<br />

481


essa contigui restano solo le vestigia del loro antico splendore: a dispetto del progetto<br />

iniziale che Morel non poté terminare, nonostante il suo aspetto robusto e massiccio e la<br />

sua altezza non eccessiva, la chiesa rientra a tutti gli effetti nella tradizione del gotico<br />

provenzale; inizialmente a tre navate, la navata centrale venne terminata solo una<br />

ventina d’anni dopo la sua consacrazione, avvenuta nel 1402; la forma del suo transetto<br />

rispecchia il fatto di essere stata costruita in fasi differenti, con l’aggiunta di diverse<br />

cappelle laterali compresa quella di Pierre de Luxembourg 1 ; la sua volta absidale è<br />

tutt’ora di una eleganza incredibile nonostante gli interni siano spogli e si possa solo<br />

immaginare l’originaria ricchezza architettonica di quelle mura e di quelle colonne.<br />

All’esterno, il suo chiostro, terminato nella prima metà XV secolo, è aperto verso i<br />

grandi e robusti archi dei contrafforti, mentre degli altri edifici collegati è rimasto molto<br />

poco rispetto al carattere originario: del vecchio refettorio, ad esempio, restano almeno<br />

le grandi travi che ne delimitano il plafond; e le facciate gotiche della chiesa e del<br />

chiostro hanno lasciato il posto a forme più classiche, a cominciare dall’enorme timpano<br />

che troneggia sul portone che introduce al chiostro.<br />

Dopo la Rivoluzione quello che era il covento più ricco di opere d’arte di tutta<br />

Avignone, fu lasciato nell’abbandono, prima di diventare succursale dell’Hôtel des<br />

Invalides di Parigi (tra il 1801 e il 1850), poi penitenziario militare (tra il 1859 e il<br />

1900) e in seguito confluire nella caserma del genio. Oggi l’intera area è adiacente e in<br />

parte inserita all’interno del recinto della Cité administrative che ha preso il posto della<br />

caserma. La piazza antistante, non lontana da Cloître Saint-Louis, sede della direzione e<br />

degli uffici amministrativi del Festival di Avignone, è occupata dai tavoli di un gran<br />

numero di locali animati tutto il giorno e la notte durante l’estate, luogo di ritrovo<br />

privilegiato per chi voglia girare al largo da Place de l’Horloge e Place du Palais des<br />

Papes, congestionate, affollattissime.<br />

Il testo spettacolare di «Paso Doble»<br />

«Une langue demande de la compréhension. Pas<br />

l’image ni le son, c’est pourquoi j’ai<br />

immédiatement mis l’accent sur ce matériau-là.<br />

Sur un langage commun qui est le geste»<br />

(Josef Nadj)<br />

Quando entriamo in un teatro, in qualità di spettatori, acconsentiamo alla stipula di<br />

una sorta di duplice patto finzionale in quanto ciò che verrà rappresentato non è un<br />

avvenimento spontaneo e accidentale, ma un mondo finzionale che è pur sempre<br />

“parassita” del mondo reale di cui è approssimazione 2 : quindi, in modo più o meno<br />

automatico, applichiamo dei codici specifici che ci permettono di comprendere<br />

l’interazione tra attore e pubblico (codici teatrali), e mettiamo in gioco le nostre<br />

“conoscenze” più specialistiche quali ad esempio regole generiche, strutturali, stilistiche<br />

(codici drammatici); inoltre, non potendo trascurare l’intero contesto in cui tutto ciò<br />

avviene, utilizziamo anche quelle “conoscenze” legate alle nostre attività extra-teatrali<br />

(principi culturali, ideologici, etici ed epistemologici). In questo modo, l’interpretazione<br />

dello spettacolo teatrale, quale «spazio finito ma potenzialmente illimitato», non<br />

1 Oggi le spoglie terrene di Pierre de Luxembourg sono venerate in una piccola chiesa di Avignone<br />

(N.d.T.).<br />

2 L’espressione è di Umberto Eco (N.d.A.).<br />

482


costituisce un fenomeno artificioso ma «farà continuamente appello alla nostra<br />

comprensione generale del mondo»; e non mette in gioco il problema della “verità”, in<br />

quanto in un mondo narrativo o teatrale una asserzione o un evento sono veri «nel<br />

quadro del Mondo Possibile di quella data storia». Come direbbe il più esperto dei<br />

criptoanalisti: “ogni messaggio può essere decrittato purché si sappia che si tratta di un<br />

messaggio”. A differenza del mondo reale, in qualunque modo lo si voglia considerare,<br />

il vantaggio di un universo finzionale è che «noi sappiamo per certo che esso costituisce<br />

un messaggio e che un’autorità autoriale sta dietro a esso, come sua orgine e come<br />

insieme di istruzioni per la lettura 1 ».<br />

In sostanza, ciò a cui mi accingevo ad assistere era contemporaneamente spettacolare<br />

e finzionale, o meglio, tanto teatrale quanto drammatico 2 .<br />

***<br />

Erano passate le sei da qualche minuto e c’era ancora una certa confusa agitazione in<br />

sala. Oramai i posti erano stati quasi completamente occupati eppure altro pubblico<br />

affluiva rapido, cercando una postazione che potesse ospitarli; e l’animazione era<br />

aumentata dal confuso incedere delle maschere che avevano il compito di dare una<br />

parvenza di presentabilità alla sala, affinché lo spettacolo potesse cominciare. Si stavano<br />

spegnendo le luci, quelle artificiali; era forse l’unico deterrente perché il vociare<br />

insistente delle persone diminuisse a poco a poco; intanto, rimaneva uno straordinario<br />

alone chiaro di quella luce naturale che proveniva dall’esterno, da quel buco in alto,<br />

sopra il portone principale, una volta forse ornato da un rosone o da una antica vetrata.<br />

L’effetto che ne risultava, di morbida naturalezza, forniva un’aura quasi mistica a quel<br />

palcoscenico così particolare. E finalmente, in modo distinto, era possibile percepire il<br />

leggerissimo fruscio dell’acqua che scorreva, impercettibile alla vista ma evidente<br />

all’udito. A dire il vero non ero in grado di capire se quel fruscio fosse naturale o<br />

artificiale; ma ben presto ebbi conferma che dell’acqua sulla parete e sul pavimento di<br />

argilla c’era veramente. Infatti, la terra che componeva quella parete chiara cominciò a<br />

pulsare come fosse viva sotto i colpi che le venivano assestati da dietro la scena, come<br />

da dietro una quinta. Dapprima in alto, alla sinistra del pubblico. Poi ancora in alto, ma<br />

a destra. Di nuovo a sinistra, ma più in basso; ora verso il centro, ma con maggiore<br />

sincronismo e continuità. Non erano due sole mani a colpire; ad un certo punto, forse,<br />

1 Eco 2004b, p. 143 (N.d.A.).<br />

2 Quanti “testi” mi sarebbero passati davanti nella prossima ora, nonostante il palco di argilla fosse in quel<br />

momento – apparentemente – vuoto? A posteriori, ragionando in questi termini, mi venne in mente cosa<br />

significasse che l’aggettivo «teatrale» doveva essere limitato a ciò che avviene tra attori e spettatori; e di<br />

come l’epiteto «drammatico» indicasse invece l’inseme di fattori che sono relativi alla fiction<br />

rappresentata. Non si possono tenere distinte queste due componenti di un fenomeno unitario, di un<br />

processo che è contemporaneamente di significazione “e” di comunicazione. Ad ogni modo gli studiosi<br />

moderni di semiotica del teatro tendono ad utilizzare questa distinzione artificiale a soli fini analitici per<br />

considerare, appunto, i due tipi di materiale testuale tanto dissimili tra loro quanto intimamente collegati:<br />

il testo prodotto nel teatro (o testo spettacolare) e quello composto per il teatro (o testo drammatico)<br />

(Elam 1988) (N.d.T.).<br />

Ciò su cui stava ragionando N. è una sorta di confronto con quanto avviene nel caso di un testo narrativo,<br />

in cui, invece, il patto finzionale è legato all’interpretazione cooperativa del “solo” testo scritto (Eco<br />

2004a, 2004b, 1975). Inoltre, introduce il ruolo del contesto per la comprensione di alcuni fenomeni di<br />

consumo: Holbrook, Hirschman 1982, 1994; Holbrook 1986, 1993, 1999, 2001; Firat, Venkatesh 1993;<br />

Cova 1997; Holt 1995, 1997; Thompson et al. 1989; Thompson, Arsel 2004; Valliquette et al. 1998;<br />

Wallendorf, Brucks 1993 (N.d.A.).<br />

483


non erano nemmeno solo delle mani a colpire in quanto il rumore prodotto era<br />

differente. Tant’è che un istante dopo quella osservazione sonora la punta di un bastone<br />

circolare sbucava dalla parete lasciando partire un pezzo di argilla che atterrava poco<br />

più avanti, in direzione del pubblico. Un altro piccolo buco; un altro ancora; poi, una<br />

mano apparve da uno di quei fori e un’altra si faceva largo in un bozzo della parete. In<br />

quel modo il muro di argilla, inizialmente rugoso, cominciava a presentare irregolarità<br />

diverse: crepe, protuberanze e fori erano gli unici segnali percepibili dal pubblico; la<br />

parte inclinata era come la tavolozza di un pittore o la materia inerte di uno scultore che<br />

cominciavano a prendere forma in assenza dell’artista, senza che apparentemente questo<br />

si manifestasse se non per il tramite di quei colpi oscuri.<br />

Forse non era importante che la figura che cominciava ad emergere su quell’ipotetico<br />

pannello fosse il risultato di un colpo di pennello, di quattro mani che plasmavano<br />

direttamente la materia viva o di uno scalpello; e aveva poca importanza che il gesto<br />

teatrale fosse visibile, proprio perché doveva dare l’idea di essere un fenomeno<br />

emergente, apparentemente celato agli occhi di tutti nonostante tutti avessero ben chiaro<br />

in mente chi faceva cosa. Pensai: una bella metafora del comportamento artistico; in<br />

quel luogo c’erano chiaramente Josef Nadj e Miquel Barcelo che impersonavano loro<br />

stessi, “mostravano l’atto stesso del fare arte”. Parafrasando Barthes con riferimento<br />

alla finzione narrativa: se «la posta del lavoro letterario (della letteratura come lavoro), è<br />

quella di fare del lettore non più un consumatore ma un produttore di testo 1 »; allora<br />

anche quello spettacolo era un limpido esempio di “testo scrivibile” e non solo<br />

“leggibile”, era un’opera aperta in divenire, non solo una pluralità di significati che<br />

convivevano in un solo significante, ma anche un modo per porre un problema artistico<br />

e non certo per risolverlo in modo oggettivo 2 .<br />

In quel modo noi spettatori avevamo già cominciato a connotare importanti<br />

significati (secondari) sulla performance teatrale, in quanto le caratteristiche della scena<br />

e il comportamento (al momento celato) degli artisti ci permetteva di creare delle<br />

aspettive o di rafforzare quelle che già avevamo 3 : la comunicazione attore-pubblico in<br />

quello spettacolo assumeva una forma del tutto peculiare, denotando eventualmente un<br />

genere di rappresentazione (ma quale?) e soprattutto una vera e propria struttura<br />

artistica specifica. Il pubblico era messo in guardia fin da subito, ed anche i più<br />

sprovveduti tra noi (o semplicemente i meno esperti o meno informati) avevano avuto<br />

modo di rendersene conto. In fondo, quella era la penultima rappresentazione dello<br />

spettacolo; il pubblico in parte sapeva cosa attendersi, anche per coloro che avevano<br />

cercato di mantenere sgombra la mente da ogni suggestione derivante dalla rumeur<br />

generata i giorni precedenti dall’effetto passaparola o dai titoli dei giornali. Ma la<br />

curiosità e l’interesse generali non potevano riguardare solo l’effettiva conoscenza della<br />

pièce in sé: in quel caso, più che mai, proprio perché mancava un testo propriamente<br />

detto, le sensazioni e le fascinazioni che circolavano erano straordinariamente legate ad<br />

immagini e sentimenti singolari che neanche il migliore dei critici era riuscito a<br />

trasmettere riducendo così l’attesa per quell’evento. Tra l’altro, lo spettacolo era<br />

destinato a rimanere “unico”, in quanto la volontà degli artisti era quella di non<br />

distribuirlo altrove, di non sganciare la rappresentazione dal vivo da quel luogo, ma di<br />

1 Barthes 1970 (N.d.A.).<br />

2 Eco 2004b (N.d.A.).<br />

3 Dalli, Romani 2003; Belk 1988; Holbrook, O’Shaughnessy 1988; Belk, Wallendorf, Sherry 1989;<br />

Holbrook, Hirschman 1982, 1994; Holt 1995; Zaltman 1997, 2000 (N.d.A.).<br />

484


diffonderne una forma virtualizzata attraverso una ripresa video e la produzione di un<br />

DVD. Lo spettacolo si sarebbe fermato a quelle dieci rappresentazioni ad Avignone.<br />

Ad ogni modo la scena proseguiva, apparentemente lenta. Da dietro il muro di argilla<br />

spuntarono Josef Nadj e Miquel Barcelo, in abito nero e camicia bianca. Inoltre, in<br />

scena, o meglio appena sotto il palco, venne portato un secchio da muratore con un po’<br />

d’acqua e improbabili “attrezzi” in legno al suo interno. Al centro della scena i due si<br />

divisero l’azione: l’uno, Barcelo, imbracciando una specie di zappa, produceva delle<br />

sfere di argilla colpendo ripetutamente il pavimento; l’altro, Nadj, con un grosso<br />

scalpello, alzava lingue di terra lasciandole sollevate come dei menhir conficcati con<br />

regolarità nel suolo. In pochi minuti, nella parte del piano più vicina al pubblico, le<br />

strisce di argilla si alternavano a buche circolari mentre i residui di lavorazione, e in<br />

particolare le sfere prodotte dall’asportazione di argilla dal palco, diventavano o<br />

materiale per improbabili sculture o proiettili da lanciare sul retrostante muro chiaro.<br />

Depositati quegli attrezzi nel secchio d’acqua piazzato sempre al lato della scena, Nadj,<br />

su un ginocchio, ruotava su se stesso al centro del palco utilizzando la sua rotula per<br />

produrre una buca. Successivamente, impugnate due grosse clave, Barcelo e Nadj<br />

colpivano ripetutamente il centro di quella buca, con forza e sincroniscmo, quasi fossero<br />

galeotti ai lavori forzati alle prese con una enorme pietra da spaccare. Allargandola<br />

sempre più ora la buca risultava pronta ad accogliere alcune secchiate d’acqua, fin quasi<br />

a riempirla: l’argilla circostante, ovviamente, rendeva impermabile quel solco artificiale<br />

creato sul palcoscenico.<br />

Al di là della struttura temporale della rappresentazione (per quanto il tempo<br />

sembrasse dilatato, mi accorsi successivamente che potevano essere trascorsi al<br />

massimo una decina di minuti), in quel caso più che mai erano le relazioni spaziali<br />

quelle che venivano maggiormente definite e percepite. Lo «spazio vuoto» (come lo<br />

definisce Peter Brook) era costituito dalla piattaforma sopraelevata, dalla parte inclinata<br />

sul fondo, dalla luce prodotta artificialmente e che, altrettanto artificialmente, lasciava<br />

nel buio i lati del palco e la parte retrostante. Tutto sommato, lo spazio preordinato era<br />

abbastanza tradizionale: il pubblico era seduto; era seduto su una tribuna; la tribuna si<br />

trovava di fronte al palco in un’area ben delimitata; tra platea e palco non vi era<br />

certamente un vero e proprio arco proscenico, benchè la volta dell’abside e le robuste<br />

colonne supplivano, almeno visivamente, a tale assenza. Al contrario, non poteva essere<br />

individuata una vera e propria scenografia se si escludono le luci o la particolarità stessa<br />

del palco, ricoperto di argilla. Per contro, lo spazio informale tornava ad essere per nulla<br />

anomalo, potendosi considerare assolutamente ordinari i rapporti di vicinanza tra attore<br />

e spettatore e tra spettatori: in particolare, ognuno aveva il proprio spazio dermacato, il<br />

posto a sedere individuale e una relativa immunità dai contatti fisici con altri spettatori.<br />

Per quanto riguarda quest’ultimo punto, il contatto con le mie vicine si limitava ad una<br />

fortunata combinazione che mi permetteva di poter beneficiare del fresco vortice d’aria<br />

prodotto dal ventaglio impugnato nella mano destra della signora alla mia destra e nella<br />

mano mancina della signora alla mia sinistra.<br />

Solo successivamente, interpretando lo spettacolo come metafora della produzione<br />

artistica, immaginai che, forse, quell’uso tradizionale delle relazioni prossemiche di<br />

base fosse voluto, addirittura ricercato: era infatti nella relazione tra attore e spettatore<br />

che l’uso dello spazio cambiava, in quanto i due artisti cominciarono lo spettacolo<br />

rivolti al pubblico, ma da dietro un muro, lo proseguirono rivolgendosi al pubblico,<br />

voltandogli a lungo le spalle, per poi concluderlo tornando da dove erano venuti. La<br />

485


ottura non era legata alla fissità architettonica più formale, ma a come gli artisti<br />

utilizzavano lo spazio direttamente sul palco.<br />

Non vi erano altre limitazioni visive, fermo restando il fatto che la scena era<br />

perfettamente in grado di descrivere (o, perlomeno, di suggerire) un territorio finzionale<br />

«che non coincide con i suoi reali limiti fisici 1 ». Si trattavano di tanti indizi visivi che<br />

permettevano a noi spettatori di realizzare il nostro costrutto mentale, di usare quello<br />

spazio come meglio credavamo. Indubbiamente, rispetto a situazioni più tradizionali, il<br />

vuoto della scena iniziale colpì molto. Almeno colpì molto me, in quanto mi costrinse a<br />

cercare altrove l’azione, nonostante il fatto che l’immagine di apertura (vuota)<br />

permettesse di concentrarsi sull’uso del suono e dell’immagine pura. L’uso dello spazio<br />

risultava così, fin da subito, semioticamente pregnante; e questo divenne evidente con<br />

l’ingresso (visivo) degli artisti (la percezione della loro presenza c’era già stata…).<br />

Inoltre, a mano a mano che procedeva l’azione sulla scena, questa, gioco forza, si<br />

modificava sotto gli occhi del pubblico: alla lunga, in seguito alle lavorazioni artistiche<br />

prodotte da Barcelo e Nadj, era difficile non considerare quei piani di argilla come una<br />

vera e propria scena, se non addirittura, come un’opera d’arte visiva dentro un’altra<br />

opera d’arte spettacolare: «il concetto di ut pictura spectaculum riduceva le reali tre<br />

dimensioni della scena a un qualcosa che assomigliava esattamentente alla bidimensionalità<br />

della tela 2 ». Visual e performing arts unite indissolubilmente, ma non in<br />

quel rapporto antico per cui la pittura, al massimo, serviva per produrre scenografie che<br />

al più camuffavano in modo bi-dimensionale uno spazio che doveva essere tridimensionale<br />

3 .<br />

Rispetto al caso delle arti visive, i messaggi teatrali (e quelli delle arti plastiche) sono<br />

particolarmente non-ridondanti nella misura in cui, anche in presenza di bassa<br />

informazione semantica, ciascun segnale, ciascuna ripetizione (di un gesto come di una<br />

frase), ha una giustificazione estetica: in presa diretta mi veniva in mente questa<br />

riflessione nell’osservare l’uso che Nadj e Barcelo stavano facendo dei loro attrezzi di<br />

legno.<br />

Successivamente, abbandonati per un attimo gli attrezzi, rimasi attratto dai gesti<br />

eleganti di Nadj, mentre dei movimenti di Barcelo mi attirava la loro indubbia<br />

“predisposizione” e abitudine a lavorare con quel materiale: l’uno si spostava con grazia<br />

anche nel caso degli scatti più bruschi e che richiedevano più energia; l’altro si accaniva<br />

con violenza ma anche con perizia e cognizione, tanto sul tappeto quanto, in questa fase<br />

specifica, sul muro di argilla, dando libero sfogo alla sua inventiva. Nadj, in particolare,<br />

dimostrava un ritmo tutto particolare, quello tipico di un danzatore e coreografo: i suoi<br />

movimenti erano limpidi, per certi versi richiamavano quelle arti marziali che<br />

soprattutto da giovane, Nadj aveva lungamente praticato. Barcelo, dal canto suo, era<br />

frenetico, operava cercando di assecondare il compagno ma era evidente la sua<br />

abitudine a seguire ritmi differenti. E questo ritmo differente era evidente anche dai<br />

rumori che erano provocati dal contatto con la materia. Entrambi, quindi, bucavano,<br />

tagliavano, sollevavano, scolpivano, disegnavano creando solchi e dissotterrando<br />

improbabili figure.<br />

Lo spazio informale, ovvero il palcoscenico in sé, si collegava ora più che mai<br />

all’aspetto più dinamico e naturale del discorso teatrale, vale a dire al movimento del<br />

1 Elam 1988: 72 (N.d.T.).<br />

2 Ibidem, 73 (N.d.T.).<br />

3 Anzi, forse è qualcosa di molto più simile al concetto di spazio virtuale a cui aspirava un altro grande<br />

artista come Adolphe Appia (N.d.T.).<br />

486


corpo sulla scena. Tra i teorici più importanti del teatro Artaud era, forse, quello che con<br />

maggior forza aveva sognato “un linguaggio teatrale puro” fatto di segni, gesti e<br />

atteggiamenti puramente ideografici, definitivamente “liberato dalla tirannia del<br />

discorso verbale”. Mi vennero in mente le chiaccherate con Romeo Castellucci e gli<br />

spettacoli “visionari” di Pippo Delbono che tanto amavo e avevo apprezzato, anche di<br />

recente, a Parigi 1 ; ma mi ricordai anche delle sterili discussioni dell’anno passato sul<br />

teatro di Jan Fabre 2 . Soprattutto Fabre richiamava spesso il teatro di Artaud e la sua<br />

ricerca di “un linguaggio scenico plastico” come nelle tradizioni teatrali orientali. A tal<br />

proposito, non era neppure un caso che, al festival di quest’anno, lo spettacolo di<br />

apertura di Josef Nadj, ospitato nel più importante spazio della Cour d’honneur del<br />

Palazzo dei Papi, fosse dedicato al Giappone e al viaggio di una figura per lui molto<br />

emblematica come Henry Michaux 3 .<br />

Intanto, i due artisti in scena continuavano la loro opera: senza strumenti artificiali,<br />

ma usando ogni parte del loro corpo, erano dediti a realizzare le figure più impensabili<br />

sul muro di argilla. E col passare del tempo, i loro abiti neri ed eleganti, le loro scarpe<br />

nere, assumevano il colore e il peso della materia prima che stavano lavorando: l’argilla<br />

umida, ovviamente, lasciava le sue tracce anche sul viso dei due artisti, sulle loro mani<br />

(strumenti privilegiati della loro azione), sui loro pantaloni, sulle giacche, e sulle<br />

camicie oramai non più bianche.<br />

Rispetto alle esplicite convenzioni cinesiche del teatro-danza indiano Kathakali o del<br />

teatro Noh giapponese 4 , nel teatro occidentale non vi sono sottocodici gestuali<br />

altrettanto forti: e in quel caso specifico non mi risultava facile andare al di là della<br />

percezione di indicazioni generali; per di più il movimento di Nadj e Barcelo non<br />

serviva ad accompagnare il linguaggio della parola. In effetti, il movimento del corpo<br />

come mezzo comunicativo costituisce ancora uno spazio tutto da esplorare per artisti e<br />

spettatori 5 . Che sia considerato un linguaggio di simboli (vale a dire come unità<br />

significanti) o un complesso sistema di funzioni pratiche e fisiologiche (con uno status<br />

semiotico proprio), il movimento è centrale nel teatro anche per «legare l’attore al<br />

contesto, al destinatario e agli oggetti del discorso. […] Il gesto, in breve, costituisce la<br />

modalità essenziale dell’ostensione del corpo, del palcoscenico e dell’azione sul<br />

1 N. fa qui riferimento all’artista italiano Pippo Delbono e alla sua lunga tournée parigina dell’inverno<br />

precedente. Anche Delbono era presente al Festival di Avignone 2006 (N.d.A.).<br />

2 Jan Fabre, artista fiammingo di fama internazionale, è stato l’artista associato del Festival di Avignone<br />

del 2005. Figura geniale e controversa, artista plastico e scultore, attore, cineasta, editore, coreografo,<br />

autore teatrale e regista, fu protagonista di una edizione del festival molto discussa. Il lettore può fare<br />

riferimento al libro Banu, Tackels 2005 per farsi una idea del caso Jan Fabre ad Avignone 2005. Per una<br />

indagine recente sul teatro di Jan Fabre, rinvio anche a Bortoluzzi, Collodi, Crisci e Moretti 2005<br />

(N.d.A.).<br />

3 N. si riferisce all’altro spettacolo presentato da Josef Nadj al Festival di Avignone, vale a dire “Asobu”<br />

(“Gioco” in giapponese), sei rappresentazioni realizzate nello spazio storico, più importante, del festival:<br />

la Corte d’onore del Palazzo dei Papi ad Avignone (N.d.A.).<br />

4 Soprattutto durante il Festival del 2005, nella sezione Off, ebbi modo vedere molti spettacoli del teatro<br />

orientale: soprattutto coreano, uno spettacolo indiano, varie pratiche giapponesi. In particolare assistetti<br />

ad una serie di avvincenti, strazianti rappresenazioni dei teatro butô giapponese. Un’arte assolutamente<br />

unica, ammaliante (N.d.T.).<br />

5 Alcune interessanti suggestioni possono essere ricondotte alla prospettiva fenomenologica dei Merleau-<br />

Ponty (1945) che nelle ricerche di consumer behavior ha attratto molti studiosi, tra gli altri: Sherry 1983;<br />

Thompson, Locander, Pollio 1989; Hirschman, Holbrook 1992; Celsi, Rose, Leigh 1993; Schouten,<br />

McAlexander 1995; Thompson, Hirschman 1995; Holt 1997; Joy, Sherry 2003 (N.d.T.).<br />

487


palcoscenico nello spazio (reale) 1 ». In “Paso Doble” (il titolo era ancor più efficace<br />

ora) il gesto era più che mai strumentale alla creazione artistica, essendo Nadj e Barcelo<br />

impegnati a svelarne i misteri.<br />

Oramai i due artisti avevano lasciato molti segni sul muro e sul pavimento di argilla;<br />

un altro tableau era stato realizzato. Si trattava ora di modificarlo ulteriormente. E<br />

impugnati altri strumenti, una spatola, una clava e il grosso scalpello a “U”, i due<br />

ripresero a modellare la parete infliggendo ulteriori colpi, assestando tagli e scavando<br />

altri solchi attorno alle figure precedenti, in modo complementare o talvolta distruttivo,<br />

a sovrapporsi alle tracce lasciate precedentemente, oppure infierendo su alcune altre.<br />

Altri colpi di taglio inferti con la spatola di legno, altri lanci di residui di argilla lasciati<br />

sul pavimento, altri colpi con mani, gomiti, ginocchia, piedi o talloni.<br />

Poi un attimo di pausa, legato al momentaneo abbandono della scena da parte di<br />

entrambi gli artisti. Per un attimo il pubblico poteva rivedere la scena vuota: da quella<br />

prospettiva nuova quei segni apparentemente immotivati sulla parete, frutto di una<br />

improvvisazione senza regole, gli attrezzi lasciati nella buca al centro del palco, le<br />

lavorazioni sul pavimento, assumevano una forma quasi sensata. Giunti praticamente a<br />

metà dello spettacolo, si era arrivati ad una sorta di equilibrio: il pubblico partecipava,<br />

quanto meno riconoscendo la performance in quanto tale; il frame entro cui i<br />

partecipanti collocavano quell’avvenimento estetico era stato sapientemente circoscritto<br />

da Nadj e Barcelo. E quella pausa, inattesa forse, aveva proprio il compito di fornire una<br />

ulteriore struttura concettuale allo spettatore a, una specie di ancoraggio, attraverso cui<br />

lo spettatore: (i) cominciasse a dare senso a quei comportamenti, qualora non lo avesse<br />

ancora fatto; (ii) o cominciasse a trovare conferme al senso che stavamo producendo<br />

assieme. Come suggerisce Goffman, il pubblico, in generale, non ha né il diritto né<br />

l’obbligo di partecipare direttamente all’azione drammatica che si svolge in scena 2 ; ma<br />

quanto meno è necessario metterlo nelle condizioni di poter scegliere il suo livello di<br />

partecipazione e di attenzione.<br />

La conoscenza delle “regole del gioco”: in effetti la padronanza di tali regole (di<br />

comportamento) da parte di chi va a teatro avviene, in larga misura, attraverso<br />

l’esperienza. Non ci sono contratti espliciti, regole scritte, codici validi a priori in una<br />

comunità di consumo come questa: «lo spettatore è costretto ad impadronirsi<br />

induttivamente dei principi organizzativi della performance, sperimentando cioè testi<br />

differenti e deducendo regole comuni 3 ». Anche in quel caso, il frame teatrale era<br />

tipicamente intertestuale, anzi, una specie di “palinsesto intertestuale 4 ”, non fosse altro<br />

per il fatto che anche quello spettacolo: (i) richiamava apertamente ad altre performance<br />

di Josef Nadj, come Last Landscape 5 dell’anno precedente; (ii) e mi era possibile<br />

1<br />

Elam 1980, p. 77. Ancora: «il movimento ha una funzione esplicitamente indicale […] che può<br />

legittimamente essere definito come “deittico” (etimologicamente significa “che indica, che attira<br />

l’attenzione su”) poiché la deissi ha nel discorso linguistico esattamente il ruolo ddi definire il<br />

protagonista («io»), il destinatario («tu») e il contesto («qui») e quindi di determinare una situazione<br />

comunicativa». Secondo i teorici, è attraverso la deissi che viene gettato un ponte fondamentale fra gesto<br />

e linguaggio, comunque destinati a cooperare nella produzione del discorso teatrale (ibidem, p. 78)<br />

(N.d.T.).<br />

2<br />

Goffman 1959 (N.d.T.).<br />

3<br />

Elam 1980, p. 96 (N.d.T.).<br />

4<br />

Il termine “palisesto” è da ricondurre, ovviamente, a Genette 1982 (N.d.T.).<br />

5<br />

N. si riferisce allo spettacolo che Josef Nadj, in coppia con il musicista Vladimir Tarasov, aveva creato<br />

per l’edizione del 2005 del Festival di Avignone, quasi un’anteprima, uno straordinario biglietto da visita,<br />

rispetto a quanto avrebbe mostrato proprio l’anno seguente in qualità di artista associato (N.d.A.).<br />

488


individuare le continue citazioni legate alle influenze estetiche e alle preferenze di gusto<br />

tanto di Nadj (ad esempio, la sua passione per la foto e il disegno, l’amore per i<br />

paessaggi della sua terra natale o la maniacale attenzione e cura per la musica e il<br />

suono) quanto di Barcelo (come gli evidenti richiami alle figure della sua esposizione).<br />

A tutto questo bisognava aggiungere anche le competenze extra-testuali dello<br />

spettatore: ciò che accade durante lo spettacolo è basato su un “orizzonte di attese” che<br />

non si limita ad altri spettacoli e all’esperienza diretta dello spettatore stesso. Delle<br />

relazioni inter-testuali e di quelle extra-testuali per la comprensione della performance<br />

fanno parte anche l’influenza esercitata dalla critica e dal contesto sociale di cui lo<br />

spettatore fa parte (ad esempio: i parenti, la cerchia di amici, la community di<br />

appartenenza). In fondo, era indubbio che la stampa specializzata aveva già battezzato<br />

quello spettacolo come l’“evento” di quel festival.<br />

Intanto, quella seconda parte (se così poteva definirsi) dello spettacolo non faceva<br />

che rafforzare quelle mie riflessioni “a caldo”. Ma stava cambiando il ritmo della<br />

musica, i suoni artificiali di sottofondo si facevano più evidenti e incalzanti. Era<br />

indubbio che stava per accadere qualcosa e i due artisti ci tenevano a farlo sapere.<br />

Dapprima il cambiamento si esprimeva con una diversa partecipazione diretta 1 alla<br />

“loro” opera: questa si manifestava attraverso la produzione di una serie incredibile di<br />

improbabili maschere, un bestiario immaginario completo e affascinante realizzato a<br />

partire da una serie di vasi che, uno dopo l’altro, essi portavano in scena da dietro il<br />

muro di argilla. Ciascuno di loro, rivolto al pubblico, “vestiva” letteralmente quei vasi<br />

mantenuti malleabili dall’umidità, modellandoli, ognuno per proprio conto, direttamente<br />

sul proprio viso. A quel punto, non risultava più difficile trovare il collegamento tra<br />

quei vasi, quelle maschere e le opere che, in parte, erano esposte lì di fianco. Ogni<br />

maschera veniva poi attentamente tolta e scagliata contro il muro per divertare parte<br />

della parete retrostante. Una, due, tre, quattro volte: ogni coppia di maschere era così<br />

creata e distrutta, o meglio, riconvertita a ulteriore componente dell’immagine in<br />

formazione sul muro di argilla. Terminata la sequenza delle maschere, Barcelo, da solo<br />

in scena, con una pompa nebulizzò il muro di argilla, ridonandogli l’artificiale colore<br />

biaco (ogni segno sul muro, scavando più o meno in profondità, faceva affiorare il<br />

sottostante colore originario dell’argilla). Solo al termine di quella operazione Nadj<br />

tornò in scena.<br />

In quella fase si stava per compiere il progetto estetico di Nadj, per mano di Barcelo.<br />

Il primo si mise al centro del palco, gambe e braccia divaricate, mano chiusa a<br />

pugno. Il secondo, arrivando da dietro la scena, gli lanciò sul capo un grosso vaso di<br />

argilla che si deformò immediatamente a contatto con il corpo di Nadj. Poi due vasi,<br />

lunghi e stretti, furono infilati nell’avambraccio dello stesso Nadj: prima a sinistra, poi a<br />

destra. Ancora un grosso vaso sul primo, a cui Barcelo cercò di dare un’immagine<br />

vagamente animale. Sotto quel peso Nadj, sempre in piedi, voltò le spalle al pubblico:<br />

intanto Barcelo arrivò altre tre, quattro, cinque, sei volte con altrettanti vasi di morbida<br />

agilla, ogni volta lanciati sul capo di Nadj. Mentre Bercelo continuava a modellare dal<br />

vivo la sua opera viva, la musica si faceva sempre più stridula, quasi ad accompagnare il<br />

movimento di Nadj che, a poco a poco, scivolava sulle ginocchia, appoggiandosi al<br />

muro di argilla nella parte bassa più alla destra del pubblico. Sfruttando quella<br />

favorevole posa di Nadj, in ginocchio appoggiato alla parete, Barcelo continuava a<br />

depositare e modellare argilla sulle spalle del compagno, vaso dopo vaso.<br />

1 Belk 1988; Schouten, McAlexander 1995; Valliquette, Murray, Creyer 1998 (N.d.T.).<br />

489


Due piccoli vasi neri vennero posti in cima a quel cumulo di argilla; Barcelo entrò<br />

nuovamente in scena; Barcelo impugnò due lame (in legno), una in ciascuna mano;<br />

Barcelo le alzò mimando il gesto del torero; Barcelo si avvicinò; Barcelo colpì la parte<br />

più altra di quella creatura d’argilla e trapassò da parte a parte i vasi neri in cima; e le<br />

due lame si conficcarono nella parete.<br />

Poi nuovamente il nebulizzatore: Nadj, in ginocchio, con quella montagna di argilla<br />

sulle spalle, faceva pochissimi movimenti; o meglio si potevano percepire giusto i<br />

movimenti degli arti inferiori; e Barcelo stava completando l’opera dando nuovamente<br />

quell’artificioso colore bianco, ricoprendo anche Nadj, la parete su cui continuava a<br />

restare appoggiato e anche il pavimento (fino a quel momento rimasto di un colore<br />

rosso naturale).<br />

In quel momento, Nadj era entrato davvero in quel tableau di Barcelo.<br />

Pochi attimi dopo Barcelo impugnò un nuovo strumento attraverso cui tracciò altri<br />

solchi su quel tableau bianco, solchi di color terra; usando tutto il piano inclinato, e<br />

passando anche sulla schiena bianca di Nadj, intrappolato nel muro di argilla, disegnò la<br />

figura di un enorme animale non meglio definito.<br />

Un enorme, arcaico, graffito rupestre.<br />

La musica, il suono, i fruscii artificiali sembrarono interrompersi, mentre Nadj, chino<br />

contro il muro alla estrema destra del palco, liberandosi le braccia e il capo dal peso<br />

dell’argilla, aveva cominciato a scavare la parete. Lo stesso stava facendo Barcelo dalla<br />

parte opposta. Scavavano, scavavano, scavavano; e lentamente andavano sempre più a<br />

fondo, scivolando dentro quelle brecce nella parete di argilla.<br />

Pochi istanti dopo, scomparvero, come inghiottiti, in quei buchi dai contorni<br />

irregolari. Lasciando di nuovo il palco vuoto. E si spensero le luci. Neppure la luce<br />

naturale dal rosone della antica chiesa c’era più.<br />

«L’interpretazione del testo, da parte di ogni spettatore, è in effetti una nuova<br />

costruzione di esso, secondo il carattere ideologico e culturale del soggetto: “il testo<br />

(quando viene decodificato) è sottoposto ad una nuova condificazione”. E’ lo spettatore<br />

che deve dare, per conto suo, senso alla performance, e questo viene spesso celato da<br />

un’apparente passività del pubblico. Per quanto giudiziosa o aberrante sia la<br />

decodificazione dello spettatore, la responsabilità finale della decondificazione e della<br />

coerenza di ciò che egli costruisce è sua 1 ». E sua soltanto.<br />

Il discorso drammatico di «Paso Doble»<br />

«La forme est un drame, elle se sépare et<br />

l’unité est perdue»<br />

(Alexandre Hollan)<br />

«Non si potrebbe essere indotti ad affermare per queste opere d’arte, come fa lo<br />

scienziato per la sua particolare situazione sperimentale, che la conoscenza incompleta<br />

di un sistema è la componente essenziale della sua formulazione […]? 2 ». In generale,<br />

«l’analogia tra le strutture dell’opera d’arte e le presunte strutture del mondo» non<br />

poteva essere intesa in termini di ingenua trasposizione delle categorie fisiche a quelle<br />

estetiche: «indeterminazione, complementarietà, non casualità non sono modi di essere<br />

1 Elam 1980, p. 99 (N.d.A.).<br />

2 L’espressione è tratta da Eco 2004a, p. 53 (N.d.A.).<br />

490


del mondo fisico, ma sistemi di descrizione utili per operarvi 1 . Per cui il rapporto che ci<br />

interessa non è quello – presunto – tra una situazione “ontologica” e una qualità<br />

morfologica dell’opera, ma tra un modo di spiegare operativamente i processi fisici e un<br />

modo di spiegare operativamente i processi di produzione e fruizione artistica. Rapporto<br />

quindi tra una metodologia scientifica e una poetica (esplicita o implicita) 2 ». Quello<br />

spettacolo aveva una struttura (drammatica) molto particolare in quanto sembrava<br />

proprio volesse discutere della formulazione stessa di una poetica, oltre che di una sua<br />

rappresentazione.<br />

Durante lo spettacolo avevamo lasciato N. alle prese con l’elaborazione di codici e<br />

convenzioni che sono alla base del frame teatrale: lo scopo era quello di «permettere<br />

allo spettatore di “leggere” in modo appropriato la performance come una<br />

rappresentazione drammatica 3 ». In quanto spettatore di quell’evento artistico, non<br />

faceva altro che ricavare qualcosa che, genericamente, possiamo definire informazioni<br />

drammatiche, al fine di tradurre ciò che vede e sente (o meglio percepisce 4 ) in<br />

“qualcosa di diverso”: un mondo drammatico fictional. Questa costruzione era anche e<br />

soprattutto il frutto della sua abilità di spettatore di «imporre un ordine ad un contenuto<br />

drammatico la cui espressione è discontinua e incompleta 5 » per definizione, effimera<br />

nel caso del teatro.<br />

Ora possiamo affrontare la questione che avevamo lasciato in sospeso in precedenza<br />

e su sui vale la pena far convengere l’attenzione del lettore. Torniamo quindi allo<br />

spettacolo di Nadj e Barcelo.<br />

Che tipo di mondo è quello che, all’interno dei limiti convenzionali della<br />

rappresentazione, viene costruito nel corso della performance? Rispetto al mondo reale<br />

di attori e spettatori e al contesto teatrale a cui N. aveva preso parte, quello complessivo<br />

dello spettacolo teatrale è un “mondo possibile” inteso come «un altrove spaziotemporale<br />

rappresentato come se fosse effettivamente presente per il pubblico 6 ». In<br />

assenza di un testo drammatico propriamente detto, senza un solo “dialogo parlato” e<br />

carico di immagini, “Paso Doble” non costituisce propriamente l’archetipo della<br />

comunicazione teatrale standard: dunque, quale status “ontologico” aveva quel<br />

costrutto fictional, specie agli occhi dello spettatore? Per quanto si sia portati a pensare<br />

che vi fosse poco di fictional nello spettacolo di Nadj e Barcelo, a ben vedere non era il<br />

caso di restare troppo legati alle “apparenze” che, come nell’antico adagio, spesso<br />

ingannano. Per provare ad interpretare quel particolare mondo possibile si poteva<br />

provare a capire come la pensavano a tal proprosito gli stessi artisti.<br />

***<br />

Qualche giorno prima della rappresentazione a cui assistetti, partecipai ad uno degli<br />

incontri a Cloître Saint-Louis in cui dovevano esserci sia Nadj che Barcelo: la prima<br />

occasione di confronto diretto col pubblico avvenne proprio il giorno successivo al<br />

1 Nella letteratura sul consumer behavior: Belk 1988; Sherry 1983; Belk, Wallendorf, Sherry 1989;<br />

Thompson, Loncander, Pollio 1989; Hirschman, Holbrook 1992; Holt 1995; Cova 1997; Bourgeon 2000;<br />

Evrard, Bourgeon, Petr 2000; Zaltman 2000; Dalli, Romani 2003 (N.d.T.).<br />

2 Eco 2004a, p. 53, nota n. 13: il corsivo è originale (N.d.T.).<br />

3 Elam 1980, p. 103 (N.d.T.).<br />

4 Merleau-Ponty 1945 (N.d.T.).<br />

5 Elam 1980, p. 105 (N.d.T.).<br />

6 Ibidem, p. 106 (N.d.T.).<br />

491


debutto dello spettacolo. Quello della tarda mattinata tra artisti e pubblico era un<br />

appuntamento consueto, ma in quella occasione Josef Nadj si presentò solo.<br />

“Miquel sta bene, è solo un po’ stanco. E’ ancora in albergo che dorme. Sapete, non<br />

è abituato e poi… ieri sera era così contento del suo esordio sul palcoscenico che ha<br />

alzato un po’ il gomito!” disse spiritosamente Nadj cercando di rassicurare tutti i<br />

presenti.<br />

Una risata generale precedette l’inizio di uno dei tanti incontri che doveva vedere la<br />

presenza dell’artista associato del Festival di quell’anno. Pochi giorni dopo, vi fu<br />

un’altra opportunità di incontro, questa volta con entrambi gli artisti: non ricordo bene<br />

quando e dove avvenne questa conversazione; ad Avignone succede spesso di<br />

incontrarsi ovunque e in qualunque momento della giornata. Ad ogni modo, Barcelo e<br />

Nadj vennero chiamati in causa con una domanda sulla genesi dello spettacolo.<br />

“Cela fait déjà longtemps que Josef vient passer du temps dans mon atelier et voir ce<br />

que je fais; il prenait déjà des photos des dessins sur les murs, des graffitis notamment.<br />

Je lui ai également montré des films et ce que je réalisais avec l’argile. Il voulait me<br />

proposer de venir au Festival d’Avignon quand il a su qu’il serait l’artiste associé” disse<br />

Barcelo.<br />

Nadj annuiva compiaciuto e aggiunse: “Même dans les arts plastiques, il y a peu<br />

d’exemples d’une proposition de ce type. […] j’ai souvent cherché à rester en relation<br />

avec quelques peintres, à prolonger le temps et la possibilité di vivre un peu avec leur<br />

tableau, en restant plus longtemps que ne le permet une exposition, à proximité des<br />

œuvres, dans l’atelier. Je suis même resté seul la nuit dans celui de Miquel. Avec des<br />

bougies, j’ai joué avec les ombres et les lumières pour étudier de plus près le<br />

mouvement de ses tableaux, sentir les ligues de force, vivre la paysage. Comme une<br />

préparation intuitive à cette performance qui n’est visible, approchable que dans ce<br />

temps unique de son exécution”.<br />

“Quand il m’a finalement proposé de faire quelque chose ensemble”, disse Barcelo,<br />

“j’imaginais, pour ma part, utiliser le corps humain comme extension de ma main sur<br />

l’argile mais je ne pensais pas du tout me retrouver en train de jouer, c’est-à-dire en<br />

action devant un public. Dans mon idée, il s’agissait de travailler aves les danseurs. Je<br />

pensais que créer un espace de ce type serait plus intéressant, que je pourrais diriger<br />

tous les corps sur l’argile. On s’est retrouvé à Naples pour faires des essais. C’était bien,<br />

mais on a compris tout de suite tous les deux qu’il valait mieux que nous participions<br />

directement”.<br />

Indicando al pubblico l’amico pittore, disse: “…un jour, je lui ai dit spontanément –<br />

c’était une envie qui s’était accumulée en moi – que j’aimerais bien faire l’expérience<br />

d’entrer dans son tableau. Il m’a répondu “oui, mais comment?”. Déjà, dans ses œuvres<br />

picturales, il y a le travail sur le relief, la profondeur de surface, de déchirure. Qui plus<br />

est, la terre qu’il utilise, l’argile, est omniprésente à Kanizsa, ma ville natale. Depuis<br />

longtemps, cette matière m’incite à faire quelque chose avec elle, à l’utiliser de manière<br />

plus approfondie. J’ai donc cherché une forme possibile de rencontre et c’est la<br />

perfomance qui me semblait être la meilleure solution”.<br />

Nadj sembrava dire al suo pubblico che i mondi drammatici sono sì dei costrutti<br />

ipotetici (seguono la regola del “come se”) in quanto vengono riconosciuti da noi come<br />

stati di cose controfattuali (vale a dire non-reali); ma dall’altro «vengono incorporati<br />

come se fossero in progress nel qui e ora attuale 1 » dello spettatore stesso. La<br />

1 Elam 1980, p. 106 (N.d.T.).<br />

492


particolarità era legata al fatto che quello era uno spettacolo su un’opera d’arte:<br />

un’opera aperta su come si fa un’opera aperta 1 . Il mondo costruito attraverso il<br />

dramma ha la caratteristica di essere “accessibile” in relazione al mondo attuale del<br />

pubblico. La questione chiave è: come si arriva lì da qui? Attraverso un grado di<br />

sovrapposizione più o meno esteso tra mondo drammatico e mondo reale; vale a dire, il<br />

primo «raccoglie un insieme pre-esistente di proprietà dal mondo “reale”, cioè dal<br />

mondo a cui lo (spettatore) è invitato a riferirsi come il mondo di referenza 2 ». In questo<br />

senso, vale a dire in termini di metodo, «l’arte, più che conoscere il mondo, produce dei<br />

complementi del mondo, delle forme autonome che s’aggiungono a quelle esistenti<br />

esibendo leggi proprie e vita personale 3 ». Attraverso “Paso Doble”, Nadj voleva<br />

entrare nel quadro di Barcelo portandoci dentro anche lo spettatore, e in scena aveva<br />

trovato il modo per dare forma a questo suo messaggio estetico; inoltre, in quanto egli<br />

stesso spettatore che ha un ruolo chiave in tutto ciò, anche Nadj ha voluto partecipare<br />

direttamente alla realizzazione del quadro di Barcelo. Mai come in quel caso si poteva<br />

concordare con l’idea che «ogni forma artistica può benissimo essere vista, se non<br />

come sostituto della conoscenza scientifica, come metafora epistemologica 4 ».<br />

In seguito, secondo una logica che cominciava a convincermi sempre di più<br />

nonostante non avessi ancora visto lo spettacolo, Barcelo e Nadj soffermaroro sul<br />

procedimento, sui problemi tecnici che avevano dovuto affrontare: e dietro ogni<br />

problema tecnico risolto c’era, ovviamente, una soluzione esteticamente rilevante.<br />

“Tout d’abord, j’ai pensé à la durée du spectacle, environ une heure devant les<br />

spectateurs. Dans un preminer temps, je me suis préparé en travaillant seul la matière,<br />

l’argile. Puis, Miquel est venu à Kanizsa [et] très vite s’est imposées l’idée que nous<br />

devions faire cette performance en duo, lui et moi, et surtout avec l’intention de dévoiler<br />

son propre geste de peintre, d’exposer l’acte même de faire” disse Nadj.<br />

Barcelo aggiunse: “En effet, dans ce premier essai, j’étais à l’extérieur et je passais<br />

mon temps à donner des directives: “pose ici, élargit, creuse!”. Ce n’est pas dans ma<br />

nature de procéder de cette façon. …Quand je réalise, j’ai un rythme de travail et Josef<br />

en a un autre, un geste de danse, tout en présence, au ralenti. Cela me gênait beaucoup.<br />

J’ai essayé d’être moins frénétique et lui d’accélérer, nous avons cherché un rythme<br />

commun”.<br />

“Nous avons donc fait des essais à deux pour voir comment cette terre réagit, ensuite<br />

seulement nous avons imaginé cette sorte de trame, de parcours dans l’espace et le<br />

temps” disse Nadj.<br />

Il linguaggio, come avevo inteso più volte e da più parti, «non è un mezzo di<br />

comunicazione tra tanti; è “ciò che fonda ogni comunicazione”; meglio ancora “il<br />

linguaggio è realmente la fondazione stessa della cultura. In rapporto al linguaggio tutti<br />

gli altri sistemi di simboli sono accessori o derivati 5 »; detto altrimenti, il linguaggio «è<br />

1 Come il lettore avrà inteso, l’opera aperta è caratterizzata dall’invito a fare l’opera con l’autore; inoltre,<br />

vi sono alcune opere che sono già “predisposte” ad «una germinazione continua di relazioni interne che il<br />

fruitore deve scoprire e scegliere» al momento della percezione; e, in generale, ogni opera d’arte, in modo<br />

più o meno esplicito, è «sostanzialmente aperta ad una serie virtualmente infinita di letture possibili».<br />

Paso Doble aveva tutte queste caratteristiche assieme, sia come spettacolo sia come metafora dell’opera<br />

aperta (N.d.T.).<br />

2 Eco 1975 (N.d.T.).<br />

3 Eco 2005, p. 50. Forte è anche il collegamento con la fase di strutturazione delle conoscenze proposta da<br />

Rullani (Rullani 2004b, ma anche Crisci 2006a) (N.d.T.).<br />

4 L’espressione orginale credo sia di Umberto Eco (N.d.A.).<br />

5 Eco 2005, p. 71: corsivo originale (N.d.T.).<br />

493


una organizzazione di stimoli attuata dall’uomo, fatto artificiale, come fatto artificiale è<br />

la forma artistica». In questo caso il linguaggio non poteva essere cercato nella parola;<br />

ma il movimento e l’immagine costituivano le strutture cognitive prevalenti. Ed era<br />

questo, le forme che quelle strutture assumevano, che rendeva il significato così<br />

multiforme e ricco, talmente non univoco da lasciare appagati e al tempo stesso<br />

insoddisfatti a causa di tanta varietà 1 .<br />

“Il s’agit d’une expérience unique” spiegava Nadj “au sens où elle prend son origine<br />

dans l’instant présent, plus précisément là où j’en suis de mon rapport au traitement des<br />

images: l’image comme travail d’art visuel. Cela devient un moment, un espace unique<br />

d’intervention. Au sens où je me concentre exclusivement sur comment je peux toucher<br />

son tableau, quel type de gestes je peux faire sans défigurer son élan, ou sa vision des<br />

choses, qu’est-ce que je peux apporter avec mon physique. À un certain moment, il<br />

ajoute des matières, des vases d’argile façonnés mais pas encore cuits qu’il lance sur<br />

moi et remodèle. Dans cette proposition, aucun de nous deux ne joue. Il s’agit<br />

uniquement de rester concentré sur son geste et de voir dans cette heure, cette durée de<br />

la performance ou traversée temporelle et physique, combien de tableaux peuvent<br />

surgir, combien d’images peuvent évoluer, se transformer, s’effacer, avant de tout<br />

recommencer le lendemain. À chaque fois, ce parcours se reconstruit tel des vairationsimprovisations<br />

sur un même thème”.<br />

“Moi, je peux improviser chaque jour une structure différente qui s’effondre, cela me<br />

plaît énormément tout comme la fin qui devient comme un grand tableau, un grand<br />

animal chaque jour différent” aggiunse Barcelo.<br />

In questa logica, l’opera d’arte che restava al termine dello spettacolo e che aveva<br />

tanto attratto il pubblico, altro non era che una istantanea di un processo in divenire che<br />

era stato brutalmente arrestato. Non era essa stessa un’opera, essendo destinata a<br />

scomparire per ricominciare da capo il giorno dopo; ma costituiva una sua immagine,<br />

una sua evoluzione a cui, uscendo di scena, i due artisti avevano impedito di svilupparsi<br />

ulteriormente per una questione di limiti spazio-temporali (teatrali). Ma per arrivare a<br />

questo, una trama c’era, eccome.<br />

“Vous avez donc conçu votre travail avec une trame d’improvisation?” domandarono<br />

dal pubblico.<br />

“Pour moi” disse Barcelo divertito “l’idée de répéter dix jours une même chose, c’est<br />

mortel! C’est le contraire de mon travail. … Justement, je trouve très bien de jouer avec<br />

l’argile, une matière tellement vivante, fraîche, mobile et changeante, qu’on ne peut<br />

prétendre que ce qui va passer chaque jour sera pareil. De même, quand je jette un vase<br />

sur Josef, sa chute, avec la matière qui est sur lui, ne peuvent produire de formes<br />

identiques chaque jour. Cela change; il faut donc que j’improvise constamment et c’est<br />

vraiment passionant. J’aime bien ce risque, si on peut dire”.<br />

“Il y a en effet une petite trame. Ce sont tour d’abord les formes. Dans nos premières<br />

convesations, nous avons évoqué l’espace des grottes, les dessins de la préhistoire, les<br />

débuts de la création. C’est pourquoi nous avons gardé l’idée de travailler sur des<br />

formes primaires. Puis nous avons déterminé l’espace de cette performance: un mur<br />

d’argile, avec l’envie di commencer dans un état dégagé de toute prédétermination afin<br />

de pouvoir se laisser bousculer par tout ce qui advient dans le présent, à travers le<br />

geste et l’actualité de la performance”. E aggiunse ancora Nadj: “Comme nous avons<br />

1 Merleau-Ponty 1945, e quindi: Sherry 1983; Thompson, Locander, Pollio 1989; Hirschman, Holbrook<br />

1992; Celsi, Rose, Leigh 1993; Schouten, McAlexander 1995; Thompson, Hirschman 1995; Holt 1997;<br />

Joy, Sherry 2003 (N.d.A.).<br />

494


finalement préféré déterminer un nombre de tableaux à construire, cette trame contient<br />

une dimension dramaturgique puisqu’elle structure dans le temps de la performance<br />

différents éléments à mettre en place. En quelque sorte, elle contribue à définir ce<br />

parcours. Si nous sommes tenus de comprimer un certain nombre d’actions dans un<br />

temps limité, on ne peut éviter qu’il en résulte malgré tout une dramaturgie”.<br />

Rivolgendosi direttamente a Barcelo qualcuno gli domandò quale fosse, in quanto<br />

pittore, il suo rapporto con il “gesto”.<br />

“Dans le travail que je réalise dans la cathédrale de Majorque, qui est tellement<br />

énorme, tout est exagéré, même les outils que nous avons dû fabriquer pour couper<br />

l’argile par example. “Paso Doble” sera comme une version «live» de cette œuvre-là<br />

qui est la plus grande que j’aie jamais réalisée. Cela m’a pris des années de travail pour<br />

apprendre et inventer une technique qui n’existait pas. D’abitude, on procède par<br />

carreaux, jamais en un seul morceau. Là, je sculpte la surface en entier. Puis, une fois<br />

terminée, elle est cassée en morceaux, chacun de plusieurs mètres carrés. Ces morceaux<br />

énormes sont cuits, puis reconstitués en une seule grande œuvre. Dans “Paso Doble”,<br />

on ne cuit pas, on détruit”.<br />

“E che l’opera scompaia non è per lei un problema?”, gli domandò qualcun altro.<br />

“Cela le serait si c’était une œuvre d’un autre type, mais dans ce cas, l’œuvre est en<br />

fait un processus. On n’y pense pas. Cette destruction est même necessaire”.<br />

E aggiunse: “Les arts ont depuis longtemps dépassé leurs limites. Cette pièce n’est ni<br />

une sculpture, ni une peinture. Et pourtant moi je reste assez classique, je fais des toiles<br />

et des sculptures, pas des vidéos au des installations. J’aime vraiment la matière et le<br />

rapport direct aux choses… La démarche de Paso Doble est proche de l’art<br />

contemporain, d’une approche théâtrale, d’une forme de sculpture ou d’un happening.<br />

Josef connaît très bien mon travail et je crois que nous avons su trouver pour cette<br />

occasion un langage commun par l’intermédiaire de cette matière, l’argile. […] Pour<br />

préparer le spectacle, nous avons travaillé dans différents endroits: à Naples, Kanizsa, et<br />

Avignon. Jamais nous n’avons eu besoin d’échanger beaucoup avec les mots et je crois<br />

que c’est une bonne chose. Cela fait partie de la particularité de cette œuvre, le fait<br />

qu’elle ne soit pas verbalisée, parce que nous essayons d’aller plus loin à partir d’une<br />

nécessité que nous ressentons sur place”.<br />

“Miquel compte désormais des années de travail, d’expérience et de maîtrise. À<br />

travers ses œuvres, sa démarche s’est déployée en de multiples dimensions, sur<br />

différents supports et matières… Souvent, il utilise la terre et intègre son geste dans<br />

l’œuvre même. Autrement dit, il est dans son tableau. Pour moi, être amené à travers<br />

cette performance, à partager quelques-uns de ses gestes, me permet de découvrir, de<br />

comprendre quelque chose de son travail, de l’intérieur. […] Mes gestes sont dirigés<br />

vers le tableau, mais sans savoir si les traces que je laisse à partir de mon corps et de ses<br />

mouvements sont justes, c’est-à-dire compatibles avec son propre geste. Dans ce projet,<br />

je deviens le support du matériau même.<br />

Poi, lo stesso Nadj aggiunse un’ultima battuta: “[…] Il s’agit de sculpter la forme.<br />

Indissociablement liée au geste qui la travaille, elle fait partie de notre présence. Mais ce<br />

qui compte d’abord, ce n’est pas l’acteur, l’interprétation, mais l’effet de l’objet. En tout<br />

cas, c’est ce que nous cherchons à obtenir, une justesse de geste et de forme qui ne soit<br />

ni une représentation, ni une matière de jeu. Donner à voir ce processus est déjà une<br />

chose unique en soi”.<br />

495


Epilogo. «Avignon, le public réinventé 1 »<br />

«Une création n’est pas un jeu»<br />

(Josef Nadj)<br />

Non so se si fosse creata una qualche particolare intensità di sentimento, se vi fosse<br />

commozione e potenza drammatica in quei momenti. Resta il fatto che trascorsero<br />

alcuni lunghissimi istanti tra il buio della scena e il fragore degli applausi del pubblico.<br />

La cosa incredibile è che, almeno a me, era evidentemente chiaro che lo spettacolo<br />

stesse finendo nel momento stesso in cui i due artisti venivano risucchiati dai due buchi<br />

nella scena. Ed ero perfettamente consapevole che si stavano per spegnere le luci e che<br />

il buio sostituiva la chiusura di quel sipario che il palcoscenico di fatto non prevedeva.<br />

Insomma, a ripensarci a posteriori, non ero in grado di spiegare in alcun altro modo<br />

quegli istanti di silenzio e di raccoglimento prima degli applausi, se non in termini di<br />

pathos. Inoltre, quella sensazione mi sembrava di condividerla con chi mi stava vicino,<br />

così come condivisi gli attimi di risveglio da quella sensazione di torpore emotivo, in<br />

quanto gli applausi cominciarono quasi all’unisono, come se ognuno avesse sentito la<br />

stessa esigenza di “costringere” il proprio corpo a quel gesto solo all’apparenza<br />

meccanico. Fu una percezione che raramente mi era capitato di cogliere in quel modo. E<br />

quasi mai mi era riuscito di coglierlo in maniera così vivida dagli/negli altri spettatori<br />

che erano presenti con me in una sala teatrale: se è vero che il dramma consiste in un<br />

«io» che si rivolge ad un «tu», nel «qui» e in un’«ora»; in quel caso specifico tutto ciò ci<br />

aveva trasformati anche in un «noi» straordinariamente coeso 2 .<br />

L’entrata in scena di Barcelo e Nadj fu un tripudio di battiti di mani e di piedi. Pochi<br />

istanti e quel sentimento di riservato pudore, quella discrezione malcelata dello<br />

spettatore che, al termine dello spettacolo, non si sente più avvolto dall’accomodante e<br />

protettivo buio della platea, era scomparso nella grande maggioranza del pubblico: ci<br />

ritrovammo in piedi, un po’ goffamente, arrancanti, costretti come eravamo nello spazio<br />

delle strette tribune. Nadj era raggiante: in tutti quei giorni non gli avevo mai visto<br />

attraversare così spesso il viso da un sorriso; e su un visto come il suo, costantemente<br />

segnato dalla riflessione e dal rigore dello sguardo, ogni sorriso sembra essere più<br />

luminoso, sembra risplendere di luce particolare. Barcelo, dal canto suo, sembrava un<br />

bimbo in preda all’eccitazione: anche se fisicamente provato, esprimeva una gioia<br />

irrefrenabile. Ad un certo punto, con le mani ancora impastate di argilla, tirò fuori dalla<br />

tasca una di quelle fotocamere digitali giapponesi, tanto piccole che quasi ti si perdono<br />

in mano: clic-clic, ed un flash. Una foto ricordo, lui al pubblico. Non mi era mai<br />

capitato di vedere un artista fare foto ricordo dal suo palcoscenico al suo pubblico!<br />

Le scene successive furono altrettanto particolari in quanto altrettamento raramente<br />

mi era capitato, alla fine di uno spettacolo, vedere parte del pubblico avvicinarsi alla<br />

scena, entrarvici, girarci attorno, contemplare ciò che restava dell’opera di Nadj e<br />

Barcelo. E a dire il vero faceva un certo effetto quell’ulteriore opera d’arte all’interno<br />

dell’abside della chiesa, creata dal vivo, a fianco degli altri pezzi in mostra. L’unica<br />

differenza era l’effimera consistenza di quell’opera nuova, che di lì a poco sarebbe stata<br />

distrutta per la penultima volta. Qualcuno si doveva essere informato a tal proposito,<br />

tant’è che ad un certo punto, io mi trovavo ancora al mio posto sulla tribuna, alcuni<br />

1 Devo l’idea del titolo di questo paragrafo conclusivo alla pubblicazione del professor Emmanuel Ethis<br />

sul pubblico del Festival di Avignone (Ethis, 2002) (N.d.T.).<br />

2 Vedi nota precedente in questo capitolo (N.d.T.).<br />

496


chiesero di poter avere un pezzetto di argilla di quello che, da opera d’arte, era tornato a<br />

diventare il palcoscenico di una performance teatrale. Spinti da un forte spirito di<br />

emulazione, altri spettatori si sentirono così autorizzati a raccogliere il loro feticcio, quel<br />

souvenir simbolo magico di stima, desiderio e interesse.<br />

***<br />

Questo spettacolo è un bel modo per «sondare il nostro rapporto con l’oggetto della<br />

nostra conoscenza, la nostra inquietudine di fronte alla forma che abbiamo dato al<br />

mondo, o della forma che non possiamo dargli. […] In ogni caso, comunque,<br />

l’operazione dell’arte che tenta di conferire una forma a ciò che può apparire disordine,<br />

informe, dissociazione, mancanza di ogni rapporto, è ancora l’esercizio di una ragione<br />

che tenta di ridurre a chiarezza discorsiva le cose; e quando il suo discorso pare oscuro è<br />

perché le cose stesse, e il nostro rapporto con esse, è ancora molto oscuro. Così che<br />

sarebbe molto azzardato pretendere di definirle dal podio incontaminato dell’oratorio:<br />

questo diventerebbe un modo di eludere la realtà, per lasciarla stare così come é. Non<br />

sarebbe questa l’ultima e più compiuta figura dell’alienazione? 1 »<br />

Ecco il motivo per cui, forse, vale ancora la pena cercare di sporcarsi le mani per<br />

comprendere, più che cercare di spiegare restando intonsi. De te fabula narratur.<br />

1 Eco 2004, p. 289-290 (N.d.T.).<br />

497


XXXVII<br />

(Il Festival Off di Avignone: ovvero, come mettere in scena uno spettacolo “altro”)<br />

In cui si comprende come possa nascere una contro-manifestazione con lo scopo ultimo<br />

di ricordare a quella principale il motivo per cui è nata, salvo poi rischiare di scomparire<br />

quando avrà compiuto la sua missione <br />

«Gli economisti sembrano convinti che<br />

l’economia sia troppo importante per essere<br />

lasciata a persone di ampie vedute»<br />

(D. McCloskey, da The Rethoric of Economics)<br />

Un’altra controversia per cercare di comprendere un fenomeno tanto affascinante<br />

quanto controverso. Era questo che stavo per proporre al lettore.<br />

Il Festival Off poteva essere analizzato, credo, a partire da un punto di osservazione<br />

abbastanza semplice: la sua particolarità, come festival fringe, era legata alla gestione<br />

della logistica teatrale e al supporto nella fase di comunicazione “su piazza” degli<br />

spettacoli che entravano nel “cartellone aperto” del Festival stesso. In una prospettiva<br />

cognitiva, i processi logistici non erano gestiti alla luce di specifiche esigenze di<br />

strutturazione, riproduzione e diffusione degli spettacoli che venivano inseriti nel<br />

programma. Il fatto stesso che il programma fosse “aperto”, faceva si che l’unica vera<br />

limitazione era, per l’appunto, lo spazio per la “riproduzione”, il quale, quindi, risultava<br />

fine a se stesso.<br />

Nella sostanza, al contrario di un Festival ufficiale 1 (ma l’Off non era anche lui un<br />

Festival “ufficiale”?), l’Off di Avignone aveva assunto una organizzazione ridotta,<br />

minimale, dei processi che intendeva governare e delle attività gestite internamente 2 :<br />

niente “direzione artistica” convenzionale, e quindi niente “pre-selezione” delle<br />

compagnie; niente direzione organizzativa e di produzione; nessun supporto tecnico<br />

diretto offerto alle compagnie (ma “esternalizzato” anche quello); nessuna forma di<br />

“ospitalità” e servizi di accoglienza ridotti all’osso; “ufficio marketing” ridotto ad alcuni<br />

punti di aggregazione in diversi luoghi di Avignone; qualche struttura tecnica comune<br />

(una stanza per fotocopie, spazi di riunione, ecc.), praticamente co-gestita attraverso una<br />

rete di gruppi, soprattutto di volontari, che ruotava attorno agli spazi del Festival Off.<br />

La parte principale dell’organizzazione-Festival Off era, quindi, il contatto con le<br />

compagnie e l’assegnazione/ricerca dello spazio che veniva attribuito loro o che, nella<br />

situazione più comune, le singole compagnie si cercavano da sole, per tutto o parte il<br />

mese del Festival 3 .<br />

Ottenuto lo spazio teatrale, attraverso una negoziazione dei contenuti degli accordi<br />

con l’associazione dei gestori delle sale che non lasciava molti spazi alla trattativa, stava<br />

alla compagnia approntare tutto quanto fosse necessario all’organizzazione della sua<br />

trasferta: modalità di gestione dello stesso spazio; aspetti tecnici; sistemazione della<br />

troupe; produzione dello spettacolo “in loco”; comunicazione e promozione; contatti per<br />

la distribuzione. L’unico supporto di base era, per l’appunto, l’eventuale contatto con la<br />

proprietà dello spazio teatrale e la “promozione” dello spettacolo che veniva inserito nel<br />

programma della manifestazione pubblicato a carico dell’organizzazione. La logistica in<br />

entrata (e solo nella fase iniziale), qualche componente tecnica e la promozione “in<br />

loco”. Il minimo dell’attività per realizzare uno spettacolo dal vivo. Qualcosa di più del<br />

1 Sul ruolo dell’istituzionalizzazione come fenomeno organizzativo: Powell, DiMAggio 1991 (N.d.A.).<br />

2 Argano 1997, 2003; Solima 2004; Grandinetti, Moretti 2004; Gallina 2001 (N.d.A.).<br />

3 Grandinetti, Moretti 2004; Grandinetti 1993; Kotler, Scheff 1997; Colbert 1994 (N.d.T.).<br />

498


“teatro di strada”, tanto che veniva da pensare si trattasse del regno dell’autoorganizzazione.<br />

La realtà delle cose era più complicata.<br />

Per diversi anni, tra la metà degli anni Sessanta fino agli inizi degli anni Ottanta, il<br />

Festival Off di Avignone, in sostanza, costituiva una parte integrante della “vita<br />

teatrale” della città esattamente in coincidenza con il periodo di programmazione del<br />

Festival In: “come due ruote di una stessa bicicletta”, costituivano uno il “normale”<br />

completamento dell’altro, parte integrante di quella straordinaria festa del teatro che si<br />

svolgeva nella città dei Papi.<br />

La storia “ufficiale” del Festival Off risaliva infatti al 1966, quando un giovane attore<br />

e regista di Avignone, André Benedetto, semplicemente per il desiderio di mostrare il<br />

suo lavoro, realizzò uno spettacolo che, vista l’ingombrante presenza del Festival di<br />

Vilar, venne messo in scena per le strade, le piazze e i vicoli di Avignone, profittando<br />

della presenza del pubblico del Festival. L’anno successivo, Gérard Gélas, fece<br />

altrettanto in un ristorante vicino a palace des Carmes. Già nel 1971, vi erano 12<br />

compagnie ce presentavano 38 spettacoli. L’anno successivo gli spazi interessati erano<br />

già dieci e il numero di spettacoli salì a 82, poi a 157 tre anni più tardi per arrivare al<br />

primo record del 1978: 170 spettacoli in 30 luoghi diversi.<br />

Vilar accettò di buon grado l’emergere di quel “hors festival” che egli considerava<br />

come un interessante laboratorio di sperimentazione. Ebbe anche contatti frequenti con<br />

Gélas e Paul Puax, negli anni a seguire, mantenne viva l’attenzione per quello che stava<br />

divendo, o forse già lo era, il Festival Off.<br />

Già nel 1980, Bernard Faivre d’Arcier aveva chiesto la realizzazione di una ricerca<br />

sul Festival Off 1 . L’Off del 1980 contava già 40 luoghi interessati alle rappresentazioni,<br />

145 spettacoli e 2.223 rappresentazioni proposte. Ma vennero riscontrati i primi<br />

problemi di “crescita” nel meccanismo che aveva in un qualche modo garantito la<br />

realizzazione di quella “libera festa del teatro”. Fu un attore, Alain Léonard, a far<br />

superare la crisi da implosione, il quale, nel 1982, con l’appoggio dello stesso Faivre<br />

d’Arcier, creò Avignon-Public-Off, «une association qui s’est donnée pour mission de<br />

construire sans détruire, soutenir sans assister, aider sans s’ingérer, organiser la liberté<br />

sans y toucher 2 ». Attraverso una prima sovvenzione statale, nel 1982 apparì il primo<br />

programma dell’Off «ed ha funzionato», come non mancò di sottolineare Alain Léonard<br />

a margine dei fatti più recenti.<br />

Per “organizzare” l’Off Léonard poteva pensare di instaurare un sistema di selezione<br />

degli spettacoli migliori, di diventare quindi un programmatore. Non lo fece, soprattutto<br />

per non rischiare un confronto aperto con il Festival In, col rischio di venire<br />

assoggettato, se non ingurgitato. Il suo ruolo divenne, in sostanza, quello di<br />

“mediatore”, soprattutto nel regolare gli spazi pubblici del Festival, imponendo la sola<br />

assenza del programma, inteso come selezione di spettacoli, come unica regola fondante<br />

del meccanismo. Il costo dell’adesione (per altro non obbligatoria) all’associazione da<br />

parte delle compagnie, l’accoglienza e il posto che viene riservato a ciascuna compagnia<br />

erano esattamente le stesse per ogni compagnia.<br />

Nel 1983 il numero di spettacoli esplose, arrivando a 256, con una progressione che<br />

si fece regolare, incessante fino ai 721 spettacoli realizzati ogni giorno da 602<br />

compagnie, in 132 luoghi, da parte di 2286 artisti (1931 attori, 107 danzatori, 149<br />

1 Mi risulta che ne fu realizzata una, la prima, proprio nel 1981 a cura di realizzata da Dominique<br />

Darzacq. Altre publicazioni recente sul Festival Off sono: Léonard, Vantaggiali 1989; Green 1992; Rasse<br />

2003 (N.d.T.).<br />

2 Léonard, Vantaggioli 1989: 110 (N.d.A.).<br />

499


musicisti, 99 cantanti), per un pubblico valutato tra i 600mila e i 700mila biglietti<br />

venduti, vale a dire, circa cinque volte quello del Festival In.<br />

Anche nella nuova “versione”, l’organizzazione del Festival Off aveva,<br />

fondamentalmente, due obiettivi: l’accoglienza e l’informazione dei professionisti del<br />

teatro (compagnie, attori istituzionali, programmatori, ecc.), della stampa e del pubblico<br />

(aderente o meno all’associazione tramite le formule di abbonamento previste); la<br />

gestione delle relazioni degli uni con gli altri.<br />

La pubblicazione del programma costitiva il principale strumento di rapporto con<br />

pubblico che in quel modo poteva disporre di uno strumento esaustivo degli eventi<br />

collegati al Festival Off. Non era possibile confrontare le pubblicazioni dell’In e<br />

dell’Off: i due documenti erano profondamente differenti per finalità, contenuti,<br />

formato, tiratura. Il lettore può solo immaginare cosa comporti, anche solo dal punto di<br />

vista grafico e dell’impaginazione, inserire in un unico documento informazioni concise<br />

ma esaustive per 700 spettacoli, quasi altrettante compagnie installate in oltre un<br />

centinaio di spazi teatrali più o meno convenzionali: una mezza colonna, una piccola<br />

foto in bianco e nero (oggi sono a colori), il nome della compagnia, il titolo dello<br />

spettacolo, la classificazione per genere, qualche riga sullo spettacolo; nulla di più;<br />

uguale per tutti. Nel 2003, la tiratura del programma del Festival fu di 130mila copie,<br />

distribuito gratuitamente a tutti gli spettatori: quel documento, voluminoso, o la sua<br />

versione tascabile, appositamente creata, diventavano la vera guida dello spettatore del<br />

Festival Off, e veniva annotata, strappata, utilizzata per scrivere nomi, appuntamenti,<br />

contatti di ogni genere.<br />

La grande casa dell’Off fu, a lungo, il Conservatorio di musica in place du Palais,<br />

proprio davanti al Palazzo dei papi, per settimane brulicante di persone: ci si recava al<br />

proprio arrivo ad Avignone per acquistare la “carta dello spettatore”, vale a dire la<br />

tessera che permetteva l’accesso a prezzo ridotto a tutti gli spettacoli, e per avere la<br />

propria copia del programma; vi si ritornava spesso per avere informazioni, riservare i<br />

posti per gli spettacoli, documentarsi ulteriormente, incontrare artisti e operatori,<br />

partecipare alla promozione dello spettacolo stesso.<br />

Ancora qualche cifra: nel 2002, il Festival Off accreditò 337 giornalisti e 1319<br />

professionisti, tra i quali molti soggetti e operatori interessati alla distribuzione degli<br />

spettacoli, come 207 teatri privati e municipali di tutta la Francia, 181 centri culturali,<br />

14 scene nazionali. Per i professionisti, oggi il Festival Off metteva a disposizione degli<br />

spazi di incontro, i dossier di ciascun spettacolo, la rassegna stampa, una copisteria, un<br />

accesso telefonico e a internet.<br />

Fino al 2004 erano quattro persone a tempo pieno a garantire la gestione dell’insieme<br />

delle attività dell’Off: il direttore, una amministratrice, un responsabile dell’ufficio<br />

stampa e una segretaria; a questi, nei quattro mesi che precedevano il Festival si<br />

aggiungevano quattro collaboratori assunti a tempo parziale, che arrivavano ad una<br />

ventina durante il mese il luglio. In appoggio, molti stagisti, e moltissimi volontari. Al<br />

lettore che intendesse ipotizzare un confronto con la struttura operativa del Festival In,<br />

potevo solo suggerire che l’apparenza delle cose poteva ingannare: non era facile<br />

ipotizzare un confronto coerente tra due meccanismi che funzionavano differentemente<br />

per il solo fatto di dover gestire processi diversi e con compiti diversi. Ogni confronto<br />

con il Festival “istituzionalizzato” rischiava di risultare veramente fine a se stesso,<br />

anche in termini di raffronti economici e di mezzi finanziari messi a disposizione in un<br />

caso o nell’altro. Sulla stampa locale lessi diverse volte dati e riferimenti piuttosto<br />

inconcludenti: ad esempio, si aveva buon gioco ad affermare che la città investiva per la<br />

500


stagione di opera lirica 4 volte di più rispetto alla sovvenzione dedicata al Festival In e<br />

1600 volte più di quanto concedeva al Festival Off; stesso ragionamento vale per un<br />

indicatore come l’ammontare del finanziamento pubblico per spettatore nel caso del<br />

Festival In e del Festival Off (in un rapporto che era, rispettivamente, di 45€ a spettatore<br />

contro 0,1€ nel 2002). La parte essenziale del budget del Festival Off, fino al 2003, era<br />

legata quindi ai 30mila aderenti all’associazione i quali garantivano un ammontare<br />

annuo di circa 300mila euro. A questa cifra andavano aggiunte i contributi che le 600<br />

compagnie versavano per figurare nel “catalogo” del Festival (319€ nel 2003), fondi<br />

attraverso i quali Avignon-Off riusciva a garantire uan riduzione del 30 per cento del<br />

prezzo del biglietto ai proprio aderenti.<br />

A partire dal 2004 qualcosa si ruppe in questo giocattolo apparentemente geniale, in<br />

questa idea che sembrava assolutamente semplice. Anzi, fu proprio a partire dal 2003,<br />

l’anno che avrebbe dovuto segnare la definitiva “vittoria” della formula dell’Off rispetto<br />

all’In, a segnare il vero momento di rottura, ma per questioni che poco hanno a che<br />

vedere con lo sciopero, come nel caso dell’In. Emersero quelle che, in un rapporto del<br />

Ministero del 2005 dedicato al Festival Off, Alain Brunsvick definì “lotte intestine,<br />

malumori più o meno latenti” tra le tante anime dell’Off di Avignone.<br />

Giusto per venire incontro alle esigenze di comprensione del mio lettore, penso sia<br />

utile e appropriato fornire un po’ di specificazioni circa la pletora di sigle con cui avrà<br />

tra breve a che fare e che “governano”, di fatto, i meccanismi più profondi del Festival<br />

OFF di Avignone.<br />

L’APO era la sigla dell’organizzazione dell’Off dal 1982 al 2006.<br />

L’AFO, che metteva assieme anche l’ARTO, in pratica sostituì l’APO. Dopo<br />

l’abbandono di Alain Léonard, co-presidenti erano Claude Sévenier e Catherine Alias,<br />

delegato generale era Jacques Massacré-Marsa. L’ARTO era nata nell’estate del 2004:<br />

Avignon réseau théâtre œuvres, e riuniva 15 teatri o spazi teatrali. Il direttore,<br />

responsabile anche del Théâtre des Trois-Pilats, era Pascal Papini.<br />

L’ALFA nacque nell’estate dello stesso anno (il 2004): Association des lieux de<br />

Festival en Avignon. L’attuale direttore era Greg Germain (Théâtre du la Chapelle-du-<br />

Verbe-Incarné, altro spazio storico di Avignone), che dal dicembre del 2005 sostituì<br />

Bernard Le Corff.<br />

Altre sigle. L’AFC (nata il 22 febbraio del 2006) era l’acronimo di Avignon Festival<br />

et Compagnies, fondata da André Benedetto e raggruppava i teatri convenzionati di<br />

Avignone (Les Scènes d’Avignon che il lettore aveva già incontrato) e l’ALFA.<br />

L’ADAMI, istituzione di carattere nazionale, era la società di gestione collettiva dei<br />

diritti d’autore letterari e artistici. Come la SIAE in Italia, essa riceveva e ripartiva le<br />

somme dovute agli artisti-interpreti, gestendo i diritti d’autore di circa 60000 artisti e<br />

interpreti.<br />

Un po’ di richiami storici, qualche punto fermo da cui partire: nel 1966 nacque il<br />

nucleo di quello che solo dopo poté essere considerato come il Festival OFF. André<br />

Benedetto mise in scena uno spettacolo in place des Carmes, in contemporanea alle<br />

attività del Festival “ufficiale”. Oggi André Benedetto era uno degli artisti e operatori<br />

teatrali che operavano stabilmente ad Avignone, dirigendo proprio il Théâtre des<br />

Carmes, a fianco di uno degli spazi più affascinanti del Festival In. L’APO era proprio<br />

l’associazione storica creata da Alain Léonard nel 1982.<br />

501


Già nel 2004, in seguito all’irrigidirsi dei rapporti dopo la fine del festival del 2003,<br />

una nuova associazione, l’ALFA, creò un programma antagonista a quello dell’APO.<br />

Alla fine del Festival 2004 Léonard lasciò la “direzione” dell’APO.<br />

Nel gennaio del 2005 Alain Brunsvick, ispettore generale al ministero della cultura,<br />

rese pubblico il suo rapporto di valutazione sull’attività dell’OFF di Avignone. Su<br />

questo torneremo appena oltre.<br />

Nell’estate del 2005 Jean-Claude Walter rimpiazzò (ad interim) Alain Léonard a<br />

capo dell’APO con la volontà di avviare processo definito di “modernizzazione”: nuovo<br />

statuto, nuovi strumenti e servizi a supporto delle compagnie, del pubblico e dei<br />

professionisti. Attraverso un escamotage tecnico, legato alla suddivisione degli introiti<br />

tra le due strutture che erano di fatto sorte, si arrivò ad una sorta di “unione ritrovata”<br />

(che somigliava ben più ad una “pace armata” da quanto si leggeva sui quotidiani) tra le<br />

due associazioni che raggruppavano i luoghi del Festival Off. E quello del 2005 fu quasi<br />

un anno record (ad esempio con quasi 30.000 tessere vendute, sommando le due<br />

proposte unificate).<br />

Il 14 novembre del 2005 l’APO nominò il suo nuovo consiglio di amministrazione. Il<br />

nuovo delegato generale era Jacques Massacré-Marsa. Mentre il successivo 5 dicembre<br />

l’APO e l’ARTO decisero di dare seguito i programmi presentati mesi prima e di<br />

“rifondare l’organizzazione generale dell’OFF”, a partire da un nuovo statuto. Bernard<br />

Turin, presidente dell’APO, invitò tutti a partecipare ad una “casa comune”,<br />

nell’interesse generale, e domandò all’ALFA di fondere le tre associazioni in una<br />

struttura unica. L’ALFA non rispose a quell’appello.<br />

Il 6 dicembre i quotidiani annunciavano: “Refondation du Festival Off. Une annonce<br />

explosive”. Nella giornata precedente era stato diffuso un comunicato stampa presso<br />

tutte le redazioni nazionali in cui, richimando il rapporto Brunsvick del gennaio 2005,<br />

ed in seguito alla nomina del nuovo direttore generale di APO, le associazioni APO e<br />

ARTO (nell’ambito dei rispettivi consigli di amministrazione del 14 novembre e del 5<br />

dicembre) avevano deciso di rifondare l’organizzazione generale dell’Off. Il giorno<br />

stesso della sua nomina, pare che Jacques Massacré-Marsa avesse preso contatto anche<br />

con l’ALFA al fine di stabilire un protocollo di accordo sulle seguenti basi: i) creazione<br />

di nuovi statuti che includessero l’insieme delle idee, dei passivi, degli attivi, dei<br />

contratti di lavoro, delle operazioni di comunicazione in corso, della coordinazione<br />

dell’insieme delle manifestazioni di spettacolo dal vivo ad Avignone realizzate da APO,<br />

ARTO e ALFA; ii) in seguito a questa rifondazione, sparizione naturale delle vecchie<br />

strutture di APO, ARTO e ALFA a vantaggio di una sola casa comune che difendesse<br />

gli interessi generali delle compagnie, dei luoghi, del pubblico e del Festival nel suo<br />

insieme.<br />

Il consiglio di amministrazione dell’ALFA, che ancora non si era pronuniciato su<br />

quella proposta doveva riunirsi solo il giorno successivo, il 7 dicembre. Mentre<br />

l’annuncio della nuova istituzione veniva già dato per fatto il giorno precedente: in più,<br />

dai quotidiani si apprendeva che una riunione di lavoro per la redazione di un nuovo<br />

statuto avrebbe avuto luogo giovedì 8 dicembre alle 9 presso la Maison Jean Vilar di<br />

Avignone, in presenza dei due presidenti Bernard Turin (APO) e Pascal Papini (ARTO)<br />

e, qualora il consiglio di amministrazione di Alfa fosse d’accordo, in presenza anche del<br />

loro nuovo presidente. Nel comunicato stampa si segnalava anche che lo stesso<br />

Ministero della Cultura sembrava apprezzare questo possibile percorso, auspicando la<br />

riunificazione delle associazioni dell’Off.<br />

502


All’opposto, non tardò ad arrivare una contro-proposta dell’ALFA, per voce del suo<br />

vice-presidente Greg Germain: i responsabili dell’Alfa, nel giudicare quanto meno<br />

«molto prematura» la presa di posizione di Jacques Massacré-Marsa, si dichiarano<br />

all’oscuro dell’esistenza di quel comunicato stampa. L’immagine che ne emergeva era<br />

che l’APO stesse cercando di mettere l’ALFA di fronte al fatto compiuto: c’era quanto<br />

meno un difetto di metodo che i responsabili dell’ALFA riscontravano, specie con<br />

riferimento alla convocazione di una giornata di lavoro proprio l’8 dicembre, il giorno<br />

successivo del consiglio di amministrazione dell’ALFA. D’altro canto, secondo<br />

consuetudine, il vice-presidente diventava automaticamente presidente, quindi di fatto,<br />

già tutti gli attori erano consapevoli della nomina di Greg Germain, il quale però<br />

sottolineava il fatto che, quanto meno, si sarebbe dovuto mettere ai voti l’eventuale<br />

partecipazione di Alfa a questa riunione di lavoro. Inoltre, secondo il neo-presidente,<br />

erano l’ALFA, l’ARTO e “Les Cinqs Scènes 1 ” che stavano preparando una all’APO.<br />

Sul Dauphiné-Vaucluse dell’8 dicembre, l’ALFA faceva sapere che non avrebbe<br />

partecipato all’incontro della mattinata organizzato dall’APO. Per quanto riguardava le<br />

proposte di quest’ultima «visant à la fusion des trois associations – Apo, Arto et Alfa –<br />

aprés leur dissolution ‘volontaire’», queste questioni, «[…] ne sont pas à l’ordre du jour<br />

d’Alfa». La rottura era diventava definiva.<br />

Il 9 dicembre la sceneggiata continuava: sempre attraverso il Dauphiné-Vaucluse, si<br />

apprendeva che l’ALFA intendeva «participer sereinement à la réorganisations du<br />

Festival», ma senza sottostare a «ingiunzioni», ovvero ad una proposta che<br />

evidentemente pareva non fosse stata apprezzata, tanto nella forma quanto nello<br />

sostanza. All’indomani dell’incontro alla Maison Vilar, il comunicato stampa del<br />

presidente di APO, Bernard Turin, era quanto meno laconico: «La refondation du<br />

Festival d’Avignon Off continue. J’ai demandé au délégué général de mettre en place<br />

dans les plus brefs délais son équipe pour l’organisation du prochain Festival 2006. Le<br />

déménagement des locaux de Paris sur Avignon aura lieu le 23 décembre prochain. Le<br />

président d’ARTO confirme sa présence dans la mise en place de la refondation. Avec<br />

le président d’ARTO, nous confirmons la création de la “maison commune dans<br />

l’intérêt général”».<br />

In un articolo apparso su Le Monde il 13 dicembre si faceva un po’ di chiarezza circa<br />

i motivi da cui erano sorti i contrasti che, già nel 2005, avevano portato a due<br />

programmi, riuniti solo nel finale attraverso l’escamotage della nascita di CFO (“Cartes<br />

off Avignon”) una struttura che, attraverso la gestione comune degli abbonamenti, ne<br />

rendesse possibile la ripartizione alla fine del Festival Off. E in effetti gli inizi della crisi<br />

erano da ricondurre proprio nello sciopero del 2003, quando, di fronte ai problemi<br />

dell’istituzione-ufficiale-In, l’Off sperava di venirne fuori proprio grazie alla sua non<br />

istituzionalizzazione (presunta). E invece, se da un lato gli organizzatori dell’Off si<br />

auguravano di poter seguire quelli dell’In verso l’annullazione, i responsabili delle sale<br />

si opposero alla decisione e riuscirono a far andare in scena i due terzi degli spettacoli<br />

programmati.<br />

Nel 2004 si arrivò a «l’invitation au suidice», come lo definiva il sottotitolo<br />

dell’articolo su Le Monde. Infatti, la crisi, da strisciante divenne sempre più manifesta.<br />

Due programmi, due abbonamenti, spesso per gli stessi spettacoli: immaginate gli<br />

spettatori, già abbastanza disorientati per la gran massa di proposte! Nell’estate del<br />

1 “Les Cinqs Scènes” era l’associazione che riunisva le cosiddette scene convenzionate da parte della città<br />

(scènes dites “conventionnées”), vale a dire Le Chene Noir, Le théâtre de Balcon, Le Théâtre des Halles,<br />

Le Théâtre du Chien qui Fume e Le Théâtre des Carmes (N.d.T.).<br />

503


2005, come accennato, una presunta pace, (o una «pace armata» come la definiva anche<br />

il giornalista). Un compromesso sul programma, una condivisione di risorse, e il<br />

tentativo di unificare gli abbonamenti (almeno agli occhi del pubblico), salvo poi<br />

dividersi i proventi in proporzione.<br />

La giornalista riportava anche una dichiarazione di Greg Germain, circa quell’invito<br />

al suicidio: «Nous ne voyons pas bien au nom de quoi nous disparaîssons au profit<br />

d’une entité dont nous n’avons suivi ni les status ni le délégué général». Neanche citò<br />

l’APO, né nel comunicato stampa subito dopo la sua nomina a presidente dell’ALFA,<br />

né nella dischiarazione successiva, resa nello stesso articolo: «Au termes de ces<br />

discussions, nous nous tournerons vers l’association qui a l’habitude d’organiser le<br />

Festival et nous verrons si elle est toujours capable de le faire. Si ce n’est pas le cas,<br />

nous irons de l’avant».<br />

La giornalista concluse il suo articolo in modo altrettanto laconico domandandosi:<br />

«Recommencer la guerre ouverte, façon 2004, ou privilégier l’intérêt général, à<br />

commencer par celui des spectateurs, en trouvant un terrain d’entente?» La domanda<br />

poteva sembrare assurda (come dice la giornalista) ma: «La réponse reste pourtant<br />

incertaine».<br />

Il 23 dicembre l’APO si installò ad Avignone (in precedenza gli uffici erano a<br />

Parigi). Solo qualche girono prima, il 18 novembre, Jacques Massacré-Marsa, nuovo<br />

delegato generale dell’APO, dichiarava: «Notre devoir, c’est l’unité et la concorde».<br />

Il 7 gennaio 2006 si annunciava la nascita di AFO, con un consiglio di<br />

amministrazione composto da 23 persone, divise in tre categorie: 9 rappresentanti delle<br />

compagnie; 7 rappresentanti dei teatri o spazi teatrali cittadini; 7 seggi destinati a «les<br />

sociétés civiles et personnalités qualifiées». I sette seggi dei rappresentanti dei luoghi<br />

del Festival in seno al cda “costitutivo” della nuova associazione erano stati pensati per<br />

essere coperti dall’ARTO (3), dall’ALFA (3 posti) e dalle Scènes conventionnées (1).<br />

Queste ultime e l’ARTO sembravano aver già accettato. Restava l’ALFA. Che per il<br />

momento, contattata dallo stesso Turin, «esprimeva una grande inquietudine». Il nuovo<br />

cda si sarebbe riunito, da quel momento in poi, al n. 45 di cours Jean Jaurès.<br />

In un articolo su Le Monde dell’8-9 gennaio (oramai la faccenda aveva raggiunto una<br />

visibilità nazionale) il presidente dell’ALFA reagì così alla nascita di AFO: «Le nome<br />

change et on se partage les places, mais les problèmes demeurent».<br />

Il 20 gennaio la querelle continua “a mezzo stampa”. Dal Dauphiné-Vaucluse:<br />

«Interrogé sur le sujet de la refondation d’Avignon Public Off, Greg Germain (presidente<br />

dell’alfa) […] déclare sa ‘sidération’ devant l’abscence de communication d’Afo. In una lettera al<br />

presidente Turin dello scorso 6 gennaio e che non avrebbe avuto ancora risposta, tra le altre cose,<br />

Germain avrebbe scritto: ‘envisagez-vous de prendre en charge l’édition d’un programme<br />

reprenant l’ensemble des manifestations présentées lors du prochain festival off? Sous quelle(s)<br />

forme(s) quel(s) tirage(s)? …’). E ancora: ‘nous apprenons par voie de presse la dissolution d’Apo<br />

e la création d’une nouvelle association Afo dont vous êtes le président et dans le conseil<br />

d’administration de la quelle des places semblent avoir été réservées à notre association. / Qu’en<br />

est-il? Quelles missions, concernant notre festival, vous seriez-vous données pour cette<br />

association? / Les représentants des Scènes d’Avignon et d’Arto qui, toujours d’après la presse,<br />

font partie su CA de cette nouvelle association, affirment ne pas avoir été consultés».<br />

In un articolo del 24 gennaio 2006 apparso su La Provence, Gérard Gélas<br />

confermava il fatto che Les Scènes Avignonnaises non faccessero parte (ancora) di<br />

AFO. E aggiungeva che, personalmente, vedeva con molte riserve una eventuale<br />

partecipazione, dicendosi perplesso, quanto meno per i metodi adottati:<br />

504


«Ces gens nous ont adressé un courrier en nous indiquant qu’une place nous était attribuée au<br />

sein du Conseil d’administration. Ensuite, on nous a dit que si Alfa ne venait pas, on pourrait peutêtre<br />

discuter pour en avoir une de plus. Il aurait fallu discuter d’abord ensemble, et voir ensuite<br />

comment on allait siéger. Nous sommes une association qui représente 1200 fauteuils et 30000<br />

spectateurs, notre président est André Benedetto, le fondeur du Off. On ne peut pas nous traiter<br />

comme ça!».<br />

Il 3 febbraio «Les Scènes Avignonnaises cercano di fare chiarezza…», titolava La<br />

Provence:<br />

«L’appel “des cinq” pour sauver le Off d’une division fatale. Alain Timar, Serge Barbuscia,<br />

André Benedetto, Gérard Vantaggioli et Gérard Gélas ont lancé un appel, hier, pour la création<br />

d’une maison commune permettant de gérer le Off dans le plus bref délais».<br />

Sul campo neutro della Maison Vilar, i cinque si incontrarono per cercare<br />

(tardivamente?) di giocare ai pompieri e per cercare di spegnere il fuoco acceso dalla<br />

nascita di AFO e dallo scontro con ALFA. Di fronte a tanta confusione il delegato<br />

generale dell’Afo non sapeva dichiarare altro che:<br />

«Il faut développer le Off et ouvrir un large débat avec une comité de réflexion. Si ça doit ce<br />

faire de façon forte, je les rejoins pleinemment. Nous avons tous réussi ensemble une pérennité et<br />

un développement. Il faut ouvrir un large débat, je pense que la disposition qu’ils ont prise est<br />

excellente. Sous cette forme ou sous une autre, l’important est de travailler».<br />

Una considerazione quanto meno particolare.<br />

La Provence del 10 febbraio:<br />

«Le Off: un seul problème à resoudre! Pour faciliter en juillet la rencontre entre les centaines<br />

de milliers de spectateurs et le centaines de troupes de théâtre, il n’y a qu’un seul problème à<br />

resoudre au profit de tout le monde, c’est l’établissement d’un seul et unique programme. Et pour<br />

cela, la constitution urgente d’un collectif qui regroupe tout le monde. Ensuite ce n’est plus que un<br />

problème technique et les personnes compétentes ne manquent pas pour réaliser ce programme et<br />

pour le diffuser. Et même pour trouver de la pub!»<br />

Il Dauphiné-Vaucluse del 12 febbraio cercò di capire come la pensavano i potenziali<br />

spettatori del Festival Off. Ad esempio, Isabella, una spettatrice dell’Off da 20 anni:<br />

vedeva una quarantina di spettacoli durante il Festival, durante l’Off, l’unico che<br />

secondo lei aveva conservato lo spirito di Vilar. Lei stessa ammetteva però che se<br />

dividersi tra “tre o quattro programmi diversi”, comprare diversi abbonamenti, sarebbe<br />

veramente una follia. La stessa Isabella, al di là dei problemi pratici e finanziari, era<br />

preoccupata del rischio di “implosione” del Festival Off. «Quello che voglio» diceva «è<br />

che l’Off perduri. E tutto quello che va nella direzione opposta mi fa paura. Forse il<br />

monopolio non è la soluzione, tanto per gli spettatori che per le compagnie. Ma per me<br />

la legittimità della gestione dell’Off resta ai creatori dell’Off, quindi agli avignonesi<br />

“qui ont pignon sur rue”». E ancora, in merito all’idea di introdurre una selezione degli<br />

spettacoli anche all’Off:<br />

«bien-sûr qu’on peut voir tout et n’importe quoi. En même temps, ce qui fait la beauté du Off,<br />

c’est ça diversité. Non, moi la seule sélection pour laquelle je serai d’accord c’est que les ‘têtes<br />

d’affiche’ qui viennet ‘roder’ leur spectacle dans le Off n’en profitent pas pour faire payer leur<br />

entrée 40 €! Ça devient courant et c’est un vrei scandale. C’est pas ça, le Off!».<br />

505


Sempre nello stesso giornale, in un articolo di spalla, parlava ancora Gérard Gélas, il<br />

più loquace dei cinque responsabili delle scene convenzionate di Avignone, il quale<br />

chiedeva a gran voce le dimissioni di Jacques Massacré-Marça. Secondo lui la vera<br />

forza dell’Off era la sua indipendenza (da chi?). Pur parlando a titolo personale diceva<br />

che «“noi” vogliamo l’unione ma con un rappresentante di ciascuna associazione (Alfa,<br />

Afo, les Scènes, Arto) e un responsabile tecnico. Viviamo», aggiungeva, «in una<br />

situazione di turbamento, e nelle situazioni come queste bisogna ritrovare le proprie<br />

radici. E le radici dell’Off sono legate a Benedetto». Su quelle basi era decisamente<br />

difficile pensare ad un dialogo. Ad ogni modo, il Festival era sempre più prossimo, e già<br />

all’epoca oltre 700 compagnie avevano già presentato i loro progetti. Da quel momento<br />

fino a fine febbraio i luoghi per gli spettacoli dovevano aver predisposto i planning per<br />

il mese di luglio. Anche ipotizzando (come sembrava emerga dall’articolo) un nuovo<br />

incontro, resterebbero solo un paio, forse tre mesi per avviare la macchina “logistica”<br />

del Festival Off 2006. O dei Festival Off 2006.<br />

Il 14 febbraio al vicepresidente dell’AFO fu conferito l’incarico di «una missione di<br />

riflessione, di dialogo, e di concertazione con tutti i partner che auspichino interagire<br />

nell’ambito dei servizi agli artisti e alle compagnie che arriveranno al prossimo<br />

Festival». A quella missione avrebbe preso parte, come “osservatrice”, un funzionario<br />

del Ministero della Cultura; inoltre già l’ADAMI e il Consiglio regionale della<br />

Vaucluse avevano confermato la loro presenza presso di consiglio di amministrazione<br />

dell’AFO.<br />

Il 20 febbraio, proprio il presidente dell’ADAMI, Philippe Ogouz, da molti anni uno<br />

dei principali sponsor della manifestazione Off, tentò invano di trovare un accordo tra le<br />

associazioni, rinnovando il proprio appoggio alla nascente AFO.<br />

André Benedetto, quello stesso giorno, dal Municipio di Avignone, lanciò un nuovo<br />

appello per la creazione di una “casa comune”. ALFA, gli spazi convenzionati di<br />

Avignone (Serge Barbuscia, lo stesso André Benetto, Gérard Gelas, Alain Timar e<br />

Gérard Vantaggioli) e i proprietari di altri spazi indipendenti risposero a quell’appello.<br />

Quarantotto ore dopo, il 22 febbraio, venne annunciata la nascita dell’AFC, con André<br />

Benedetto come presidente. Un nuovo rimescolamento di carte.<br />

Il 21 febbraio un articolo del Dauphiné-Vaucluse rendeva noto di una riunione<br />

durata, nove ore, coordinata da André Benedetto per cercare di salvare la situazione e<br />

per arrivare ad una soluzione comune per il Festival 2006. A quella sorta di tavola<br />

rotonda non partecipò il presidente dell’AFO ma il suo vice-presidente. Erano presenti<br />

70 persone (parecchie per una tavola rotonda e per un gruppo di lavoro che doveva<br />

prendere delle decisioni piuttosto importanti). La proposta di Benedetto era chiara: una<br />

“casa comune” a direzione collegiale fondata su un concetto che secondo lui doveva<br />

oltrepassare gli interessi particolari. In sostanza, un compromesso. Non ci sarebbero<br />

state decisioni da prendere in quella “casa comune” ma delle responsabilità da<br />

condividere: l’unica decisione doveva essere quella di stabilire un unico programma.<br />

Parlava di un “coordinamento” (Coordination-Off o Avignon, Festival et Compagnie)<br />

come di un luogo di collaborazione democratica e trasparente da mettere in moto il più<br />

presto possibile, entro le prossime settimane. Dopo le prime due ore, il presidente<br />

dell’ADAMIi riescì ad intervenire ponendo il suo punto di vista: invitava fortemente i<br />

protagonisti a riunirsi in quella struttura che esisteva già, nell’AFO, con l’unico<br />

problema di ridefinire un “cahier des charges” adeguato allo sforso da compiere.<br />

506


Nel pomeriggio si sarebbero dovute gettare le basi per questo progetto, ma sia<br />

l’ADAMI (che aveva chiesto la tavola rotonda) che l’AFO (poco dopo) lasciarono la<br />

tavola rotonda. A quel punto, era l’AFC a chiedere all’AFO di unirsi per costituire un<br />

programma unico. La confusione regnava sovrana!<br />

Un dossier di Vaucluse Hebdo, del 24 febbraio cercava di spiegare ai suoi lettori<br />

come, in effetti, dietro quella grande volontà di “democratizzazione culturale” vi fosse<br />

anche una grossa torta economica da spartire, in grado di garantire non solo il<br />

funzionamento del Festival in sé, ma anche la realizzazione dell’intera stagione delle<br />

sale teatrali che avrebbero continuato a funzionare anche dopo il Festival. «Ma quale era<br />

la dimensione della torta?» Per quanto rigardava le carte di adesione del pubblico, gli<br />

abbonamenti, la cifra si aggirava sui 300.000 euro (l’equivalente di circa 26.000<br />

tessere). L’anno passato questa cifra era stata divisa, come convenuto, come segue:<br />

170.000 per APO (divenuta nel frattempo AFO); 15.400 per ALFA (64 luoghi); 9.000<br />

per Les Scènes d’Avignon (6 luoghi, tenendo conto che le Petit Chien apriva solo in<br />

luglio); e meno di 7.000 per l’ARTO (14 luoghi).<br />

«Quello su cui non sono d’accordo i proseliti dell’Unione Sacra (Benedetto in testa)<br />

e quelli che si richiamano come leader naturali (Afo) è sull’utilizzo di questo denaro.<br />

Per i primi andrebbe utilizzato per un Fondo di sostegno artistico; per i secondi, sarebbe<br />

più opportuno essere previdenti per quanto riguarda la congiuntura attuale<br />

dell’associazione e utilizzare il denaro per professionalizzare l’associazione e per<br />

assumere quindi dei collaboratori e degli esperti a tempo pieno».<br />

Il primo marzo (dal Dauphiné-Vaucluse), ARTO rese noto di non voler partecipare<br />

alla nuova “casa comune” proposta da Benedetto e di preferire l’accordo con l’AFO.<br />

Il 9 marzo, per ragioni di salute, Bernard Turin lasciò la presidenza del consiglio di<br />

amministrazione dell’AFO. Il 27 marzo si passò all’elezione dei nuovi componenti gli<br />

uffici dell’AFO. In quel momento si era compiuta la divisione del Festival Off in due<br />

associazioni, AFO e AFC, basate sul raggruppamento contrapposto tra proprietari e<br />

gestori degli spazi teatrali di Avignone.<br />

Il 9 maggio l’associazione Festival OFF d’Avignon (AFO) indisse la conferenza<br />

stampa per la presentazione del Festival del 2006. La carta-abbonamento dell’OFF<br />

sarebbe stata in vendita a partire dal 15 maggio a 10 € (tariffa normale), gratuita per i<br />

giovani con meno di 18 anni, i disoccupati e altre categorie. La stampa professionale<br />

sarebbe accolta tutti i giorni dalle 10 alle 20, al n. 38 di rue du Vieu-Sextier. Il pubblico,<br />

con lo stesso orario, nella sede al n. 19 di rue des Tenturiers. La Maison du Off, vero<br />

quartier generale dell’organizzazione, sarebbe stata aperta a partire dalle 11, fino a<br />

mezzanotte, posizionata al n. 14 di rue du Rempart-Saint-Lazare.<br />

La “nuova” associazione AFO avrebbe raggrupato, al momento della presentazione<br />

del Festival, 496 compagnie e 600 spettacoli. Creata solo pochi mesi prima, l’AFO si<br />

inseriva in quel processo di rinnovamento dell’offerta di servizi che fossero sempre più<br />

rafforzati all’insieme delle compagnie presenti al Festival del 2006, sia durante il<br />

Festival sia durante tutto l’anno. La nuova équipe cominciò quindi un vero lavoro di<br />

rifondazione cominciato già dall’associazione Avignon-Public-OFF (APO), nel 2005: se<br />

il Festival Off doveva offrire servizi per la gestione dei processi logistici della<br />

manifestazione, allora doveva trattarsi di servizi rinnovati e sempre più efficienti. E<br />

tutto ciò doveva avvenire nell’ambito di una riorganizzazione interna in una logica di<br />

professionalizzazione delle competenze. Interattività, sito internet modernizzato,<br />

newsletters, attivazione di partenariati, apertura verso l’estero, dovevano marcare la<br />

507


volontà di trasformare l’organizzazione storica del Festival Off e di dotarsi quindi di<br />

nuovi strumenti per la sua evoluzione.<br />

Ci doveva essere stato molto lavoro per i notai qui ad Avignone negli ultimi due<br />

anni!<br />

Su la Provence del 2 maggio, Jacques Massacré-Marsa dichiarava che più di 400<br />

compagnie erano iscritte e più di 400 spazi teatrali sostenevano la loro azione. Le<br />

compagnie «non avevano scelta, e i giochi si faranno sulla base della qualità<br />

dell’accoglienza». Il Conservatorio, sede storica di incontro con le compagnie non<br />

poteva essere utilizzato per questioni di sicurezza (secondo quando dichiarava il<br />

Municipio). «L’AFO dunque andrà a cercare altri luoghi di incontro, itineranti e<br />

specializzati: un locale di 100 metri quadrati in rue des Teinturiers; un ufficio di 45<br />

metri quadrati al n. 45 della Cours Jean Jaurès, dove saranno venduti gli abbonameti; un<br />

altro luogo in rue Saint-Agricol, luogo di accoglienza per i professionisti; infine una<br />

sorta di bar du Off, con degli spazi aperti e tendoni su 400 metri quadrati, in rue<br />

Palapharnerie, che tra l’altro accoglieranno una quarantina di piccole compagnie che<br />

potranno così mostrare i loro spettacoli».<br />

Il 6 maggio arrivò anche la decisione della Città: «La Ville soutient les “Scènes<br />

d’Avignon». Il giorno precedente in municipio i cinque teatri si erano incontrati<br />

nuovamente sostenendo la loro idea di “casa comune” e il loro attaccamento alla<br />

creazione artistica. Sembrava avessero ottenuto il sostegno del delegato alla cultura del<br />

municipio. Benedetto:<br />

«Il faut mettre les choses au point car, depuis quelques semaines, nous avons vu venir des<br />

attaques. Nous ne réprondrons pas, sinon pour dire que nous sommes unis autour de Gérard Gélas<br />

qui a été la cible d’une lettre stupide, pour ne pas dire consternante. Nous désirons travailler dans<br />

cette ville. Depuis le 2 février, nous ne cessons d’appeler à la Maison commune. Nous sommes<br />

persuadés que nous y arriverons».<br />

Alain Timar, sempre a nome delle Scènes d’Avignon: «l’objectif est d’avoir un<br />

programme commun». Serge Barbuscia: «On ne pouvait pas laisser cette prise d’otage.<br />

Cet appel était historique». André Benedetto, dopo l’intervento del delegato alla cultura<br />

del municipio: «Il faut renforcer le théâtre de création vis-à-vis du théâtre de<br />

divertissement. Certains cherchent une infantilisation du public. Il faut défendre un<br />

théâtre qui a un esprit critique». Gérard Gélas: «êtres artiste et diriger un théâtre, ce<br />

n’est pas une sinécure. (…) Il y a un miracle à Avignon, il a des reconnaissances qui se<br />

font d’actions pérennes. Nous sommes des salariés de nos trhéâtre. Le débat reste là où<br />

il doit être, l’acteur, un théâtre populaire… Le débat va trop bas. Notre sujet, c’est l’art,<br />

le théâtre, les acteurs. Nous sommes Avignonnais jusqu’au bout des ongles dans nos<br />

esprits et dans nos cœurs”. Parlant aussi, comme dans le “virage sue”, de “respect”, il<br />

ajoute: “Avignon à un rôle moteur, ce n’est pas la couleur du monde dans lequel nous<br />

vivons”». L’articolo terminava sottolineando che il sostegno del comune era legato alla<br />

concessione in esclusiva dei locali del Conservatorio per la durata del Festival. I quali,<br />

quindi, non erano più inagibili.<br />

Di fronte alla situazione sempre più complicata dell’OFF, il ministro della cultura e il<br />

sindaco di Avignone avevano inviato una lettera ai rispettivi presidenti delle due<br />

associazioni (AFO e AFC) chiedendo di avere i rispettivi progetti per il nuovo Festival<br />

Off 2006 e per comprendere che ruolo potessero avere Stato e Comune. Di fatto, il<br />

budget di AFO, pari a circa 750 mila euro nel 2005, era composto solo in minima parte<br />

dalla componente pubblica: 4.700 euro di sovvenzione dallo stato, 2.500 dalla città,<br />

508


15.000 dal Dipartimento e 25.000 dalla Regione. Per i resto, era l’Adami a mettere la<br />

fetta più grossa (150 mila euro), con in più i 300 mila euro delle entrate proprie delle<br />

compagnie. Il budget di AFC era meno elevato, circa 400 mila euro. Come anticipato, la<br />

Città metteva a disposizione (nel quadro dell’aiuto alle Scènes d’Avignon), il<br />

Conservatorio di Musica, luogo storico dell’Off ma che, ufficialmente, non era stato<br />

fatto oggetto di richieste, a meno di due mesi dal Festival, da parte dell’AFO.<br />

In generale, le fonti di finanziamento di APO (nel passato), erano l’adesione delle<br />

compagnie all’associazione attraverso il versamento di una quota e gli abbonamenti.<br />

Per quanto riguardava il primo elemento, dopo il 2004 cambiava la forma: le<br />

compagnie non aderivano alla associazione, ma sceglievano uno spazio entrando nel<br />

circuito dell’Off attraverso questo. Nel momento in cui prendevano in affitto lo spazio,<br />

il gestione faceva firmare un contratto di adesione alla compagnia che pagava (all’epoca<br />

365 euro a spettacolo) la possibilità di vedere inserito il proprio spettacolo nel<br />

programma “ufficiale”. APO, nella sostanza, forniva un servizio ai gestori di spazi e alle<br />

compagnie che si rivolgevano a quegli spazi.<br />

L’abbonamento, nominativo, era invece appannaggio del singolo spettatore che così<br />

poteva beneficiare di una riduzione del 30% del prezzo del biglietto per tutte le<br />

rappresentazioni dell’Off. Nel 2005: 720 spettacoli; in 137 spazi (116 sale e 21 altri<br />

luoghi); per un totale di 64.190 posti a disposizione. Globalmente, quindi, una capienza<br />

compelssiva dell’Off raggiungeva 1.480.000 posti. Gli spettatori paganti furono 510.000<br />

(circa in terzo della capienza). Le entrate cumulate si aggirarono su 4,6 milioni di euro.<br />

Il cachet degli intermittenti generato dal Festival Off si aggira sui 75.000 euro.<br />

Vista la situazione di tensione, il passo verso l’entrata in scena degli avvocati era<br />

breve…! Sarebbe bastato un qualunque pretesto.<br />

Dal Dauphiné-Vaucluse del 15 giugno apprendevo che “la guerra giudiziaria” portata<br />

da AFC nei confronti di AFO riguardava l’abbonamento “public adhérent 2006”<br />

proposto da quest’ultima. L’accusa era di pubblicità fraudolenta (“publicité<br />

mensongère”). Per 10 euro questo abbonamento permetterebbe agli spettatori di<br />

beneficiare della riduzione del 10% sui biglietti degli spettacoli dell’Off. Ebbene il<br />

litigio era legato al fatto che secondo AFC non era chiaro agli occhi del pubblicoconsumatore<br />

che tale abbonamento riguardava solo gli spettacoli affiliati all’AFO e non<br />

tutto il “Festival Off” (a metà giugno, 491 compagnie per AFO e 451 per AFC).<br />

In effetti l’avvocato parigino di AFO ebbe gioco facile ad indicare come in effetti su<br />

tutti i documenti ufficiali di AFO era indicata correttamente la dicitura “spectacles<br />

affiliés”, anche se la controparte sosteneva che la dicitura fosse stata apposta solo<br />

successivamente all’avvio della procedura giudiziale tra le parti. Inoltre, sembrava fin<br />

dal 21 febbraio, AFC aveva acquistato un indirizzo internet da utilizzare per l’avvio<br />

delle proprie attività; salvo poi scoprire che AFO aveva depositato una lista di indirizzi<br />

internet estremamente simili a quello della rivale, in modo da limitare l’accesso da parte<br />

di internauti sbadati. La qual cosa non doveva essere piaciuta a AFC.<br />

Pochi giorni dopo arrivò la sentenza che in effetti dava torto al richiedente AFC, pur<br />

dimostrando che nella sostanza il dubbio poteva persistere… Ma il giudice, molto<br />

salomonicamente, non era entrato in una questione di confusione che le due stesse parti<br />

in causa avevano contribuito a ingenerare. Ad ogni modo all’AFO, da una parte, venne<br />

intimato di fare molta più attenzione a tutti i documenti ufficiali (compresi quelli di<br />

carattere comunicazionale e promozionale) che avrebbe messo in circolazione;<br />

dall’altra, AFC pensò bene di non inoltrare ricorso… che sarebbe stato comunque<br />

509


inutile, in quanto preso in considerazione solo dopo la fine del Festival. Amara<br />

conclusione di una amara vicenda!<br />

Ma quanto costava ad una compagnia uno spazio all’Off? Da un reportage di France<br />

Soir del 22 luglio del 2005 emergevano queste cifre. «Due giovani attori che mettono in<br />

scena il loro spettacolo ogni sera alle 20 e 55 precise, al Théâtre du Chien qui Fume,<br />

quindi un indirizzo “certo”, uno spazio importante, pagano 11.000 euro per l’affitto<br />

mensile. Quattro in scena, un direttore di produzione nonché responsabile di<br />

palcoscenico. L’affitto dell’appartamento: 2.500 euro al mese. Per rientrare dei loro<br />

costi devono fare il tutto esaurito per tutto il periodo della loro permanenza ad<br />

Avignone! Solitamente arrivano a coprire 50 posti su un totale di 160 a disposizione<br />

nella sala. L’investimento necessario per il periodo ad Avignone potrebbe raggiungere i<br />

25 mila euro».<br />

Non era difficile immaginare che molti degli spazi affittati per gli spettacoli, ad<br />

Avignone, apra solo durante il festival. Uno spazio teatrale con più sale e che quindi<br />

possa offrire, dalle 10 di mattina a mezzanotte, una decina di spettacoli al giorno, con<br />

affitti che variavano dai 5.000 ai 15.000 euro, poteva restare aperto anche per il solo<br />

mese di luglio per garantirsi una bella rendita per tutto il resto dell’anno. Ma nei<br />

dibattiti ufficiali queste questioni sembravano non emergere molto. Molti denunciavano<br />

la relativa statisticità della vita culturale di Avignone durante il resto dell’anno, il cui<br />

unico obiettivo sembra essere quello di ripopolare il centro cittadino: Mme Roig, alle<br />

ultime elezioni, nel tentativo di essere rieletta, fu contenta di annunciare ben 8000<br />

abitanti in più nel zona Avignone intra-mura.<br />

2002 2003 2004 2005<br />

Compagnie 602 544 553 628<br />

Spettacoli 721 661 678 767<br />

Rappresentationi 14.421 n.d. 14.000 16.500<br />

Luoghi 132 129 115 113<br />

Abbonamenti 30.766 19.915 22.431 29.000 (stima)<br />

Spettatori 650.000 300.000 400.000 600.000<br />

Creazioni 206 119 116 126<br />

Autori contermporanei 417 399 406 420<br />

Paesi stranieri<br />

12 (46) 12 (47) 25 (66) 19 (56)<br />

(n. di spettacoli)<br />

Artisti 2.286 2.379 2.172 2.500<br />

Professionisti accreditati 1.319 775 814 1.110<br />

Giornalisti accreditati 325 197 257 350<br />

7.676 spettacoli di cui:<br />

60 % di teatro (465)<br />

14% musicali (110)<br />

9% caffè-teatro, humor, one-man-show (67)<br />

4% danza (29)<br />

11% per il pubblico giovane (85)<br />

1% circo (9)<br />

1% spettacoli in strada (11)<br />

19 Paesi rappresentati per 56 spettacoli:<br />

Africa (2); Algeria (1); Germania (1); Australia (6); Belgio (19); Cile (1); Corea (2); Stati Uniti (1);<br />

Italia (3); Giappone (4); Lussemburgo (1); Olanda (1); UK (1); Salvador (1); Svizzera (6); Taiwan<br />

(2); Vietnam (1).<br />

fonte: mia elaborazione da La Marseillaise del 29 luglio 2005<br />

510


Visti questi numeri non sorprendeva come il Festival Off fosse una manifestazione<br />

attorno alla quale ruotassero molti interressi: eccole, quindi, le “molte identità”<br />

all’interno dello stesso Off e a ciascuna di esse corrispondevano interessi particolari<br />

chiaramente di natura economica. Benedetto, a cui tutti riconoscevano di essere quanto<br />

meno il padre-fondatore, spirituale, artistico, dell’Off, vedeva nel Festival OFF la<br />

possibilità di fare, in piccolo, ciò che Vilar fece in grande con il TNP, cioè utilizzare<br />

l’Off come prolungamento della stagione teatrale cittadina e per sfruttare al massimo la<br />

“capacità produttiva” degli spazi teatrali cittadini. Di fatto, tale strategia si trasformava<br />

nella possibilità, ben più importante, di trovare un strumento aggiuntivo per finanziare<br />

l’attività artistica e la stagione su Avignone, sfruttando (non me ne voglia Benedetto per<br />

l’uso di questo termine) il volano estivo dell’Off. Indubbiamente, nel momento in cui<br />

quella strategia non presentava elementi critici, devianti (e non avevo motivo di<br />

dubitarne), Benedetto e le “scene convenzionate” potevano perseguire una coerente<br />

linea strategica: l’attività di una parte ridotta, in termini di tempo, della stagione serviva<br />

a rendere possibile buona parte della restante attività lungo tutto il resto dell’anno; con<br />

la particolarità che all’attività di luglio partecipavano componenti di pubblico<br />

(componenti artistiche ma anche di spettatori) che per la restante parte dell’anno non<br />

beneficiavano dell’attività fatta ad Avignone, provenendo da altre parti della Francia o<br />

dall’estero. Ma Avignone-capitale-del-teatro poteva e doveva mettere a profitto tale<br />

specificità.<br />

D’altro canto, non vi era però da stupirsi se, allora, un certo numero di spazi teatrali,<br />

anche di una certa dimensione, durante l’anno restavano chiusi o funzionavano in modo<br />

frammentario: durante l’estate, con i prezzi (di mercato – sic!) dell’affitto delle loro sale<br />

potevano tranquillamente “vivere di rendita” fino all’estare successiva. L’inerzia<br />

organizzativa, o i fallimenti di mercato non facevano certo parte del bagaglio culturale<br />

di Benedetto, ma sicuramente questi fenomeni non gli erano sconosciuti.<br />

Certo era anche il fatto che se il Festival si svolgeva ad Avignone, un qualche<br />

impatto positivo sulla città questo doveva pur averlo. Ragionamento altrettanto lecito. E<br />

non era un caso che la municipalità tenesse molto alle Scènes conventionées, che<br />

finanzia abbondantemente, e che si sostenevano, appunto, anche e soprattutto grazie al<br />

Festival. Per quanto sia magico ciò che accadeva ad Avignone, bisognava anche<br />

rendersi conto che non si poteva tirare troppo la corda, chiedendo al “giocattolo” di<br />

produrre più di quanto questo sia effettivamente in grado di dare. Rotto il meccanismo,<br />

il rischio di implosione era straordinariamente forte, una sorta di big bang cosmico!<br />

Ecco dunque che, volenti o dolenti, servivano dei meccanismi chiari di<br />

“ridistribuzione” e di riassestamento del sistema stesso e questo non poteva che passare<br />

per una “istituzionalizzazione” del fenomeno dell’Off: l’anarchia organizzativa va bene;<br />

ma sistemi complessi, lo sappiamo bene, alternano caos organizzativo a rigidi<br />

meccanismi gerarchici, cercando un equilibrio nuovo in ogni istante 1 !<br />

Altro elemento: per come era strutturato l’Off, esso sembrava destinato a restare un<br />

fenomeno sostanzialmente avignonese o, al massimo, di carattere regionale. E credo che<br />

Benedetto così se lo immaginava all’inizio. Col passare del tempo, però, il sistema<br />

nazionale e internazionale di produzione teatrale era cambiato di molto e non era<br />

difficile pensare a livelli di professionalizzazione sempre più elevati anche per<br />

compagnie medio-piccole di altre zone della Francia e d’Europa. Nella sostanza, il<br />

mercato potenziale dal lato dell’offerta che poteva essere interessato a passare per<br />

1 Warglien, Masuch 1995; Axelrod, Cohen 2000; Rullani 2004b; Brunsson 2005 (N.d.A.).<br />

511


Avignone, tendeva sempre più ad allargarsi, a seguire quelle “reti lunghe” che il<br />

Festival In stava già costruendo e percorrendo da tempo. Avevo visto, frequentando i<br />

luoghi dell’Off e incontrando una straordinaria varietà di esperienze differenti, che con<br />

un investimento di 25.000 euro era possibile organizzare la trasferta. Una cifra notevole<br />

per una compagnia piccola, semi-professionista o amatoriale. Ma una cifra non enorme<br />

per una compagnia con un minimo di organizzazione alle spalle o con il supporto di<br />

Regioni (europee – sic!) o di altre autonomie locali provenienti da altri Stati vicini o<br />

dalla stessa Francia. Per quanto riguardava la presenza delle regioni francesi al Festival<br />

Off, nel 1995 ben tre regioni stabilirono una base ad Avignone attraverso aiuti diretti o<br />

indiretti alle compagnie: Franche-Comté, Bourgogne e Champagne-Ardenne. Altri<br />

interventi, con formule diverse, ci furono nel 1998 con il Consiglio Generale di Seine-<br />

Saint-Denis che garantiva il pagamento dell’affitto delle sale alle compagnie che si<br />

presentavano ad Avignone, o la Città di Lille, presente per proprio conto. Presente fin<br />

dal 2001, la région Centre dal 2002 finanziava direttamente le compagnie che poi<br />

potevano scegliersi i loro luoghi di riproduzione: e nel 2006 era presente in grande stile,<br />

appoggiando il lavoro di Josef Nadj che operava proprio in uno dei centri nazionali di<br />

Orléans. Nel 2004 la regione Nord-Pas-de-Calais aveva investito quasi 260 mila euro<br />

per l’affitto di uno spazio dove ospitare una quindicina di compagnie e tutte le attività<br />

promozionali collegate.<br />

Il ritorno di immagine di un intervento di questo tipo poteva essere notevole per un<br />

certo tipo di attori pubblici e privati interessati a finanziare l’avventura, specie nel caso<br />

di una organizzazione come l’Off, in cui “l’arte dell’arrangiarsi” la faceva da padrona e<br />

le barriere all’ingresso sono minime: con un po’ di savoir-faire e di energia, una<br />

Regione italiana poteva farsi conoscere da una quantità incredibile di potenziali<br />

“consumatori-turisti-professionisti culturali” e non solo, che, altrimenti, raggiungerebbe<br />

a fatica con lunghe, costose e complicate campagne promozionali internazionali.<br />

L’esempio della regione Piemonte e degli amici che avevo avuto la fortuna di incontrare<br />

nel 2006, era di grande interesse 1 . Ed era anche evidente che questo tipo di strategie<br />

divenivano tanto più possibili in una situazione come quella dell’Off ed erano tanto più<br />

improbabile nel caso dell’In.<br />

Da un lato, quindi, c’erano molti attori del sistema “costruito dall’Off” che avevano<br />

l’interesse a che le cose non cambiassero eccessivamente: che non vi fosse una<br />

eccessiva professionalizzazione in seno all’OFF; e che, di conseguenza, non si<br />

complisse troppo l’accesso allo stesso Off, attraverso sistemi di selezione artistica delle<br />

compagnie o meccanismi di prenotazione annuale, come in una qualsiasi “fiera” in cui<br />

lo spazio occupato costa caro per il semplice fatto che “non tutti possono esserci”!<br />

Nell’Off attuale lo “spazio” (forse!) non costava ancora (troppo!) caro perché era ancora<br />

possibile individuare soluzione nuove dal punto di vista logistico: bastava pagare una<br />

quota ragionevole alla partecipazione a questa festa collettiva. Nel tempo, il rischio era<br />

che l’autoregolazione non riuscisse più a fare il suo corso, entando davvero in un<br />

meccanismo di “mercato” o di “fiera”, che sarebbe davvero difficile da controllare<br />

senza adeguati strumenti. Certo, più professionalità; più servizi per tutti; magari anche<br />

maggiore visibilità; ma anche una dimensione economica che si allargava a dismisura<br />

ma alla quale partecipavano sempre più soggetti. Col risultato, come mi confermavano<br />

gli amici che avevo incontrato, che la fettina che spettava a ciascuno era sempre più<br />

1 E’ anche e soprattutto a loro che dovevo molte delle riflessioni e delle informazioni che avevo utilizzato<br />

per farmi un’idea del fenomeno Festival Off. Poter assistere a molte di quelle situazioni direttamente, da<br />

dietro le quinte, costituì indubbiamente una esperienza favolosa (N.d.T.).<br />

512


piccola. E in più, a quel punto, l’Off non poteva più essere considerato il lato “locale”<br />

del fenomeno “Festival di Avignone” (inteso In “e” Off). L’OFF pottrebbe diventare<br />

proprio quello che molti spettatori non volevano, non auspicavano: una vera e propria<br />

“piazza globalizzata”, una vetrina davvero mercantile, una specie di laboratorio a cielo<br />

aperto di “economia della cultura” nel significato più pieno dell’espressione, un luogo<br />

per fare esperimenti sociali e vedere come funzionano le leggi di mercato nel caso di<br />

alcuni dei processi cognitivi più delicati della produsione artistica nel caso dello<br />

spettacolo dal vivo. Poi vi erano anche coloro che già consideravano l’attuale Off come<br />

un esempio di “mercato”: anche questi dovrebbero essere messi in guardia sul fatto che<br />

gli scenari futuri potrebbero essere ben più complicati.<br />

Ma ciò non toglie che la visione “locale” di André Benedetto e degli altri artisti che<br />

lavoravano stabilmente ad Avignone, non poteva essere la sola strada per salvare l’Off<br />

da questi scenari potenzialmente terribili. La strada percorribile, come sempre, era ben<br />

più complessa, andava costruita e condivisa, magati cercando una via di mezzo tra<br />

“mercato” e “organizzazione”, passando magari per gestione integrata, lungo tutto<br />

l’anno e di tutto il fenomeno-Avignone, forse, facendo della città un vero e proprio<br />

centro culturale “internazionale” per dodici mesi all’anno. Avignone era una città<br />

destinata a spopolarsi nel proprio centro storico per lasciare il posto agli uffici di centri<br />

culturali nazionali e internazionali, a centri di ricerca sul teatro, a organizzazioni<br />

artistiche, a “residenze” internazionali, ecc.?<br />

Nel suo rapporto, pubblicato all’inizio del 2005, Alain Brunsvick ipotizzava tre<br />

scenari per il futuro immediato: quello del “laisser-faire”; quello della “stabilizzazione”<br />

attraverso una seria modernizzazione di APO; quello della “rifondazione” dell’Off<br />

tenendo conto dell’insieme della manifestazione.<br />

Nel primo percorso, che Brunsvick considerava meno probabile, le conseguenze del<br />

perdurare di una situazione di stasi avrebbe portato a: una disintegrazione del<br />

“funzionamento interno” dell’APO; una serie di scissioni all’interno delle “famiglie”<br />

dei luoghi del Festival; l’apparizione di movimenti opposti in seno alle compagnie;<br />

delle conseguenze non prevedibili in termini di reazione del pubblico. La seconda<br />

ipotesi si sarebbe dovuta basare su: un cambiamento dello statuto, quindi degli aspetti<br />

istituzionali, ma anche delle problematiche di ordine organizzativo legati alle specifiche<br />

relazioni che il Festival Off era chiamato a gestire (compagnie, luoghi, pubblico, partner<br />

professionali, partner pubblici); un riesame delle competenze necessarie in termini di<br />

professionalizzazione del gruppo di lavoro; una ridiscussione delle risorse economiche<br />

nello spirito di una gestione efficace e trasparente; una riflessione sulla localizzazione<br />

degli uffici tra Parigi e Avignone; una ripresa della prospettiva strategia dell’APO;<br />

l’apertura di alcuni “cantieri tecnici” relativi alle funzioni operative dell’APO (vendita<br />

degli abbonamenti, montante delle adesioni delle compagnie, criteri di accreditamento,<br />

principi di funzionamento delle prenotazioni, informatizzazione della vendita dei<br />

biglietti, ecc.); riforma sul piano della comunicazione e della circolazione delle<br />

informazioni. Infine, l’ultimo scenario era collegato alla rifondazione dell’Off tenendo<br />

conto: del Festival nel suo insieme; del contesto avignonese; della costellazione di<br />

partner professionali che possono essere collegati alla sua<br />

stabilizzazione/istituzionalizzazione.<br />

Fino a quel momento, e alla luce di quanto accadde poi, lo scenario più improbabile,<br />

in quanto meno razionale prospettato da Brunsvick mi sembrava quello più simile alla<br />

realtà dei fatti.<br />

513


L’In aveva scelto di provare a gestire e governare l’intero sistema di produzione<br />

teatrale attraverso «l’organizzazione», assumendo anche un compito specifico; l’Off,<br />

apparentemente, sembrava aver scelto la strada delle gestione delle relazioni di una<br />

parte ben precisa, di alcuni dei processi, della sua filiera, attraverso il «mercato». Di<br />

fatto l’Off sembrava essere rimasto “a metà del guado”, senza una scelta precisa e<br />

consapevole delle strategie di propagazione da attuare: quando avrà attuato un scelta<br />

coerente in una direzione piuttosto che in un’altra, la speranza è quella di non accorgersi<br />

di avere imboccato la strada del “mercato” da troppo tempo per tornare indietro o<br />

proseguire.<br />

Allora sarà davvero troppo tardi perché: certamente l’Off aveva bisogno dell’In; e<br />

altrettanto vero era il ragionamento opposto, secondo cui l’In aveva bisogno dell’Off;<br />

ma considerandoli come due facce della stessa medaglia, quale dei due “reparti<br />

cognitivi” del fenomeno-Festival di Avignone era, ad oggi, davvero insostituibile da un<br />

punto di vista dell’organizzazione dei rispetti processi produttivi?<br />

Si tratta di (ri)costruire o di costruire davvero quelle relazioni in grado di governare<br />

le forze e le incredibili potenzialità di una città chiave per la storia e la vita del teatro, in<br />

Francia e nel resto del mondo.<br />

514


XXXVIII<br />

(La filiera cognitiva del teatro contemporaneo: dal territorio alle reti comunicative. Il sogno –<br />

irrealizzato – di Jean Vilar. Il Teatro popolare, ovvero codificare linguaggi – artistici – e condividere<br />

esperienze – teatrali: strategie ibride per la trasformazione della conoscenza)<br />

E in cui il lettore cerca di comprendere se o in che modo potrà realizzarsi il sogno del<br />

fondatore di realizzare una comunità di persone che possano riconoscersi nel linguaggio del<br />

teatro <br />

515


«Cet ensemble, il m’est bien difficile de le définir. Il s’y mêle<br />

tant de choses contradictoires ! Les unes nées du travail<br />

commun. Les autres très personnelles. Est-ce le chant de la<br />

parole ? Le jeu arbitrare des éclairages ? L’amour de la pierre<br />

? Les rumeurs de la foule avant l’ouverture du spectacle, telles<br />

les rumeurs de la mer ? Ce souffle du vent ? La poussière<br />

qu’avale en jouant, certains soirs venteux, votre gorge<br />

douloureuse ? La voix du veilleur de nuit dans les couloirs<br />

déserts ? Le silente quand tous ont quitté le château dans la<br />

nuit. Les secrets ? Pour moi, pour moi seul évidemment, c’est<br />

cela la pièce d’Avignon. Cette confusion des sons, des choses<br />

et des gens. Une sorte d’interminable brouillon où l’oeuvre<br />

contemporaine se cherche en empruntant à toutes les libertés<br />

des tréteaux de la nuit. Familièrement».<br />

(Jean Vilar)<br />

«Territorio e reti comunicative»: vale a dire condividere esperienze artistiche e<br />

codificare linguaggi: avevamo riflettuto assieme su questo argomento da diversi punti di<br />

vista, ed ora mi sembrava giunto il momento di ritornarci, con qualche ragionamento<br />

(conclusivo) basato sulle vicedende del TNP di Jean Vilar. No, non un caso studio<br />

qualunque, non una controversia come tante. Ma un esempio emblematico per tutta una<br />

serie di motive: perché aveva una forza incredibile per la sua drammatica attualità; per il<br />

fatto che fu una questione così lucidamente, ordinatamente riportata dal suo stesso<br />

protagonista, a memoria di quanti avessero voluto trarne le debite conseguenze; perché<br />

era strettamente collegata tanto al Festival di Avignone, quanto, ovviamente, alle<br />

questioni che desideravo porre all’attenzione del mio lettore.<br />

In questo momento, non facevo altro che dare il giusto risalto a quegli eventi, con la<br />

consueta esortazione e con l’ammonimento di sempre, a cercare di riportare gli<br />

accadementi in modo ragionevole e attendibile. In merito a questo aspetto, qualora il<br />

lettore volesse continuare a prestarmi fiducia, posso fin da ora rassicuralo che quanto<br />

raccontato resta fedele alla realtà dei fatti.<br />

La divisione del lavoro cognitivo poggiava le basi su reti che avevano il compito di<br />

fornire ai partecipanti un modo ragionevole di condividere linguaggi (comunicazione),<br />

mezzi di trasferimento (logistica), rischi (garanzie, fiducia). Questa costituiva una<br />

rappresentazione metaforica della filiera cognitiva del teatro contemporaneo, così come<br />

me la stavo immaginando vedendola in azione. Inoltre, le reti di cui parlavo con<br />

riferimento al Festival di Avignone e agli altri attori della filiera teatrale erano: i)<br />

tipicamente “reti corte” (locali o per lo più nazionali) che stavano cercando di diventare<br />

“reti lughe” (attraverso forme di diffusione europee e globali); ii) e “reti personali”,<br />

basate cioè su rapporti diretti relativamente stabili, legate a progetti artistici temporanei<br />

o organizzazioni più o meno solide, tra un numero abbastanza ristretto di persone, alla<br />

ricerca di modalità di relazione a lunga gittata.<br />

Ripensando alla famosa parabola di Herbert Simon, a me tanto cara, degli orologiai<br />

Hora e Tempus, e col linguaggio di Enzo Rullani, una filiera cognitiva somigliava molto<br />

ad «una rete modulare composta da tanti moduli che sono tra loro differenziati ma<br />

ricombinabili, in modo da ottenere costruzioni diversi che non ripartono ogni volta da<br />

capo, ma sono capaci di riutilizzare il sapere interno ai singoli moduli 1 ».<br />

1 Oltre a Simon 1981 e a Rullani 2004b, il lettore può fare riferimento a tutta la letteratura sul cocetto di<br />

modularità per la progettazione del prodotto e organizzativa: Baldwin, Clark 1997; Calcagno 2001;<br />

Devetag, Zaninotto 2002; Ethiraj, Levinthal 2002; Sanchez, Mahoney 1996 (N.d.T.).<br />

516


Ricordavo un tentativo di rappresentazione che cercai di realizzare ancora a Parigi,<br />

dopo il mio primo soggiorno ad Avignone. Tra l’altro avevo assai ben presente anche il<br />

momento in cui disegnai quello schizzo, al Centre Pompidou, durante la visita della<br />

grande mostra sul Dadaismo. Ripensai con precisione a quel momento in quanto fu<br />

dinnazi ad un dettaglio di un’opera di Marcel Duchamp che decisi la forma di quella<br />

rappresentazione. Per quanto riguardava, invece, i contenuti, tutto mi appariva<br />

abbastanza chiaro, in quado sapevo che avrei dovuto inserire, in quella illustrazione<br />

deformata di una filiera cognitiva, alcuni attori-nodi ben precisi: degli specialisti, dei<br />

sistemisti, dei connetteori, degli interpreti (o centri di servizio); e qualcuno che fungesse<br />

da meta-organizzatore. La mia “interfaccia standard” era data dallo spettacolo teatrale, e<br />

me l’aveva suggerita Jean Vilar, ovviamente attraverso la sua meta-strategia del “teatro<br />

popolare”, la sua “regola di condotta”: quando i singoli attori del sistema avevano ben<br />

chiari in mente i “macchinari” che avevano a disposizione e che potevano utilizzare in<br />

ciascun punto della rete; allora, si sarebbe trattato solo di indirizzare la loro scelta verso<br />

le migliori combinazioni possibili di quei macchinari, in modo tale che le interfacce<br />

standard dei moduli e le architetture di ricombinazione (integrazione) della conoscenza<br />

connettiva facciano il loro compito collegando il risultato del lavoro di ognuno degli<br />

attori della rete.<br />

Ma, per l’appunto, chi forniva i mezzi a disposizione per governare la crescente<br />

interdipendenza tra attori lontani e non collegati da un rapporto diretto e personale? Con<br />

le parole di Enzo Rullani: «A questo fine devono emergere altre due figure: i connettori,<br />

che forniscono a specialisti e sistemisti i mezzi di relazione (linguaggi, logistica, sistemi<br />

di garanzia e di accreditamento) (possibilmente) poco costosi e affidabili; i metaorganizzatori,<br />

che forniscono la governance del sistema, ossia le regole in base alle<br />

quali specialisti, sistemisti e connettori possono accettare di dipendere l’uno dall’altro,<br />

condividendo parte del rischio 1 ».<br />

Era stato difficile definire chi potesse fungere effettivamente da meta-organizzazione<br />

nel caso della filiera teatrale: non era cosa facile assumersi il compito di “produrre<br />

organizzazione” per gli altri (creare senso e condividerlo), ordinando con regole di<br />

condotta appropriate un ambiente di relazioni tipicamente competitivo e agonistico<br />

come quello artistico. Come ammoniva Rullani, «il primo compito del metaorganizzatore<br />

era quello di prediare e garantire per tutti il “nucleo tecnico” della rete,<br />

ossia gli standard che consentono di definire e rendere compatibili le interfacce tra i<br />

singoli moduli 2 »; e nel caso del teatro contemporaneo, le strategie di condivisione e di<br />

codificazione della conoscenza artistica erano collegate alla creazione di una<br />

“tradizione”, vale a dire di una “estetica comune” (di un linguaggio), che potesse essere<br />

trasmesso attraverso lo spettacolo all’interno di contesti (di esperienze) condivisibili,<br />

accessibili a tutti gli attori della filiera e al più vasto pubblico possibile. Solo dopo aver<br />

stabilito delle regole di governo comuni gli altri attori della rete possono cercare di<br />

collocarvisi all’interno, di specializzarsi e di scambiare conoscenza divenuta<br />

(veramente) connettiva con gli altri attori e con il pubblico finale. Le strategie di<br />

trasferimento della conoscenza, nonché la fissazione degli standard, inoltre, non<br />

possono essere fissate una volte per tutte, ma dovrebbero essere continuamente<br />

“aggiornati” e messi in discussione: questo, nel caso del teatro e dell’arte in generale<br />

veniva spesso confuso come un problema di mezzi invece che come un aspetto legato<br />

alle finalità stesse di un processo di produzione che, per sua stessa natura, è riflessivo e<br />

1 Rullani 2000: 79-80 (N.d.A.).<br />

2 Ibidem: 81. Balwin, Clark 1997; Calcagno 2001 (N.d.A.).<br />

517


continuo. Solo una meta-organizzazione credibile e legittimata era in grado di cercare di<br />

risolvere o, comunque, di discutere sui conflitti che si ingeneravano proprio sulla<br />

generazione delle regole di governo, pena il pericolo che si incrini l’affidabilità e la<br />

sostenibilità dell’intero sistema di divisione del lavoro cognitivo.<br />

Chi, nell’ambito della filiera teatrale che stavo osservando passare in rassegna in quel<br />

momento ad Avignone, era in grado: di stabilire strategie generali e quindi le più<br />

vantaggiosa combinazioni operative per ottenere la migliore propagazione della<br />

conoscenza artistica (quindi stabilire il regime d’uso della conoscenza prodotta e le<br />

combinazioni di mediatori cognitivi da utlizzare per la sua lavorazione); di fungere da<br />

regolatore e valova di sfogo del sistema; di definire standard estetici e rendere<br />

compatibili le interfacce cognitive (sono forma di spettacoli teatrali) che dovevano<br />

prepararsi a “viaggirare” e “sovrapporsi” a contesti cognitivi (d’uso) tanto diversi da<br />

quello di orgine; di essere sufficientemente legittimato da stabilire premi e sanzioni<br />

(modalità di entrata e di uscita dalla rete) e da rappresentare la rete verso l’esterno?<br />

Più pensavo a queste caratteristiche e più mi veniva in mente lo stesso Festival di<br />

Avignone, seppur con le dovute attenzioni e i distinguo del caso. Tipicamente la<br />

funzione di meta-organizzazione, in altri settori e in altre filiere (meno evolute dal punto<br />

di vista cognitivo) era svolta sulla base del potere dei diversi operatori (in termini di<br />

dimensione, posizione strategica, facoltà di negoziare): nel caso del teatro<br />

contemporaneo tale compito poteva essere demandato allo Stato, ma come in parte<br />

abbiamo raccontato e come vedremo di seguito, per motivi diversi, il potere pubblico ha<br />

glissato o si è fatto da parte. Se si escludeva l’incredibile storia personale di Jeanne<br />

Laurent, e ai tentativi, in parte naufragati di ministri come André Malraux o Jack Lang,<br />

in Francia la situazione attuale non era certo rosea. Ne era una prova la vicenda degli<br />

intermittenti dello spettacolo. Quella stessa vicenda, però, mi faceva dubitare del fatto<br />

che lo stesso Festival potesse realmente svolgere un tale ruolo: ma a ben vedere, poteva<br />

trattarsi di una infelice situazione contingente. In effetti, in passato, la storia stessa del<br />

Festival di Avignone e del teatro contemporaneo in Francia (e in parte, anche in Europa)<br />

sembrava avesse assegnato, in una sorta di generale consenso, quel ruolo al Festival. E<br />

il Festival, specie con Jean Vilar e con Bernard Faivre d’Arcier, sembrava avesse in<br />

parte progettato e assunto con una certa consapevolezza tale funzione. In entrambi quei<br />

casi, fatalmente accomunati da lunghi periodi di direzione, la funzione di metaorganizzazione<br />

sembrava essere svolta con altri mezzi, e soprattutto attraverso la<br />

leadership: non in termini dimensionali o di potere (i quali, viste le specificità del<br />

settore, contano assai poco), ma in termini di consenso e di legittimazione proveniente<br />

dalle altre organizzazioni che percepivano nel Festival l’istituzione che potesse<br />

governare gli interessi generali. Ma per esercitare una leaderchip bisognava continuare a<br />

dare la priorità agli interessi collettivi della rete e non essere sottoposti ad attacchi<br />

dall’interno della rete stessa: da formidabile strumento di auto-organizzazione la<br />

leadership si trasforma invece in una sorta di ritorsione, un “effetto boomerang”,<br />

facendo diventare la meta-organizzazione una sorta di parafulmine del sistema o di<br />

«capro espiatorio» designato. E in parte, forse, fu proprio quello che accade a Jean Vilar<br />

nei primi anni di co-conduzione tra Festival di Avignone e TNP.<br />

***<br />

Mémento di fatti sopravvenuti nella storia del TNP nel corso degli 1952, 1953, 1954,<br />

1955 – più esattamente dal 29 novembre 1952 al 1° settembre 1955 – nonché Mémoire<br />

518


di suggerimenti, vedi di consigli, di chimere e di rimpianti espressi in buona fede da<br />

parte del direttore di un teatro, tutte cose che potranno risultare utili a coloro che<br />

destinano, attraverso l’Illusione, ad apprendere e a divertire i propri simili (Jean Vilar).<br />

Fu con queste parole che Jean Vilar cominciò a tenere il suo “memento” del TNP.<br />

Il 20 agosto del 1951, dopo la firma, a Parigi, del “cahier des charge”, del contratto<br />

di servizio che lo legava al TNP, Jean Vilar venne nominato direttore. In una nota<br />

personale di Jeanne Laurent si leggeva: «Si sentiva, a tal proposito, così sicuro che<br />

quando, dopo avergli domandato di assumersi la gestione del TNP, lo prevenni del fatto<br />

che doveva aspettarsi di essere ingiustamente attaccato e anche detestato, ma egli non<br />

credette. Pensava senza dubbio che ero offuscata dalla mia esperienza personale quando<br />

mi rispose con una tranquilla rassicurazione: “Oh! Le persone mi amano tutte”. Credo<br />

di aver insistito dicendogli: “Ebbene voi sarete odiato”. Disgraziatamente gli eventi mi<br />

daranno ragione. Dal giorno successivo la sua nomina, fu oggetto di attacchi<br />

ingiustificati. Si svilupparono delle cieche campagne denigratorie, durante le quali egli<br />

portava avanti le pesanti battaglie dei primi periodi del suo mandato 1 ».<br />

Quindi, una controversia, una polemica: un’altra, dirà il mio lettore. Ebbene, ho<br />

sempre avuto la sensazione che dalle controversie fosse possibile trarre molti più<br />

insegnamenti, rispetto che continuare, ostinatamente, a studiare fenomeni e contesti di<br />

ricerca dove tutto sembraca andare bene e la teoria collimava perfettamente con la realtà<br />

che essa stessa contribuiva a costruire.<br />

In effetti, tra l’avvio della prima stagione al TNP, come se non bastassero tutte le<br />

difficoltà di ordine gestionale, e l’estate del 1952 Vilar divenne il centro di aspre<br />

polemiche a mezzo stampa. L’8 giugno del 1952 Vilar scriveva alla Direzione del<br />

quotidiano Paris-Presse in merito ad una serie di strani articoli che annunciavano la<br />

decisione politica di chiudere il TNP.<br />

«Non è mia abitudine» scriveva Vilar «di levarmi contro le critiche che possono<br />

essere formulate nei confronti di certi miei spettacoli. Critiche e complimenti fanno, mi<br />

sembra, parte del gioco. […] Ciò posto, mi è impossibile di lasciar passare, senza<br />

protestare, l’articolo senza firma apparso nella rubrica Primière colonne nel vostro<br />

numero di ieri, in ragione delle contro-verità evidenti che esso contiene. Contro-verità<br />

che rischiano di dare ai vostri lettori una falsa immagine del TNP che ho l’onore di<br />

dirigere». Vilar si riferiva ad una serie di articoli apparsi dapprima sul quotidiano<br />

parigino e poi ripresi da altri giornali. Il titolo dell’articolo era eloquente: “Per questioni<br />

economiche. In esame la chiusura del TNP”.<br />

Nella sua lettera Vilar espose, punto per punto, ancora una volta, la realtà delle cose.<br />

«1. E’ falso che le entrate del TNP al Palais de Chaillot “oscillino attorno agli 80.000<br />

franchi”. Le entrate medie delle nostre rappresentazioni in quella sala sono, esattamente,<br />

di 391.805 franchi.<br />

Mi permetto di ricordare, in questa occasione, che i prezzi di posti praticati dal TNP<br />

oscillano tra i 150 e i 400 franchi (prezzo fissato dal Signor segretario di Stato alle Belle<br />

Arti), cosa che vi permetterà di valutare il numero di spettatori presenti a ciascuna delle<br />

nostre rappresentazioni.<br />

2. E’ falso che il contratto che mi lega allo Stato sia annuale. E’ per la durata di tre<br />

anni che sono stato nominato direttore del TNP, a cominciare dal 1 settembre 1951.<br />

3. Il vostro collaboratore anonimo parla del “fiasco” del TNP che annuncia “in modo<br />

sensazionale e sproporzionato rispetto all’importante sovvenzione che gli è conferita.<br />

1 Tratto da Jean Vilar par lui-même: 110 (N.d.A.).<br />

519


Mi permetterete dunque di mostrare ai vostri lettori qualche cifra.<br />

In sei mesi il TNP ha:<br />

- realizzato cinque pièce: una tragedia classica, Le Cid; una commedia classica,<br />

L’Avare; un dramma romantico, Le Prince de Hombourg; una pièce realista<br />

moderna, Mère Courage; una pièce poetica moderna, Nucléa.<br />

- recitato in 21 luoghi scenici differenti, tra cui: tre località della periferia<br />

parigina (Suresnes, Clichy, Gennevilliers); undici città della Germania e del<br />

Belgio; quattro città di provincia (Caen, Strasburgo, Colma, Lione); sotto il<br />

tendone di un circo (Porte Maillot); al Théâtre des Champs-Elysées; al Théâtre<br />

National del Palazzo di Chaillot.<br />

- dato 82 rappresentazioni del Cid, 25 rappresentazioni del Prince de Hombourg,<br />

22 rappresentazioni di Mère Courage, 12 rappresentazioni de L’Avare, 5<br />

rappresentazioni di Nucléa; organizzato 12 concerti, 16 dialoghi-incontri<br />

“Attore-Pubblico”; presentato le opere complete di Robert Flaherty nel corso di<br />

quattro incontri cinematografici.<br />

- Riunito in totale 180.000 spettatori di ogni origine.<br />

Infine, senza dubbio i suoi lettori saranno interessati a sapere:<br />

- che il TNP è stato chiamato per rappresentare la Francia nel corso del prossimo<br />

Festival di Venezia (sarà portato Le Cid; mentre la pièce Nucléa, altresì<br />

richiesta non potrà essere realizzata per delle ragioni tecniche);<br />

- che quarantatre città di Francia (tra cui quelle di Lione, Marsiglia, Lille,<br />

Strasburgo…) hanno richiesto i nostri spettacoli;<br />

- che delle organizzazioni culturali svizzere, tedesche e italiane hanno chiamato<br />

il TNP in settembre per una tournée che lo porterà da Ginevra a Berlino e da<br />

Monaco a Venezia;<br />

- che il TNP è richiesto per rappresentare la Francia in America del Sud (Brasile,<br />

Argentina, Cile) nel 1953;<br />

- che, infine, il VI Festival d’Arte drammatica di Avignone si svolgerà dal 15 al<br />

23 luglio prossimo.<br />

[…] Jean Vilar, direttore del Théâtre National Populaire».<br />

In seguto alla lettera aperta di Jean Vilar a Paris-Presse non mancarono le smentite<br />

ufficiali anche da parte di André Marie, Ministro dell’Educazione, da cui dipendeva il<br />

Segretario di Stato alle Belle Arti. Al di là della notizia in sé, per quanto risultasse vera<br />

o verosimile, sembrava evidente che qualcosa stava accadendo. Scrivere apertamente su<br />

un quotidiano che un ministro della Repubblica avrebbe affermato che piuttosto di<br />

chiudere l’Opera-Comique avrebbe sacrificato il TNP costituiva quanto meno un<br />

indizio. Come scrisse un quotidiano, i giorni successivi «in genere, nella false notizie,<br />

anche nelle più audaci, vi è sempre un fondo di verità». Forse era possibile rovesciare<br />

l’ottica: quelli che potevano appararire degli attacchi della stampa (fermo restando che<br />

spesso venivano comunque riportati dati e fatti in modo manipolatorio), potevano essere<br />

anche considerati degli avvertimenti e dei consigli a Jean Vilar, neppure troppo velati, a<br />

“tenere gli occhi aperti”?<br />

Il 18 settembre dello stesso anno, Vilar ricevette una lettera, ufficiale ma amichevole,<br />

dal Jeanne Laurent: nel salutarlo e nel complimentarsi per il recente successo a Berlino,<br />

voleva ricordargli i punti principali su cui era diventato vulnerabile agli occhi della<br />

critica politica. In primo luogo, l’attività lirica, esplicitamente prevista dal Contratto di<br />

servizio ma per la quale Vilar non ricevette mai adeguati fondi: Jeanne Laurent lo<br />

rassicurava del fatto che presto gli sarebbero pervenuti parte dei finanziamenti promessi<br />

520


a titolo di attrezzature e per l’occupazione della sala da parte dell’ONU, e quindi non<br />

ancora a disposizione del TNP. Inoltre era necessario annunciare delle rappresentazioni<br />

che sarebbero state date prima della fine dell’anno finanziario (31 dicembre). Non<br />

potendo pensare di realizzare uno spettacolo in così poco tempo, Jeanne Laurent<br />

ipotizzava tre soluzioni: fare appello alla RTLN (Réunion des théâtres lyriques<br />

nationaux); diffondere uno spettacolo del Festival di Avignone; fare appello ad un<br />

organizzatore di Parigi per poter realizzare delle rappresentazioni “onorevoli”.<br />

Il secondo punto controverso del Contratto di servizio era legato all’assunzione di un<br />

laureato del Conservatorio: Laurent sottolineava che doveva trattarsi di una assunzione<br />

per un diplomato appena uscito, che aveva appena terminato gli studi (articolo 32 del<br />

Contratto di servizio).<br />

Per quanto concerneva l’attività nelle periferie, l’articolo 27 prevedeva che una<br />

frazione importante dell’attività dovesse essere dedicata a quei luoghi periferici.<br />

Suggeriva che se non era in grado di programmare qualcosa per il primo trimestre<br />

dell’anno successivo, era il caso di annunciare, quanto meno, sforzi aggiuntivi per il<br />

secondo e il terzo trimestre.<br />

Quarto punto, il repertorio: seguendo lo spirito e la lettera del relativo articolo, era<br />

evidente che il repertorio francese dovesse essere preponderante. Essendo parte delle<br />

richieste, ella suggeriva attenzione per quanto riguardava la letteratura straniera.<br />

Infine, una nota circa le collaborazioni con i pittori: non si trattava di un problema di<br />

Contratto di servizio, quanto piuttosto del fatto che delle frasi di indirizzo di Léon<br />

Gischia fossero stampate nel programma stesso del TNP. Il rischio era quello di<br />

manifestare una sorta di esclusività di rapporti che poteva essere mal visto.<br />

Concludeva con queste parole Jeanne Laurent: «Mi attendo di ricevere una<br />

comunicazione di Debû-Bridel [il redattore del rapporto di fine anno e del budget –<br />

n.d.t.] in vista della realizzazione del suo rapporto. Gradirei che tutto fosse in ordine<br />

quando la sua lettera mi arriverà. / Sarei più tranquilla se poteste, tra qualche giorno,<br />

fare una apparizione di quarantotto ore qui a Parigi. Più ci rifletto e più mi sembra<br />

indispensabile che non attendiate il 15 ottobre. / Mi rimprovero di non aver insistito,<br />

prima della vostra partenza, per fare il punto della situazione con voi. Allego a questa<br />

noiosa lettera un rapporto di Dullin che sono certa vi interesserà» 1 .<br />

Fine ottobre: in seguito ad un grave intervento chirurgico che doveva subire, Jeanne<br />

Laurent venne letteralmente sollevata dall’incarico di sotto direttrice degli spettacoli e<br />

della musica al Segretario di Stato alle Belle Arti. André Cornu, nominato segretario<br />

proprio nell’agosto del 1951 (assieme alla nomina di Vilar al TNP), la sostituirà con<br />

Amable Massis. Fino all’età della pensione Jeanne Laurent venne trasferita dapprima al<br />

“servizio universitario delle relazioni con l’estero e nei territori d’oltremare” e poi, nel<br />

1959, alla direzione alla Cooperazione, incaricata degli scambi universitari e degli<br />

accordi internazionali 2 .<br />

1 In Mémento: 283-284 (N.d.A.).<br />

2 La storia “istituzionale e umana” di Jeanne Laurent non era solo quella di un funzionario efficiente e<br />

attento. Jeanne Laurent ebbe un ruolo determinante, eppure assolutamente oscuro al grande pubblico e<br />

agli stessi addetti ai lavori, nel funzionamento degli uffici del Ministero dell’Educazione dedicati al<br />

settore artistico e culturale. Con una bella ricerca pubblicata nel 2005, il “Comitato di storia del ministero<br />

della cultura” ha cercato di colmare la lacuna (Denizot 2005). Mi riprometto le vicende di questa grande<br />

protagonista della storia culturale francese e di approfondire la “storia istituzionale”, della nascita e dello<br />

sviluppo, di un “servizio pubblico” e di un intero apparato burocratico dedicato al settore culturale<br />

(N.d.T.).<br />

521


Quella improvvisa defezione, che risultò orchestrata internamente al Ministero<br />

dell’Istruzione e da parte degli stessi ambienti amministrativi degli uffici governativi 1 ,<br />

privò Jean Vilar della sua principale sostenitrice in seno agli ambienti politici.<br />

Nel novembre del 1952 una serie di quattro articoli intitolati “Malaise au TNP”<br />

(pomposamente etichettati come “Inchiesta”), apparvero sul Combat, a firma di Jean<br />

Carlier.<br />

Nel prologo del primo articolo scriveva: «Certe inquietudini sono nate in seguito alla<br />

partenza di M.lle Laurent, sotto-direttrice degli Spettacoli alla direzione dell Arti e<br />

Lettere. Cosa accadrà a Jean Vilar e al suo TNP? Lo lasceranno continuare o, al<br />

contrario, ne ridurranno la sovvenzione, o addirittura la elimineranno semplicemente?<br />

Si sa che il presidente André Marie non è uno dei più calorosi partigiani del TNP e ci<br />

fu anche un momento, la stagione scorsa, in cui aveva rilasciato pessime intenzioni con<br />

riferimento alla sua esistenza». La lettera continuava alludendo apertamente alle<br />

possibili azioni da parte dei “nemici nascosti” del TNP che potevano spingere qualche<br />

parlamentare ad essere interpellato, in modo indiscreto, al momento del voto del budget<br />

per l’anno successivo. Che fosse una minaccia o una semplice allusione per riportare in<br />

modo subdolo sensazioni colte negli ambienti politici, si trattavano comunque di<br />

affermazioni molto pesanti. Era tempo di “vegliare sul grano”, scriveva il giornalista,<br />

visto che oltre alle minacce esterne egli paventava anche delle non meglio precisate<br />

minacce interne al TNP. E continuava: «Dopo essere stati i primi a dedicare delle<br />

pagine lo scorso fine settimana, a l’Avare e anche a L’événement Nucléa, vogliamo ora<br />

essere i primi a suonare l’allarme e a gridare amichevolemente “casse-cou! 2 ” a Jean<br />

Vilar». La descrizione della vita di Jean Vilar, e della svolta epocale che essa stava<br />

prendendo, lasciava però l’amaro in bocca: «[…] Come un attore che l’età obbliga a<br />

cambiare lavoro, questo intellettuale mal nutrito, presto invecchiato […], non ha più il<br />

gusto di vivere con le crudeltà del bohème. Ora dispone dei mezzi materiali sufficienti<br />

per realizzare gli spettacoli che egli stesso sceglie e parallelamente questo profeta della<br />

privazione e delle solennità drammatiche si ricorda di essere un uomo: […] gli è venuta<br />

voglia di comprarsi un appartamento confortevole al quale egli non pensava di certo<br />

prima e una bella cabriolet Salmson […]. “Si è imborghesito”, dicevano i giovani con<br />

meno di trent’anni, come se non volessero vedere che lui, l’uomo di teatro, poteva<br />

cominciare a quarant’anni anche una vita d’uomo tout court».<br />

Nel secondo episodio dell’inchiesta il giornalista richiamava la conferenza stampa<br />

che Jean Vilar aveva indetto per il 20 novembre (il giorno dopo il secondo articolo),<br />

intitolata “Le théâtre et la soupe”: indubbiamente lasciava intendere che si sarebbe<br />

trattato di una difesa forte e circostanziata da parte di Vilar. Come sempre, del resto 3 .<br />

Anche il ricordo delle circostanze della sua nomina erano riportate in modo impietoso:<br />

«forte del successo che stava ottenendo attraverso il suo primo vero contatto con il<br />

grande pubblico parigino, forte del recente trionfo del suo nuovo Cid avignonese, forte<br />

della sua esperienza del plein air, rivitalizzante per le tecniche della messa in scena,<br />

forte del suo gruppo completamento votato allo “spirito Vilar” e forte del sostegno<br />

entusiasta della stampa di estrema destra come di estrema sinistra», Vilar veniva<br />

presentato come il solo candidato per il TNP. «E subito si posero al nuovo direttore del<br />

1 Denizot 2005 (N.d.A.).<br />

2 «Crier a casse-cou!» è una espressione gergale francese che significa mettere in guardia qualcuno da un<br />

pericolo imminente. Letteralmente, “casse-cou” significa “scavezzacollo” (N.d.T.).<br />

3 E’ possibile leggere l’intera conferenza stampa ne “Théâtre Service Public”, edizioni Gallimard, Parigi,<br />

1974, p. 149 e ss. (N.d.T).<br />

522


TNP i dati per il problema da risolvere: gli diedero una sessantina di milioni l’anno ai<br />

quali si aggiungevano le entrate più o meno detassate e i frutti dell’affitto della sala. Di<br />

questi cento milioni le perdite eventuali o gli incassi erano a suo carico. Ii soli acquisti<br />

fatti per il teatro restavano di proprietà dello Stato. Avventura eccitante per il vecchio<br />

allievo di Dullin che non aveva mai trovato davvero, presso il suo maetro, l’occasione<br />

di impegare in pieno i suoi talenti: inoltre era libero, per tre anni di scegliersi i<br />

collaboratori e le opere da rappresentare del suo repertorio sotto la semplice condizione<br />

di portare le masse popolari al teatro e più in particolare di costituire i “bastioni”<br />

dell’arte drammatica nei dintorni di Parigi e nelle periferie. Si trattava, in sostanza, di<br />

fare un teatro sia “nazionale” che “popolare”. Queste condizioni Jean Vilar le accetto<br />

con entusiasmo. Ed anzi andò anche pià avanti, scrivendo in cima al programma del<br />

primo festival: “Creare dei teatri vivi ai margini di Parigi, risponde, mi sembra,<br />

all’attuale realtà demografica di Parigi, e dunque della Francia… Il nuovo TNP sarà ciò<br />

che il pubblico di questa nuova Parigi farà”».<br />

Dopo la conferenza stampa di Jean Vilar, l’inchiesta del Combat proseguiva e: «dopo<br />

aver fatto il punto su “l’uomo Vilar”, sul suo considerevole apporto al teatro, sulle sue<br />

riuscite e suo suo attuale smarrimento, noi ora aggiorneremo certi errori che possono<br />

essere corretti». Ricordando che una delle reazioni più insensate all’inchiesta era legata<br />

alla sensazione che nulla di concreto vi fosse in quelle affermazioni azzardate, il<br />

giornalista spiegava come, invece, esisteva per davvero un dossier di questa offensiva<br />

«ed è quel dossier che noi oggi apriremo. Un dossier che esiste… e in diversi esemplari.<br />

[Infatti] nel suo ufficio, M. X aveva aperto una cartella con una copertina barrata di<br />

rosso e con tre lettere maiuscole: “TNP”. M. X è un parlamentare e gli amici che sanno<br />

l’interesse che nutre per le cose del teatro gli hanno lasciato poco riposo dalla partenza<br />

di M.ll Laurent. Coloro che lo avevano sommerso di telefonate anti-Vilar alla fine della<br />

primavera socorsa, hanno rilanciato a cominciare da questo autunno. Da l’uno all’altro il<br />

tema non varia molto: “Lei” è partita, ora sbarazziamoci di “Lui”. Ancora meglio:<br />

sbarazziamoci del TNP visto che ci siamo. Si può fare della sala del Luxembourg una<br />

sezione “popolare” della Comédie-Française. Sarà più che sufficiente. E’ per questo che<br />

M. X […] ha intitolato “TNP” e non già “Jean Vilar”, il dossier in cui riunisce gli<br />

elementi che gli apporteranno, pazientemente, le informazioni di suo interesse. Per<br />

stabilire i suoi argomenti, M. X si interessa più ai numeri che alla dottrina. Che Jean<br />

Vilar abbia ripreso a recitare L’Avare, o il dispositivo immaginato da Copeau per Les<br />

Fourberies de Scapin, queste cose lo lasciano indifferente. Piuttosto annota: che il TNP<br />

riprende questa stagione i “quattro” dell’anno precedente, riveduti e corretti; che una su<br />

due delle pièces in programma sono degli adattamenti di opere straniere; che Jean Vilar<br />

non ha mai realizzato lo spettacolo di opera lirica che gli era imposto dal suo contratto<br />

di servizio; che non si trova traccia, almeno fino a quel giorno, dell’impegno ad<br />

assumere un diplomato del Conservatorio, così come imposto dal contratto; soprattto<br />

che il TNP non compie la missione che gli era stata conferita in origine in modo molto<br />

chiaro e preciso e nei termini che lo stesso Jean Vilar aveva confermato nel suo<br />

manifesto: portare a teatro le masse popolari di Parigi, della sua periferia e della<br />

Francia, insistendo sulla creazione di quei “bastioni” dell’arte dramamatica nella<br />

periferia della capitale». Sempre da quel dossiere apparirebbe come: «Jean Vilar dopo<br />

aver dato la stagione scorsa 26 rappresentazioni teatrali al Palais de Chaillot, 16 a<br />

Suresnes, 14 a Clichy e 17 a Gennevilliers non è più tornato nelle periferie fino a<br />

febbraio, ha fatto numerose tournées di cui una in Belgio, una in Svizzera, una in Italia e<br />

due in Germania. Cambieranno le cose quest’anno? No. Egli annuncia solo due serie di<br />

523


10 giorni ciascuna in periferia e qualche settimana a Chaillot. Il resto del tempo affitta a<br />

caro prezzo la sua immensa sala (38 volte l’ultimo mese per esempio, e continua a<br />

viaggiare spesso oltre frontiera).<br />

Ora, M. X sa che durante le sue tournée il TNP non è tenuto, salvo che per le<br />

rappesentazioni dette “popolari”, ad applicare i prezzi massimi dei posti a 400 franchi.<br />

Così a Berlino i posti più cari si pagano 10 marchi (circa 800 franchi), a Vicenza da<br />

1.200 a 2.000 lire (da 800 a 1.400 franchi) e a Venezia da 5 a 7.000 lire (circa 5.000<br />

franchi). Quanto alle tournée nelle province francese, accade che queste danno<br />

all’amministratore del TNP l’occasione di aggiungere al suo budget le sovvenzioni<br />

municipali delle città che tocca (si dice, ad esempio, che la città di Caen accordò una<br />

sovvenzione di 100.000 franchi per rappresentazione). Ciò spiegherebbe il suo gusto per<br />

i viaggi, in quanto tutti sanno che il TNP è il più caldo sostenitore delle tournée.<br />

Arrivato a questo punto del suo dossier, M. X si attarda sul capito “amministrazione”,<br />

forse il più copioso.<br />

L’amministratore del TNP si chiama M. Rouvet. Vecchio istitutore distaccato alla<br />

testa del movimento “Educazione e Teatro” […] fu Mlle Laurent a presentarlo a Vilar,<br />

consigliandogli di integrarlo nel suo gruppo già formato al momento del suo ingresso a<br />

Chaillot. Presto, la scarsa salute del “patron” e la sua scarsa attitudine al calcolo gli<br />

fecero assumere [a Rouvet] una importanza sempre più grande. Egli ne approfitterà per<br />

trasformare un gruppo unito dallo sforzo comune e dall’amicizia in un’enorme<br />

macchina burocratica inondata di centinaia di note di servizio e in cui le lettere<br />

raccomandate sostituivano i rapporti umani. Fu così che, poco a poco, una serie di<br />

barriere separarono Jean Vilar dai suoi più stretti collaboratori. Chiuso nella sua torre<br />

d’avorio – l’ufficio direzionale – lascia che il suo amministratore organizzi lui stesso le<br />

tournée e tratti gli affari al suo posto […].<br />

Tutto ciò (e ben altre cose di cui volontariamente noi non faremo menzione), M. X<br />

ha annotato. Con l’intenzione di mantenere il silenzio, per il momento. Egli spera che<br />

Jean Vilar continui a “lasciar fare”. M. X lo spera, nel qual caso le sue interpellanze<br />

saranno già pronte per essere diffuse. […] Domani fine della nostra inchiesta: “Jean<br />

Vilar, volete prendere la direzione del TNP 1 ?”».<br />

A posteriori, potevo immaginare che le informazioni errate, sbilenche, a volte<br />

decisamente inverosimili riportate dal giornalista altro non fossero che coerenti<br />

“estratti” di quei dossier, di quei discorsi, (per l’appunto, imprecisi, disinformati,<br />

manipolati) che venivano realizzati negli ambienti politici: riportare in modo “coerente”<br />

le informazioni “errate” che egli aveva, significava forse suggerire a Vilar i toni e gli<br />

argomenti che avrebbero usato contro di lui?<br />

Il 29 novembre, Vilar cominciò a tenere il suo diario: «Non faccio meglio degli altri,<br />

faccio diversamente […]» (p. 9): a poco più di un anno dalla sua nomina Jean Vilar<br />

sentì forte l’esigenza di ammonire, di richiamare con forza la sua specificità.<br />

Una nota “retrospettiva” nel memento, datata: 29 settembre 1952, a Parigi. «Tra la<br />

libera creazione e il o i poteri la situazione non è evoluta molto dalla fine del XIX<br />

secolo. In questi giorni leggevo – e per la prima volta – il giornale di André Antoine<br />

concernente la sua prima direzione dell’Odéon (1896). La sua querelle, mi sembra, è del<br />

tutto identica alla mia. Ella è la mia. […] Dagli ultimi anni dell’altro secolo, se è certo<br />

che i gusti e lo stile sono cambiati, i conflitti tra il responsabile di un teatro nazionale e i<br />

1 In Mémento: 290-296 (N.d.A.).<br />

524


poteri pubblici, tra tale responsabile e le amministrazioni – e una certa stampa – sono<br />

esattamente identiche».<br />

Intanto, Jean Vilar era alle prese con tale Signor Lagrenée, l’ispettore delle finanze<br />

mandato per controllare i suoi conti. Lo stesso, come il lettore ricorderà, che chiese di<br />

poter aprire la cassaforte del teatro per contare «fino all’ultimo pezzo da venti<br />

centesimi!». Da meno di venti giorni Maurice Clavel era segretario generale del TNP:<br />

«era proprio l’amico e l’uomo che ci voleva al posto giusto in quel momento di tormenti<br />

che stavamo attraversando. Gli affidammo con onestà la nostra gestione, era un uomo<br />

vivo, determinato, perspicace, calmo. E dalla risposta pronta» (p. 12), non mancò di<br />

sottolineare Vilar.<br />

Tutto cominciò, proprio in seguito alla discussione da parte del Consiglio della<br />

Repubblica, del budget delle Belle Arti, nel dicembre del 1951 e che Vilar si ritrovò<br />

sulla scrivania di ritorno da una tournée in Germania e nell’ovest della Francia. Proprio<br />

come temeva Jeanne Laurent; e proprio come paventavano i giornali. Quelli che<br />

seguono erano alcuni estratti della lettera aperta che Jean Vilar indirizzò al Senatore<br />

Jacques Debû-Bridel, redattore del rapporto che prevedeva il taglio della sovvenzione al<br />

TNP di 10 mila franchi, a titolo di “avvertimento” circa la gestione del teatro.<br />

In primo luogo, Vilar riportò per punti gli elementi discordanti pubblicati nel<br />

rapporto:<br />

«M. Jacques Debû-Bridel redattore:<br />

“[…] Il tentativo del TNP è da incoraggiare ma gradiremmo, per diverse ragioni, che<br />

non limitasse la sua attività alla sola periferia parigina. In questa periferia il Consiglio<br />

Generale della Senna fa, da due anni, uno sforzo meritorio modesto accordando una<br />

sovvenzione di 3 milioni di franchi che permetterebbero ad una decina di giovani<br />

compagnie, tutte selesionate del resto dal vostro servizio, per dare delle<br />

rappresentazioni.<br />

L’opinione politica degli artisti – tengo a precisarlo – non ci riguarda. Ma<br />

nell’attività del teatro popolare, a fianco dello spettacolo, ci sono i canti, les danze, “le<br />

veau froid (Sourires)”; c’è il pubblico mondano di Parigi che si sposta in periferia in<br />

macchine di lusso come si va ad una festa in campagna; c’è tutta una atmosfera che<br />

potrebbe essere utilizzata a dei fini politici nel momento in cui c’è tra le organizzazioni<br />

piene di talento – alle quali ho reso un omaggio meritato – ed un certo partito politico<br />

dei legami certi.<br />

La riduzione di 10.000 franchi che è stata operata su questo capitolo dalla vostra<br />

commisione finanza ha come semplice significato, Signor Segretario di Stato, di dirvi:<br />

uno sforzo artistico nazionale, veramente nazionale, allargato a tutta la Francia? Si, ma<br />

non limitato ad un piccolo angolo di periferia e soprattutto, che dietro questo sforzo<br />

nazionale non appaia alcuna attività politica quale che sia (Applaudissemts)…».<br />

Successivamente Vilar rispose punto per punto alle insinuazioni del senatore:<br />

«Nel momento in cui lei pronunciava queste parole, Signor Senatore, noi ci<br />

trovavamo in Germania, a Norimberga per essere precisi. Il nostro Direttore di scena-<br />

Produttore, Camille Demangeat (che, lei forse lo sa, fu per 15 anni il Capo-Macchinista<br />

di Luois Jouvet), stava realizzando al “Lessig Theater” il nostro dispositivo scenico.<br />

Non aveva dormito da due giorni, dovento smontare e trasportare quello stesso<br />

dispositivo scenico che ci era servito, la vigilia, ad Augsburg; il nostro Capo-Elettricista<br />

installava le batterie per i proiettori; i nostri attori, dopo aver trascorso l’intera giornata<br />

in auto, facendo quello che noi del mestiere chiamiamo “raccordo”, vale a dire le prove<br />

525


delle entrate e delle uscite di scena. Uno dei nostri compagni entrava in ospedale per<br />

subire una grave operazione, e dovette essere rimpiazzato d’urgenza.<br />

Ognuno lavora al proprio meglio, cosciente del fatto che deve applicarsi per una<br />

missione di propaganda francese in un paese, Debû-Bridel se lo ricorderà forse, non ci<br />

ha mai portati nel suo cuore, e in una città che ha sentito ben altra musica […] rispetto<br />

al quartetto che accompagna il Cid […].<br />

In quel momento esatto, Signor Senatore, lei domandava che una riduzione di 10.000<br />

franchi sia operata sulla sovvenzione del TNP, abbattimento che, secondo il vostro<br />

pensiero, dovrebbe avere il carattere di un avvertimento.<br />

Perdonatemi, Signor Senatore, il lungo preambolo.<br />

E permettetemi di rispondere ora, punto per punto, alla vostra argomentazione.<br />

1. Sono il solo Responsabile e unico Direttore del TNP.<br />

2. Non appartengo ad alcun partito politico. Affermo che non esistono, sotto alcuna<br />

forma, dei legami personali o collettivi, di qualunque tenore, tra la Direzione del TNP e<br />

qualunque partito politico.<br />

Ogni affermazione contraria a questa evidenza è particolarmente gratuita.<br />

E grave.<br />

Il TNP si è, una volta per tutte, tanto che l’ho indicato nel nostro programma, fissato<br />

per obiettivo di dare al pubblico popolare delle opere teatrali di valore, interpretate da<br />

una compagnia di alto tenore, con una presentazione di qualità. Questo scopo può<br />

apparire strano a coloro la cui attività non è di ordine strettamente artistico. A me,<br />

questo scopo è sufficiente.<br />

[…] Mi interrogo, Signor Senatore, sulla natura degli elementi che sono alla base<br />

dell’affermazione, estremamente grave, che lei ha emesso dalla tribuna del Senato […].<br />

3. Nel contratto – stabilito lo scorso 20 settembre – che lega tutto il mio personale<br />

artistico, amministrativo e tecnico al TNP, sono inclusi gli articoli che seguono:<br />

“Art. A – M. … ha l’onore di fare parte della Compagnia del TNP dal … al …<br />

Art. B – M. … si impegna a mettere al servizio del TNP tutte le sue qualità<br />

professionali. Si impegna a lavorare nel miglior spirito in seno alla Compagnia.<br />

Art. C – M. … non ignora che l’impresa del TNP è un’opera nazionale e francese;<br />

così come il Direttore, un membro di questo TNP assume un impegno pubblico. Deve<br />

dunque avere la passione della cosa ben fatta, e ammettere, così facendo, che le direttive<br />

e i suggerimenti del regista o del Direttore obbediscono a questa preoccupazione<br />

disinteressata.<br />

M. … sa anche che l’impresa del TNP è un’opera collettiva, all’interno della quale<br />

l’attore riceve il senso della sua propria missione, quella terribile di presentare al<br />

pubblico il lavoro di coloro che, in altri posti, hanno accettato di assumere compiti<br />

oscuri, ma comunque essenziali: amministrazione e segreteria generale – dattilografia –<br />

posta e contabilità, marketing, comunicazione – regia di scena, macchinista, attrezzista,<br />

costumi, strumenti elettrici, sonoro, servizi di biglietteria e di controllo della sala, ecc.<br />

Il personale del TNP costituisce attorno al Direttore un gruppo unito. Ogni membro<br />

di questo gruppo realizza il compito che gli è assegnato, senza recriminazioni, e in<br />

coscienza”.<br />

4. E’ inesatto che noi abbiamo limitato la nostra attività “ad un piccolo angolo di<br />

periferia”. Se le vostre funzioni di redattore del Budget delle Belle Arti vi lasciano il<br />

piacere di tenervi aggiornato dell’attualità teatrale, lei non potrà ignorare che dal<br />

“piccolo angolo” (sic) di Suresnes, siamo andati in un altro “piccolo angolo” (sic) che si<br />

chiama Clichy, poi nella città danneggiata di nome Caen, poi in cinque grandi città<br />

526


tedesche, poi a Strasburgo e a Colmar. Lei saprà, infine, che andremo a recitare il “Cid”<br />

a Lione il 14, 15, 16 e 17 gennaio; che andremo a rendere visita a tutte le città<br />

universitarie del Belgio, e in Lussemburgo, tra il 21 e il 30 gennaio. Infine lei conoscerà<br />

i nostri progetti più lontani: 15 giorni a Gennevilliers, a partire del 3 febbraio, un mese<br />

al Théâtre des Champs Elysées a partire dal 23 febbraio, per non parlare delle<br />

rappresenazioni che daremo al Théâtre du Palais de Chaillot quando l’ONU ce ne avrà<br />

reso il godimento, e del prossimo (il VI) Festival di Avignone.<br />

Lei troverà allegato una nota delle nostre attività.<br />

5. Poiché, ancora, le opere scelte dal TNP sembrano essere oggetto di discussione tra<br />

il Signor Segretario di Stato alle Belle Arti e lei stesso, mi sembrerebbe indispensabile,<br />

Signor Senatore, di ricordarle a quale condizioni ho accettato il compito, pesante<br />

credetemi, di dirigere il TNP.<br />

Preciso:<br />

a) che queste funzioni mi rendano “finanziariamente responsabile della gestione<br />

del TNP;<br />

b) b) ce la sovvenzione che mi è versta miri solamente a coprire la differenza che<br />

esiste tra il prezzo che ci è imposto da decreto del Signor Segretario di Stato<br />

alle Belle Arti (e che, come lei sa, deve stare tra 100 e 400 franchi), e il prezzo<br />

che dovrebbe essere praticato nel quadro di uno sfruttamento commerciale<br />

normale. In sostanza, il TNP beneficia di una sovvenzione del genere di quelle<br />

che sono attribuite ai produttori di frumento o di latte, a compensazione del<br />

prezzo sociale che impone loro l’autorità amministrativa;<br />

c) infine, che la scelta delle pièce sia lasciata al mio solo giudizio.<br />

Un uomo di teatro degno di questo nome, non saprebbe, in effetti, accettare di<br />

dipendere da una censura politica qualunque.<br />

Le opere sono state scelte in ragione della loro sola qualità artistica. La tradizione<br />

teatrale francese, forse lo ha dimenticato, Signor Senatore, è, da Tartuffe, una tradizione<br />

di libertà. Se mi fosse impedito di mettere in scena “Mère Courage” sotto il pretesto che<br />

vi si possa vedere una satira della guerra e dei suoi orrori, mi sarebbe allora impedito<br />

domani di montare “Le Prince de Hombourg” sotto il pretesto che vi si faccia l’elogio<br />

della Ragion di Stato; e dopodomani, “La Mort de Danton” perché certi vi vedrebbero<br />

l’apologia della Rivoluzione, e altri della Monarchia.<br />

Voglio credere, Signor Senatore, che questo aggiornamento conduca a dissipare ciò<br />

che forse era solo un fraintendimento. Ne faccio appello da M. Debû-Bridel mal<br />

informato a Debû-Bridel meglio informato.<br />

Non posso credere che il Redattore del Budget dele Belle Arti si rifiuti di prendere<br />

più tempo per considerare la verità, e forse ancora lo sforzo che i miei compagni ed io<br />

facciamo per la continuità di un’arte che è servita, più che ogni altra senza dubbio, al<br />

prestigio della Francia.<br />

E’ con questa speranza che la prego di credere, Signor Senatore, alla mia più sincera<br />

considerazione.<br />

Jean Vilar (allievo di Charles Dullin)».<br />

Tra il 29 e il 30 gennaio del 1953 Vilar ricevette le dimissioni di Jean Rouvet. Il suo<br />

fedele amministratore non poteva sopportare tutte quelle increbili e insensate pressioni.<br />

L’11 febbraio M. X (e si, dirà il mio lettore, allora esisteva davvero!) chiese di<br />

incontrare Vilar. Lo informava che entro una settimana sarebbe stato aperto un dossier<br />

che lo riguardava personalmente, con l’accusa di “sottrazione di fondi dello Stato”.<br />

Secondo il suo primo contratto di servizio firmato (forse frettolosamente) nel 1951 Jean<br />

527


Vilar non aveva diritto ad alcuna forma di retribuzione che non fosse quella proveniente<br />

dai guadagni (eventuali) dell’attività del TNP. Secondo le accuse, Vilar avrebbe<br />

prelevato, a titolo di acconto e per qualche mese, del denaro dalle casse del TNP, salvo<br />

poi restuirlo alla data dell’8 novembre del 1953. Vilar dovette attendere il nuovo<br />

contratto di servizio del 1954 per vedersi riconosciuto il diritto a prelevare denaro a suo<br />

beneficio e a titolo di acconto rispetto al risultato finale della attività del teatro.<br />

Pochi giorni dopo, Rouvet ritirò le sue dimissioni. Nel marzo del 1953 cominciò a<br />

ragionare per la redarre un nuovo contratto di servizio. Dalle sue recenti esperienze,<br />

specie in Italia, apprese che non era proponibile essere costretti a presentare ogni anno<br />

un’opera lirica senza ottenere risorse adeguate. Altro aspetto, che aveva dell’incredibile:<br />

da alcune parti gli veniva quasi riproverato che, alla chiusura del bilancio dell’anno<br />

precedente, il primo interamente alla guida del TNP, era riuscito a raggiungere un<br />

equilibrio finanziario: «evidentemente, agli occhi di qualcuno, ciò è detestabile. Do un<br />

pessimo esempio. Una regia nazionale il cui bilancio annuale non è pesantemente in<br />

perdita, ecco cosa è irritante, insolente e da abbattere 1 ».<br />

L’8 aprile del 1953 un collaboratore del Figaro telefonò a Clavel: «abbiamo le prove<br />

– davanti a noi, assicura lui – che il ministro domanderà le dimissioni di Vilar, in quanto<br />

Vilar aveva espresso, alla radio, dei propositi inaccettabili nei confronti del ministro».<br />

La telefonata non serviva ad informare Vilar: il giornalista aveva telefonato per avere la<br />

conferma ufficiale. «Clavel mi informa», scrisse Vilar «mi interroga, poi, a mio nome,<br />

domanda al giornalista di telefonare al ministro. Il ministro risponde: “Storia assurda!”.<br />

Ogni settimana, una storia assurda».<br />

Il 9 maggio un ulteriore evento incredibile, sempre sul rapporto con il ministero e<br />

l’amministrazione centrale. «Ieri un rappresentante ufficiale della Biennale di Venezia<br />

domanda di vedermi» raccontava Vilar. «Mi disse: “lei riceverà dalla direzione della<br />

Biennale una lettera. Questa lettera la informerà che la votra proposta concernente un<br />

ritorno del TNP a Venezia è troppo elevata e che l’affare non può essere concluso. Mi<br />

hanno incaricato di dirvi che quella non era la vera ragione. La Biennale non condierava<br />

affatto troppo cara la vostra proposta. La vera ragione è che un servizio amministrativo<br />

francese – noi ignoriamo quale – ha fatto pressioni al governo italiano e ha dissuaso<br />

certi servizi italiano, tra cui la Biennale a finanziarvi e a iscrivere la vostra<br />

partecipazione nel programma. La direzione della Biennale non può nulla contro questo.<br />

Poteve voi, dal canto vostro, informarvi sulla questione e fare in modo che il suo ritorno<br />

a Venezia, il settembre prossimo, sia possibile?». L’amaro pensiero di Vilar arrivò<br />

anche a pensare che la stessa cosa potesse accadere dal Festival di Berlino: la direzione<br />

aveva proposto loro di partecipare una seconda volta, ma in effetti non vi erano notizie<br />

da tempo su quel fronte.<br />

Qualche giorno dopo Vilar annotava: «Impossibile scoprire chi sia stato, o quale<br />

servizio dello Stato, abbia giocato questo colpo mancino al TNP. Dal punto di vista<br />

finanziario, noi abbiamo bisogno di queste tournée. Un bisogno essenziale, in quanto la<br />

sovvenzione delle Stato è insufficiente. Come ridurre coscientemente il prestigio di<br />

questa compagnia! Ma chi è dietro questo gioco segreto? Potevo immaginare i nomi di<br />

molte persone. In seguito si rivolgerà al Ministero degli Affari Esteri e al segretario di<br />

stato agli Affari esteri. Avrebbe incontrato il Segretario generale del ministero il giovedì<br />

e il Segretario di stato il venerdì.<br />

1 Mémento: 24 (N.d.A.).<br />

528


Il 13 maggio, una lettera del Ministro veniva riassunta così da Vilar: «Potevo usare<br />

una frase per riassumerla: “Perché avete fatto un prelievo di 9.430.000 franchi dalle<br />

casse del TNP? Regolarizzate d’urgenza questa situazione”. In cosa tutto ciò lo<br />

riguardava? Di cosa si immischia! Dirigo una regia libera e non sono un funzionario».<br />

Il giovedì si recò agli uffici del quai d’Orsay dove incontrò il segretario generale del<br />

Ministro degli Affari esteri. «Lo misi al corrente della mia storia veneziana», scriveva<br />

«Mi rispose in modo molto franco assicurandomi che non poteva fare nulla. L’uomo è<br />

affabile, semplice, sorridente. Ad ogni modo parto molto deluso». Il giorno successivo,<br />

cambio di programma e incontro all’Eliseo, non col Segretario di Stato agli Esteri, ma<br />

col Presidente in persona: «Alle 17 vengo ricevuto ed espongo l’affaire veneziano e<br />

certe altre storie. […] Mi aspettavo di trovarmi in presenza di una marionetta e invece<br />

ecco davanti a me un uomo dai riflessi pronti, dalla voce ferma. Questo modo d’essere<br />

mi mette assolutamente a mio agio. L’uomo è meno meridionale che non si dica. Un po’<br />

di accento, certo, ma molto gradevole. Mi sembra di indovinare, non senza piacere, che<br />

vita e gli onori non gli hanno fatto dimenticare le sue origini modeste, i suoi<br />

combattimenti.<br />

Telefona a André Marie. Sopresa, il telefono presidenziale suona a tal punto che<br />

credo di sentire il ministro: “Vilar? Pessima gestione”. Telefona a Maurice Schumann,<br />

[segretario di stato agli Affari Esteri – n.d.t.]. Non posso più dubitarne: il ricevitore,<br />

anche se vicino all’orecchio del presidente, mi rinvia una frase di Schumann: “Vilar?<br />

Vilar? Communiste”. Il presidente lo interrompe a sua volta con voce forte: “No, no e<br />

no!”. All’inizio del nostro incontro – era un indizio? – Vincent Auriol 1 mi disse: “Fin<br />

dal primo giorno del mio mandato, ho deciso di non intervenire nela gestione dei miei<br />

mistri, ecc. ecc.”. Più tardi: “La mia sola preoccupazione: difendere la Costituzione e<br />

mantenere la comunità francese. Poi, mi parla del suo discorso pronunciato due anni<br />

prima, senza averne informato i ministro, e la sua presa di posizione. Mi parla a lungo<br />

della sua mancanza di potere. Ascolto. Ascolto. Ascolto sempre. Lo ringrazio. Esco.<br />

Negli scaloni la guardia repubblicana, le loro divise d’altri tempi. Sorrisero. Come il<br />

Presidente. Ascolto i miei passi sulla ghiaia del cortile… Esco dall’Eliseo. E – perché,<br />

mio Dio? – Entro in una galleria d’arte lì vicino dove, sognante penso allo sventurato<br />

Richard II che provavo in quei giorni, mentre guardavo distrattamente dei dipindi<br />

convenzionali: “Per l’amor del cielo, sediamoci per terra e raccontiamoci la fine triste<br />

dei re”».<br />

Estratto del progetto di Budget dello Stato per il 1954, Capitolo 36 – 74, Teatri<br />

Nazionali: «Sovvenzione alla Réunion des Théâtres Lyriques Nationaux: 977.263;<br />

sovvenzione alla Comédie-Française: 343.000; sovvenzione al Théâtre National<br />

Populaire: 40.000». In compenso, dal primo settembre Jean Vilar sarebbe stato<br />

riconfermato, con un nuovo Contratto di servizio: «Si je le souhaite!».<br />

1 Sedicesimo Presidente della Repubblica francese, e primo presidente della IV Repubblica, tra il 1947 e il<br />

1954, fu uomo di stato influente (N.d.T.).<br />

529


XXXIX<br />

(La filiera cognitiva del teatro contemporaneo: dal territorio alle reti comunicative. Una rete di<br />

interazione e condivisione “creativa” dal punto di osservazione del Festival di Avignone: la sostenibilità<br />

del processo di produzione artistico)<br />

Nel quale si vede quanti differenti “pubblici” ha un festival, l’importanza diversa che<br />

viene data a ciascuna tipologia di pubblico e come ogni differente tipologia di pubblico<br />

abbia un compito diverso da portare a termine <br />

«Il s’agit d’unir, comme jadis, l’art généreux du<br />

théâtre avec le repos et le plaisir de l’homme. Et<br />

non pas le repos crispé que les théâtres clos<br />

imposent aux spectateurs de la grande ville, mais<br />

celui que la terre, la pierre et le ciel proposent à<br />

l’attention de tous dans le concours de fêtes<br />

exceptionnelles»<br />

(Jean Vilar, Programma del primo festival, 1947)<br />

Non bastava creare significati profondi, “intensi”, esperienze uniche, irripetibili.<br />

Bisognava anche imparare a condividerle: «una rete di interazione comunicativa non è<br />

altro che una filiera cognitiva i cui membri si riconoscono a vicenda come<br />

interdipendenti e si attrezzano per governare la loro interdipendenza, vincolandosi in<br />

qualche misura al rapporto reciproco. Ciò richiede lo sviluppo (oneroso) di linguaggi e<br />

standard comuni di comunicazione. Servono, inoltre, mezzi logistici per facilitare il<br />

trasferimento di cose, persone e informazioni, ma anche sistemi di affidamento e di<br />

garanzia che consentono ai soggetti della rete di fidarsi l’uno dell’altro 1 ». L’essenza del<br />

Festival di Avignone e dell’esperienza del TNP di Jean Vilar era racchiusa in questo<br />

programma d’azione, forse un vero e proprio “utopico” proclama: far comprendere agli<br />

attori della filiera del teatro contemporaneo l’esigenza dell’integrazione,<br />

delindividuzione di strategie condivise che tengano conto dell’interdipendenza dei<br />

processi che interessavano tutti, indistintamente. Non si trattava di omologazione<br />

all’interno di un unico modo di “pensare” al come produrre conoscenza: all’interno di<br />

ogni possibile comunità epistemica i “partecipanti” potevano scegliere e riconoscersi in<br />

una delle tante, possibili, “combinazioni” di mediatori cognitivi in grado di lavorare in<br />

forme diverse le esperienze artistiche. Jean Vilar, soprattutto con il TNP, ne propose una<br />

possibile combinazione, con coerenza e passione; e la propose ad una comunità di<br />

riferimento, la quale la riconobbe, la fece propria, in parte, forse, travisandola e quindi<br />

1 Rullani 2004b: 212 (N.d.T.).<br />

530


trasferendola nel tempo manipolandone i significati più profondi. In quella filiera<br />

cognitiva che si stava “ricostruendo” Vilar fu talmente idealista, visionario,<br />

lungimirante, da ricordare allo stesso pubblico il ruolo determinante che esso doveva<br />

giocare in quel sistema di “propagazione” così complesso che era la produzione teatrale.<br />

Lo spettacolo teatrale, quale esempio di conoscenza connettiva, metteva in<br />

collegamento il sistema cognitivo dell’organizzazione artistica con il sistema cognitivo<br />

dello spettatore. Ma se il primo era “organizzato” secondo un tessuto connettivo basato<br />

su “mediatori relazioni” idonei a raggiungere la migliore propagazione possibile di<br />

quella conoscenza artistica; ebbene, anche il secondo doveva sforzarsi per “organizzare”<br />

i propri “mediatori relazionali”, attrezzandosi in modo adeguato per partecipare ad uno<br />

sforzo in cui, per l’appunto, lo spettatore era il protagonista indiscusso.<br />

Ad ogni modo, fin dalle origini del progetto di Jean Vilar, il pubblico fu al centro dei<br />

suoi pensieri e dei suoi sforzi. E se il Festival, così come lo stava pensando Vilar e come<br />

cercò di farlo evolvere, costituiva una formula assolutamente originale, molta di tale<br />

innovatività la si doveva alla volontà di “creare”, “formare” e per certi versi<br />

letteralmente “fabbricare” il suo pubblico. Le idee di “teatro popolare” o di “teatro come<br />

servizio pubblico”, tanto care a Jean Vilar, potevano essere esplicitate proprio con<br />

l’esigenza di realizzare e rispettare quel “contratto” con il pubblico che costituiva il<br />

motore stesso della formula del Festival e il punto centrale di tutta l’esperienza<br />

(estetica) legata al linguaggio del teatro e all’esperienza della rappresentazione dal vivo.<br />

La sua “ideologia” era mirata a garantire eguali possibilità di accesso al mondo del<br />

teatro da parte di tutte le classi sociali; entrati a teatro, non vi doveva essere distinzione<br />

di sorta che reggesse: tutti dovevano essere messi nelle condizioni migliori per<br />

“gustare” lo spettacolo e dare sfogo alla propria curiosità e voglia di sapere.<br />

Il lettore si chiederà, quindi, quante «indagini sul pubblico» siano state realizzate<br />

nella gloriosa storia del Festival, per cercare di capire se e in che modo si siano<br />

realizzati i propositi di Vilar. Probabilmente la risposta che fornirebbero tutti i più<br />

attenti studiosi del Festival potrebbe essere di questo tenore: “[…] ovviamente c’è la<br />

ricerca di Janine Larrue, del 1968; ma poi può trovare una indagine più recente<br />

dell’Università di Avignone, curata dal professor Ethis”. Per quello che era considerato<br />

un “laboratorio sociologico” unico nel suo genere, potenzialmente una specie di<br />

“miniera a cielo aperto” per sociologici della cultura ed esperti di fenomeni di massa,<br />

studiosi dell’educazione, esperti di comunicazione e semiologi del teatro o, più<br />

recentemente, di marketing, non è poi molto 1 . In effetti di studi ve ne era almeno un<br />

1 A questo punto il lettore curioso potrà domandarsi: «perché?». Domanda più che lecita. Anche chi scrive<br />

si è interrogato sui motivi di così poco interesse (scientifico) dimostrato per questo tema: probabilmente<br />

occorreva un collegamento forte tra qualcuno esterno e l’organizzazione, nonché una motivazione<br />

altrettanto forte di quest’ultima; o ancora, dall’altro lato, le organizzazioni artistiche sono diventate<br />

oggetto di attenzione di certe discipline solo di recente. Forse non è un caso che il primo a senire forte<br />

l’esigenza di una ricerca di questo tipo sia stato proprio Jean Vilar. Nella sostanza, visto in termini<br />

scientifici, potrebbe semplicemente trattarsi di scarso appeal, in passato, per questo tipo di ricerche. In<br />

Italia come in Francia, gli studi di taglio sociologico sull’arte sono assolutamente recenti (Collodi, Crisci,<br />

Moretti 2005); per non parlare, poi, di quelli relativi agli aspetti economico-gestionali, e quindi di<br />

marketing (stiamo parlando della seconda metà degli anni Novanta); ancora, l’interesse della psicologia<br />

dell’arte o della semiotica sui processi di consumo artistici, per motivi legati agli aspetti teorici delle<br />

discipline stesse, partono da basi epistemologiche e utilizzano strumenti e metodologie che solo di recente<br />

vengono estese agli studi sul campo relativi al caso dell’arte. Nella sostanza, solo in alcuni studi di<br />

frontiera, soprattutto collegati al “consumer behavior”, psicologia e semiotica vengono abbinate ad altre<br />

discipline come la sociologia o agli studi di marketing. Ma in effetti, siamo ancora in una fase quanto<br />

meno esplorativa. Anche dal punto di vista del policy-maker, ovvero di chi è incaricato di fare le politiche<br />

531


altro, risalente al 1981, e realizzato durante la direzione di Faivre d’Arcier da Nicole<br />

Lang per il Ministero della Cultura 1 (ne trovai menzione in un articolo di giornale<br />

dell’epoca, in cui però poco altro veniva detto).<br />

Ad ogni modo, quello che contava era che, di fatto, nella memoria collettiva<br />

restavano impressi sopratttuto questi due studi. Ed era a quelli che qui N. farà<br />

riferimento, soprattutto a quello più recente. In questo caso, l’ambientazione del nostro<br />

racconto era duplice: i) ogni tanto entreremo nel “laboratorio sociologico” messo a<br />

punto dall’Università di Avignone e della Vaucluse e in cui ha lavorato il gruppo di<br />

ricerca condotto dal professor Emmanuel Ethis; vedremo come si è sviluppata la ricerca<br />

e quali sono i risultati proposti; ii) di tanto in tanto usciremo da questo laboratorio per<br />

tornare sulle strade e nei luoghi del Festival, là dove è possibile incontrare<br />

effettivamente il pubblico mentre mette in atto tutti i comportamenti legati al<br />

“consumo” di quella particolare esperienza che è il Festival di Avignone, fermo<br />

restando che non resta possibile cogniere l’attimo in cui si svolge l’azione attraverso il<br />

racconto.<br />

In questo modo cercheremo di farci guidare dalla ricerca del professor Ethis e<br />

colleghi alla scoperta di questo affascinante “oggetto di studio” che era il pubblico di<br />

Avignone.<br />

***<br />

Mi trovavo alla Maison Jean Vilar, uno degli ultimi giorni del Festival del 2006.<br />

Sfogliando il numero del marzo del 1972 di Bref, riuscii a trovare (per la verità un po’ a<br />

caso), una ricerca sul pubblico del TNP, realizzata da Anne-Marie Goudon-Papon,<br />

responsabile di ricerca al CNRS, nell’ambito dell’Equipe de recherche Théâtrales et<br />

Musicologiques. La ricerca, voluta dalla direzione del TNP, di fatto venne realizzata nel<br />

1971, e il campionamento, la somministrazione e la raccolta dei dati terminò poco prima<br />

della morte di Jean Vilar. Quale malinconica, dolorosa coincidenza (sic!).<br />

La ricerca fu condotta sulla base di un campione di 3000 persone durante lo<br />

spettacolo Les Anges Meurtriers, di Conor Cruise O’Brien, andato in scena tra l’aprile e<br />

il maggio dell’anno precedente. Ecco degli estratti della parte “qualitativa” della ricerca.<br />

«Il teatro della nostra epoca è in crisi, è in una fase di ricerca. Le sue forme<br />

tradizionali non sono più congeniali a molti spettatori, le sale teatrali più che mai<br />

appaiono desuete. D’altro canto, la concorrenza dei mezzi audiovisivi non è oramai<br />

sconosciuta a nessuno.<br />

Se oramai da tempo conosciamo il punto di vista di profesionnisti, autori, registi,<br />

teorici, critici teatrali (…) noi conosciamo poco il punto di vista dello spettatore. Il<br />

culturali, la prospettiva degli studi “di settore” è cosa recente, specie in un ambito non-anglosassone. Ad<br />

esempio, a seguito di una ricerca del 1997 sul pubblico della Comédie-Française, vera e propria<br />

istituzione in Francia, il ministro della cultura dell’epoca (per la cronaca Jean-Michel Guy) ebbe a dire<br />

che: “[…] il souhaitait mettre au point un protocole d’enquête, dont puissent s’inspirer les théâtres<br />

désireux de mieux connaître leurs spectateurs” (citato in Fabiani, 2002: 44). In Italia, poi, solo negli<br />

ultimi anni alcune regioni hanno cominciato a mettere a punto strutture per il monitoraggio del pubblico<br />

dell’arte a livello territoriale, con particolare riferimento allo spettacolo dal vivo (si pensi agli Osservatori<br />

regionali del Piemonte, dell’Emilia Romagna o della Lombardia).<br />

A ragion veduta, e a parte questi riferimenti di tipo “accademico” e di natura operativa, non sono riuscito<br />

a darmi un’altre risposte sufficientemente convincenti (N.d.T.).<br />

1 Lang, 1982 (N.d.A.).<br />

532


comportamento del pubblico è sufficientemente significativo penseranno alcuni: se<br />

frequenta il teatro è perché egli è soddisfatto, altrimenti questo non gli piacerebbe.<br />

Questa osservazione, a nostro avviso, lascia troppo spazio alle impressioni. Le<br />

motivazioni dello spettatore sono in effetti molto varie e talvolta non evidenti a prima<br />

vista. Una analisi sistematica del pubblico dovrebbe dunque permettere di esplorarlo e<br />

probabilmente di togliere certi fraintendimenti, poiché informare i responsabili del<br />

teatro su ciò che lo spettatore pensa, sugli auspici che egli formula, e se ci siano dei<br />

malesseri in seno al pubblico, ciò potrebbe forse rilevarne le cause e la natura. In<br />

contropartita, sarebbe auspicabile che il pubblico ottenga una risposta, che sia informato<br />

della politica generale del teatro, degli obiettivi perseguiti e se ciò che si augura risulta<br />

irrealizzabile, che ne sappia i motivi.<br />

[…] E’ stata realizzata una serie di 75 interviste semi-strutturate assieme ad un<br />

questionario distribuito agli spettatori nel corso delle rappresentazioni di Les Anges<br />

Meurtriers, di Conor Cruise O’Brien, messo in scena da Joan Littlewood. Un grand<br />

numero di persone hanno avuto la gentilezza di rispondere a questa inchiesta (2750<br />

risposta) […]. La maggior parte del pubblico aveva preso con interesse l’iniziativa di<br />

completare in modo più aperto i tipi di risposta che erano stati loro proposti; queste<br />

puntualizzazioni aggiuntive, molto pertinenti, unite ai risultati delle interviste<br />

permettono ora un primo approccio al problema e sono analizzate nelle pagine seguenti,<br />

dove ci sforzeremo di tradurre il più fedelmente possibile il pensiero degli spettatori<br />

riprendendo, ogni volta che questo sarà possibile, le loro proprie espressioni. La parte<br />

puramente statistica dell’inchiesta sarà proposta in seguito.<br />

Pubblico e repertorio. Ciò che vuole il pubblico di Jean Vilar.<br />

La gran parte del pubblico del TNP non è un pubblico qualunque, ma è il pubblico di<br />

Jean Vilar, quello che è arrivato con lui a partire dal 1951.<br />

«Noi veniamo e continueremo a venire»; «abbiamo preso l’abitudine di venire,<br />

facciamo l’abbonamento», dicono certi spettatori. Ancora, molto spesso, il solo marchio<br />

“TNP” è sufficiente a incitarli a venire: «Siamo sicuri di trovarci dei buoni spettacoli»;<br />

«ci si sente a casa propria». Di più, tutte le misure prese da Jean Vilar per<br />

democratizzare il teatro risuonano ancora in loro: soppressione dell’abito da sera, ancora<br />

in voga nei teatri all’italiana; soppressione del “pourboire”; e prezzi poco elevati.<br />

Per essi, il rito del TNP non è morto: «amiamo le noste vecchie abitudini, ci dispiace<br />

solo che le sale siano meno piene», dice uno spettatore. Per contro, la soppressione<br />

dell’abbonamento obbligatorio non l’anno ben compresa: le sale hanno cominciato a<br />

svuotarsi, dicono, e secondo loro, il TNP senza un gran numero di spettatori non è più<br />

assolutamente il TNP. «Non ritroviamo più quei momenti di comunione intensa che<br />

avevamo vissuto al TNP». Il TNP ha perduto la sua solennità, la sua cerimonia e la sua<br />

festa. Tutti i cambiamenti vengono visti come dei brutti momenti da superare. «Non<br />

comprendiamo ciò che sta accadendo, siamo stupiti e ci sentiamo superati». Ma hanno<br />

sempre la speranza che tutto questo ritorni come prima. Hanno fiducia del TNP e gli<br />

restano fedeli.<br />

L’espressione di Jean Vilar “Théâtre Service Public» ha anche lasciato delle traccie,<br />

lo affermano loro stessi, «si aspettato tutto» dal TNP, diventato per loro una vera<br />

istituzione: «il TNP deve andare verso il pubblico e non il contrario». Si lamentano che<br />

533


molti dei rapporti e dei contatti col pubblico siano spariti. E reclamano maggiori<br />

dibattiti e incontri di informazione.<br />

Per quanto riguarda il repertorio si riscontra la stessa attesa, gli spettatori si voltano<br />

indietro, al passato, verso le grandi opere degli anni precendenti, le reclamano, le<br />

vogliono: «i classici che metteva in scena Vilar» (Molière, Shakespeare, Corneille)».<br />

Ma accettano anche qualche “moderno” «di Brecht, di Giraudoux», ma molto poco gli<br />

autori che non conoscono: «ci si rimette sempre con le novità». Vogliono moneta sicura,<br />

delle pièces sperimentate, in cui «non ci siano sorprese». Si augurano, piuttosto, che<br />

vengano montate le opere tradizionali con delle regie moderne. Quelle opere hanno un<br />

valore universale, possono ancora dare delle lezioni di morale, di “civiltà” all’uomo del<br />

1971; è il modo di metterle in scena che è importante. Questo pubblico preferisce spesso<br />

«l’allusione politica» rispetto ad un impegno politico esplicito: «il repertorio attuale del<br />

TNP» dicono certi spettatori, «presenta una politicizzazione a senso unico eccessiva» o<br />

ancora «la vera cultura è un allargamento e non un impegno politico in una strada a<br />

senso unico».<br />

Ebbene, nello spirito di questo pubblico, è di «vera cultura» di cui si dovrebbe<br />

parlare; la portata universale delle opere classiche rende possibile che esse si indirizzino<br />

a tutte le classi sociali, e che esse siano di conseguenza condizione di comunione tra gli<br />

spettatori e motivo di partecipazione allo spettacolo; cose queste che non possono<br />

produrre né autori sconosciuti, né l’avanguardia, che secondo loro «non è compresa solo<br />

dall’élite intellettuale avvezza al nuovo». Di conseguenza il TNP, in quanto teatro<br />

popolare, si indirizza a tutte le categorie sociali. E’ un teatro di unione e di comunione;<br />

deve mettere in scena degli spettacoli che unifichino.<br />

Riassumendo, ciò che caratterizza questo pubblico è la fiducia, l’attaccamento e la<br />

fedeltà al TNP. Per il pubblico c’è un bisogno di TNP che sia in grado di portare il<br />

marchio di questi ultimi venti anni. Ogni cambiamento, tanto nelle scelte del repertorio<br />

quanto nella politica generale del teatro, è per il pubblico fonte di defezione.<br />

Ciò che vuole l’altro pubblico del TNP<br />

E poi c’è l’altro pubblico del TNP, quello che fa dire ai vecchi frequentatori abituali<br />

che: «non ci sentiamo più assolutamente tra noi»; «il pubblico è cambiato»; «non c’è<br />

più omogeneità in seno al pubblico».<br />

Tra questo pubblico “altro” c’è in primo luogo coloro che noi chiameremo «gli<br />

indifferenti» o piuttosto coloro che sono «idelogicamente indifferenti», vale a dire che<br />

non hanno una idea normativa di ciò che deve essere il TNP. Vanno al TNP come se<br />

andassero in un qualsiasi altro teatro; non si legano al marchio di “teatro popolare“ o<br />

piuttosto, se si attardano per affermare che il TNP, giustamente, in quanto vuole essere<br />

un teatro popolare, deve sicuramente “mettere in scena di tutto”, vale a dire «qualunque<br />

genere di spettacolo», «un armonioso mélange di tutti i generi», «dei spettacoli vari per<br />

piacere a un pubblico vario». Ciò che si augurano è un «felice eclettismo»: delle pièces<br />

classiche e moderne di autori noti, qualche autore contemporaneo sconosciuto e anche<br />

un po’ di “avanguardia”, «per essere aggiornati», a condizione però che non se ne abusi.<br />

Se questi spettacoli li coltivano, li «fanno riflettere», essi ne sono soddisfatti, ma spesso<br />

la cultura è per loro sinonimo di noia. Di conseguenza se si divertono, se trascorrono un<br />

«buon momento», una piacevole serata, essi sono ancora più felici: «Ci sono degli<br />

534


eccellenti spettacoli a vocazione, si dice, culturale, e ci sono degli eccelenti vaudevilles 1 ,<br />

il genere music-hall non è escluso». Questi spettatori apprezzano generalmente le<br />

innovazioni; i mezzi tecnologici audiovisivi messi al servizio del teatro sono ben<br />

accolti. Infine la qualità di uno spettacolo è funzione del suo successo. Di conseguenza,<br />

il ruolo indefinito del teatro «popolare» non fa per loro, secondo i quali si dovrebbe<br />

trattare esclusivamente di «cultura, piacere, ma soprattutto non noia».<br />

Infine, ci sono i partigiani delle nuove forme di teatro, di un «nuovo teatro». E’<br />

possibile distinguere due gruppi: i ferventi di un teatro di ricerca, senza un ideale<br />

politico molto marcato; e coloro che vogliono un teatro di «guerriglia», un teatro di<br />

«lotta proletaria».<br />

I primi sono soprattutto lontani dalle forme tradizionali di teatro, auspicano in primo<br />

luogo un rinnovamento estetico ed etico di queste forme. Perché il TNP non potrebbe<br />

essere anche un teatro di ricerca che dà spazio a delle creazioni collettive che<br />

istituiscano delle nuove forme di relazioni con il pubblico? Le loro preferenze vanno<br />

all’Orlando furioso di Ronconi e al 1789 del Théâtre du Soleil: in quanto, tanto Ronconi<br />

quanto Ariane Mnouchkine hanno saputo ripensare i rapporti scena-pubblico; questo ha<br />

permesso di stabilire un contatto accresciuto con quest’ultimo. Per questi spettatori, il<br />

teatro è ancora una festa, è più che mai la festa: non una festa pesante e cerimoniosa<br />

come quella che si faceva al TNP, ma una festa spontanea, di invenzione e libertà. E per<br />

essi, se il teatro ridiventasse veramente «popolare» indirizzandosi a tutti, questa avverrà<br />

grazie a quel carattere di festa, di una festosità che riporta alla nuova forma di<br />

cerimonia.<br />

E’ sempre a forme di rinnovamento, o forse a più forme di rinnovamento, a cui si<br />

richiamano gli adepti di un «teatro di rivolta». Gli spettacoli che il TNP presenta loro<br />

sono considerati «retrogradi», sono degli spettacoli ancora «didattici» e<br />

«convenzionali». Solo gli intellettuali vi trovano «i loro conti», dicono, «in quanto<br />

questo genere di teatro popolare è fatto da degli intellettuali che hanno delle cattive<br />

coscienze». Non è un teatro per gli operai. Non si tratta più di riprendere degli spettacoli<br />

del nostro patrimonio culturale o anche di autori più moderni e di farne i portatori<br />

indiretti di un messaggio politico. Bisogna parlare «allo sfruttato del suo sfruttamento»,<br />

bisogna invitarli al combattimento. Bisogna parlare francamente, senza giri di parole,<br />

all’operaio.<br />

Le forme che deve prendere questo teatro non sono sempre molto definite. Si<br />

potrebbe «accogliere delle troupes amatoriali aventi un impegno politico reale assieme a<br />

troupes di professionisti». I luoghi degli spettacoli non sono sempre i luoghi abituali:<br />

«bisogna andare verso il lavoratore e non l’inverso»; il luogo del TNP è anche<br />

qualificato come «borghese»: «è situato nel 16° distretto». Di conseguenza qui, ancora,<br />

bisogna cambiare il rapporto scena-pubblico. Tra questo pubblico ci sono soprattutto<br />

degli studenti, qualche operaio e qualche vecchio spettatore del TNP. Sia che questi<br />

ultimi abbiano subito una evoluzione prima o dopo il 1968, ora è un pubblico che vuole<br />

altre cose, che non sopporta più di essere passivo, di essere un «consumatore di opere».<br />

Secondo l’espressione di Guy Leclerc «è un pubblico che aspira a giudicare, a criticare,<br />

a esprimersi» (Le TNP de Jean Vilar, Paris, collection 10-18, 1971, p. 234).<br />

1 Il “vaudeville”, deformazione di un termine antico, del XV secolo, era una canzone moralistico-satirica<br />

in forma condensata, una sorta di sonetto, un epigramma. In seguito, continuando a diffondersi in Francia,<br />

si trasformò in un vero e proprio genere di teatro leggero, con un misto di parti recitate e cantante,<br />

elaborato sotto forma di “varietà”, sempre in Francia agli inizi del XIX secolo e fino al XX (N.d.T.).<br />

535


Per l’insieme di questo pubblico, il teatro popolare si indirizza agli operai, a quelli<br />

che hanno da lottare. È un teatro di contestazione e non più di adesione. Ci sarebbe da<br />

chiedersi se per i più evoluti e i più accesi difensori di questa tesi, ci sia ancora<br />

spettacolo; non c’è piuttosto una esplosione della nozione di spettacolo?<br />

Ideologia e questione sociale<br />

All’epoca di Jean Vilar, l’ideologia del pubblico del TNP era molto omogenea e<br />

svelava una «omogeneità sociale». Alla lettura dei risultati dell’inchiesta, apparirebbe<br />

che le aspirazioni ideologiche del pubblico attuale del TNP siano diverse e ciò spiega,<br />

senza dubbio, parte del suo smarrimento di fronte agli spettacoli che gli sono presentati.<br />

È dunque certo che una parte importante degli spettatori è cambiata, come pensano i<br />

“vecchi frequentatori” del TNP. Resta da sapere se questo cambiamento, a livello di<br />

idee, sia il segno di una frequentazione del TNP da parte di categorie sociali nuove.<br />

[…] Tra le persone interrogate ci sono molti impiegati, quadri amministrativi<br />

intermedi, istitutori, tecnici, studenti, liceali; abbastanza numerosi i professori di liceo e<br />

universitari, professioni liberali, ingegnieri, artisti; qualche artigiano e piccoli<br />

commercianti e pochi operai. […]<br />

Pubblico e partecipazione<br />

Vi è partecipazione o no del pubblico agli spettacoli presentati al TNP?<br />

A questa domanda un gran numero di spettatori hanno risposto in modo negativo e<br />

hanno dato delle ragioni abbastanza precise alle loro risposte. Oltre al fatto che tali<br />

risposte costituiscono già esse stesse delle preziose informazioni, esse ci permettono di<br />

analizzare ciò che il pubblico intende per partecipazione.<br />

Un numero molto piccolo di persone, riferendosi all’etimologia del termine<br />

spettatore (dal latino “spectator”, colui che guarda) affermano che la partecipazione<br />

non è compresa in questa nozione. «Gli spettatori vengono per guardare, non per<br />

partecipare»; «lo spettatore deve guardare con occhio critico ciò che gli si presenta». In<br />

un caso l’etimolgia del termine, nell’altro una certa risonanza brechtiana (in quanto ciò<br />

che preconizza Brecht è “l’allontamento”, il tirarsi indietro, il “distanziari”, avere lo<br />

sguardo critico) conducono ad affermare che patecipare ed essere spettatore sono due<br />

cose differenti.<br />

Al di là di questo, la quasi totalità del pubblico stima che essere spettatori significhi<br />

anche partecipare. Di conseguenza, la nozione di spettatore avente all’origine un senso<br />

puramente statico, tende ora ad arricchirsi di un senso più dinamico».<br />

***<br />

Rimasi frastornato da quella lettura, tanto attuale, tanto “moderna”, circa i problemi<br />

di “comprensione” del fenomeno del pubblico teatrale, delle sue aspettative e delle<br />

proposte dell’organizzazione teatrale. Ma suonava anche come un terribile allarme,<br />

quasi una sconfitta, per i propositi che animarono Jean Vilar fino al 1963 al TNP e, fino<br />

a poche settimane prima, al Festival di Avignone. Decisi che valeva la pena vedere<br />

come la pensavano gli amici sociologi della cultura, dell’Università di Avignone. Ed era<br />

alla loro ricerca, tutt’ora in corso, quasi un “osservatorio permanente” da oltre dieci<br />

anni, del pubblico del Festival di Avignone, che facevo riferimento.<br />

536


In tutta la storia del Festival di Avignone quello del pubblico fu uno degli argomenti<br />

più importanti, sempre sulla bocca di tutti. Argomento affascinante e centrale per ogni<br />

artista; probabilmente una sorta di incubo o rompicato per i responsabili della maggior<br />

parte delle organizzazioni artistico-culturali e per i relativi amministratori pubblici; da<br />

alcuni anni, oggetto di studio di moltissime discipline, da diversi punti di vista.<br />

C’era da chiedersi, come fece Emmanuel Ethis, se valeva la pena “perdere del tempo<br />

a studiare il comportamento del pubblico dell’arte”:<br />

«Porquoi perdre son temps et son énergie à enquêter sur les publics de la culture? S’il est vrai<br />

que c’est une gageure, c’est sans doute parce qu’on se plait à croire – c’est un des principaux<br />

ressorts de notre “être” spectateur – qu’il restera toujours une part insaisissable, irréductible,<br />

incommunicable dans l’experiénce spectatorielle; certaines se plaisent à convoquer les catégories<br />

ésotériques du mystère, de la passion de la magie de cette experience. Avant de s’appeler<br />

chimique, une expérience de laboratoire a pu, elle aussi, se voir affubler du qualificatif de magique<br />

ou d’alchimique; qu’elle soit chimique – c’est-à-dire compréhensible en des termes<br />

communicables – n’implique pas qu’elle n’en demeure moins merveilleuse. Il en va de même pour<br />

ce que l’on pense être la part insaisissable de nos pratiques culturelles» (Ethis, 2004: 27).<br />

Chiedendo un po’ di pazienza al lettore, la risposta alla questione proposta da Ethis<br />

ce la fornirà lo stesso Vilar nei paragrafi che seguono.<br />

Prima di proseguire, volevo fare un primo salto all’interno della ricerca e togliermi<br />

un altro dubbio, un altro problema di natura metodologica. Perché utilizzare un<br />

questionario? Ancora una volta feci rispondere lo stesso Emmanuel Ethis, cercando di<br />

ridurre al minimo le questioni epistemologiche sottostanti alla scelta di metodo e, per il<br />

momento, soffermandomi all’utilizzo dello strumento. In un’intero saggio dedicato<br />

all’utilizzo del questionario nelle ricerche di sociologia della cultura 1 mi veniva spiegata<br />

tale scelta, mettendo in guardia il lettore dai rischi della “sovra-interpretazione” dei<br />

“dati puri” senza inserirli in uno spazio logico di riferimento:<br />

«[…] Car ce que l’on n’aperçoit pas à la première lecture du magazine en tant qu’unité<br />

esthétique, c’est que les chiffres qui y sont exhibés ne rendent compte d’aucun espace logique,<br />

c’est-à-dire que ces chiffres réduisent les objets à une seule et unique propriété, présentée là<br />

comme “déconnectée et déconnectable” de tout univers de références. À leur tour, les objets<br />

deviennent donc “référençable” à n’importe quoi. Les questionnaires construits scientifiquement<br />

doivent, inversement, s’inscrire au milieu d’univers de références propres à définir, non le monde<br />

dans son ensemble, mais bien un espace logique de propriétés relatives et pertinentes à la<br />

compréhension d’un individu, d’un groupe, d’une pratique ou d’un objet social. Les chiffres que<br />

ces questionnaires produisent son reliés, pour leur part, à une unité narrative qui permet de<br />

“raconter” ceux qu’ils interrogent. Le questionnaire est une mise en scène du questionnement qu’il<br />

objective; il en devient poétiquement le signifié et le signifiant, définissant une activité de<br />

communication à part entière qui peut autant éloigner que rapprocher ceux qui en sont les acteurs.<br />

De poétique à poïetique, il n’y a qu’un pas […]. C’est ce fil du “fabriqué”, du “poïetique” des<br />

questionnaires mis en œuvre pour étudier les pratiques de culture, ce fil dont on mesure rarement<br />

la tension, que l’on se propose de suivre ici» (Ethis, 2004: 26).<br />

Per capire i problemi affrontati dall’indagine condotta potevo partire dai problemi<br />

che lo stesso Jean Vilar mise in luce nel presentare il lavoro di Janine Larrue, scrivendo<br />

la prefazione dell’articolo apparso su Avignon Expansion, Cahiers du Conseil culturel,<br />

nel giugno del 1968. E tra le righe della prefazione Vilar lasciava intendere che c’era<br />

un’ombra nei dati eccellenti sul Festival:<br />

1 Ethis, 2004 (N.d.A.).<br />

537


«Oh! Il y a une ombre à tous ces tableaux et à toutes ces conclusions et j’en laisse au lecteur ces<br />

conclusions et souci de la découvrir. Nous avons fait bien des choses en 22 ans pour l’atténuer»<br />

(Jean Vilar, Avignon Expansion, 1968, riportato in Ethis, 2002).<br />

L’ombra di cui parlava Vilar, che lo inquietava e rattristava (una sorta di presagio<br />

visto quel che poi accadde quell’estate durante il Festival e da quello che lessi<br />

nell’indagine sul TNP del 1971), era la bassissima proporzione di operai e di impiegati<br />

che frequentano il Festival. In questo caso, aveva ancora senso parlare di teatro<br />

“popolare 1 ”? In sostanza, per i successivi trenta anni (ad eccezione della parentesi di<br />

Faivre d’Arcier del 1981), e per quanto “molto bene si sia fatto”, il Festival di Avignone<br />

restava ancora senza una risposta convincente alle domande che si era posto il suo<br />

stesso fondatore: «quale era il pubblico del Festival?»; e soprattutto, «a che punto era, se<br />

mai fosse realizzabile, il progetto di Jean Vilar di un teatro “popolare” e della creazione<br />

di una “comunità” di spettatori?». E la ricerca condotta dal prof. Emmanuel Ethis<br />

partiva proprio da quelle domande al centro del suo interesse. Il progetto di ricerca prese<br />

avvio dopo una fase di progettazione e di studi preliminari molto approfondita: una preinchiesta<br />

risaliva al 1996, a cui fecero seguito quattro campagne di indagine sul campo<br />

condotte tra il 1997 e il 2001. In un allegato sugli aspetti metodologici della ricerca si<br />

leggevano gli obiettivi di tale lavoro, che vale la pena riprendere per capire proprio i<br />

contenuti delle domande di ricerca principali che si era posto il gruppo di lavoro<br />

dell’Università di Avignone e della Vaucluse: «chi era il pubblico del Festival di<br />

Avignone? Cosa c’era di diverso rispetto al pubblico delle sale teatrali (ad esempio di<br />

Parigi)? Quali erano le motivazioni che spingevano le persone ad andare, ogni estate, ad<br />

Avignone? Cosa cercavano ad Avignone gli spettatori (vecchi e nuovi) e che non<br />

riuscivano o non credevano di trovare altrove?».<br />

«L’objectif du questionnement sur ces publics s’est decliné suivant set ponts qui portent<br />

respectivement: 1) sur l’effet qu’exerce la relation au lieu: c’est ce qu’on appeler l’effet territoire.<br />

Le theâtre, plus que d’autres formes d’expression, est un art de la présence locale, et ne peut être<br />

détaché de ses localités; 2) sur les déterminants sociauxde l’amour pour le théâtre, qui exercent<br />

souvent de manière beaucoup plus médiate que ne le laisse entendre le discours dominant qui traite<br />

la fréquentation régulière des thèâtres comme une simple pratique distinctive; 3) sur la pratique<br />

effective du spectateur amené à faire des arbitrages, orientés par des contraintes budgétaires ou<br />

géographiques, au sein d’une offre à la fois très diversifiée et fortement balisée par des lieux et des<br />

réputations; 4) sur l’inscription différentielle des expériences singulières dans la mémoire su<br />

spectateur; 5) sur l’évolution des spectateurs dans le temps: comment traiter de la question<br />

récurrente des phénomenes de générations et/ou de vieillissement des publis; 6) sur la dynamique<br />

de la pratique théâtrale en fonction des autres pratiques de loisirs, qu’elles soient ou non<br />

naturellement reconnues comme culturelles; 7) sur l’effet Festival comme générateur et créateur de<br />

nouvelles formes d’attitudes culturelles suscitant l’émergence de nouvelles formes artistiques (et<br />

non le contraire comme on pense trop mécaniquement)» (Ethis, 2002: 327).<br />

1 A quegli stessi anni risale un furioso quanto gustoso botta e risposta tra lo stesso Jean Vilar e Paul<br />

Sartre. Recentemente (il lettore può fare riferimento ad alcuni numeri recenti dei Cahiers della Maison<br />

Jean Vilar), sono state realizzate anche delle ricerche di archivio e delle pubblicazioni su questo “caso”<br />

divenuto famoso, e in effetti i termini della loro diatriba sono davvero straordinari e, a tratti, divertenti,<br />

per quanto senza eslcusione di colpi. Il tema centrale era proprio quello del teatro, cosiddetto, popolare:<br />

non un teatro “operaio”, ma un teatro “popolare”, come tendeva a sottolineare Vilar (N.d.T.).<br />

538


Questi gli assi di ricerca proposti da Ethis e colleghi. Contesti di consumo,<br />

determinanti ambientali, processi di scelta, esperienze passate, ruolo del fattore tempo,<br />

atteggiamenti e formazione del pubblico 1 .<br />

Allo stesso modo, sembrava emergere quanto segue: Avignone funzionava come un<br />

luogo di “(inter)mediazione culturale” molto particolare; tali particolarità erano legate<br />

al suo “mito” e alla sua “leggenda”, costruiti e alimentati soprattutto attorno alla figura<br />

di Jean Vilar; collegato al punto precendete, il contesto fisico di quei processi di<br />

consumo d’arte non era indiffente e la Cour d’honneur giocava, e gioca ancora, un ruolo<br />

determinante nell’immaginario collettivo dello spettatore, ferme restando le<br />

problematiche di ordine tecnico; ancora, tutti i luoghi del Festival vivevano questo<br />

effetto di “sacralità 2 ”, e in questa evidente impossibilità di tenere distinta la<br />

performance dal suo contesto, giocava un ruolo determinante nei processi di fruizione<br />

delle opere presentate; inoltre il Festival era un luogo di dibattito e di spazio critico che<br />

ne rafforzava la memoria stessa, nel senso che «essere ad Avignone o esserci stati<br />

significa assistere o aver assistito a pezzi di storia del teatro, a spettacoli che non è<br />

possibile perdere, su cui discutere, cercare di capire e di testimoniare, diffondendo quel<br />

che si è visto»; infine, la trasformazione dell’intera città faceva si che lo spettatore<br />

diventi parte di un «microclima», di un ambiente culturale, avvolgente che gli<br />

permettevano di vivere una esperienza unica nel suo genere.<br />

Forse il lettore si sarà già fatto una idea su quale interpretazione dare alla prima parte<br />

del titolo della ricerca di Ethis: “Avignon, le public réinventé” 3 . Su tale aspetto mi<br />

premeva anche ricordare un passaggio, una riflessione, che colpì molto lo stesso Ethis:<br />

«En 1947, Avignon a construit un théâtre pour des publics diversifiés. Au regard des résultats de<br />

l’enquête, on pourrait dire que cinquante-cinq ans plus tard (ndt: la ricerca è pubblicata nel 2002),<br />

le Festival offre désormais des théâtres diversifiés pour un public unifié dans l’attente passionée et<br />

parfois passionelle qui le lie à la manifestation avignonnaise. La communauté de spectateurs tant<br />

espérée par Jean Vilar ne s’est pas réellement matérialisée comme un grand rassemblement<br />

populaire. Peu importe. Une autre communauté est née et joue aujourd’hui un rôle déterminant<br />

dans la vie culturelle française en portant avec elle les promesses d’un art de la scène qui, lui aussi,<br />

n’aura de cesse de se réinventer sous le regard actif et attentif de ses spectateurs particuliers»<br />

(Ethis, 2002: 24)<br />

Ad ogni modo, era giusto che il lettore venisse messo, ora al corrente dei “fatti”,<br />

continuando il racconto e facendogli conoscere il pubblico di Avignone, secondo quanto<br />

proposto dal sottotitolo del libro, che da questo punto di vista non lasciava adito a<br />

fraintendimenti: “Le Festival sous le regard des sciences sociales”.<br />

1 Engel, Kollat, Blackwell 1968; Blackwell, Miniard, Engel 2001; Howard, Sheth 1969; Bettman 1979;<br />

Bettman, Luce, Payne 1988; Luce, Bettman, Payne 1997, 2000; Luce, Payne, Bettman 1999, 2000, 2001;<br />

Solomon 2002; Dalli, Romani 2003. I concetti e le variabili elencate non facevano che ricondurre alle più<br />

classiche dimensioni di analisi dei processi di consumo analizzati dalla disciplina del consumer behavior<br />

(Collodi, Crisci, Moretti 2005). Come il lettore ricorderà, una indagine basata sulle medesime dimensioni,<br />

secondo uno schema di analisi di tipo cognitivista, fu realizzata nel 2005 proprio con riferimento ad una<br />

tournée di un mese che Jan Fabre realizzò nel maggio di quell’anno, prima di trasferirsi ad Avignone in<br />

qualità di artistica associato della 59^ edizione del Festival (Bortoluzzi et al. 2006) (N.d.T.).<br />

2 Belk 1988; Belk, Wallendorf, Sherry 1989 (N.d.A.).<br />

3 Il prof. Ethis, rispondendo alla curiosità del lettore relativa al motivo per cui sia stato utilizzato il<br />

questionario come strumento della ricerca, aveva già risposto, indirettamente, anche alla questione del<br />

«public réinventé» nel momento in cui introduceva la logica dello «spectateur imaginé» e del<br />

meccanismo «poietico» che era proprio della lettura dei risultati di un questionario creato su misura per<br />

l’oggetto di una ricerca di sociologia della cultura (Ethis 2004) (N.d.T.).<br />

539


Torniamo, quindi, alla ricerca sul pubblico.<br />

Prima, un ultimo aspetto di ordine metodologico, specificando in che modo e dove le<br />

persone del pubblico venivano avvicinate per la somministrazione del questionario:<br />

«Ces différents axe, en tant que constitutifs d’une problématique générale mise en œvre dans un<br />

questionnaire […] à propos des publics du Festival d’Avignon, ont été travaillés selon un dispositif<br />

intallé sur les differérents lieux du Festival:<br />

- une “boussole” sociologique permanente mise en place pendant quatre ans à l’Espace Saint-<br />

Louis, lieu de réservation et de vente principal des places du festival in, afin d’observer finement<br />

quelques points sociodémographiques et comportementaux des publics dans le temps;<br />

- une répartition des enquêteurs dans la ville visant à interroger à la sortie ou à l’entrée des<br />

spectacles selon une partition in-off installée sur les lieux les mieux repérés de cette division<br />

institutionnelle» (Ethis, 2002: 328).<br />

All’interno delle sale teatrali, alla biglietteria centrale o agli incontri col pubblico di<br />

Cloître Saint-Louis, alla Maison Jean Vilar, lungo i percorsi del Festival, uno spettatore<br />

su tre aveva meno di 35 anni, e quasi il sessanta per cento un’età compresa tra i 35 e i<br />

64 anni, con una netta maggioranza del pubblico femminile (oltre due su tre). Dal punto<br />

di vista socio-demografico, alcune classi di lavoratori sono praticamente assenti<br />

(agricoltori, operai, artigiani e commercianti): dalle ricerche nazionali era possibile<br />

riscontrare che proprio tra queste categorie di lavoratori vi era la maggioranza del “nonpubblico”<br />

(circa il 70 per cento dichiarava di non essere mai andata a teatro nel corso di<br />

tutta la propria vita). Per contro, circa il 55 per cento del campione era formato da<br />

professori, ricercatori, professionisti dell’informazione, operatori nel settore dell’arte e<br />

dello spettacolo, insegnanti e formatori, studenti (universitari compresi); nell’ambito<br />

della popolazione francese relativa al medesimo anno (2001), queste stesse classi di<br />

individui copriva circa il 30 per cento della popolazione complessiva.<br />

Dal punto di vista geografico e della provenienza, di tutta evidenza il Festival di<br />

Avignone era un’affaire francese e francofono (gli stranieri oscillavano tra il 6 e il 10<br />

per cento). Dal punto di vista regionale, circa un terzo del pubblico proveniva dalla<br />

regione o dal dipartimento (PACA e Vaucluse), mentre la sola regione di Parigi e<br />

dell’Ile-de-France era presente nel 23-24 per cento del campione. Dato interessane era<br />

che un parigino su tre era un professionista del settore privato, ed uno su quattro<br />

apparteneva alle professioni intellettuali del settore pubblico. Oltre il 60 per cento dei<br />

festivalieri possedevano una formazione universitaria ed oltre il 90 per cento avevano<br />

un titolo di sudio equivalente al diploma di scuola superiore. Incrociando i dati, non vi<br />

540


era nulla di particolarmente eccezionale nel riscontrare che le generazioni più giovani<br />

avevano un livello di studio più elevato e delle entrate mensili mediamente più basse<br />

della metà rispetto alla fascia di età dei 40-54 anni. Inoltre, circa tre spettatori su quattro<br />

avevano già partecipato ad altre edizioni del Festival di Avignone (l’85 per cento dei<br />

casi per gli over 55 e circa il 56 per la fascia di età 16-24 anni).<br />

Dal punto di vista della variabile geografica, il pubblico locale e regionale cumulava<br />

delle caratteristiche di un certo interesse: omogeneità per quanto concerneva i livelli di<br />

reddito, la tipologia di professione e l’alta fedeltà al Festival; rispetto invece al pubblico<br />

parigino, con alti redditi, per lo più collegati a professioni libeli e con un tasso di<br />

frequentazione del Festival relativamente più occasionale.<br />

Non a caso, erano quasi la metà degli spettatori provenienti da Parigi, dall’Ile-de-<br />

France e dall’estero ad dichiarare i livelli di reddito più alti e quindi a dimostrare una<br />

maggiore propensione allo spostamento.<br />

541


Gli spettatori del Festival di Avignone potevano poi essere osservati cercando di<br />

ricostruire la loro “carriera”, il loro passato e presente di consumatori teatrali. Il singolo<br />

spettatore di Avignone sapeva, secondo Ethis e colleghi, che al Festival avrebbe trovato<br />

modo di accrescere la sua “identità” di fruitore teatrale, alla ricerca della propria<br />

“esperienza” all’interno del percorso che gli veniva proposto dall’organizzazione<br />

artistica. Ma «il pubblico di Avignone era composto da una molteplicità di “sé” che<br />

incontravano ad Avignone altri “sé” con le medesime inclinazioni. Il problema è che<br />

questo pubblico, omogeneo nei desideri e nei legami affettivi che nutre per il teatro, non<br />

appare tale nella sua manifestazione esteriore; è proprio perché questi legami sono<br />

molto forti che la comunità di spettatori ha difficoltà a volta a convinvere con se stessa.<br />

Molti, infatti, esprimono la sensazione di “essere invasi” in quello che considerano il<br />

loro territorio culturale. E non è raro di sentire i più giovani affermare che “il festival<br />

invecchia” e i più anziani “che i giovani non sanno più andare a teatro”, gli avignonesi<br />

affermare che “non ci sono che parigini attorno a loro” e i parigini affermare, a loro<br />

volta, “che l’accento provenzale è sempre più presente nelle sale degli spettacoli”». La<br />

riflessione di Ethis era collegata, in sostanza, all’idea che per quanto di una comunità si<br />

trattasse, si trattava comunque di un insieme di spettatori “professionali” con una<br />

relativa percezione gli uni degli altri.<br />

Detto questo, alcuni dei dati dell’inchiesta del 2001 potevano fornire un quadro<br />

generale dei caratteri dello “spettatore professionale” del Festival di Avignone. Ad<br />

esempio, considerando le partecipazioni al Festival In e Off, il numero di spettacoli visti<br />

del Festival In aumentava con l’aumentare della frequenza delle presenze, nonostante<br />

una forte presenza di “esclusivisti” che dichiaravano di non aver mai assistito a<br />

spettacoli dell’In, ma di essersi dedicati esclusivamente all’Off. Bisognava comunque<br />

prestare attenzione al fatto che, in generale, una bassa frequentazione del Festival non<br />

poteva che generare una bassa scelte di consumi legati agli spettacoli dell’In, e questo<br />

per una evidente questione di probabilità di accesso e di tempo a disposizione. In<br />

generale, circa il 40 per cento degli spettatori intervistati nei luoghi del Festival In<br />

542


dichiarava di assistere a meno di 6 spettacoli; valore che scendeva al 30 per cento nel<br />

caso di spettatori intervistati nei luoghi dell’Off. Per contro, quasi il 40 per cento di<br />

questi ultimi dichiarava di assitere ad oltre 12 spettacoli (contro il 29 per centro dei<br />

“colleghi” dell’In). Ancora qualche precauzione sulla lettura di quel dato: l’offerta degli<br />

spettacoli era organizzata in modo molto differente nell’Off rispetto all’In, non fosse<br />

altro che per il numero di spettacoli (e di rappresentazioni) proposte nel primo rispetto<br />

al secondo (nell’ordine dell’1 a 15 per il numero di spettacoli e dell’ a 50 per il numero<br />

di rappresentazioni – sic!). Più interessante era considerare il budget riservato<br />

all’acquisto dei biglietti: più elevato nel caso del Festival In (quasi il 40 per cento<br />

dichiarava si spendere 1000 franchi o più – oltre 150 € – mentre nel caso dell’Off tale<br />

tasso era del 32 per cento). Inoltre, considerando il reddito mensile dichiarato dai<br />

festivalieri, emergeva che, in media, il 40 per cento del pubblico percepiva oltre 20 mila<br />

franchi al mese (circa 3mila €), con uno scarto di circa sette punti percentuali tra l’In e<br />

l’Off (fermo restando il fatto che coloro che erano stati intervistati sui luoghi dell’Off,<br />

in circa la metà dei casi, non avrebbe assisisto che a spettacoli dell’Off).<br />

Andando ad indagare sui criteri che motivavano le loro scelte, i festivalieri, nel loro<br />

insieme, non consideravano determinanti le condizioni fisiche e materiali dell’accesso<br />

(tariffe, luoghi ed orari della rappresentazione). Nell’indicare i due criteri che<br />

543


itenevano più importanti per discriminare le loro scelte di acquisto, e nel ricordare<br />

quanto avevo suggerito al lettore circa la questione delle scelte spazio-temporali che<br />

potevano influire sulla pianificazione delle giornate del pubblico del Festival In 1 , gli<br />

spettatori tendevano ad indicare nell’autore, nel regista, nel genere teatrale e nella<br />

presenza di un interprete noto o favorito, come i principali fattori di scelta all’interno<br />

dell’offerta del Festival (In e Off): quei quattro criteri coprivano praticamente il 60 per<br />

cento delle possibilità. Un dato interessante: la debole importanza che veniva accordata<br />

alla critica giornalistica (5 per cento) e il relativamente basso valore del “passaparola”<br />

(meno del 12 per cento sommando “il consiglio di conoscenti” e il “consiglio di altre<br />

persone”). Un’altra tabella, inoltre, risultava interessante: il confronto tra il numero di<br />

spettacoli visti durante l’anno e quelli visti al Festival di Avignone. Oltre il 90 per cento<br />

del campione andava a teatro almeno una volta durante l’anno, e oltre il 40 per cento per<br />

più di 8 volte l’anno (considerando una stagione invernale da ottobre a maggio,<br />

significava circa uno spettacolo al mese).<br />

Ethis considerava poi il fattore del tempo e l’esperienza accumulata dallo “spettatore<br />

professionale” del Festival di Avignone: nonostante il suo carattere periodico e<br />

“festivo”, il Festival andava iscritto tra i fenomeni da analizzare anche in ragione della<br />

propria evoluzione, e con esso, dell’evoluzione del pubblico. Era quindi possibile porsi<br />

delle domande circa il modo in cui i pubblici del Festival percepivano la stratificazione<br />

1 Le scelte “last minute” per il Festival In erano fortemente collegate con la disponibilità di posti, la quale<br />

cambiava sensibilmente a seconda del periodo di programmazione dello spettacolo: una rappresentazione<br />

della prima settimana del festival in uno spazio prestigioso o con grande capienza aveva, di tutta<br />

evidenza, un tasso di occupazione della capacità di posti molto differente rispetto a spettacoli<br />

programmati in spazi più piccoli e nell’ultima settimana del Festival In. Accorgimento che, altrettanto<br />

evidentemente, non era valido per il Festival Off, la cui capacità complessiva abbinata ad un singolo<br />

spettacolo dipendeva esclusivamente dalla costi che la compagnia era disposta a sostenere per l’affitto<br />

dello spazio. In generale, una compagnia dell’Off che affittava uno spazio per l’intero mese, aveva la<br />

possibilità di offrire fino ad una rappresentazione al giorno, sempre alla stessa ora, nello stesso luogo<br />

(N.d.T.).<br />

544


delle loro esperienze passate, elemento fondante della loro identità di amanti del teatro:<br />

«uno spettatore, posto di fronte ad una offerta culturale gerarchizzata sulla base dei<br />

valori che gli sono più o meno propri, più o meno percepibili, mette in gioco delle<br />

logiche di scelta che si sedimentano poco a poco per formare un terreno, a partire dal<br />

quale, la sua curiosità può germogliare, persistere o deperire. L’evoluzione di questo<br />

processo nel tempo è uno degli elementi da prendere in considerazione<br />

nell’osservazione delle dinamiche culturali che presiedono alla formazione delle<br />

pratiche dei festivalieri 1 ».<br />

Visto che circa tre spettatori su quattro dichiaravano di essere già stati al Festival in<br />

passato, fino a che punto era possibile affermare che il pubblico fosse formato da<br />

spettatori esperti oppure che era il Festival il luogo di formazione dell’esperienza dello<br />

spettatore? Con le parole di Ethis: «per alcuni un festival vissuto come qualcosa di<br />

singolare poteva associarsi ai precedenti per creare del senso, come per l’immagine<br />

delle perle che, infilate uno dopo l’altra, potevano creare una collana indivisibile. Per<br />

altri, al contrario, un festival poteva essere solo vissuto in un momento, come per quei<br />

braccialetti troppo larghi che si perdono alla fine dell’estate. E i dati quantitativi non<br />

potevano certo stabilire come si combinava la memoria di un festivaliere, ne come si<br />

combinavano i ricordi di qualche spettacolo indimenticabile 2 ».<br />

Senza volere analizzare l’assiduità delle presenze al Festival (partecipare a 5 Festival<br />

in 5 anni era evidentemente diverso dal partecipare a 5 Festival in dieci anni), era<br />

comunque possibile affermare che la presenza media di sei partecipazioni all’interno del<br />

campione del 2001 costituiva comunque un dato interessante: in particolare, quasi il 16<br />

per cento aveva preso parte a più di dieci edizioni, mentre circa uno spettatore su quattro<br />

veniva al Festival per la prima volta (con una forte probabilità di ripetere l’esperienza in<br />

futuro). Inoltre, era piuttosto evidente il principio generale «più si va a teatro e più si è<br />

fedeli al festival», in quanto tra quanti consumavano più di otto spettacoli l’anno, la<br />

metà aveva partecipato a più di quattro edizioni del Festival. Ancora più alto valore per i<br />

frequentatori “storici” del Festival. La fedeltà commisurata al numero di partecipazioni<br />

precedenti caratterizzava anche coloro che assistevano al maggior numero di spettacoli<br />

1 Ethis 2002: 228. Ma arrivati a questo punto del nostro viaggio, son certo che il mio lettore non potrà di<br />

certo sorprendersi dell’uso di una metafora biologica come quella (N.d.T.).<br />

2 Ethis 2002: 229 (N.d.T.).<br />

545


del Festival, tra l’altro senza forti differenze in termini di localizzione geografica: chi<br />

partecipava per la prima volta tendeva a vedere un numero limitato di spettacoli<br />

(comunque meno di sei); oltre il 60 per cento di quanti avevano partecipato ad almeno<br />

una edizione precedente del Festival assisteva ad almeno sei rappresentazioni. Potevo<br />

anche aggiungere una ipotesi di lavoro: con tutta probabilità gli spettatori più fedeli al<br />

Festival erano anche quelli che realizzavano i soggiorni più lunghi ad Avignone,<br />

aumentando quindi di gran lunga la probabilità di allargare il loro carnet di spettacoli.<br />

Era poi possibile considerare anche un indicator di assiduità nel momento in cui veniva<br />

chiesto indicare le edizioni della propria presenza. Ebbene, nonostante tutte le difficoltà<br />

del caso, collegate soprattutto al fatto che alcuni spettatori non ricordavano di preciso<br />

l’anno, emergeva che tre su quattro erano sicuramente venuti al Festival dell’anno<br />

prima. Considerando che ogni anno circa uno spettatore su quattro partecipa per la<br />

prima volta, emergeva un tasso di rinnovamento globale del pubblico del Festival di<br />

circa il 40 per cento (depurato del possibile effetto legato al 2000, l’anno del nuovo<br />

millennio, con Avignone “Capitale Europea della Cultura”, con particolari celebrazioni<br />

e offerte culturali molto ampie). Restava da sottolineare una questione puramente<br />

“anagrafica”, legata ad una manifestazione con sessanta anni di storia: l’età degli<br />

spettatori e la loro appartenenza generazionale costituiva un ruolo importante nei<br />

processi di rinnovamento della curiosità e dell’interesse nei confronti della<br />

manifestazione e del teatro in generale. Ma gli effetti legati all’età e all’appartenenza<br />

generazione sortivano però conseguenze differenti, o meglio, quei caratteri sembravano<br />

impattare sulle variabili di consumo con modalità differenti. Ad esempio: i livelli di<br />

reddito e il budget da dedicare ai consumi culturali erano questioni legate all’età e<br />

all’ingresso e all’uscita dello spettatore nella vita attiva e non a differenze generazionali;<br />

per contro, il livello di studi era una variabile tanto legata all’età quanto alle differenti<br />

generazioni; ancora, il numero di partecipazioni precedeti al Festival era,<br />

evidentemente, legato all’età anagrafica. In generale, era possibile evidenziare come la<br />

spinta motivazionale a ritornare, eventualmente, al Festival da un’edizione all’altra, era<br />

funzione degli effetti generazionali i quali sembravano determinare un rapporto<br />

differente con la cultura, rispetto, ad esempio, alla dimensione legata ai rapporti con il<br />

teatro durante il resto dell’anno.<br />

Attraverso l’immagine del pellegrinaggio, era possibile tracciare le caratteristiche<br />

della fedeltà al Festival. «Ricondurre la loro presenza ad Avignone offre a certi<br />

spettatori l’occasione di fare il punto sul loro posizionamento in termini di generazione,<br />

anche senza oggettivizzarlo completamente. Attraverso il confronto con delle<br />

produzioni teatrali, ma anche dai discorsi provenienti da una generazione o dall’altra,<br />

sono portati a verificare lo stato della loro adesione all’offerta di spettacoli e all’offerta<br />

di discorsi là, con quelli o altrove, al fianco di quegli altri. Un pellegrinaggio è<br />

certamente una faccenda di fede, ma ancora, bisogna precisare che questa fede non è né<br />

cieca né vissuta come distaccata dai riferimenti ordinari che attivano le percezioni stesse<br />

dello spettatore (riferimenti teatrali, ma anche letterari, cinematografici, televisivi…).<br />

Avignone forse vale bene una messa, ma si tratta di una celebrazione nel corso della<br />

quale i celebranti non valicano mai le porte della chiesa per pura abitudine, non<br />

comunicano beatamente occultando le loro differenze senza fare il proprio esame di<br />

coscienza 1 ».<br />

1 Ethis 2002: 240 (N.d.T.).<br />

546


***<br />

L’apprendimento come partecipazione sociale non costituiva solo un coinvolgimento<br />

“locale” ma un processo “inclusivo” «l’essere partecipanti attivi nelle pratiche di<br />

comunità sociali e nella costruzione di identità in relazione a queste comunità 1 ».<br />

Quale era il rischio ingenerato dalla strategia di Jean Vilar? Il rischio era legato al<br />

fatto di restare “a metà del guado”, cioè rimanere impatanato prima di riuscire a creare<br />

«un circuito dedicato di comunicazione, logistica e garanzia [in cui i soggetti di quella<br />

rete] si trovano vincolati ad agire in modo concorde e reciprocamente utile 2 ». In altri<br />

termini, Vilar sembrava consapevole che quella “rete di interazione comunicativa” che<br />

stava cercando di realizzare, doveva essere dotata di adeguati meccanismi operativi e di<br />

garanzia che le avrebbero permesso di costituirsi come una “piattaforma di relazione<br />

affidabile”: il rischio di implosione era molto alto nel momento in cui non fosse riuscito<br />

a creare “esperienze ricche” ed “esperienze aperte alla condivisione” nell’ambito della<br />

comunità del suo pubblico. Ancora una volta: non solo una comunità epistemica che<br />

riconosceva un certo modo di “strutturare conoscenza artistica” (e che comunque<br />

andava continuamente messo in discussione al fine di creare una identità comune); era<br />

necessario che quell’insieme di persone facesse il salto per diventare una comunità<br />

semantica, che condividesse il senso stesso delle esperienze comuni vissute in quel<br />

luogho e in quei momenti. Se il “retroterra” della filiera cognitiva era organizzato a rete,<br />

allora si poteva compiere quel magico meccanismo per cui al pubblico il testo estetico<br />

arrivava al massimo del suo valore cognitivo; ma per sprigionare un effetto di<br />

propagazione davvero completo, meglio era se anche la filiera a valle si organizzava in<br />

filiere cognitive collaudate e in reti comunicative efficaci (quelle del pubblico).<br />

Lessi una immagine affascinante, romantica, forse oltremodo simbolica di Jean Vilar.<br />

Vorrei consegnarla al lettore, così come la trovai nel suo Chronique romanesque:<br />

La création tue la création. La succession des choses élimine les choses. Le mouvement détruit.<br />

S’arrêter n’existe pas. L’enfant tue le père. La mer contemplée rappelle que la vie même des<br />

formes est cette naissance entraînant aussitôt à son déclin la forme précédente. Sur la plage, ses<br />

pas s’enfonçaient dans le sable fin et il imaginait des milliers de personnes arpentant comme lui ce<br />

cirque, comme lui contraintes au silence, à la contemplation, à la méditation. Le vaste plateau<br />

s’offrit enfin totalement à la lumière. Sur le plan d’eau, à cent brasses du rivage, un objet informe,<br />

caisse ou cageot, dansait imperceptiblement, attirait l’attention, donnait une mesure à l’immensité,<br />

un point de repère à la vue. La saltation à peine sensible de l’objet, sa présence, sa solitude, sa<br />

petitesse même créait le spectacle. L’objet glisse, oscille. Il vit. Ce morceau de bois rogné,<br />

misérable, ces quelques pouces au-dessus de la surface des eaux, créent l’intérêt. Et tandis que<br />

passent les heures, les lumières bouleversent la scène immense. L’objet prend toutes les formes :<br />

tronc d’olivier, demi-muid crevé, tête de squale, roc de guano, cadavre, deux amants endormis<br />

dont les corps se couvrent l’un l’autre. L’objet est toujours là. Il inquiète. Il s’adresse à cet autre<br />

solitaire qui, du rivage, le contemple. Il accueille la jeune vague qui le caresse. Il est la chose<br />

périssable. Il mourra en arrivant à la côte. Mais jusqu’à cet instant dernier, cet éphémère rompt les<br />

lignes du mouvement permanent. Il est la contradiction. Il est le personnage. Il règne. Ici, sur ce<br />

plateau, tout est possible. Toute chose peut être attendue, imaginée, toute présence et toute<br />

existence.<br />

In fondo, aveva ben ragione Jean Vilar: «“Théâtre populaire” signifie: apprendre, et<br />

apprendre: libérer l’homme».<br />

1 Wenger 2006: 11 (N.d.A.).<br />

2 Rullani 2004b: 214 (N.d.A.).<br />

547


6<br />

EP<strong>IL</strong>OGO. VERSO LE PROSSIME E<strong>DI</strong>ZIONI


XL<br />

(Le chiavi per l’integrazione della filiera cognitiva teatrale)<br />

In cui il lettore viene rassicurato sul fatto che la storia raccontata non è finita (nonostante<br />

le apparenze) e che non ne è cominciata una nuova con nuovi protagonisti Dove si<br />

scopre che la conoscenza si propaga grazie al fatto che le persone continuano a riprodurla<br />

riflessivamente, dando continuamente un senso a quello che fanno E in cui si rafforza<br />

l’idea che una filiera cognitiva sia un unico processo in attuazione, una struttura collettiva<br />

in una perenne situazione di interdipendenza con le sue componenti, e che noi non facciamo<br />

altro che coglierne qualche istantanea, qualche spezzone


«Il vero viaggio di scoperta non consiste nel<br />

cercare nuove terre, ma nell'avere nuovi occhi».<br />

(Marcel Proust, À la recherche du temps perdu)<br />

Stavo attraversando il Rodano 1 : abbandonata la caotica tangenziale di Avignone, una<br />

specie di barriera architettonica che univa dal punto di vista urbanistico, ma anche<br />

separava visivamente dalla parte opposta della riva e dal resto del paesaggio. L’autobus<br />

cominciava a costeggiare l’altra sponda dove il panorama cambiava sensibilmente:<br />

diventava davvero mediterraneo, con roccia viva che ospitava piante e arbusti tipici, su<br />

quella poca terra bruciata dal sole; un po’ di sali e scendi; case di pietra; lo sguardo che<br />

si perde tra il costone roccioso da una parte e la vallata del grande fiume dall’altra. La<br />

torre, costruita verosimilmente dove terminava il ponte 2 . Già si intravedeva il forte e,<br />

poco più in basso, dopo un tornante, quel luogo magico e seducente che era la<br />

Chartreuse.<br />

Non avevo un ricordo preciso delle espressioni scolpite nei volti di quanti, di volta in<br />

volta, venivano messi al corrente del mio progetto di ricerca e del modo in cui avrei<br />

cercato di realizzarlo. Certamente poteva trattarsi di un continuum di atteggiamenti ai<br />

cui estremi vi erano, senz’altro, il parziale accoglimento e l’assecondare con serena<br />

indifferenza le farneticanti idee e l’enigmatico linguaggio attraverso cui esprimevo le<br />

mie riflessioni, o meglio le mie libere interpretazioni e azzardati accostamenti di quelle<br />

che, per lo più, erano riflessioni altrui su conoscenza e produzione artistica.<br />

Questa amnesia non dipendeva solo dal fatto che era trascorso parecchio tempo<br />

dall’inizio di quella avventura; infatti, fedele ai miei propositi e alla mia visione di<br />

ricerca, quelle idee e quelle ipotesi di lavoro si svilupparono in modo irregolare e,<br />

sicuramente, non seguendo una lineare e unitaria strategia teorica e operativa (sic!).<br />

Proprio perché produrre conoscenza è un fenomeno emergente, in cui non si sa mai da<br />

quale “filiera cognitiva” possa giungere il contributo decisivo e di maggior valore, che<br />

può fare veramente la differenza, il mio percorso si era evoluto pietra su pietra,<br />

alimentato dal fluire di tanti e tali stimoli cognitivi la cui schizofrenica eterogeneità<br />

potrebbe essere testimoniata dei riferimenti bibliografici in calce a codesto lavoro.<br />

Detto questo, secondo alcuni pensatori, dei quali non si può che nutrire intensa<br />

ammirazione, profondo rispetto e salutare invidia, si raggiungerebbe la salvezza e,<br />

tramite questa, la pace (quanto meno interiore), quando si sia realizzata la “pienezza<br />

della conoscenza”. Nel mio caso, e a ben vedere, si sarebbe trattato di una tragica ironia<br />

della sorte, «un bel guaio!» verrebbe da dire: da perfetto apostata quale io mi ritengo,<br />

ero persuaso del fatto che la mia anima da ricercatore avrebbe continuato ancora a lungo<br />

a subire il peso della dannazione dovuta a ignoranza, inconsapevolezza, inesperienza e<br />

inebriante incoscienza; nutrita, poi, da inappagabili dubbi, essa difficilmente avrebbe<br />

mai trovato sereno appagamento per quella via.<br />

La questione della ri-scoperta della conoscenza negli studi di economia e di<br />

management, infatti, portava con se anche la ri-scoperta del «carattere complesso del<br />

conoscere e del produrre 3 »: se i processi produttivi non erano più concepibili in modo<br />

semplice e astratto, ma erano il frutto di «relazioni intrecciate con molte circostanze e<br />

1 Il ponte stradale era il Pont Daladier che collegava Avignone con Villeneuve-lez-Avignon (N.d.T.).<br />

2 La torre era quella di Filippo il Bello, mentre il ponte era il famoso ponte San Benezet di Avignone,<br />

costruito nel XII secolo e che, danneggiato dalle piene del Rodano, dal Seicento non fu più restaurato si<br />

interrompe nel mezzo del fiume (N.d.T.).<br />

3 Rullani 2004b: 385 (N.d.T.).<br />

552


dipendenti dall’unicità dei contesti in cui la produzione e il consumo si svolgono»; c’era<br />

piuttosto da domandarsi “come potevo davvero considerarmi, in un qualche modo,<br />

appagato dall’aver sviluppato una logica praticamente ancora inapplicata, capace di<br />

«interpretare un mondo in trasformazione» sulla base di principi reali ampiamente<br />

disattesi dalle leggi teoriche dominanti?”.<br />

In quel viaggio appassionante che avevo strutturato nella mia mente e che avevo<br />

cercato di riprodurre e diffondere in queste pagine per il mio lettore, avevo avuto modo<br />

di visitare un laboratorio “cognitivo” che, con riferimento al settore dello spettacolo dal<br />

vivo, aveva cercato di ricostruire le pre-condizioni di una sorta di nuovo umanesimo<br />

post-rivoluzione industriale 1 . Con le parole di Rullani: «Dopo i furori rivoluzionari<br />

iniziali, la ricerca del senso era passata in second’ordine e si è cominciato a fare, nei<br />

vari campi, un uso puramente strumentale della conoscenza, che è ben presto diventata<br />

tecnica, ottimizzazione, prezzo di mercato. Persa negli ingranaggi della grande<br />

macchina del calcolo tecnico-economico, la conoscenza ha dimenticato la sua ragione<br />

iniziale, il suo fine emancipativo. Non è stata più conoscenza che i soggetti elaborano su<br />

se stessi, e sul proprio rapporto col mondo, ma è diventata conoscenza sulle cose, sulle<br />

tecniche, sui mezzi».<br />

Mi venivano in mente il quadro di Velásquez, la struttura logica del suo “Las<br />

Meninas”, il racconto e l’interpretazione che ne offriva Michel Foucault; ma mi<br />

venivano anche in mente i racconti di Calvino e di Borges, i romanzi di Eco e di Proust;<br />

ma anche, gli spettacoli di Josef Nadj e Romeo Castellucci, di Pippo Delbono e Thomas<br />

Ostermeier, ed anche quelli di Jan Fabre e di Marina Abramovic. E, ovviamente, mi<br />

veniva in mente l’intrepida avventura di Jean Vilar e la sua meta-strategia del “teatro<br />

popolare”.<br />

Aveva senso andare a cercare anche i mediatori cognitivi (di validazione, di<br />

riproduzione, di distribuzione e di integrazione) dimenticati dalla modernità, così<br />

ancorata, nel caso del pensiero economico, ad un processo di produzione di conoscenza<br />

“immersa” e “identificata” metodologicamente, all’interno di uno dei più seducenti<br />

processi produttivi che l’uomo abbia mai posto in essere? «La conoscenza “razionale” –<br />

deterministica, impersonale – è diventata un presupposto a priori, un assunto logico<br />

sottratto alla discussione. In tal modo, essa ha occupato tutta la scena, fornendo al<br />

meccanismo la sua logica interna: una logica che, dall’esterno, è difficile vedere perché<br />

è uniformemente presente ovunque, in tutti i problemi, in tutte le risposte 2 ».<br />

In molti degli eventi, momenti, passaggi della storia del/sul Festival di Avignone che<br />

avevo cercato di proporre alla sua attenzione, il lettore poteva trovarci spunti vari per<br />

affrontare il problema che anche una filiera produttiva tanto vicina ad essere<br />

vividamente “cognitiva” si trovava a convivere, volente o dolente, con forze<br />

contrapposte che cercavano di farla rientrare nell’alveo tracciato dall’applicazione dei<br />

principi generali di altri ambiti di intervento (e di pensiero) umani. Gli esempi non<br />

mancavano: i) ecco che la propagazione cognitiva di un sistema di produzione nato, in<br />

modo forse fortuito, per rispettare principi di produzione specifici, veniva poi sottoposta<br />

a valutazione sulla base di regole di validazione diametralmente opposte a quelle<br />

strutture logiche fondanti e che non potevano avere senso in quel contesto; ii) o ancora,<br />

una organizzazione rischiava di evolvere perdendo di vista la sua identità e i suoi valori,<br />

col rischio che ne venisse messa in gioco la stessa esistenza, e questo solo perché non si<br />

era riusciti, in un passato neppure troppo lontano, a condividere un senso comune per il<br />

1 Touraine 1992, ma anche Habermas 1985 (N.d.T.).<br />

2 Rullani 2004b: 386 (N.d.T.).<br />

553


proprio discorso estetico (e strategico); iii) o, infine, la critica teatrale, in una<br />

determinata condizione spazio-temporale, si ergeva a protezione di una “modernità” che<br />

essa stessa non pareva in grado di codificare se non attraverso i tradizionali canoni<br />

estetici, producendo quindi le condizioni affinché si potessero realizzare le proprie<br />

profezie, piuttosto che indirizzare l’opinione pubblica attraverso la più profonda<br />

comprensione delle strutture logiche sottostanti ad una programmazione artistica intesa<br />

come “testo estetico aperto”. Ma gli esempi, spero che il lettore ne sia cosciente,<br />

possono essere i più vari.<br />

Laddove anche le filiere cognitive apparentemente più aperte all’utilizzo cosciente di<br />

tutte le possibili lavorazioni che la conoscenza può subire al suo interno, si<br />

indirizzavano, invece, verso «quell’illusione deterministica che ha incantato gran parte<br />

del pensiero economico e sociale della prima modernità 1 », allora si generava un<br />

incredibile cortocircuito: scienza e arte, ad esempio, diventavano dei mezzi di<br />

esplorazione del possibile nelle mani di tecnici e calcolatori, che chiedono alle<br />

macchine di elaborare artificialmente una interpretazione del reale che invece deve<br />

restare compito “naturale” dell’intelligenza umana.<br />

L’apprendimento, processo tanto studiato a livello economico 2 in quanto<br />

apparentemente in grado di “catturare” la complessità che «viene intercettata,<br />

interpretata e “imbrigliata” dagli attori economici», consuma una quantità enorme di<br />

risorse cognitive: Jean Vilar, che pure non aveva mai pensato di parlare di «governo<br />

della complessità attraverso la conoscenza», trascorse la sua vita a cercare di rendere<br />

ragionevoli i suoi contemporanei e a mettere in guardia coloro che gli succedettero,<br />

circa l’esigenza che chiunque debba cercare di svolgere al meglio il proprio specifico<br />

compito all’interno della filiera di cui ritiene di far parte; e questo affinché, a livello<br />

generale, si venissero a creare le condizioni migliori per permettere la “partecipazione”,<br />

quanto più estesa possibile, a quel processo di propagazione della conoscenza mediata<br />

dall’arte che era il teatro contemporaneo. L’utopia del “teatro popolare” di Jean Vilar,<br />

così come l’economia contemporanea, si nutrivano della capacità di innovazione<br />

laddove questa serviva a liberare la conoscenza (connettiva) prodotta in un determinato<br />

contesto, affinché venisse messa a disposizione di altre filiere cognitive, di altre<br />

fabbriche dell’immateriale, in un punto qualsiasi del processo, subendo le ulteriori<br />

lavorazioni di cui necessitava per riprendere a creare valore. Come era possibile operare<br />

“razionalmente” in una situazione in cui non era fattibile sapere da chi e da dove<br />

sarebbe venuto il contributo decisivo per la creazione di valore in un punto qualsiasi di<br />

quel sistema? L’apprendimento, diranno molti economisti, è utile in tale senso. La<br />

risposta è tendenzialmente corretta se si considera l’apprendimento (“evolutivo”,<br />

direbbe Enzo Rullani) come una forma di intelligenza che è capace di perseguire un<br />

disegno unitario, intenzionale, basato sull’esperienza pratica. Ancora una volta, il<br />

“teatro popolare” di Jean Vilar era l’esempio di questa meta-strategia, di quella formula<br />

di governo delle relazioni a livello di sistema cognitivo, in grado di fare funzionare «una<br />

forma di knowledge working, di conoscenza in azione. Un’azione intelligente, infatti, è<br />

1 In un articolo di Eldar Shafir, Peter Diamond e Amos Tversky intitolato “Money Illusion” trovai<br />

interessanti spunti circa l’effetto sulla teoria economica della tendenza a pensare in termini nominali<br />

invece che in termini reali il concetto di valore (Shafir, Diamond, Tversky 1997) (N.d.T.).<br />

2 Tra gli altri: Anderson 1999; Brown, Duguid 1991, 2000; Cohen, Levinthal 1989, 1990; Di Bernardo,<br />

Rullani 1985, 1990; Dosi, Nelson 1994; Herriot, Levinthal, March 1985; Levinthal, March 1993; Levitt,<br />

March 1988; March 1991; Narduzzo, Warglien 1996; Nelson, Winter 1982; Nooteboom 1999, 2000;<br />

Warglien 1990; Wenger 1998 (N.d.T.).<br />

554


prima di tutto un’azione generativa, capace di costruire sperimentalmente un rapporto<br />

appropriato al contesto». Quando, ad esempio, ti chiedevo, caro lettore, di considerare i<br />

più “tipici” aspetti organizzativi del Festival in una prospettiva all’apparenza insensata,<br />

ti mettevo in guardia sul fatto che l’agire intelligente legato alle questioni tecnicoamministrative<br />

di una ordinaria organizzazione era necessariamente «un agire situato,<br />

ossia un processo in cui l’azione nasce e si sviluppa in funzione dello specifico contesto.<br />

[Perché] l’intelligenza non è semplicemente “immersa” nel contesto, immaginato come<br />

un ambiente che la sovrasta e la condiziona dall’esterno. Essa, al contrario, è in grado di<br />

auto-situarsi nel contesto, modificandolo quanto basta perché l’interazione finalistica da<br />

perseguire possa essere realizzata. Nell’agire intelligente, il contesto non è, infatti, un<br />

dato, ma viene costruito e gestito ricorrendo in modo continuativo all’apprendimento».<br />

In questa prospettiva, Rifkin non si sbagliava quando prevedeva la “morte del lavoro” e<br />

l’avvento dei “knowledge-worker”. L’errore stava nel fatto che egli escludeva dai suoi<br />

lavoratori cognitivi tanto gli angeli custodi del festival di Avignone quanto i tecnici<br />

intermittenti dello spettacolo che, lavorando in autonomia e facendo del knowledgeworking<br />

generavano valore in modo del tutto differente, o se si preferisce, del tutto<br />

identico ad un broker finanziario, un esperto di software o un famoso designer:<br />

risolvendo continuamente problemi, in modo autonomo e creativo, sulla base si<br />

situazioni contestuali e pratiche di lavoro più o meno condivise da comunità che<br />

operavano in piccoli gruppi fortemente coesi al loro interno, e debolmente interconnessi<br />

tra loro. La divisione del lavoro, nel caso dei processi produttivi dell’arte, era parte<br />

integrante della ragione d’essere di un’opera d’arte. L’opera aperta di Umberto Eco e la<br />

conoscenza connettiva à la Rullani ci stavano dando indicazioni chiare in tal senso:<br />

senza gli utilizzatori intermedi di conoscenza pronta all’uso, e non ultimo, senza il<br />

contributo (innovativo) diretto del pubblico (spettatori/visitatori), i meccanismi di<br />

percezione estetica non hanno ragione d’esistere e di attivarsi. Non si ha “arte”.<br />

Decentrare l’intelligenza e il potere decisionale, all’interno di un disegno unitario<br />

basato su strategie di trasformazione della conoscenza più o meno codificate o<br />

condivise: «il frazionamento delle esperienze in molti ambiti specializzati ha creato, in<br />

effetti, una società di esperti e di sistemi esperti, separando chi produce da chi usa le<br />

conoscenze. La delega alle tecnostrutture ha indotto, col tempo, l’afasia dei deleganti,<br />

che cercano di avere a disposizione conoscenze utili e a basso costo, delegate agli<br />

esperti, ma che non sanno più usarle per parlare di se stessi, per comunicare con gli<br />

altri, per proteggere il proprio futuro tra i tanti possibili 1 ». Anche in questo senso la<br />

produzione artistica aveva molto da insegnare ai processi di produzione della fabbrica<br />

dell’immateriale: se le tecnostrutture permettevano di produrre e vendere conoscenza<br />

preconfezionata ad un utilizzatore che, in quel processo, a sua volta, non aveva fatto<br />

nulla per impadronirsi della scoperta, della soluzione acquistata; nel caso della<br />

produzione teatrale il rischio della scoperta e dell’esplorazione non era fenomeno<br />

delegabile a terzi, e «il potere e l’intelligenza che si accompagnano al rischio stesso»<br />

diventavano parte integrante della relazione di lavoro interna all’organizzazione teatrale,<br />

al progetto artistico e della sua relazione estetica con il pubblico. Nel linguaggio che<br />

oramai, caro lettore, avrai imparato ad amministrare, l’effetto moltiplicatore di quel tipo<br />

di conoscenza manca, per l’appunto di intensità: prodotti e soluzioni tecniche «seriali»<br />

non permettevano che la moltiplicazione dell’uso di quelle conoscenze si arricchisse di<br />

ulteriore valore di natura «estetica» e derivante da «emozione partecipativa». La<br />

1 Ibidem: 387, ma anche Touraine 1992 e, per certi versi, Wenger 2006 (N.d.A.).<br />

555


creazione dello spettacolo di Nekrosius, la realizzazione del primo palcoscenico nella<br />

Corte d’onore del Festival di Avignone del 1947 o l’emozione della “terra viva 1 ” che il<br />

pubblico dello spettacolo di Nadj e Barcelo portava con sé, a casa, al termine della<br />

rappresentazione, erano altrettanti esempi in tale direzione.<br />

Ancora con le parole di Rullani: «La delega alla tecnocrazia ha svuotato di senso – e<br />

quindi di affidabilità – il sistema dei rapporti sociali, ponendo un problema di<br />

governabilità e di peso del potere regolatore ereditato dalla prima modernità. Di fronte<br />

a molti sviluppi imprevisti e indesiderabili del sistema economico e sociale attuale, è<br />

inutile discutere su che cosa le grandi istituzioni dovrebbero fare; bisogna invece<br />

chiedere che cosa possono davvero fare».<br />

Senza volere toccare scomodi ma, purtroppo frequenti, “casi” attuali, un esempio<br />

lontano nel tempo in tal senso era fornito dalla straordinaria esperienza di Jeanne<br />

Laurent, responsabile della Direzione delle Belle Arti per il teatro, prima dell’esistenza<br />

del Ministero della Cultura, e grazie alla quale la Francia, oggi, poteva contare su un<br />

sistema teatrale quanto meno evoluto dal punto di vista geografico, in termini di<br />

decentramento produttivo e di diffusione artistica. Il lettore rammenta cosa accadde<br />

quando Jeanne Laurent fu costretta a lasciare la sua posizione: senza avere bisogno di<br />

alcuna struttura a supporto (una segreteria, un ufficio di gabinetto, un osservatorio<br />

teatrale o infiniti incarichi di studio) Jeanne Laurent era stata in grado di gestire un<br />

“potere regolatore” legato a rapporti diretti tra le persone che operavano in quei sistemi<br />

di produzione. Al venire meno di tale meccanismo di integrazione, Jean Vilar si trovò di<br />

fronte ad una rilevante problematica di ordine istituzionale: rendere conto del proprio<br />

operato per l’ottenimento delle risorse necessarie al perseguimento degli obiettivi che<br />

gli erano stati affidati, facendo però riferimento a persone (strutture tecnocratiche) che<br />

non erano in grado di condividere conoscenze e aspetti estetici di fondo, vale a dire i<br />

cardini stessi delle scelte strategiche.<br />

Ancora Rullani: «Nella società pre-industriale, estetica e condivisione delle<br />

conoscenze non appartengono a due domini differenti: il rapporto diretto tra persone,<br />

nei sistemi locali di produzione, permetteva di mantenere in equilibrio il senso estetico<br />

con le esigenze della (limitata) serialità e della replicazione moltiplicativa. Ma le cose<br />

sono cambiate con l’avvento dei mezzi di trasporto e di comunicazione moderni.<br />

L’allargamento dei circuiti ha spersonalizzato i rapporti e ha compromesso la capacità<br />

di produrre e usare conoscenze esteticamente intense. La logica del moltiplicatore è<br />

quella delle economie di scala, degli standard, ma anche delle grandi concentrazioni di<br />

potere che presidiano i mercati di massa, puntando a volumi sempre più elevati.<br />

[Inoltre] la tecnocrazia, insediata nei diversi sistemi esperti che amministrano la vita<br />

moderna, ha avuto l’effetto di inibire l’intensità dell’esperienza di lavoro o di consumo<br />

perché la conoscenza procede dall’alto verso il basso, e usa, dunque, le persone – gli<br />

attori reali – come contenitori più che come protagonisti del processo cognitivo. Sono le<br />

organizzazioni, non le persone, che sanno, e che “vivono” le passioni connesse al<br />

sapere 2 ».<br />

1 L’argilla adoperata dello spettacolo “Paso Doble”, invece di costituire una semplice questione di pulizia<br />

della scena e di natura logistica, diventava un momento di partecipazione emotiva forte da parte del<br />

pubblico, un modo per penetrare nel senso più profondo dell’esperienza estetica che aveva vissuto durante<br />

l’ora precedente: in termini di moltiplicazione della conoscenza, quel banale “feticcio” portato a casa<br />

potrebbe avere effetti di propagazione cognitiva fortissima e non costituire solo un delicato<br />

soprammobile! (N.d.T.).<br />

2 Rullani 2004a: 388-389 (N.d.A.).<br />

556


Che differenza c’era tra l’esperienza di Francesco di Marco Datini e di Matteo<br />

Giovannetti nella Avignone dei Papi, rispetto all’avventuroso sogno di un poeta, di un<br />

mercante d’arte e di un regista di teatro nella Avignone del secondo dopoguerra?<br />

Mentre i primi favorirono, e per certi versi, misero le fondamenta per la creazione di un<br />

sistema di propagazione della conoscenza che, a suo modo, avrebbe cambiato la Storia<br />

dell’Uomo; i secondi cercarono di ridare linfa nuova ad un processo che rischiava di<br />

restare impantanato dal formarsi delle tecnologie e delle tecnocrazie che, di lì a poco,<br />

avrebbero cercato di governare il processo di produzione artistica sulla base di regole<br />

(relazioni) prese a prestito da sistemi produttivi (filiere) con strategie di trasformazione<br />

cognitiva che tenevano conto di improbabili lavorazioni e attrezzature se utilizzati nel<br />

caso della produzione artistica (mediatori cognitivi) . Non fu un caso che, esattamente<br />

nello stesso periodo anche in Italia vi erano persone che cercavano di realizzare i<br />

medesimi ideali. Questo è un estratto del famoso “manifesto-programma” del Piccolo<br />

Teatro di Milano, del 1947:<br />

«Questo teatro nostro e vostro, il primo teatro comunale d’Italia è promosso dall’iniziativa di<br />

taluni uomini d’arte e studio, che ha trovato consenso e aiuto nell’autorità fattiva di chi è<br />

responsabile della vita cittadina. Noi non crediamo che il teatro sia una decorosa sopravvivenza di<br />

abitudini mondane o un astratto omaggio alla cultura. Il teatro resta il luogo dove la comunità<br />

adunandosi liberamente a contemplare e a rivivere, si rivela a se stessa; il luogo dove fa la prova<br />

di una parola da accettare o da respingere: di una parola che accolta, diventerà domani un centro<br />

del suo operare, suggerirà ritmo e misura ai suoi giorni.<br />

“[…] Recluteremo i nostri spettatori, per quanto più possibile, tra i lavoratori e tra i giovani,<br />

nelle officine, negli uffici, nelle scuole, offrendo semplici e convenienti forme di abbonamento per<br />

meglio saldare i rapporti tra teatro e spettatori, offrendo comunque spettacoli di alto livello<br />

artistico a prezzi quanto più possibile ridotti. Non dunque teatro sperimentale e nemmeno teatro<br />

d’eccezione, chiuso in una cerchia di iniziati, ma invece teatro d’arte per tutti.[…] Non crediamo<br />

che il tempo del teatro declini […]. Il teatro resta quel che è stato nelle intenzioni profonde dei<br />

suoi creatori: il luogo dove una comunità liberamente riunita, si rivela a se stessa, ascolta una<br />

parola da accettare o da respingere. Perché anche quando gli spettatori non se ne avvedono,<br />

questa parola li aiuterà a decidere nella loro vita individuale e nella loro responsabilità sociale»<br />

Era difficile non trovare i punti di contatto tra il programma del Piccolo Teatro di<br />

Milano e quello del Festival di Avignone. Si trattava, infatti, di «costruire e far<br />

funzionare una rete di persone e una rete di [organizzazioni] che, mantenendo la loro<br />

autonomia, cooperino nella produzione e valorizzazione della conoscenza posseduta».<br />

In sostanza, «l’organizzazione si è riconfigurata nelle forme reticolari, facendo posto<br />

alle iniziative personali e alla complessità delle autonomie decisionali […]. Non c’è<br />

contraddizione tra il principio sistemico e quello della creatività soggettiva: […] le reti<br />

sono, infatti, forme di intelligenza collettiva [e] la razionalità decentrata appartiene non<br />

ad individui isolati dal contesto sociale e rispondenti a canoni astratti (di calcolo delle<br />

convenienze), ma a persone che esercitano la loro autonomia di scelta entro reti sociali,<br />

dotati di una propria storia e organizzazione sovra-individuale 1 ».<br />

Nelle sue riflessioni romanzate, completate appena prima della sua morte e<br />

pubblicate postume, Jean Vilar scriveva:<br />

«Aux heures de ses promenades nocturnes et excentriques sur les trottoirs des quartiers déserts<br />

où il rôdait, il s’en tenait à ces réflexions sommaires. Il s’éfforçait, au travers des confusione de<br />

son esprit ou du désordre des choses, de découvrir quelque clarté, une évidence, peut-être une<br />

certitude. Repoussant le “à quoi bon” des suicidaires ou des drogués, il lui arrivait de penser ou de<br />

1 Rullani 2004a: 391-392 (N.d.T.).<br />

557


concluse qu’un théâtre, pur de tout fatras idéologique et de tout exploit technique, d’apparence<br />

puavre ou du moins sans surcharges, libéré du didactisme d’un seul – auteur ou régisseur – aussi<br />

bien que des contraintes capitalistes, n’était pas une entreprise vaine en ce mond intéressé,<br />

belliqueux, partagé. Cela pouvait occuper une vie. Etait-ce peu de chose? Oui, peut-êtres. Aviver,<br />

affiner, éveiller la réflexion de ceux que Hugo appelle les misérables, était-ce peu? Oui,<br />

évidemment, peut-êtres.<br />

Mais cette chose, du moins, cette chose élémentaire, ce balbutiement en vue de la libération<br />

des autres et de l’éclatement des contraintes, cette chose, ils l’avaient faite»<br />

(Jean Vilar, Chronique romanesque, p. 175-176).<br />

Jean Vilar aveva forte in sé la sensazione che un luogo teatrale e il momento di una<br />

rappresentazione artistica costituissero uno spazio-tempo, un laboratorio forse unico,<br />

una rete sociale in cui sperimentare quelle straordinarie forme di intelligenza collettiva,<br />

con i suoi artisti, con la sua équipe, con il suo pubblico. «L’intelligenza collettiva è tale<br />

se la conoscenza che contiene ed elabora non può essere divisa in parti che possano<br />

essere sommate senza perdere qualcosa di essenziale. Ciò significa che il sapere<br />

rilevante deve stare non nei singoli nodi della rete cognitiva, ma nel pattern che li<br />

congiunge e che – essendo in gran parte implicito – non è separabile da essi 1 ».<br />

Jean Vilar esprimeva con passione e trasporto l’idea stessa di “comprensione” riferita<br />

al pubblico. Nel suo concetto di “teatro popolare” era fortemente ancorato all’idea di<br />

una intelligenza diffusa che assumeva la consistenza di un monolito nel momento in cui<br />

ciascuna delle parti contribuiva a formare il tutto. Con le sue parole:<br />

«Comprendre. Oui, comprendre. Aussi. Car le théâtre, en ses chefs-d’œuvre, n’est pas<br />

seulement le rond-point enchanté de la prosodie, de la cruauté, de la beauté du geste. Comprendre.<br />

Et avec la tête. La génie sait toujours ramener à un sens pout tous compréhensible le drame,<br />

exceptionnel pourtant, de ces héros. Quand la leçon n’est pas claire, ne nous dites pas: “Mais<br />

l’auteur a du génie”. Tout homme, toute femme, comprend les joies et les douleurs communes. Le<br />

reste est élucubration, fanfaronnade d’écoles, manifeste, arguties, poudre aux yeux.<br />

Car l’homme et la femme, quels qu’ils soient, arrrivent toujours au théâtre dûment préparés, et<br />

leur monde secret est un champ plus riche encore que celui des monstres nus d’Eschyle et de<br />

Shakespeare. La vie, leur vie, les a contraints à comprendre, non pas seulement à haïr sans répit ou<br />

à pardonner aussitôt, mais à comprendre. Elle les a contraints à la souffrance, contraints enfin au<br />

châtiment, contraints à la lâcheté, que sais-je. Il est une memore qui en nous conserve cela. Nous<br />

sommes faits d’elle. Elle nous prépare et nous contraint aussi à accepter le chef-d’œuvre».<br />

(Jean Vilar, De la tradition théâtrale, 1950: 146-147).<br />

«In questo passaggio c’è, tuttavia, un equilibrio da conservare tra azione cognitiva<br />

individuale e contesto dell’agire collettivo. Le persone si formano nel contesto<br />

collettivo della rete cognitiva che hanno in comune con altri, ma hanno spazi di libertà e<br />

sperimentazione che in cui usano e riproducono, innovandoli, i significati, le regole, le<br />

identità che condividono con altri». Mi sembrava di risentire le parole di Romeo<br />

Castellucci dopo aver visto lo spettacolo “Paso Doble” di Josef Nadj: «In un mondo<br />

aperto, sperimentare, consumare significa apprendere e generare significati, non<br />

ripetere coattivamente le stesse cose, in risposta a bisogni che sono ovvi da non<br />

richiedere l’elaborazione di alcun significato addizionale 2 ».<br />

1 Per questo concetto, ovviamente, facevo anche riferimento a Weick 1979, 1993, 1995. Inoltre, non<br />

posso negare il fondamentale contributo di Simon 1981 (N.d.T.).<br />

2 Rullani 2004a: 391 (N.d.T.).<br />

558


«Le comunità sono un’altra fonte di incubazione di significati ed emozioni<br />

collettive» 1 : e se questo poteva apparire evidente al lettore nel momento in cui facevo<br />

riferimento ai processi di consumo artistici; vale anche con riferimento alle<br />

organizzazioni, nel momento in cui la produzione di conoscenza e i meccanismi<br />

innovativi che permettono il continuo “ri-uso” della conoscenza connettiva, danno<br />

luogo a forme di apprendimento collettivo che passano «per la condivisione informale<br />

del sapere e delle esperienze», ma anche «attraverso accordi formali». L’esempio degli<br />

intermittenti dello spettacolo, ancora una volta, rendeva molto evidente questo<br />

passaggio.<br />

Intrinsecamente legata ad una “ragione riflessiva”, l’economia della conoscenza<br />

(quella vera!), era un processo «in cui il valore delle cose viene generato dai soggetti<br />

economici, attraverso la costruzione dialogica del mondo e la definizione di fini<br />

condivisi»; vale a dire «[…] la conoscenza – anche se intesa come risorsa economica –<br />

non è confinabile in una visione soltanto strumentale. Infatti, essa non deve intervenire<br />

solo nella decisione sui mezzi, ma deve dire la sua – e si potrebbe dire soprattutto –<br />

sulla definizione dei fini. Non è la risposta ad un problema solving dato, ma è, piuttosto,<br />

la risorsa che consente agli attori di ridefinire il problema ed esplorare dialogicamente<br />

nuove possibilità per la loro interazione 2 ».<br />

La programmazione teatrale del Festival di Avignone, così come i processi di<br />

produzione teatrali come cercavo di proporli al lettore, altro non erano che un esempio<br />

(evidente ai miei occhi) di cosa comportasse considerare la risorsa cognitiva come<br />

generatrice di se stessa piuttosto che come il risultato di qualcosa d’altro. Ecco che le<br />

organizzazioni artistiche, in genere: «sanno quello che pensano se prima vedono quello<br />

che dicono» o, più correttamente, partendo dal meccanismo di attivazione del contesto<br />

di riferimento che essere stesse stanno generando attraverso la produzione artistica: «se<br />

prima vedono quello che dicono allora esse sanno quello che pensano».<br />

Un testo estetico, ce lo diceva Eco, era strutturalmente, intrinsecamente riflessivo nel<br />

momento in cui, a causa della sua stessa “apertura”, ha bisogno dell’interpretazione del<br />

1 Nel caso degli aspetti organizzativi e strategici, mi riferisco, tra gli altri, a: Barley, Orr 1997; Barley,<br />

Kunda 2004; Boje 1991, 1995, 2004; Czarniawska 1997; Kunda 1992; Narduzzo, Warglien 1998; Orr<br />

1996; Van Maanen 1988. Nel caso delle ricerche di marketing e di consumer behavior, tra gli altri: Belk<br />

1988; Belk, Wallendorf, Sherry 1989; Cova 1997; Hirschman 1986, 1994; Holbrook 1986, 1999;<br />

Holbrook, Hirschman 1994; Holt 1995; Joy, Sherry 2003; Shouten, Mc Alexander 1995; Valliquette,<br />

Murray, Creyer 1998 (N.d.T.).<br />

2 Ibidem: 393 (N.d.T.).<br />

559


suo contenuto (cognitivo), e ciò non poteva che avvenire nel momento e nel luogo<br />

precisi in cui si manifestava, in cui veniva “riprodotto” e, ogni qualvolta veniva<br />

“diffuso” in contesti differenti da quello di origine. Il mediatore cognitivo per<br />

eccellenza di questo processo, il testo (estetico) principale su cui si innestavano tutti gli<br />

altri “discorsi” (compresi quelli di management), come se i secondi fossero dei paratesti<br />

aggrappati al primo, era per l’appunto lo spettacolo teatrale.<br />

L’interpretazione di un testo (in questo caso estetico), la creazione di un “mondo<br />

possibile”, la definizione della nostra identità che passava per il fine ultimo della<br />

conoscenza cioè “rendere abitabile il mondo”, significava costruire attraverso<br />

l’esplorazione, con i mezzi che «retroagiscono sui fini che non sono dati in partenza, ma<br />

si formano, si adattano, si re-inventano man mano che l’esplorazione procede». Rullani<br />

proseguiva in questi termini: «l’identità è, per le persone, la fonte del senso e<br />

dell’esperienza. L’identità non si decide, magari con un concorso di idee, ma può essere<br />

costruita attraverso pratiche sociali che cercano punti di convergenza nella valutazione<br />

dei progetti di azione possibile. […] Nella distanza che si crea tra verità e utilità, tra<br />

immaginazione e calcolo, si coglie l’effetto dell’autoreferenza che caratterizza tutti i<br />

grandi sistemi e che rende impossibile al sistema cognitivo (della scienza, ad esempio)<br />

di dominare una porzione significativa del sistema economico e viceversa 1 ».<br />

Ancora con le parole di Jean Vilar, che avevo tratte sempre da quello splendido<br />

racconto retrospettivo che era Chronique romanesque:<br />

«Ce théâtre communautaire dont ses vingt ans avaient rêvé, ce théâtre pour les travailleurs<br />

dont, adulte, il tentait enfin avec quelques rares compagnons d’établir durablement les assises, les<br />

structures et le fonctionnement, ce théâtre non pas à tout prix révolutionnaire ou révolté, mais<br />

naviguant du moins à contre-courant des habitudes, des traditions confortables, des politiques<br />

installés, des droits acquis, ce théâtre pour le populaire, en un mot, n’était-il qu’une utopie<br />

nécessaire? Existait-il vraiment? Etait-il né en vérité? N’était-ce pas seulement un paysage<br />

imaginaire tel celui que découvre dans la gloire des songes le somnambule, et qui au réveil n’est<br />

plus qu’un traumatisme de la mémoire, un motif d’angoisse, un mirage au sein même de la cohue,<br />

au mieux une drogue? Oui, un théâtre pour le populaire était-il une chose irréelle, irréalisable<br />

aujourd’hui? Que l’on ne réaliserait jamais? Cependant il se battait pour cela, recevait des coup set<br />

les rendait, rusait, s’épuisait sans remords tel camarade. Il avait toujour été en quête d’une raison<br />

concrète de vivre et de travailler et voilà qu’au bout du compte il découvrait ce vertice que l’on<br />

appelle un idéal. “Paure con.”».<br />

(Jean Vilar, Chronique romanesque: 211-212).<br />

Rullani ammoniva sul fatto che dall’esplorazione delle possibilità (anche e<br />

soprattutto nel caso di esperienze estetiche) si ricavavano molte più conoscenza di<br />

quanto effettivamente siamo in grado di utilizzarne immediatamente. Ma questa sovrautilità,<br />

inconcepibile per la “razionalità strumentale”, costituiva quel «regno delle<br />

possibilità» su cui creare le solide fondamenta per la capacità di agire. Tali “eccedenze<br />

cognitive” costituivano anche una “riserva di senso” che permetteva di spostare<br />

l’attenzione, con basi solide e non richiamando principi astratti, su concetti e valori<br />

come «l’estetica, la soggettività, la femminilità, la virtualità, la flessibilità, il<br />

decentramento, la motivazione». Mi venivano in mente espressioni come «ozio<br />

creativo» e «improduttività del tempo»: ora potevano essere ri-valutate e non<br />

considerate come un attentato ad una etica del lavoro che non riesce a tenere il passo<br />

con il tempo che corre.<br />

1 Ibidem: 395 (N.d.T.).<br />

560


Mi ero appuntato questa ulteriore riflessione: «la conoscenza, in questa<br />

contaminazione con il presente e con il passato che ritorna, diventando futuro possibile,<br />

viene continuamente rinnovata dai risultati ottenuti, che modificando le sue premesse, in<br />

un circuito ricorsivo che non ha fine e che costituisce l’essenza stessa del conoscere.<br />

L’apprendimento si sviluppa, così, in forma di meta-apprendimento retroagendo<br />

riflessivamente sui propri metodi, presupposti, aspettative: è difficile, però, realizzare<br />

questo double-loop-learning in organizzazioni che resistono alla riflessione critica su se<br />

stesse […]. Ancora di più è difficile inserire questo momento di epistemologia creativa<br />

in una teoria che ha bisogno di premesse deterministiche per affermare la sua differenza<br />

disciplinare 1 ».<br />

Ciò che avevo visto, nella pratica, fino a quel momento e dal mio punto di<br />

osservazione privilegiato mi pareva già molto “avanzato”: era la teoria ad essere<br />

“ancora agli inizi” in questo meccanismo in cui, «per produrre conoscenza attraverso<br />

altra conoscenza» risultava necessario, prima di tutto, apprendere ad esplicitarsi le<br />

regole per l’apprendimento.<br />

***<br />

Ancora una volta, a distanza di anni dall’esperienza con il laboratorio di Nekrosius,<br />

sotto i miei occhi, avevo visto uscire da una “fabbrica” della conoscenza artistica nata in<br />

un contesto del tutto originale, nel senso di autentico, e pronta a dirigersi verso altri usi.<br />

Ma i processi che avevo visto, tutti assieme, all’opera in quella specifica fabbrica della<br />

conoscenza artistica, al Festival di Avignone, erano ben più articolati rispetto a quelli<br />

più puntuali, più circoscritti, a cui ero abituato. In quel caso specifico, in cui una<br />

specifica combinazione di mediatori, agivano contemporaneamente in reparti diversi di<br />

una stessa filiera cognitiva; ed io non potei esimermi dal visitarne il maggior numero<br />

possibile, seguendo le tracce che ciascun rivolo di conoscenza lasciava al suo passaggio<br />

da un reparto all’altro e cercando di disegnarne un incerto e confuso percorso.<br />

Oltre al suo contenuto, la conoscenza che incontravo era caratterizzata da quelle<br />

proprietà che derivano dal tipo di soluzione che veniva adottata, caso per caso, in<br />

termini di struttura logica (e campo di validità), di forma virtuale (e regole di<br />

riproducibilità), di flussi logistici (e meccanismi di mobilità), nonché di relazione<br />

istituzionale (e di regole di governo degli scambi e delle pratiche condivise nella filiera<br />

stessa). La ricerca delle soluzioni possibili avveniva seguendo, talvolta, procedimenti<br />

tendenzialmente logico-razionali; ma più spesso le soluzioni migliori venivano<br />

rintracciate seguendo percorsi apparentemente confusi, spesso tortuosi come le strette<br />

vie medievali di Avignone, talvolta impercettibili o quasi invisibili come i pensieri che<br />

guidano le azioni degli artisti. Lungo uno spazio a quattro dimensioni, in un singolo<br />

reparto e per ogni processo cognitivo implicato, le soluzioni possibili sono inesauribili:<br />

l’one best way era piuttosto improbabile a manifestarsi; ad ogni modo conviveva,<br />

eventualmente, con diverse soluzioni soddisfacenti che, a loro volta, coesistevano tra<br />

loro; inoltre, alcune conoscenze di nicchia venivano prodotte, al fine di lavorare in<br />

modo complementare a tutte le altre soluzioni 2 .<br />

Quanti possibili paradigmi convivevano contemporaneamente o potevano essere<br />

rintracciati “storicamente” nello studio dei processi di produzione artistici che avevo<br />

visto all’opera? Il “teatro popolare” di Jean Vilar era effettivamente quella “cosa irreale,<br />

1<br />

Evidentemente era una affermazione di Rullani, 2004a: 399 (N.d.T.).<br />

2<br />

Rullani 2004b: 134 (N.d.T.).<br />

561


quell’ideale irrealizzabile” che il fondatore del Festival aveva lasciato ai suoi posteri<br />

senza lasciare loro anche l’indicazione degli ingredienti principali di una formula di<br />

fatto nota solo a lui (o che solo lui capì)? E quali strategie di trasformazione di quella<br />

particolare conoscenza artistica che era il teatro contemporaneo erano in atto quando<br />

stavo per lasciare Avignone?<br />

Queste mie riflessioni “storiche”, che lascio ora al mio lettore così come si getta un<br />

sasso in uno stagno la cui superficie appare immobile, hanno un duplice scopo: i) di<br />

riprendere i ragionamenti che feci in quel di Parigi e da cui avevo iniziato questo<br />

racconto; ii) nonché di mostrare come, sotto le acque apparentemente tranquille e<br />

rassicuranti di quell’approdo a cui stiamo per giungere, ci siano delle correnti più<br />

profonde e vorticose che meriterebbero di essere attentamente considerate.<br />

Dunque, negli anni Settanta, quando Jean Vilar morì (prematuramente) lasciando il<br />

Festival nelle mani del suo successore designato, Paul Puaux, l’organizzazione-Festival<br />

doveva affrontare una delicata trasformazione legata soprattutto al rilancio dei suoi<br />

specifici meccanismi di “creazione del valore”: mentre le filiere economiche tradizionali<br />

erano alle prese con il superamento del fordismo; la filiera dello spettacolo dal vivo e il<br />

Festival di Avignone dovevano sperimentare una “evoluzione” dei mediatori che già<br />

utilizzavano per la produzione e la propagazione delle “loro” conoscenze, vale a dire<br />

l’interazione comunicativa, il contesto di esperienza e il capitale sociale condiviso.<br />

Aspetti, questi, che solo anni dopo la teoria economica avrebbe, seppur parzialmente,<br />

colto.<br />

In un gioco di parallelismi azzardati nella forma ma non completamente<br />

inconcepibili nella sostanza mi domandavo: quali basi cognitive aveva il Rinascimento<br />

“avignonese” e cosa accadde, da un punto di vista dell’economia della conoscenza<br />

“reale”, nella Avignone dei Papi tra il Trecento e il Quattrocento? L’intrecciarsi delle<br />

vicende di Francesco di Marco Datini e di Matteo Giovannetti, dell’economia e dell’arte<br />

dell’epoca, quali rapporti avevano con quanto, oltre cinque secoli dopo, cercò di fare<br />

Jean Vilar? Il Festival di Avignone divenne effettivamente e mantenne in seguito il<br />

ruolo di meta-organizzazione, cioè di istituzione in grado di indicare “la strategia” di<br />

propagazione della conoscenza (con specifiche regole di sistema) ad una intera filiera<br />

(di cui era parte e) che necessitava di una “ri-organizzazione” e di un sistema di governo<br />

che la facesse uscire da una sorta di condizione “pre-moderna”? E tale condizione era<br />

effettivamente caratterizzata dalla persistenza della “tradizione”, da sistemi locali per lo<br />

più isolati in quanto “fisicamente” distanti, da forme di divisione del lavoro ancorate<br />

all’apprendistato, al “fai-da-te”, all’adattamento, e da meccanismi di appropriazione<br />

della conoscenza contingenti, con flussi logistici e capacità di circolazione ridotti e<br />

regole di relazione quasi “corporative”?<br />

L’ultima questione, ovvero l’effettivo stadio evolutivo della filiera artistica negli<br />

ultimi secoli, meriterebbe uno spazio a se stante, che mi ripromettevo di approfondire<br />

altrove: al momento potevo solo azzardare l’ipotesi che le basi cognitive da cui<br />

partivano la filiera dell’arte e i processi di produzione artistica fin dal Medioevo<br />

sembravano già fortemente orientati verso “mediatori cognitivi” e tipologie di<br />

lavorazioni della conoscenza del tutto atipici (anche “storicamente”), rispetto alle<br />

attività economiche “tradizionali” coeve. Quando l’arte era già in grado di realizzare<br />

“reti lunghe” e circuiti cognitivi davvero internazionali, tra il Trecento e la fine del<br />

Cinquecento poche erano le filiere tradizionali e le imprese che potevano vantare uno<br />

sviluppo paragonabile in termini di capacità di creazione del valore. In un momento in<br />

cui la riproducibilità non consentiva molte distinzioni tra lavoro artistico e artigianale, e<br />

562


in cui i saperi in gioco erano collegati a pratiche antiche e a tecnologie pressoché note o<br />

comunque condivise, l’Arsenale di Venezia, ad esempio, costituiva forse il più evoluto<br />

centro produttivo e la forma più moderna di gestione tra Quattrocento e Cinquecento.<br />

Basato comunque su caratteristiche che anticipavano di qualche secolo complessità e<br />

dimensioni riscontrabili solo dopo la Rivoluzione industriale, l’Arsenale poggiava su<br />

una forte internalizzazione dell’attività produttiva, su una struttura organizzativa e<br />

operativa praticamente stabile (come degli attuali cantieri), su una divisione e<br />

organizzazione del lavoro sostanzialmente verticali, con la nascita di una élite di<br />

professionisti permanenti. Con riferimento, invece, all’arte, i grandi “centri”<br />

costituivano una sorta di arcipelago, in Italia come nel resto d’Europa, e le “periferie”<br />

erano sempre più numerose, in quanto erano i territori e il ricco capitale sociale che vi si<br />

depositava, attorno alle corti tardo medievali e rinascimentali che la storia sedimentava<br />

la cultura e le pratiche delle società locali. Se ciò poteva apparire evidente per l’arte<br />

visiva e la letteratura 1 , altra questione era quello dello spettacolo dal vivo 2 . Il Ceserani-<br />

De Federicis, manuale di letteratura, così descriveva la situazione:<br />

1 riferimenti bibliografici<br />

2 Che si trattasse di un’attività lavorativa a tutti gli effetti lo dimostravano le molte biografie di giullari e<br />

trovatori oggi a disposizione, brevi narrazioni che cominciarono a diffondersi attorno al XIII secolo,<br />

specie in Francia. Ad esempio: «Rambaldo d’Aurenga (Raimbaut d’Aurenga) fu signore di Orange e di<br />

Courthezon e di una gran quantità di altri castelli. E fu nobile e saggio, e cavaliere valente nelle armi, e un<br />

elegante parlatore. E molto si compiacque delle dame onorate, e del corteggiarle onorevolmente. E fu<br />

valente poeta (autore) di “vers” e di canzoni; ma molto si compiacque di usare rime difficili e oscure. E<br />

amò per lungo tempo una donna di Provenza, che aveva come nome madonna Maria di Vertfuoil; e la<br />

chiamava “il suo giullare”, nelle sue canzoni. Lungamente la amò, ed essa (amò) lui. E fece molte belle<br />

canzoni per lei e molte altre nobili azioni. Ed egli si innamorò poi della valente contessa d’Urgel, che era<br />

lombarda, figlia di marchese di Busca. Molto era onorata e stimata più di tutte le nobili dame di Urgel; e<br />

Rimbaldo, senza vederla, per il gran bene che ne udiva dire si innamorò di lei, ed essa di lui. E fece poi le<br />

sue canzoni per lei; e le mandò le sue canzoni per mezzo di un giullare che aveva nome Rosignol (cioè:<br />

usignolo) […]. Per lungo tempo egli rivolse i suoi omaggi a questa contessa e la amò senza vederla, e mai<br />

non ebbe la possibilità di andare a vederla. Onde io udii dire da lei, che era già monaca, che se egli fosse<br />

andata da lei, ella gli avrebbe concesso soltanto questo piacere, che avrebbe permesso che egli, con il<br />

dorso della mano, le avesse toccato la gamba nuda. Così, amando lei, Rambaldo morì (a soli trenta anni)<br />

senza un figlio maschio, e Orange rimase (in eredità) alle sue due figlie. Ebbe in moglie una (di esse) il<br />

signore di Agout; dall’altra nacquero messer Ugo de Baux e messer Guglielmo de Baux, e dell’altra<br />

Guglielmo d’Orange, che morì giovane malamente, e Rambaldo, il quale dette la metà di Orange agli<br />

Ospitalieri» (tratto da M. Boni, Antologia trobadorica, Bologna, Patron, 1966, II).<br />

«Perdigon fu giullare e seppe comporre e suonare la viola molto bene. Era originario del vescovato di<br />

Gévaudan, di un castello che si chiama Lespéron, e fu figlio di un uomo povero, che faceva il pescatore. E<br />

per le sue capacità intellettuali e il suo talento di trovatore acquistò grande stima e grandi onori, tanto che<br />

il Delfino d’Auvergne lo tenne come suo cavaliere e lo dotò a lungo di vestiti e di armi e gli diede una<br />

terra e una rendita; e tutti i principi e gli alti nobili gli rendevano grandissimo onore. E godette a lungo dei<br />

favori della buona sorte e, mentre si trovava in quelle condizioni di onore e di stima, andò a Roma in<br />

compagnia del principe d’Orange, Guillem de Baux, di Folquet de Marseille, vescovo di Toulouse e<br />

dell’abate di Cîteaux, per causare il male del conte di Toulouse e per organizzare la crociata; e per questo<br />

il buon conte Raimon di Toulouse fu spogliato dei suoi beni e suo nipote il visconte di Béziers fu ucciso,<br />

Tolosano, il Querce, il territorio di Béziers e l’Albigeois furono distrutti, il re Pere de Argon trovò la<br />

morte con mille cavalieri davanti a Muret e altri ventimila uomini furono uccisi. Perdigon si applicò a<br />

organizzare e a realizzare queste impresa; ne fece una predicazione in versi; in conseguenza di ciò molti si<br />

fecero crociati; e innalzò lodi a Dio perché i Francesi avevano sconfitto e ucciso il re d’Aragona, che pure<br />

lo riforniva di vestiti. Perciò decadde dalla stima e dall’onore e dalla ricchezza; e tutti i valenti uomini che<br />

rimasero vivi l’ebbero tanto in odio che non lo vollero né vedere né sentire. E tutti i nobili suoi amici<br />

trovarono la morte in guerra: il conte di Montfort, Guillem de Baux e tuti gli altri che avevano promosso<br />

la crociata; e il conte Raimon tornò in possesso della sua terra. Perdigon non osò né andare né tornare e il<br />

Delfino d’Auvergne gli tolse la terra e la rendita che gli aveva assegnate. Egli si recò allora presso<br />

563


«La nuova funzione, di committenti del lavoro intellettuale assunta dai signori, si collocava<br />

nell’ambito del rapporto di patronato che essi ebbero con artisti e scrittori. Questi potevano essere<br />

di varia estrazione sociale, e variavano certo i loro livelli di preparazione professionale: li<br />

accomunava il fatto di essere al servizio di una corte, di un signone (nella città,<br />

contemporaneamente, la Chiesa, l’università, i ricchi borghesi offrivano appoggio e occasioni di<br />

impiego). C’e naturalmente differenza fra i chierici dotti, come Chretien de Troyes o Andrea<br />

Cappellano, e il giullare compensato per le sue prestazioni con cibi e vesti. Tuttavia, gli uni e gli<br />

altri erano ugualmente inseriti nel sistema del patronato; ne derivava una condizione di dipendenza<br />

a cui si sottraeva soltanto il poeta che fosse egli stesso un signore potente[…]. Attori, cantanti e<br />

mimi furono attivi nel corso del Medioevo, secondo una tradizione ininterrotta fin dall’epoca<br />

imperiale. Giocolieri o giullari (joculatores) divertivano il pubblico con una produzione che è<br />

definita, negli scritti delle autorità ecclesiastiche che la condannano, rustica e obscoena: popolare<br />

cioè e non-cristiana. Si tratta di una cultura orale su cui non è possibile avere una documentazione<br />

precisa. L’importanza dei giullari diventò assai maggiore quando cominciarono a circolare testi<br />

scritti, che essi liberamente manipolavano, interpretavano, diffondevano. Alla fine del XII secolo i<br />

giullari godevano di un prestigio assai alto, erano forniti di una preparazione specifica e<br />

risultavano profondamente integrati nelle corti. A Beauvais c’era un loro scuola professionale; ad<br />

Arras erano accomunati ai borghesi in un’associazione religiosa e letteraria che diede origine a<br />

un’accademia (il Puy) di grande influenza nel Duecento. I tratti caratterizzanti del giullare nei<br />

secoli XI-XIII furono: l’eterogeneità degli ambienti in cui egli poteva essere presente; l’utilizzo di<br />

tecniche miste (parola, mimica, musica); l’esercizio professionale di un’attività, di cui il far versi<br />

era soltanto un aspetto, per ricavarne un reddito. La divulgazione dell’epica francese avvenne<br />

soprattutto attraverso i giullari, che nella Francia del nord talora componevano anche i pezzi del<br />

loro repertorio» (324-325, volume I).<br />

Per quanto riguardava invece il periodo tra il Trecento e la fine del Cinquecento, non<br />

ci fu solo la riscoperta del teatro latino:<br />

«l’esperienza teatrale e spettacolare […] viva soprattutto nelle sacre rappresentazioni e in altri<br />

momenti della vita religiosa, ora si arricchisce, rinnova i propri spazi, in un certo senso anche si<br />

restringe e specializza. Lo spazio teatrale si posta gradualmente dalla piazza, o dal sagrato della<br />

chiesa, passando per l’ambiente universitario, fin dentro il palazzo e poi, gradualmente, nelle<br />

strutture fisse per esso costruite: in un primo tempo strutture di legno provvisorie erette nei cortili<br />

dei palazzi signorili in occasione delle feste di carnevale o di feste eccezionali per matrimoni<br />

dinastici o altre occasioni ufficiali, in un secondo tempo strutture fisse permanenti, in legno e<br />

muratura. Nasce così, ispirandosi ai modelli classici, lo spazio teatrale con la distinzione tra<br />

palcoscenico e platea, con le scene fisse ma differenziate: per commedia, tragedia, intermezzi e<br />

drammi pastorali. Nascono i generi teatrali, le compagnie degli attori, le regie; gli artisti maggiori<br />

del tempo, da Leonardo da Vinci a Raffaello Sanzio, sono chiamati a dipingere le scene secondo le<br />

nuove regole della prospettiva. L’esperienza teatrale […] si “testualizza”: non solo perché vengono<br />

tradotti i testi classici, vengono scritti nuovi testi, si fissano i generi e i modi della scrittura, ma<br />

anche perché i modi di rappresentazione propri dell’esperienza teatrale divengono […] patrimonio<br />

della sensibilità comune e forma organizzativa anche di testi non destinati al teatro» (118-119,<br />

volume II).<br />

Quanta strada è stata fatta da allora! Volendo, quindi, tralasciare una ricostruzione<br />

storica che risulterebbe inconsistente, realizzando un parallelo, in chiave knowledgebased,<br />

dei processi di produzione artistici e di quelli di altri settori economici, dal<br />

Medioevo alla Rivoluzione industriale; mi premeva invece ripensare in tale prospettiva<br />

l’evoluzione della filiera cognitiva dello spettacolo dal vivo, continuando ad assumere il<br />

Lambert de Monteil, genero di Guillem de Baux e lo pregò di farlo entrare in un’abazia dell’ordine<br />

Cistercensi che ha nome Silvabela; ed egli lo fece accogliere come monaco in un monastero, e lì morì»<br />

(tratto da Favati G. (a cura di), Le biografie trovadoriche. Testi provenzali dei secoli XIII e XIV, ed.<br />

critica, Libreria antiquaria Palmaverde, Bologna, 1961).<br />

564


punto di osservazione del Festival di Avignone, a cominciare dagli sforzi compiuti da<br />

Jean Vilar.<br />

Come osservava, non senza un che di profetico, Enzo Rullani: «Dopo la modernità<br />

meccanica che ha praticato senza remore la moltiplicazione, stiamo andando a piccoli,<br />

decisi, passi verso una modernità comunicativa ed estetica che vuole recuperare<br />

l’intensità ma – per ora – non sa bene come farlo e se può, davvero farlo». Ancora<br />

Rullani: «quali sono i nuovi intensificatori che, rompendo con la logica della<br />

produzione di massa, possono controbilanciare l’azione di un processo moltiplicativo<br />

che continua, per suo conto, a marciare a tutta velocità? Il recupero di esperienze intese,<br />

ma individuali e irriproducibili non basta […]. Perché un intensificatore abbia peso<br />

bisogna che l’esperienza individuale assuma non solo maggiore significato, ma anche<br />

un carattere condiviso: il maggior valore unitario dell’esperienza deve essere<br />

moltiplicato per i numeri ottenuti con la condivisione. Diventano fondamentali, in<br />

questo senso, i canali e i media che consentono di creare e propagare significati,<br />

sensazioni, valori estetici».<br />

Un’ultima riflessione. «La conoscenza non è un puro strumento, un mezzo per<br />

conseguire qualcosa d’altro: essendo specchio di quello che si è e di quello che si vuole,<br />

la conoscenza è anche un fine in sé. O per lo meno, l’esperienza cognitiva è capace di<br />

influire sui fini, plasmandoli in rapporto a quanto viene capito e vissuto. Conoscendo il<br />

mondo e ponendo se steso nel mondo, il soggetto conoscente si evolve, cambia<br />

attraverso le esperienze cognitive che fa. In questo modo, egli elabora la sua specifica<br />

identità e la rigenera con l’esperienza, in un modo che non può essere previsto prima e<br />

che emerge dal vissuto reale, post factum».<br />

E se fosse stato esattamente questo che voleva dire Jean Vilar con quella frase tante<br />

volte menzionata: «il teatro, se non contemporaneamente popolare e patetico non è<br />

nulla. La nostra ambizione è quindi evidente: far condividere al più gran numero di<br />

persone ciò che si è creduto dovesse essere riservato, fino ad ora, ad una élite. […]<br />

L’arte del teatro popolare è dunque una rivolta permanente».<br />

***<br />

Era notte fonda: ero partito da Avignone, per tornare, mesi dopo, a Parigi, e per<br />

concludere che in fondo, valeva la pena continuare l’esplorazione in quegli oscuri<br />

territori: «hic sunt leones!», qualcuno mi aveva messo in guardia, in tal senso.<br />

E allora tanto valeva starmene qui, a meditare, e guardare la collina.<br />

Era così bello Montmartre. Così come sono belli, ora, il Rocher des Doms e le alte<br />

mura del Palazzo dei papi, dall’alto, tra la Certosa e il Forte di Sant’Andrea, sull’altra<br />

sponda del Rodano.<br />

***<br />

FINE<br />

565


RINGRAZIAMENTI


«Ho sempre rifiutato di essere compreso. Essere compreso<br />

significa prostituirsi. Preferisco essere preso seriamente per<br />

quello che non sono, ignorato umanamente, con decenza e<br />

naturalezza.<br />

Niente mi farebbe indignare di più del fatto che in ufficio mi<br />

considerassero diverso. Voglio godere con me stesso l’ironia<br />

del fatto che non mi trovino diverso. Voglio questo cilicio: che<br />

mi credano uguale a loro. Voglio questa crocifissione: che non<br />

mi ritengano differente. Ci sono sacrifici più sottili di quelli<br />

che conosciamo sui santi e sugli eremiti. Ci sono supplizi<br />

dell’intelligenza come ce ne sono del corpo e della volontà. E<br />

in questi supplizi, come per altri, c’è una voluttà»<br />

(Fernando Pessoa, da Il libro dell’inquietudine, 106[121])<br />

Coerentemente al fatto che questo lavoro si occupa, con una prospettiva abbastanza<br />

originale, di processi di produzione artistici, con particolare riferimento allo spettacolo<br />

dal vivo; e proprio perché, in fondo, si tratta di una, spero non troppo pesante, metafora<br />

epistemologica sul come produrre conoscenza nelle scienze del sociale: sono<br />

consapevole che ciò che ho fatto dipende in larghissima misura da quanto hanno fatto<br />

per me una moltitudine di persone e organizzazioni.<br />

Ho iniziato a lavorare all’argomento di questo saggio diversi anni fa, ancora prima di<br />

iniziare il mio percorso di dottorato di ricerca presso la Facoltà di Economia<br />

dell’Università di Udine. Questo lavoro costituisce la sintesi (nel senso di risultato<br />

quanto meno parziale – sic!) di alcuni dei principali assi di ricerca che ho avuto modo di<br />

sviluppare in questi anni. Più in particolare, l’avvio dello specifico progetto sul Festival<br />

di Avignone potrebbe risalire ad un paio di anni fa, e da quel momento non finì di<br />

intrecciarsi con molte delle esperienze che feci in precedenza, che realizzai praticamente<br />

in parallelo e che, forse, potrò ancora realizzazione in futuro: in fondo, ogni storia di<br />

viaggi (e un percorso di ricerca non è molto diverso) dipende dalla “nostra” storia,<br />

proprio perché né “noi” né le componenti principali dei fenomeni che studiamo o in cui<br />

ci imbattiamo quotidianamente “siamo” materia inerme.<br />

Tra il 2005 e il 2006 ebbi modo di trascorrere molto tempo in Francia e oggi posso<br />

affermare senza ingannarmi che la maggior parte delle riflessioni e della azzardate<br />

congetture contenute in questo caotico flusso di idee, sono state concepite e generate in<br />

terra francese, tra Avignone e Parigi, o comunque nei periodi a cavallo tra Francia a<br />

Italia. A tal proposito, un ringraziamento speciale va all’intera équipe del CRG-PREG<br />

(Centre de Recherche en Gestion-Pôle de Recherche en Gestione et Economie)<br />

dell’Ecole Polytechnique di Parigi, per l’ospitalità fuori dal comune che mi riservano<br />

sempre, rendendo speciale ogni periodo che ho trascorso e trascorro a Parigi. Tra<br />

riflessioni epistemologiche e di metodo, i miei “amici” d’oltralpe sanno già che il<br />

bagaglio di esperienze uniche e di emozioni costituiscono la parte preponderante e non<br />

visibile (mi verrebbe da dire “immateriale” – sic!) di quel pesante fagotto che mi sono<br />

portato dietro da un luogo all’altro. Debbo molto ad ognuno di loro, e ognuno di loro sa<br />

già quanto importante sia stato ciò che mi hanno messo a disposizione, senza che debba<br />

essere io a ricordarlo, qui ed ora, per ciascuno: e non mi riferisco certo all’ufficio, al<br />

tavolo e al collegamento ad internet! Debbo molto alla magnifica atmosfera scientifica<br />

del “Labo”, “… là-haut, sur la Montagne Sainte-Geneviève”, nell’antica sede parigina


del prestigioso Polytechnique. E ancora oggi mi domando come mai abbiano accettato<br />

la mia candidatura a fellowship. Per esprimere a tutti loro la mia riconoscenza, dedico<br />

un ringraziamento particolare, sincero, autentico, a Pierre-Jean Benghozi: sono certo<br />

che Pierre-Jean provvederà a trasmetterlo a tutti da parte mia.<br />

Scendiamo verso il sud della Francia, così simile ai luoghi delle mie origini, tanto per<br />

la bellezza e il fascino di cui è impregnato quanto per le sue profonde contraddizioni.<br />

Un riconoscimento speciale, per avere reso possibile questa ricerca, va alla direzione del<br />

Festival di Avignone, ad Vincent Baudriller e Hortence Archambault, nonché al<br />

segretario generale del Festival, Patrick Belaubre. Inoltre, fondamentale è stato il<br />

contributo e l’ospitalità della Maison Jean Vilar di Avignone: desidero per tanto<br />

esprimere la mia gratitudine, in particolare, al presidente e al direttore dell’Associazione<br />

Jean Vilar, Roland Monod e Jacques Téphany, nonché M.me Marie-Claude Billard,<br />

conservatrice responsabile della Biblioteca che, antenna dell’autorevole Bibliothèque<br />

Nationale de France, conserva con cura e dedizione gli archivi “Jean Vilar” e del<br />

Festival di Avignone. Ovviamente il saluto affettuoso è esteso a tutta l’équipe della<br />

Maison Jean Vilar e della Biblioteca.<br />

Questi ringraziamenti, solo apparentemente di rito, li ho voluti rendere manifesti: mi<br />

sembrava giusto così. Per quanto riguarda gli altri amici e colleghi, e sono molti, posso<br />

garantire loro che ogni singolo contributo, ogni episodio, ogni prova di affetto sono già<br />

conservati nella mia memoria, laddove sono scolpiti i ricordi più cari e affettuosi, le<br />

esperienze più profonde ed irripetibili.<br />

F. C.<br />

570


RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI


«Arrivati al sommo della scala entrammo, per il torrione<br />

orienale, allo scriptorium e quivi non potei trattenere un grido<br />

di ammirazione. Il secondo piano non era bipartito come<br />

quello inferiore e si offriva quindi ai miei sguardi in tutta la<br />

sua spaziosa immensità. Le volte, curve e non troppo alte<br />

(meno che in una chiesa, più tuttavia che in ogni altra sala<br />

capitolare che mai vidi), sostenute da robusti pilastri,<br />

racchiudevano uno spazio soffuso di bellissima luce, perché tre<br />

enormi finestre si aprivano su ciascuno dei cinque lati esterni<br />

di ciascun torrione; otto finestre alte e strette, infine,<br />

lasciavano che la luce entrasse anche dal pozzo ottagonale<br />

interno»<br />

(Umberto Eco, da Il nome della rosa)<br />

AA.VV. (2003), Jean Vilar par lui-même, Maison Jean Vilar, Avignon.<br />

Abbé-Decarroux F. (1993), L’influence de la Pratique d’une Forme d’Art et le Rôle de<br />

l’Expérience Artistique sur la Consommation Culturelle, in “Proceedings AIMAC”,<br />

Jouy-en-Josas, France.<br />

Addis M. (2002), “Nuove tecnologie e consumo di prodotti artistici e culturali: verso<br />

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600


IN<strong>DI</strong>CE


<strong>IL</strong> <strong>FESTIVAL</strong> <strong>DI</strong> <strong>AVIGNONE</strong>: <strong>“UN</strong> RÊVE QUE NOUS FAISONS TOUS!”. <strong>IL</strong> RACCONTO <strong>DI</strong> UN<br />

VIAGGIO NELLA FABBRICA DELLA CONOSCENZA ARTISTICA .......................................................<br />

1-PROLOGO ......................................................................................................................................................V<br />

I-(PREMESSA PER <strong>IL</strong> LETTORE - IMPAZIENTE -)............................................................................................. VII<br />

II-(INTRODUZIONE-INCIPIT)........................................................................................................................XIII<br />

2-UN PERCORSO <strong>DI</strong> RICERCA PER LA COMPRENSIONE DEI PROCESSI <strong>DI</strong> PRODUZIONE<br />

DELLA CONOSCENZA (ARTISTICA). <strong>IL</strong> VOCABOLARIO DELLO STU<strong>DI</strong>O .................ERRORE. <strong>IL</strong><br />

SEGNALIBRO NON È DEFINITO.<br />

III-(PROLOGO. RACCONTO DELLA NASCITA <strong>DI</strong> UNO SPETTACOLO TEATRALE: “PRODURRE CONOSCENZA<br />

(ARTISTICA) A MEZZO <strong>DI</strong> CONOSCENZA”) .........................................................................................................3<br />

IV-(“PASSESSAGGIARE NEI BOSCHI NARRATIVI”: UNA PROPOSTA METODOLOGICA INTER<strong>DI</strong>SCIPLINARE PER LE<br />

SCIENZE SOCIALI) ...........................................................................................................................................21<br />

V-(LA FABBRICA DELLA CONOSCENZA ARTISTICA. STRATEGIE <strong>DI</strong> TRASFORMAZIONE DELLA CONOSCENZA TRA<br />

CO<strong>DI</strong>FICAZIONE E CON<strong>DI</strong>VISIONE. <strong>IL</strong> CONTESTO DRAMMATICO DEL <strong>FESTIVAL</strong>: IDENTITÀ E LINGUAGGI) .......77<br />

VI-(LA FABBRICA DELLA CONOSCENZA ARTISTICA. STRATEGIE <strong>DI</strong> TRASFORMAZIONE DELLA CONOSCENZA TRA<br />

CO<strong>DI</strong>FICAZIONE E CON<strong>DI</strong>VISIONE. <strong>IL</strong> CONTESTO TEATRALE DEL <strong>FESTIVAL</strong>: TERRITORI, COMUNITÀ E RETI) ...95<br />

VII-(LA FABBRICA DELLA CONOSCENZA ARTISTICA. I MACCHINARI E LE LAVORAZIONI DELLA F<strong>IL</strong>IERA<br />

COGNITIVA DELLE PERFORMING ARTS: LE “STRUTTURE” DELLA CONOSCENZA (ARTISTICA): I <strong>DI</strong>FFERENTI<br />

LIVELLI <strong>DI</strong> ANALISI).......................................................................................................................................104<br />

VIII-(LA FABBRICA DELLA CONOSCENZA ARTISTICA. I MACCHINARI E LE LAVORAZIONI DELLA F<strong>IL</strong>IERA<br />

COGNITIVA DELLE PERFORMING ARTS: LA FORMA DELLA CONOSCENZA: LA RIPRODUZIONE DELLO<br />

SPETTACOLO TEATRALE)...............................................................................................................................117<br />

IX-(LA FABBRICA DELLA CONOSCENZA ARTISTICA. I MACCHINARI E LE LAVORAZIONI DELLA F<strong>IL</strong>IERA<br />

COGNITIVA DELLE PERFORMING ARTS: LA LOGISTICA DELLO SPETTACOLO TEATRALE, NEL TEMPO E<br />

NELLO SPAZIO) ............................................................................................................................................129<br />

X-(LA FABBRICA DELLA CONOSCENZA ARTISTICA. I MACCHINARI E LE LAVORAZIONI DELLA F<strong>IL</strong>IERA<br />

COGNITIVA DELLE PERFORMING ARTS: L’INTEGRAZIONE DELLE RELAZIONI TRA I SOGGETTI DELLA F<strong>IL</strong>IERA<br />

TEATRALE) ....................................................................................................................................................137<br />

3-<strong>IL</strong> GIORNO DEL DEBUTTO: SI ALZA <strong>IL</strong> SIPARIO SUL <strong>FESTIVAL</strong> <strong>DI</strong> <strong>AVIGNONE</strong>. LA<br />

GESTIONE <strong>DI</strong> UNA CRISI IN UN’ORGANIZZAZIONE ARTISTICA ..... ERRORE. <strong>IL</strong> SEGNALIBRO<br />

NON È DEFINITO.<br />

XI-(PROLOGO. <strong>IL</strong> RESOCONTO <strong>DI</strong> UNA CRISI “STRANA”) .............................................................................149<br />

XII-(GIOVEDÌ, 10 LUGLIO 2003: “CE 57 E <strong>FESTIVAL</strong> EST CLOS!”. LE CONVINZIONI E LE NORME INIZIALI: UN<br />

CONFLITTO PER RIVEN<strong>DI</strong>CAZIONI SALARIALI DAI CONTENUTI “NON OR<strong>DI</strong>NARI”) .........................................158<br />

XIII-(GIOVEDÌ, 10 LUGLIO 2003: “CE 57 E <strong>FESTIVAL</strong> EST CLOS!”. <strong>IL</strong> PERIODO <strong>DI</strong> INCUBAZIONE: UNO<br />

“STRANO” CASO <strong>DI</strong> RIFORME TENTATE E MAI VERAMENTE REALIZZATE) ......................................................177<br />

XIV-(GIOVEDÌ, 10 LUGLIO 2003: “CE 57 E <strong>FESTIVAL</strong> EST CLOS!”. L’EVENTO PRECIPITANTE: UN CASO<br />

CONTROVERSO <strong>DI</strong> NEGOZIAZIONE IN UN AFFARE PUBBLICO (OVVERO QUANDO <strong>IL</strong> CONFLITTO <strong>DI</strong>VENTA<br />

“OR<strong>DI</strong>NARIO”) .............................................................................................................................................193<br />

XV-(GIOVEDÌ, 10 LUGLIO 2003: “CE 57 E <strong>FESTIVAL</strong> EST CLOS!”. L’INNESCO: GLI “INTERMITTENTI” AL<br />

57 ESIMO <strong>FESTIVAL</strong> <strong>DI</strong> <strong>AVIGNONE</strong>) ...................................................................................................................207<br />

XVI-(GIOVEDÌ, 10 LUGLIO 2003: “CE 57 E <strong>FESTIVAL</strong> EST CLOS!”. LE OPERAZIONI <strong>DI</strong> SOCCORSO: <strong>IL</strong><br />

PROBLEMA <strong>DI</strong> RIVEN<strong>DI</strong>CARE UNO STATUS, OVVERO, PERSEGUIRE IPERFLESSIB<strong>IL</strong>ITÀ DEL LAVORO PER<br />

TORNARE AD ESSERE “NON OR<strong>DI</strong>NARI”) .......................................................................................................223<br />

XVII-(GIOVEDÌ, 10 LUGLIO 2003: “CE 57 E <strong>FESTIVAL</strong> EST CLOS!”. L’ADEGUAMENTO ALLA SITUAZIONE<br />

“NUOVA”: UN DOSSIER SEMPRE PIÙ “DENSO”)...........................................................................................229<br />

XVIII-(LA VULNERAB<strong>IL</strong>ITÀ <strong>DI</strong> UN SISTEMA <strong>DI</strong> PRODUZIONE - SUO MALGRADO - “INADEGUATO”.<br />

UN’ECONOMIA DEL LAVORO COGNITIVO TROPPO “MODERNA”: OVVERO, COME ALIMENTARE UN PARADOSSO<br />

ECONOMICO) ................................................................................................................................................240<br />

XIX-(EP<strong>IL</strong>OGO. VERSO L’E<strong>DI</strong>ZIONE DEL 2004: I GIORNI DEL DEBUTTO <strong>DI</strong> UNA NUOVA AVVENTURA).........252


4-<strong>IL</strong> TESTO DRAMMMATICO DEL <strong>FESTIVAL</strong>: IDENTITÀ E LINGUAGGI PER<br />

“ORGANIZZARE” LA PRODUZIONE TEATRALE . ERRORE. <strong>IL</strong> SEGNALIBRO NON È DEFINITO.<br />

XX-(PROLOGO. LA FICTION E LE COMPONENTI TESTUALI DEL <strong>FESTIVAL</strong> <strong>DI</strong> <strong>AVIGNONE</strong>)............................261<br />

XXI-(ORGANIZZARE LA MESSA IN SCENA DEL <strong>FESTIVAL</strong>. PREPARARE L’ATTRIBUZIONE <strong>DI</strong> SIGNIFICATI: LA<br />

PROGRAMMAZIONE DEL <strong>FESTIVAL</strong> <strong>DI</strong> <strong>AVIGNONE</strong>. <strong>IL</strong> “SISTEMA” DELLE ISTITUZIONI LEGATE AL <strong>FESTIVAL</strong> <strong>DI</strong><br />

<strong>AVIGNONE</strong>: LA METAFORA DELLE TRE CHIAVI).............................................................................................263<br />

XXII-(ORGANIZZARE LA MESSA IN SCENA DEL <strong>FESTIVAL</strong>. PREPARARE L’ATTRIBUZIONE <strong>DI</strong> SIGNIFICATI: LA<br />

PROGRAMMAZIONE DEL <strong>FESTIVAL</strong> <strong>DI</strong> <strong>AVIGNONE</strong>. L’IMPRONTA DEL <strong>DI</strong>RETTORE ARTISTICO E LA COMPLICITÀ<br />

DEL MANAGEMENT: L’ARTISTA ASSOCIATO, GLI “ANGELI CUSTO<strong>DI</strong>” E I “GUAR<strong>DI</strong>ANI DEL FORZIERE”) ......275<br />

XXIII-(ORGANIZZARE LA MESSA IN SCENA DEL <strong>FESTIVAL</strong>. L’EVOLUZIONE DELLA MACCHINA SCENICA: <strong>IL</strong><br />

PALAZZO DEI PAPI E I LUOGHI DEL <strong>FESTIVAL</strong>. “AVIGNON, V<strong>IL</strong>LE D’ESPRIT”: LA CITTÀ DEI PAPI NELLA<br />

REGIONE DEI <strong>FESTIVAL</strong>)................................................................................................................................312<br />

XXIV-(ORGANIZZARE LA MESSA IN SCENA DEL <strong>FESTIVAL</strong>. L’EVOLUZIONE DELLA MACCHINA SCENICA: <strong>IL</strong><br />

PALAZZO DEI PAPI E I LUOGHI DEL <strong>FESTIVAL</strong>. <strong>IL</strong> “MITO” DELLA COUR D’HONNEUR) ...............................324<br />

XXV-(ORGANIZZARE LA MESSA IN SCENA DEL <strong>FESTIVAL</strong>. L’EVOLUZIONE DELLA MACCHINA SCENICA: <strong>IL</strong><br />

PALAZZO DEI PAPI E I LUOGHI DEL <strong>FESTIVAL</strong>. L’ALLARGAMENTO VERSO NUOVI SPAZI: LA CITTÀ COME<br />

SPAZIO SCENICO) ..........................................................................................................................................334<br />

XXVI-(ORGANIZZARE LA MESSA IN SCENA DEL <strong>FESTIVAL</strong>. LA SAGA DEL <strong>FESTIVAL</strong> <strong>DI</strong> <strong>AVIGNONE</strong>: UNA<br />

MACCHINA TEATRALE CON SESSANTA ANNI <strong>DI</strong> STORIA. LA «MAISON JEAN V<strong>IL</strong>AR»: QUANDO LA MEMORIA<br />

CONTA) .........................................................................................................................................................344<br />

XXVII-(ORGANIZZARE LA MESSA IN SCENA DEL <strong>FESTIVAL</strong>. LA SAGA DEL <strong>FESTIVAL</strong> <strong>DI</strong> <strong>AVIGNONE</strong>: UNA<br />

MACCHINA TEATRALE CON SESSANTA ANNI <strong>DI</strong> STORIA. DA PRINCIPIO LA STORIA DEL <strong>FESTIVAL</strong> <strong>DI</strong><br />

<strong>AVIGNONE</strong> È QUELLA <strong>DI</strong> JEAN V<strong>IL</strong>AR…) ...................................................................................................359<br />

XXVIII-(ORGANIZZARE LA MESSA IN SCENA DEL <strong>FESTIVAL</strong>. LA SAGA DEL <strong>FESTIVAL</strong> <strong>DI</strong> <strong>AVIGNONE</strong>: UNA<br />

MACCHINA TEATRALE CON SESSANTA ANNI <strong>DI</strong> STORIA. … POI SONO VENUTI TUTTI GLI ALTRI, MA “[…] ON NE<br />

SUCCÈDE PAS À JEAN V<strong>IL</strong>AR!”) ....................................................................................................................371<br />

XXIX-(EP<strong>IL</strong>OGO. STRUTTURA, FORMA E FLUSSI <strong>DI</strong> CONOSCENZA AL <strong>FESTIVAL</strong> <strong>DI</strong> <strong>AVIGNONE</strong>. CREARE<br />

“FICTION” PER PRODURRE CONOSCENZA AL <strong>FESTIVAL</strong> <strong>DI</strong> <strong>AVIGNONE</strong>: LE STRUTTURE COGNITIVE DELLO<br />

SPETTACOLO TEATRALE)...............................................................................................................................385<br />

XXX-(EP<strong>IL</strong>OGO. STRUTTURA, FORMA E FLUSSI <strong>DI</strong> CONOSCENZA AL <strong>FESTIVAL</strong> <strong>DI</strong> <strong>AVIGNONE</strong>. LA RI-<br />

PRODUZIONE TEATRALE AL <strong>FESTIVAL</strong> <strong>DI</strong> <strong>AVIGNONE</strong> TRA ESTETICA, COMPETENZE, LINGUAGGI FORMALI E<br />

NORME) ........................................................................................................................................................401<br />

XXXI-(EP<strong>IL</strong>OGO. STRUTTURA, FORMA E FLUSSI <strong>DI</strong> CONOSCENZA AL <strong>FESTIVAL</strong> <strong>DI</strong> <strong>AVIGNONE</strong>. LA LOGISTICA<br />

AL <strong>FESTIVAL</strong> <strong>DI</strong> <strong>AVIGNONE</strong>: <strong>DI</strong>STRIBUIRE FLUSSI <strong>DI</strong> CONOSCENZE (ARTISTICHE), NEL TEMPO E NELLO SPAZIO)<br />

.....................................................................................................................................................................410<br />

5-<strong>IL</strong> TESTO SPETTACOLARE DEL <strong>FESTIVAL</strong>: TERRITORI, COMUNITÀ E RETI..............................<br />

XXXII-(PROLOGO. LE COMPONENTI SPETTACOLARI DEL <strong>FESTIVAL</strong> <strong>DI</strong> <strong>AVIGNONE</strong>) ...................................421<br />

XXXIII-(<strong>IL</strong> TEATRO POPOLARE <strong>DI</strong> JEAN V<strong>IL</strong>AR. STORIA DELLA NASCITA <strong>DI</strong> UNA POLITICA TEATRALE<br />

FRANCESE E <strong>IL</strong> FENOMENO DEI “RENCONTRES” AL <strong>FESTIVAL</strong> <strong>DI</strong> <strong>AVIGNONE</strong>: CREARE SIGNIFICATI<br />

ATTRAVERSO LA <strong>DI</strong>SCUSSIONE) .....................................................................................................................423<br />

XXXIV-(<strong>IL</strong> TEATRO POPOLARE <strong>DI</strong> JEAN V<strong>IL</strong>AR. LE TANTE FACCE <strong>DI</strong> UN “<strong>FESTIVAL</strong> <strong>DI</strong> CREAZIONE”: DALLA<br />

PRODUZIONE “IN PROPRIO” ALLA CO-PRODUZIONE INTERNAZIONALE, DAL TNP ALLE TOURNÉE<br />

INTERNAZIONALI)..........................................................................................................................................435<br />

XXXV-(<strong>IL</strong> TEATRO POPOLARE <strong>DI</strong> JEAN V<strong>IL</strong>AR. LA “RUMEUR D’AVIGNON” E <strong>IL</strong> “CASO-JAN FABRE” AL<br />

<strong>FESTIVAL</strong> <strong>DI</strong> <strong>AVIGNONE</strong> 2005. <strong>IL</strong> RUOLO DELLA CRITICA TEATRALE NELLA CREAZIONE DELLE ASPETTATIVE:<br />

PROFEZIE CHE SI AUTOAVVERANO O OPINION LEADERSHIP?).......................................................................459<br />

XXXVI-(<strong>IL</strong> TEATRO POPOLARE <strong>DI</strong> JEAN V<strong>IL</strong>AR. <strong>IL</strong> <strong>FESTIVAL</strong> <strong>DI</strong> <strong>AVIGNONE</strong> VISSUTO DAGLI SPETTATORI.<br />

“AVIGNON, LE PUBLIC RÉINVENTÉ”: LA MANIPOLAZIONE DELLE ESPERIENZE ARTISTICHE CON<strong>DI</strong>VISE)......477<br />

XXXVII-(<strong>IL</strong> TEATRO POPOLARE <strong>DI</strong> JEAN V<strong>IL</strong>AR. <strong>IL</strong> <strong>FESTIVAL</strong> OFF <strong>DI</strong> <strong>AVIGNONE</strong>: OVVERO, COME METTERE<br />

IN SCENA UNO SPETTACOLO “ALTRO”).........................................................................................................498<br />

XXXVIII-(LA F<strong>IL</strong>IERA COGNITIVA DEL TEATRO CONTEMPORANEO: DAL TERRITORIO ALLE RETI<br />

COMUNICATIVE. <strong>IL</strong> SOGNO – IRREALIZZATO – <strong>DI</strong> JEAN V<strong>IL</strong>AR. <strong>IL</strong> TEATRO POPOLARE, OVVERO CO<strong>DI</strong>FICARE<br />

LINGUAGGI – ARTISTICI – E CON<strong>DI</strong>VIDERE ESPERIENZE – TEATRALI: STRATEGIE IBRIDE PER LA<br />

TRASFORMAZIONE DELLA CONOSCENZA) ......................................................................................................515<br />

604


XXXIX-(LA F<strong>IL</strong>IERA COGNITIVA DEL TEATRO CONTEMPORANEO: DAL TERRITORIO ALLE RETI<br />

COMUNICATIVE. UNA RETE <strong>DI</strong> INTERAZIONE E CON<strong>DI</strong>VISIONE “CREATIVA” DAL PUNTO <strong>DI</strong> OSSERVAZIONE DEL<br />

<strong>FESTIVAL</strong> <strong>DI</strong> <strong>AVIGNONE</strong>: LA SOSTENIB<strong>IL</strong>ITÀ DEL PROCESSO <strong>DI</strong> PRODUZIONE ARTISTICO).............................530<br />

6-EP<strong>IL</strong>OGO. VERSO LE PROSSIME E<strong>DI</strong>ZIONI. ...........................................................................................<br />

XL-(LE CHIAVI PER L’INTEGRAZIONE DELLA F<strong>IL</strong>IERA COGNITIVA TEATRALE) ..............................................551<br />

RINGRAZIAMENTI ......................................................................................................................................569<br />

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ................................................................................................................573<br />

IN<strong>DI</strong>CE ............................................................................................................................................................603<br />

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