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15.06.2013 Views

Bobby Fischer: in controtempo • Vittorio Giacopini In controtempo Quello che è straordinario nello spettacolo di Laminarie dedicato a Fischer è la scelta dei protagonisti, dei tre Bobby. Il ragazzino, il giovane campione, il vecchio matto: in scena quei tre (Lorenzo Benini, Alessandro Cafiso, Emilio Vittorio Gioacchini) sono perfetti. Basterebbe guardarli cinque minuti, fermi immobili. E infatti non c’è bisogno di parole. Tre Bobby Fischer e, in fondo uno soltanto, uno e ossessivo. Il tema dell’ossessione (“voglio solo giocare a scacchi”, diceva lui), e questo suo essere sempre in controtempo rispetto alla storia, agli altri, alla politica, è il nodo anche del mio romanzo nonromanzo Re in fuga. Lui era sempre una cosa e il suo esatto contrario, senza volerlo. L’esempio classico? Bobby Fischer rifiuta la logica del pareggio e al tempo stesso lo fa vivendo tutta la sua vita di scacchista proprio durante la guerra fredda, cioè una fase in cui gli equilibri politici del mondo si reggono esattamente sulla logica del compromesso; sulla logica di un compromesso basato sulla paura reciproca, una doppia paura. E Fischer in tutto ciò non è certo una figura marginale. Dei vari terreni di scontro su cui si misuravano Stati Uniti e Unione Sovietica, gli scacchi non era uno dei meno rilevanti. La guerra fredda era equilibrio obbligato e insieme sfida. Sul fronte delicato – gli armamenti nucleari, la bomba atomica – c’era bisogno di un pareggio assoluto, dell’equilibrio; su tutti gli altri fronti invece Stati Uniti e Unione Sovietica si dovevano sfidare. Le olimpiadi, la corsa alla conquista dello spazio, gli… scacchi. Il terzo grande terreno di confronto erano infatti proprio gli scacchi e quello era il campo in cui il predominio dei sovietici era incontrastato. Bobby Fischer è affascinante, perché – lui che vuole “soltanto” giocare a scacchi - a un certo punto viene investito della grande missione americana di ribaltare questo predominio. Deve essere il primo americano che batte i russi e la cosa straordinaria è che ci riesce. Da quel momento in poi inizia la sua seconda vita. Rinnega gli Stati Uniti e si… rinnega. Nello specchio della storia La vicenda di Fischer (o dei tre Bobby) in tutte le sue tappe, o le sue età, è un pretesto perfetto per raccontare la storia del nostro mondo dalla fine della seconda guerra mondiale al 2001. Già nella sua prei- 14 ampio raggio n°2 15

storia c’è un po’ tutto. La madre in fuga dalla Germania nazista che cresce lui e sua sorella da sola. La madre, sospetta comunista, era spiata notte e giorno dall’FBI. (Questa cosa Fischer la scoprirà solo da vecchio, ma il sospetto c’era sempre stato, naturalmente. Molti dicono che lui fosse un paranoico ma, come diceva il poeta Delmore Schwartz: “Anche i paranoici hanno nemici veri”). Ecco, questo nucleo famigliare così fragile, delicato e nevrotico, diventa protagonista di una vicenda che alla lunga assume una rilevanza di portata nazionale, tutta politica. Il ragazzino spiato dall’FBI diventa la grande speranza americana. Riesce a battere i russi e siamo nel pieno della guerra fredda, è il 1972. E poi cosa succede? Appena Fischer arriva in cima, si rende conto che lo stanno manipolando, cioè che sta diventando - lui che è così irregolare, così individualista, così pazzoide - il pretesto di qualcosa d’altro, una pedina. E non ci vuole stare. Un po’ per motivi caratteriali, un po’ anche perché ha un’intuizione politica, per quanto confusa, magari del tutto aurorale, ancora inespressa. Vincere quel campionato mondiale è stata la sua impresa e non vuole farsela scippare. Non vuole diventare il simbolo o il portavoce di nessuno. Nemmeno dell’America, di Nixon, dell’Occidente. Lo vogliono usare. Lui questo lo capisce, e non lo accetta. Voglio solo giocare a scacchi Diceva “voglio solo giocare a scacchi” e in questa monomania non è difficile leggere anche una totale incapacità a relazionarsi col mondo, con le persone. Ma Fischer non è un disadattato, o non soltanto. Non riesce a entrare in relazione con gli altri e col mondo e allora si rifugia in un mondo altro, logico, completamente cartesiano, di cui riesce ad avere il controllo totale. Qui si può isolare dalla politica, dalla storia, dai sentimenti... E la grande beffa di Fischer è che proprio quando questo suo isolamento è massimo, quando diventa campione mondiale, viene risucchiato dalla storia e dalla politica, che diventano dominanti rispetto agli scacchi e a quella forma alternativa di mondo nel quale si era rifugiato e di cui era il padrone senza rivali. Molti hanno parlato anche di autismo per Fischer, o di sindrome di Asperger. Sono psicologismi riduttivi. Nella sua vicenda c’è l’ambizione di vivere in un mondo parallelo, cartesiano, e l’insidia costante dell’imprevedibilità della storia, della politica. È una dialettica strana e spietata. Per chi la racconta – o per chi la mette in scena – la vicenda di Fischer diventa appassionante quando comincia a non interessare più agli esperti di scacchi. Immagino che per loro Fischer sia interessante dalle sue prime partite fino al mondiale vinto. Per me invece quella è la parte meno significativa della sua storia, mentre narrativamente ho trovato bellissimo scrivere dell’infanzia di Fischer - un bambino povero di Brooklyn che finisce nel nobilissimo universo degli scacchi - e poi mi affascina moltissimo questo personaggio che vive nella rinuncia, che vive nascosto, fino al paradosso: una delle persone più famose al mondo che vive buona parte della sua vita nell’anonimato. 16 ampio raggio n°2 17

storia c’è un po’ tutto. La madre in fuga dal<strong>la</strong> Germania<br />

nazista che cresce lui e sua sorel<strong>la</strong> da so<strong>la</strong>. La<br />

madre, sospetta comunista, era spiata notte e giorno<br />

dall’FBI. (Questa cosa Fischer <strong>la</strong> scoprirà solo da<br />

vecchio, ma <strong>il</strong> sospetto c’era sempre stato, naturalmente.<br />

Molti dicono che lui fosse un paranoico ma,<br />

come diceva <strong>il</strong> poeta Delmore Schwartz: “Anche i<br />

paranoici hanno nemici veri”). Ecco, questo nucleo<br />

famigliare così frag<strong>il</strong>e, <strong>del</strong>icato e nevrotico, diventa<br />

protagonista di una vicenda che al<strong>la</strong> lunga assume<br />

una r<strong>il</strong>evanza di portata nazionale, tutta politica. Il<br />

ragazzino spiato dall’FBI diventa <strong>la</strong> grande speranza<br />

americana. Riesce a battere i russi e siamo nel pieno<br />

<strong>del</strong><strong>la</strong> guerra fredda, è <strong>il</strong> 1972.<br />

E poi cosa succede? Appena Fischer arriva in<br />

cima, si rende conto che lo stanno manipo<strong>la</strong>ndo,<br />

cioè che sta diventando - lui che è così irrego<strong>la</strong>re,<br />

così individualista, così pazzoide - <strong>il</strong> pretesto di<br />

qualcosa d’altro, una pedina. E non ci vuole stare.<br />

Un po’ per motivi caratteriali, un po’ anche perché<br />

ha un’intuizione politica, per quanto confusa, magari<br />

<strong>del</strong> tutto aurorale, ancora inespressa. Vincere<br />

quel campionato mondiale è stata <strong>la</strong> sua impresa<br />

e non vuole farse<strong>la</strong> scippare. Non vuole diventare<br />

<strong>il</strong> simbolo o <strong>il</strong> portavoce di nessuno. Nemmeno<br />

<strong>del</strong>l’America, di Nixon, <strong>del</strong>l’Occidente. Lo vogliono<br />

usare. Lui questo lo capisce, e non lo accetta.<br />

Voglio solo giocare a scacchi<br />

Diceva “voglio solo giocare a scacchi” e in questa<br />

monomania non è diffic<strong>il</strong>e leggere anche una totale<br />

incapacità a re<strong>la</strong>zionarsi col mondo, con le persone.<br />

Ma Fischer non è un disadattato, o non soltanto.<br />

Non riesce a entrare in re<strong>la</strong>zione con gli altri e col<br />

mondo e allora si rifugia in un mondo altro, logico,<br />

completamente cartesiano, di cui riesce ad avere<br />

<strong>il</strong> controllo totale. Qui si può iso<strong>la</strong>re dal<strong>la</strong> politica,<br />

dal<strong>la</strong> storia, dai sentimenti... E <strong>la</strong> grande beffa di<br />

Fischer è che proprio quando questo suo iso<strong>la</strong>mento<br />

è massimo, quando diventa campione mondiale,<br />

viene risucchiato dal<strong>la</strong> storia e dal<strong>la</strong> politica, che<br />

diventano dominanti rispetto agli scacchi e a quel<strong>la</strong><br />

forma alternativa di mondo nel quale si era rifugiato<br />

e di cui era <strong>il</strong> padrone senza rivali. Molti hanno<br />

par<strong>la</strong>to anche di autismo per Fischer, o di sindrome<br />

di Asperger. Sono psicologismi riduttivi. Nel<strong>la</strong><br />

sua vicenda c’è l’ambizione di vivere in un mondo<br />

parallelo, cartesiano, e l’insidia costante <strong>del</strong>l’imprevedib<strong>il</strong>ità<br />

<strong>del</strong><strong>la</strong> storia, <strong>del</strong><strong>la</strong> politica. È una dialettica<br />

strana e spietata. Per chi <strong>la</strong> racconta – o per<br />

chi <strong>la</strong> mette in scena – <strong>la</strong> vicenda di Fischer diventa<br />

appassionante quando comincia a non interessare<br />

più agli esperti di scacchi. Immagino che per loro<br />

Fischer sia interessante dalle sue prime partite fino<br />

al mondiale vinto. Per me invece quel<strong>la</strong> è <strong>la</strong> parte<br />

meno significativa <strong>del</strong><strong>la</strong> sua storia, mentre narrativamente<br />

ho trovato bellissimo scrivere <strong>del</strong>l’infanzia<br />

di Fischer - un bambino povero di Brooklyn che finisce<br />

nel nob<strong>il</strong>issimo universo degli scacchi - e poi mi<br />

affascina moltissimo questo personaggio che vive<br />

nel<strong>la</strong> rinuncia, che vive nascosto, fino al paradosso:<br />

una <strong>del</strong>le persone più famose al mondo che vive<br />

buona parte <strong>del</strong><strong>la</strong> sua vita nell’anonimato.<br />

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