leggi il numero 2 - DOM la cupola del pilastro

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15.06.2013 Views

Venuto il momento, vorrei avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità e nel tempo stesso di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito. Non potrei auspicare una tale morte. Mi sembra importante dichiararlo. Non vedo, infatti, come potrei rallegrarmi del fatto che questo popolo che amo sia indistintamente accusato del mio assassinio. Sarebbe un prezzo troppo caro, per quella che forse chiameremo “grazia del martirio”, il doverla a un algerino o a chiunque egli sia, soprattutto se dice di agire in fedeltà a ciò che crede essere l’islam. So il disprezzo con il quale si è arrivati a circondare gli algerini globalmente presi. So anche le caricature dell’islam che un certo islamismo incoraggia. È troppo facile mettersi a posto la coscienza identificando questa via religiosa con gli integralismi dei suoi estremisti. L’Algeria e l’Islam per me sono un’altra cosa: sono un corpo e un’anima. L’ho proclamato abbastanza, credo, in base a quanto ne ho concretamente ricevuto, ritrovandovi così spesso il filo conduttore dell’evangelo imparato sulle ginocchia di mia madre, la mia primissima chiesa, proprio in Algeria e, già allora, nel rispetto dei credenti musulmani. Evidentemente, la mia morte sembrerà dar ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo o da idealista: “Dica adesso quel che ne pensa!”. Ma costoro devono sapere che sarà finalmente liberata la mia più lancinante curiosità. Ecco che potrò, se piace a Dio, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione e ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze. Di questa vita perduta, totalmente mia, e totalmente loro, io rendo grazia a Dio che sembra averla voluta tutta intera per quella gioia attraverso e nonostante tutto. In questo grazie in cui tutto è detto, ormai, della mia vita, includo certamente voi amici di ieri e di oggi, e voi, amici di qui, accanto a mia madre e a mio padre, alle mie sorelle e ai miei fratelli, e ai loro, centuplo accordato come promesso! E anche te, amico dell’ultimo minuto, che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo grazie e questo ad-Dio da te previsto. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due. Amen! Inšallah! † Christian Algeri 1 dicembre 1993 – Tibhirine, 1 gennaio 1994» Q uesto il testamento spirituale di Padre Christian, priore della comunità di Tibhirine, del monastero di Notre-Dame-de-l’Atlas. Nella notte tra il 26 e il 27 marzo del 1996 Christian ed altri sei monaci furono rapiti da un gruppo di uomini armati. Le loro teste sono state trovate il 30 maggio nei pressi del villaggio di Médéa. Questo episodio 70 ampio raggio n°2 71

imane uno dei tanti atti di feroce violenza che dal 1992 hanno coinvolto l’Algeria. La comunità di Tibhirine si trovava proprio sul fronte di quelli che i monaci chiamavano “i fratelli della montagna”, cioè i combattenti islamici, e i “fratelli della pianura”, militari e forze di polizia. Questa la vicenda al centro del film Uomini di Dio di Xavier Beauvois 1 , portato in concorso al 63esimo Festival di Cannes e uscito nelle sale qualche mese fa. È nel testamento di Padre Christian e nelle testimonianze 2 (epistole, omelie, conferenze, riflessioni) dei sette monaci uccisi durante la guerra civile algerina, che sono riuscita a ripensare al film di Beauvois. Colpisce, in ognuno dei documenti dei monaci, la profondità di una vita donata, la volontà a non cercare mai scorciatoie, la capacità, tutta antropologica, nel volere “ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze”, il valore della testimonianza di una vita condivisa con altri per comprendere in maniera profonda, densa. Ed infine colpisce la gioia, la gioia nel perdono ma anche nella condivisione, nella capacità di avere saputo trovare nell’Algeria e nell’Islam “spiriti e corpi”, “corpi e spiriti” che fanno di ogni uomo, donna e bambino conosciuti, persone. Ed è esattamente nella difficoltà, tutta umana, che caratterizza ognuno dei singoli percorsi biografici dei monaci, che ho trovato il filo rosso della ricomposizione cinematografica di Beauvois. Una riscrittura, quella del regista, sublime nella consuetudine quotidiana della prova delle umane debolezze: dubbi, timori, gioie, solitudini e condivisioni. Beauvois coglie con grande intuito e profondità la vita degli uomini di fronte agli accadimenti della storia. I percorsi delle vite di ognuno di questi monaci emergono con delicatezza e precisione in ogni momento del film per ricomporsi in un destino comune, fatto di scelte eticamente complicate. È un destino che si compie nella quotidianità del lavoro dell’orto, nella contemplazione della bellezza dell’Atlante, nella preghiera, nel canto, nell’apprendimento della diversità attraverso la lettura costante del Corano. È proprio l’impegno intellettuale e spirituale che rende l’esperienza dei monaci di Tibhirine sublime. L’impegno a capire, la vocazione ad accettare, la volontà di restare per essere “segno sulla montagna”, un segno non una imposizione: un seme di presenza e di fratellanza. Il regista attraverso una ricomposizione dei percorsi biografici di ognuno dei monaci, lavoro attento e senza sbavature, indaga il significato di traiettorie umane unite da un discorso comune nella fede. I monaci di Tibhirine sono uomini di fronte alle divinità (questo il titolo originale del film, Des hommes et des dieux), “uomini normali, come lo sono tutti i monaci” scrive Guido Dotti “ricchi di doni e debolezze, nutriti di coraggio e frenati dalle paure, carichi di speranze e fiaccati da disillusioni. Intellettuali alcuni, più fattivi altri, taciturni, meditativi o dotati di capacità comunicative” 3 . Affresco che diviene ritratto corale quando ritroviamo i monaci riuniti nell’ultima cena accompagnati dalla musica di 72 ampio raggio n°2 73

imane uno dei tanti atti di feroce violenza che<br />

dal 1992 hanno coinvolto l’Algeria. La comunità di<br />

Tibhirine si trovava proprio sul fronte di quelli che<br />

i monaci chiamavano “i fratelli <strong>del</strong><strong>la</strong> montagna”,<br />

cioè i combattenti is<strong>la</strong>mici, e i “fratelli <strong>del</strong><strong>la</strong> pianura”,<br />

m<strong>il</strong>itari e forze di polizia.<br />

Questa <strong>la</strong> vicenda al centro <strong>del</strong> f<strong>il</strong>m Uomini di Dio<br />

di Xavier Beauvois 1 , portato in concorso al 63esimo<br />

Festival di Cannes e uscito nelle sale qualche mese<br />

fa.<br />

È nel testamento di Padre Christian e nelle testimonianze<br />

2 (epistole, omelie, conferenze, riflessioni)<br />

dei sette monaci uccisi durante <strong>la</strong> guerra civ<strong>il</strong>e<br />

algerina, che sono riuscita a ripensare al f<strong>il</strong>m di<br />

Beauvois. Colpisce, in ognuno dei documenti dei<br />

monaci, <strong>la</strong> profondità di una vita donata, <strong>la</strong> volontà<br />

a non cercare mai scorciatoie, <strong>la</strong> capacità, tutta antropologica,<br />

nel volere “ristab<strong>il</strong>ire <strong>la</strong> somiglianza,<br />

giocando con le differenze”, <strong>il</strong> valore <strong>del</strong><strong>la</strong> testimonianza<br />

di una vita condivisa con altri per comprendere<br />

in maniera profonda, densa. Ed infine colpisce<br />

<strong>la</strong> gioia, <strong>la</strong> gioia nel perdono ma anche nel<strong>la</strong> condivisione,<br />

nel<strong>la</strong> capacità di avere saputo trovare<br />

nell’Algeria e nell’Is<strong>la</strong>m “spiriti e corpi”, “corpi e<br />

spiriti” che fanno di ogni uomo, donna e bambino<br />

conosciuti, persone.<br />

Ed è esattamente nel<strong>la</strong> difficoltà, tutta umana,<br />

che caratterizza ognuno dei singoli percorsi<br />

biografici dei monaci, che ho trovato <strong>il</strong> f<strong>il</strong>o rosso<br />

<strong>del</strong><strong>la</strong> ricomposizione cinematografica di Beauvois.<br />

Una riscrittura, quel<strong>la</strong> <strong>del</strong> regista, sublime nel<strong>la</strong><br />

consuetudine quotidiana <strong>del</strong><strong>la</strong> prova <strong>del</strong>le umane<br />

debolezze: dubbi, timori, gioie, solitudini e condivisioni.<br />

Beauvois coglie con grande intuito e profondità<br />

<strong>la</strong> vita degli uomini di fronte agli accadimenti<br />

<strong>del</strong><strong>la</strong> storia. I percorsi <strong>del</strong>le vite di ognuno di questi<br />

monaci emergono con <strong>del</strong>icatezza e precisione in<br />

ogni momento <strong>del</strong> f<strong>il</strong>m per ricomporsi in un destino<br />

comune, fatto di scelte eticamente complicate.<br />

È un destino che si compie nel<strong>la</strong> quotidianità <strong>del</strong><br />

<strong>la</strong>voro <strong>del</strong>l’orto, nel<strong>la</strong> contemp<strong>la</strong>zione <strong>del</strong><strong>la</strong> bellezza<br />

<strong>del</strong>l’At<strong>la</strong>nte, nel<strong>la</strong> preghiera, nel canto, nell’apprendimento<br />

<strong>del</strong><strong>la</strong> diversità attraverso <strong>la</strong> lettura costante<br />

<strong>del</strong> Corano. È proprio l’impegno intellettuale<br />

e spirituale che rende l’esperienza dei monaci di<br />

Tibhirine sublime. L’impegno a capire, <strong>la</strong> vocazione<br />

ad accettare, <strong>la</strong> volontà di restare per essere “segno<br />

sul<strong>la</strong> montagna”, un segno non una imposizione:<br />

un seme di presenza e di fratel<strong>la</strong>nza.<br />

Il regista attraverso una ricomposizione dei<br />

percorsi biografici di ognuno dei monaci, <strong>la</strong>voro<br />

attento e senza sbavature, indaga <strong>il</strong> significato di<br />

traiettorie umane unite da un discorso comune nel<strong>la</strong><br />

fede.<br />

I monaci di Tibhirine sono uomini di fronte alle<br />

divinità (questo <strong>il</strong> titolo originale <strong>del</strong> f<strong>il</strong>m, Des hommes<br />

et des dieux), “uomini normali, come lo sono tutti i<br />

monaci” scrive Guido Dotti “ricchi di doni e debolezze,<br />

nutriti di coraggio e frenati dalle paure, carichi<br />

di speranze e fiaccati da dis<strong>il</strong>lusioni. Intellettuali<br />

alcuni, più fattivi altri, taciturni, meditativi o dotati<br />

di capacità comunicative” 3 . Affresco che diviene<br />

ritratto corale quando ritroviamo i monaci riuniti<br />

nell’ultima cena accompagnati dal<strong>la</strong> musica di<br />

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