La Divina Commedia - Sebastiano Inturri
La Divina Commedia - Sebastiano Inturri La Divina Commedia - Sebastiano Inturri
La Divina Commedia di Dante Alighieri così come interpretata e commentata da Sebastiano Inturri PRIMA CANTICA: - Inferno -
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<strong>La</strong> <strong>Divina</strong> <strong>Commedia</strong><br />
di Dante Alighieri<br />
così come interpretata e commentata<br />
da <strong>Sebastiano</strong> <strong>Inturri</strong><br />
PRIMA CANTICA:<br />
- Inferno -
PRESENTAZIONE, BIBLIOGRAFIA<br />
E AVVERTENZE PER LA CONSULTAZIONE<br />
Sulla <strong>Divina</strong> <strong>Commedia</strong> si sono compiuti innumerevoli studi e ricerche, al<br />
punto che forse nessun’altra opera di letteratura ha mai suscitato così tanto<br />
interesse ed è stata così studiata.<br />
Inoltre di questo poema sono stati scritti moltissimi libri di commento dei<br />
versi che lo compongono e sono state redatte tantissime parafrasi.<br />
Pertanto questa mia interpretazione forse non sarà altro che un’inutile<br />
ripetizione di quanto è già stato scritto da altri. Tuttavia non volevo che i miei<br />
appassionati studi su questo poema, restando limitati nell’ambito della mia<br />
sola conoscenza, si potessero disperdere come foglie al vento, e comunque<br />
spero che essi rappresentino almeno un granello di sabbia che possa<br />
arricchire l’immensa spiaggia degli studi già compiuti prima di me su questa<br />
opera immortale della letteratura italiana. Perciò ho deciso di renderli<br />
pubblici, fiducioso che possano incontrare almeno un certo interesse nei<br />
lettori che si accingeranno a leggere le pagine in cui li ho messi per iscritto e<br />
che la lettura di queste possa rappresentare per loro un sia pur piccolo<br />
contributo nella comprensione dei versi danteschi.<br />
Per cercare di centrare il bersaglio appena detto, ho cercato di schematizzare<br />
il poema dantesco e di rendere piacevole la lettura attraverso un linguaggio il<br />
più possibile chiaro, scorrevole e sintetico.<br />
I versi che giudico più belli o significativi li ho scritti con un carattere di<br />
maggiori dimensioni e li ho commentati più analiticamente; tutti gli altri versi<br />
invece li ho commentati in maniera sintetica. Ho commentato analiticamente<br />
per intero solo il primo canto dell’Inferno e l’ultimo del Paradiso,<br />
rispettivamente il primo e l’ultimo della <strong>Divina</strong> <strong>Commedia</strong>.<br />
Avverto i lettori che non sono né un dottore in lettere né uno studioso<br />
professionista. Mi considero invece, semplicemente, un estimatore e uno<br />
studioso dilettante di questo grande poema. Mi scuso quindi per eventuali<br />
omissioni od inesattezze.<br />
Per realizzare questa composizione, oltre naturalmente alla <strong>Divina</strong><br />
<strong>Commedia</strong>, ho letto le opere principali di Dante (la Vita Nuova, Il Convivio,<br />
il De Vulgari Eloquentia, il De Monarchia), quelle che, secondo quanto scritto<br />
da lui stesso nelle sue opere, Dante lesse con passione (soprattutto la Bibbia,<br />
l’Eneide di Virgilio, l’Etica Nicomachea di Aristotele, le Metamorfosi di<br />
Ovidio, la Consolazione della Filosofia di Boezio) e ho consultato soprattutto<br />
le seguenti opere:<br />
3
la <strong>Divina</strong> <strong>Commedia</strong>, volume unico, commentata da Giovanni Fallani e<br />
Silvio Zennaro, della Newton & Compton Editori – Roma, aprile 2005;<br />
la <strong>Divina</strong> <strong>Commedia</strong>, in tre volumi, della Fabbri Editori, appartenente<br />
alla collana “I grandi classici della letteratura italiana”, commentati da<br />
Claudio Scarpati (Inferno), Antonio Prete e Rosa Ottaviano<br />
(Purgatorio), Maria Amalia Camozzi (Paradiso) – Bergamo, 1997;<br />
Dante, Viaggio nella <strong>Divina</strong> <strong>Commedia</strong>, antologia di canti, di Maria Adele<br />
Garavaglia – editrice Mursia – Milano, 1994;<br />
Vita di Dante, di Giorgio Petrocchi – editori <strong>La</strong>terza – Roma-Bari, 1983<br />
la Parafrasi della <strong>Divina</strong> <strong>Commedia</strong>, di Luigi De Bellis, tratta dal sito<br />
www.xoomer.alice.it.<br />
Il testo che ho adottato è <strong>La</strong> <strong>Commedia</strong> secondo l‟antica vulgata, di Giorgio<br />
Petrocchi, così come tratto dal sito www.liberliber.it.<br />
Non mi rimane che augurare una buona lettura!<br />
Roma, 17 Novembre 2010<br />
4<br />
S. I.
“Chi vive nel sogno è un essere superiore,<br />
chi vive nella realtà, uno schiavo infelice.<br />
Dante fu certamente il maggiore poeta del sogno della vita…”<br />
5<br />
[Alberto Martini – 1940]
BIOGRAFIA DI DANTE<br />
E INTRODUZIONE ALLA DIVINA COMMEDIA<br />
Dante Alighieri, il “sommo poeta” della letteratura italiana, nacque a Firenze<br />
verso la fine di maggio del 1265 (sotto il segno dei Gemelli, che al suo tempo<br />
si pensava predisponesse allo studio e alla poesia) da una famiglia<br />
appartenente alla piccola nobiltà.<br />
Suo padre, Alighiero, ebbe quattro figli da due matrimoni: dalla prima<br />
moglie, di nome Bella, ebbe Durante detto Dante e una figlia di cui non si<br />
conosce il nome. Bella morì in giovane età (quando Dante aveva non più di<br />
dieci anni di età), e Alighiero si risposò quasi subito, con una donna di nome<br />
<strong>La</strong>pa, la quale gli diede altri due figli, Francesco e Tana. Dante tace sia del<br />
padre sia della madre Bella sia della matrigna <strong>La</strong>pa, probabilmente per<br />
rispettare una tradizione retorica, secondo cui il poeta deve tacere sui propri<br />
prossimi parenti. Si ricorda che la retorica è l’arte del ben parlare.<br />
Alighiero morì verso il 1282, quando il suo primogenito era ancora<br />
adolescente. Dante perciò si ritrovò ben presto ad dover assumere i panni di<br />
capofamiglia, un ruolo che non gli si addiceva molto, visto il suo scarso senso<br />
degli affari. Viceversa il fratellastro Francesco mostrò di aver ereditato il<br />
senso pratico del padre, e spesso aiutò finanziariamente Dante nei suoi<br />
momenti di difficoltà.<br />
Nella Vita Nuova, opera scritta tra il 1283 e il 1295, Dante dice che lui aveva<br />
quasi nove anni quando a li miei occhi apparve prima la gloriosa donna de la mia<br />
mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice. Lei, invece, allora aveva otto anni e<br />
quattro mesi. Questo incontro fu per lui travolgente, tant’è che alla vista di lei<br />
il suo cuore cominciò a tremare sì fortemente, che apparia ne li menimi polsi<br />
orribilmente (cioè: cominciò a tremare con una tale intensità che anche dove il<br />
sangue giunge con minore pressione, ossia nei polsi, il suo forte pulsare era<br />
evidentissimo).<br />
Dopo quella volta, il poeta rivide la sua gentilissima (così la chiama nella Vita<br />
Nuova) a distanza di ben nove anni.<br />
Dante, nella Vita Nuova, attribuisce un significato mistico alla correlazione<br />
tra Beatrice e il numero nove.<br />
Oltre a quanto già detto (e cioè che il suo primo incontro con lei avvenne<br />
all’età di nove anni e il secondo nove anni dopo), egli rimarca (nel cap. XXIX<br />
di tale opera) che: contando il tempo alla maniera degli Arabi, ella morì il<br />
nono giorno del mese; secondo il calendario siriaco, morì nel nono mese<br />
dell’anno; secondo il nostro modo di contare il tempo, infine, morì in<br />
quell’anno (il 1290) le cui ultime due cifre formano un numero (il 90) che è il<br />
7
prodotto del numero nove per il numero dieci. Quest’ultimo numero (il dieci)<br />
il poeta lo considerava perfetto, perché tale era ritenuto nel Medioevo.<br />
Sempre nel suddetto capitolo della Vita Nuova il poeta evidenzia che<br />
secondo la dottrina tolemaica ci sono nove cieli che ruotano, e che il numero<br />
nove è collegato a Beatrice per fare intendere che al momento della sua<br />
generazione tutti e nove i cieli erano perfettamente accordati tra loro. Inoltre<br />
il numero nove è uguale a tre moltiplicato per sé stesso; e siccome il numero<br />
tre è il simbolo della Santissima Trinità, quella donna fu associata al numero<br />
nove per far capire che ella era un “miracolo” (così lui la definisce), la cui<br />
radice non è altro che la mirabile Trinità (infatti la radice quadrata di nove è<br />
tre). Occorre aggiungere che nel Medioevo, oltre che il dieci, anche il tre era<br />
considerato un numero perfetto.<br />
Gli studiosi identificano Beatrice con Bice, figlia di Folco Portinari e moglie di<br />
Simone de’ Bardi, morta di parto nel giugno del 1290 all’età di soli<br />
ventiquattro anni.<br />
Dante, invece, si sposò, presumibilmente nel 1285, con Gemma Donati. Da<br />
tale matrimonio nacquero, con certezza, tre figli; nell’ordine: Pietro, Jacopo e<br />
Antonia (che si fece monaca col nome di Beatrice); oltre a questi, ebbe, forse,<br />
come primogenito, un altro figlio, di nome Giovanni; ma probabilmente si<br />
tratta del figlio di un omonimo del poeta.<br />
Tra il 1295 e il 1300 Dante ricoprì a Firenze ruoli politici di prestigio. Nel<br />
bimestre compreso tra il 15 giugno e il 15 agosto 1300 ricoprì la carica di<br />
Priore; i Priori erano in numero di sei, e riuniti in collegio costituivano il<br />
massimo organo di governo del comune di Firenze. A tale elezione Dante fece<br />
risalire tutte le proprie sventure d’esule; in un’epistola egli scrisse: «Tutti li<br />
mali e l‟inconvenienti miei dalli infausti comizi del mio priorato ebbono cagione e<br />
principio». Alla divisione dei Guelfi fiorentini nelle due fazioni dei Bianchi e<br />
dei Neri, lui si schierò dalla parte dei più moderati, ossia i Bianchi, capeggiati<br />
dal banchiere Vieri dei Cerchi. Questi ultimi, temporaneamente, ebbero il<br />
sopravvento e Corso Donati, capoparte dei Neri, dovette lasciare Firenze. Ma<br />
papa Bonifacio VIII, interessato ad espandere i domini della Chiesa anche in<br />
Toscana, nel mese di novembre del 1301 inviò a Firenze un proprio legato,<br />
Carlo di Valois, il quale favorì il ritorno dei Neri esuli e la loro presa del<br />
potere. Nei processi sommari che ne seguirono ai danni dei Bianchi, Dante,<br />
che si trovava fuori Firenze, fu giudicato colpevole di baratteria e<br />
appropriazione indebita di fondi pubblici, e venne condannato, tra l’altro, a<br />
due anni di confino. Egli non si presentò, e una seconda sentenza lo<br />
condannò alla pena di morte. Così il poeta fu costretto a vivere in esilio fuori<br />
da Firenze per il resto della sua vita.<br />
Nell’ultimo capitolo della Vita Nuova Dante scrive che ebbe una visione<br />
soprannaturale, nella quale vide cose che lo indussero a non dire più di questa<br />
8
enedetta (Beatrice) infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei..... Sì<br />
che, se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono (Dio), che la mia vita duri per<br />
alquanti anni, io spero di dicer di lei quello che mai fue detto d‟alcuna. E poi piaccia a<br />
colui che è sire de la cortesia (Dio), che la mia anima se ne possa gire a vedere la<br />
gloria de la sua donna, cioè di quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente mira<br />
ne la faccia di colui qui est per omnia secula benedictus. Dante, quindi, termina la<br />
composizione della Vita Nuova con l’intenzione di scrivere, sempreché Dio<br />
gli conceda ancora un numero di anni di vita sufficiente, un’altra opera nella<br />
quale esaltare degnamente la sua amata Beatrice. Inoltre egli esprime il<br />
desiderio di raggiungerla in Paradiso (dove lei si trova già e contempla Dio).<br />
Per dare corso a questi propositi, intorno al 1304 Dante comincia a scrivere la<br />
sua maggiore opera: la <strong>Divina</strong> <strong>Commedia</strong>, nella quale descrive un viaggio che<br />
prodigiosamente, grazie all’intercessione di Beatrice, egli compie da vivo nei<br />
tre regni dell’oltremondo: Inferno, Purgatorio e Paradiso. Bisogna comunque<br />
dire che, anche se il poeta non lo dice esplicitamente, il suo viaggio nell’aldilà<br />
non fu reale, ma il frutto di una visione, tant’è che nel corso del poema egli<br />
spesso esordisce con le parole Io vidi…, vestendo in tal modo i panni dei<br />
profeti biblici, tra cui, soprattutto, l’autore dell’Apocalisse (l’ultimo libro della<br />
Bibbia), che secondo molti è san Giovanni evangelista. Il viaggio di Dante,<br />
come vedremo nella lettura del poema, copre un arco di sette giorni, con<br />
palese riferimento ai biblici sette giorni della creazione del mondo (cfr. il<br />
Genesi della Bibbia).<br />
Lo scopo per il quale la donna lo chiama a questo viaggio nell’aldilà è quello<br />
di fargli vedere la condizione delle anime dei morti, affinché lui ne tragga<br />
una lezione morale per sé stesso e per tutti coloro che ascolteranno o<br />
leggeranno ciò che lui riferirà quando sarà tornato sulla terra. Nel Paradiso<br />
terrestre lei dirà infatti al poeta: […] in pro del mondo che mal vive, / […] quel che<br />
vedi, / ritornato di là, fa che tu scrive (cioè: “Allo scopo di migliorare l’umanità,<br />
che è corrotta, quando sarai tornato sulla terra scrivi le cose che stai vedendo”<br />
- Purgatorio, XXXII, 103-105); Tu nota; e sì come da me son porte, / così queste<br />
parole segna a‟ vivi (cioè: “Tu osserva; e poi, quando sarai tornato sulla terra,<br />
riporta le mie parole ai viventi” - Purgatorio, XXXIII, 52-53). Inoltre<br />
compiendo questo viaggio nell’aldilà il poeta potrà coronare il suo sogno di<br />
incontrare la sua amata in Paradiso.<br />
Più o meno contemporaneamente alla <strong>Divina</strong> <strong>Commedia</strong>, Dante inizia a<br />
scrivere un’altra opera, il Convivio, nella quale (II, 12) egli dice che la morte di<br />
Beatrice lo fece precipitare in uno stato di profonda afflizione, dalla quale<br />
provò a venire fuori attraverso la lettura dei libri di filosofia. E sì come essere<br />
suole che l‟uomo va cercando argento e fuori de la ‟ntenzione truova oro, egli, che<br />
aveva iniziato ad avvicinarsi alla filosofia solo per consolarsi, vi provò tanto<br />
gusto sì che in picciol tempo, forse di trenta mesi, cominciai tanto a sentire de la sua<br />
9
dolcezza, che lo suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero. Tra le opere di<br />
filosofia preferite da Dante vi furono l’Etica Nicomachea, la Fisica, la Metafisica<br />
e la Retorica di Aristotele (che lui nel Convivio chiama lo maestro de la nostra<br />
vita, lo maestro de‟ filosofi, e lo Filosofo per antonomasia ), il Timeo di Platone, il<br />
De Amicitia e il De officiis di Cicerone, il De Consolatione Philisophiae di<br />
Severino Boezio (filosofo che Dante ammirò molto e che nel Convivio chiama,<br />
tra l’altro, lo Savio). Oltre alle opere filosofiche Dante studiò i testi sacri, tra<br />
cui la Bibbia, Le Confessioni di s. Agostino e la Summa Theologiae di s. Tommaso<br />
d’Aquino, e le opere di letteratura classica (greca e latina), tra cui l’Eneide di<br />
Virgilio (che nel Convivio lui definisce lo nostro maggiore poeta), le<br />
Metamorphoses di Ovidio, la Pharsalia di Lucano. Come si vede, quindi, Dante<br />
acquisì, da autodidatta, una vastissima cultura; e per cercare di comprendere<br />
e interpretare adeguatamente i versi della <strong>Divina</strong> <strong>Commedia</strong> è necessario<br />
prima leggere tutte le opere suddette e altre qui non citate che costituiscono<br />
anch’esse le fonti del capolavoro dantesco.<br />
Nelle intenzioni di Dante il Convivio avrebbe dovuto essere composto da<br />
quindici trattati; ma dopo aver completato il quarto lo interruppe per<br />
dedicarsi completamente alla <strong>Divina</strong> <strong>Commedia</strong>.<br />
Quest’ultima è un poema la cui composizione lo impegnò per il resto della<br />
sua vita, ossia fino al 1321. Dante chiamò la sua opera <strong>Commedia</strong>; l’aggettivo<br />
“<strong>Divina</strong>” fu aggiunto da Giovanni Boccaccio (nel suo Trattatello in laude di<br />
Dante), e da allora venne considerato parte del titolo in modo definitivo.<br />
In una lettera che inviò a Cangrande della Scala, signore di Verona che lo<br />
ospitò tra il 1314 e il 1318, Dante informa della ragione per cui l’ha chiamato<br />
“<strong>Commedia</strong>”: perché appartiene ad un genere letterario (la commedia,<br />
appunto) “più leggero e meno elevato” della tragedia, anche perché scritto in<br />
lingua volgare (lingua popolare) e non in latino (lingua aulica); e perché,<br />
come le commedie, che hanno tutte un lieto fine, è un’opera che inizia<br />
tragicamente ma finisce felicemente (infatti si parte dal dramma dei dannati<br />
per giungere alla beatitudine celeste).<br />
Della <strong>Divina</strong> <strong>Commedia</strong> esistono circa ottocento codici manoscritti; ma<br />
purtroppo non è mai stato trovato l’originale, quello cioè scritto dalla mano<br />
di Dante. Ciò nel corso del tempo ha comportato inevitabili fenomeni di<br />
corruzione e inquinamento testuali, tanto più accentuati quanto più furono i<br />
passaggi di copiatura manuale (all’epoca non esisteva ancora la stampa) da<br />
un copista all’altro. Solo di recente Giorgio Petrocchi (Tivoli, 13 agosto 1921 –<br />
Roma, 7 febbraio 1989) ha stilato un testo cui è giunto attraverso un<br />
meticoloso confronto tra i soli codici più antichi. Pertanto il testo attualmente<br />
più largamente accettato è quello intitolato <strong>La</strong> <strong>Commedia</strong> secondo l‟antica<br />
vulgata, curato appunto da Giorgio Petrocchi, ed è quello adottato anche nella<br />
presente parafrasi.<br />
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Si tratta di un’opera realmente grandiosa: oltre 14.000 versi, tutti di undici<br />
sillabe (chiamati endecasillabi), scritti rispettando le regole della metrica. Nel<br />
De Vulgari Eloquentia, opera scritta in latino tra il 1304 e il 1306 circa, e<br />
anch’essa, come il Convivio, lasciata incompiuta, Dante sostiene che<br />
L‟endecasillabo appare il più splendido dei versi. Nell’ambito di ciascun verso gli<br />
accenti cadono in determinate sillabe, generalmente nella 6ª e nella 10ª, nella<br />
4ª, 8ª e 10ª, o nella 4ª, 7ª e 10ª; ma vi sono anche versi “tronchi”, cioè che<br />
hanno l’accento anche sull’ultima sillaba (l’11ª). I versi sono riuniti in strofe di<br />
tre ciascuna (la c.d. “terzina dantesca”), e la rima è quella detta “incatenata”,<br />
in cui il primo verso rima col terzo, il secondo col quarto e col sesto, il quinto<br />
con settimo e il nono e così via.<br />
<strong>La</strong> lingua usata, come detto, è il volgare, cioè quella parlata dal popolo del<br />
suo tempo. Dante dichiarò sempre di amare il volgare, soprattutto perché<br />
esso può essere compreso da tutti, a differenza del latino, che solo i dotti sono<br />
in grado di capire (perché si apprende solo attraverso un lungo e assiduo<br />
studio). Tuttavia nel De Vulgari Eloquentia egli riconosce al latino e alle altre<br />
lingue (tra cui il greco) che lui chiama gramatiche, le quali sono basate su<br />
regole tassative e universalmente valide, il merito di essere inalterabili nel<br />
tempo e nello spazio, a differenza delle lingue volgari che, in quanto soggette<br />
alla instabilità e mutevolezza proprie del comune modo di esprimersi umano,<br />
cambiano col passare del tempo e con lo spostarsi da un luogo all’altro.<br />
<strong>La</strong> <strong>Divina</strong> <strong>Commedia</strong> è suddivisa in tre cantiche: Inferno, Purgatorio,<br />
Paradiso; le ultime due contengono ciascuna 33 canti (la cifra “3” ripetuta due<br />
volte); l’Inferno invece ne contiene 34. In totale quindi l’opera è composta di<br />
100 canti (10 moltiplicato per sé stesso). Un canto, il primo dell’Inferno, funge<br />
da prologo all’intero poema; escludendo tale canto introduttivo, l’opera è<br />
formata da 99 canti (la cifra “9” ripetuta due volte).<br />
Una particolarità che Dante ha voluto conferire alla sua opera è che tutte e tre<br />
le cantiche terminino con la parola “stelle”.<br />
<strong>La</strong> Bibbia attesta esplicitamente l’esistenza di Inferno e Paradiso, mentre<br />
quella del Purgatorio è solo sottintesa (lo vedremo nell’introduzione a tale<br />
cantica). Nel Vangelo secondo Matteo, al capitolo XXV, versetti 31-46, sta<br />
scritto: “Quando il Figlio dell'uomo [cioè Gesù] verrà nella sua gloria, e tutti gli<br />
angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati<br />
tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle<br />
capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. Allora il re dirà a quelli<br />
che saranno alla sua destra: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il<br />
regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi<br />
avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete<br />
accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete<br />
venuti a trovarmi». Allora i giusti gli risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo<br />
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visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere?<br />
Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo<br />
vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?»<br />
E il re risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di<br />
questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me». Poi dirà anche a quelli che saranno<br />
alla sinistra: «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo<br />
e per i suoi angeli [si riferisce agli angeli ribelli a Dio], perché ho avuto fame e non<br />
mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e<br />
non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete<br />
visitato». Anch'essi allora risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo visto<br />
affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo<br />
servito?» Allora egli risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che non avete<br />
fatto a uno solo di questi più piccoli, non l'avete fatto a me». E se ne andranno: questi<br />
al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna.”<br />
Tra il 1308 e il 1318 circa (si assume un intervallo di tempo così ampio perché<br />
non si conosce l’anno esatto) Dante compose il De Monarchia, un trattato<br />
filosofico in latino, nel quale il poeta sostiene che, per il bene di tutti, il<br />
mondo debba essere governato da un solo Monarca, e che l’autorità di<br />
quest’ultimo debba dipendere direttamente da Dio, e non debba quindi<br />
essere concessa dal Pontefice, il quale deve solo esercitare una guida<br />
spirituale dell’umanità senza ingerenze nel potere politico.<br />
Gli ultimi tre anni della propria vita Dante li passò a Ravenna, ospite di<br />
Guido Novello da Polenta, signore della città; qui, colpito da malaria, il<br />
Sommo Poeta morì il 14 settembre 1321.<br />
12
INTRODUZIONE ALL’INFERNO<br />
Secondo la maggioranza dei critici sembra non esservi alcun dubbio che la<br />
fonte principale dell’Inferno dantesco sia costituita dal VI canto dell’Eneide,<br />
poema epico scritto dal poeta latino Publio Virgilio Marone. Anzi<br />
personalmente ritengo che tale canto abbia offerto a Dante Alighieri lo spunto<br />
per la stesura non solamente dell’Inferno, ma gli abbia ispirato l’idea del filo<br />
conduttore che sta alla base dell’intera <strong>Divina</strong> <strong>Commedia</strong>, che è costituito dal<br />
viaggio di un essere umano vivo nel regno dei morti (nel VI canto dell’Eneide<br />
il viandante è Enea, nella <strong>Divina</strong> <strong>Commedia</strong> è Dante).<br />
Nel VI canto dell’Eneide Enea chiede alla Sibilla cumana di potere scendere<br />
con lei agli Inferi (l’Inferno dei pagani) e di essere condotto fino ai Campi<br />
Elisi (la parte degli Inferi in cui si trovavano le ombre dei buoni) per cercare<br />
l’ombra di suo padre Anchise. Tale richiesta gli è stata suggerita da<br />
quest’ultimo, che gli vuole rivelare il futuro della sua stirpe e quello della<br />
gloriosa civiltà che da essa derivò, quella romana. <strong>La</strong> Sibilla acconsente e<br />
accompagna Enea attraverso le oscurità del Regno dei morti, la cui entrata si<br />
trovava nel buio dei boschi a ridosso del lago d’Averno, presso Cuma (in<br />
Campania). Gli antichi credevano che proprio questo lago fosse l’ingresso<br />
degli Inferi per via delle sue esalazioni sulfuree e del colore scuro delle sue<br />
acque; anzi chiamarono gli stessi Inferi anche con il termine Averno.<br />
Gli Inferi erano preceduti dal “Vestibolo”, che era una zona nella quale si<br />
trovavano riunite le rappresentazioni orribili dei mali che affliggono<br />
l’umanità: il Lutto, i Rimorsi, le Malattie, la Vecchiaia, la Paura, la Fame, la<br />
Povertà, la Morte, la Sofferenza, la Guerra, la Discordia, ecc. Nel Vestibolo si<br />
trovavano anche le ombre di tanti mostri: i Centauri, Chimera, l’Idra di<br />
Lerna, le Gorgoni, le Arpie, Gerione, ecc.<br />
A fianco del Vestibolo (e sempre all’esterno degli Inferi) si trovavano le<br />
ombre degli insepolti (gente che morì senza avere una sepoltura). Agli<br />
insepolti non era concesso accedere negli Inferi prima che le loro ossa<br />
riposassero in una tomba. Se i loro corpi rimanevano senza sepoltura, le<br />
ombre degli insepolti erravano per cento anni nei pressi degli Inferi, dopo di<br />
che (seppure prive di sepoltura) finalmente venivano accolte sulla barca di<br />
Caronte (del quale parleremo tra poco).<br />
Un terribile fiume fangoso, l’Acheronte, separava gli Inferi dal mondo dei<br />
vivi. Per accedere agli Inferi le ombre dei morti dovevano attraversare tale<br />
fiume a bordo della barca condotta da un vecchio demonio di nome Caronte.<br />
L’Acheronte si gettava in un altro fiume, il Cocito.<br />
Attorno agli Inferi, compiendo nove cerchi a spirale, scorreva lo Stige (o<br />
palude Stigia) una palude di acqua torbida.<br />
Guardiano degli Inferi era Cerbero, il terribile cane a tre teste.<br />
13
Gli Inferi erano divisi in più parti:<br />
l’Antinferno, dove si trovavano le ombre di coloro che erano morti da<br />
bambini, quelle dei condannati ingiustamente e quelle dei suicidi;<br />
inoltre nell’Antinferno c’era il Campo degli eroi, ove vivevano le ombre<br />
di illustri guerrieri. Nell’Antinferno si trovava pure il giudice degli<br />
Inferi, Minosse (re dell’isola di Creta famoso per il suo grande senso<br />
della giustizia), il quale interrogava le ombre giunte agli Inferi, ne<br />
apprendeva le colpe e la vita, e sulla base di queste assegnava loro la<br />
dimora;<br />
la Reggia nella quale dimorava Dite (altro nome di Plutone), il Re degli<br />
Inferi;<br />
il Tartaro (o Regno dei cattivi), luogo di eterna pena, costituito da<br />
un’immensa città circondata da tre cerchi di mura, attorno alle quali<br />
scorreva vorticosamente un fiume di fuoco, il Flegetonte, e di cui era<br />
giudice Radamanto (fratello di Minosse, e anche lui noto sulla terra per<br />
la sua giustizia). Nel Tartaro, ad esempio, stavano le ombre dei fratelli<br />
che si odiarono, quelle di coloro che picchiarono i loro padri, i<br />
fraudolenti, gli uccisi per adulterio, ecc. Custode del Tartaro era una<br />
delle Furie (nome romano delle Erinni), Tisifone, la quale insieme con le<br />
due sue sorelle frustava e insultava le ombre là relegate. Nel Tartaro si<br />
trovavano pure i Titani e i Giganti, che vi erano stati scaraventati da<br />
Zeus;<br />
i Campi Elisi (o Regno dei buoni), l’ameno luogo dal clima dolce in cui<br />
dimoravano felicemente, senza essere oppresse (diversamente da<br />
quanto avviene durante la vita) dai desideri e dalle paure, le ombre di<br />
coloro che in vita erano stati amati dagli dèi (gli eroi magnanimi, i<br />
sacerdoti, i poeti, gli artisti, gli inventori, ecc.), e dove scorreva il fiume<br />
Lete. A proposito di questo fiume, Anchise, oltre alle profezie già<br />
accennate, spiega ad Enea che le anime, finché sono unite al corpo, si<br />
contaminano dei vizi terreni. Per questo, prima di reincarnarsi, devono<br />
purificarsi per mille anni nel vento o nel fuoco o nell’acqua; dopo di<br />
che, tornate pure, devono bere l’acqua del fiume Lete, che ha il potere<br />
di far dimenticare tutte le colpe commesse. Questa concezione si rifà<br />
alla teoria della metempsicosi, elaborata da Pitagora, filosofo nato<br />
intorno al 570 a.C. nell’isola di Samo (in Grecia), e trasferitosi poi in<br />
Italia, prima a Crotone e poi a Metaponto, dove morì.<br />
Come si può notare, quindi, secondo la concezione pagana il Paradiso non<br />
era diviso dall’Inferno, ma ne costituiva una parte, i Campi Elisi. Lungo il suo<br />
viaggio negli Inferi Enea, prima di incontrare suo padre nei Campi Elisi,<br />
14
incontra l’anima di qualche suo conoscente, tra cui, nell’Antinferno, quella di<br />
Didone, la regina di Cartagine che si era suicidata perché da lui abbandonata.<br />
Gli Inferi virgiliani<br />
15
Molti dei nomi usati nell’Eneide da Virgilio per descrivere gli Inferi sono stati<br />
usati da Dante per descrivere l’Inferno della <strong>Divina</strong> <strong>Commedia</strong>; tuttavia gli<br />
schemi rappresentati da ciascuno dei due poeti differiscono in modo<br />
considerevole l’uno dall’altro, soprattutto perché, come già accennato, gli<br />
Inferi virgiliani, a differenza dell’Inferno dantesco, includono il Regno dei<br />
buoni.<br />
Non possediamo indicazioni sicure né dati certi sulla data di composizione<br />
dell’Inferno dantesco. Oggi si accetta comunemente il periodo compreso tra il<br />
1304 e il 1308.<br />
L’Inferno è concepito come luogo di eterna sofferenza, voluto da Dio per<br />
realizzare la sua giustizia. Vi sono punite le anime che si ostinarono a<br />
peccare, senza mai pentirsi, nemmeno in punto di morte.<br />
Secondo la concezione dantesca, l’Inferno aveva avuto origine nel momento<br />
in cui Dio aveva scagliato giù dai cieli Lucifero, il più bello degli angeli, che<br />
gli si era ribellato. Le terre si erano ritratte per paura di venire in contatto con<br />
il corpo di Lucifero, e in tal modo si era formata una profonda voragine a<br />
forma di imbuto, l’Inferno appunto, avente il vertice al centro della Terra. Le<br />
terre ritratte erano “sgusciate” fuori dall’altra parte del globo, formando la<br />
montagna del Purgatorio. Nel libro della Bibbia intitolato “Apocalisse di<br />
Giovanni”, al cap. XII, vv. 7-9, è scritto: “Scoppiò quindi una guerra nel cielo:<br />
Michele [che è il capo degli angeli e dell’esercito di Dio] e i suoi angeli<br />
combattevano contro il drago [Lucifero]. Il drago combatteva insieme con i suoi<br />
angeli, ma non prevalsero e non ci fu più posto per essi in cielo. Il grande drago, il<br />
serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e satana e che seduce tutta la terra, fu<br />
precipitato sulla terra e con lui furono precipitati anche i suoi angeli.”<br />
<strong>La</strong> concezione dell’Inferno dantesco si innesta sulla teoria tolemaica o<br />
geocentrica, secondo la quale la terra si trovava, immobile, al centro<br />
dell’Universo, mentre intorno ad essa ruotavano il sole e gli altri corpi celesti.<br />
Dante riteneva che fosse abitato solo l’emisfero settentrionale, le cui terre<br />
avevano come confine il fiume Gange verso Oriente e le colonne d’Ercole<br />
verso Occidente. Al centro si trovava Gerusalemme, che aveva assistito al<br />
sacrificio sulla croce di Cristo.<br />
Ai lati dell’imbuto sono i “cerchi”, enormi ripiani in cui sono condannate le<br />
anime dei dannati a seconda della loro colpa. Quanto più questa è grave tanto<br />
più il peccatore è condannato ai cerchi collocati più in basso. Nel punto più<br />
basso, al vertice dell’imbuto, si trova, conficcato a testa in giù, il massimo<br />
colpevole, colui che ha tradito Dio stesso, cioè Lucifero.<br />
I cerchi sono in numero di nove, cui si aggiunge l’Antinferno, diviso nella<br />
“selva oscura” e nel “vestibolo”, di cui parleremo più avanti.<br />
16
Per la suddivisione delle pene Dante si rifece al settimo dei dieci libri che<br />
compongono l’Etica Nicomachea, nel quale Aristotele sostiene che tre sono le<br />
specie di comportamento da evitare: incontinenza, bestialità, malizia:<br />
l’incontinenza è la mollezza con cui si eccede facilmente nel<br />
soddisfacimento dei piaceri della carne o della gola o si cede facilmente<br />
agli altri vizi o all’ira;<br />
la bestialità è caratterizzata dall’indole animalesca con cui si tende alla<br />
violenza;<br />
la malizia si sostanzia nella volontà pienamente consapevole di<br />
compiere il male, e perciò rappresenta il grado maggiore di<br />
colpevolezza.<br />
I cerchi dal primo al quinto sono compresi nell’ ”Alto Inferno”.<br />
Il primo cerchio si chiama “Limbo”; qui si trovano i giusti che non ebbero<br />
modo di conoscere la rivelazione e i bambini che non ebbero battesimo.<br />
Dal secondo al quinto cerchio vengono puniti coloro che peccarono per<br />
incontinenza (lussuriosi, golosi, avari e prodighi, iracondi).<br />
I cerchi dal sesto al nono fanno parte del “Basso Inferno” e sono racchiusi<br />
entro le mura della “città di Dite”:<br />
nel sesto e settimo cerchio sono puniti coloro che peccarono per bestialità<br />
(eretici e violenti);<br />
nell’ottavo e nono cerchio sono puniti coloro che peccarono per malizia<br />
(fraudolenti e traditori).<br />
Un fiume attraversa longitudinalmente l’Inferno: all’inizio si chiama<br />
Acheronte, poi si trasforma nella palude Stigia, nel Flegetonte e infine nel<br />
ghiacciaio del lago Cocito; parleremo di questi in seguito.<br />
Dante immagina le pene secondo una mentalità cristiana che si avvale della<br />
regola del “contrappasso”: […] con quelle stesse cose per cui uno pecca, con esse è<br />
poi castigato (A.T., Sapienza, 11, 16). Due sono i tipi di contrappasso<br />
riscontrabili:<br />
il contrappasso per analogia, che implica una pena che esaspera i<br />
tormenti della colpa (esempio, i lussuriosi, che vissero nella tempesta<br />
della passione, sono tormentati da una “bufera infernale”);<br />
il contrappasso per contrasto, che implica una pena che ripropone<br />
esattamente il contrario della colpa (esempio, gli ignavi, che vissero<br />
senza alcun ideale, sono costretti a rincorrere freneticamente una<br />
bandiera).<br />
17
Inferno<br />
19
1-3<br />
Nel mezzo del cammin di nostra vita<br />
mi ritrovai per una selva oscura,<br />
ché la diritta via era smarrita.<br />
CANTO I<br />
Rivolgendosi al lettore, Dante inizia il racconto della <strong>Divina</strong> <strong>Commedia</strong>:<br />
A metà della vita media di un uomo, mi ritrovai in una selva oscura (è il simbolo<br />
dello stato di ignoranza e di corruzione dell’umanità), poiché avevo perso la corretta<br />
conduzione morale della mia esistenza.<br />
Nella Bibbia (Salmi, LXXXIX,10) c’è scritto che gli anni della vita di un uomo sono<br />
settanta; è da supporre quindi che per “mezzo del cammin di nostra vita” il poeta<br />
intenda un’età di 35 anni circa. Peraltro nel Convivio (IV, 23) Dante scrive che la<br />
parte centrale dell’ “arco” della vita cade intorno al 35° anno di età: la prima metà<br />
dell’arco, cioè quella ascendente, in cui il soggetto gradualmente si forma, va da 0 a<br />
35 anni circa, dopo di che la vita perde sempre più vigore percorrendo la metà<br />
dell’arco in discesa, dai 35 ai 70 circa. Pertanto l’età centrale della vita media di un<br />
uomo, che cade intorno al 35° anno di età, nel punto superiore dell’arco, è quella in<br />
cui l’uomo si trova al massimo delle sue potenzialità psico-fisiche. Convinto di<br />
questa tesi, Dante nel Convivio afferma che Gesù scelse per questo di morire<br />
intorno al 34° anno di vita; per analogia, il poeta lascia intendere che lui sta per<br />
compiere la sua missione umanitaria nell’oltremondo nel suo momento di<br />
maggiore potenzialità e all’età che aveva Cristo quando morì; questo concetto sarà<br />
spiegato con più precisione da Dante stesso nel canto XV (v. commento ai vv. 22-64<br />
di tale canto).<br />
4-6<br />
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura<br />
esta selva selvaggia e aspra e forte<br />
che nel pensier rinova la paura!<br />
È arduo descrivere questa selva intricata, raccapricciante e difficile da attraversare,<br />
che al solo pensarci risveglia il terrore provato!<br />
7-9<br />
Tant‟è amara che poco è più morte;<br />
ma per trattar del ben ch‟i‟ vi trovai,<br />
dirò de l‟altre cose ch‟i‟ v‟ho scorte.<br />
21
È così orribile questa selva che la morte la supera di poco; tuttavia voglio descriverla,<br />
in quanto in essa trovai anche cose positive.<br />
10-12<br />
Io non so ben ridir com‟i‟ v‟intrai,<br />
tant‟era pien di sonno a quel punto<br />
che la verace via abbandonai.<br />
Non riesco a dire il modo in cui capitai in questa selva oscura, a causa dello stato di<br />
torpore spirituale (causato dal peccato) nel quale mi trovavo dopo che la morte di<br />
Beatrice mi aveva privato della guida necessaria a percorrere la via della virtù.<br />
13-18<br />
Ma poi ch‟i‟ fui al piè d‟un colle giunto,<br />
là dove terminava quella valle<br />
che m‟avea di paura il cor compunto,<br />
guardai in alto, e vidi le sue spalle<br />
vestite già de‟ raggi del pianeta<br />
che mena dritto altrui per ogne calle.<br />
Ma allorché giunsi ai piedi di un colle, dove terminava la valle con la selva oscura che<br />
mi aveva amareggiato l‟animo, rivolsi lo sguardo verso la cima del colle, e vidi che alle<br />
sue spalle cominciavano a intravedersi i raggi del sole (raffigurazione simbolica di<br />
Dio) che guida tutti per la giusta via.<br />
19-21<br />
Allor fu la paura un poco queta,<br />
che nel lago del cor m‟era durata<br />
la notte ch‟i‟ passai con tanta pieta.<br />
A questo punto si mitigò la paura, che mi aveva attanagliato la cavità del cuore<br />
durante la notte che trascorsi con tanta sofferenza.<br />
All’epoca di Dante si credeva che all’interno del cuore vi sia una cavità piena di<br />
sangue, la quale era considerata la parte del corpo in cui hanno origine tutte le<br />
sensazioni. Per la paura il sangue rifugge nel profondo del cuore.<br />
22
22-27<br />
E come quei che con lena affannata,<br />
uscito fuor del pelago a la riva,<br />
si volge a l‟acqua perigliosa e guata,<br />
così l‟animo mio, ch‟ancor fuggiva,<br />
si volse a retro a rimirar lo passo<br />
che non lasciò già mai persona viva.<br />
E come colui che con respiro affannoso, riuscito a salvarsi dall‟annegamento, uscendo<br />
dal mare e arrivando alla riva, volge lo sguardo verso l‟acqua minacciosa, così il mio<br />
animo, che ancora rifuggiva dal pensiero del pericolo passato, si girò a guardare<br />
indietro il passaggio tremendo (la selva, simbolo dell’abisso morale in cui era caduto<br />
e da cui disperava ormai di uscire) da cui mai nessuna persona si è salvata.<br />
28-30<br />
Poi ch‟èi posato un poco il corpo lasso,<br />
ripresi via per la piaggia diserta,<br />
sì che ‟l piè fermo sempre era ‟l più basso.<br />
Dopo che ebbi riposato un po‟ le mie membra stanche, ripresi il cammino per la valle<br />
deserta, in modo tale che il piede fermo era sempre quello più basso.<br />
Se il piede fermo è quello più basso, vuol dire che Dante sta effettuando una salita;<br />
infatti, quando si cammina in salita, ad ogni passo che si effettua ci si appoggia sul<br />
piede che sta più in basso, mentre l’altro piede si porta avanti verso l’alto.<br />
31-33<br />
Ed ecco, quasi al cominciar de l‟erta,<br />
una lonza leggiera e presta molto,<br />
che di pel macolato era coverta;<br />
Ed ecco, quasi all‟inizio della salita, una lonza agile e veloce, che aveva una pelle a<br />
macchie. “Lonza” è il nome che gli antichi diedero a un animale non ben<br />
determinato, probabilmente alla lince o al leopardo; essa simboleggia la lussuria.<br />
34-36<br />
e non mi si partia dinanzi al volto,<br />
anzi ‟mpediva tanto il mio cammino,<br />
23
ch‟i‟ fui per ritornar più volte vòlto.<br />
E questa fiera non mi si toglieva dinanzi, anzi ostacolava tanto il mio cammino che<br />
fui tentato a più riprese di tornare indietro.<br />
<strong>La</strong> lonza che impedisce a Dante di salire sul colle rappresenta allegoricamente la<br />
lussuria che ostacola la via verso il pentimento e la conversione.<br />
37-43<br />
Temp‟era dal principio del mattino,<br />
e ‟l sol montava ‟n sù con quelle stelle<br />
ch‟eran con lui quando l‟amor divino<br />
mosse di prima quelle cose belle;<br />
sì ch‟a bene sperar m‟era cagione<br />
di quella fiera a la gaetta pelle<br />
l‟ora del tempo e la dolce stagione;<br />
Era l‟inizio del mattino (le 6 circa), e il sole sorgeva assieme agli astri con i quali fu<br />
creato da Dio. All’epoca di Dante si pensava che quando Dio creò il mondo il sole si<br />
trovasse nella costellazione dell’Ariete; quindi è primavera.<br />
L‟ora mattutina e la stagione primaverile mi infondevano speranza di superare<br />
l‟ostacolo rappresentato da quella fiera dal manto screziato.<br />
44-45<br />
ma non sì che paura non mi desse<br />
la vista che m‟apparve d‟un leone.<br />
Ma la mia speranza si tramutò in paura di fronte alla vista di un leone.<br />
Nella letteratura religiosa e morale del Medioevo il leone era simbolo della<br />
superbia.<br />
46-48<br />
Questi parea che contra me venesse<br />
con la test‟alta e con rabbiosa fame,<br />
sì che parea che l‟aere ne tremesse.<br />
Questo leone sembrava che si avvicinasse minacciosamente a me con la testa alta<br />
(segno di superbia) e con rabbiosa fame, tale che persino l‟aria sembrava tremasse per<br />
la paura.<br />
24
49-51<br />
Ed una lupa, che di tutte brame<br />
sembiava carca ne la sua magrezza,<br />
e molte genti fé già viver grame,<br />
Quindi mi apparve una lupa, che per quanto era magra sembrava desiderosa di tutti i<br />
piaceri mondani, e che già rese infelice molta gente.<br />
Il significato simbolico della lupa è la “cupidigia” o l’”avarizia”, in cui va inteso<br />
non solo il desiderio di denaro, ma anche quello degli onori e degli altri beni<br />
terreni.<br />
52-54<br />
questa mi porse tanto di gravezza<br />
con la paura ch‟uscia di sua vista,<br />
ch‟io perdei la speranza de l‟altezza.<br />
Questa belva (la lupa) mi arrecò così tanto turbamento per il terrore che sprigionava<br />
alla sua vista che io mi sentii perdere la speranza di raggiungere la sommità del colle.<br />
L’ostinazione delle tre fiere e, in particolare, della lupa, che è la più difficile da<br />
vincere, rappresentano la tenacia della suggestione del peccato, alla quale non si<br />
può opporre l’uomo privo di aiuto e di guida.<br />
55-60<br />
E qual è quei che volentieri acquista,<br />
e giugne ‟l tempo che perder lo face,<br />
che ‟n tutt‟i suoi pensier piange e s‟attrista;<br />
tal mi fece la bestia sanza pace,<br />
che, venendomi ‟ncontro, a poco a poco<br />
mi ripigneva là dove ‟l sol tace.<br />
Come l‟avaro si addolora profondamente quando giunge il momento che gli fa perdere<br />
tutto ciò che egli con tanta fatica ha accumulato, così quella bestia feroce, avanzando<br />
contro di me, mi tormentava, perché un po‟ per volta mi costringeva a tornare verso<br />
la selva oscura, facendomi perdere il terreno guadagnato.<br />
61-63<br />
25
Mentre ch‟i‟ rovinava in basso loco,<br />
dinanzi a li occhi mi si fu offerto<br />
chi per lungo silenzio parea fioco.<br />
Mentre ero costretto a retrocedere verso la valle, mi apparve una figura umana che mi<br />
dava l‟impressione di essere diventata evanescente per essere stata molto tempo in<br />
silenzio.<br />
Si tratta del poeta Publio Virgilio Marone, che qui personifica la ragione umana.<br />
Apparendo sotto questo aspetto, Virgilio simboleggia il fatto che per Dante la voce<br />
della ragione, in seguito al suo traviamento, si è indebolita.<br />
64-66<br />
Quando vidi costui nel gran diserto,<br />
«Miserere di me», gridai a lui,<br />
«qual che tu sii, od ombra od omo certo!»<br />
Appena vidi costui nella valle deserta, gli gridai: «Abbi pietà di me, chiunque tu sia,<br />
spirito o uomo in carne e ossa!»<br />
Contro i tre peccati che ostacolano il pentimento e la conversione, raffigurati<br />
allegoricamente nelle tre fiere, Dio manda al peccatore ormai desideroso di<br />
redenzione, ma incapace di conseguirla con le sue sole forze, un aiuto.<br />
67-69<br />
Rispuosemi: «Non omo, omo già fui,<br />
e li parenti miei furon lombardi,<br />
mantoani per patrïa ambedui.<br />
Lui mi rispose: «Non sono un uomo in carne e ossa, ma un‟anima, perché il mio corpo<br />
è morto. I miei genitori erano entrambi mantovani.<br />
In effetti Virgilio nacque ad Andes (l’odierna Pietole), vicino Mantova.<br />
70-72<br />
Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,<br />
e vissi a Roma sotto ‟l buono Augusto<br />
nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.<br />
Nacqui al tempo di Giulio Cesare, ma era ormai tardi per conoscerlo (nel 70 a.C.,<br />
quando nacque Virgilio, Cesare aveva ormai 30 anni); quindi vissi a Roma al tempo<br />
26
di Augusto, quando ancora non era arrivato Cristo e la gente credeva nell‟esistenza di<br />
tanti dèi.<br />
Al tempo di Dante si credeva in un unico Dio, e quindi il poeta definisce gli dèi del<br />
paganesimo “falsi e bugiardi”.<br />
73-75<br />
Poeta fui, e cantai di quel giusto<br />
figliuol d‟Anchise che venne di Troia,<br />
poi che ‟l superbo Ilïón fu combusto.<br />
In vita fui poeta, e posi in versi (nell’Eneide) le gesta di quel probo figlio di Anchise<br />
(Enea) che venne da Troia, dopo che la stessa città fu incendiata.<br />
76-78<br />
Ma tu perché ritorni a tanta noia?<br />
perché non sali il dilettoso monte<br />
ch‟è principio e cagion di tutta gioia?»<br />
Ma tu perché retrocedi verso questa selva oscura, che è tanto angosciosa? Perché non<br />
sali l‟allettante colle, che è origine e motivo dell‟unica verace gioia, cioè della<br />
beatitudine?»<br />
79-81<br />
«Or se‟ tu quel Virgilio e quella fonte<br />
che spandi di parlar sì largo fiume?»<br />
rispuos‟io lui con vergognosa fronte.<br />
«Allora sei Virgilio, quella fonte che con le sue parole alimenta un così largo fiume di<br />
sapere?» risposi io a lui con la fronte bassa (in segno di riverenza).<br />
82-84<br />
«O de li altri poeti onore e lume,<br />
vagliami ‟l lungo studio e ‟l grande amore<br />
che m‟ha fatto cercar lo tuo volume.<br />
«Oh tu che sei l‟onore e il punto di riferimento per gli altri poeti, mi sia di<br />
giovamento il lungo studio e la grande passione che mi hanno fatto leggere e rileggere<br />
le tue opere.<br />
27
85-87<br />
Tu se‟ lo mio maestro e ‟l mio autore;<br />
tu se‟ solo colui da cu‟ io tolsi<br />
lo bello stilo che m‟ha fatto onore.<br />
Tu sei il mio maestro e il mio autore preferito; tu sei colui da cui io ricavai lo stile<br />
poetico di cui mi onoro.<br />
88-90<br />
Vedi la bestia per cu‟ io mi volsi:<br />
aiutami da lei, famoso saggio,<br />
ch‟ella mi fa tremar le vene e i polsi.»<br />
Vedi la bestia per la quale fui costretto a tornare indietro; aiutami a liberarmi di lei,<br />
grande poeta e maestro di vita, poiché lei mi fa tremolare i polsi.» (a causa del battito<br />
accelerato del cuore).<br />
91-96<br />
«A te convien tenere altro vïaggio»,<br />
rispuose, poi che lagrimar mi vide,<br />
«se vuo‟ campar d‟esto loco selvaggio:<br />
ché questa bestia, per la qual tu gride,<br />
non lascia altrui passar per la sua via,<br />
ma tanto lo ‟mpedisce che l‟uccide;<br />
«Ti conviene cambiare percorso» rispose dopo che mi vide piangere, «se vuoi<br />
sopravvivere in questo luogo selvaggio: perché questa bestia (la lupa), per la quale<br />
invochi soccorso, non permette a nessuno di farsi superare, bensì glielo impedisce fino<br />
al punto di ucciderlo.<br />
97-99<br />
e ha natura sì malvagia e ria,<br />
che mai non empie la bramosa voglia,<br />
e dopo ‟l pasto ha più fame che pria.<br />
28
E ha una natura così malvagia e cattiva che non sazia mai la sua bramosa fame (di<br />
piaceri mondani), e dopo il pasto ha più fame di prima.<br />
100-102<br />
Molti son li animali a cui s‟ammoglia,<br />
e più saranno ancora, infin che ‟l veltro<br />
verrà, che la farà morir con doglia.<br />
Molti sono i vizi che si associano alla lupa, e saranno sempre di più, finché non verrà<br />
il veltro, che la farà morire con dolore. Nel significato letterale il veltro è un forte e<br />
veloce cane da caccia, adatto quindi a snidare la lupa da ogni luogo. Nel significato<br />
allegorico invece rappresenta la forza capace di sconfiggere avarizia e cupidigia,<br />
che sono la causa del disordine civile e religioso. Dante non specifica chi prenderà i<br />
panni del veltro; tra le ipotesi di identificazione sono stati proposti vari nomi di<br />
personaggi influenti, ed in particolare quello di Arrigo VII (o Enrico VII), re di<br />
Lussemburgo, ma potrebbe anche essere il Signore stesso, quando scenderà sulla<br />
terra per giudicare i vivi e i morti.<br />
103-105<br />
Questi non ciberà terra né peltro,<br />
ma sapïenza, amore e virtute,<br />
e sua nazion sarà tra feltro e feltro.<br />
Il veltro non sarà avido né di dominio né di ricchezze (il peltro è una lega formata di<br />
piombo e stagno usata in passato per coniare monete), ma si nutrirà di sapienza,<br />
amore e virtù, e la sua nascita avverrà da umile stirpe (il feltro è un rozzo panno di<br />
lana non tessuta; quindi il veltro vestirà di panni modesti).<br />
106-108<br />
Di quella umile Italia fia salute<br />
per cui morì la vergine Cammilla,<br />
Eurialo e Turno e Niso di ferute.<br />
Il veltro sarà la salvezza degli strati umili dell‟Italia, per il cui costituirsi come<br />
nazione molti arrivarono a sacrificare la propria vita.<br />
Turno era il re dei Rutuli (un popolo stanziato nel territorio compreso tra le attuali<br />
Ardea e Ariccia, nel <strong>La</strong>zio), il principale nemico del troiano Enea e suo rivale in<br />
amore per la mano di <strong>La</strong>vinia, la figlia di <strong>La</strong>tino, re di <strong>La</strong>urento (città sulla costa a<br />
sud di Roma); fu ucciso da Enea in duello. Camilla era una valorosa vergine<br />
29
guerriera, figlia di Metabo, re di Priverno; a capo di una potente cavalleria si alleò<br />
con Turno, ma fu uccisa in combattimento. Eurialo e Niso erano due amici troiani<br />
morti in combattimento.<br />
109-111<br />
Questi la caccerà per ogne villa,<br />
fin che l‟avrà rimessa ne lo ‟nferno,<br />
là onde ‟nvidia prima dipartilla.<br />
Il veltro inseguirà la lupa ovunque, finché non la farà riprecipitare nell‟Inferno, da<br />
dove la trasse fuori (dipartilla) Lucifero per mandarla a corrompere l‟umanità.<br />
Lucifero è qui da Dante chiamato la “’nvidia prima”, perché fu la prima creatura<br />
che, per l’invidia che provava per Dio, gli si ribellò.<br />
112-117<br />
Ond‟io per lo tuo me‟ penso e discerno<br />
che tu mi segui, e io sarò tua guida,<br />
e trarrotti di qui per luogo etterno;<br />
ove udirai le disperate strida,<br />
vedrai li antichi spiriti dolenti,<br />
ch‟a la seconda morte ciascun grida;<br />
Quindi per il tuo bene ritengo che tu mi debba seguire; io sarò la tua guida e ti<br />
porterò via da qui per condurti attraverso l‟Inferno, dove udirai le grida disperate dei<br />
dannati, i quali invocano la seconda morte.<br />
<strong>La</strong> prima morte è quella del corpo, mentre la seconda morte è quella dell’anima;<br />
quest’ultima è implorata dai dannati, poiché se muore anche l’anima terminano i<br />
loro supplizi.<br />
118-120<br />
e vederai color che son contenti<br />
nel foco, perché speran di venire,<br />
quando che sia, a le beate genti.<br />
e vedrai le anime del Purgatorio, che accettano volentieri le loro pene perché hanno la<br />
speranza, al termine della purificazione, di essere accolti tra i beati.<br />
121-129<br />
30
A le quai poi se tu vorrai salire,<br />
anima fia a ciò più di me degna:<br />
con lei ti lascerò nel mio partire;<br />
ché quello imperador che là sù regna,<br />
perch‟i‟ fu‟ ribellante a la sua legge,<br />
non vuol che ‟n sua città per me si vegna.<br />
In tutte parti impera e quivi regge;<br />
quivi è la sua città e l‟alto seggio:<br />
oh felice colui cu‟ ivi elegge!»<br />
Se tu poi vorrai salire tra essi (cioè tra i beati), ci sarà un‟anima (quella di Beatrice)<br />
più degna di me a guidarti; non potrò farlo io perché Dio non mi accetta in Paradiso<br />
perché, in quanto pagàno, non fui tra coloro che credettero nella venuta di Cristo.<br />
Dio impera in tutto l‟Universo e governa direttamente il Paradiso; qui si trovano la<br />
sua sede e il suo trono: fortunato è colui che Egli sceglie per ammetterlo alla<br />
beatitudine celeste!»<br />
130-136<br />
E io a lui: «Poeta, io ti richeggio<br />
per quello Dio che tu non conoscesti,<br />
acciò ch‟io fugga questo male e peggio,<br />
che tu mi meni là dov‟or dicesti,<br />
sì ch‟io veggia la porta di san Pietro<br />
e color cui tu fai cotanto mesti.»<br />
Allor si mosse, e io li tenni dietro.<br />
E io a lui: «Poeta, io ti chiedo in nome di Dio, che tu non conoscesti perché pagàno, al<br />
fine di rifuggire dalla schiavitù del peccato e dalla conseguente dannazione, che tu mi<br />
conduca attraverso l‟Inferno e il Purgatorio, cosicché io possa vedere la porta di san<br />
Pietro e i dannati, che tu rappresenti così dolenti.»<br />
Poiché la porta del Paradiso esiste solo nella fantasia popolare, si potrebbe<br />
presupporre che qui per “porta di san Pietro” Dante intenda quella del Purgatorio.<br />
Tuttavia, secondo un discorso logico, potrebbe intendersi quella, immaginaria, del<br />
Paradiso, perché rappresenta il limite fino a cui sarà concesso a Virgilio di guidare<br />
Dante nell’aldilà.<br />
Quindi lui si incamminò, e io lo seguii.<br />
31
1-6<br />
Lo giorno se n‟andava, e l‟aere bruno<br />
toglieva li animai che sono in terra<br />
da le fatiche loro; e io sol uno<br />
CANTO II<br />
32<br />
m‟apparecchiava a sostener la guerra<br />
sì del cammino e sì de la pietate,<br />
che ritrarrà la mente che non erra.<br />
Giunto il tramonto, Dante si prepara a sostenere il travaglio sia dell’aspro cammino<br />
che lo aspetta sia della pena angosciosa della visione delle anime tormentate.<br />
7-9<br />
O muse, o alto ingegno, or m‟aiutate;<br />
o mente che scrivesti ciò ch‟io vidi,<br />
qui si parrà la tua nobilitate.<br />
Dopo quella sorta di prologo che è il primo canto, Dante introduce la protasi, cioè la<br />
parte introduttiva del poema. Quindi invoca l’ispirazione divina e la virtù del suo<br />
intelletto: o Muse, o mio alto ingegno, datemi l‟ispirazione; o mente che ponesti in<br />
versi ciò che io vidi nell‟oltretomba, ora si mostrerà il tuo valore.<br />
Le Muse erano le nove figlie di Zeus e Mnemosine (la dea della memoria). Apollo le<br />
condusse con sé sul monte Elicona, che divenne la loro sede. L’Elicona si trova nella<br />
regione montuosa dell’Aonia, corrispondente alla regione greca della Beozia. Si<br />
accompagnavano a lui, che era il loro protettore, e ciascuna presiedeva a un ramo<br />
delle arti o delle scienze:<br />
Calliope alla poesia epica. È invocata, tra gli altri, da Virgilio nel primo canto<br />
dell’Eneide;<br />
Clio alla storia;<br />
Tersicore alla danza;<br />
Polimnia al mimo;<br />
Melpomene alla tragedia;<br />
Erato alla poesia amorosa;<br />
Euterpe alla poesia lirica;<br />
Talia alla commedia;<br />
Urania all’astronomia.<br />
10-12<br />
Io cominciai: «Poeta che mi guidi,<br />
guarda la mia virtù s‟ell‟è possente,<br />
prima ch‟a l‟alto passo tu mi fidi.
Dante dice a Virgilio: «Poeta che mi guidi, giudica se le mie qualità e forze morali<br />
siano sufficienti, prima che mi affidi all‟arduo viaggio.<br />
13-30<br />
Tu dici che di Silvïo il parente,<br />
corruttibile ancora, ad immortale<br />
secolo andò, e fu sensibilmente.<br />
Però, se l'avversario d‟ogne male<br />
cortese i fu, pensando l‟alto effetto<br />
ch‟uscir dovea di lui, e „l chi e „l quale<br />
non pare indegno ad omo d‟intelletto;<br />
ch‟e‟ fu de l‟alma Roma e di suo impero<br />
ne l‟empireo ciel per padre eletto:<br />
33<br />
la quale e „l quale, a voler dir lo vero,<br />
fu stabilita per lo loco santo<br />
u‟ siede il successor del maggior Piero.<br />
Per quest‟ andata onde li dai tu vanto,<br />
intese cose che furon cagione<br />
di sua vittoria e del papale ammanto.<br />
Andovvi poi lo Vas d‟elezïone,<br />
per recarne conforto a quella fede<br />
ch'è principio a la via di salvazione.<br />
Nel libro VI dell’Eneide Virgilio narra la discesa di Enea agli Inferi quando questi<br />
era ancora in vita, quindi in carne e ossa. Lo scopo del viaggio di Enea all’aldilà fu<br />
l’incontro col padre Anchise, da cui ricevette le profezie della vittoria dei Troiani<br />
contro Turno e contro i Rutuli; queste profezie gli furono fondamentali per la<br />
creazione dell’impero romano, che avrebbe poi preparato la via alla Roma cristiana.<br />
Anche san Paolo di Tarso andò all’aldilà: nel libro della Bibbia intitolato “Seconda<br />
lettera ai Corinzi” (XII, 2-4) il Santo racconta quell’eccezionale esperienza; ma per<br />
farlo usa la terza persona anziché la prima, e dice: «Conosco un uomo in Cristo che,<br />
quattordici anni fa – se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito<br />
fino al terzo cielo [il terzo cielo era quello di Dio, dopo l‟atmosfera terrestre e il cielo degli<br />
astri]. E so che quest’uomo – se con il corpo o senza corpo non lo so, lo sa Dio – fu<br />
rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunziare.»<br />
31-33<br />
Ma io, perché venirvi? o chi „l concede?<br />
Io non Enea, io non Paulo sono;<br />
me degno a ciò né io né altri „l crede.<br />
Dante domanda a Virgilio lo scopo del viaggio e chi gli possa concedere la grazia<br />
per farlo, perché ritiene la sua missione, qualunque essa sia, non all’altezza di<br />
quelle che hanno animato Enea e san Paolo.<br />
34-42<br />
Per che, se del venire io m'abbandono,<br />
temo che la venuta non sia folle.<br />
Se' savio; intendi me' ch'i' non ragiono».<br />
E qual è quei che disvuol ciò che volle<br />
e per novi pensier cangia proposta,<br />
sì che dal cominciar tutto si tolle,<br />
tal mi fec' ïo 'n quella oscura costa,<br />
perché, pensando, consumai la 'mpresa<br />
che fu nel cominciar cotanto tosta.
Dante teme che la decisione di effettuare il suo viaggio nell’oltretomba possa<br />
rivelarsi stolta e temeraria, e chiede a Virgilio, che considera una persona sapiente,<br />
di essere giudicato da lui. Il significato allegorico è il seguente: Dante è peccatore;<br />
perduto nel buio attende dalla ragione (impersonata da Virgilio) di vincere gli<br />
errori e le incertezze.<br />
43-48<br />
«S‟i‟ ho ben la parola tua intesa,»<br />
rispuose del magnanimo quell‟ombra,<br />
«l‟anima tua è da viltade offesa;<br />
la qual molte fiate l‟omo ingombra<br />
sì che d‟onrata impresa lo rivolve,<br />
come falso veder bestia quand‟ombra.<br />
«Se ho ben capito ciò che hai detto», risponde l‟anima del magnanimo (Virgilio), «la<br />
tua anima è paurosa. Questa debolezza dell‟anima e disistima eccessiva di sé spesse<br />
volte ostacola il buon proponimento dell‟uomo, fino a farlo desistere da un‟impresa<br />
onorata, così come l‟allucinazione fa deviare la bestia quando fa buio.<br />
49-69<br />
Da questa tema acciò che tu ti solve,<br />
dirotti perch' io venni e quel ch'io 'ntesi<br />
nel primo punto che di te mi dolve.<br />
Io era tra color che son sospesi,<br />
e donna mi chiamò beata e bella,<br />
tal che di comandare io la richiesi.<br />
Lucevan li occhi suoi più che la stella;<br />
e cominciommi a dir soave e piana,<br />
con angelica voce, in sua favella:<br />
"O anima cortese mantoana,<br />
di cui la fama ancor nel mondo dura,<br />
e durerà quanto 'l mondo lontana,<br />
34<br />
l'amico mio, e non de la ventura,<br />
ne la diserta piaggia è impedito<br />
sì nel cammin, che vòlt' è per paura;<br />
e temo che non sia già sì smarrito,<br />
ch'io mi sia tardi al soccorso levata,<br />
per quel ch'i' ho di lui nel cielo udito.<br />
Or movi, e con la tua parola ornata<br />
e con ciò c'ha mestieri al suo campare,<br />
l'aiuta sì ch'i' ne sia consolata.<br />
Quindi Virgilio cerca di rassicurare Dante dicendogli il motivo del proprio<br />
intervento in suo favore. Gli spiega che è venuto in suo soccorso dal Limbo, dove si<br />
trovano le anime di uomini sapienti e virtuosi vissuti prima di Cristo, fuori quindi<br />
della vera fede, che non possono né partecipare alla beatitudine celeste in quanto<br />
non redenti dalla grazia, né soggiacere alla dannazione dell’Inferno, in quanto non<br />
macchiati di colpa grave. Gli dice anche che lo ha mandato in suo aiuto Beatrice.
70-72<br />
I‟ son Beatrice che ti faccio andare;<br />
vegno del loco ove tornar disio;<br />
amor mi mosse, che mi fa parlare.<br />
Virgilio racconta il dialogo tra lui e Beatrice. Lei è scesa apposta al Limbo dal<br />
Paradiso (dove chiaramente desidera tornare dopo aver terminato il suo discorso)<br />
per chiedergli di intervenire in soccorso di Dante. Gli spiega anche che ciò che l’ha<br />
spinta a invocare il suo aiuto è l’amore che prova per Dante, dove per amore si<br />
intende sia l’amore cortese sia l’amore cristiano. Beatrice personifica la teologia, ma<br />
di questo ne parleremo in seguito.<br />
73-87<br />
Quando sarò dinanzi al segnor mio,<br />
di te mi loderò sovente a lui".<br />
Tacette allora, e poi comincia' io:<br />
"O donna di virtù sola per cui<br />
l'umana spezie eccede ogne contento<br />
di quel ciel c'ha minor li cerchi sui,<br />
tanto m'aggrada il tuo comandamento,<br />
che l'ubidir, se già fosse, m'è tardi;<br />
più non t'è uo' ch'aprirmi il tuo talento.<br />
35<br />
Ma dimmi la cagion che non ti guardi<br />
de lo scender qua giuso in questo centro<br />
de l'ampio loco ove tornar tu ardi".<br />
"Da che tu vuo' saver cotanto a dentro,<br />
dirotti brievemente", mi rispuose,<br />
"perch' i' non temo di venir qua entro.<br />
Virgilio domanda a Beatrice per quale motivo lei non ha avuto paura di scendere<br />
dal Paradiso all’Inferno (dove si trova lui).<br />
88-90<br />
Temer si dee di sole quelle cose<br />
ch‟hanno potenza di fare altrui male;<br />
de l‟altre no, ché non son paurose.<br />
Beatrice risponde che si devono temere solo le cose che possono arrecare male al<br />
prossimo.<br />
91-114<br />
I' son fatta da Dio, sua mercé, tale,<br />
che la vostra miseria non mi tange,<br />
né fiamma d'esto 'ncendio non m'assale.<br />
Donna è gentil nel ciel che si compiange<br />
di questo 'mpedimento ov' io ti mando,<br />
sì che duro giudicio là sù frange.<br />
Questa chiese Lucia in suo dimando<br />
e disse: ”Or ha bisogno il tuo fedele<br />
di te, e io a te lo raccomando.”<br />
Lucia, nimica di ciascun crudele,<br />
si mosse, e venne al loco dov' i' era,<br />
che mi sedea con l'antica Rachele.
Disse: “ Beatrice, loda di Dio vera,<br />
ché non soccorri quei che t'amò tanto,<br />
ch'uscì per te de la volgare schiera?<br />
Non odi tu la pieta del suo pianto,<br />
non vedi tu la morte che 'l combatte<br />
su la fiumana ove 'l mar non ha vanto?”<br />
36<br />
Al mondo non fur mai persone ratte<br />
a far lor pro o a fuggir lor danno,<br />
com' io, dopo cotai parole fatte,<br />
venni qua giù del mio beato scanno,<br />
fidandomi del tuo parlare onesto,<br />
ch'onora te e quei ch'udito l'hanno.»<br />
Beatrice spiega a Virgilio che la pena dei dannati non viene a turbare la beatitudine<br />
delle anime del Paradiso. Dice inoltre che è stata la Madonna, per prima, che ha<br />
avuto compassione dei mali di Dante. <strong>La</strong> rigida giustizia di Dio è resa meno severa,<br />
per la forza dell’intercessione della Vergine. Quest’ultima incaricò s. Lucia di<br />
andare da Beatrice a chiederle di soccorrere Dante.<br />
Nata a Siracusa nel 238, la giovane Lucia fu denunciata come cristiana dal fidanzato<br />
alle autorità durante le persecuzioni ordinate dall’imperatore Diocleziano. Fu<br />
condannata alla prostituzione e poi alla morte sul rogo ma, uscita indenne dal<br />
fuoco, fu decapitata. <strong>La</strong> leggenda racconta che prima della morte le fossero stati<br />
strappati gli occhi. Nella Lucia della <strong>Divina</strong> <strong>Commedia</strong> taluni critici hanno voluto<br />
scorgere il simbolo della grazia illuminante, che guida Dante nei momenti cruciali<br />
della sua esperienza ultraterrena.<br />
115-120<br />
Poscia che m'ebbe ragionato questo,<br />
li occhi lucenti lagrimando volse,<br />
per che mi fece del venir più presto.<br />
E venni a te così com' ella volse:<br />
d'inanzi a quella fiera ti levai<br />
che del bel monte il corto andar ti tolse.<br />
Virgilio riferisce a Dante che non appena Beatrice gli rivolse la sua esortazione ad<br />
aiutarlo, lui si precipitò nella selva oscura e lo liberò dall’ostacolo rappresentato<br />
dalla lupa.<br />
121-126<br />
Dunque: che è? Perché, perché restai,<br />
perché tanta viltà nel core allette,<br />
perché ardire e franchezza non hai,<br />
poscia che tai tre donne benedette<br />
curan di te ne la corte del cielo,<br />
e „l mio parlar tanto ben ti promette?»<br />
Virgilio dice a Dante: «Perché indugi a muoverti? Perché nel cuore tuo c‟è tanta<br />
viltà? Perché non hai ardimento e disinvoltura, dopo che le tre donne benedette di cui<br />
ti ho parlato (la Madonna, s. Lucia e Beatrice) in cielo si prendono cura della tua<br />
salvezza e dopo che io ti rivolgo tante parole rassicuranti?»
127-140<br />
Quali fioretti dal notturno gelo<br />
chinati e chiusi, poi che „l sol li „mbianca,<br />
si drizzan tutti aperti in loro stelo,<br />
tal mi fec‟io di mia virtude stanca,<br />
e tanto buono ardire al cor mi corse,<br />
ch‟i‟ cominciai come persona franca:<br />
«Oh pietosa colei che mi soccorse!<br />
e te cortese ch‟ubidisti tosto<br />
a le vere parole che ti porse!<br />
Tu m‟hai con disiderio il cor disposto<br />
sì al venir con le parole tue,<br />
ch‟i‟ son tornato nel primo proposto.<br />
Or va, ch‟un sol volere è d‟ambedue:<br />
tu duca, tu segnore e tu maestro.»<br />
Come i fiori dei prati, dopo essere rimasti curvati verso terra e chiusi per il freddo<br />
della notte, si raddrizzano e si aprono quando il sole li illumina, così si risollevò il<br />
mio stato d‟animo che fino a quel momento era avvilito per i dubbi e le difficoltà, e mi<br />
rincuorai, dicendo: «Oh come fu misericordiosa colei (Beatrice) che mi soccorse! E tu<br />
benigno che acconsentisti subito alla sua richiesta di aiutarmi! Tu mi hai suscitato<br />
così tanto entusiasmo e coraggio che io sono tornato al mio iniziale proponimento di<br />
intraprendere il viaggio nell‟aldilà. Adesso comincia pure il cammino, ché le nostre<br />
volontà coincidono: tu sei la mia guida, il mio signore (per il tuo potere di agire sulla<br />
mia volontà) e il mio maestro (per il tuo potere di agire sul mio intelletto).<br />
141-142<br />
Così li dissi; e poi che mosso fue,<br />
intrai per lo cammino alto e silvestro.<br />
Così gli dissi; e dopo che fece il primo passo, cominciai il cammino difficile e arduo.<br />
37
CANTO III<br />
1-9<br />
PER ME SI VA NE LA CITTA‟ DOLENTE,<br />
PER ME SI VA NE L‟ETTERNO DOLORE,<br />
PER ME SI VA TRA LA PERDUTA GENTE.<br />
GIUSTIZIA MOSSE IL MIO ALTO FATTORE;<br />
FECEMI LA DIVINA PODESTATE,<br />
LA SOMMA SAPIENZA E „L PRIMO AMORE.<br />
DINANZI A ME NON FUOR COSE CREATE<br />
SE NON ETTERNE, E IO ETTERNA DURO.<br />
LASCIATE OGNE SPERANZA, VOI CH‟INTRATE.<br />
Virgilio e Dante giungono davanti alla porta dell’Inferno, che reca una minacciosa<br />
scritta: “Attraverso me si va nel luogo del dolore, dell‟eterna sofferenza, tra i dannati.<br />
Fui creata per una ragione di giustizia. A proposito della giustizia divina, si riporta<br />
un passo della Bibbia (Seconda lettera ai Tessalonicesi, I, 6-10): “È proprio della<br />
giustizia di Dio rendere afflizione a quelli che vi affliggono e a voi, che ora siete afflitti,<br />
sollievo insieme a noi, quando si manifesterà il Signore Gesù dal cielo con gli angeli della<br />
sua potenza in fuoco ardente, a far vendetta di quanti non conoscono Dio e non obbediscono<br />
al vangelo del Signore nostro Gesù. Costoro saranno castigati con una rovina eterna,<br />
lontano dalla faccia del Signore e dalla gloria della sua potenza, quando egli verrà per esser<br />
glorificato…”<br />
Fui creata dalla Trinità, vista nei suoi attributi di somma potenza del Padre, di<br />
somma sapienza del Figlio e di somma carità dello Spirito Santo. Le cose create prima<br />
di me sono solo quelle eterne (cioè angeli, cieli, materia pura), e io duro in eterno<br />
(l’Inferno fu creato prima dell’uomo, al momento della caduta di Lucifero). Perdete<br />
qualunque speranza voi che entrate (la vera pena dei dannati è la loro assoluta<br />
impossibilità di sperare nella salvezza della loro anima).<br />
10-50<br />
Queste parole di colore oscuro<br />
vid' ïo scritte al sommo d'una porta;<br />
per ch'io: «Maestro, il senso lor m'è duro».<br />
Ed elli a me, come persona accorta:<br />
«Qui si convien lasciare ogne sospetto;<br />
ogne viltà convien che qui sia morta.<br />
Noi siam venuti al loco ov' i' t'ho detto<br />
che tu vedrai le genti dolorose<br />
c'hanno perduto il ben de l'intelletto».<br />
38<br />
E poi che la sua mano a la mia puose<br />
con lieto volto, ond' io mi confortai,<br />
mi mise dentro a le segrete cose.<br />
Quivi sospiri, pianti e alti guai<br />
risonavan per l'aere sanza stelle,<br />
per ch'io al cominciar ne lagrimai.<br />
Diverse lingue, orribili favelle,<br />
parole di dolore, accenti d'ira,<br />
voci alte e fioche, e suon di man con elle
facevano un tumulto, il qual s'aggira<br />
sempre in quell' aura sanza tempo tinta,<br />
come la rena quando turbo spira.<br />
E io ch'avea d'error la testa cinta,<br />
dissi: «Maestro, che è quel ch'i' odo?<br />
e che gent' è che par nel duol sì vinta?»<br />
Ed elli a me: «Questo misero modo<br />
tegnon l'anime triste di coloro<br />
che visser sanza 'nfamia e sanza lodo.<br />
Mischiate sono a quel cattivo coro<br />
de li angeli che non furon ribelli<br />
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.<br />
39<br />
Caccianli i ciel per non esser men belli,<br />
né lo profondo inferno li riceve,<br />
ch'alcuna gloria i rei avrebber d'elli».<br />
E io: «Maestro, che è tanto greve<br />
a lor che lamentar li fa sì forte?»<br />
Rispuose: «Dicerolti molto breve.<br />
Questi non hanno speranza di morte,<br />
e la lor cieca vita è tanto bassa,<br />
che 'nvidïosi son d'ogne altra sorte.<br />
Fama di loro il mondo esser non lassa;<br />
misericordia e giustizia li sdegna:<br />
Dante rimane terrorizzato da questa scritta difficile a comprendersi; quindi ne<br />
chiede spiegazione a Virgilio, il quale lo esorta ad abbandonare qualunque paura e<br />
viltà d’animo e lo conduce al di là della porta.<br />
Così i due poeti si trovano all’interno del “Vestibolo” (siamo ancora<br />
nell’Antinferno). Qui Dante comincia a udire sospiri, pianti, urli che paurosamente<br />
risuonano in un’atmosfera di tenebre. Dante domanda che cosa sia tutto ciò che sta<br />
ascoltando e chi sono quelle anime sofferenti. Virgilio gli risponde che si tratta degli<br />
ignavi, i quali in vita rifiutarono ogni responsabilità, vivendo “sanza „nfamia e sanza<br />
lodo”, cioè senza ottenere dagli altri né biasimo né lode, quindi da vili. Gli ignavi<br />
sono collocati nel Vestibolo assieme a quegli angeli che nella grande battaglia<br />
avvenuta in cielo non si schierarono dalla parte di Lucifero, ma rimasero comunque<br />
imbelli, abulici, dubbiosi; questi angeli imbelli sono respinti sia dai cieli, che non<br />
vogliono perdere la loro bellezza accogliendo genti vili, sia dall’Inferno, perché i<br />
dannati proverebbero compiacimento per essere stati meno vili di loro. Proprio<br />
perché nella vita non presero mai una posizione, gli ignavi sono indegni sia delle<br />
pene dell’Inferno sia della misericordia di Dio.<br />
51<br />
non ragioniam di lor, ma guarda e passa.»<br />
A conclusione della sua spiegazione a Dante sulla natura e la condizione degli<br />
ignavi, Virgilio gli pronuncia questa frase che è uno dei versi più celebri della<br />
<strong>Divina</strong> <strong>Commedia</strong>. In questo verso si avverte il disprezzo di Dante per i vili, gente<br />
che non ebbe personalità alcuna e che non fu mai viva.<br />
52-69<br />
E io, che riguardai, vidi una 'nsegna<br />
che girando correva tanto ratta,<br />
che d'ogne posa mi parea indegna;<br />
e dietro le venìa sì lunga tratta<br />
di gente, ch'i' non averei creduto<br />
che morte tanta n'avesse disfatta.
Poscia ch'io v'ebbi alcun riconosciuto,<br />
vidi e conobbi l'ombra di colui<br />
che fece per viltade il gran rifiuto.<br />
Incontanente intesi e certo fui<br />
che questa era la setta d'i cattivi,<br />
a Dio spiacenti e a' nemici sui.<br />
40<br />
Questi sciaurati, che mai non fur vivi,<br />
erano ignudi e stimolati molto<br />
da mosconi e da vespe ch'eran ivi.<br />
Elle rigavan lor di sangue il volto,<br />
che, mischiato di lagrime, a' lor piedi<br />
da fastidiosi vermi era ricolto.<br />
Dante vede che gli ignavi, che sono numerosissimi, sono costretti a correre, nudi,<br />
dietro a una bandiera (essi che in vita non ne seguirono mai una), mentre sono<br />
soggetti a una stimolazione fisica delle punture di mosconi e vespe (loro che in vita<br />
non vollero cedere ad alcuno stimolo, né nel bene né nel male). Il sangue, mischiato<br />
a lacrime, riga il volto di questi condannati, che poi è raccolto dai vermi (che sono il<br />
contrappasso della viltà).<br />
Tra essi Dante vede e riconosce l’anima “di colui che fece per viltade il gran rifiuto”. <strong>La</strong><br />
maggior parte dei commentatori ritengono che si tratti di Pietro di Morrone. Nato a<br />
Isernia nel 1215, sentì profondamente la vocazione eremitica e si ritirò sul monte<br />
Morrone e sul massiccio della Maiella, in Abruzzo. Grazie alla creazione di un<br />
ordine religioso (i Frati Celestiniani) e attraverso la sua austera ed esemplare<br />
esistenza in una grotta della Maiella, ma soprattutto per il compimento di numerosi<br />
miracoli, era considerato un santo. Alla morte di papa Nicolò IV (4 aprile 1292),<br />
dopo due anni di inutili discussioni ed altrettanti conclavi, il 5 luglio 1294 ci fu la<br />
tanto attesa fumata bianca: Pietro di Morrone era il nuovo Papa, col nome di<br />
Celestino V. L’incoronazione con la tiara papale avvenne però a L’Aquila il 29<br />
agosto dello stesso anno, davanti a una leggendaria moltitudine di fedeli accorsi da<br />
tutta l’Europa, tra i quali anche il giovane Dante Alighieri. Lo spirito ingenuo del<br />
Papa eremita mal si conciliava con quello della Curia romana, corrotta e litigiosa.<br />
Riservato e privo della sufficiente energia, Celestino V si trovò al centro di aspre<br />
contese senza riuscire a dominarle. Sempre più spesso arrivò a meditare l’idea di<br />
rinunciare al pontificato e finalmente indisse un Concistoro per il 13 dicembre 1294,<br />
durante il quale annunciò il suo atto di rinuncia, dopo soli cinque mesi di<br />
pontificato. Al suo posto fu eletto papa il cardinale Benedetto Cajetani, di Anagni<br />
(FR), che prese il nome di Bonifacio VIII. Quest’ultimo considerò l’esistenza di<br />
Pietro di Morrone una minaccia per il suo stesso pontificato; perciò lo fece<br />
rinchiudere nel castello di Fumone (FR), dove il 19 maggio 1296 moriva dopo dieci<br />
mesi di prigionia. Nel 1327 i Monaci Celestiniani riuscirono a portare la salma di<br />
Pietro di Morrone a L’Aquila, all’interno della Basilica di santa Maria di<br />
Collemaggio, dove tuttora si trova.<br />
70-136<br />
E poi ch'a riguardar oltre mi diedi,<br />
vidi genti a la riva d'un gran fiume;<br />
per ch'io dissi: «Maestro, or mi concedi<br />
ch'i' sappia quali sono, e qual costume<br />
le fa di trapassar parer sì pronte,<br />
com' i' discerno per lo fioco lume».
Ed elli a me: «Le cose ti fier conte<br />
quando noi fermerem li nostri passi<br />
su la trista riviera d'Acheronte».<br />
Allor con li occhi vergognosi e bassi,<br />
temendo no 'l mio dir li fosse grave,<br />
infino al fiume del parlar mi trassi.<br />
Ed ecco verso noi venir per nave<br />
un vecchio, bianco per antico pelo,<br />
gridando: «Guai a voi, anime prave!<br />
Non isperate mai veder lo cielo:<br />
i' vegno per menarvi a l'altra riva<br />
ne le tenebre etterne, in caldo e 'n gelo.<br />
E tu che se' costì, anima viva,<br />
pàrtiti da cotesti che son morti».<br />
Ma poi che vide ch'io non mi partiva,<br />
disse: «Per altra via, per altri porti<br />
verrai a piaggia, non qui, per passare:<br />
più lieve legno convien che ti porti».<br />
E 'l duca lui: «Caron, non ti crucciare:<br />
vuolsi così colà dove si puote<br />
ciò che si vuole, e più non dimandare».<br />
Quinci fuor quete le lanose gote<br />
al nocchier de la livida palude,<br />
che 'ntorno a li occhi avea di fiamme rote.<br />
Ma quell' anime, ch'eran lasse e nude,<br />
cangiar colore e dibattero i denti,<br />
ratto che 'nteser le parole crude.<br />
Bestemmiavano Dio e lor parenti,<br />
l'umana spezie e 'l loco e 'l tempo e 'l seme<br />
di lor semenza e di lor nascimenti.<br />
41<br />
Poi si ritrasser tutte quante insieme,<br />
forte piangendo, a la riva malvagia<br />
ch'attende ciascun uom che Dio non teme.<br />
Caron dimonio, con occhi di bragia<br />
loro accennando, tutte le raccoglie;<br />
batte col remo qualunque s'adagia.<br />
Come d'autunno si levan le foglie<br />
l'una appresso de l'altra, fin che 'l ramo<br />
vede a la terra tutte le sue spoglie,<br />
similemente il mal seme d'Adamo<br />
gittansi di quel lito ad una ad una,<br />
per cenni come augel per suo richiamo.<br />
Così sen vanno su per l'onda bruna,<br />
e avanti che sien di là discese,<br />
anche di qua nuova schiera s'auna.<br />
«Figliuol mio», disse 'l maestro cortese,<br />
«quelli che muoion ne l'ira di Dio<br />
tutti convegnon qui d'ogne paese;<br />
e pronti sono a trapassar lo rio,<br />
ché la divina giustizia li sprona,<br />
sì che la tema si volve in disio.<br />
Quinci non passa mai anima buona;<br />
e però, se Caron di te si lagna,<br />
ben puoi sapere omai che 'l suo dir suona».<br />
Finito questo, la buia campagna<br />
tremò sì forte, che de lo spavento<br />
la mente di sudore ancor mi bagna.<br />
<strong>La</strong> terra lagrimosa diede vento,<br />
che balenò una luce vermiglia<br />
la qual mi vinse ciascun sentimento;<br />
e caddi come l'uom cui sonno piglia.<br />
Quindi Dante nota, poco più oltre, la presenza di un fiume. Si tratta dell’Acheronte,<br />
che circonda interamente il primo cerchio. Le anime dei dannati che giungono<br />
all’Inferno devono oltrepassare questo fiume nella barca di Caronte, che è un<br />
demone pagano che ha il compito di traghettare le anime dei dannati. Costui,<br />
accorgendosi che Dante è ancora in vita, si rifiuta di traghettarlo, ma Virgilio gli<br />
spiega che il suo discepolo attraverserà ugualmente il fiume, perché questo è il<br />
volere divino. All’improvviso un terremoto scuote la terra e lo segue un lampo;<br />
Dante perde i sensi e, misteriosamente, varca il fiume infernale.
1-45<br />
Ruppemi l'alto sonno ne la testa<br />
un greve truono, sì ch'io mi riscossi<br />
come persona ch'è per forza desta;<br />
e l'occhio riposato intorno mossi,<br />
dritto levato, e fiso riguardai<br />
per conoscer lo loco dov' io fossi.<br />
Vero è che 'n su la proda mi trovai<br />
de la valle d'abisso dolorosa<br />
che 'ntrono accoglie d'infiniti guai.<br />
Oscura e profonda era e nebulosa<br />
tanto che, per ficcar lo viso a fondo,<br />
io non vi discernea alcuna cosa.<br />
«Or discendiam qua giù nel cieco mondo»,<br />
cominciò il poeta tutto smorto.<br />
«Io sarò primo, e tu sarai secondo».<br />
E io, che del color mi fui accorto,<br />
dissi: «Come verrò, se tu paventi<br />
che suoli al mio dubbiare esser conforto?».<br />
Ed elli a me: «L'angoscia de le genti<br />
che son qua giù, nel viso mi dipigne<br />
quella pietà che tu per tema senti.<br />
Andiam, ché la via lunga ne sospigne».<br />
Così si mise e così mi fé intrare<br />
nel primo cerchio che l'abisso cigne.<br />
CANTO IV<br />
42<br />
Quivi, secondo che per ascoltare,<br />
non avea pianto mai che di sospiri<br />
che l'aura etterna facevan tremare;<br />
ciò avvenia di duol sanza martìri,<br />
ch'avean le turbe, ch'eran molte e grandi,<br />
d'infanti e di femmine e di viri.<br />
Lo buon maestro a me: «Tu non dimandi<br />
che spiriti son questi che tu vedi?<br />
Or vo' che sappi, innanzi che più andi,<br />
ch'ei non peccaro; e s'elli hanno mercedi,<br />
non basta, perché non ebber battesmo,<br />
ch'è porta de la fede che tu credi;<br />
e s'e' furon dinanzi al cristianesmo,<br />
non adorar debitamente a Dio:<br />
e di questi cotai son io medesmo.<br />
Per tai difetti, non per altro rio,<br />
semo perduti, e sol di tanto offesi<br />
che sanza speme vivemo in disio».<br />
Gran duol mi prese al cor quando lo 'ntesi,<br />
però che gente di molto valore<br />
conobbi che 'n quel limbo eran sospesi.<br />
Un forte tuono risveglia Dante, che comprende di aver attraversato, privo di sensi,<br />
l’Acheronte. Qui inizia l’Inferno vero e proprio, con il primo cerchio, che è<br />
chiamato “Limbo”. In questo cerchio sono collocate le anime, tra cui quella di<br />
Virgilio, di coloro che, pur senza colpe, sono morti senza battesimo o sono vissuti<br />
senza credere nel Cristo venturo. Nel Vangelo secondo Marco, cap. XVI, v. 16, sta<br />
scritto: Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato.<br />
Le anime del Limbo non subiscono, come le altre dell’Inferno, la pena fisica;<br />
soffrono invece la lontananza da Dio, che è pena morale; per questo motivo non<br />
emettono lamenti, ma sospiri che seguono il desiderio di Dio, consapevoli che<br />
questo desiderio non sarà mai appagato.<br />
46-63<br />
«Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore»,<br />
comincia' io per volere esser certo<br />
di quella fede che vince ogne errore:<br />
«uscicci mai alcuno, o per suo merto<br />
o per altrui, che poi fosse beato?»<br />
E quei che 'ntese il mio parlar coverto,
ispuose: «Io era nuovo in questo stato,<br />
quando ci vidi venire un possente,<br />
con segno di vittoria coronato.<br />
Trasseci l'ombra del primo parente,<br />
d'Abèl suo figlio e quella di Noè,<br />
di Moïsè legista e ubidente;<br />
43<br />
Abraàm patrïarca e Davìd re,<br />
Israèl con lo padre e co' suoi nati<br />
e con Rachele, per cui tanto fé,<br />
e altri molti, e feceli beati.<br />
E vo' che sappi che, dinanzi ad essi,<br />
spiriti umani non eran salvati».<br />
Dante domanda se mai qualcuno riuscì a uscire dal Limbo per essere accolto tra i<br />
beati. Virgilio gli risponde che una volta Cristo, nell’intervallo di tempo trascorso<br />
tra la morte e la resurrezione, scese nel Limbo e liberò le anime degli antichi Ebrei<br />
credenti nel Cristo venturo: Adamo, Abele, Noè, Mosè, Abramo, David, Giacobbe<br />
con suo padre Isacco, i dodici figli e la moglie Rebecca.<br />
64-93<br />
Non lasciavam l'andar perch‟ ei dicessi,<br />
ma passavam la selva tuttavia,<br />
la selva, dico, di spiriti spessi.<br />
Non era lunga ancor la nostra via<br />
di qua dal sonno, quand' io vidi un foco<br />
ch'emisperio di tenebre vincia.<br />
Di lungi n'eravamo ancora un poco,<br />
ma non sì ch'io non discernessi in parte<br />
ch'orrevol gente possedea quel loco.<br />
«O tu ch'onori scïenzïa e arte,<br />
questi chi son c'hanno cotanta onranza,<br />
che dal modo de li altri li diparte?»<br />
E quelli a me: «L'onrata nominanza<br />
che di lor suona sù ne la tua vita,<br />
grazïa acquista in ciel che sì li avanza».<br />
Intanto voce fu per me udita:<br />
«Onorate l'altissimo poeta;<br />
l'ombra sua torna, ch'era dipartita».<br />
Poi che la voce fu restata e queta,<br />
vidi quattro grand'ombre a noi venire:<br />
sembianz' avevan né trista né lieta.<br />
Lo buon maestro cominciò a dire:<br />
«Mira colui con quella spada in mano,<br />
che vien dinanzi ai tre sì come sire:<br />
quelli è Omero poeta sovrano;<br />
l'altro è Orazio satiro che vene;<br />
Ovidio è 'l terzo, e l'ultimo Lucano.<br />
Però che ciascun meco si convene<br />
nel nome che sonò la voce sola,<br />
fannomi onore, e di ciò fanno bene».<br />
A un certo punto Dante scorge un gruppo di quattro anime che sembrano<br />
possedere un onore particolare che le distingue dalle altre anime. Queste anime<br />
appaiono in un aspetto grave e calmo, come si addice ai cultori della sapienza.<br />
Queste quattro anime, a differenza delle altre del Limbo, non sembrano sospirare,<br />
ma neppure sono liete, perché sono comunque prive della speranza e della visione<br />
beatifica. In testa ai quattro è Omero, che è rappresentato con la spada in mano,<br />
perché cantore delle armi; gli altri sono Orazio, Ovidio e Lucano (sono quelli che<br />
nel Medioevo venivano considerati, oltre a Virgilio, i quattro maggiori poeti<br />
dell’antichità).<br />
94-102<br />
Così vid‟i‟ adunar la bella scola<br />
di quel segnor de l‟altissimo canto<br />
che sovra li altri com‟aquila vola .
Da ch‟ebber ragionato insieme alquanto,<br />
volsersi a me con salutevol cenno,<br />
e „l mio maestro sorrise di tanto;<br />
e più d‟onore ancora assai mi fenno,<br />
ch‟e‟ sì mi fecer de la loro schiera,<br />
sì ch‟io fui sesto tra cotanto senno.<br />
Così vidi radunarsi la bella compagnia capeggiata da Omero (che Dante considera il<br />
signore dei poeti, e che come tale vola sopra tutti gli altri come fa l’aquila, che vola<br />
più alta degli altri uccelli). Dopo che ebbero un po‟ ragionato tra di loro, si volsero<br />
verso di me con un cenno di saluto (come a loro collega), e Virgilio sorrise di ciò; e<br />
mi resero l‟onore di farmi entrare nel loro gruppo (quello dei grandi poeti), cosicché<br />
io fui il sesto appartenente a tale schiera (dopo il gruppo dei quattro e Virgilio).<br />
Questa appartenenza di Dante al gruppo dei grandi poeti esprime l’alta coscienza<br />
che lui ebbe della sua missione: allontanare l’umanità dallo stato di miseria in cui<br />
vive e condurla ad uno stato di felicità. Per intraprendere questa alta missione di<br />
cui si sente investito da Dio, Dante parte dall’individuo, dalla sua personale<br />
condizione di peccatore che aspira ad uscire dalla “selva oscura” del peccato e<br />
procedere, con l’aiuto della ragione, alla conquista della verità e della salvezza.<br />
103-151<br />
Così andammo infino a la lumera,<br />
parlando cose che 'l tacere è bello,<br />
sì com' era 'l parlar colà dov' era.<br />
Venimmo al piè d'un nobile castello,<br />
sette volte cerchiato d'alte mura,<br />
difeso intorno d'un bel fiumicello.<br />
Questo passammo come terra dura;<br />
per sette porte intrai con questi savi:<br />
giugnemmo in prato di fresca verdura.<br />
Genti v'eran con occhi tardi e gravi,<br />
di grande autorità ne' lor sembianti:<br />
parlavan rado, con voci soavi.<br />
Traemmoci così da l'un de' canti,<br />
in loco aperto, luminoso e alto,<br />
sì che veder si potien tutti quanti.<br />
Colà diritto, sovra 'l verde smalto,<br />
mi fuor mostrati li spiriti magni,<br />
che del vedere in me stesso m'essalto.<br />
I' vidi Eletra con molti compagni,<br />
tra ' quai conobbi Ettòr ed Enea,<br />
Cesare armato con li occhi grifagni.<br />
44<br />
Vidi Cammilla e la Pantasilea;<br />
da l'altra parte vidi 'l re <strong>La</strong>tino<br />
che con <strong>La</strong>vina sua figlia sedea.<br />
Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino,<br />
Lucrezia, Iulia, Marzïa e Corniglia;<br />
e solo, in parte, vidi 'l Saladino.<br />
Poi ch'innalzai un poco più le ciglia,<br />
vidi 'l maestro di color che sanno<br />
seder tra filosofica famiglia.<br />
Tutti lo miran, tutti onor li fanno:<br />
quivi vid' ïo Socrate e Platone,<br />
che 'nnanzi a li altri più presso li stanno;<br />
Democrito che 'l mondo a caso pone,<br />
Dïogenès, Anassagora e Tale,<br />
Empedoclès, Eraclito e Zenone;<br />
e vidi il buono accoglitor del quale,<br />
Dïascoride dico; e vidi Orfeo,<br />
Tulïo e Lino e Seneca morale;<br />
Euclide geomètra e Tolomeo,<br />
Ipocràte, Avicenna e Galïeno,<br />
Averoìs, che 'l gran comento feo.
Io non posso ritrar di tutti a pieno,<br />
però che sì mi caccia il lungo tema,<br />
che molte volte al fatto il dir vien meno.<br />
45<br />
<strong>La</strong> sesta compagnia in due si scema:<br />
per altra via mi mena il savio duca,<br />
fuor de la queta, ne l'aura che trema.<br />
E vegno in parte ove non è che luca.<br />
Mentre parlano, i poeti camminano e giungono davanti a un castello che si trova<br />
vicino a un fuoco che vince parzialmente le tenebre (il fuoco sottolinea la<br />
particolare condizione privilegiata delle anime che si trovano nel castello, rispetto<br />
alle altre anime del Limbo). Questo castello è circondato da sette mura di cinta ed è<br />
difeso da un fiumicello. Il castello del Limbo è simbolo della filosofia. Le sette mura<br />
possono significare le sette parti della filosofia: fisica, metafisica, etica, politica,<br />
economia, matematica, dialettica. Il valore simbolico del fiumicello è incerto; alcuni<br />
vi vedono il simbolo delle ricchezze e degli onori mondani (come le limpide e<br />
allettanti acque del fiumicello), i quali all’inizio sembrano bellissimi, ma alla lunga<br />
nocciono all’ingegno e all’intelletto, e che quindi bisogna superare per giungere ai<br />
piaceri dell’intelletto. I poeti attraversano questo fiume come se fosse terra asciutta:<br />
significa che essi non hanno più ostacoli verso la conquista della saggezza umana.<br />
Dopo aver superato sette porte, che sono simbolo delle sette arti liberali del trivio<br />
(grammatica, dialettica e retorica) e del quadrivio (musica, aritmetica, geometria e<br />
astronomia), i poeti giungono in un prato verde, dove vi sono anime di aspetto<br />
contegnoso e autorevole, che parlano con tono misurato e delicato (come è proprio<br />
dei saggi). Queste anime sono gli Spiriti Magni, tra cui rientrano:<br />
personaggi troiani e romani, della storia o del mito, che hanno combattuto<br />
per la costruzione di Roma e dell’Impero (Ettore, Enea, Cesare, <strong>La</strong>vinia, ecc.);<br />
donne simbolo di romana virtù (Lucrezia, Giulia, Marzia, Cornelia);<br />
filosofi, scienziati e letterati del mondo greco-romano, tra cui Aristotele (che<br />
come già detto nella parte introduttiva Dante considerò il maestro dei<br />
filosofi), Socrate, Platone, Democrito, Diogene, Talete, Zenone, Cicerone,<br />
Seneca, Euclide, Tolomeo, Ippocrate, Averroè; quest’ultimo ebbe il grande<br />
merito di tradurre e commentare le opere di Aristotele ('l gran comento feo);<br />
personaggi di rilievo morale e scientifico del mondo medievale musulmano<br />
(tra cui il Saladino, che fu liberale verso i Cristiani).
1-15<br />
Così discesi del cerchio primaio<br />
giù nel secondo, che men loco cinghia<br />
e tanto più dolor, che punge a guaio.<br />
Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:<br />
essamina le colpe ne l'intrata;<br />
giudica e manda secondo ch'avvinghia.<br />
Dico che quando l'anima mal nata<br />
li vien dinanzi, tutta si confessa;<br />
e quel conoscitor de le peccata<br />
CANTO V<br />
46<br />
vede qual loco d'inferno è da essa;<br />
cignesi con la coda tante volte<br />
quantunque gradi vuol che giù sia messa.<br />
Sempre dinanzi a lui ne stanno molte:<br />
vanno a vicenda ciascuna al giudizio,<br />
dicono e odono e poi son giù volte.<br />
Dante scende dal primo al secondo cerchio, che è meno esteso (ciò è dovuto al fatto<br />
che l’Inferno, avendo una forma di imbuto, si restringe man mano che si scende);<br />
qui la pena è più grave e tormenta le anime con maggiore durezza di quella cui<br />
sono sottoposte le anime del primo cerchio.<br />
All’ingresso del secondo cerchio sta Minosse, rappresentante della giustizia divina,<br />
il quale prende in esame le colpe dei dannati che giungono all’Inferno; conosciute le<br />
colpe, egli stabilisce il cerchio cui ciascuna anima è destinata, e lo fa attorcigliando<br />
la coda al proprio corpo per un numero di volte che equivale al cerchio assegnato.<br />
Minosse è rappresentato da Dante come un demonio di orribile aspetto; mitico<br />
figlio di Zeus ed Europa, fu re di Creta. <strong>La</strong> tradizione mitologica lo colloca come<br />
giudice dei morti per la sua figura di saggio legislatore. Anche Virgilio, nell’Eneide,<br />
lo rappresenta come giudice infernale. Ma, anche se Dante qui non lo esplicita,<br />
Minosse è solo l’esecutore delle sentenze pronunciate dal vero giudice, che è Dio.<br />
16-24<br />
«O tu che vieni al doloroso ospizio»,<br />
disse Minòs a me quando mi vide,<br />
lasciando l'atto di cotanto offizio,<br />
«guarda com' entri e di cui tu ti fide;<br />
non t'inganni l'ampiezza de l'intrare!».<br />
E 'l duca mio a lui: «Perché pur gride?<br />
Non impedir lo suo fatale andare:<br />
vuolsi così colà dove si puote<br />
ciò che si vuole, e più non dimandare».<br />
Accortosi di Dante, Minosse cerca di scalzargli la fiducia in Virgilio e la sicurezza<br />
con cui è entrato per l’ampia porta infernale, una porta spaziosa che conduce alla<br />
perdizione. Virgilio gli risponde, come già a Caronte, che il viaggio di Dante è stato<br />
voluto dal cielo.<br />
A proposito del fatto che la porta dell’Inferno è molto spaziosa (in confronto a<br />
quella del Paradiso, che è invece stretta), il Vangelo (Mt, VII, 13-14) recita: “Entrate<br />
per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e<br />
molti sono quelli che entrano per essa; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che
conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano!” Sempre su questo tema, nel<br />
II libro dell’Etica Nicomachea Aristotele afferma che si è buoni in un solo modo,<br />
cattivi in molte e svariate maniere; perciò le persone virtuose sono poche, e quelle<br />
non virtuose sono molte.<br />
25-45<br />
Or incomincian le dolenti note<br />
a farmisi sentire; or son venuto<br />
là dove molto pianto mi percuote.<br />
Io venni in loco d'ogne luce muto,<br />
che mugghia come fa mar per tempesta,<br />
se da contrari venti è combattuto.<br />
<strong>La</strong> bufera infernal, che mai non resta,<br />
mena li spirti con la sua rapina;<br />
voltando e percotendo li molesta.<br />
Quando giungon davanti a la ruina,<br />
quivi le strida, il compianto, il lamento;<br />
bestemmian quivi la virtù divina.<br />
47<br />
Intesi ch'a così fatto tormento<br />
enno dannati i peccator carnali,<br />
che la ragion sommettono al talento.<br />
E come li stornei ne portan l'ali<br />
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,<br />
così quel fiato li spiriti mali<br />
di qua, di là, di giù, di sù li mena;<br />
nulla speranza li conforta mai,<br />
non che di posa, ma di minor pena.<br />
Così i poeti entrano nel buio del secondo cerchio, dove sono condannate le anime di<br />
coloro che morirono, per mano propria o altrui, di morte violenta a causa della<br />
passione sfrenata, che anteposero sempre alla ragione. Queste anime sono<br />
sottoposte a una bufera incessante. Per la legge del contrappasso, come in vita<br />
queste anime non seppero far prevalere la ragione sulla violenza delle passioni, così<br />
nell’Inferno la violenza del vento non dà loro pace.<br />
46-72<br />
E come i gru van cantando lor lai,<br />
faccendo in aere di sé lunga riga,<br />
così vid' io venir, traendo guai,<br />
ombre portate da la detta briga;<br />
per ch'i' dissi: «Maestro, chi son quelle<br />
genti che l'aura nera sì gastiga?»<br />
«<strong>La</strong> prima di color di cui novelle<br />
tu vuo' saper», mi disse quelli allotta,<br />
«fu imperadrice di molte favelle.<br />
A vizio di lussuria fu sì rotta,<br />
che libito fé licito in sua legge,<br />
per tòrre il biasmo in che era condotta.<br />
Ell' è Semiramìs, di cui si legge<br />
che succedette a Nino e fu sua sposa:<br />
tenne la terra che 'l Soldan corregge.<br />
L'altra è colei che s'ancise amorosa,<br />
e ruppe fede al cener di Sicheo;<br />
poi è Cleopatràs lussurïosa.<br />
Elena vedi, per cui tanto reo<br />
tempo si volse, e vedi 'l grande Achille,<br />
che con amore al fine combatteo.<br />
Vedi Parìs, Tristano»; e più di mille<br />
ombre mostrommi e nominommi a dito,<br />
ch'amor di nostra vita dipartille.<br />
Poscia ch'io ebbi 'l mio dottore udito<br />
nomar le donne antiche e ' cavalieri,<br />
pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.<br />
Dante vede avvicinarsi una lunga fila di anime che emettono gemiti, e domanda chi<br />
siano. Virgilio menziona l’identità di alcune di esse:
Semiramide, regina degli Assiri (sec. XIV a.C.), nota nel Medioevo per la sua<br />
leggendaria lussuria. Nelle sue leggi dichiarò lecito ciò che a ciascuno<br />
piacesse, per cancellare le sue stesse licenziosità;<br />
Didone, moglie di Sicheo, regina e fondatrice di Cartagine. Benché avesse<br />
promesso di restare vedova, si innamorò di Enea, venendo meno così al suo<br />
giuramento. Tuttavia l’eroe troiano l’abbandonò ed ella si uccise;<br />
Cleopatra, regina d’Egitto. Fu amante di Cesare e di Antonio. Si uccise con<br />
un aspide (serpente velonoso) per non cadere prigioniera di Ottaviano;<br />
Elena, moglie di Menelao, re di Sparta, rapita da Paride, figlio del re di Troia<br />
Priamo. Tale rapimento fu la causa della guerra di Troia;<br />
Achille, figlio di Peleo e della dea Teti. Fu vinto dall’amore di Polissena, figlia<br />
di Priamo, e fu ucciso da Paride, che lo colpì con una freccia al tallone;<br />
Tristano, cavaliere della Tavola Rotonda amante di Isotta, moglie di suo zio<br />
Marco, re di Cornovaglia. Tristano fu ucciso da suo zio con un dardo<br />
avvelenato.<br />
73-78<br />
I‟ cominciai: «Poeta, volontieri<br />
parlerei a quei due che „nsieme vanno,<br />
e paion sì al vento esser leggieri».<br />
Ed elli a me: «Vedrai quando saranno<br />
più presso a noi; e tu allor li priega<br />
per quello amor che i mena, ed ei verranno».<br />
A un certo punto Dante vede due anime che vanno in coppia. Si tratta di Paolo e<br />
Francesca. Questa era figlia di Guido da Polenta il Vecchio, il signore di Ravenna<br />
che ospitò il poeta negli ultimi tre anni della sua vita. Nel 1276 fu data in sposa, per<br />
ragioni politiche, al deforme Giovanni Malatesta, detto anche Gianciotto Malatesta,<br />
signore di Rimini. Secondo la tradizione ella sarebbe stata vittima di un inganno,<br />
perché le si sarebbe fatto credere che lo sposo fosse Paolo, fratello di Gianciotto,<br />
bellissimo uomo e già ammogliato. Innamoratasi del cognato, furono sorpresi e<br />
uccisi assieme dal marito tradito.<br />
Dante esprime a Virgilio il desiderio di parlare con Paolo e Francesca, che, essendo<br />
anime, gli appaiono come entità leggere, tant’è che sembrano opporre poca<br />
resistenza al vento.<br />
79-81<br />
Sì tosto come il vento a noi li piega,<br />
mossi la voce: «O anime affannate,<br />
venite a noi parlar, s‟altri nol niega!»<br />
48
Non appena il vento impetuoso del cerchio dei lussuriosi volge Paolo e Francesca<br />
in direzione dei due poeti, Dante esclama: «Oh anime tormentate, venite a parlare<br />
qui con noi, se Dio (altri) non ve lo impedisce!»<br />
82-87<br />
Quali colombe dal disio chiamate<br />
con l‟ali alzate e ferme al dolce nido<br />
vegnon per l‟aere, dal voler portate;<br />
cotali uscir de la schiera ov‟è Dido,<br />
a noi venendo per l‟aere maligno,<br />
sì forte fu l‟affettüoso grido.<br />
Come colombe, richiamate dal desiderio e sospinte dalla volontà, volano verso il<br />
loro nido con le ali aperte e ferme, così Paolo e Francesca escono dalla fila delle<br />
anime nella quale si trova Didone (Dido) e si avvicinano ai due poeti attraverso<br />
l’aria maligna dell’Inferno, per soddisfare l’animosa richiesta di Dante.<br />
88-108<br />
«O animal grazïoso e benigno<br />
che visitando vai per l‟aere perso<br />
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,<br />
se fosse amico il re de l‟universo,<br />
noi pregheremmo lui de la tua pace,<br />
poi c‟hai pietà del nostro mal perverso.<br />
Di quel che udire e che parlar vi piace,<br />
noi udiremo e parleremo a vui,<br />
mentre che „l vento, come fa, ci tace.<br />
Siede la terra dove nata fui<br />
su la marina dove „l Po discende<br />
per aver pace co‟ seguaci sui.<br />
Amor, ch‟al cor gentil ratto s‟apprende,<br />
prese costui de la bella persona<br />
che mi fu tolta; e „l modo ancor m‟offende.<br />
Amor, ch‟a nullo amato amar perdona,<br />
mi prese del costui piacer sì forte,<br />
che, come vedi, ancor non m‟abbandona.<br />
49
Amor condusse noi ad una morte.<br />
Caina attende chi a vita ci spense.»<br />
Queste parole da lor ci fuor porte.<br />
Francesca, rivolta a Dante, inizia a parlare: «Oh uomo cortese e benevolo, che in<br />
questo luogo così tetro e oscuro ti stai degnando di interessarti al dramma di noi<br />
due, che macchiammo la terra col nostro sangue (fuoriuscito dalle ferite mortali loro<br />
inferte da Gianciotto), se Dio ci fosse amico, gli rivolgeremmo preghiere per il tuo<br />
bene, per riconoscenza della sensibilità che stai dimostrando nel prenderti cura<br />
della nostra misera condizione di dannati. Di tutto ciò che volete ascoltare da noi e<br />
di tutto ciò di cui volete parlare a noi, (rispettivamente) noi parleremo a voi o<br />
ascolteremo da voi, approfittando del fatto che, come in questo momento, la bufera<br />
infernale ci concede una tregua. Io nacqui nella costa adriatica, dove il fiume Po e i<br />
suoi affluenti (seguaci sui) terminano placidamente la discesa del loro corso.<br />
L’amore, che fa subito presa sul cuore gentile e nobile, fece innamorare costui<br />
(Paolo) della bellezza del mio corpo, di cui venni privata (venendo uccisa), e il modo<br />
brutale (in cui ne venni privata) mi sgomenta tuttora; l’amore, che non permette a<br />
nessuno (nullo) che è amato di non riamare a sua volta, mi rapì del piacere di costui<br />
con un’intensità tale che, come vedi, ancora non mi abbandona; l’amore condusse<br />
noi due alla morte comune. Chi ci uccise (Gianciotto) sarà punito nella Caina (questa<br />
è la prima delle quattro zone in cui è diviso il nono cerchio, dove sono puniti i traditori dei<br />
parenti)».<br />
109-114<br />
Quand‟io intesi quell‟anime offense,<br />
china‟ il viso, e tanto il tenni basso,<br />
fin che „l poeta mi disse: «Che pense?»<br />
Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,<br />
quanti dolci pensier, quanto disio<br />
menò costoro al doloroso passo!»<br />
Ascoltando le parole sofferenti di Francesca, Dante rimane turbato, tanto da tenere<br />
lo sguardo abbassato. Virgilio gli domanda: «A cosa pensi?»<br />
Il poeta risponde: «Ohimè, quanti teneri pensieri, quanto romantico desiderio<br />
condusse costoro a peccare!»<br />
115-120<br />
Poi mi rivolsi a loro e parla‟ io,<br />
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri<br />
a lagrimar mi fanno tristo e pio.<br />
50
Ma dimmi: al tempo d‟i dolci sospiri,<br />
a che e come concedette amore<br />
che conosceste i dubbiosi disiri?»<br />
Poi il poeta si rivolge ai due amanti e dice: «Francesca, le tue sofferenze mi<br />
impietosiscono fino al punto di farmi piangere. Ma dimmi: quando ancora il vostro<br />
amore non era manifesto e si limitava ai dolci sospiri, a quali indizi e in che<br />
maniera l’amore permise che ciascuno di voi due scoprisse i reciproci desideri<br />
nascosti?»<br />
121-138<br />
E quella a me: «Nessun maggior dolore<br />
che ricordarsi del tempo felice<br />
ne la miseria; e ciò sa „l tuo dottore.<br />
Ma s‟a conoscer la prima radice<br />
del nostro amor tu hai cotanto affetto,<br />
dirò come colui che piange e dice.<br />
Noi leggiavamo un giorno per diletto<br />
di <strong>La</strong>ncialotto come amor lo strinse;<br />
soli eravamo e sanza alcun sospetto.<br />
Per più fïate li occhi ci sospinse<br />
quella lettura, e scolorocci il viso;<br />
ma solo un punto fu quel che ci vinse.<br />
Quando leggemmo il disïato riso<br />
esser basciato da cotanto amante,<br />
questi, che mai da me non fia diviso,<br />
la bocca mi basciò tutto tremante.<br />
Galeotto fu „l libro e chi lo scrisse:<br />
quel giorno più non vi leggemmo avante».<br />
Francesca risponde: «Non c’è dolore più grande che ricordarsi dei momenti felici<br />
quando si sta vivendo un periodo triste, e questo il tuo maestro lo sa bene. Ma se<br />
hai così tanto affettuoso interesse a conoscere l’origine del nostro amore, parlerò<br />
come chi parla piangendo. Ebbene, un giorno io e Paolo leggevano insieme per<br />
diletto il romanzo nel quale viene rappresentato l’amore che accese <strong>La</strong>ncillotto (uno<br />
dei cavalieri della Tavola Rotonda, che si innamorò della regina Ginevra, moglie di re Artù).<br />
Mentre leggevamo questo romanzo eravamo soli, ma senza alcuna intenzione<br />
peccaminosa. Più di una volta quella lettura spinse i nostri sguardi a incontrarsi,<br />
facendoli impallidire. Ma solo un punto fu quello che ci fece perdere ogni facoltà di<br />
51
esistere alla passione: quando leggemmo il passo in cui <strong>La</strong>ncillotto bacia la<br />
desiderata bocca della sua amante (Ginevra), Paolo baciò, tutto trepidante, la mia<br />
bocca. Galeotto fu il libro e chi lo scrisse (come Galeotto ― un personaggio del romanzo<br />
― aveva favorito l‟amore tra <strong>La</strong>ncillotto e Ginevra, così la lettura di quel libro ed il suo<br />
autore avevano costituito il tramite che aveva collegato e acceso di desiderio i cuori di Paolo<br />
e Francesca e che aveva vinto ogni freno inibitorio tra di loro). Quel giorno non<br />
proseguimmo oltre nella lettura».<br />
139-142<br />
Mentre che l‟uno spirto questo disse,<br />
l‟altro piangëa; sì che di pietade<br />
io venni men così com‟io morisse.<br />
E caddi come corpo morto cade.<br />
Mentre Francesca (l‟uno spirto) raccontava la loro dolorosa storia d’amore, Paolo<br />
(l‟altro) piangeva, tanto che Dante, sopraffatto da un forte sentimento di pietà,<br />
sviene.<br />
[Probabilmente Dante ha tratto quest‟espressione dal libro Daniele dell‟Antico Testamento;<br />
nel cap. 8 di tale libro, al v. 17, il profeta Daniele, dopo che ha avuto una visione, ha paura e<br />
cade con la faccia a terra; nel successivo v. 18, egli cade svenuto con la faccia a terra; dopo<br />
un‟altra visione, egli cade stordito con la faccia a terra (cfr. Daniele, 10, 9; Apocalisse, 1,<br />
17)].<br />
52
1-21<br />
Al tornar de la mente, che si chiuse<br />
dinanzi a la pietà d'i due cognati,<br />
che di trestizia tutto mi confuse,<br />
novi tormenti e novi tormentati<br />
mi veggio intorno, come ch'io mi mova<br />
e ch'io mi volga, e come che io guati.<br />
Io sono al terzo cerchio, de la piova<br />
etterna, maladetta, fredda e greve;<br />
regola e qualità mai non l'è nova.<br />
Grandine grossa, acqua tinta e neve<br />
per l'aere tenebroso si riversa;<br />
pute la terra che questo riceve.<br />
CANTO VI<br />
53<br />
Cerbero, fiera crudele e diversa,<br />
con tre gole caninamente latra<br />
sovra la gente che quivi è sommersa.<br />
Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,<br />
e 'l ventre largo, e unghiate le mani;<br />
graffia li spirti ed iscoia ed isquatra.<br />
Urlar li fa la pioggia come cani;<br />
de l'un de' lati fanno a l'altro schermo;<br />
volgonsi spesso i miseri profani.<br />
Ripresi i sensi, Dante si accorge di essere giunto nel terzo cerchio, dove sono puniti<br />
i golosi. Una pioggia incessante di acqua sudicia, grandine e neve in un’atmosfera<br />
tenebrosa forma una fanghiglia maleodorante. Per la legge del contrappasso, come<br />
in vita i golosi non seppero frenare con la ragione la loro smisurata ingordigia, così<br />
ora essi sono distesi nella fanghiglia maleodorante, in una miseria non solo<br />
materiale ma anche morale. Il custode del terzo cerchio è Cerbero, mitico mostro a<br />
forma di cane, con tre teste, già guardiano dell’Inferno pagano. Nell’Inferno<br />
dantesco questo mostro è rappresentato con gli occhi rossastri (in arte il demoniaco<br />
è contrassegnato dal fuoco delle pupille), la barba unta e nera (per la fanghiglia e il<br />
pasto), le mani unghiate, con cui graffia, scuoia e squarta i dannati.<br />
22-33<br />
E 'l duca mio distese le sue spanne,<br />
prese la terra, e con piene le pugna<br />
la gittò dentro a le bramose canne.<br />
Qual è quel cane ch'abbaiando agugna,<br />
e si racqueta poi che 'l pasto morde,<br />
ché solo a divorarlo intende e pugna,<br />
cotai si fecer quelle facce lorde<br />
de lo demonio Cerbero, che 'ntrona<br />
l'anime sì, ch'esser vorrebber sorde.<br />
Appena Cerbero scorge i due poeti, cerca di opporsi al loro passaggio; ma Virgilio<br />
lancia un manciata di fango nelle gole del mostro, che così smette di latrare e si<br />
placa. Così i due poeti possono riprendere il loro cammino.<br />
34-93<br />
Noi passavam su per l'ombre che adona<br />
la greve pioggia, e ponavam le piante<br />
sovra lor vanità che par persona.<br />
Elle giacean per terra tutte quante,<br />
fuor d'una ch'a seder si levò, ratto<br />
ch'ella ci vide passarsi davante.
«O tu che se' per questo 'nferno tratto»,<br />
mi disse, «riconoscimi, se sai:<br />
tu fosti, prima ch'io disfatto, fatto».<br />
E io a lui: «L'angoscia che tu hai<br />
forse ti tira fuor de la mia mente,<br />
sì che non par ch'i' ti vedessi mai.<br />
Ma dimmi chi tu se' che 'n sì dolente<br />
loco se' messo, e hai sì fatta pena,<br />
che, s'altra è maggio, nulla è sì spiacente».<br />
Ed elli a me: «<strong>La</strong> tua città, ch'è piena<br />
d'invidia sì che già trabocca il sacco,<br />
seco mi tenne in la vita serena.<br />
Voi cittadini mi chiamaste Ciacco:<br />
per la dannosa colpa de la gola,<br />
come tu vedi, a la pioggia mi fiacco.<br />
E io anima trista non son sola,<br />
ché tutte queste a simil pena stanno<br />
per simil colpa». E più non fé parola.<br />
Io li rispuosi: «Ciacco, il tuo affanno<br />
mi pesa sì, ch'a lagrimar mi 'nvita;<br />
ma dimmi, se tu sai, a che verranno<br />
li cittadin de la città partita;<br />
s'alcun v'è giusto; e dimmi la cagione<br />
per che l'ha tanta discordia assalita».<br />
E quelli a me: «Dopo lunga tencione<br />
verranno al sangue, e la parte selvaggia<br />
caccerà l'altra con molta offensione.<br />
54<br />
Poi appresso convien che questa caggia<br />
infra tre soli, e che l'altra sormonti<br />
con la forza di tal che testé piaggia.<br />
Alte terrà lungo tempo le fronti,<br />
tenendo l'altra sotto gravi pesi,<br />
come che di ciò pianga o che n'aonti.<br />
Giusti son due, e non vi sono intesi;<br />
superbia, invidia e avarizia sono<br />
le tre faville c'hanno i cuori accesi».<br />
Qui puose fine al lagrimabil suono.<br />
E io a lui: «Ancor vo' che mi 'nsegni<br />
e che di più parlar mi facci dono.<br />
Farinata e 'l Tegghiaio, che fuor sì degni,<br />
Iacopo Rusticucci, Arrigo e 'l Mosca<br />
e li altri ch'a ben far puoser li 'ngegni,<br />
dimmi ove sono e fa ch'io li conosca;<br />
ché gran disio mi stringe di savere<br />
se 'l ciel li addolcia o lo 'nferno li attosca».<br />
E quelli: «Ei son tra l'anime più nere;<br />
diverse colpe giù li grava al fondo:<br />
se tanto scendi, là i potrai vedere.<br />
Ma quando tu sarai nel dolce mondo,<br />
priegoti ch'a la mente altrui mi rechi:<br />
più non ti dico e più non ti rispondo».<br />
Li diritti occhi torse allora in biechi;<br />
guardommi un poco e poi chinò la testa:<br />
cadde con essa a par de li altri ciechi.<br />
Una delle anime, non appena vede i due poeti, si leva a sedere e invita Dante a<br />
riconoscerla. Si tratta di Ciacco: secondo alcuni diminutivo di Iacopo; secondo altri<br />
soprannome dispregiativo, che significherebbe “porco”. Personaggio fiorentino del<br />
XIII secolo del quale non si hanno che poche ed incerte notizie.<br />
Dante gli chiede di predire il futuro politico di Firenze. All’epoca i Guelfi fiorentini<br />
erano divisi nei due partiti dei Bianchi (capitanati da Vieri dei Cerchi) e dei Neri<br />
(guidati da Corso Donati). Ciacco dice che tra queste due fazioni ci saranno<br />
tensioni, e i Bianchi (chiamati da Dante “la parte selvaggia” perché erano rustici e<br />
provenivano dal contado) priveranno i Neri degli uffici civili e li espelleranno dalla<br />
città (ciò accadde realmente nel giugno del 1301). Ciacco dice anche che entro tre<br />
anni da questa sua profezia i Bianchi cadranno, e i Neri prevarranno grazie all’aiuto<br />
di papa Bonifacio VIII. Questi inviò a Firenze Carlo di Valois, apparentemente<br />
come paciere, in realtà col preciso compito di appoggiare i Neri suoi alleati e di<br />
bandire dalla città i Bianchi che ostacolavano la sua politica espansionistica; il<br />
legato pontificio si impadronì della città il 4 novembre 1301; ai Neri furono restituiti<br />
i diritti e il governo del Comune, mentre i Bianchi, tra cui Dante, furono esiliati.<br />
Quanto alle cause che avrebbero indotto Firenze alla discordia, Ciacco cita la<br />
superbia, l’invidia e l’avarizia.<br />
Quindi Ciacco ricade nella fanghiglia maleodorante.
94-111<br />
E 'l duca disse a me: «Più non si desta<br />
di qua dal suon de l'angelica tromba,<br />
quando verrà la nimica podesta:<br />
ciascun rivederà la trista tomba,<br />
ripiglierà sua carne e sua figura,<br />
udirà quel ch'in etterno rimbomba».<br />
Sì trapassammo per sozza mistura<br />
de l'ombre e de la pioggia, a passi lenti,<br />
toccando un poco la vita futura;<br />
55<br />
per ch'io dissi: «Maestro, esti tormenti<br />
crescerann' ei dopo la gran sentenza,<br />
o fier minori, o saran sì cocenti?».<br />
Ed elli a me: «Ritorna a tua scïenza,<br />
che vuol, quanto la cosa è più perfetta,<br />
più senta il bene, e così la doglienza.<br />
Tutto che questa gente maladetta<br />
in vera perfezion già mai non vada,<br />
di là più che di qua essere aspetta».<br />
Virgilio spiega a Dante che Ciacco si rialzerà solo nel giorno del Giudizio<br />
Universale, quando al suono delle trombe degli angeli i morti risorgeranno con un<br />
corpo incorruttibile e immortale, mentre il corpo di coloro che in quel momento<br />
sono ancora vivi sarà trasformato per diventare glorioso come quello dei morti che<br />
saranno risuscitati. In quel giorno Gesù Cristo scenderà dal cielo e tutti, sia i vivi sia<br />
i morti risuscitati, riceveranno da Lui una sentenza che avrà valore per l’eternità<br />
(cfr. Prima lettera ai Corinzi, XV, 51-58; Prima lettera ai Tessalonicesi, III, 13-18).<br />
Dante, notando che le anime dei dannati hanno un corpo “fittizio”, vuol sapere se<br />
l’anima, quando sarà rivestita della “sua” carne, dopo il Giudizio Universale,<br />
sentirà una pena maggiore, minore o uguale a quella che soffre ora. Virgilio gli<br />
spiega che, secondo la filosofia aristotelica, l’unione dell’anima e del corpo<br />
determina una maggiore perfezione e quindi una maggiore sensibilità alla letizia o<br />
al dolore.<br />
112-115<br />
Noi aggirammo a tondo quella strada,<br />
parlando più assai ch'i' non ridico;<br />
venimmo al punto dove si digrada:<br />
quivi trovammo Pluto, il gran nemico.<br />
Camminando, i due poeti scendono al quarto cerchio e giungono davanti a Pluto<br />
(del quale parleremo nel prossimo canto).
1-15<br />
«Pape Satàn, pape Satàn aleppe!»,<br />
cominciò Pluto con la voce chioccia;<br />
e quel savio gentil, che tutto seppe,<br />
disse per confortarmi: «Non ti noccia<br />
la tua paura; ché, poder ch'elli abbia,<br />
non ci torrà lo scender questa roccia».<br />
Poi si rivolse a quella 'nfiata labbia,<br />
e disse: «Taci, maladetto lupo!<br />
consuma dentro te con la tua rabbia.<br />
CANTO VII<br />
56<br />
Non è sanza cagion l'andare al cupo:<br />
vuolsi ne l'alto, là dove Michele<br />
fé la vendetta del superbo strupo».<br />
Quali dal vento le gonfiate vele<br />
caggiono avvolte, poi che l'alber fiacca,<br />
tal cadde a terra la fiera crudele.<br />
Pluto è il custode del quarto cerchio. Secondo la mitologia, era il dio della<br />
ricchezza, figlio di Giasone e di Cerere (da non confondere con Plutone, figlio di<br />
Saturno).<br />
Non appena scorge i due poeti, Pluto pronuncia una frase minacciosa ed oscura, ma<br />
Virgilio ne doma la rabbia, spiegando a quel guardiano che il loro viaggio<br />
nell’Inferno è stato voluto nel cielo, dove l’arcangelo Michele, che scacciò Lucifero<br />
dal Paradiso, vendicò la ribellione a Dio.<br />
16-60<br />
Così scendemmo ne la quarta lacca,<br />
pigliando più de la dolente ripa<br />
che 'l mal de l'universo tutto insacca.<br />
Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa<br />
nove travaglie e pene quant' io viddi?<br />
e perché nostra colpa sì ne scipa?<br />
Come fa l'onda là sovra Cariddi,<br />
che si frange con quella in cui s'intoppa,<br />
così convien che qui la gente riddi.<br />
Qui vid' i' gente più ch'altrove troppa,<br />
e d'una parte e d'altra, con grand' urli,<br />
voltando pesi per forza di poppa.<br />
Percotëansi 'ncontro; e poscia pur lì<br />
si rivolgea ciascun, voltando a retro,<br />
gridando: «Perché tieni?» e «Perché burli?»<br />
Così tornavan per lo cerchio tetro<br />
da ogne mano a l'opposito punto,<br />
gridandosi anche loro ontoso metro;<br />
poi si volgea ciascun, quand' era giunto,<br />
per lo suo mezzo cerchio a l'altra giostra.<br />
E io, ch'avea lo cor quasi compunto,<br />
dissi: «Maestro mio, or mi dimostra<br />
che gente è questa, e se tutti fuor cherci<br />
questi chercuti a la sinistra nostra».<br />
Ed elli a me: «Tutti quanti fuor guerci<br />
sì de la mente in la vita primaia,<br />
che con misura nullo spendio ferci.<br />
Assai la voce lor chiaro l'abbaia,<br />
quando vegnono a' due punti del cerchio<br />
dove colpa contraria li dispaia.<br />
Questi fuor cherci, che non han coperchio<br />
piloso al capo, e papi e cardinali,<br />
in cui usa avarizia il suo soperchio».<br />
E io: «Maestro, tra questi cotali<br />
dovre' io ben riconoscere alcuni<br />
che furo immondi di cotesti mali».<br />
Ed elli a me: «Vano pensiero aduni:<br />
la sconoscente vita che i fé sozzi,<br />
ad ogne conoscenza or li fa bruni.<br />
In etterno verranno a li due cozzi:<br />
questi resurgeranno del sepulcro<br />
col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi.
Mal dare e mal tener lo mondo pulcro<br />
ha tolto loro, e posti a questa zuffa:<br />
57<br />
qual ella sia, parole non ci appulcro.<br />
Quindi i due poeti entrano nel quarto cerchio, dove sono puniti gli avari e i<br />
prodighi. Questi dannati sono considerati i più numerosi dell’Inferno. Dante inoltre<br />
constata come molti dei dannati siano uomini di chiesa. Nel semicerchio di sinistra<br />
gli avari, in quello di destra i prodighi, si muovono velocemente e in tondo, tanto<br />
da sembrare ballare la ridda (un ballo dal ritmo vorticoso), spingendo col petto un<br />
masso pesante, scontrandosi gli uni con gli altri. Giunte al punto di incontro le due<br />
schiere di peccatori si rinfacciano vicendevolmente il loro peccato: «Perché trattieni<br />
il denaro?», «Perché lo sperperi?»; poi si volgono indietro, riprendendo a spingere<br />
il loro masso fino all’opposto punto d’incontro.<br />
Fra questi dannati Dante non riesce a riconoscere alcun volto; la conoscenza, infatti,<br />
cui gli avari e i prodighi hanno rinunciato con una vita senza misura (accaparrando<br />
troppo per gli avari e sperperando troppo per i prodighi), per contrappasso ora li<br />
rende irriconoscibili, affannati a portare avanti un inutile peso.<br />
61-66<br />
Or puoi, figliuol, veder la corta buffa<br />
d'i ben che son commessi a la fortuna,<br />
per che l'umana gente si rabuffa;<br />
ché tutto l'oro ch'è sotto la luna<br />
e che già fu, di quest' anime stanche<br />
non poterebbe farne posare una».<br />
A questo punto Dante, per bocca di Virgilio, introduce uno dei problemi più<br />
largamente dibattuti e sviluppati del pensiero medievale, quello della Fortuna<br />
(trattato, tra gli altri, da Severino Boezio nel II libro dell’opera intitolata De<br />
Consolatione Philosophiae).<br />
67-69<br />
«Maestro mio», diss‟io, «or mi dì anche:<br />
questa fortuna di che tu mi tocche,<br />
che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?»<br />
Dante domanda: «Maestro mio, ora dimmi anche: questa fortuna di cui mi fai<br />
accenno, che cosa è mai, per tenere tra le sue grinfie i beni del mondo?»<br />
70-71<br />
E quelli a me: «Oh creature sciocche,<br />
quanta ignoranza è quella che v‟offende!<br />
Virgilio gli risponde: «Oh uomini ingenui, quanto grande è l‟ignoranza che vi<br />
affligge!
Il non sapere le cose che si devono sapere (ignoranza) reca danno (offende)<br />
all’intelligenza.<br />
72<br />
Or vo‟ che tu mia sentenza ne „mbocche.<br />
Adesso voglio che tu (Dante) assimili bene la mia spiegazione: te la imbocco come si<br />
imbocca il cibo a un bambino.<br />
73-76<br />
Colui lo cui saver tutto trascende,<br />
fece li cieli e diè lor chi conduce<br />
sì, ch‟ogne parte ad ogne parte splende,<br />
distribuendo igualmente la luce.<br />
Colui che supera tutti i limiti della conoscenza (Dio), creò i cieli e stabilì chi li dovesse<br />
governare (cioè i cori angelici), cosicché allo splendore di ogni cielo corrisponde un<br />
coro angelico.<br />
77-78<br />
Similmente a li splendor mondani<br />
ordinò general ministra e duce<br />
Allo stesso modo, ai beni del mondo (ricchezze, fama, potenza, doti fisiche) prepose la<br />
Fortuna, che quindi amministra e guida i beni terreni come fanno i cori angelici<br />
rispetto ai cieli loro assegnati.<br />
79-81<br />
che permutasse a tempo li ben vani<br />
di gente in gente e d‟uno in altro sangue,<br />
oltre la difension d‟i senni umani;<br />
Dio fece sì che la Fortuna trasferisse di tanto in tanto i beni terreni (li ben vani) da<br />
un popolo all‟altro e da una famiglia all‟altra, senza che la forza umana potesse<br />
opporvisi.<br />
82-84<br />
58
per ch‟una gente impera e l‟altra langue,<br />
seguendo lo giudicio di costei,<br />
che è occulto come in erba l‟angue.<br />
<strong>La</strong> Fortuna si muove ed agisce con un criterio che è nascosto all‟uomo, così come<br />
rimane invisibile il serpente in mezzo all‟erba.<br />
85-87<br />
Vostro saver non ha contrasto a lei:<br />
questa provede, giudica, e persegue<br />
suo regno come il loro li altri dèi.<br />
<strong>La</strong> conoscenza umana non può opporsi alla Fortuna, la quale prevede, giudica e<br />
adempie all‟ufficio assegnatole da Dio come perseguono il loro regno le intelligenze<br />
angeliche.<br />
88-90<br />
Le sue permutazion non hanno triegue:<br />
necessità la fa esser veloce;<br />
sì spesso vien chi vicenda consegue.<br />
I cambiamenti operati dalla Fortuna sono senza sosta: la necessità di eseguire l‟ordine<br />
divino la induce a muoversi velocemente; perciò accade di frequente che a qualcuno<br />
tocchi a turno di cambiare la propria situazione.<br />
91-93<br />
Quest‟è colei ch‟è tanto posta in croce<br />
pur da color che le dovrien dar lode,<br />
dandole biasmo a torto o mala voce;<br />
Gli uomini maledicono, biasimano e diffamano la Fortuna, anche quelli che (per aver<br />
ricevuto i suoi benefici) dovrebbero lodarla.<br />
94-96<br />
ma ella s‟è beata e ciò non ode:<br />
con l‟altre prime creature lieta<br />
volve sua spera e beata si gode.<br />
59
Ma ella (la Fortuna) è beata e non si fa fuorviare dalle lagnanze umane: insieme alle<br />
intelligenze, imperturbabile, fa girare la sua sfera (cioè esegue il comando divino),<br />
beata nella sua attività.<br />
97-126<br />
Or discendiamo omai a maggior pieta;<br />
già ogne stella cade che saliva<br />
quand' io mi mossi, e 'l troppo star si vieta».<br />
Noi ricidemmo il cerchio a l'altra riva<br />
sovr' una fonte che bolle e riversa<br />
per un fossato che da lei deriva.<br />
L'acqua era buia assai più che persa;<br />
e noi, in compagnia de l'onde bige,<br />
intrammo giù per una via diversa.<br />
In la palude va c'ha nome Stige<br />
questo tristo ruscel, quand' è disceso<br />
al piè de le maligne piagge grige.<br />
E io, che di mirare stava inteso,<br />
vidi genti fangose in quel pantano,<br />
ignude tutte, con sembiante offeso.<br />
60<br />
Queste si percotean non pur con mano,<br />
ma con la testa e col petto e coi piedi,<br />
troncandosi co' denti a brano a brano.<br />
Lo buon maestro disse: «Figlio, or vedi<br />
l'anime di color cui vinse l'ira;<br />
e anche vo' che tu per certo credi<br />
che sotto l'acqua è gente che sospira,<br />
e fanno pullular quest' acqua al summo,<br />
come l'occhio ti dice, u' che s'aggira.<br />
Fitti nel limo dicon: "Tristi fummo<br />
ne l'aere dolce che dal sol s'allegra,<br />
portando dentro accidïoso fummo:<br />
or ci attristiam ne la belletta negra".<br />
Quest' inno si gorgoglian ne la strozza,<br />
ché dir nol posson con parola integra».<br />
È mezzanotte, e Virgilio fa notare a Dante che dal momento in cui si mosse dal<br />
Limbo per soccorrerlo nella selva oscura sono passate già dodici ore, e che devono<br />
riprendere subito il cammino, per non perdere tempo inutilmente.<br />
I due poeti attraversano il quarto cerchio fino al margine opposto, all’altezza di una<br />
sorgente dalle acque torbide, che pullula e scorre in un fossato, fino a sboccare nella<br />
palude che si chiama Stige. Qui ha sede il quinto cerchio, dove sono puniti gli<br />
iracondi, i quali sono di due tipi:<br />
a) i “pronti all’ira”, la cui ira è violenta ma di breve durata. Questi dannati,<br />
immersi nella palude Stigia, si colpiscono e si mordono ferocemente l’un<br />
l’altro;<br />
b) i “tristi” (tra cui gli accidiosi, gli invidiosi e i superbi), i quali covano la loro<br />
ira a lungo, come un pensiero fisso; essi meditano la vendetta in continuo, ma<br />
non passano a compierla. Completamente immersi nella melma, con i loro<br />
sospiri e le loro parole fanno gorgogliare la superficie della palude.<br />
127-130<br />
Così girammo de la lorda pozza<br />
grand' arco, tra la ripa secca e 'l mézzo,<br />
con li occhi vòlti a chi del fango ingozza.<br />
Venimmo al piè d'una torre al da sezzo.<br />
Poi i due poeti compiono un ampio giro lungo la riva e giungono ai piedi di una<br />
torre (di cui parleremo nel prossimo canto).
1-30<br />
Io dico, seguitando, ch'assai prima<br />
che noi fossimo al piè de l'alta torre,<br />
li occhi nostri n'andar suso a la cima<br />
per due fiammette che i vedemmo porre,<br />
e un'altra da lungi render cenno,<br />
tanto ch'a pena il potea l'occhio tòrre.<br />
E io mi volsi al mar di tutto 'l senno;<br />
dissi: «Questo che dice? e che risponde<br />
quell' altro foco? e chi son quei che 'l fenno?»<br />
Ed elli a me: «Su per le sucide onde<br />
già scorgere puoi quello che s'aspetta,<br />
se 'l fummo del pantan nol ti nasconde».<br />
Corda non pinse mai da sé saetta<br />
che sì corresse via per l'aere snella,<br />
com' io vidi una nave piccioletta<br />
CANTO VIII<br />
61<br />
venir per l'acqua verso noi in quella,<br />
sotto 'l governo d'un sol galeoto,<br />
che gridava: «Or se' giunta, anima fella!»<br />
«Flegïàs, Flegïàs, tu gridi a vòto»,<br />
disse lo mio segnore, «a questa volta:<br />
più non ci avrai che sol passando il loto».<br />
Qual è colui che grande inganno ascolta<br />
che li sia fatto, e poi se ne rammarca,<br />
fecesi Flegïàs ne l'ira accolta.<br />
Lo duca mio discese ne la barca,<br />
e poi mi fece intrare appresso lui;<br />
e sol quand' io fui dentro parve carca.<br />
Tosto che 'l duca e io nel legno fui,<br />
segando se ne va l'antica prora<br />
de l'acqua più che non suol con altrui.<br />
Una barca si avvicina verso i due poeti. A condurla è Flegiàs, personaggio<br />
mitologico cui Dante attribuisce la funzione di nocchiero dello Stige (un fiume<br />
paludoso e melmoso che circonda la città di Dite, della quale parleremo tra poco) e<br />
di custode del cerchio degli iracondi.<br />
Flegiàs era figlio di Ares (nome greco di Marte). Il dio Apollo gli oltraggiò la figlia,<br />
e lui, accecato dall’ira, incendiò il tempio del dio a Delfi, onde gli dèi lo<br />
condannarono al Tartaro alla pena di avere sospeso sopra la testa un enorme<br />
macigno, che sempre minacciava di schiacciarlo.<br />
Flegiàs rivolge parole minacciose all’indirizzo di Dante, ma Virgilio lo zittisce e lo<br />
costringe a traghettarli sulla palude melmosa.<br />
31-63<br />
Mentre noi corravam la morta gora,<br />
dinanzi mi si fece un pien di fango,<br />
e disse: «Chi se' tu che vieni anzi ora?»<br />
E io a lui: «S'i' vegno, non rimango;<br />
ma tu chi se', che sì se' fatto brutto?»<br />
Rispuose: «Vedi che son un che piango».<br />
E io a lui: «Con piangere e con lutto,<br />
spirito maladetto, ti rimani;<br />
ch'i' ti conosco, ancor sie lordo tutto».<br />
Allor distese al legno ambo le mani;<br />
per che 'l maestro accorto lo sospinse,<br />
dicendo: «Via costà con li altri cani!».<br />
Lo collo poi con le braccia mi cinse;<br />
basciommi 'l volto e disse: «Alma sdegnosa,<br />
benedetta colei che 'n te s'incinse!<br />
Quei fu al mondo persona orgogliosa;<br />
bontà non è che sua memoria fregi:<br />
così s'è l'ombra sua qui furïosa.<br />
Quanti si tegnon or là sù gran regi<br />
che qui staranno come porci in brago,<br />
di sé lasciando orribili dispregi!»<br />
E io: «Maestro, molto sarei vago<br />
di vederlo attuffare in questa broda<br />
prima che noi uscissimo del lago».
Ed elli a me: «Avante che la proda<br />
ti si lasci veder, tu sarai sazio:<br />
di tal disïo convien che tu goda».<br />
Dopo ciò poco vid' io quello strazio<br />
far di costui a le fangose genti,<br />
che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.<br />
62<br />
Tutti gridavano: «A Filippo Argenti!»;<br />
e 'l fiorentino spirito bizzarro<br />
in sé medesmo si volvea co' denti.<br />
Uno degli iracondi, immerso nella palude, domanda a Dante chi sia, rifiutando<br />
però di rivelare il proprio nome. Il poeta tuttavia lo riconosce: si tratta del<br />
fiorentino Filippo Argenti, uomo superbo e arrogante, appartenente a una delle più<br />
ricche e potenti famiglie del tempo di Dante.<br />
64-130<br />
Quivi il lasciammo, che più non ne narro;<br />
ma ne l'orecchie mi percosse un duolo,<br />
per ch'io avante l'occhio intento sbarro.<br />
Lo buon maestro disse: «Omai, figliuolo,<br />
s'appressa la città c'ha nome Dite,<br />
coi gravi cittadin, col grande stuolo».<br />
E io: «Maestro, già le sue meschite<br />
là entro certe ne la valle cerno,<br />
vermiglie come se di foco uscite<br />
fossero». Ed ei mi disse: «Il foco etterno<br />
ch'entro l'affoca le dimostra rosse,<br />
come tu vedi in questo basso inferno».<br />
Noi pur giugnemmo dentro a l'alte fosse<br />
che vallan quella terra sconsolata:<br />
le mura mi parean che ferro fosse.<br />
Non sanza prima far grande aggirata,<br />
venimmo in parte dove il nocchier forte<br />
«Usciteci», gridò: «qui è l'intrata».<br />
Io vidi più di mille in su le porte<br />
da ciel piovuti, che stizzosamente<br />
dicean: «Chi è costui che sanza morte<br />
va per lo regno de la morta gente?»<br />
E 'l savio mio maestro fece segno<br />
di voler lor parlar segretamente.<br />
Allor chiusero un poco il gran disdegno<br />
e disser: «Vien tu solo, e quei sen vada<br />
che sì ardito intrò per questo regno.<br />
Sol si ritorni per la folle strada:<br />
pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai,<br />
che li ha' iscorta sì buia contrada».<br />
Pensa, lettor, se io mi sconfortai<br />
nel suon de le parole maladette,<br />
ché non credetti ritornarci mai.<br />
«O caro duca mio, che più di sette<br />
volte m'hai sicurtà renduta e tratto<br />
d'alto periglio che 'ncontra mi stette,<br />
non mi lasciar», diss' io, «così disfatto;<br />
e se 'l passar più oltre ci è negato,<br />
ritroviam l'orme nostre insieme ratto».<br />
E quel segnor che lì m'avea menato,<br />
mi disse: «Non temer; ché 'l nostro passo<br />
non ci può tòrre alcun: da tal n'è dato.<br />
Ma qui m'attendi, e lo spirito lasso<br />
conforta e ciba di speranza buona,<br />
ch'i' non ti lascerò nel mondo basso».<br />
Così sen va, e quivi m'abbandona<br />
lo dolce padre, e io rimagno in forse,<br />
che sì e no nel capo mi tenciona.<br />
Udir non potti quello ch'a lor porse;<br />
ma ei non stette là con essi guari,<br />
che ciascun dentro a pruova si ricorse.<br />
Chiuser le porte que' nostri avversari<br />
nel petto al mio segnor, che fuor rimase<br />
e rivolsesi a me con passi rari.<br />
Li occhi a la terra e le ciglia avea rase<br />
d'ogne baldanza, e dicea ne' sospiri:<br />
«Chi m'ha negate le dolenti case!»<br />
E a me disse: «Tu, perch' io m'adiri,<br />
non sbigottir, ch'io vincerò la prova,<br />
qual ch'a la difension dentro s'aggiri.<br />
Questa lor tracotanza non è nova;<br />
ché già l'usaro a men segreta porta,<br />
la qual sanza serrame ancor si trova.<br />
Sovr' essa vedestù la scritta morta:<br />
e già di qua da lei discende l'erta,<br />
passando per li cerchi sanza scorta,<br />
tal che per lui ne fia la terra aperta».
Quindi i due poeti giungono davanti alle mura della “città di Dite”, che contiene i<br />
cerchi dal sesto al nono, quelli in cui sono puniti i peccati più gravi, quelli cioè<br />
commessi con violenza o con malizia (v. Introduzione all‟Inferno). I cerchi dal sesto al<br />
nono sono compresi nel “Basso Inferno”.<br />
Questa parte dell’Inferno prende il nome da Dite, nome latino di Ade, custode del<br />
Regno degli Inferi presso i pagani. Qui Dite si identifica con Lucifero.<br />
<strong>La</strong> struttura della città di Dite somiglia a un castello medievale, con mura di difesa,<br />
fossati, torri. Davanti alle porte di Dite tantissimi diavoli (angeli cacciati dal cielo<br />
perché si ribellarono) impediscono l’entrata ai due poeti. I diavoli chiamano in<br />
disparte Virgilio, e gli manifestano il loro rifiuto di farli entrare nella città.<br />
63
1-33<br />
Quel color che viltà di fuor mi pinse<br />
veggendo il duca mio tornare in volta,<br />
più tosto dentro il suo novo ristrinse.<br />
Attento si fermò com' uom ch'ascolta;<br />
ché l'occhio nol potea menare a lunga<br />
per l'aere nero e per la nebbia folta.<br />
«Pur a noi converrà vincer la punga»,<br />
cominciò el, «se non... Tal ne s'offerse.<br />
Oh quanto tarda a me ch'altri qui giunga!»<br />
I' vidi ben sì com' ei ricoperse<br />
lo cominciar con l'altro che poi venne,<br />
che fur parole a le prime diverse;<br />
ma nondimen paura il suo dir dienne,<br />
perch' io traeva la parola tronca<br />
forse a peggior sentenzia che non tenne.<br />
«In questo fondo de la trista conca<br />
discende mai alcun del primo grado,<br />
che sol per pena ha la speranza cionca?»<br />
CANTO IX<br />
64<br />
Questa question fec' io; e quei «Di rado<br />
incontra», mi rispuose, «che di noi<br />
faccia il cammino alcun per qual io vado.<br />
Ver è ch'altra fïata qua giù fui,<br />
congiurato da quella Eritón cruda<br />
che richiamava l'ombre a' corpi sui.<br />
Di poco era di me la carne nuda,<br />
ch'ella mi fece intrar dentr' a quel muro,<br />
per trarne un spirto del cerchio di Giuda.<br />
Quell' è 'l più basso loco e 'l più oscuro,<br />
e 'l più lontan dal ciel che tutto gira:<br />
ben so 'l cammin; però ti fa sicuro.<br />
Questa palude che 'l gran puzzo spira<br />
cigne dintorno la città dolente,<br />
u' non potemo intrare omai sanz' ira».<br />
Per un po’ Virgilio rimane addolorato per essergli stato negato l’accesso alla città di<br />
Dite; ma poi egli cancella tale stato d’animo, mostrandosi sereno e ottimista agli<br />
occhi di Dante, per non peggiorare il suo turbamento.<br />
Dante desidera sapere se alcuno mai abbia varcato la porta della città di Dite, per<br />
ricavare un certo conforto da un’esperienza precedentemente tentata con esito<br />
positivo. Non chiede direttamente a Virgilio se abbia compiuto altra volta questo<br />
viaggio, ma pone la sua domanda in maniera generica, per non mostrare sfiducia<br />
verso il maestro.<br />
Virgilio gli risponde che già un’altra volta, poco dopo la propria morte, lui venne<br />
qui, essendo stato scongiurato da Eritone, crudele maga che aveva il potere di far<br />
tornare le anime ai loro corpi; il motivo di quel viaggio era quello di prelevare uno<br />
spirito che scontava la sua pena nella parte più bassa dell’Inferno.<br />
34-60<br />
E altro disse, ma non l'ho a mente;<br />
però che l'occhio m'avea tutto tratto<br />
ver' l'alta torre a la cima rovente,<br />
dove in un punto furon dritte ratto<br />
tre furïe infernal di sangue tinte,<br />
che membra feminine avieno e atto,<br />
e con idre verdissime eran cinte;<br />
serpentelli e ceraste avien per crine,<br />
onde le fiere tempie erano avvinte.<br />
E quei, che ben conobbe le meschine<br />
de la regina de l'etterno pianto,<br />
«Guarda», mi disse, «le feroci Erine.<br />
Quest' è Megera dal sinistro canto;<br />
quella che piange dal destro è Aletto;<br />
Tesifón è nel mezzo»; e tacque a tanto.<br />
Con l'unghie si fendea ciascuna il petto;<br />
battiensi a palme e gridavan sì alto,<br />
ch'i' mi strinsi al poeta per sospetto.
«Vegna Medusa: sì 'l farem di smalto»,<br />
dicevan tutte riguardando in giuso;<br />
«mal non vengiammo in Tesëo l'assalto».<br />
«Volgiti 'n dietro e tien lo viso chiuso;<br />
ché se 'l Gorgón si mostra e tu 'l vedessi,<br />
nulla sarebbe di tornar mai suso».<br />
65<br />
Così disse 'l maestro; ed elli stessi<br />
mi volse, e non si tenne a le mie mani,<br />
che con le sue ancor non mi chiudessi.<br />
A un certo punto si drizzano improvvisamente le tre “Furie”, nome romano delle<br />
Erinni della mitologia greca, che l’antica leggenda immaginò sorelle. Queste hanno<br />
arti e atteggiamenti da donna, serpenti verdissimi fanno loro da cintura, serpenti<br />
piccoli e grossi formano i capelli. Le Erinni erano serve di Proserpina, moglie di<br />
Plutone (altro nome romano di Ade) e sovrana dell’Inferno pagano. Secondo alcuni<br />
commentatori esse simboleggiano i tre mali che ancora i due poeti devono visitare:<br />
la matta bestialità (VII cerchio), la frode (VIII cerchio), il tradimento (IX cerchio).<br />
Le tre Furie si graffiano il petto, si percuotono con le palme delle mani e gridano<br />
fortemente. In coro dicono: «Venga Medusa, così lo faremo pietrificare (riferendosi a<br />
Dante)».<br />
Medusa era una delle tre Gorgoni, figlie del dio marino Forco. Fu uccisa da Perseo,<br />
che le tagliò il capo, col quale, anche dopo morta, pietrificava chiunque la<br />
guardasse. Medusa rappresenterebbe secondo alcuni il terrore, poiché Dante è<br />
impedito soprattutto dal terrore di procedere nel cammino, che rende l’uomo come<br />
di pietra, incapace di agire.<br />
Virgilio avverte il suo discepolo di coprirsi gli occhi con le mani per non guardare<br />
Medusa e, non nutrendo completa fiducia che Dante esegua l’ordine impartito, vi<br />
sovrappone anche le proprie mani. Questo gesto allegorico significa che la ragione<br />
non è sufficiente da sola a penetrare nell’ordine soprannaturale, ma è necessario il<br />
dono della grazia, indicata nel simbolismo del Messo celeste (che tra poco<br />
vedremo).<br />
61-63<br />
O voi c‟avete li „ntelletti sani,<br />
mirate la dottrina che s‟asconde<br />
sotto „l velame de li versi strani.<br />
In questa terzina Dante si rivolge ai lettori della <strong>Divina</strong> <strong>Commedia</strong> che non hanno<br />
l’intelletto traviato dall’errore, avvertendoli che devono riuscire a cogliere non<br />
tanto il significato letterale dei versi che lui scrive, quanto quello morale, che è<br />
velato perché i versi contengono allegorie e quindi possono apparire a prima vista<br />
misteriosi (strani).<br />
64-133
E già venìa su per le torbide onde<br />
un fracasso d'un suon, pien di spavento,<br />
per cui tremavano amendue le sponde,<br />
non altrimenti fatto che d'un vento<br />
impetüoso per li avversi ardori,<br />
che fier la selva e sanz' alcun rattento<br />
li rami schianta, abbatte e porta fori;<br />
dinanzi polveroso va superbo,<br />
e fa fuggir le fiere e li pastori.<br />
Li occhi mi sciolse e disse: «Or drizza il nerbo<br />
del viso su per quella schiuma antica<br />
per indi ove quel fummo è più acerbo».<br />
Come le rane innanzi a la nimica<br />
biscia per l'acqua si dileguan tutte,<br />
fin ch'a la terra ciascuna s'abbica,<br />
vid' io più di mille anime distrutte<br />
fuggir così dinanzi ad un ch'al passo<br />
passava Stige con le piante asciutte.<br />
Dal volto rimovea quell' aere grasso,<br />
menando la sinistra innanzi spesso;<br />
e sol di quell' angoscia parea lasso.<br />
Ben m'accorsi ch'elli era da ciel messo,<br />
e volsimi al maestro; e quei fé segno<br />
ch'i' stessi queto ed inchinassi ad esso.<br />
Ahi quanto mi parea pien di disdegno!<br />
Venne a la porta e con una verghetta<br />
l'aperse, che non v'ebbe alcun ritegno.<br />
«O cacciati del ciel, gente dispetta»,<br />
cominciò elli in su l'orribil soglia,<br />
«ond' esta oltracotanza in voi s'alletta?<br />
Perché recalcitrate a quella voglia<br />
a cui non puote il fin mai esser mozzo,<br />
e che più volte v'ha cresciuta doglia?<br />
Che giova ne le fata dar di cozzo?<br />
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,<br />
ne porta ancor pelato il mento e 'l gozzo».<br />
66<br />
Poi si rivolse per la strada lorda,<br />
e non fé motto a noi, ma fé sembiante<br />
d'omo cui altra cura stringa e morda<br />
che quella di colui che li è davante;<br />
e noi movemmo i piedi inver' la terra,<br />
sicuri appresso le parole sante.<br />
Dentro li 'ntrammo sanz' alcuna guerra;<br />
e io, ch'avea di riguardar disio<br />
la condizion che tal fortezza serra,<br />
com' io fui dentro, l'occhio intorno invio:<br />
e veggio ad ogne man grande campagna,<br />
piena di duolo e di tormento rio.<br />
Sì come ad Arli, ove Rodano stagna,<br />
sì com' a Pola, presso del Carnaro<br />
ch'Italia chiude e suoi termini bagna,<br />
fanno i sepulcri tutt' il loco varo,<br />
così facevan quivi d'ogne parte,<br />
salvo che 'l modo v'era più amaro;<br />
ché tra li avelli fiamme erano sparte,<br />
per le quali eran sì del tutto accesi,<br />
che ferro più non chiede verun' arte.<br />
Tutti li lor coperchi eran sospesi,<br />
e fuor n'uscivan sì duri lamenti,<br />
che ben parean di miseri e d'offesi.<br />
E io: «Maestro, quai son quelle genti<br />
che, seppellite dentro da quell' arche,<br />
si fan sentir coi sospiri dolenti?»<br />
E quelli a me: «Qui son li eresïarche<br />
con lor seguaci, d'ogne setta, e molto<br />
più che non credi son le tombe carche.<br />
Simile qui con simile è sepolto,<br />
e i monimenti son più e men caldi».<br />
E poi ch'a la man destra si fu vòlto,<br />
passammo tra i martìri e li alti spaldi.<br />
Quindi appare il Messo celeste (un angelo), il quale cammina sulla palude Stigia<br />
sfiorando l’acqua, come se camminasse sulla terra, senza bagnarsi: questo è un<br />
segno dell’intervento prodigioso.<br />
Costui con uno scettro (segno di autorità) apre la porta della città di Dite senza<br />
alcuna resistenza, cosicché i due poeti possono entrare.<br />
Ai loro occhi si presenta un grande spazio in cui sono disseminate tante tombe,<br />
ciascuna circondata dalle fiamme: siamo nel sesto cerchio, dove sono puniti i capi<br />
di sette eretiche e i loro seguaci.<br />
Per “eresia” si intende una dottrina contraria alle verità fondamentali proposte<br />
dalla Chiesa cattolica.
Ad ogni setta è assegnato un luogo. I sepolcri, secondo la gravità dell’eresia, sono<br />
più o meno infuocati. I sepolcri sono aperti, e ne fuoriescono i duri lamenti dei<br />
dannati che vi giacciono dentro.<br />
67
1-12<br />
Ora sen va per un secreto calle,<br />
tra 'l muro de la terra e li martìri,<br />
lo mio maestro, e io dopo le spalle.<br />
«O virtù somma, che per li empi giri<br />
mi volvi», cominciai, «com' a te piace,<br />
parlami, e sodisfammi a' miei disiri.<br />
CANTO X<br />
68<br />
<strong>La</strong> gente che per li sepolcri giace<br />
potrebbesi veder? già son levati<br />
tutt' i coperchi, e nessun guardia face».<br />
E quelli a me: «Tutti saran serrati<br />
quando di Iosafàt qui torneranno<br />
coi corpi che là sù hanno lasciati.<br />
Virgilio spiega a Dante che i sepolcri degli eretici saranno chiusi per sempre<br />
quando le anime torneranno con i loro corpi dalla Valle di Giosafat (a<br />
Gerusalemme), dove avverrà il Giudizio Universale.<br />
Nel libro del Vecchio Testamento intitolato Gioele (IV, 1-2) è scritto: [Parola del<br />
Signore, rivolta a Gioele]… “Poiché, ecco, in quei giorni e in quel tempo (cioè nei giorni<br />
del Giudizio Universale), quando avrò fatto tornare i prigionieri di Giuda e<br />
Gerusalemme, riunirò tutte le nazioni e le farò scendere nella valle di Giòsafat, e là verrò a<br />
giudizio con loro…”<br />
In lingua ebraica “Giosafat” significa “Dio giudicherà”. Secondo una credenza nata<br />
nel IV secolo d.C., da un’estremità all’altra della valle appariranno due ponti, uno<br />
di ferro e uno di carta, e in base al giudizio di Dio ogni persona (esclusi gli eretici e,<br />
come vedremo nel XIII canto, i suicidi) verrà indirizzata verso uno dei due: il ponte<br />
di ferro crollerà, e tutte le persone che lo attraverseranno moriranno nel crollo,<br />
mentre il ponte di carta reggerà e coloro che lo attraverseranno saranno avviati alla<br />
vita eterna.<br />
<strong>La</strong> chiusura definitiva dei sepolcri degli eretici impedirà a questi di riunire il corpo<br />
all’anima.<br />
13-21<br />
Suo cimitero da questa parte hanno<br />
con Epicuro tutti suoi seguaci,<br />
che l'anima col corpo morta fanno.<br />
Però a la dimanda che mi faci<br />
quinc' entro satisfatto sarà tosto,<br />
e al disio ancor che tu mi taci».<br />
E io: «Buon duca, non tegno riposto<br />
a te mio cuor se non per dicer poco,<br />
e tu m'hai non pur mo a ciò disposto».<br />
I due poeti stanno attraversando la parte del sesto cerchio occupata dai sepolcri<br />
degli Epicurei, che rappresentano una delle sette degli eretici.<br />
Epicuro era un filosofo greco del IV secolo a.C. Egli ritenne che l’anima, “una<br />
sostanza corporea composta di sottili particelle, diffusa per tutto l’organismo”,<br />
essendo materiale è mortale come il corpo. Secondo Epicuro la felicità è possibile se<br />
si assume come positivo canone di vita il piacere, nel suo senso fisiologico. Il<br />
piacere risulta soprattutto una soppressione del dolore, che si ottiene innanzi tutto
soddisfacendo gli stimoli primari come la fame e la sete. Se il piacere è eliminazione<br />
dello stimolo, vivere nel piacere, cioè essere felici, significa soprattutto eliminare<br />
quei bisogni che non possono essere soddisfatti e vincere quei timori che<br />
impediscono un sereno godimento del piacere. Uno di questi timori da sopprimere<br />
è quello della morte. Secondo Epicuro la morte non esiste, è un’assenza pura: non è<br />
una malattia, ma è la fine di ogni malattia, così come di ogni piacere, del resto.<br />
Dante considera la dottrina di Epicuro tra le più degne dell’antichità; la sua<br />
condanna riguarda solo la parte di questa dottrina che nega l’immortalità<br />
dell’anima.<br />
22-51<br />
«O Tosco che per la città del foco<br />
vivo ten vai così parlando onesto,<br />
piacciati di restare in questo loco.<br />
<strong>La</strong> tua loquela ti fa manifesto<br />
di quella nobil patrïa natio,<br />
a la qual forse fui troppo molesto».<br />
Subitamente questo suono uscìo<br />
d'una de l'arche; però m'accostai,<br />
temendo, un poco più al duca mio.<br />
Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai?<br />
Vedi là Farinata che s'è dritto:<br />
da la cintola in sù tutto 'l vedrai».<br />
Io avea già il mio viso nel suo fitto;<br />
ed el s'ergea col petto e con la fronte<br />
com' avesse l'inferno a gran dispitto.<br />
E l'animose man del duca e pronte<br />
mi pinser tra le sepulture a lui,<br />
dicendo: «Le parole tue sien conte».<br />
Com' io al piè de la sua tomba fui,<br />
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,<br />
mi dimandò: «Chi fuor li maggior tui?»<br />
Io ch'era d'ubidir disideroso,<br />
non gliel celai, ma tutto gliel' apersi;<br />
ond' ei levò le ciglia un poco in suso;<br />
poi disse: «Fieramente furo avversi<br />
a me e a miei primi e a mia parte,<br />
sì che per due fïate li dispersi».<br />
69
«S'ei fur cacciati, ei tornar d'ogne parte»,<br />
rispuos' io lui, «l'una e l'altra fïata;<br />
ma i vostri non appreser ben quell' arte».<br />
Una voce esce da un sepolcro chiedendo a Dante di fermarsi perché dall’accento<br />
l’ha riconosciuto come fiorentino. <strong>La</strong> voce è quella di Farinata degli Uberti. Questi<br />
fu capo politico e militare dei Ghibellini fiorentini. Nel 1248 cacciò di città i Guelfi,<br />
che però tre anni dopo ritornarono, cacciando a loro volta in esilio i Ghibellini.<br />
Farinata, con l’appoggio soprattutto di Manfredi (re di Sicilia), dei Senesi e dei<br />
Pisani, mosse contro la lega guelfa (che comprendeva, oltre a Firenze, altre città del<br />
Centro-Nord Italia) e nella sanguinosa battaglia di Montaperti (1260), presso il<br />
fiume Arbia, li sconfisse. I vincitori si riunirono nella Dieta di Empoli, dove<br />
Farinata fu il solo che si oppose alla proposta di chi, per sancire la vittoria definitiva<br />
su Firenze, voleva che ne fosse decretata la distruzione. Dopo che Firenze tornò in<br />
mano ai Guelfi, Farinata e i suoi alleati subirono un processo postumo e furono<br />
condannati per eresia.<br />
52-72<br />
Allor surse a la vista scoperchiata<br />
un'ombra, lungo questa, infino al mento:<br />
credo che s'era in ginocchie levata.<br />
Dintorno mi guardò, come talento<br />
avesse di veder s'altri era meco;<br />
e poi che 'l sospecciar fu tutto spento,<br />
piangendo disse: «Se per questo cieco<br />
carcere vai per altezza d'ingegno,<br />
mio figlio ov' è? e perché non è teco?»<br />
E io a lui: «Da me stesso non vegno:<br />
colui ch'attende là, per qui mi mena<br />
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno».<br />
70<br />
Le sue parole e 'l modo de la pena<br />
m'avean di costui già letto il nome;<br />
però fu la risposta così piena.<br />
Di sùbito drizzato gridò: «Come?<br />
dicesti "elli ebbe"? non viv' elli ancora?<br />
non fiere li occhi suoi lo dolce lume?»<br />
Quando s'accorse d'alcuna dimora<br />
ch'io facëa dinanzi a la risposta,<br />
supin ricadde e più non parve fora.<br />
Un altro dannato (anche lui epicureo) si solleva dal suo sepolcro: è Cavalcante de’<br />
Cavalcanti che, riconosciuto in Dante l’amico di suo figlio Guido (pure lui poeta),<br />
domanda perché anche a suo figlio, che non è da meno di Dante nell’ingegno, non<br />
sia stato concesso il privilegio del viaggio nell’aldilà.<br />
Dante non fornisce una pronta risposta: questo indugio è interpretato da<br />
Cavalcante come la conferma al proprio dubbio, e cioè che Guido è morto. Così<br />
Cavalcante ricade nel sepolcro vinto dal dolore per la sua errata convinzione.<br />
73-120<br />
Ma quell' altro magnanimo, a cui posta<br />
restato m'era, non mutò aspetto,<br />
né mosse collo, né piegò sua costa;<br />
e sé continüando al primo detto,<br />
«S'elli han quell' arte», disse, «male appresa,<br />
ciò mi tormenta più che questo letto.
Ma non cinquanta volte fia raccesa<br />
la faccia de la donna che qui regge,<br />
che tu saprai quanto quell' arte pesa.<br />
E se tu mai nel dolce mondo regge,<br />
dimmi: perché quel popolo è sì empio<br />
incontr' a' miei in ciascuna sua legge?»<br />
Ond' io a lui: «Lo strazio e 'l grande scempio<br />
che fece l'Arbia colorata in rosso,<br />
tal orazion fa far nel nostro tempio».<br />
Poi ch'ebbe sospirando il capo mosso,<br />
«A ciò non fu' io sol», disse, «né certo<br />
sanza cagion con li altri sarei mosso.<br />
Ma fu' io solo, là dove sofferto<br />
fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,<br />
colui che la difesi a viso aperto».<br />
«Deh, se riposi mai vostra semenza»,<br />
prega' io lui, «solvetemi quel nodo<br />
che qui ha 'nviluppata mia sentenza.<br />
El par che voi veggiate, se ben odo,<br />
dinanzi quel che 'l tempo seco adduce,<br />
e nel presente tenete altro modo».<br />
71<br />
«Noi veggiam, come quei c'ha mala luce,<br />
le cose», disse, «che ne son lontano;<br />
cotanto ancor ne splende il sommo duce.<br />
Quando s'appressano o son, tutto è vano<br />
nostro intelletto; e s'altri non ci apporta,<br />
nulla sapem di vostro stato umano.<br />
Però comprender puoi che tutta morta<br />
fia nostra conoscenza da quel punto<br />
che del futuro fia chiusa la porta».<br />
Allor, come di mia colpa compunto,<br />
dissi: «Or direte dunque a quel caduto<br />
che 'l suo nato è co' vivi ancor congiunto;<br />
e s'i' fui, dianzi, a la risposta muto,<br />
fate i saper che 'l fei perché pensava<br />
già ne l'error che m'avete soluto».<br />
E già 'l maestro mio mi richiamava;<br />
per ch'i' pregai lo spirto più avaccio<br />
che mi dicesse chi con lu' istava.<br />
Dissemi: «Qui con più di mille giaccio:<br />
qua dentro è 'l secondo Federico<br />
e 'l Cardinale; e de li altri mi taccio».<br />
Ripresa la parola, Farinata predice a Dante che entro cinquanta mesi anche lui<br />
conoscerà la desolazione dell’esilio.<br />
A Dante allora sorge un dubbio: se Farinata conosce il futuro di Dante, e cioè il suo<br />
esilio, perché Cavalcante ignora il presente (se cioè suo figlio Guido sia o no ancora<br />
vivo)?<br />
Farinata gli spiega che i dannati sono come i presbiti, che vedono da lontano, ma<br />
non riescono a vedere da vicino; quindi i dannati sono in grado di vedere i fatti che<br />
accadranno tra molto tempo, ma non quelli che sono sul punto di accedere né quelli<br />
presenti.<br />
121-136<br />
Indi s'ascose; e io inver' l'antico<br />
poeta volsi i passi, ripensando<br />
a quel parlar che mi parea nemico.<br />
Elli si mosse; e poi, così andando,<br />
mi disse: «Perché se' tu sì smarrito?»<br />
E io li sodisfeci al suo dimando.<br />
«<strong>La</strong> mente tua conservi quel ch'udito<br />
hai contra te», mi comandò quel saggio;<br />
«e ora attendi qui», e drizzò 'l dito:<br />
«quando sarai dinanzi al dolce raggio<br />
di quella il cui bell' occhio tutto vede,<br />
da lei saprai di tua vita il vïaggio».<br />
Appresso mosse a man sinistra il piede:<br />
lasciammo il muro e gimmo inver' lo mezzo<br />
per un sentier ch'a una valle fiede,<br />
che 'nfin là sù facea spiacer suo lezzo.<br />
Dante è rattristato dalla profezia di Farinata, ma Virgilio lo conforta dicendogli che<br />
solo Beatrice (in quanto scienza teologica) potrà risolvergli ogni dubbio e spiegargli<br />
il corso della sua vita.
Così i due poeti riprendono il cammino e si dirigono verso il settimo cerchio.<br />
72
1-21<br />
In su l'estremità d'un'alta ripa<br />
che facevan gran pietre rotte in cerchio,<br />
venimmo sopra più crudele stipa;<br />
e quivi, per l'orribile soperchio<br />
del puzzo che 'l profondo abisso gitta,<br />
ci raccostammo, in dietro, ad un coperchio<br />
d'un grand' avello, ov' io vidi una scritta<br />
che dicea: 'Anastasio papa guardo,<br />
lo qual trasse Fotin de la via dritta'.<br />
«Lo nostro scender conviene esser tardo,<br />
sì che s'ausi un poco in prima il senso<br />
al tristo fiato; e poi no i fia riguardo».<br />
CANTO XI<br />
73<br />
Così 'l maestro; e io «Alcun compenso»,<br />
dissi lui, «trova che 'l tempo non passi<br />
perduto». Ed elli: «Vedi ch'a ciò penso».<br />
«Figliuol mio, dentro da cotesti sassi»,<br />
cominciò poi a dir, «son tre cerchietti<br />
di grado in grado, come que' che lassi.<br />
Tutti son pien di spirti maladetti;<br />
ma perché poi ti basti pur la vista,<br />
intendi come e perché son costretti.<br />
I due poeti si trovano sulla sommità dell’argine circolare tra il sesto e il settimo<br />
cerchio, quando li investe un enorme puzzo che sale dalla parte inferiore<br />
dell’Inferno. Virgilio decide così di indugiare un po’ prima di scendere al settimo<br />
cerchio, affinché l’olfatto si abitui al fetore. Dante chiede al maestro che il tempo di<br />
questa attesa venga utilmente speso: nella sua vita reale Dante ha sempre attribuito<br />
al tempo un grande significato.<br />
D’accordo con la richiesta del suo discepolo, Virgilio sfrutta quella pausa per<br />
cominciare a spiegargli la suddivisione dei tre cerchi rimanenti, quelli cioè dal<br />
settimo al nono.<br />
22-27<br />
D‟ogne malizia, ch‟odio in cielo acquista<br />
ingiuria è „l fine, ed ogne fin cotale<br />
o con forza o con frode altrui contrista.<br />
Ma perché frode è de l‟uom proprio male,<br />
più spiace a Dio; e però stan di sutto<br />
li frodolenti, e più dolor li assale.<br />
Il fine di ogni peccato commesso con malizia, che procura al suo autore il<br />
risentimento di Dio, è l’ingiustizia, la quale arreca danno o con la violenza o con la<br />
frode. Ma poiché la frode è una malvagità propria dell’uomo (in quanto richiede<br />
l’uso della ragione) è maggiormente disapprovata da Dio; e perciò i fraudolenti<br />
sono considerati i più gravi peccatori, e come tali condannati nel punto più basso<br />
dell’Inferno.
Questo concetto è tratto dal De officiis di Cicerone (I, 13): In due modi si può recare<br />
offesa: con la violenza e con la frode […]; indegnissime l‟una e l‟altra dell‟uomo, ma la frode<br />
è assai più odiosa […]<br />
28-51<br />
Di vïolenti il primo cerchio è tutto;<br />
ma perché si fa forza a tre persone,<br />
in tre gironi è distinto e costrutto.<br />
A Dio, a sé, al prossimo si pòne<br />
far forza, dico in loro e in lor cose,<br />
come udirai con aperta ragione.<br />
Morte per forza e ferute dogliose<br />
nel prossimo si danno, e nel suo avere<br />
ruine, incendi e tollette dannose;<br />
onde omicide e ciascun che mal fiere,<br />
guastatori e predon, tutti tormenta<br />
lo giron primo per diverse schiere.<br />
74<br />
Puote omo avere in sé man vïolenta<br />
e ne' suoi beni; e però nel secondo<br />
giron convien che sanza pro si penta<br />
qualunque priva sé del vostro mondo,<br />
biscazza e fonde la sua facultade,<br />
e piange là dov' esser de' giocondo.<br />
Puossi far forza ne la deïtade,<br />
col cor negando e bestemmiando quella,<br />
e spregiando natura e sua bontade;<br />
e però lo minor giron suggella<br />
del segno suo e Soddoma e Caorsa<br />
e chi, spregiando Dio col cor, favella.<br />
Nel settimo cerchio sono puniti i violenti. Questo cerchio è diviso in tre gironi: nel<br />
primo girone stanno i violenti contro il prossimo, nel secondo i violenti contro se<br />
stessi e nel terzo i violenti contro Dio.<br />
Agiscono contro il prossimo coloro che commettono omicidio o feriscono<br />
gravemente gli altri o ne distruggono i beni o commettono ruberie ed estorsioni.<br />
L’uomo può agire contro se stesso o con il suicidio o scialacquando i propri beni;<br />
l’elemento che distingue questi peccatori dai prodighi è la violenza con cui<br />
distruggono i propri beni.<br />
I violenti contro Dio agiscono o direttamente contro di Lui oppure indirettamente,<br />
agendo contro la natura (che è opera Sua). Fanno violenza diretta contro Dio coloro<br />
che lo negano nel loro cuore e coloro che non riconoscendone la superiorità lo<br />
maledicono. Fanno violenza contro la natura, e quindi indirettamente verso Dio, i<br />
sodomiti e gli usurai. I sodomiti sono i peccatori di lussuria contro natura; il nome<br />
deriva dalla città di Sodoma, che sorgeva presso il Mar Morto e che fu distrutta dal<br />
fuoco celeste per punirne gli abominevoli vizi (cfr. Genesi, XIX).<br />
52-66<br />
<strong>La</strong> frode, ond' ogne coscïenza è morsa,<br />
può l'omo usare in colui che 'n lui fida<br />
e in quel che fidanza non imborsa.<br />
Questo modo di retro par ch'incida<br />
pur lo vinco d'amor che fa natura;<br />
onde nel cerchio secondo s'annida<br />
ipocresia, lusinghe e chi affattura,<br />
falsità, ladroneccio e simonia,<br />
ruffian, baratti e simile lordura.<br />
Per l'altro modo quell' amor s'oblia<br />
che fa natura, e quel ch'è poi aggiunto,<br />
di che la fede spezïal si cria;<br />
onde nel cerchio minore, ov' è 'l punto<br />
de l'universo in su che Dite siede,<br />
qualunque trade in etterno è consunto».
Negli ultimi due cerchi dell’Inferno (l’ottavo e il nono) sono puniti coloro che<br />
hanno commesso il peccato della frode. Questa si può esercitare o contro chi non si<br />
fida oppure contro chi si fida; in quest’ultimo caso la frode si trasforma in un<br />
peccato ancora più grave, il tradimento.<br />
Coloro che frodano le persone che non si fidano sono i fraudolenti veri e propri, e<br />
sono puniti nel secondo dei tre cerchi di cui si sta trattando (l’ottavo dell’Inferno).<br />
Questo cerchio è diviso in dieci bolge (che vedremo una per una nei prossimi canti).<br />
Coloro che invece frodano le persone che nutrono fiducia in loro sono i traditori, e<br />
sono puniti nel cerchio rimanente (il nono dell’Inferno).<br />
67-90<br />
E io: «Maestro, assai chiara procede<br />
la tua ragione, e assai ben distingue<br />
questo baràtro e 'l popol ch'e' possiede.<br />
Ma dimmi: quei de la palude pingue,<br />
che mena il vento, e che batte la pioggia,<br />
e che s'incontran con sì aspre lingue,<br />
perché non dentro da la città roggia<br />
sono ei puniti, se Dio li ha in ira?<br />
e se non li ha, perché sono a tal foggia?»<br />
Ed elli a me «Perché tanto delira»,<br />
disse, «lo 'ngegno tuo da quel che sòle?<br />
o ver la mente dove altrove mira?<br />
75<br />
Non ti rimembra di quelle parole<br />
con le quai la tua Etica pertratta<br />
le tre disposizion che 'l ciel non vole,<br />
incontenenza, malizia e la matta<br />
bestialitade? e come incontenenza<br />
men Dio offende e men biasimo accatta?<br />
Se tu riguardi ben questa sentenza,<br />
e rechiti a la mente chi son quelli<br />
che sù di fuor sostegnon penitenza,<br />
tu vedrai ben perché da questi felli<br />
sien dipartiti, e perché men crucciata<br />
la divina vendetta li martelli».<br />
A questo punto Dante domanda al maestro per quale motivo coloro che in vita<br />
peccarono di incontinenza (lussuriosi, golosi, avari e prodighi, iracondi, accidiosi)<br />
sono condannati fuori della città di Dite, con pene meno dure. Virgilio rimane<br />
meravigliato di questa domanda, in quanto Dante dovrebbe conoscere bene il<br />
motivo di questa suddivisione delle pene nell’Inferno, perché ha letto e appreso<br />
bene la filosofia di Aristotele. Quest’ultimo nella sua Etica, infatti, tratta delle tre<br />
disposizioni che Dio non tollera: l’incontinenza, la matta bestialità e la malizia.<br />
Dante al posto della matta bestialità usa il termine “violenza”, e al posto della<br />
malizia usa il termine “frode”. Pertanto per Dante le tre disposizioni che Dio non<br />
tollera sono: l’incontinenza, la violenza e la frode. L’incontinenza è la forma di<br />
colpa meno grave, perché è solo frutto della passione e si limita a un abuso delle<br />
facoltà possedute. Invece i peccati di violenza e, soprattutto, i peccati di frode sono<br />
più gravi, perché commessi con la partecipazione della volontà e della conoscenza<br />
dell’atto peccaminoso.<br />
91-93<br />
«O sol che sani ogne vista turbata,<br />
tu mi contenti sì quando tu solvi,
che, non men che saver, dubbiar m‟aggrata.<br />
Dante si rivolge a Virgilio con parole di devozione: lo chiama “Sole” che raddrizza<br />
ogni giudizio (vista) errato, e gli esprime la propria gioia nell’ascoltare le sue<br />
spiegazioni; questa gioia è tale che il non sapere le cose gli è gradito come il saperle,<br />
appunto per il piacere di ascoltare da lui le spiegazioni delle cose che non sa.<br />
94-111<br />
Ancora in dietro un poco ti rivolvi»,<br />
diss' io, «là dove di' ch'usura offende<br />
la divina bontade, e 'l groppo solvi».<br />
«Filosofia», mi disse, «a chi la 'ntende,<br />
nota, non pure in una sola parte,<br />
come natura lo suo corso prende<br />
dal divino 'ntelletto e da sua arte;<br />
e se tu ben la tua Fisica note,<br />
tu troverai, non dopo molte carte,<br />
76<br />
che l'arte vostra quella, quanto pote,<br />
segue, come 'l maestro fa 'l discente;<br />
sì che vostr' arte a Dio quasi è nepote.<br />
Da queste due, se tu ti rechi a mente<br />
lo Genesì dal principio, convene<br />
prender sua vita e avanzar la gente;<br />
e perché l'usuriere altra via tene,<br />
per sé natura e per la sua seguace<br />
dispregia, poi ch'in altro pon la spene.<br />
Infine Dante domanda al maestro per quale motivo gli usurai sono considerati<br />
violenti contro Dio e non piuttosto violenti contro il prossimo. Per rispondere a<br />
questa domanda Virgilio fa ricorso ancora una volta alla filosofia di Aristotele, ed<br />
esattamente alla Fisica, nella quale si sostiene che l’uomo deve ricavare i mezzi per<br />
vivere solo dalla natura e dal suo lavoro. «Tra l’altro», dice Virgilio, «nel Genesi<br />
della Bibbia (III, 19) Dio assegna all’uomo il compito di lavorare (Con il sudore del<br />
tuo volto mangerai il pane…). Gli usurai offendono la divina bontà perché ricavano il<br />
loro sostentamento né dalla natura né dal lavoro, bensì lo traggono dal danaro,<br />
contravvenendo così all’ordine predisposto da Dio.»<br />
112-115<br />
Ma seguimi oramai che 'l gir mi piace;<br />
ché i Pesci guizzan su per l'orizzonta,<br />
e 'l Carro tutto sovra 'l Coro giace,<br />
e 'l balzo via là oltra si dismonta».<br />
Sono le tre di notte e Virgilio invita Dante a riprendere il cammino.
1-21<br />
Era lo loco ov' a scender la riva<br />
venimmo, alpestro e, per quel che v'er' anco,<br />
tal, ch'ogne vista ne sarebbe schiva.<br />
Qual è quella ruina che nel fianco<br />
di qua da Trento l'Adice percosse,<br />
o per tremoto o per sostegno manco,<br />
che da cima del monte, onde si mosse,<br />
al piano è sì la roccia discoscesa,<br />
ch'alcuna via darebbe a chi sù fosse:<br />
cotal di quel burrato era la scesa;<br />
e 'n su la punta de la rotta lacca<br />
l'infamïa di Creti era distesa<br />
CANTO XII<br />
77<br />
che fu concetta ne la falsa vacca;<br />
e quando vide noi, sé stesso morse,<br />
sì come quei cui l'ira dentro fiacca.<br />
Lo savio mio inver' lui gridò: «Forse<br />
tu credi che qui sia 'l duca d'Atene,<br />
che sù nel mondo la morte ti porse?<br />
Pàrtiti, bestia, ché questi non vene<br />
ammaestrato da la tua sorella,<br />
ma vassi per veder le vostre pene».<br />
I due poeti giungono davanti al settimo cerchio, il cui guardiano è il Minotauro.<br />
Nella mitologia greca questo era un mostro metà uomo e metà toro. Era nato dal<br />
mostruoso amore di Pasifae, regina di Creta e moglie di Minosse, per un toro.<br />
Secondo il mito, il Minotauro era rinchiuso nel <strong>La</strong>birinto, un palazzo formato da un<br />
inestricabile susseguirsi di camere, corridoi, sale, finti ingressi e finte porte, in<br />
modo tale che al suo interno era inevitabile perdersi, e quindi impossibile uscirne. Il<br />
re degli Ateniesi, Egeo, aveva ucciso Androgeo, figlio di Minosse; per vendetta<br />
quest’ultimo obbligò gli Ateniesi a consegnare una volta all’anno quattordici<br />
giovani, sette maschi e sette femmine, da dare in pasto al Minotauro. Il figlio di<br />
Egeo, Teseo, si recò a Creta per liberare la sua patria da questo tributo annuale,<br />
entrò nel <strong>La</strong>birinto e uccise il Minotauro; Teseo poté poi uscire dal <strong>La</strong>birinto grazie<br />
a un filo datogli da Arianna, figlia di Minosse, che si era innamorata di lui.<br />
Qui il Minotauro, vinto da un istinto che non riesce a domare, morde se stesso.<br />
Questo mostro raffigura la violenza, che offuscando la ragione riduce l’uomo simile<br />
a bestia.<br />
22-48<br />
Qual è quel toro che si slaccia in quella<br />
c'ha ricevuto già 'l colpo mortale,<br />
che gir non sa, ma qua e là saltella,<br />
vid' io lo Minotauro far cotale;<br />
e quello accorto gridò: «Corri al varco;<br />
mentre ch'e' 'nfuria, è buon che tu ti cale».<br />
Così prendemmo via giù per lo scarco<br />
di quelle pietre, che spesso moviensi<br />
sotto i miei piedi per lo novo carco.<br />
Io gia pensando; e quei disse: «Tu pensi<br />
forse a questa ruina, ch'è guardata<br />
da quell' ira bestial ch'i' ora spensi.<br />
Or vo' che sappi che l'altra fïata<br />
ch'i' discesi qua giù nel basso inferno,<br />
questa roccia non era ancor cascata.<br />
Ma certo poco pria, se ben discerno,<br />
che venisse colui che la gran preda<br />
levò a Dite del cerchio superno,
da tutte parti l'alta valle feda<br />
tremò sì, ch'i' pensai che l'universo<br />
sentisse amor, per lo qual è chi creda<br />
più volte il mondo in caòsso converso;<br />
e in quel punto questa vecchia roccia,<br />
qui e altrove, tal fece riverso.<br />
78<br />
Ma ficca li occhi a valle, ché s'approccia<br />
la riviera del sangue in la qual bolle<br />
qual che per vïolenza in altrui noccia».<br />
Approfittando di un momento in cui il Minotauro si allontana dal suo posto di<br />
guardia in preda alla furia dovuta alla loro presenza, i due poeti attraversano il<br />
varco ed entrano nel primo girone del settimo cerchio, dove sono puniti i violenti<br />
contro il prossimo e le sue cose.<br />
Virgilio dice che la prima volta che lui scese all’Inferno (cfr. Inf., IX) le pareti<br />
rocciose che cingono il settimo cerchio erano ancora integre, mentre ora appaiono<br />
spaccate in seguito al violento terremoto che scosse l’Inferno al momento della<br />
morte di Cristo.<br />
49-51<br />
Oh cieca cupidigia e ira folle,<br />
che sì ci sproni ne la vita corta,<br />
e ne l‟etterna poi sì mal c‟immolle!<br />
Dante vede il raccapricciante spettacolo dei dannati immersi nel Flegetonte, il fiume<br />
di sangue bollente, e dentro di sé esclama: «Oh insaziabile cupidigia dei beni<br />
materiali e animalesca violenza, che nella vita terrena tentate noi uomini in modo<br />
così intenso, ma nella vita ultraterrena poi ci riducete a una condizione così misera<br />
e dolorosa di dannati immersi nel fiume di sangue bollente!»<br />
52-75<br />
Io vidi un'ampia fossa in arco torta,<br />
come quella che tutto 'l piano abbraccia,<br />
secondo ch'avea detto la mia scorta;<br />
e tra 'l piè de la ripa ed essa, in traccia<br />
corrien centauri, armati di saette,<br />
come solien nel mondo andare a caccia.<br />
Veggendoci calar, ciascun ristette,<br />
e de la schiera tre si dipartiro<br />
con archi e asticciuole prima elette;<br />
e l'un gridò da lungi: «A qual martiro<br />
venite voi che scendete la costa?<br />
Ditel costinci; se non, l'arco tiro».<br />
Lo mio maestro disse: «<strong>La</strong> risposta<br />
farem noi a Chirón costà di presso:<br />
mal fu la voglia tua sempre sì tosta».<br />
Poi mi tentò, e disse: «Quelli è Nesso,<br />
che morì per la bella Deianira,<br />
e fé di sé la vendetta elli stesso.<br />
E quel di mezzo, ch'al petto si mira,<br />
è il gran Chirón, il qual nodrì Achille;<br />
quell' altro è Folo, che fu sì pien d'ira.<br />
Dintorno al fosso vanno a mille a mille,<br />
saettando qual anima si svelle<br />
del sangue più che sua colpa sortille».<br />
Per la legge del contrappasso, come in vita questi dannati furono assetati di sangue,<br />
così ora nel sangue sono immersi. I guardiani di questo girone del settimo cerchio
sono i Centauri, i quali colpiscono con i dardi quei dannati che per trovar sollievo al<br />
loro tormento tentano di trarsi fuori dal fiume bollente.<br />
I Centauri erano mostri mitologici dai costumi rozzi e brutali, con la parte superiore<br />
del corpo di uomo e la restante parte di cavallo. Un centauro, Chirone, a differenza<br />
degli altri, era molto amico degli uomini, saggio e benevolo; educò Achille e altri<br />
eroi e semidèi, come i Dioscuri e Teseo. Forse per questa sua natura Dante lo pone a<br />
capo dei centauri dell’Inferno.<br />
Qui i Centauri simboleggiano i soldati e i mercenari, che sono gli strumenti delle<br />
violenze dei tiranni.<br />
76-99<br />
Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle:<br />
Chirón prese uno strale, e con la cocca<br />
fece la barba in dietro a le mascelle.<br />
Quando s'ebbe scoperta la gran bocca,<br />
disse a' compagni: «Siete voi accorti<br />
che quel di retro move ciò ch'el tocca?<br />
Così non soglion far li piè d'i morti».<br />
E 'l mio buon duca, che già li er' al petto,<br />
dove le due nature son consorti,<br />
rispuose: «Ben è vivo, e sì soletto<br />
mostrar li mi convien la valle buia;<br />
necessità 'l ci 'nduce, e non diletto.<br />
79<br />
Tal si partì da cantare alleluia<br />
che mi commise quest' officio novo:<br />
non è ladron, né io anima fuia.<br />
Ma per quella virtù per cu' io movo<br />
li passi miei per sì selvaggia strada,<br />
danne un de' tuoi, a cui noi siamo a provo,<br />
e che ne mostri là dove si guada,<br />
e che porti costui in su la groppa,<br />
ché non è spirto che per l'aere vada».<br />
Chirón si volse in su la destra poppa,<br />
e disse a Nesso: «Torna, e sì li guida,<br />
e fa cansar s'altra schiera v'intoppa».<br />
Chirone nota che sotto i piedi di Dante i sassi rotolano: da ciò egli deduce che il<br />
poeta è vivo. Virgilio gli spiega che l’incarico di guidare Dante vivo tra i morti gli<br />
fu ordinato da Beatrice, venuta apposta dal Paradiso, dove si canta l’”alleluia”.<br />
Questa parola deriva dall’ebraico, ed è composta dal verbo hallelu (=lodate) e<br />
dall’abbreviazione Iah per Iahweh (= il Signore).<br />
Su richiesta di Virgilio, Chirone incarica Nesso (altro famoso centauro della<br />
mitologia classica, il quale fu ucciso da Eracle perché aveva tentato di rapire sua<br />
moglie Deianira) di guidarli e di portare Dante (che non essendo un’anima non<br />
vola) sulla groppa.<br />
100-102<br />
Or ci movemmo con la scorta fida<br />
lungo la proda del bollor vermiglio,<br />
dove i bolliti facieno alte strida.<br />
Guidati da Nesso i due poeti si muovono lungo la riva del fiume di sangue<br />
bollente, nel quale i dannati che vi sono immersi lanciano forti urla di dolore.
103-139<br />
Io vidi gente sotto infino al ciglio;<br />
e 'l gran centauro disse: «E' son tiranni<br />
che dier nel sangue e ne l'aver di piglio.<br />
Quivi si piangon li spietati danni;<br />
quivi è Alessandro, e Dïonisio fero<br />
che fé Cicilia aver dolorosi anni.<br />
E quella fronte c'ha 'l pel così nero,<br />
è Azzolino; e quell' altro ch'è biondo,<br />
è Opizzo da Esti, il qual per vero<br />
fu spento dal figliastro sù nel mondo».<br />
Allor mi volsi al poeta, e quei disse:<br />
«Questi ti sia or primo, e io secondo».<br />
Poco più oltre il centauro s'affisse<br />
sovr' una gente che 'nfino a la gola<br />
parea che di quel bulicame uscisse.<br />
Mostrocci un'ombra da l'un canto sola,<br />
dicendo: «Colui fesse in grembo a Dio<br />
lo cor che 'n su Tamisi ancor si cola».<br />
80<br />
Poi vidi gente che di fuor del rio<br />
tenean la testa e ancor tutto 'l casso;<br />
e di costoro assai riconobb' io.<br />
Così a più a più si facea basso<br />
quel sangue, sì che cocea pur li piedi;<br />
e quindi fu del fosso il nostro passo.<br />
«Sì come tu da questa parte vedi<br />
lo bulicame che sempre si scema»,<br />
disse 'l centauro, «voglio che tu credi<br />
che da quest' altra a più a più giù prema<br />
lo fondo suo, infin ch'el si raggiunge<br />
ove la tirannia convien che gema.<br />
<strong>La</strong> divina giustizia di qua punge<br />
quell' Attila che fu flagello in terra,<br />
e Pirro e Sesto; e in etterno munge<br />
le lagrime, che col bollor diserra,<br />
a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo,<br />
che fecero a le strade tanta guerra».<br />
Poi si rivolse e ripassossi 'l guazzo.<br />
Durante il percorso, Nesso fa notare ai due poeti che i dannati sono più o meno<br />
immersi nel Flegetonte, a seconda delle loro colpe. Questo tipo di pena a Dante fu<br />
probabilmente ispirato dalla lettura della Visio sancti Pauli, opera letteraria di<br />
autore anonimo.<br />
Più si è immersi, più la colpa è considerata grave:<br />
immersi sino agli occhi sono i tiranni, che fecero violenza ai loro sudditi<br />
uccidendoli e spogliandoli della loro roba;<br />
immersi sino alla gola sono gli altri omicidi;<br />
immersi sino alla cintola sono i feritori, i devastatori e i predoni.<br />
Giunti nel punto in cui il livello del Flegetonte è talmente basso che può essere<br />
guadato a piedi, Nesso lascia i due poeti e torna indietro.
1-21<br />
Non era ancor di là Nesso arrivato,<br />
quando noi ci mettemmo per un bosco<br />
che da neun sentiero era segnato.<br />
Non fronda verde, ma di color fosco;<br />
non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti;<br />
non pomi v'eran, ma stecchi con tòsco.<br />
Non han sì aspri sterpi né sì folti<br />
quelle fiere selvagge che 'n odio hanno<br />
tra Cecina e Corneto i luoghi cólti.<br />
Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,<br />
che cacciar de le Strofade i Troiani<br />
con tristo annunzio di futuro danno.<br />
CANTO XIII<br />
81<br />
Ali hanno late, e colli e visi umani,<br />
piè con artigli, e pennuto 'l gran ventre;<br />
fanno lamenti in su li alberi strani.<br />
E 'l buon maestro «Prima che più entre,<br />
sappi che se' nel secondo girone»,<br />
mi cominciò a dire, «e sarai mentre<br />
che tu verrai ne l'orribil sabbione.<br />
Però riguarda ben; sì vederai<br />
cose che torrien fede al mio sermone».<br />
Guadato il fiume Flegetonte, Dante e Virgilio si incamminano in un bosco<br />
impervio, nel quale gli alberi hanno rami secchi, nodosi e contorti, e anziché frutti<br />
commestibili hanno spine velenose. Siamo nel secondo girone del settimo cerchio,<br />
dove sono puniti i violenti contro se stessi e le proprie cose. I guardiani di questo<br />
girone sono le Arpìe, che secondo la tradizione mitologica sono in numero di tre.<br />
Esse hanno volto di donna e corpo di uccelli rapaci, con grandi ali e artigli ai piedi;<br />
hanno i loro nidi tra questi alberi ed emettono strani lamenti.<br />
22-69<br />
Io sentia d'ogne parte trarre guai<br />
e non vedea persona che 'l facesse;<br />
per ch'io tutto smarrito m'arrestai.<br />
Cred' ïo ch'ei credette ch'io credesse<br />
che tante voci uscisser, tra quei bronchi,<br />
da gente che per noi si nascondesse.<br />
Però disse 'l maestro: «Se tu tronchi<br />
qualche fraschetta d'una d'este piante,<br />
li pensier c'hai si faran tutti monchi».<br />
Allor porsi la mano un poco avante<br />
e colsi un ramicel da un gran pruno;<br />
e 'l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?»<br />
Da che fatto fu poi di sangue bruno,<br />
ricominciò a dir: «Perché mi scerpi?<br />
non hai tu spirto di pietade alcuno?<br />
Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:<br />
ben dovrebb' esser la tua man più pia,<br />
se state fossimo anime di serpi».<br />
Come d'un stizzo verde ch'arso sia<br />
da l'un de' capi, che da l'altro geme<br />
e cigola per vento che va via,<br />
sì de la scheggia rotta usciva insieme<br />
parole e sangue; ond' io lasciai la cima<br />
cadere, e stetti come l'uom che teme.<br />
«S'elli avesse potuto creder prima»,<br />
rispuose 'l savio mio, «anima lesa,<br />
ciò c'ha veduto pur con la mia rima,<br />
non averebbe in te la man distesa;<br />
ma la cosa incredibile mi fece<br />
indurlo ad ovra ch'a me stesso pesa.<br />
Ma dilli chi tu fosti, sì che 'n vece<br />
d'alcun' ammenda tua fama rinfreschi<br />
nel mondo sù, dove tornar li lece».<br />
E 'l tronco: «Sì col dolce dir m'adeschi,<br />
ch'i' non posso tacere; e voi non gravi<br />
perch' ïo un poco a ragionar m'inveschi.
Io son colui che tenni ambo le chiavi<br />
del cor di Federigo, e che le volsi,<br />
serrando e diserrando, sì soavi,<br />
che dal secreto suo quasi ogn' uom tolsi;<br />
fede portai al glorïoso offizio,<br />
tanto ch'i' ne perde' li sonni e ' polsi.<br />
82<br />
<strong>La</strong> meretrice che mai da l'ospizio<br />
di Cesare non torse li occhi putti,<br />
morte comune e de le corti vizio,<br />
infiammò contra me li animi tutti;<br />
e li 'nfiammati infiammar sì Augusto,<br />
che ' lieti onor tornaro in tristi lutti.<br />
Dante sente dei gemiti umani, ma non vede intorno anime che possano emetterli.<br />
Virgilio allora lo invita a spezzare da uno degli alberi un ramoscello; ma appena lo<br />
fa, dal tronco interessato comincia a sgorgare sangue e sente un grido di dolore.<br />
Dall’albero esce una voce: è quella di Pier delle Vigne, oratore e scrittore<br />
appartenente alla scuola poetica siciliana sviluppatasi alla corte di Federico II di<br />
Svevia. Quest’ultimo lo nominò gran cancelliere imperiale. Sotto l’accusa di<br />
tradimento, Piero fu arrestato e trasportato a San Miniato, presso Pisa, dove nel<br />
1249 si uccise.<br />
Pier delle Vigne proclama ai due poeti di non aver mancato alla fede prestata<br />
nell’incarico più degno e onorato della corte, e attribuisce la sua rovina all’invidia<br />
dei cortigiani, i quali suscitarono a tal punto la diffidenza dell’imperatore Federico<br />
nei suoi confronti che gli onori si tramutarono in sospetti e persecuzioni.<br />
70-72<br />
L‟animo mio, per disdegnoso gusto,<br />
credendo col morir fuggir disdegno,<br />
ingiusto fece me contra me giusto.<br />
Chi parla è sempre Pier delle Vigne, il quale dice che il proprio animo, mosso da<br />
uno spirito di amara ribellione, illudendosi di sfuggire con la morte all’ingiusto<br />
disprezzo e all’ira del sovrano e dell’opinione pubblica, lo indusse a peccare<br />
commettendo ingiuria contro se stesso (con il suicidio), lui che fino ad allora era<br />
stato la vittima innocente della calunnia.<br />
73-108<br />
Per le nove radici d'esto legno<br />
vi giuro che già mai non ruppi fede<br />
al mio segnor, che fu d'onor sì degno.<br />
E se di voi alcun nel mondo riede,<br />
conforti la memoria mia, che giace<br />
ancor del colpo che 'nvidia le diede».<br />
Un poco attese, e poi «Da ch'el si tace»,<br />
disse 'l poeta a me, «non perder l'ora;<br />
ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace».<br />
Ond' ïo a lui: «Domandal tu ancora<br />
di quel che credi ch'a me satisfaccia;<br />
ch'i' non potrei, tanta pietà m'accora».<br />
Perciò ricominciò: «Se l'om ti faccia<br />
liberamente ciò che 'l tuo dir priega,<br />
spirito incarcerato, ancor ti piaccia<br />
di dirne come l'anima si lega<br />
in questi nocchi; e dinne, se tu puoi,<br />
s'alcuna mai di tai membra si spiega».
Allor soffiò il tronco forte, e poi<br />
si convertì quel vento in cotal voce:<br />
«Brievemente sarà risposto a voi.<br />
Quando si parte l'anima feroce<br />
dal corpo ond' ella stessa s'è disvelta,<br />
Minòs la manda a la settima foce.<br />
Cade in la selva, e non l'è parte scelta;<br />
ma là dove fortuna la balestra,<br />
quivi germoglia come gran di spelta.<br />
83<br />
Surge in vermena e in pianta silvestra:<br />
l'Arpie, pascendo poi de le sue foglie,<br />
fanno dolore, e al dolor fenestra.<br />
Come l'altre verrem per nostre spoglie,<br />
ma non però ch'alcuna sen rivesta,<br />
ché non è giusto aver ciò ch'om si toglie.<br />
Qui le strascineremo, e per la mesta<br />
selva saranno i nostri corpi appesi,<br />
ciascuno al prun de l'ombra sua molesta».<br />
<strong>La</strong> morte non era stata una soluzione giovevole all’innocenza di Piero: gli avversari<br />
ne avevano tratto motivo di implicita confessione e di vergogna.<br />
A un certo punto Piero spiega come i suicidi si trasformino in piante: dopo il<br />
giudizio di Minosse che, come già detto, è il giudice infernale, i colpevoli di<br />
violenza contro se stessi sono scagliati a caso, come semi, nella selva del secondo<br />
girone del settimo cerchio, dove subito crescono come spinose piante selvatiche. Le<br />
Arpìe tormentano i dannati nutrendosi delle loro foglie, provocando così loro ferite<br />
e dolori.<br />
Per contrappasso, questi dannati, avendo infranto con il suicidio l’unità di corpo e<br />
anima voluta da Dio, sono privati del corpo umano e rivestono un corpo di natura<br />
inferiore, cioè quello vegetale. Dopo il Giudizio Universale la pena per i suicidi sarà<br />
ancora più dura: essi torneranno come tutti gli altri dannati dalla Valle di Giosafat<br />
con il loro corpo, ma invece di rivestirlo lo dovranno appendere ai rami del proprio<br />
albero. Proprio in ciò consiste l’aggravarsi della pena per i suicidi: l’impossibilità di<br />
riprendere il proprio corpo (pena condivisa con gli eretici: cfr. commento ai vv. 1-12<br />
del X canto). Il motivo di questa condanna è che l’uomo non è l’autore della propria<br />
vita, e perciò non ha il diritto di togliersela. Pertanto l’uomo, piuttosto che scegliere<br />
la via del suicidio, deve seguire il valore umano e cristiano della sofferenza.<br />
109-151<br />
Noi eravamo ancora al tronco attesi,<br />
credendo ch'altro ne volesse dire,<br />
quando noi fummo d'un romor sorpresi,<br />
similemente a colui che venire<br />
sente 'l porco e la caccia a la sua posta,<br />
ch'ode le bestie, e le frasche stormire.<br />
Ed ecco due da la sinistra costa,<br />
nudi e graffiati, fuggendo sì forte,<br />
che de la selva rompieno ogne rosta.<br />
Quel dinanzi: «Or accorri, accorri, morte!»<br />
E l'altro, cui pareva tardar troppo,<br />
gridava: «<strong>La</strong>no, sì non furo accorte<br />
le gambe tue a le giostre dal Toppo!»<br />
E poi che forse li fallia la lena,<br />
di sé e d'un cespuglio fece un groppo.<br />
Di rietro a loro era la selva piena<br />
di nere cagne, bramose e correnti<br />
come veltri ch'uscisser di catena.<br />
In quel che s'appiattò miser li denti,<br />
e quel dilaceraro a brano a brano;<br />
poi sen portar quelle membra dolenti.<br />
Presemi allor la mia scorta per mano,<br />
e menommi al cespuglio che piangea<br />
per le rotture sanguinenti in vano.<br />
«O Iacopo», dicea, «da Santo Andrea,<br />
che t'è giovato di me fare schermo?<br />
che colpa ho io de la tua vita rea?»<br />
Quando 'l maestro fu sovr' esso fermo,<br />
disse: «Chi fosti, che per tante punte<br />
soffi con sangue doloroso sermo?»
Ed elli a noi: «O anime che giunte<br />
siete a veder lo strazio disonesto<br />
c'ha le mie fronde sì da me disgiunte,<br />
raccoglietele al piè del tristo cesto.<br />
I' fui de la città che nel Batista<br />
mutò 'l primo padrone; ond' ei per questo<br />
84<br />
sempre con l'arte sua la farà trista;<br />
e se non fosse che 'n sul passo d'Arno<br />
rimane ancor di lui alcuna vista,<br />
que' cittadin che poi la rifondarno<br />
sovra 'l cener che d'Attila rimase,<br />
avrebber fatto lavorare indarno.<br />
Io fei gibetto a me de le mie case».<br />
Mentre ancora stanno dialogando con Pier delle Vigne, i due poeti sono sorpresi da<br />
un violento rumore di corsa e latrati di cani. Ai loro occhi appaiono i violenti contro<br />
le proprie cose (gli scialacquatori) che fuggono nudi nella selva, inseguiti da cagne<br />
nere e fameliche. Nel fare questo gli scialacquatori graffiano se stessi e spezzano i<br />
rami delle piante, provocando sofferenza ai suicidi. Le cagne fameliche<br />
raggiungono gli scialacquatori e li sbranano senza sosta; gli animali disperdono poi<br />
le loro membra, come loro smembrarono e distrussero i propri beni.
1-15<br />
Poi che la carità del natio loco<br />
mi strinse, raunai le fronde sparte<br />
e rende'le a colui, ch'era già fioco.<br />
Indi venimmo al fine ove si parte<br />
lo secondo giron dal terzo, e dove<br />
si vede di giustizia orribil arte.<br />
A ben manifestar le cose nove,<br />
dico che arrivammo ad una landa<br />
che dal suo letto ogne pianta rimove.<br />
CANTO XIV<br />
85<br />
<strong>La</strong> dolorosa selva l'è ghirlanda<br />
intorno, come 'l fosso tristo ad essa;<br />
quivi fermammo i passi a randa a randa.<br />
Lo spazzo era una rena arida e spessa,<br />
non d'altra foggia fatta che colei<br />
che fu da' piè di Caton già soppressa.<br />
I due poeti giungono a una pianura sabbiosa e priva di piante, la quale è la sede del<br />
terzo girone del settimo cerchio, in cui sono puniti i violenti contro Dio. Questa<br />
pianura è circondata tutt’intorno dalla selva dei suicidi.<br />
16-18<br />
O vendetta di Dio, quanto tu dei<br />
esser temuta da ciascun che legge<br />
ciò che fu manifesto a li occhi mei!<br />
Per “vendetta di Dio” Dante intende la giustizia divina, che punisce i peccatori. Il<br />
poeta in questa terzina dice: “Chi legge questi versi che descrivono ciò che io vidi<br />
(cioè la penosa condizione dei dannati di questo girone) proverà sicuramente un<br />
grande timore di te, oh giustizia divina!” Con questi richiami (si ricordi anche<br />
quello fatto con i versi 49-51 del canto XII) Dante, rivolgendosi al lettore, adempie<br />
ad uno dei fini del poema, quello esortativo.<br />
19-72<br />
D'anime nude vidi molte gregge<br />
che piangean tutte assai miseramente,<br />
e parea posta lor diversa legge.<br />
Supin giacea in terra alcuna gente,<br />
alcuna si sedea tutta raccolta,<br />
e altra andava continüamente.<br />
Quella che giva 'ntorno era più molta,<br />
e quella men che giacëa al tormento,<br />
ma più al duolo avea la lingua sciolta.<br />
Sovra tutto 'l sabbion, d'un cader lento,<br />
piovean di foco dilatate falde,<br />
come di neve in alpe sanza vento.<br />
Quali Alessandro in quelle parti calde<br />
d'Indïa vide sopra 'l süo stuolo<br />
fiamme cadere infino a terra salde,<br />
per ch'ei provide a scalpitar lo suolo<br />
con le sue schiere, acciò che lo vapore<br />
mei si stingueva mentre ch'era solo:<br />
tale scendeva l'etternale ardore;<br />
onde la rena s'accendea, com' esca<br />
sotto focile, a doppiar lo dolore.<br />
Sanza riposo mai era la tresca<br />
de le misere mani, or quindi or quinci<br />
escotendo da sé l'arsura fresca.
I' cominciai: «Maestro, tu che vinci<br />
tutte le cose, fuor che ' demon duri<br />
ch'a l'intrar de la porta incontra uscinci,<br />
chi è quel grande che non par che curi<br />
lo 'ncendio e giace dispettoso e torto,<br />
sì che la pioggia non par che 'l marturi?»<br />
E quel medesmo, che si fu accorto<br />
ch'io domandava il mio duca di lui,<br />
gridò: «Qual io fui vivo, tal son morto.<br />
Se Giove stanchi 'l suo fabbro da cui<br />
crucciato prese la folgore aguta<br />
onde l'ultimo dì percosso fui;<br />
o s'elli stanchi li altri a muta a muta<br />
in Mongibello a la focina negra,<br />
chiamando “Buon Vulcano, aiuta, aiuta!”,<br />
86<br />
sì com' el fece a la pugna di Flegra,<br />
e me saetti con tutta sua forza:<br />
non ne potrebbe aver vendetta allegra».<br />
Allora il duca mio parlò di forza<br />
tanto, ch'i' non l'avea sì forte udito:<br />
«O Capaneo, in ciò che non s'ammorza<br />
la tua superbia, se' tu più punito;<br />
nullo martiro, fuor che la tua rabbia,<br />
sarebbe al tuo furor dolor compito».<br />
Poi si rivolse a me con miglior labbia,<br />
dicendo: «Quei fu l'un d'i sette regi<br />
ch'assiser Tebe; ed ebbe e par ch'elli abbia<br />
Dio in disdegno, e poco par che 'l pregi;<br />
ma, com' io dissi lui, li suoi dispetti<br />
sono al suo petto assai debiti fregi.<br />
Dopo l’esortazione rivolta ai lettori della <strong>Divina</strong> <strong>Commedia</strong>, il poeta descrive lo<br />
stato dei dannati di questo girone, che sono tutti nudi, piangenti ed esposti ad una<br />
pioggia di fuoco che, cadendo, incendia anche la distesa di sabbia.<br />
Il terzo girone del settimo cerchio ha una triplice suddivisione:<br />
i bestemmiatori (che fanno violenza diretta contro Dio), i quali sono distesi<br />
supini; essi sono considerati, dei tre gruppi, i maggiori colpevoli e sono<br />
anche quelli meno numerosi;<br />
i sodomiti (che fanno violenza alla natura, e quindi violenza indiretta contro<br />
Dio), i quali sono costretti a camminare senza mai fermarsi e sono i più<br />
numerosi;<br />
gli usurai (che fanno violenza alla natura e all’arte, e quindi violenza<br />
indiretta a Dio), i quali stanno seduti raccolti in se stessi per offrire meno<br />
bersaglio alla pioggia di fuoco (infatti la loro colpa è considerata meno grave<br />
di quella dei bestemmiatori).<br />
Le fiamme cadono lente e larghe come fiocchi di neve: il contrasto con una<br />
refrigerante nevicata risulta più efficace e terribile; inoltre, la lentezza con cui le<br />
fiamme cadono, contribuisce a renderle più larghe e quindi più infuocate. <strong>La</strong><br />
pioggia di fuoco è stata suggerita a Dante dal ricordo del Genesi della Bibbia, in cui<br />
è narrata la fine delle due città viziose di Sodoma e Gomorra, distrutte dalle<br />
fiamme lanciate da Dio.<br />
73-142<br />
Or mi vien dietro, e guarda che non metti,<br />
ancor, li piedi ne la rena arsiccia;<br />
ma sempre al bosco tien li piedi stretti».<br />
Tacendo divenimmo là 've spiccia<br />
fuor de la selva un picciol fiumicello,<br />
lo cui rossore ancor mi raccapriccia.<br />
Quale del Bulicame esce ruscello<br />
che parton poi tra lor le peccatrici,<br />
tal per la rena giù sen giva quello.<br />
Lo fondo suo e ambo le pendici<br />
fatt' era 'n pietra, e ' margini da lato;<br />
per ch'io m'accorsi che 'l passo era lici.
«Tra tutto l'altro ch'i' t'ho dimostrato,<br />
poscia che noi intrammo per la porta<br />
lo cui sogliare a nessuno è negato,<br />
cosa non fu da li tuoi occhi scorta<br />
notabile com' è 'l presente rio,<br />
che sovra sé tutte fiammelle ammorta».<br />
Queste parole fuor del duca mio;<br />
per ch'io 'l pregai che mi largisse 'l pasto<br />
di cui largito m'avëa il disio.<br />
«In mezzo mar siede un paese guasto»,<br />
diss' elli allora, «che s'appella Creta,<br />
sotto 'l cui rege fu già 'l mondo casto.<br />
Una montagna v'è che già fu lieta<br />
d'acqua e di fronde, che si chiamò Ida;<br />
or è diserta come cosa vieta.<br />
Rëa la scelse già per cuna fida<br />
del suo figliuolo, e per celarlo meglio,<br />
quando piangea, vi facea far le grida.<br />
Dentro dal monte sta dritto un gran veglio,<br />
che tien volte le spalle inver' Dammiata<br />
e Roma guarda come süo speglio.<br />
<strong>La</strong> sua testa è di fin oro formata,<br />
e puro argento son le braccia e 'l petto,<br />
poi è di rame infino a la forcata;<br />
da indi in giuso è tutto ferro eletto,<br />
salvo che 'l destro piede è terra cotta;<br />
e sta 'n su quel, più che 'n su l'altro, eretto.<br />
Ciascuna parte, fuor che l'oro, è rotta<br />
d'una fessura che lagrime goccia,<br />
le quali, accolte, fóran quella grotta.<br />
87<br />
Lor corso in questa valle si diroccia;<br />
fanno Acheronte, Stige e Flegetonta;<br />
poi sen van giù per questa stretta doccia,<br />
infin, là dove più non si dismonta,<br />
fanno Cocito; e qual sia quello stagno<br />
tu lo vedrai, però qui non si conta».<br />
E io a lui: «Se 'l presente rigagno<br />
si diriva così dal nostro mondo,<br />
perché ci appar pur a questo vivagno?»<br />
Ed elli a me: «Tu sai che 'l loco è tondo;<br />
e tutto che tu sie venuto molto,<br />
pur a sinistra, giù calando al fondo,<br />
non se' ancor per tutto 'l cerchio vòlto;<br />
per che, se cosa n'apparisce nova,<br />
non de' addur maraviglia al tuo volto».<br />
E io ancor: «Maestro, ove si trova<br />
Flegetonta e Letè? ché de l'un taci,<br />
e l'altro di' che si fa d'esta piova».<br />
«In tutte tue question certo mi piaci»,<br />
rispuose, «ma 'l bollor de l'acqua rossa<br />
dovea ben solver l'una che tu faci.<br />
Letè vedrai, ma fuor di questa fossa,<br />
là dove vanno l'anime a lavarsi<br />
quando la colpa pentuta è rimossa».<br />
Poi disse: «Omai è tempo da scostarsi<br />
dal bosco; fa che di retro a me vegne:<br />
li margini fan via, che non son arsi,<br />
e sopra loro ogne vapor si spegne».<br />
A un certo punto Virgilio invita Dante a riprendere il cammino, facendo attenzione<br />
a non mettere i piedi sulla distesa di sabbia infuocata, tenendosi il più possibile<br />
vicino alla selva.<br />
I due poeti giungono alla fonte del Flegetonte. Virgilio spiega a Dante che nell’isola<br />
di Creta c’è un monte, di nome Ida, sul quale nacque Zeus. <strong>La</strong> leggenda narra che il<br />
titano Crono (nome greco di Saturno) sposò Rea, una delle sue sorelle titanesse.<br />
Poiché però gli era stato profetizzato che sarebbe stato spodestato da uno dei suoi<br />
figli, Crono li divorava man mano che questi venivano alla luce. Rea però salvò<br />
Zeus dalla brutale pratica: in attesa di questo figlio, infatti, ella si rifugiò in una<br />
grotta del monte Ida per dare alla luce il piccolo. Quindi dette in pasto a Crono una<br />
grossa pietra, avvolta in una coperta, facendogli credere che dentro ci fosse il<br />
bambino. Dentro al monte Ida c’è una statua di un vecchio di gigantesche<br />
dimensioni, chiamato “Veglio di Creta”. Nella concezione dantesca questa statua<br />
simboleggia l’uomo dopo il peccato originale. Questa statua è composta di diversi<br />
metalli, per indicare le diverse età del mondo che seguirono la fine del Paradiso<br />
terrestre: ha la testa d’oro, le braccia e il petto d’argento, la vita e il bacino di rame,
le gambe di ferro. Ma uno dei due piedi è di terracotta, ed è proprio su quello che<br />
grava la maggior parte del peso della statua; probabilmente il piede di terracotta è<br />
il simbolo della Chiesa nel suo stato di corruzione e di decadenza. Ciascuna parte<br />
della statua, ad eccezione della testa, è attraversata da una crepa: ciò sta a indicare<br />
che nell’età dell’oro, e quindi prima del peccato originale, l’umanità era incorrotta.<br />
Dalle crepe scendono lacrime: queste sono il simbolo della natura umana che<br />
piange, perché spiritualmente malata. Queste lacrime scendendo di roccia in roccia<br />
nella valle dell’Inferno si raccolgono in un unico fiume, che prende nomi diversi<br />
man mano che scende: all’inizio si chiama Acheronte, ed è composto di acqua; poi<br />
prende il nome di Stige, ed è fangoso; quindi diventa il Flegetonte, ed è di sangue;<br />
infine assume il nome di Cocito, ed è di ghiaccio. Questa statua, che Dante chiama<br />
“Veglio di Creta”, è trattata pure nel II capitolo del Libro del profeta Daniele<br />
(appartenente al Vecchio Testamento).<br />
Dante poi domanda al maestro per quale motivo lui ha nominato il Flegetonte, ma<br />
non ha nominato il Letè (che è il fiume dell’oblio). Virgilio gli risponde che tale<br />
fiume lo incontrerà sulla vetta del Purgatorio, nel Paradiso terrestre, dove le anime<br />
vanno a bagnarsi della sua acqua perché questo fiume ha il potere di fare<br />
dimenticare le colpe commesse. Invece i dannati non dimenticano la loro colpa,<br />
anzi la presenza del ricordo acuisce la pena; per questo il Letè non lo si può<br />
incontrare nei cerchi infernali.<br />
88
1-21<br />
Ora cen porta l'un de' duri margini;<br />
e 'l fummo del ruscel di sopra aduggia,<br />
sì che dal foco salva l'acqua e li argini.<br />
Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia,<br />
temendo 'l fiotto che 'nver' lor s'avventa,<br />
fanno lo schermo perché 'l mar si fuggia;<br />
e quali Padoan lungo la Brenta,<br />
per difender lor ville e lor castelli,<br />
anzi che Carentana il caldo senta:<br />
a tale imagine eran fatti quelli,<br />
tutto che né sì alti né sì grossi,<br />
qual che si fosse, lo maestro félli.<br />
CANTO XV<br />
89<br />
Già eravam da la selva rimossi<br />
tanto, ch'i' non avrei visto dov' era,<br />
perch' io in dietro rivolto mi fossi,<br />
quando incontrammo d'anime una schiera<br />
che venian lungo l'argine, e ciascuna<br />
ci riguardava come suol da sera<br />
guardare uno altro sotto nuova luna;<br />
e sì ver' noi aguzzavan le ciglia<br />
come 'l vecchio sartor fa ne la cruna.<br />
Proseguendo lungo gli argini del Flegetonte, i due poeti si allontanano sempre più<br />
dalla selva dei suicidi. Ad un certo punto incontrano una schiera di anime che<br />
percorrono anche loro l’argine del fiume. Questa è una schiera di sodomiti.<br />
22-64<br />
Così adocchiato da cotal famiglia,<br />
fui conosciuto da un, che mi prese<br />
per lo lembo e gridò: «Qual maraviglia!»<br />
E io, quando 'l suo braccio a me distese,<br />
ficcaï li occhi per lo cotto aspetto,<br />
sì che 'l viso abbrusciato non difese<br />
la conoscenza süa al mio 'ntelletto;<br />
e chinando la mano a la sua faccia,<br />
rispuosi: «Siete voi qui, ser Brunetto?»<br />
E quelli: «O figliuol mio, non ti dispiaccia<br />
se Brunetto <strong>La</strong>tino un poco teco<br />
ritorna 'n dietro e lascia andar la traccia».<br />
I' dissi lui: «Quanto posso, ven preco;<br />
e se volete che con voi m'asseggia,<br />
faròl, se piace a costui che vo seco».<br />
«O figliuol», disse, «qual di questa greggia<br />
s'arresta punto, giace poi cent' anni<br />
sanz' arrostarsi quando 'l foco il feggia.<br />
Però va oltre: i' ti verrò a' panni;<br />
e poi rigiugnerò la mia masnada,<br />
che va piangendo i suoi etterni danni».<br />
Io non osava scender de la strada<br />
per andar par di lui; ma 'l capo chino<br />
tenea com' uom che reverente vada.<br />
El cominciò: «Qual fortuna o destino<br />
anzi l'ultimo dì qua giù ti mena?<br />
e chi è questi che mostra 'l cammino?»<br />
«Là sù di sopra, in la vita serena»,<br />
rispuos' io lui, «mi smarri' in una valle,<br />
avanti che l'età mia fosse piena.<br />
Pur ier mattina le volsi le spalle:<br />
questi m'apparve, tornand' ïo in quella,<br />
e reducemi a ca per questo calle».<br />
Ed elli a me: «Se tu segui tua stella,<br />
non puoi fallire a glorïoso porto,<br />
se ben m'accorsi ne la vita bella;<br />
e s'io non fossi sì per tempo morto,<br />
veggendo il cielo a te così benigno,<br />
dato t'avrei a l'opera conforto.<br />
Ma quello ingrato popolo maligno<br />
che discese di Fiesole ab antico,<br />
e tiene ancor del monte e del macigno,<br />
ti si farà, per tuo ben far, nimico;
Uno di loro, riconosciuto Dante, lo tira per il lembo della veste. Nonostante il viso<br />
del dannato sia bruciato dalla pioggia di fuoco, Dante lo riconosce: è Brunetto<br />
<strong>La</strong>tini, nato a Firenze verso il 1220 e mortovi nel 1293-4. Fu di parte guelfa. A<br />
Firenze occupò alte cariche ed esercitò l’arte del notaio. Fu maestro di Dante nella<br />
filosofia.<br />
Dante vorrebbe sedersi un po’ a parlare con Brunetto, ma questi gli risponde che i<br />
sodomiti sono condannati a muoversi continuamente: chi, anche solo per un<br />
momento, si ferma, è costretto poi a giacere sulla sabbia infuocata per cento anni.<br />
Perciò Brunetto invita il poeta a parlare durante il cammino.<br />
Dante illustra al suo ex maestro il motivo del suo viaggio nell’oltretomba, e gli dice:<br />
«Ieri mi smarrii in una valle avanti che l‟età mia fosse piena […]». Ciò significa che<br />
Dante si è smarrito nella selva oscura prima di aver raggiunto il culmine dell’arco<br />
della vita, che come detto nel commento ai primi tre versi del canto I cade verso i<br />
trentacinque anni di età: con ogni probabilità egli vuole lasciare intendere che sta<br />
effettuando il suo viaggio ultraterreno all’età di trentaquattro anni, che come<br />
vedremo nel commento ai versi 106-139 del canto XXI è l’età in cui morì Cristo.<br />
Poi Brunetto, conoscitore ed esperto di astrologia, conferma a Dante che, se<br />
l’opinione che si fece di lui nella vita terrestre è corretta, e cioè quella di un uomo di<br />
elevate doti d’animo e di ingegno, il suo cammino verso la fama eterna non potrà<br />
fallire; a patto però che si mantenga sempre fedele all’influsso della costellazione<br />
dei Gemelli, sotto cui Dante nacque. Al tempo di Dante, infatti, chi nasceva sotto<br />
tale segno zodiacale era considerato predisposto allo studio, alle scienze, alle lettere<br />
e alla poesia.<br />
Brunetto tuttavia avverte il poeta che proprio la sua onestà di condotta volta<br />
soltanto al bene della patria gli attirerà l’invidia del maligno, ingrato e rozzo<br />
popolo fiorentino.<br />
65-66<br />
ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi<br />
si disconvien fruttare al dolce fico.<br />
Brunetto sostiene che in fondo Dante ci guadagna a essere maltrattato dai<br />
Fiorentini, perché non conviene che il dolce albero del fico (Dante) fruttifichi fra i<br />
sorbi aspri e cattivi al gusto (i Fiorentini). Il sorbo è un albero che produce frutti<br />
aspri e duri, che occorre fare maturare prima che diventino dolci.<br />
67-87<br />
Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;<br />
gent' è avara, invidiosa e superba:<br />
dai lor costumi fa che tu ti forbi.<br />
90<br />
<strong>La</strong> tua fortuna tanto onor ti serba,<br />
che l'una parte e l'altra avranno fame<br />
di te; ma lungi fia dal becco l'erba.
Faccian le bestie fiesolane strame<br />
di lor medesme, e non tocchin la pianta,<br />
s'alcuna surge ancora in lor letame,<br />
in cui riviva la sementa santa<br />
di que' Roman che vi rimaser quando<br />
fu fatto il nido di malizia tanta».<br />
«Se fosse tutto pieno il mio dimando»,<br />
rispuos' io lui, «voi non sareste ancora<br />
de l'umana natura posto in bando;<br />
91<br />
ché 'n la mente m'è fitta, e or m'accora,<br />
la cara e buona imagine paterna<br />
di voi quando nel mondo ad ora ad ora<br />
m'insegnavate come l'uom s'etterna:<br />
e quant' io l'abbia in grado, mentr' io vivo<br />
convien che ne la mia lingua si scerna.<br />
Brunetto continua a consigliare Dante, perché cerchi di mantenersi immune e puro<br />
dai biasimevoli costumi dei Fiorentini, che sono un popolo di avari, invidiosi e<br />
superbi.<br />
Brunetto aggiunge che tanto i Guelfi bianchi (per un’impresa fallita) quanto i Guelfi<br />
neri (per eseguire le condanne a suo tempo pronunziate contro di lui) vorranno<br />
“divorare” Dante; ma “l’erba sarà lontana dal capro che vorrà cibarsene” (lungi fia<br />
dal becco l‟erba), cioè Dante sarà sfuggito all’odio di entrambe le fazioni,<br />
allontanandosi da Firenze.<br />
88-96<br />
Ciò che narrate di mio corso scrivo,<br />
e serbolo a chiosar con altro testo<br />
a donna che saprà, s'a lei arrivo.<br />
Tanto vogl' io che vi sia manifesto,<br />
pur che mia coscïenza non mi garra,<br />
ch'a la Fortuna, come vuol, son presto.<br />
Non è nuova a li orecchi miei tal arra:<br />
però giri Fortuna la sua rota<br />
come le piace, e 'l villan la sua marra».<br />
Dante risponde a Brunetto che sia la sua profezia sia quella fattagli da Farinata (cfr.<br />
Inf., X) le conserverà nella memoria e le farà poi interpretare da Beatrice. Inoltre il<br />
poeta si dice pronto a sopportare i colpi dell’avversa fortuna.<br />
97-124<br />
Lo mio maestro allora in su la gota<br />
destra si volse in dietro e riguardommi;<br />
poi disse: «Bene ascolta chi la nota».<br />
Né per tanto di men parlando vommi<br />
con ser Brunetto, e dimando chi sono<br />
li suoi compagni più noti e più sommi.<br />
Ed elli a me: «Saper d'alcuno è buono;<br />
de li altri fia laudabile tacerci,<br />
ché 'l tempo saria corto a tanto suono.<br />
In somma sappi che tutti fur cherci<br />
e litterati grandi e di gran fama,<br />
d'un peccato medesmo al mondo lerci.<br />
Priscian sen va con quella turba grama,<br />
e Francesco d'Accorso anche; e vedervi,<br />
s'avessi avuto di tal tigna brama,<br />
colui potei che dal servo de' servi<br />
fu trasmutato d'Arno in Bacchiglione,<br />
dove lasciò li mal protesi nervi.<br />
Di più direi; ma 'l venire e 'l sermone<br />
più lungo esser non può, però ch'i' veggio<br />
là surger nuovo fummo del sabbione.<br />
Gente vien con la quale esser non deggio.<br />
Sieti raccomandato il mio Tesoro,<br />
nel qual io vivo ancora, e più non cheggio».
Poi si rivolse, e parve di coloro<br />
che corrono a Verona il drappo verde<br />
92<br />
per la campagna; e parve di costoro<br />
quelli che vince, non colui che perde.<br />
Poi Dante vorrebbe sapere da Brunetto i più noti dannati del suo gruppo, ma lui gli<br />
risponde che la lista di nomi sarebbe troppo lunga, e che comunque furono tutti<br />
vescovi, sacerdoti e letterati.
1-136<br />
Già era in loco onde s'udia 'l rimbombo<br />
de l'acqua che cadea ne l'altro giro,<br />
simile a quel che l'arnie fanno rombo,<br />
quando tre ombre insieme si partiro,<br />
correndo, d'una torma che passava<br />
sotto la pioggia de l'aspro martiro.<br />
Venian ver' noi, e ciascuna gridava:<br />
«Sòstati tu ch'a l'abito ne sembri<br />
essere alcun di nostra terra prava».<br />
Ahimè, che piaghe vidi ne' lor membri,<br />
ricenti e vecchie, da le fiamme incese!<br />
Ancor men duol pur ch'i' me ne rimembri.<br />
A le lor grida il mio dottor s'attese;<br />
volse 'l viso ver' me, e «Or aspetta»,<br />
disse, «a costor si vuole esser cortese.<br />
E se non fosse il foco che saetta<br />
la natura del loco, i' dicerei<br />
che meglio stesse a te che a lor la fretta».<br />
Ricominciar, come noi restammo, ei<br />
l'antico verso; e quando a noi fuor giunti,<br />
fenno una rota di sé tutti e trei.<br />
Qual sogliono i campion far nudi e unti,<br />
avvisando lor presa e lor vantaggio,<br />
prima che sien tra lor battuti e punti,<br />
così rotando, ciascuno il visaggio<br />
drizzava a me, sì che 'n contraro il collo<br />
faceva ai piè continüo vïaggio.<br />
E «Se miseria d'esto loco sollo<br />
rende in dispetto noi e nostri prieghi»,<br />
cominciò l'uno, «e 'l tinto aspetto e brollo,<br />
la fama nostra il tuo animo pieghi<br />
a dirne chi tu se', che i vivi piedi<br />
così sicuro per lo 'nferno freghi.<br />
Questi, l'orme di cui pestar mi vedi,<br />
tutto che nudo e dipelato vada,<br />
fu di grado maggior che tu non credi:<br />
nepote fu de la buona Gualdrada;<br />
Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita<br />
fece col senno assai e con la spada.<br />
L'altro, ch'appresso me la rena trita,<br />
è Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce<br />
nel mondo sù dovria esser gradita.<br />
CANTO XVI<br />
93<br />
E io, che posto son con loro in croce,<br />
Iacopo Rusticucci fui, e certo<br />
la fiera moglie più ch'altro mi nuoce».<br />
S'i' fossi stato dal foco coperto,<br />
gittato mi sarei tra lor di sotto,<br />
e credo che 'l dottor l'avria sofferto;<br />
ma perch' io mi sarei brusciato e cotto,<br />
vinse paura la mia buona voglia<br />
che di loro abbracciar mi facea ghiotto.<br />
Poi cominciai: «Non dispetto, ma doglia<br />
la vostra condizion dentro mi fisse,<br />
tanta che tardi tutta si dispoglia,<br />
tosto che questo mio segnor mi disse<br />
parole per le quali i' mi pensai<br />
che qual voi siete, tal gente venisse.<br />
Di vostra terra sono, e sempre mai<br />
l'ovra di voi e li onorati nomi<br />
con affezion ritrassi e ascoltai.<br />
<strong>La</strong>scio lo fele e vo per dolci pomi<br />
promessi a me per lo verace duca;<br />
ma 'nfino al centro pria convien ch'i' tomi».<br />
«Se lungamente l'anima conduca<br />
le membra tue», rispuose quelli ancora,<br />
«e se la fama tua dopo te luca,<br />
cortesia e valor dì se dimora<br />
ne la nostra città sì come suole,<br />
o se del tutto se n'è gita fora;<br />
ché Guiglielmo Borsiere, il qual si duole<br />
con noi per poco e va là coi compagni,<br />
assai ne cruccia con le sue parole».<br />
«<strong>La</strong> gente nuova e i sùbiti guadagni<br />
orgoglio e dismisura han generata,<br />
Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni».<br />
Così gridai con la faccia levata;<br />
e i tre, che ciò inteser per risposta,<br />
guardar l'un l'altro com' al ver si guata.<br />
«Se l'altre volte sì poco ti costa»,<br />
rispuoser tutti, «il satisfare altrui,<br />
felice te se sì parli a tua posta!<br />
Però, se campi d'esti luoghi bui<br />
e torni a riveder le belle stelle,<br />
quando ti gioverà dicere "I' fui",
fa che di noi a la gente favelle».<br />
Indi rupper la rota, e a fuggirsi<br />
ali sembiar le gambe loro isnelle.<br />
Un amen non saria possuto dirsi<br />
tosto così com' e' fuoro spariti;<br />
per ch'al maestro parve di partirsi.<br />
Io lo seguiva, e poco eravam iti,<br />
che 'l suon de l'acqua n'era sì vicino,<br />
che per parlar saremmo a pena uditi.<br />
Come quel fiume c'ha proprio cammino<br />
prima dal Monte Viso 'nver' levante,<br />
da la sinistra costa d'Apennino,<br />
che si chiama Acquacheta suso, avante<br />
che si divalli giù nel basso letto,<br />
e a Forlì di quel nome è vacante,<br />
rimbomba là sovra San Benedetto<br />
de l'Alpe per cadere ad una scesa<br />
ove dovea per mille esser recetto;<br />
così, giù d'una ripa discoscesa,<br />
trovammo risonar quell' acqua tinta,<br />
sì che 'n poc' ora avria l'orecchia offesa.<br />
Io avea una corda intorno cinta,<br />
e con essa pensai alcuna volta<br />
prender la lonza a la pelle dipinta.<br />
Poscia ch'io l'ebbi tutta da me sciolta,<br />
sì come 'l duca m'avea comandato,<br />
porsila a lui aggroppata e ravvolta.<br />
94<br />
Ond' ei si volse inver' lo destro lato,<br />
e alquanto di lunge da la sponda<br />
la gittò giuso in quell' alto burrato.<br />
«E' pur convien che novità risponda»,<br />
dicea fra me medesmo, «al novo cenno<br />
che 'l maestro con l'occhio sì seconda».<br />
Ahi quanto cauti li uomini esser dienno<br />
presso a color che non veggion pur l'ovra,<br />
ma per entro i pensier miran col senno!<br />
El disse a me: «Tosto verrà di sovra<br />
ciò ch'io attendo e che il tuo pensier sogna;<br />
tosto convien ch'al tuo viso si scovra».<br />
Sempre a quel ver c'ha faccia di menzogna<br />
de' l'uom chiuder le labbra fin ch'el puote,<br />
però che sanza colpa fa vergogna;<br />
ma qui tacer nol posso; e per le note<br />
di questa comedìa, lettor, ti giuro,<br />
s'elle non sien di lunga grazia vòte,<br />
ch'i' vidi per quell' aere grosso e scuro<br />
venir notando una figura in suso,<br />
maravigliosa ad ogne cor sicuro,<br />
sì come torna colui che va giuso<br />
talora a solver l'àncora ch'aggrappa<br />
o scoglio o altro che nel mare è chiuso,<br />
che 'n sù si stende e da piè si rattrappa.<br />
Sempre nel terzo girone del settimo cerchio i due poeti incontrano un’altra schiera<br />
di sodomiti, ma a differenza dell’altra, che comprendeva i chierici e i letterati,<br />
questa è composta di gente di corte, militari, politici e uomini di governo.<br />
Virgilio esorta Dante a comportarsi in modo cortese con questa schiera, in quanto<br />
questi dannati in vita ebbero una grande responsabilità istituzionale e la sostennero<br />
con onore: la colpa della vita privata non deve annullare il ricordo del<br />
comportamento esemplare tenuto nella vita pubblica.<br />
Quindi i due poeti giungono laddove l’acqua del Flegeronte, precipitando<br />
nell’ottavo cerchio, forma una cascata che produce un rumore assordante.<br />
A questo punto Dante vede apparire da lontano la sconcertante figura di Gerione,<br />
un mostro di cui parleremo nel prossimo canto.
CANTO XVII<br />
1-15<br />
«Ecco la fiera con la coda aguzza,<br />
che passa i monti e rompe i muri e l'armi!<br />
Ecco colei che tutto 'l mondo appuzza!»<br />
Sì cominciò lo mio duca a parlarmi;<br />
e accennolle che venisse a proda,<br />
vicino al fin d'i passeggiati marmi.<br />
E quella sozza imagine di froda<br />
sen venne, e arrivò la testa e 'l busto,<br />
ma 'n su la riva non trasse la coda.<br />
<strong>La</strong> faccia sua era d‟uom giusto,<br />
tanto benigna avea di fuor la pelle,<br />
e d‟un serpente tutto l‟altro fusto;<br />
due branche avea pilose insin l‟ascelle;<br />
lo dosso e „l petto e ambedue le coste<br />
dipinti avea di nodi e di rotelle.<br />
Alla vista di Gerione, Virgilio esordisce così: «Ecco la bestia dalla coda acuminata,<br />
che oltrepassa i monti, abbatte i muri e vince le armi (cioè supera tutti gli ostacoli che<br />
le si frappongono)! Ecco colei che ammorba tutto il mondo!»<br />
Secondo la mitologia, Gerione era un enorme mostro dotato, dalla vita in su, di tre<br />
corpi, sei braccia e tre teste, il quale fu ucciso da Eracle (nome greco di Ercole) in<br />
una delle sue dodici fatiche. Dante invece lo raffigura come mostro di un solo<br />
corpo, nel quale sono congiunte tre nature, di uomo, di serpente e di scorpione,<br />
facendone il simbolo della frode.<br />
Poi Virgilio dice alla bestia (cioè a Gerione) di avvicinarsi, e lei, che Dante chiama<br />
“imagine di froda” (cioè simbolo della frode), affiora solo con la testa (che è di<br />
uomo) e con il busto (che è di serpente), ma non mostra la sua coda (che è di<br />
scorpione), tenendola al di sotto dell‟argine del fiume Flegetonte.<br />
<strong>La</strong> faccia di Gerione sembra quella di una persona onesta (per ispirare fiducia in<br />
coloro che vuole ingannare). Anche il suo aspetto è benevolo e delicato (per<br />
nascondere la sua natura ingannatrice). Tutto il resto del corpo è di serpente; le<br />
zampe, dotate di artigli, sono ricoperte di pelo fino alle ascelle. Il dorso, il petto e i<br />
fianchi sono dipinti di segni complicati e di cerchietti (simbolo dei raggiri di cui<br />
l’ingannatore si serve per adescare il prossimo). <strong>La</strong> biforcuta coda velenosa invece<br />
la tiene nascosta, per poter colpire a tradimento le sue ignare vittime.<br />
95
16-42<br />
Con più color, sommesse e sovraposte<br />
non fer mai drappi Tartari né Turchi,<br />
né fuor tai tele per Aragne imposte.<br />
Come talvolta stanno a riva i burchi,<br />
che parte sono in acqua e parte in terra,<br />
e come là tra li Tedeschi lurchi<br />
lo bivero s'assetta a far sua guerra,<br />
così la fiera pessima si stava<br />
su l'orlo ch'è di pietra e 'l sabbion serra.<br />
Nel vano tutta sua coda guizzava,<br />
torcendo in sù la venenosa forca<br />
ch'a guisa di scorpion la punta armava.<br />
Lo duca disse: «Or convien che si torca<br />
la nostra via un poco insino a quella<br />
bestia malvagia che colà si corca».<br />
96<br />
Però scendemmo a la destra mammella,<br />
e diece passi femmo in su lo stremo,<br />
per ben cessar la rena e la fiammella.<br />
E quando noi a lei venuti semo,<br />
poco più oltre veggio in su la rena<br />
gente seder propinqua al loco scemo.<br />
Quivi 'l maestro «Acciò che tutta piena<br />
esperïenza d'esto giron porti»,<br />
mi disse, «va, e vedi la lor mena.<br />
Li tuoi ragionamenti sian là corti;<br />
mentre che torni, parlerò con questa,<br />
che ne conceda i suoi omeri forti».<br />
Lungo l’orlo estremo della pianura sabbiosa e infuocata Dante scorge il gruppo dei<br />
violenti contro natura e arte (indirettamente violenti contro Dio): gli usurai.<br />
Virgilio invita Dante ad avvicinarsi a tale gruppo, affinché si possa rendere conto<br />
della loro condizione; nel frattempo lui cercherà di convincere Gerione a<br />
trasportarli fino all’ottavo cerchio. Virgilio tuttavia avverte Dante di trattenersi con<br />
gli usurai il meno possibile e parlare poco con loro. <strong>La</strong> ragione di questo<br />
ammonimento è la brevità del tempo e il dispregio per questa classe di persone, del<br />
tutto immeritevoli di stima.<br />
43-75<br />
Così ancor su per la strema testa<br />
di quel settimo cerchio tutto solo<br />
andai, dove sedea la gente mesta.<br />
Per li occhi fora scoppiava lor duolo;<br />
di qua, di là soccorrien con le mani<br />
quando a' vapori, e quando al caldo suolo:<br />
non altrimenti fan di state i cani<br />
or col ceffo or col piè, quando son morsi<br />
o da pulci o da mosche o da tafani.<br />
Poi che nel viso a certi li occhi porsi,<br />
ne' quali 'l doloroso foco casca,<br />
non ne conobbi alcun; ma io m'accorsi<br />
che dal collo a ciascun pendea una tasca<br />
ch'avea certo colore e certo segno,<br />
e quindi par che 'l loro occhio si pasca.<br />
E com' io riguardando tra lor vegno,<br />
in una borsa gialla vidi azzurro<br />
che d'un leone avea faccia e contegno.<br />
Poi, procedendo di mio sguardo il curro,<br />
vidine un'altra come sangue rossa,<br />
mostrando un'oca bianca più che burro.<br />
E un che d'una scrofa azzurra e grossa<br />
segnato avea lo suo sacchetto bianco,<br />
mi disse: «Che fai tu in questa fossa?<br />
Or te ne va; e perché se' vivo anco,<br />
sappi che 'l mio vicin Vitalïano<br />
sederà qui dal mio sinistro fianco.<br />
Con questi Fiorentin son padoano:<br />
spesse fïate mi 'ntronan li orecchi<br />
gridando: "Vegna 'l cavalier sovrano,<br />
che recherà la tasca con tre becchi!"»<br />
Qui distorse la bocca e di fuor trasse<br />
la lingua, come bue che 'l naso lecchi.
Così Dante raggiunge da solo gli usurai. Il dolore provocato dalla punizione eterna<br />
del fuoco che scende dall’alto e della sabbia rovente spinge gli usurai a un pianto<br />
violento e disperato e a un tentativo inutile di attenuare il castigo riparandosi dalle<br />
fiamme con le mani. Sulle mani di questi dannati, che maneggiarono illecitamente<br />
denaro, cade la pena del contrappasso. Le mani nell’agitarsi hanno qualcosa di<br />
bestiale, che rafforza l’idea di disprezzo che caratterizza questi peccatori, che<br />
ricorda i cani quando tentano di difendersi, come possono, con il muso e le zampe<br />
dai morsi delle pulci e degli altri insetti. Gli usurai portano, appesa alla cintura, una<br />
borsa ornata e dipinta con lo stemma della loro casata, in modo che lo scherno non<br />
investa solo la loro persona, ma l’intera famiglia.<br />
76-136<br />
E io, temendo no 'l più star crucciasse<br />
lui che di poco star m'avea 'mmonito,<br />
torna'mi in dietro da l'anime lasse.<br />
Trova' il duca mio ch'era salito<br />
già su la groppa del fiero animale,<br />
e disse a me: «Or sie forte e ardito.<br />
Omai si scende per sì fatte scale;<br />
monta dinanzi, ch'i' voglio esser mezzo,<br />
sì che la coda non possa far male».<br />
Qual è colui che sì presso ha 'l riprezzo<br />
de la quartana, c'ha già l'unghie smorte,<br />
e triema tutto pur guardando 'l rezzo,<br />
tal divenn' io a le parole porte;<br />
ma vergogna mi fé le sue minacce,<br />
che innanzi a buon segnor fa servo forte.<br />
I' m'assettai in su quelle spallacce;<br />
sì volli dir, ma la voce non venne<br />
com' io credetti: 'Fa che tu m'abbracce'.<br />
Ma esso, ch'altra volta mi sovvenne<br />
ad altro forse, tosto ch'i' montai<br />
con le braccia m'avvinse e mi sostenne;<br />
e disse: «Gerïon, moviti omai:<br />
le rote larghe, e lo scender sia poco;<br />
pensa la nova soma che tu hai».<br />
Come la navicella esce di loco<br />
in dietro in dietro, sì quindi si tolse;<br />
e poi ch'al tutto si sentì a gioco,<br />
là 'v' era 'l petto, la coda rivolse,<br />
e quella tesa, come anguilla, mosse,<br />
e con le branche l'aere a sé raccolse.<br />
97<br />
Maggior paura non credo che fosse<br />
quando Fetonte abbandonò li freni,<br />
per che 'l ciel, come pare ancor, si cosse;<br />
né quando Icaro misero le reni<br />
sentì spennar per la scaldata cera,<br />
gridando il padre a lui «Mala via tieni!»,<br />
che fu la mia, quando vidi ch'i' era<br />
ne l'aere d'ogne parte, e vidi spenta<br />
ogne veduta fuor che de la fera.<br />
Ella sen va notando lenta lenta;<br />
rota e discende, ma non me n'accorgo<br />
se non che al viso e di sotto mi venta.<br />
Io sentia già da la man destra il gorgo<br />
far sotto noi un orribile scroscio,<br />
per che con li occhi 'n giù la testa sporgo.<br />
Allor fu' io più timido a lo stoscio,<br />
però ch'i' vidi fuochi e senti' pianti;<br />
ond' io tremando tutto mi raccoscio.<br />
E vidi poi, ché nol vedea davanti,<br />
lo scendere e 'l girar per li gran mali<br />
che s'appressavan da diversi canti.<br />
Come 'l falcon ch'è stato assai su l'ali,<br />
che sanza veder logoro o uccello<br />
fa dire al falconiere «Omè, tu cali!»,<br />
discende lasso onde si move isnello,<br />
per cento rote, e da lunge si pone<br />
dal suo maestro, disdegnoso e fello;<br />
così ne puose al fondo Gerïone<br />
al piè al piè de la stagliata rocca,<br />
e, discarcate le nostre persone,<br />
si dileguò come da corda cocca.
Obbedendo all’ammonimento di Virgilio, Dante abbandona il gruppo degli usurai<br />
senza rivolgere loro neanche una parola. Appena torna, trova il maestro già in<br />
groppa a Gerione. Virgilio dice a Dante di salire davanti, in modo che Virgilio si<br />
trovi tra Dante e la coda del mostro; ciò ha un doppio significato: rassicurare il<br />
discepolo del volo sulla schiena di Gerione e difenderlo dall’insidia della frode,<br />
rappresentata dalla coda del mostro.<br />
Montato in groppa, Dante viene abbracciato dal maestro: allegoricamente,<br />
l’abbraccio di Virgilio rappresenta la sapienza necessaria a Dante per entrare nel<br />
mondo della frode.<br />
Così Gerione porta in volo i due poeti all’ottavo cerchio e, dopo averli scaricati, se<br />
ne torna indietro.<br />
98
1-21<br />
Luogo è in inferno detto Malebolge,<br />
tutto di pietra di color ferrigno,<br />
come la cerchia che dintorno il volge.<br />
Nel dritto mezzo del campo maligno<br />
vaneggia un pozzo assai largo e profondo,<br />
di cui suo loco dicerò l'ordigno.<br />
Quel cinghio che rimane adunque è tondo<br />
tra 'l pozzo e 'l piè de l'alta ripa dura,<br />
e ha distinto in dieci valli il fondo.<br />
Quale, dove per guardia de le mura<br />
più e più fossi cingon li castelli,<br />
la parte dove son rende figura,<br />
CANTO XVIII<br />
99<br />
tale imagine quivi facean quelli;<br />
e come a tai fortezze da' lor sogli<br />
a la ripa di fuor son ponticelli,<br />
così da imo de la roccia scogli<br />
movien che ricidien li argini e ' fossi<br />
infino al pozzo che i tronca e raccogli.<br />
In questo luogo, de la schiena scossi<br />
di Gerïon, trovammoci; e 'l poeta<br />
tenne a sinistra, e io dietro mi mossi.<br />
Il canto XVIII si apre con la descrizione dell’ottavo cerchio, dove sono punite le<br />
colpe della frode attuata nei confronti di persone che non si fidano dell’autore della<br />
frode stessa. Questo cerchio è una voragine, detta “Malebolge”, che converge in<br />
basso verso un pozzo profondo, che è la sede del nono cerchio.<br />
L’ottavo cerchio è diviso in dieci valli concentriche, dette “bolge”, che ricordano i<br />
fossati che circondano i castelli; e come dalle soglie dei castelli si dipartono i ponti<br />
levatoi, così le dieci bolge sono solcate per traverso da scogli equidistanti l’uno<br />
dall’altro, che terminano al pozzo centrale. Questi scogli visti dall’alto sono come i<br />
raggi di una ruota, che attraversano le dieci valli circolari concentriche e si fermano<br />
al pozzo centrale; quest’ultimo pertanto ricorda il mozzo di una ruota.<br />
22-41<br />
A la man destra vidi nova pieta,<br />
novo tormento e novi frustatori,<br />
di che la prima bolgia era repleta.<br />
Nel fondo erano ignudi i peccatori;<br />
dal mezzo in qua ci venien verso 'l volto,<br />
di là con noi, ma con passi maggiori,<br />
come i Roman per l'essercito molto,<br />
l'anno del giubileo, su per lo ponte<br />
hanno a passar la gente modo colto,<br />
che da l'un lato tutti hanno la fronte<br />
verso 'l castello e vanno a Santo Pietro,<br />
da l'altra sponda vanno verso 'l monte.<br />
Di qua, di là, su per lo sasso tetro<br />
vidi demon cornuti con gran ferze,<br />
che li battien crudelmente di retro.<br />
Ahi come facean lor levar le berze<br />
a le prime percosse! già nessuno<br />
le seconde aspettava né le terze.<br />
Mentr' io andava, li occhi miei in uno<br />
furo scontrati; e io sì tosto dissi:<br />
Nella prima bolgia sono puniti i ruffiani e i seduttori. <strong>La</strong> colpa di questi dannati<br />
consiste nell’indurre altre persone alla prostituzione: i seduttori mettono in atto la<br />
loro colpa al fine di compiacere se stessi; i ruffiani invece traggono dalla loro colpa
un vantaggio indiretto, frapponendosi come mezzani negli amori altrui a scopo di<br />
denaro o altri guadagni.<br />
I seduttori si differenziano dai lussuriosi in quanto questi ultimi sono trascinati<br />
dalla passione, mentre i seduttori si servono dell’inganno per trascinare il prossimo<br />
a commettere il peccato dei sensi.<br />
Divisi in due schiere, i ruffiani e i seduttori corrono nudi in due opposte direzioni<br />
percossi alle spalle da demoni armati di fruste. <strong>La</strong> pena per questi dannati è più<br />
mortificante che dolorosa, e forse deriva dalla suggestione di taluni statuti<br />
comunali che prevedevano per i ruffiani la pubblica fustigazione.<br />
42<br />
«Già di veder costui non son digiuno».<br />
Nella schiera dei ruffiani Dante dice a Virgilio di aver riconosciuto uno dei dannati.<br />
43-66<br />
Per ch'ïo a figurarlo i piedi affissi;<br />
e 'l dolce duca meco si ristette,<br />
e assentio ch'alquanto in dietro gissi.<br />
E quel frustato celar si credette<br />
bassando 'l viso; ma poco li valse,<br />
ch'io dissi: «O tu che l'occhio a terra gette,<br />
se le fazion che porti non son false,<br />
Venedico se' tu Caccianemico.<br />
Ma che ti mena a sì pungenti salse?»<br />
Ed elli a me: «Mal volontier lo dico;<br />
ma sforzami la tua chiara favella,<br />
che mi fa sovvenir del mondo antico.<br />
100<br />
I' fui colui che la Ghisolabella<br />
condussi a far la voglia del marchese,<br />
come che suoni la sconcia novella.<br />
E non pur io qui piango bolognese;<br />
anzi n'è questo loco tanto pieno,<br />
che tante lingue non son ora apprese<br />
a dicer 'sipa' tra Sàvena e Reno;<br />
e se di ciò vuoi fede o testimonio,<br />
rècati a mente il nostro avaro seno».<br />
Così parlando il percosse un demonio<br />
de la sua scurïada, e disse: «Via,<br />
ruffian! qui non son femmine da conio».<br />
Il dannato per la vergogna abbassa la testa sperando di non essere riconosciuto. Ma<br />
ormai Dante lo ha riconosciuto: è Venedico Caccianemico, nobile guelfo di Bologna,<br />
nato verso il 1228, di cui corse voce che, per motivi politici, avesse costretto la<br />
propria sorella Ghisolabella a cedere alle voglie del marchese di Ferrara. Venedico,<br />
per scusare il proprio peccato, lo attribuisce ad una usanza del luogo, e dice che ci<br />
sono più bolognesi nella prima bolgia dell’ottavo cerchio di quanti cittadini vivano<br />
a Bologna.<br />
67-99<br />
I' mi raggiunsi con la scorta mia;<br />
poscia con pochi passi divenimmo<br />
là 'v' uno scoglio de la ripa uscia.<br />
Assai leggeramente quel salimmo;<br />
e vòlti a destra su per la sua scheggia,<br />
da quelle cerchie etterne ci partimmo.
Quando noi fummo là dov' el vaneggia<br />
di sotto per dar passo a li sferzati,<br />
lo duca disse: «Attienti, e fa che feggia<br />
lo viso in te di quest' altri mal nati,<br />
ai quali ancor non vedesti la faccia<br />
però che son con noi insieme andati».<br />
Del vecchio ponte guardavam la traccia<br />
che venìa verso noi da l'altra banda,<br />
e che la ferza similmente scaccia.<br />
E 'l buon maestro, sanza mia dimanda,<br />
mi disse: «Guarda quel grande che vene,<br />
e per dolor non par lagrime spanda:<br />
quanto aspetto reale ancor ritene!<br />
Quelli è Iasón, che per cuore e per senno<br />
li Colchi del monton privati féne.<br />
101<br />
Ello passò per l'isola di Lenno<br />
poi che l'ardite femmine spietate<br />
tutti li maschi loro a morte dienno.<br />
Ivi con segni e con parole ornate<br />
Isifile ingannò, la giovinetta<br />
che prima avea tutte l'altre ingannate.<br />
<strong>La</strong>sciolla quivi, gravida, soletta;<br />
tal colpa a tal martiro lui condanna;<br />
e anche di Medea si fa vendetta.<br />
Con lui sen va chi da tal parte inganna;<br />
e questo basti de la prima valle<br />
sapere e di color che 'n sé assanna».<br />
I due poeti si allontanano dalla schiera dei ruffiani e raggiungono quella dei<br />
seduttori, tra i quali Virgilio indica Giasone. Questi era figlio di Esone, re di<br />
Tessaglia. Lo zio di Giasone, Pelia, usurpò il regno a Esone. Giasone reclamò il<br />
potere sul suo Paese, che Pelia si impegnò a restituirgli dopo che avrebbe portato il<br />
vello d’oro dell’ariete che aveva trasportato un giovane di nome Frisso in salvo. Il<br />
vello era custodito nella Colchide da un drago. Pelia era convinto che Giasone<br />
sarebbe morto nell’impresa. Giasone chiese aiuto ad Argo, il quale costruì<br />
appositamente una nave che prese il suo stesso nome. Così Giasone, con una<br />
cinquantina di compagni, che dal nome della nave furono chiamati “Argonauti”,<br />
partirono per la spedizione, toccando terre diverse, attraverso svariate avventure.<br />
In una di queste, gli Argonauti approdarono nell’isola di Lemno, dove Giasone<br />
sedusse la giovinetta Isifile, che poi abbandonò gravida. Quando finalmente<br />
raggiunsero la Colchide, il re Eete subordinò la consegna del vello alla condizione<br />
che Giasone riuscisse a domare due tori dagli zoccoli di bronzo, che soffiavano<br />
fuoco dalle narici, e arasse un campo seminandovi i denti di un drago. <strong>La</strong> figlia del<br />
re, Medea, esperta di arti magiche, sedotta da Giasone, gli offrì il suo aiuto, purché<br />
lui la portasse con sé in Grecia. Giasone superò le prove, con i sortilegi di Medea<br />
riuscì a far addormentare il drago e fuggì con lei e il vello. Dopo varie peripezie<br />
Giasone rientrò nella patria e, consegnato il vello d’oro, ottenne il regno, ma<br />
ripudiò Medea per unirsi a Glauce, figlia del re Creonte.<br />
<strong>La</strong> leggenda di Giasone e gli Argonauti è narrata nelle Argonautiche, poema epico<br />
scritto nel III secolo a.C. da Apollonio Rodio.<br />
100-136<br />
Già eravam là 've lo stretto calle<br />
con l'argine secondo s'incrocicchia,<br />
e fa di quello ad un altr' arco spalle.<br />
Quindi sentimmo gente che si nicchia<br />
ne l'altra bolgia e che col muso scuffa,<br />
e sé medesma con le palme picchia.
Le ripe eran grommate d'una muffa,<br />
per l'alito di giù che vi s'appasta,<br />
che con li occhi e col naso facea zuffa.<br />
Lo fondo è cupo sì, che non ci basta<br />
loco a veder sanza montare al dosso<br />
de l'arco, ove lo scoglio più sovrasta.<br />
Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso<br />
vidi gente attuffata in uno sterco<br />
che da li uman privadi parea mosso.<br />
E mentre ch'io là giù con l'occhio cerco,<br />
vidi un col capo sì di merda lordo,<br />
che non parëa s'era laico o cherco.<br />
Quei mi sgridò: «Perché se' tu sì gordo<br />
di riguardar più me che li altri brutti?»<br />
E io a lui: «Perché, se ben ricordo,<br />
102<br />
già t'ho veduto coi capelli asciutti,<br />
e se' Alessio Interminei da Lucca:<br />
però t'adocchio più che li altri tutti».<br />
Ed elli allor, battendosi la zucca:<br />
«Qua giù m'hanno sommerso le lusinghe<br />
ond' io non ebbi mai la lingua stucca».<br />
Appresso ciò lo duca «Fa che pinghe»,<br />
mi disse, «il viso un poco più avante,<br />
sì che la faccia ben con l'occhio attinghe<br />
di quella sozza e scapigliata fante<br />
che là si graffia con l'unghie merdose,<br />
e or s'accoscia e ora è in piedi stante.<br />
Taïde è, la puttana che rispuose<br />
al drudo suo quando disse "Ho io grazie<br />
grandi apo te?": "Anzi maravigliose!"<br />
E quinci sian le nostre viste sazie».<br />
Attraversato un ponte, i due poeti giungono sull’argine della seconda bolgia, la<br />
quale fa schifo alla vista (per la presenza di muffa che ricopre le sue pareti) e<br />
all’olfatto (per la puzza di fogna che emana). Qui sono puniti gli adulatori, i quali si<br />
dibattono come maiali nello sterco umano, e ciascuno di loro picchia e graffia se<br />
stesso con le mani imbrattate di feci.<br />
<strong>La</strong> pena per gli adulatori è più ripugnante che dolorosa, per esplicitare il disprezzo<br />
profondo verso questo gruppo di dannati, i quali come in vita non esitarono a<br />
umiliarsi pur di raggiungere i loro scopi con le lusinghe (anziché col merito, come<br />
sarebbe stato giusto), così ora essi sono costretti a strisciare nello sterco, che è sterco<br />
umano per significare che il loro servilismo lo diressero verso uomini (cioè verso gli<br />
uomini da cui speravano di ottenere favori), e si umiliano ancora di più<br />
picchiandosi e graffiandosi con le mani insozzate di merda.
1-30<br />
O Simon mago, o miseri seguaci<br />
che le cose di Dio, che di bontate<br />
deon essere spose, e voi rapaci<br />
per oro e per argento avolterate,<br />
or convien che per voi suoni la tromba,<br />
però che ne la terza bolgia state.<br />
Già eravamo, a la seguente tomba,<br />
montati de lo scoglio in quella parte<br />
ch'a punto sovra mezzo 'l fosso piomba.<br />
O somma sapïenza, quanta è l'arte<br />
che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo,<br />
e quanto giusto tua virtù comparte!<br />
Io vidi per le coste e per lo fondo<br />
piena la pietra livida di fóri,<br />
d'un largo tutti e ciascun era tondo.<br />
CANTO XIX<br />
103<br />
Non mi parean men ampi né maggiori<br />
che que' che son nel mio bel San Giovanni,<br />
fatti per loco d'i battezzatori;<br />
l'un de li quali, ancor non è molt' anni,<br />
rupp' io per un che dentro v'annegava:<br />
e questo sia suggel ch'ogn' omo sganni.<br />
Fuor de la bocca a ciascun soperchiava<br />
d'un peccator li piedi e de le gambe<br />
infino al grosso, e l'altro dentro stava.<br />
Le piante erano a tutti accese intrambe;<br />
per che sì forte guizzavan le giunte,<br />
che spezzate averien ritorte e strambe.<br />
Qual suole il fiammeggiar de le cose unte<br />
muoversi pur su per la strema buccia,<br />
tal era lì dai calcagni a le punte.<br />
Giunto alla sommità del ponte, Dante osserva, sotto di sé, la terza bolgia dell’ottavo<br />
cerchio: le pareti e il fondo sono costellati di buche circolari. Dentro a queste buche<br />
sono conficcati, a testa in giù, i simoniaci. Dalle buche emergono solo i piedi e le<br />
gambe fino al ginocchio; una fiamma corre lungo la pianta dei piedi, facendo<br />
guizzare le articolazioni del ginocchio con grande energia. Allorquando un nuovo<br />
dannato giunge in questa bolgia, spinge il dannato che lo ha preceduto più in giù<br />
nella buca.<br />
Il peccato di simonia consiste nel vendere o comprare cose sacre o spirituali. Il<br />
nome deriva da “Simon mago”, di cui si parla negli Atti degli Apostoli (VIII, 9-25):<br />
nella città di Samaria vi era un mago di nome Simone; costui vide che coloro ai<br />
quali gli apostoli Pietro e Giovanni imponevano le mani, ricevevano lo Spirito<br />
Santo. Simone offrì del denaro ai due apostoli per ottenere anche lui questo loro<br />
potere; ma Pietro gli rispose: «Il tuo denaro vada con te in perdizione, perché hai osato<br />
pensare di acquistare con denaro il dono di Dio […]»<br />
Per la legge del contrappasso, i simoniaci, capovolgitori dei doni di Dio, sono loro<br />
stessi capovolti; nati per il cielo, vollero la terra: ora la terra li divora.<br />
31-72<br />
«Chi è colui, maestro, che si cruccia<br />
guizzando più che li altri suoi consorti»,<br />
diss' io, «e cui più roggia fiamma succia?»<br />
Ed elli a me: «Se tu vuo' ch'i' ti porti<br />
là giù per quella ripa che più giace,<br />
da lui saprai di sé e de' suoi torti».<br />
E io: «Tanto m'è bel, quanto a te piace:<br />
tu se' segnore, e sai ch'i' non mi parto<br />
dal tuo volere, e sai quel che si tace».<br />
Allor venimmo in su l'argine quarto;<br />
volgemmo e discendemmo a mano stanca<br />
là giù nel fondo foracchiato e arto.
Lo buon maestro ancor de la sua anca<br />
non mi dipuose, sì mi giunse al rotto<br />
di quel che si piangeva con la zanca.<br />
«O qual che se' che 'l di sù tien di sotto,<br />
anima trista come pal commessa»,<br />
comincia' io a dir, «se puoi, fa motto».<br />
Io stava come 'l frate che confessa<br />
lo perfido assessin, che, poi ch'è fitto,<br />
richiama lui per che la morte cessa.<br />
Ed el gridò: «Se' tu già costì ritto,<br />
se' tu già costì ritto, Bonifazio?<br />
Di parecchi anni mi mentì lo scritto.<br />
Se' tu sì tosto di quell' aver sazio<br />
per lo qual non temesti tòrre a 'nganno<br />
la bella donna, e poi di farne strazio?»<br />
104<br />
Tal mi fec' io, quai son color che stanno,<br />
per non intender ciò ch'è lor risposto,<br />
quasi scornati, e risponder non sanno.<br />
Allor Virgilio disse: «Dilli tosto:<br />
"Non son colui, non son colui che credi"»;<br />
e io rispuosi come a me fu imposto.<br />
Per che lo spirto tutti storse i piedi;<br />
poi, sospirando e con voce di pianto,<br />
mi disse: «Dunque che a me richiedi?<br />
Se di saper ch'i' sia ti cal cotanto,<br />
che tu abbi però la ripa corsa,<br />
sappi ch'i' fui vestito del gran manto;<br />
e veramente fui figliuol de l'orsa,<br />
cupido sì per avanzar li orsatti,<br />
che sù l'avere e qui me misi in borsa.<br />
Dante vede un paio di gambe agitarsi più delle altre sotto una fiamma più ardente,<br />
e chiede a Virgilio a chi appartengano; il maestro gli risponde di scendere nella<br />
bolgia e di domandare lui stesso al dannato la sua identità. Così i due poeti si<br />
avvicinano e Dante domanda al dannato il proprio nome. Quest’ultimo scambia<br />
Dante per Benedetto Caetani e si meraviglia che questi sia giunto all’Inferno tre<br />
anni prima del previsto; infatti siamo nel 1300, mentre l’anno della morte di<br />
Benedetto, che il dannato sa per la facoltà che tutti i dannati hanno di vedere nel<br />
futuro, è il 1303.<br />
Il dannato che parla è Giovanni Gaetano Orsini, papa col nome di Niccolò III dal<br />
1277 al 1280, il quale praticò simonia per arricchire i suoi nipoti. Dante chiarisce a<br />
Niccolò III di non essere il dannato che lui credeva.<br />
Benedetto Caetani fu papa dal 1294 al 1303 con il nome di Bonifacio VIII. Dante lo<br />
additò come il suo grande nemico, avendo egli favorito, per le sue mire<br />
espansionistiche, la presa del potere dei Guelfi neri a Firenze (Dante, lo ricordiamo,<br />
era un guelfo bianco); tale ritorno dei Neri fu, tra l’altro, la causa dell’esilio del<br />
poeta. Dante, non potendo incontrare Bonifacio VIII nell’Inferno perché nell’aprile<br />
del 1300 (in cui si svolge l’immaginario viaggio del poeta nell’oltretomba) è ancora<br />
vivo, preannuncia, con sarcastica ironia, che già per lui è preparata la buca fra i<br />
simoniaci.<br />
73-123<br />
Di sotto al capo mio son li altri tratti<br />
che precedetter me simoneggiando,<br />
per le fessure de la pietra piatti.<br />
Là giù cascherò io altresì quando<br />
verrà colui ch'i' credea che tu fossi,<br />
allor ch'i' feci 'l sùbito dimando.<br />
Ma più è 'l tempo già che i piè mi cossi<br />
e ch'i' son stato così sottosopra,<br />
ch'el non starà piantato coi piè rossi:<br />
ché dopo lui verrà di più laida opra,<br />
di ver' ponente, un pastor sanza legge,<br />
tal che convien che lui e me ricuopra.
Nuovo Iasón sarà, di cui si legge<br />
ne' Maccabei; e come a quel fu molle<br />
suo re, così fia lui chi Francia regge».<br />
Io non so s'i' mi fui qui troppo folle,<br />
ch'i' pur rispuosi lui a questo metro:<br />
«Deh, or mi dì: quanto tesoro volle<br />
Nostro Segnore in prima da san Pietro<br />
ch'ei ponesse le chiavi in sua balìa?<br />
Certo non chiese se non "Viemmi retro".<br />
Né Pier né li altri tolsero a Matia<br />
oro od argento, quando fu sortito<br />
al loco che perdé l'anima ria.<br />
Però ti sta, ché tu se' ben punito;<br />
e guarda ben la mal tolta moneta<br />
ch'esser ti fece contra Carlo ardito.<br />
E se non fosse ch'ancor lo mi vieta<br />
la reverenza de le somme chiavi<br />
che tu tenesti ne la vita lieta,<br />
io userei parole ancor più gravi;<br />
ché la vostra avarizia il mondo attrista,<br />
calcando i buoni e sollevando i pravi.<br />
105<br />
Di voi pastor s'accorse il Vangelista,<br />
quando colei che siede sopra l'acque<br />
puttaneggiar coi regi a lui fu vista;<br />
quella che con le sette teste nacque,<br />
e da le diece corna ebbe argomento,<br />
fin che virtute al suo marito piacque.<br />
Fatto v'avete dio d'oro e d'argento;<br />
e che altro è da voi a l'idolatre,<br />
se non ch'elli uno, e voi ne orate cento?<br />
Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,<br />
non la tua conversion, ma quella dote<br />
che da te prese il primo ricco patre!»<br />
E mentr' io li cantava cotai note,<br />
o ira o coscïenza che 'l mordesse,<br />
forte spingava con ambo le piote.<br />
I' credo ben ch'al mio duca piacesse,<br />
con sì contenta labbia sempre attese<br />
lo suon de le parole vere espresse.<br />
Niccolò III aggiunge che sotto la sua testa sono conficcati coloro che lo precedettero<br />
nel peccato di simonia, e che dopo di lui verranno prima, come detto, papa<br />
Bonifacio VIII, e dopo Bertrand de Got, il quale farà sprofondare più giù papa<br />
Bonifacio VIII e ne prenderà il posto alla sommità della fossa.<br />
Originario della Guascogna, Bertrand de Got fu eletto pontefice nel 1305, col nome<br />
di Clemente V, grazie agli intrighi del re di Francia Filippo il Bello, ai cui voleri fu<br />
poi completamente sottomesso. Questo papa commise forse il più grave peccato di<br />
simonia possibile: vendette l’intera Chiesa cattolica, con il trasferimento della sede<br />
apostolica da Roma ad Avignone (in Francia).<br />
Dante allora prorompe in una violenta critica contro la corruzione dei papi,<br />
individuando nella donazione di Costantino l’origine di questa corruzione:<br />
l’imperatore Costantino, infatti, con la sua donazione, avvenuta nel 313 d.C., di<br />
terre a papa Silvestro I diede inizio al potere temporale dei papi, che secondo<br />
quanto il poeta sostiene nella sua opera intitolata Monarchia deve appartenere, per il<br />
bene dell’umanità, solo al Monarca; la Chiesa invece, sempre secondo Dante, deve<br />
esercitare solo il potere spirituale. In realtà però il potere temporale della Chiesa<br />
ebbe inizio nel 728, quando il re longobardo Liutprando avanzò verso Roma con<br />
l’intenzione di occuparla. Allora papa Gregorio II andò subito incontro al re e lo<br />
indusse non solo a desistere dall’intenzione di occupare Roma, ma anche a far<br />
consegnare alla Chiesa il castello di Sutri (nell’attuale provincia di Viterbo). Tale<br />
donazione segnò l’origine dello Stato Pontificio e, con essa, l’inizio ufficiale del<br />
potere temporale dei Papi. Più tardi la Chiesa, forse per giustificare tale potere, fece<br />
segretamente redigere un documento, passato alla storia come la “donazione di<br />
Costantino”, del quale si dichiarava, falsamente, che fosse autore l’imperatore
omano. In questo documento, che per tutto il Medioevo si credette autentico, e che<br />
quindi anche Dante considerò tale, era scritto che nel 313 d.C. l’imperatore<br />
Costantino fece una donazione di alcuni territori a papa Silvestro, dando così inizio<br />
al potere temporale della Chiesa, che in realtà avrebbe avuto legittimamente inizio,<br />
come abbiamo detto, con la donazione del castello di Sutri oltre quattro secoli dopo.<br />
124-133<br />
Però con ambo le braccia mi prese;<br />
e poi che tutto su mi s'ebbe al petto,<br />
rimontò per la via onde discese.<br />
Né si stancò d'avermi a sé distretto,<br />
sì men portò sovra 'l colmo de l'arco<br />
che dal quarto al quinto argine è tragetto.<br />
106<br />
Quivi soavemente spuose il carco,<br />
soave per lo scoglio sconcio ed erto<br />
che sarebbe a le capre duro varco.<br />
Indi un altro vallon mi fu scoperto.<br />
Quindi Virgilio prende fra le braccia Dante e risale fino al ponte che porta dalla<br />
terza alla quarta bolgia, e sulla sommità del ponte lo depone a terra.
1-24<br />
Di nova pena mi conven far versi<br />
e dar matera al ventesimo canto<br />
de la prima canzon, ch'è d'i sommersi.<br />
Io era già disposto tutto quanto<br />
a riguardar ne lo scoperto fondo,<br />
che si bagnava d'angoscioso pianto;<br />
e vidi gente per lo vallon tondo<br />
venir, tacendo e lagrimando, al passo<br />
che fanno le letane in questo mondo.<br />
Come 'l viso mi scese in lor più basso,<br />
mirabilmente apparve esser travolto<br />
ciascun tra 'l mento e 'l principio del casso,<br />
CANTO XX<br />
107<br />
ché da le reni era tornato 'l volto,<br />
e in dietro venir li convenia,<br />
perché 'l veder dinanzi era lor tolto.<br />
Forse per forza già di parlasia<br />
si travolse così alcun del tutto;<br />
ma io nol vidi, né credo che sia.<br />
Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto<br />
di tua lezione, or pensa per te stesso<br />
com' io potea tener lo viso asciutto,<br />
quando la nostra imagine di presso<br />
vidi sì torta, che 'l pianto de li occhi<br />
le natiche bagnava per lo fesso.<br />
Dalla sommità del ponte su cui l’ha deposto Virgilio, Dante guarda il fondo della<br />
quarta bolgia dell’ottavo cerchio, bagnata dalle lacrime dei dannati, i quali<br />
avanzano a passo lento come in una processione: sono gli indovini, la cui testa è<br />
orrendamente voltata all’indietro, cosa che li costringe a camminare a ritroso,<br />
mandando avanti le calcagna. <strong>La</strong> punizione degli indovini comprende anche la<br />
perdita della parola; pertanto l’unica loro espressione è il pianto.<br />
Il contrappasso è, qui, evidente e corrisponde alla colpa: come troppo vollero<br />
vedere nel futuro, così ora gli indovini sono condannati a guardare sempre indietro<br />
e a non poter più usare la parola così tanto illecitamente adoperata durante la vita<br />
terrena.<br />
25-30<br />
Certo io piangea, poggiato a un de' rocchi<br />
del duro scoglio, sì che la mia scorta<br />
mi disse: «Ancor se' tu de li altri sciocchi?<br />
Qui vive la pietà quand' è ben morta;<br />
chi è più scellerato che colui<br />
che al giudicio divin passion comporta?<br />
Dante, in preda allo sconforto per la condizione di questi dannati, si lascia andare al<br />
pianto; ma Virgilio prontamente lo rimprovera, dicendogli che è da sciocchi<br />
commuoversi dinanzi alla punizione inflitta dalla giustizia di Dio.<br />
31-130<br />
Drizza la testa, drizza, e vedi a cui<br />
s'aperse a li occhi d'i Teban la terra;<br />
per ch'ei gridavan tutti: "Dove rui,<br />
Anfïarao? perché lasci la guerra?"<br />
E non restò di ruinare a valle<br />
fino a Minòs che ciascheduno afferra.<br />
Mira c'ha fatto petto de le spalle;<br />
perché volse veder troppo davante,<br />
di retro guarda e fa retroso calle.<br />
Vedi Tiresia, che mutò sembiante<br />
quando di maschio femmina divenne,<br />
cangiandosi le membra tutte quante;
e prima, poi, ribatter li convenne<br />
li duo serpenti avvolti, con la verga,<br />
che rïavesse le maschili penne.<br />
Aronta è quel ch'al ventre li s'atterga,<br />
che ne' monti di Luni, dove ronca<br />
lo Carrarese che di sotto alberga,<br />
ebbe tra ' bianchi marmi la spelonca<br />
per sua dimora; onde a guardar le stelle<br />
e 'l mar non li era la veduta tronca.<br />
E quella che ricuopre le mammelle,<br />
che tu non vedi, con le trecce sciolte,<br />
e ha di là ogne pilosa pelle,<br />
Manto fu, che cercò per terre molte;<br />
poscia si puose là dove nacqu' io;<br />
onde un poco mi piace che m'ascolte.<br />
Poscia che 'l padre suo di vita uscìo<br />
e venne serva la città di Baco,<br />
questa gran tempo per lo mondo gio.<br />
Suso in Italia bella giace un laco,<br />
a piè de l'Alpe che serra <strong>La</strong>magna<br />
sovra Tiralli, c'ha nome Benaco.<br />
Per mille fonti, credo, e più si bagna<br />
tra Garda e Val Camonica e Pennino<br />
de l'acqua che nel detto laco stagna.<br />
Loco è nel mezzo là dove 'l trentino<br />
pastore e quel di Brescia e 'l veronese<br />
segnar poria, s'e' fesse quel cammino.<br />
Siede Peschiera, bello e forte arnese<br />
da fronteggiar Bresciani e Bergamaschi,<br />
ove la riva 'ntorno più discese.<br />
Ivi convien che tutto quanto caschi<br />
ciò che 'n grembo a Benaco star non può,<br />
e fassi fiume giù per verdi paschi.<br />
Tosto che l'acqua a correr mette co,<br />
non più Benaco, ma Mencio si chiama<br />
fino a Governol, dove cade in Po.<br />
Non molto ha corso, ch'el trova una lama,<br />
ne la qual si distende e la 'mpaluda;<br />
e suol di state talor esser grama.<br />
Quindi passando la vergine cruda<br />
vide terra, nel mezzo del pantano,<br />
sanza coltura e d'abitanti nuda.<br />
Lì, per fuggire ogne consorzio umano,<br />
ristette con suoi servi a far sue arti,<br />
e visse, e vi lasciò suo corpo vano.<br />
108<br />
Li uomini poi che 'ntorno erano sparti<br />
s'accolsero a quel loco, ch'era forte<br />
per lo pantan ch'avea da tutte parti.<br />
Fer la città sovra quell' ossa morte;<br />
e per colei che 'l loco prima elesse,<br />
Mantüa l'appellar sanz' altra sorte.<br />
Già fuor le genti sue dentro più spesse,<br />
prima che la mattia da Casalodi<br />
da Pinamonte inganno ricevesse.<br />
Però t'assenno che, se tu mai odi<br />
originar la mia terra altrimenti,<br />
la verità nulla menzogna frodi».<br />
E io: «Maestro, i tuoi ragionamenti<br />
mi son sì certi e prendon sì mia fede,<br />
che li altri mi sarien carboni spenti.<br />
Ma dimmi, de la gente che procede,<br />
se tu ne vedi alcun degno di nota;<br />
ché solo a ciò la mia mente rifiede».<br />
Allor mi disse: «Quel che da la gota<br />
porge la barba in su le spalle brune,<br />
fu - quando Grecia fu di maschi vòta,<br />
sì ch'a pena rimaser per le cune -<br />
augure, e diede 'l punto con Calcanta<br />
in Aulide a tagliar la prima fune.<br />
Euripilo ebbe nome, e così 'l canta<br />
l'alta mia tragedìa in alcun loco:<br />
ben lo sai tu che la sai tutta quanta.<br />
Quell' altro che ne' fianchi è così poco,<br />
Michele Scotto fu, che veramente<br />
de le magiche frode seppe 'l gioco.<br />
Vedi Guido Bonatti; vedi Asdente,<br />
ch'avere inteso al cuoio e a lo spago<br />
ora vorrebbe, ma tardi si pente.<br />
Vedi le triste che lasciaron l'ago,<br />
la spuola e 'l fuso, e fecersi 'ndivine;<br />
fecer malie con erbe e con imago.<br />
Ma vienne omai, ché già tiene 'l confine<br />
d'amendue li emisperi e tocca l'onda<br />
sotto Sobilia Caino e le spine;<br />
e già iernotte fu la luna tonda:<br />
ben ten de' ricordar, ché non ti nocque<br />
alcuna volta per la selva fonda».<br />
Sì mi parlava, e andavamo introcque.<br />
Poi Virgilio indica alcuni indovini del passato, tra cui Tiresia e sua figlia Manto.
Dalla mitologia classica sappiamo che Tiresia era un tebano, il quale un giorno,<br />
mentre si trovava sul monte Citerone (in Grecia), vide due serpenti accoppiati.<br />
Infastidito da quella scena, uccise la femmina, e contemporaneamente egli subì una<br />
prodigiosa trasformazione in donna. Sette anni dopo vide altri due serpenti<br />
accoppiati; questa volta uccise il maschio, e fu ritrasformato in uomo.<br />
<strong>La</strong> figlia di Tiresia, Manto, condusse una vita asociale e povera di ideali, accecata<br />
dalla sua inutile pratica delle arti magiche, per diffondere le quali ella girovagò<br />
come una zingara per il mondo, finché si stabilì definitivamente nel territorio in cui<br />
suo figlio Ocno fondò la città, Mantova, che prese il nome da lei.<br />
Al termine dell’elenco degli indovini, Virgilio invita Dante ad affrettarsi, perché il<br />
nuovo giorno è alle porte.<br />
109
1-57<br />
Così di ponte in ponte, altro parlando<br />
che la mia comedìa cantar non cura,<br />
venimmo; e tenavamo 'l colmo, quando<br />
restammo per veder l'altra fessura<br />
di Malebolge e li altri pianti vani;<br />
e vidila mirabilmente oscura.<br />
Quale ne l'arzanà de' Viniziani<br />
bolle l'inverno la tenace pece<br />
a rimpalmare i legni lor non sani,<br />
ché navicar non ponno - in quella vece<br />
chi fa suo legno novo e chi ristoppa<br />
le coste a quel che più vïaggi fece;<br />
chi ribatte da proda e chi da poppa;<br />
altri fa remi e altri volge sarte;<br />
chi terzeruolo e artimon rintoppa - :<br />
tal, non per foco ma per divin' arte,<br />
bollia là giuso una pegola spessa,<br />
che 'nviscava la ripa d'ogne parte.<br />
I' vedea lei, ma non vedëa in essa<br />
mai che le bolle che 'l bollor levava,<br />
e gonfiar tutta, e riseder compressa.<br />
Mentr' io là giù fisamente mirava,<br />
lo duca mio, dicendo «Guarda, guarda!»,<br />
mi trasse a sé del loco dov' io stava.<br />
Allor mi volsi come l'uom cui tarda<br />
di veder quel che li convien fuggire<br />
e cui paura sùbita sgagliarda,<br />
che, per veder, non indugia 'l partire:<br />
e vidi dietro a noi un diavol nero<br />
correndo su per lo scoglio venire.<br />
CANTO XXI<br />
110<br />
Ahi quant' elli era ne l'aspetto fero!<br />
e quanto mi parea ne l'atto acerbo,<br />
con l'ali aperte e sovra i piè leggero!<br />
L'omero suo, ch'era aguto e superbo,<br />
carcava un peccator con ambo l'anche,<br />
e quei tenea de' piè ghermito 'l nerbo.<br />
Del nostro ponte disse: «O Malebranche,<br />
ecco un de li anzïan di Santa Zita!<br />
Mettetel sotto, ch'i' torno per anche<br />
a quella terra, che n'è ben fornita:<br />
ogn' uom v'è barattier, fuor che Bonturo;<br />
del no, per li denar, vi si fa ita».<br />
Là giù 'l buttò, e per lo scoglio duro<br />
si volse; e mai non fu mastino sciolto<br />
con tanta fretta a seguitar lo furo.<br />
Quel s'attuffò, e tornò sù convolto;<br />
ma i demon che del ponte avean coperchio,<br />
gridar: «Qui non ha loco il Santo Volto!<br />
qui si nuota altrimenti che nel Serchio!<br />
Però, se tu non vuo' di nostri graffi,<br />
non far sopra la pegola soverchio».<br />
Poi l'addentar con più di cento raffi,<br />
disser: «Coverto convien che qui balli,<br />
sì che, se puoi, nascosamente accaffi».<br />
Non altrimenti i cuoci a' lor vassalli<br />
fanno attuffare in mezzo la caldaia<br />
la carne con li uncin, perché non galli.<br />
Dante e Virgilio giungono sul ponte che scavalca la quinta bolgia dell’ottavo<br />
cerchio, e si fermano a guardare in basso. Il fondo della bolgia è scuro a causa della<br />
pece che vi ribolle. Completamente sommersi dalla pece bollente sono i dannati di<br />
questa bolgia, i barattieri, cioè coloro che, ricoprendo posti di potere, se ne<br />
servirono per ottenere denaro o altri vantaggi personali. Se i dannati tentano di<br />
riemergere un po’ per alleviare la loro pena, vengono dilaniati dagli artigli e dagli<br />
uncini dei diavoli di questa bolgia.<br />
Per contrappasso, come nel mondo i barattieri arraffarono di nascosto, così ora essi<br />
stanno nascosti in mezzo alla pece bollente.<br />
Al verso 40 si afferma che particolarmente dediti alla baratteria furono i magistrati<br />
lucchesi. Lucca fu una delle tappe dell’esilio di Dante, che vi soggiornò tra la fine<br />
del 1307 e i primi del 1309. Nella sentenza che lo condannò all’esilio, lo stesso poeta
fu accusato di baratteria. Qui quest’accusa egli indirettamente la ritorce contro<br />
coloro che l’hanno formulata; infatti a quel tempo Lucca era una roccaforte dei<br />
Guelfi neri, cui si deve nel 1302 la cacciata dei Guelfi bianchi da Firenze e l’esilio del<br />
poeta.<br />
58-105<br />
Lo buon maestro «Acciò che non si paia<br />
che tu ci sia», mi disse, «giù t'acquatta<br />
dopo uno scheggio, ch'alcun schermo t'aia;<br />
e per nulla offension che mi sia fatta,<br />
non temer tu, ch'i' ho le cose conte,<br />
perch' altra volta fui a tal baratta».<br />
Poscia passò di là dal co del ponte;<br />
e com' el giunse in su la ripa sesta,<br />
mestier li fu d'aver sicura fronte.<br />
Con quel furore e con quella tempesta<br />
ch'escono i cani a dosso al poverello<br />
che di sùbito chiede ove s'arresta,<br />
usciron quei di sotto al ponticello,<br />
e volser contra lui tutt' i runcigli;<br />
ma el gridò: «Nessun di voi sia fello!<br />
Innanzi che l'uncin vostro mi pigli,<br />
traggasi avante l'un di voi che m'oda,<br />
e poi d'arruncigliarmi si consigli».<br />
Tutti gridaron: «Vada Malacoda!»;<br />
per ch'un si mosse - e li altri stetter fermi -<br />
e venne a lui dicendo: «Che li approda?»<br />
«Credi tu, Malacoda, qui vedermi<br />
esser venuto», disse 'l mio maestro,<br />
«sicuro già da tutti vostri schermi,<br />
111<br />
sanza voler divino e fato destro?<br />
<strong>La</strong>scian' andar, ché nel cielo è voluto<br />
ch'i' mostri altrui questo cammin silvestro».<br />
Allor li fu l'orgoglio sì caduto,<br />
ch'e' si lasciò cascar l'uncino a' piedi,<br />
e disse a li altri: «Omai non sia feruto».<br />
E 'l duca mio a me: «O tu che siedi<br />
tra li scheggion del ponte quatto quatto,<br />
sicuramente omai a me ti riedi».<br />
Per ch'io mi mossi e a lui venni ratto;<br />
e i diavoli si fecer tutti avanti,<br />
sì ch'io temetti ch'ei tenesser patto;<br />
così vid' ïo già temer li fanti<br />
ch'uscivan patteggiati di Caprona,<br />
veggendo sé tra nemici cotanti.<br />
I' m'accostai con tutta la persona<br />
lungo 'l mio duca, e non torceva li occhi<br />
da la sembianza lor ch'era non buona.<br />
Ei chinavan li raffi e «Vuo' che 'l tocchi»,<br />
diceva l'un con l'altro, «in sul groppone?»<br />
E rispondien: «Sì, fa che gliel' accocchi».<br />
Ma quel demonio che tenea sermone<br />
col duca mio, si volse tutto presto<br />
e disse: «Posa, posa, Scarmiglione!»<br />
Virgilio invita Dante a nascondersi dietro una sporgenza della roccia e lo rassicura<br />
di non temere, qualunque offesa gli venga fatta, in quanto lui conosce le cose,<br />
perché ebbe già una contesa in questi luoghi durante la sua prima discesa al basso<br />
Inferno (cfr. Inf., IX, 1-33).<br />
Dopo di che il maestro scende sull’argine tra la quinta e la sesta bolgia.<br />
Immediatamente i diavoli gli si scatenano contro con una furia simile a quella dei<br />
cani che, per un improvviso rumore, si lanciano addosso al poverello che si è<br />
avvicinato alla soglia di casa per chiedere l’elemosina. Ma Virgilio blocca il loro<br />
impeto chiedendo di parlare con uno di loro. I diavoli mandano come loro<br />
rappresentante Malacoda, al quale Virgilio dice di lasciare passare lui e Dante,<br />
perché il loro viaggio è stato voluto dalla Provvidenza divina. Allora il diavolo<br />
ordina ai suoi compagni di lasciarli passare, e Virgilio chiama Dante ad uscire dal<br />
nascondiglio; ma, non appena egli raggiunge il maestro, i diavoli cominciano a<br />
scaldarsi contro di lui ed a stento Malacoda li tiene a freno.
106-139<br />
Poi disse a noi: «Più oltre andar per questo<br />
iscoglio non si può, però che giace<br />
tutto spezzato al fondo l'arco sesto.<br />
E se l'andare avante pur vi piace,<br />
andatevene su per questa grotta;<br />
presso è un altro scoglio che via face.<br />
Ier, più oltre cinqu' ore che quest' otta,<br />
mille dugento con sessanta sei<br />
anni compié che qui la via fu rotta.<br />
Io mando verso là di questi miei<br />
a riguardar s'alcun se ne sciorina;<br />
gite con lor, che non saranno rei».<br />
«Tra'ti avante, Alichino, e Calcabrina»,<br />
cominciò elli a dire, «e tu, Cagnazzo;<br />
e Barbariccia guidi la decina.<br />
Libicocco vegn' oltre e Draghignazzo,<br />
Cirïatto sannuto e Graffiacane<br />
e Farfarello e Rubicante pazzo.<br />
112<br />
Cercate 'ntorno le boglienti pane;<br />
costor sian salvi infino a l'altro scheggio<br />
che tutto intero va sovra le tane».<br />
«Omè, maestro, che è quel ch'i' veggio?»,<br />
diss' io, «deh, sanza scorta andianci soli,<br />
se tu sa' ir; ch'i' per me non la cheggio.<br />
Se tu se' sì accorto come suoli,<br />
non vedi tu ch'e' digrignan li denti<br />
e con le ciglia ne minaccian duoli?»<br />
Ed elli a me: «Non vo' che tu paventi;<br />
lasciali digrignar pur a lor senno,<br />
ch'e' fanno ciò per li lessi dolenti».<br />
Per l'argine sinistro volta dienno;<br />
ma prima avea ciascun la lingua stretta<br />
coi denti, verso lor duca, per cenno;<br />
ed elli avea del cul fatto trombetta.<br />
Malacoda dice ai due poeti: «Ieri, oltre cinque ore più tardi rispetto all’ora attuale,<br />
sono trascorsi 1266 anni da quando il ponte della sesta bolgia crollò, al momento<br />
della morte di Cristo». Ora, dai Vangeli, ed in particolare da quello di Matteo<br />
(XXVII, 45-53), sappiamo che Cristo morì verso le tre del pomeriggio (cioè verso le<br />
15), e che al momento della sua morte il velo del tempio (il velo divideva le parti più<br />
riservate del tempio dedicato a Dio, chiamate rispettivamente il “Santo” e il “Santo<br />
dei Santi”) si squarciò in due da cima a fondo, la terra si scosse, le rocce si spezzarono…<br />
Perciò il dialogo tra Malacoda e i due poeti si svolge prima delle ore dieci di<br />
mattina (15 ─ 5) del 1300. A tale anno si è risaliti sommando 1266 (gli anni trascorsi<br />
dalla morte di Cristo) a 34, l’età che secondo Dante aveva Cristo quando morì;<br />
infatti Dante, come era consuetudine nel suo tempo, contava l’età di Cristo non<br />
dalla sua nascita (cioè dal 25 dicembre), ma dalla sua incarnazione (avvenuta, per<br />
induzione, nove mesi prima, e cioè il 25 marzo); pertanto secondo Dante Cristo<br />
morì a trentaquattro anni (e non a trentatré, come noi calcoliamo oggi). E siccome<br />
secondo la tradizione cristiana Cristo morì nel Venerdì Santo e Dante ha fatto il suo<br />
ingresso nell’Inferno la sera precedente rispetto al momento del dialogo con<br />
Malacoda, se ne deduce che Dante colloca l’inizio del suo viaggio ultraterreno nel<br />
Venerdì Santo del 1300, che quell’anno cadde l’8 aprile. Tale data conferma quanto<br />
il poeta dice nel v. 43 del I canto, e cioè che lui incontrò la lonza durante la dolce<br />
stagione (la primavera: l’8 aprile cade in primavera).<br />
Proprio nel 1300 papa Bonifacio VIII indisse il primo Giubileo della storia. Il<br />
Giubileo, detto anche “Anno Santo” è l’anno durante il quale i pellegrini che si<br />
recano a Roma ottengono l’indulgenza plenaria e cioè il condono delle pene per<br />
tutti i peccati commessi. Bonifacio VIII stabilì che si celebrasse ogni cento anni, ma i
Papi successivi accorciarono la cadenza gradualmente a cinquanta, poi a trentatré e<br />
infine ai venticinque anni attuali.<br />
<strong>La</strong> notizia fornita da Malacoda, e cioè che il ponte sulla sesta bolgia è crollato nel<br />
momento della morte di Cristo, è vera, ma di proposito egli aggiunge una notizia<br />
non vera, ossia che un altro ponte poco più avanti è rimasto illeso (la notizia è falsa<br />
per il fatto che tutti i ponti crollarono nel momento della morte di Cristo); ed in<br />
quella direzione li avvia offrendogli come scorta dieci diavoli, guidata dal diavolo<br />
Barbariccia.<br />
Dante vorrebbe fare a meno di quella scorta che gli incute timore, ma il maestro lo<br />
rassicura dicendogli che i gesti e gli sguardi minacciosi dei diavoli non sono rivolti<br />
contro loro due, bensì contro i barattieri.<br />
I nove diavoli mostrano per scherno la lingua a Barbariccia, in attesa del suo<br />
segnale di partenza, il quale subito dopo giunge triviale e osceno, per mezzo di una<br />
scorreggia (ed elli avea del cul fatto trombetta).<br />
113
1-120<br />
Io vidi già cavalier muover campo,<br />
e cominciare stormo e far lor mostra,<br />
e talvolta partir per loro scampo;<br />
corridor vidi per la terra vostra,<br />
o Aretini, e vidi gir gualdane,<br />
fedir torneamenti e correr giostra;<br />
quando con trombe, e quando con campane,<br />
con tamburi e con cenni di castella,<br />
e con cose nostrali e con istrane;<br />
né già con sì diversa cennamella<br />
cavalier vidi muover né pedoni,<br />
né nave a segno di terra o di stella.<br />
Noi andavam con li diece demoni.<br />
Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa<br />
coi santi, e in taverna coi ghiottoni.<br />
Pur a la pegola era la mia 'ntesa,<br />
per veder de la bolgia ogne contegno<br />
e de la gente ch'entro v'era incesa.<br />
Come i dalfini, quando fanno segno<br />
a' marinar con l'arco de la schiena<br />
che s'argomentin di campar lor legno,<br />
talor così, ad alleggiar la pena,<br />
mostrav' alcun de' peccatori 'l dosso<br />
e nascondea in men che non balena.<br />
E come a l'orlo de l'acqua d'un fosso<br />
stanno i ranocchi pur col muso fuori,<br />
sì che celano i piedi e l'altro grosso,<br />
sì stavan d'ogne parte i peccatori;<br />
ma come s'appressava Barbariccia,<br />
così si ritraén sotto i bollori.<br />
I' vidi, e anco il cor me n'accapriccia,<br />
uno aspettar così, com' elli 'ncontra<br />
ch'una rana rimane e l'altra spiccia;<br />
e Graffiacan, che li era più di contra,<br />
li arruncigliò le 'mpegolate chiome<br />
e trassel sù, che mi parve una lontra.<br />
I' sapea già di tutti quanti 'l nome,<br />
sì li notai quando fuorono eletti,<br />
e poi ch'e' si chiamaro, attesi come.<br />
«O Rubicante, fa che tu li metti<br />
li unghioni a dosso, sì che tu lo scuoi!»,<br />
gridavan tutti insieme i maladetti.<br />
CANTO XXII<br />
114<br />
E io: «Maestro mio, fa, se tu puoi,<br />
che tu sappi chi è lo sciagurato<br />
venuto a man de li avversari suoi».<br />
Lo duca mio li s'accostò allato;<br />
domandollo ond' ei fosse, e quei rispuose:<br />
«I' fui del regno di Navarra nato.<br />
Mia madre a servo d'un segnor mi puose,<br />
che m'avea generato d'un ribaldo,<br />
distruggitor di sé e di sue cose.<br />
Poi fui famiglia del buon re Tebaldo;<br />
quivi mi misi a far baratteria,<br />
di ch'io rendo ragione in questo caldo».<br />
E Cirïatto, a cui di bocca uscia<br />
d'ogne parte una sanna come a porco,<br />
li fé sentir come l'una sdruscia.<br />
Tra male gatte era venuto 'l sorco;<br />
ma Barbariccia il chiuse con le braccia<br />
e disse: «State in là, mentr' io lo 'nforco».<br />
E al maestro mio volse la faccia;<br />
«Domanda», disse, «ancor, se più disii<br />
saper da lui, prima ch'altri 'l disfaccia».<br />
Lo duca dunque: «Or dì: de li altri rii<br />
conosci tu alcun che sia latino<br />
sotto la pece?». E quelli: «I' mi partii,<br />
poco è, da un che fu di là vicino.<br />
Così foss' io ancor con lui coperto,<br />
ch'i' non temerei unghia né uncino!»<br />
E Libicocco «Troppo avem sofferto»,<br />
disse; e preseli 'l braccio col runciglio,<br />
sì che, stracciando, ne portò un lacerto.<br />
Draghignazzo anco i volle dar di piglio<br />
giuso a le gambe; onde 'l decurio loro<br />
si volse intorno intorno con mal piglio.<br />
Quand' elli un poco rappaciati fuoro,<br />
a lui, ch'ancor mirava sua ferita,<br />
domandò 'l duca mio sanza dimoro:<br />
«Chi fu colui da cui mala partita<br />
di' che facesti per venire a proda?»<br />
Ed ei rispuose: «Fu frate Gomita,<br />
quel di Gallura, vasel d'ogne froda,<br />
ch'ebbe i nemici di suo donno in mano,<br />
e fé sì lor, che ciascun se ne loda.
Danar si tolse e lasciolli di piano,<br />
sì com' e' dice; e ne li altri offici anche<br />
barattier fu non picciol, ma sovrano.<br />
Usa con esso donno Michel Zanche<br />
di Logodoro; e a dir di Sardigna<br />
le lingue lor non si sentono stanche.<br />
Omè, vedete l'altro che digrigna;<br />
i' direi anche, ma i' temo ch'ello<br />
non s'apparecchi a grattarmi la tigna».<br />
E 'l gran proposto, vòlto a Farfarello<br />
che stralunava li occhi per fedire,<br />
disse: «Fatti 'n costà, malvagio uccello!»<br />
«Se voi volete vedere o udire»,<br />
ricominciò lo spaürato appresso,<br />
«Toschi o Lombardi, io ne farò venire;<br />
ma stieno i Malebranche un poco in cesso,<br />
sì ch'ei non teman de le lor vendette;<br />
e io, seggendo in questo loco stesso,<br />
115<br />
per un ch'io son, ne farò venir sette<br />
quand' io suffolerò, com' è nostro uso<br />
di fare allor che fori alcun si mette».<br />
Cagnazzo a cotal motto levò 'l muso,<br />
crollando 'l capo, e disse: «Odi malizia<br />
ch'elli ha pensata per gittarsi giuso!»<br />
Ond' ei, ch'avea lacciuoli a gran divizia,<br />
rispuose: «Malizioso son io troppo,<br />
quand' io procuro a' mia maggior trestizia».<br />
Alichin non si tenne e, di rintoppo<br />
a li altri, disse a lui: «Se tu ti cali,<br />
io non ti verrò dietro di gualoppo,<br />
ma batterò sovra la pece l'ali.<br />
<strong>La</strong>scisi 'l collo, e sia la ripa scudo,<br />
a veder se tu sol più di noi vali».<br />
O tu che leggi, udirai nuovo ludo:<br />
ciascun da l'altra costa li occhi volse,<br />
quel prima, ch'a ciò fare era più crudo.<br />
Durante il cammino, scortato dai diavoli, Dante osserva alcuni barattieri. Uno di<br />
questi viene uncinato da un diavolo e viene tirato fuori dalla pece bollente. Virgilio<br />
domanda al dannato il proprio nome, e questi gli risponde di essere Ciampolo di<br />
Navarra. Questi stava alla corte di Tebaldo II, re di Navarra dal 1253 al 1270;<br />
Ciampolo abusò della fiducia del re dispensando, in cambio di denaro, grazie e<br />
benefici a molta gente.<br />
Virgilio domanda a Ciampolo se tra i dannati della bolgia conosca qualche italiano.<br />
Ciampolo risponde che uno di questi è frate Gomita, il quale fu vicario di Nino<br />
Visconti, signore della Gallura, in Sardegna, dal 1275 al 1296. Avendo arrestato<br />
alcuni cittadini che avevano congiurato contro Nino Visconti, frate Gomita si lasciò<br />
corrompore da essi per denaro e li lasciò liberi.<br />
Poi Ciampolo fa anche il nome di Michele Zanche, il quale fu vicario di Enzo, re li<br />
Logudoro, sempre in Sardegna, alla fine del XIII secolo. Dopo la morte di Enzo,<br />
Michele ne sposò la vedova, proclamandosi signore di Logudoro.<br />
121-151<br />
Lo Navarrese ben suo tempo colse;<br />
fermò le piante a terra, e in un punto<br />
saltò e dal proposto lor si sciolse.<br />
Di che ciascun di colpa fu compunto,<br />
ma quei più che cagion fu del difetto;<br />
però si mosse e gridò: «Tu se' giunto!»<br />
Ma poco i valse: ché l'ali al sospetto<br />
non potero avanzar; quelli andò sotto,<br />
e quei drizzò volando suso il petto:<br />
non altrimenti l'anitra di botto,<br />
quando 'l falcon s'appressa, giù s'attuffa,<br />
ed ei ritorna sù crucciato e rotto.<br />
Irato Calcabrina de la buffa,<br />
volando dietro li tenne, invaghito<br />
che quei campasse per aver la zuffa;<br />
e come 'l barattier fu disparito,<br />
così volse li artigli al suo compagno,<br />
e fu con lui sopra 'l fosso ghermito.
Ma l'altro fu bene sparvier grifagno<br />
ad artigliar ben lui, e amendue<br />
cadder nel mezzo del bogliente stagno.<br />
Lo caldo sghermitor sùbito fue;<br />
ma però di levarsi era neente,<br />
sì avieno inviscate l'ali sue.<br />
116<br />
Barbariccia, con li altri suoi dolente,<br />
quattro ne fé volar da l'altra costa<br />
con tutt' i raffi, e assai prestamente<br />
di qua, di là discesero a la posta;<br />
porser li uncini verso li 'mpaniati,<br />
ch'eran già cotti dentro da la crosta.<br />
E noi lasciammo lor così 'mpacciati.<br />
Sfruttando un momento propizio, Ciampolo si tuffa nella pece bollente, sfuggendo<br />
così ai diavoli. Tra alcuni di essi scoppia una rissa, approfittando della quale i due<br />
poeti si allontanano.
1-75<br />
Taciti, soli, sanza compagnia<br />
n'andavam l'un dinanzi e l'altro dopo,<br />
come frati minor vanno per via.<br />
Vòlt' era in su la favola d'Isopo<br />
lo mio pensier per la presente rissa,<br />
dov' el parlò de la rana e del topo;<br />
ché più non si pareggia 'mo' e 'issa'<br />
che l'un con l'altro fa, se ben s'accoppia<br />
principio e fine con la mente fissa.<br />
E come l'un pensier de l'altro scoppia,<br />
così nacque di quello un altro poi,<br />
che la prima paura mi fé doppia.<br />
Io pensava così: «Questi per noi<br />
sono scherniti con danno e con beffa<br />
sì fatta, ch'assai credo che lor nòi.<br />
Se l'ira sovra 'l mal voler s'aggueffa,<br />
ei ne verranno dietro più crudeli<br />
che 'l cane a quella lievre ch'elli acceffa».<br />
Già mi sentia tutti arricciar li peli<br />
de la paura e stava in dietro intento,<br />
quand' io dissi: «Maestro, se non celi<br />
te e me tostamente, i' ho pavento<br />
d'i Malebranche. Noi li avem già dietro;<br />
io li 'magino sì, che già li sento».<br />
E quei: «S'i' fossi di piombato vetro,<br />
l'imagine di fuor tua non trarrei<br />
più tosto a me, che quella dentro 'mpetro.<br />
Pur mo venieno i tuo' pensier tra ' miei,<br />
con simile atto e con simile faccia,<br />
sì che d'intrambi un sol consiglio fei.<br />
S'elli è che sì la destra costa giaccia,<br />
che noi possiam ne l'altra bolgia scendere,<br />
noi fuggirem l'imaginata caccia».<br />
Già non compié di tal consiglio rendere,<br />
ch'io li vidi venir con l'ali tese<br />
non molto lungi, per volerne prendere.<br />
Lo duca mio di sùbito mi prese,<br />
come la madre ch'al romore è desta<br />
e vede presso a sé le fiamme accese,<br />
CANTO XXIII<br />
117<br />
che prende il figlio e fugge e non s'arresta,<br />
avendo più di lui che di sé cura,<br />
tanto che solo una camiscia vesta;<br />
e giù dal collo de la ripa dura<br />
supin si diede a la pendente roccia,<br />
che l'un de' lati a l'altra bolgia tura.<br />
Non corse mai sì tosto acqua per doccia<br />
a volger ruota di molin terragno,<br />
quand' ella più verso le pale approccia,<br />
come 'l maestro mio per quel vivagno,<br />
portandosene me sovra 'l suo petto,<br />
come suo figlio, non come compagno.<br />
A pena fuoro i piè suoi giunti al letto<br />
del fondo giù, ch'e' furon in sul colle<br />
sovresso noi; ma non lì era sospetto:<br />
ché l'alta provedenza che lor volle<br />
porre ministri de la fossa quinta,<br />
poder di partirs' indi a tutti tolle.<br />
Là giù trovammo una gente dipinta<br />
che giva intorno assai con lenti passi,<br />
piangendo e nel sembiante stanca e vinta.<br />
Elli avean cappe con cappucci bassi<br />
dinanzi a li occhi, fatte de la taglia<br />
che in Clugnì per li monaci fassi.<br />
Di fuor dorate son, sì ch'elli abbaglia;<br />
ma dentro tutte piombo, e gravi tanto,<br />
che Federigo le mettea di paglia.<br />
Oh in etterno faticoso manto!<br />
Noi ci volgemmo ancor pur a man manca<br />
con loro insieme, intenti al tristo pianto;<br />
ma per lo peso quella gente stanca<br />
venìa sì pian, che noi eravam nuovi<br />
di compagnia ad ogne mover d'anca.<br />
Per ch'io al duca mio: «Fa che tu trovi<br />
alcun ch'al fatto o al nome si conosca,<br />
e li occhi, sì andando, intorno movi».<br />
Per la strettezza dell’argine i due poeti vanno l’uno dietro l’altro, senza la<br />
compagnia tumultuosa dei diavoli.<br />
Dante è terrorizzato dall’idea che i diavoli possano seguirli e raggiungerli. Infatti<br />
poco dopo questi sopraggiungono, con l’intenzione di aggredirli. Virgilio,
prontamente, con atto materno prende a sé il discepolo per metterlo in salvo, e lo<br />
trascina scivolando giù per il pendio verso il piano della bolgia sottostante. Qui i<br />
due poeti sono al sicuro, perché l’ordine divino ha tolto a questi demoni il potere di<br />
allontanarsi dalla quinta bolgia.<br />
Nella nuova bolgia, che è la sesta dell’ottavo cerchio, sono puniti gli ipocriti, i quali<br />
camminano molto stancamente e piangono a causa dell’oppressione di cappe<br />
pesantissime che sono costretti a portare indosso, con il cappuccio che ricade loro<br />
sugli occhi. Le cappe sono dorate all’esterno, ma internamente sono di piombo: la<br />
doratura esteriore rappresenta l’apparenza virtuosa, ma il piombo interno rivela la<br />
vera natura malvagia di questi peccatori. Ipocrita è infatti chi simula sentimenti e<br />
intenzioni lodevoli e moralmente buone, allo scopo di ingannare qualcuno per<br />
ottenerne simpatia o favori.<br />
76-108<br />
E un che 'ntese la parola tosca,<br />
di retro a noi gridò: «Tenete i piedi,<br />
voi che correte sì per l'aura fosca!<br />
Forse ch'avrai da me quel che tu chiedi».<br />
Onde 'l duca si volse e disse: «Aspetta,<br />
e poi secondo il suo passo procedi».<br />
Ristetti, e vidi due mostrar gran fretta<br />
de l'animo, col viso, d'esser meco;<br />
ma tardavali 'l carco e la via stretta.<br />
Quando fuor giunti, assai con l'occhio bieco<br />
mi rimiraron sanza far parola;<br />
poi si volsero in sé, e dicean seco:<br />
«Costui par vivo a l'atto de la gola;<br />
e s'e' son morti, per qual privilegio<br />
vanno scoperti de la grave stola?»<br />
Poi disser me: «O Tosco, ch'al collegio<br />
de l'ipocriti tristi se' venuto,<br />
dir chi tu se' non avere in dispregio».<br />
118<br />
E io a loro: «I' fui nato e cresciuto<br />
sovra 'l bel fiume d'Arno a la gran villa,<br />
e son col corpo ch'i' ho sempre avuto.<br />
Ma voi chi siete, a cui tanto distilla<br />
quant' i' veggio dolor giù per le guance?<br />
e che pena è in voi che sì sfavilla?»<br />
E l'un rispuose a me: «Le cappe rance<br />
son di piombo sì grosse, che li pesi<br />
fan così cigolar le lor bilance.<br />
Frati godenti fummo, e bolognesi;<br />
io Catalano e questi Loderingo<br />
nomati, e da tua terra insieme presi<br />
come suole esser tolto un uom solingo,<br />
per conservar sua pace; e fummo tali,<br />
ch'ancor si pare intorno dal Gardingo».<br />
Due anime, ascoltando l’accento toscano del poeta, lo esortano a fermarsi ed<br />
aspettare che loro lo raggiungano. Durante la vita terrena i due dannati furono<br />
podestà di diverse città, ed appartennero entrambi all’ordine dei Frati gaudenti.<br />
Nel 1266 furono chiamati a reggere insieme il comune di Firenze, con la speranza<br />
che, essendo uno guelfo e l’altro ghibellino, avrebbero riconciliato la due fazioni.<br />
Ma essi, in cambio di denaro, ipocritamente favorirono i Guelfi a danno dei<br />
Ghibellini.<br />
I Frati gaudenti erano un ordine di frati cavalieri fondato nel XIII secolo con lo<br />
scopo di assistere i poveri e i deboli contro i soprusi dei potenti e mettere pace tra i<br />
partiti, le città e le famiglie rivali. Potevano sposarsi e non erano obbligati a vivere<br />
in convento. Col tempo però la regola dell’ordine fu sempre meno rispettata dai
suoi appartenenti, che divennero sempre più corrotti e avidi di ricchezze materiali.<br />
L’ordine fu sciolto da papa Sisto V verso la fine del XVI secolo.<br />
109-123<br />
Io cominciai: «O frati, i vostri mali... »;<br />
ma più non dissi, ch'a l'occhio mi corse<br />
un, crucifisso in terra con tre pali.<br />
Quando mi vide, tutto si distorse,<br />
soffiando ne la barba con sospiri;<br />
e 'l frate Catalan, ch'a ciò s'accorse,<br />
mi disse: «Quel confitto che tu miri,<br />
consigliò i Farisei che convenia<br />
porre un uom per lo popolo a' martìri.<br />
119<br />
Attraversato è, nudo, ne la via,<br />
come tu vedi, ed è mestier ch'el senta<br />
qualunque passa, come pesa, pria.<br />
E a tal modo il socero si stenta<br />
in questa fossa, e li altri dal concilio<br />
che fu per li Giudei mala sementa».<br />
Mentre ancora sta parlando con i due frati, Dante viene distratto dalla vista di<br />
alcuni dannati crocifissi per terra: sono Caifa, suo suocero Anna e i sacerdoti del<br />
Sinedrio. Presso gli antichi Ebrei il Sinedrio era la più alta assemblea per<br />
amministrare la giustizia e decidere sui problemi religiosi. Caifa era un sommo<br />
sacerdote il quale, dopo il miracolo della resurrezione di <strong>La</strong>zzaro, temeva, così<br />
come gli altri sommi sacerdoti e i Farisei, che i Romani potessero credere in Gesù e<br />
pertanto distruggere i luoghi santi e la nazione degli Ebrei; per evitare questo<br />
rischio, Caifa consigliò al Sinedrio l’uccisione di Gesù, ma ipocritamente disse che<br />
quella non era una sua personale opionione ma il frutto di una profezia che era<br />
stata rivelata a lui in qualità di sommo sacerdote (Vangelo di s. Giovanni, XI, 47-53).<br />
Caifa, Anna e i sacerdoti del Sinedrio subiscono l’umiliante pena di essere calpestati<br />
perfino dagli altri ipocriti, così come in vita essi umiliarono e disprezzarono Cristo.<br />
124-148<br />
Allor vid' io maravigliar Virgilio<br />
sovra colui ch'era disteso in croce<br />
tanto vilmente ne l'etterno essilio.<br />
Poscia drizzò al frate cotal voce:<br />
«Non vi dispiaccia, se vi lece, dirci<br />
s'a la man destra giace alcuna foce<br />
onde noi amendue possiamo uscirci,<br />
sanza costrigner de li angeli neri<br />
che vegnan d'esto fondo a dipartirci».<br />
Rispuose adunque: «Più che tu non speri<br />
s'appressa un sasso che da la gran cerchia<br />
si move e varca tutt' i vallon feri,<br />
salvo che 'n questo è rotto e nol coperchia;<br />
montar potrete su per la ruina,<br />
che giace in costa e nel fondo soperchia».<br />
Lo duca stette un poco a testa china;<br />
poi disse: «Mal contava la bisogna<br />
colui che i peccator di qua uncina».<br />
E 'l frate: «Io udi' già dire a Bologna<br />
del diavol vizi assai, tra ' quali udi'<br />
ch'elli è bugiardo e padre di menzogna».<br />
Appresso il duca a gran passi sen gì,<br />
turbato un poco d'ira nel sembiante;<br />
ond' io da li 'ncarcati mi parti'<br />
dietro a le poste de le care piante.<br />
Poi Virgilio domanda ad uno dei frati la strada per uscire dalla sesta bolgia. Il<br />
dannato gli risponde che non lontano c’è un ponte rotto, e che quindi occorre
passare per le macerie. Virgilio si rende conto della bugia di Malacoda (il quale,<br />
ricordiamo, gli aveva detto che c’era un ponte integro: cfr. Inf., XXI, 106-139) e<br />
riprende il cammino assieme a Dante.<br />
120
1-45<br />
In quella parte del giovanetto anno<br />
che 'l sole i crin sotto l'Aquario tempra<br />
e già le notti al mezzo dì sen vanno,<br />
quando la brina in su la terra assempra<br />
l'imagine di sua sorella bianca,<br />
ma poco dura a la sua penna tempra,<br />
lo villanello a cui la roba manca,<br />
si leva, e guarda, e vede la campagna<br />
biancheggiar tutta; ond' ei si batte l'anca,<br />
ritorna in casa, e qua e là si lagna,<br />
come 'l tapin che non sa che si faccia;<br />
poi riede, e la speranza ringavagna,<br />
veggendo 'l mondo aver cangiata faccia<br />
in poco d'ora, e prende suo vincastro<br />
e fuor le pecorelle a pascer caccia.<br />
Così mi fece sbigottir lo mastro<br />
quand' io li vidi sì turbar la fronte,<br />
e così tosto al mal giunse lo 'mpiastro;<br />
ché, come noi venimmo al guasto ponte,<br />
lo duca a me si volse con quel piglio<br />
dolce ch'io vidi prima a piè del monte.<br />
Le braccia aperse, dopo alcun consiglio<br />
eletto seco riguardando prima<br />
ben la ruina, e diedemi di piglio.<br />
CANTO XXIV<br />
121<br />
E come quei ch'adopera ed estima,<br />
che sempre par che 'nnanzi si proveggia,<br />
così, levando me sù ver' la cima<br />
d'un ronchione, avvisava un'altra scheggia<br />
dicendo: «Sovra quella poi t'aggrappa;<br />
ma tenta pria s'è tal ch'ella ti reggia».<br />
Non era via da vestito di cappa,<br />
ché noi a pena, ei lieve e io sospinto,<br />
potavam sù montar di chiappa in chiappa.<br />
E se non fosse che da quel precinto<br />
più che da l'altro era la costa corta,<br />
non so di lui, ma io sarei ben vinto.<br />
Ma perché Malebolge inver' la porta<br />
del bassissimo pozzo tutta pende,<br />
lo sito di ciascuna valle porta<br />
che l'una costa surge e l'altra scende;<br />
noi pur venimmo al fine in su la punta<br />
onde l'ultima pietra si scoscende.<br />
<strong>La</strong> lena m'era del polmon sì munta<br />
quand' io fui sù, ch'i' non potea più oltre,<br />
anzi m'assisi ne la prima giunta.<br />
Virgilio abbraccia Dante e lo sospinge per agevolargli la salita del pendio che<br />
collega la sesta alla settima bolgia: ricordiamo infatti che ciascuna valle che ospita<br />
una bolgia dell’ottavo cerchio è separata da quella confinante da un argine roccioso;<br />
quindi, anche se i due poeti stanno scendendo di bolgia in bolgia, devono<br />
comunque ogni volta salire sugli argini, e poi ridiscendere.<br />
Giunto in vetta all’argine, Dante è esausto, e crolla a terra per la stanchezza.<br />
46-51<br />
«Omai convien che tu così ti spoltre»,<br />
disse „l maestro; «ché, seggendo in piuma,<br />
in fama non si vien, né sotto coltre;<br />
sanza la qual chi sua vita consuma,<br />
cotal vestigio in terra di sé lascia,<br />
qual fummo in aere ed in acqua la schiuma.
Il maestro incita Dante a vincere la sua pigrizia, perché sedendo su comodi cuscini<br />
o standosene oziosi sotto le coperte non è possibile raggiungere la fama; e chi<br />
spreca la propria vita senza conseguire la fama, quando muore non lascia nulla<br />
sulla terra, la propria esistenza si dissolve nel nulla, così come si dissolvono il fumo<br />
nell’aria e la schiuma nell’acqua. Questa efficacissima espressione è di origine<br />
biblica: si veda in proposito il libro “Sapienza”, V, 14.<br />
52-60<br />
E però leva sù; vinci l'ambascia<br />
con l'animo che vince ogne battaglia,<br />
se col suo grave corpo non s'accascia.<br />
Più lunga scala convien che si saglia;<br />
non basta da costoro esser partito.<br />
Se tu mi 'ntendi, or fa sì che ti vaglia».<br />
122<br />
Leva'mi allor, mostrandomi fornito<br />
meglio di lena ch'i' non mi sentia,<br />
e dissi: «Va, ch'i' son forte e ardito».<br />
Quindi Virgilio spiega al discepolo che con una grande forza di volontà si può<br />
vincere qualunque fatica; e aggiunge che il percorso che rimane da compiere sarà<br />
ancora più arduo di quello già compiuto.<br />
Le parole del maestro forniscono un grande vigore morale a Dante, il quale<br />
risponde così: «Va, ch‟i‟ son forte e ardito».<br />
61-75<br />
Su per lo scoglio prendemmo la via,<br />
ch'era ronchioso, stretto e malagevole,<br />
ed erto più assai che quel di pria.<br />
Parlando andava per non parer fievole;<br />
onde una voce uscì de l'altro fosso,<br />
a parole formar disconvenevole.<br />
Non so che disse, ancor che sovra 'l dosso<br />
fossi de l'arco già che varca quivi;<br />
ma chi parlava ad ire parea mosso.<br />
Io era vòlto in giù, ma li occhi vivi<br />
non poteano ire al fondo per lo scuro;<br />
per ch'io: «Maestro, fa che tu arrivi<br />
da l'altro cinghio e dismontiam lo muro;<br />
ché, com' i' odo quinci e non intendo,<br />
così giù veggio e neente affiguro».<br />
Così i due poeti riprendono il cammino e attraverso un percorso più angusto,<br />
scosceso e difficile di quello precedenete raggiungono la sommità del ponte che<br />
scavalca la settima bolgia, da cui Dante sente arrivare delle parole che (a causa della<br />
distanza) sono poco comprensibili e non riesce a vedere chi le ha pronunciate (a<br />
causa dell’oscurità). Perciò egli avanza al maestro la proposta di scendere nella<br />
bolgia.<br />
76-78<br />
«Altra risposta», disse, non ti rendo<br />
se non lo far; ché la dimanda onesta
si de‟ seguir con l‟opera tacendo.»<br />
Alla proposta del discepolo, Virgilio risponde che la giusta richiesta si deve<br />
soddisfare immediatamente, con i fatti, senza bisogno di aggiungere parole.<br />
79-151<br />
Noi discendemmo il ponte da la testa<br />
dove s'aggiugne con l'ottava ripa,<br />
e poi mi fu la bolgia manifesta:<br />
e vidivi entro terribile stipa<br />
di serpenti, e di sì diversa mena<br />
che la memoria il sangue ancor mi scipa.<br />
Più non si vanti Libia con sua rena;<br />
ché se chelidri, iaculi e faree<br />
produce, e cencri con anfisibena,<br />
né tante pestilenzie né sì ree<br />
mostrò già mai con tutta l'Etïopia<br />
né con ciò che di sopra al Mar Rosso èe.<br />
Tra questa cruda e tristissima copia<br />
corrëan genti nude e spaventate,<br />
sanza sperar pertugio o elitropia:<br />
con serpi le man dietro avean legate;<br />
quelle ficcavan per le ren la coda<br />
e 'l capo, ed eran dinanzi aggroppate.<br />
Ed ecco a un ch'era da nostra proda,<br />
s'avventò un serpente che 'l trafisse<br />
là dove 'l collo a le spalle s'annoda.<br />
Né O sì tosto mai né I si scrisse,<br />
com' el s'accese e arse, e cener tutto<br />
convenne che cascando divenisse;<br />
e poi che fu a terra sì distrutto,<br />
la polver si raccolse per sé stessa<br />
e 'n quel medesmo ritornò di butto.<br />
Così per li gran savi si confessa<br />
che la fenice more e poi rinasce,<br />
quando al cinquecentesimo anno appressa;<br />
erba né biado in sua vita non pasce,<br />
ma sol d'incenso lagrime e d'amomo,<br />
e nardo e mirra son l'ultime fasce.<br />
E qual è quel che cade, e non sa como,<br />
per forza di demon ch'a terra il tira,<br />
o d'altra oppilazion che lega l'omo,<br />
123<br />
quando si leva, che 'ntorno si mira<br />
tutto smarrito de la grande angoscia<br />
ch'elli ha sofferta, e guardando sospira:<br />
tal era 'l peccator levato poscia.<br />
Oh potenza di Dio, quant' è severa,<br />
che cotai colpi per vendetta croscia!<br />
Lo duca il domandò poi chi ello era;<br />
per ch'ei rispuose: «Io piovvi di Toscana,<br />
poco tempo è, in questa gola fiera.<br />
Vita bestial mi piacque e non umana,<br />
sì come a mul ch'i' fui; son Vanni Fucci<br />
bestia, e Pistoia mi fu degna tana».<br />
E ïo al duca: «Dilli che non mucci,<br />
e domanda che colpa qua giù 'l pinse;<br />
ch'io 'l vidi uomo di sangue e di crucci».<br />
E 'l peccator, che 'ntese, non s'infinse,<br />
ma drizzò verso me l'animo e 'l volto,<br />
e di trista vergogna si dipinse;<br />
poi disse: «Più mi duol che tu m'hai colto<br />
ne la miseria dove tu mi vedi,<br />
che quando fui de l'altra vita tolto.<br />
Io non posso negar quel che tu chiedi;<br />
in giù son messo tanto perch' io fui<br />
ladro a la sagrestia d'i belli arredi,<br />
e falsamente già fu apposto altrui.<br />
Ma perché di tal vista tu non godi,<br />
se mai sarai di fuor da' luoghi bui,<br />
apri li orecchi al mio annunzio, e odi.<br />
Pistoia in pria d'i Neri si dimagra;<br />
poi Fiorenza rinova gente e modi.<br />
Tragge Marte vapor di Val di Magra<br />
ch'è di torbidi nuvoli involuto;<br />
e con tempesta impetüosa e agra<br />
sovra Campo Picen fia combattuto;<br />
ond' ei repente spezzerà la nebbia,<br />
sì ch'ogne Bianco ne sarà feruto.<br />
E detto l'ho perché doler ti debbia!»<br />
Quindi i due poeti scendono nella settima bolgia, dove sono puniti i ladri. Il fondo<br />
della bolgia è pieno di serpenti. I dannati corrono nudi e terrorizzati, senza alcuna
speranza di trovare alcun nascondiglio (essi che in vita spesso rubarono di<br />
nascosto); le loro mani sono legate dietro la schiena da serpenti.<br />
Per contrappasso, le mani dei ladri sono ora tanto strettamente legate quanto in<br />
terra furono troppo sciolte sulle cose altrui. Il serpente, così come rappresentato<br />
nella Bibbia, è un chiaro riferimento alla natura subdola e ingannatrice del peccato<br />
dei ladri.<br />
Quando vengono morsi da un serpente, i dannati si incendiano e inceneriscono, per<br />
poi riprendere le sembianze originali (come essi in vita, travisandosi per compiere i<br />
furti, rinunciarono alle proprie sembianze). I due poeti osservano uno dei dannati<br />
subire questa trasformazione. Il suo nome è Vanni Fucci, pistoiese malvagio e<br />
violento, che rubò oggetti sacri nelle chiese.<br />
Irritato per il fatto di essere stato riconosciuto da Dante e dover quindi confessare la<br />
sua colpa, il dannato per dispetto gli predice la sconfitta dei Guelfi bianchi a<br />
Firenze.<br />
124
1-33<br />
Al fine de le sue parole il ladro<br />
le mani alzò con amendue le fiche,<br />
gridando: «Togli, Dio, ch'a te le squadro!»<br />
Da indi in qua mi fuor le serpi amiche,<br />
perch' una li s'avvolse allora al collo,<br />
come dicesse 'Non vo' che più diche';<br />
e un'altra a le braccia, e rilegollo,<br />
ribadendo sé stessa sì dinanzi,<br />
che non potea con esse dare un crollo.<br />
Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi<br />
d'incenerarti sì che più non duri,<br />
poi che 'n mal fare il seme tuo avanzi?<br />
Per tutt' i cerchi de lo 'nferno scuri<br />
non vidi spirto in Dio tanto superbo,<br />
non quel che cadde a Tebe giù da' muri.<br />
El si fuggì che non parlò più verbo;<br />
e io vidi un centauro pien di rabbia<br />
venir chiamando: «Ov' è, ov' è l'acerbo?»<br />
CANTO XXV<br />
125<br />
Maremma non cred' io che tante n'abbia,<br />
quante bisce elli avea su per la groppa<br />
infin ove comincia nostra labbia.<br />
Sovra le spalle, dietro da la coppa,<br />
con l'ali aperte li giacea un draco;<br />
e quello affuoca qualunque s'intoppa.<br />
Lo mio maestro disse: «Questi è Caco,<br />
che, sotto 'l sasso di monte Aventino,<br />
di sangue fece spesse volte laco.<br />
Non va co' suoi fratei per un cammino,<br />
per lo furto che frodolente fece<br />
del grande armento ch'elli ebbe a vicino;<br />
onde cessar le sue opere biece<br />
sotto la mazza d'Ercule, che forse<br />
gliene diè cento, e non sentì le diece».<br />
Il pistoiese Vanni Fucci termina il suo discorso con una bestemmia contro Dio, e<br />
subito due serpenti gli avvinghiano il collo e le braccia.<br />
Dante allora pronuncia un’aspra critica contro la città di Pistoia.<br />
Il dannato fugge, ma viene braccato dal centauro Caco, il quale ha sulla groppa<br />
tanti serpenti, mentre sulle spalle e dietro la nuca ha un drago che vomita fiamme.<br />
Caco viveva in una caverna dell’Aventino (uno dei sette colli su cui venne fondata<br />
Roma) e terrorizzava i paesi circostanti con uccisioni e ruberie.<br />
Virgilio spiega al discepolo che Caco non si trova, come gli altri centauri, nel primo<br />
girone del settimo cerchio, bensì si trova nella bolgia dei ladri perché aveva rubato<br />
con la frode quattro tori e quattro giovenche a Ercole; ma dopo il furto una<br />
giovenca muggì, Ercole accorse e uccise il ladro.<br />
34-151<br />
Mentre che sì parlava, ed el trascorse,<br />
e tre spiriti venner sotto noi,<br />
de' quai né io né 'l duca mio s'accorse,<br />
se non quando gridar: «Chi siete voi?»;<br />
per che nostra novella si ristette,<br />
e intendemmo pur ad essi poi.<br />
Io non li conoscea; ma ei seguette,<br />
come suol seguitar per alcun caso,<br />
che l'un nomar un altro convenette,<br />
dicendo: «Cianfa dove fia rimaso?»;<br />
per ch'io, acciò che 'l duca stesse attento,<br />
mi puosi 'l dito su dal mento al naso.<br />
Se tu se' or, lettore, a creder lento<br />
ciò ch'io dirò, non sarà maraviglia,<br />
ché io che 'l vidi, a pena il mi consento.<br />
Com' io tenea levate in lor le ciglia,<br />
e un serpente con sei piè si lancia<br />
dinanzi a l'uno, e tutto a lui s'appiglia.
Co' piè di mezzo li avvinse la pancia<br />
e con li anterïor le braccia prese;<br />
poi li addentò e l'una e l'altra guancia;<br />
li diretani a le cosce distese,<br />
e miseli la coda tra 'mbedue<br />
e dietro per le ren sù la ritese.<br />
Ellera abbarbicata mai non fue<br />
ad alber sì, come l'orribil fiera<br />
per l'altrui membra avviticchiò le sue.<br />
Poi s'appiccar, come di calda cera<br />
fossero stati, e mischiar lor colore,<br />
né l'un né l'altro già parea quel ch'era:<br />
come procede innanzi da l'ardore,<br />
per lo papiro suso, un color bruno<br />
che non è nero ancora e 'l bianco more.<br />
Li altri due 'l riguardavano, e ciascuno<br />
gridava: «Omè, Agnel, come ti muti!<br />
Vedi che già non se' né due né uno».<br />
Già eran li due capi un divenuti,<br />
quando n'apparver due figure miste<br />
in una faccia, ov' eran due perduti.<br />
Fersi le braccia due di quattro liste;<br />
le cosce con le gambe e 'l ventre e 'l casso<br />
divenner membra che non fuor mai viste.<br />
Ogne primaio aspetto ivi era casso:<br />
due e nessun l'imagine perversa<br />
parea; e tal sen gio con lento passo.<br />
Come 'l ramarro sotto la gran fersa<br />
dei dì canicular, cangiando sepe,<br />
folgore par se la via attraversa,<br />
sì pareva, venendo verso l'epe<br />
de li altri due, un serpentello acceso,<br />
livido e nero come gran di pepe;<br />
e quella parte onde prima è preso<br />
nostro alimento, a l'un di lor trafisse;<br />
poi cadde giuso innanzi lui disteso.<br />
Lo trafitto 'l mirò, ma nulla disse;<br />
anzi, co' piè fermati, sbadigliava<br />
pur come sonno o febbre l'assalisse.<br />
Elli 'l serpente e quei lui riguardava;<br />
l'un per la piaga e l'altro per la bocca<br />
fummavan forte, e 'l fummo si scontrava.<br />
Taccia Lucano ormai là dov' e' tocca<br />
del misero Sabello e di Nasidio,<br />
e attenda a udir quel ch'or si scocca.<br />
Taccia di Cadmo e d'Aretusa Ovidio,<br />
ché se quello in serpente e quella in fonte<br />
converte poetando, io non lo 'nvidio;<br />
126<br />
ché due nature mai a fronte a fronte<br />
non trasmutò sì ch'amendue le forme<br />
a cambiar lor matera fosser pronte.<br />
Insieme si rispuosero a tai norme,<br />
che 'l serpente la coda in forca fesse,<br />
e 'l feruto ristrinse insieme l'orme.<br />
Le gambe con le cosce seco stesse<br />
s'appiccar sì, che 'n poco la giuntura<br />
non facea segno alcun che si paresse.<br />
Togliea la coda fessa la figura<br />
che si perdeva là, e la sua pelle<br />
si facea molle, e quella di là dura.<br />
Io vidi intrar le braccia per l'ascelle,<br />
e i due piè de la fiera, ch'eran corti,<br />
tanto allungar quanto accorciavan quelle.<br />
Poscia li piè di rietro, insieme attorti,<br />
diventaron lo membro che l'uom cela,<br />
e 'l misero del suo n'avea due porti.<br />
Mentre che 'l fummo l'uno e l'altro vela<br />
di color novo, e genera 'l pel suso<br />
per l'una parte e da l'altra il dipela,<br />
l'un si levò e l'altro cadde giuso,<br />
non torcendo però le lucerne empie,<br />
sotto le quai ciascun cambiava muso.<br />
Quel ch'era dritto, il trasse ver' le tempie,<br />
e di troppa matera ch'in là venne<br />
uscir li orecchi de le gote scempie;<br />
ciò che non corse in dietro e si ritenne<br />
di quel soverchio, fé naso a la faccia<br />
e le labbra ingrossò quanto convenne.<br />
Quel che giacëa, il muso innanzi caccia,<br />
e li orecchi ritira per la testa<br />
come face le corna la lumaccia;<br />
e la lingua, ch'avëa unita e presta<br />
prima a parlar, si fende, e la forcuta<br />
ne l'altro si richiude; e 'l fummo resta.<br />
L'anima ch'era fiera divenuta,<br />
suffolando si fugge per la valle,<br />
e l'altro dietro a lui parlando sputa.<br />
Poscia li volse le novelle spalle,<br />
e disse a l'altro: «I' vo' che Buoso corra,<br />
com' ho fatt' io, carpon per questo calle».<br />
Così vid' io la settima zavorra<br />
mutare e trasmutare; e qui mi scusi<br />
la novità se fior la penna abborra.<br />
E avvegna che li occhi miei confusi<br />
fossero alquanto e l'animo smagato,<br />
non poter quei fuggirsi tanto chiusi,
ch'i' non scorgessi ben Puccio Sciancato;<br />
ed era quel che sol, di tre compagni<br />
127<br />
che venner prima, non era mutato;<br />
l'altr' era quel che tu, Gaville, piagni.<br />
Dopo che Virgilio ha finito di parlare e Caco si è allontanato alla ricerca di Vanni<br />
Fucci, si avvicinano tre nuovi spiriti, i quali sono tutti appartenenti a nobili famiglie<br />
fiorentine.<br />
Dante non conosce nessuno dei tre, ma subito dopo uno di loro domanda: «Dov’è<br />
rimasto Cianfa?» Questo Cianfa di cui domandano i dannati era anche lui<br />
fiorentino, e sembra che rubò svolgendo cariche pubbliche; i tre dannati non lo<br />
trovano perché costui si è precedentemente trasformato in serpente. Ad un tratto<br />
questo serpente si lancia su uno dei tre spiriti e vi si attorciglia; dopo di che avviene<br />
gradualmente un’orrenda trasformazione che fonde il corpo del serpente con quello<br />
del dannato, formando un solo corpo di serpente. Poi appare un serpente nero, che<br />
è anch’esso lo spirito trasformato di un ladro fiorentino. Questo serpente nero,<br />
pieno di ira e di veleno, con uno scatto fulmineo morde l’ombelico di uno degli altri<br />
due dannati. Dopo il morso, sia dalla bocca del serpente sia dall’ombelico dello<br />
spirito esce un fumo denso; dopo di che avviene una doppia terribile<br />
trasformazione: il serpente diventa uomo e l’uomo diventa serpente.<br />
Queste trasformazioni evidenziano che, come in vita i ladri derubarono gli altri dei<br />
loro averi, così ora essi si derubano l’un l’altro dell’unica cosa che rimane<br />
indissolubilmente legata all’uomo: la personalità.
1-12<br />
Godi, Fiorenza, poi che se' sì grande<br />
che per mare e per terra batti l'ali,<br />
e per lo 'nferno tuo nome si spande!<br />
Tra li ladron trovai cinque cotali<br />
tuoi cittadini onde mi ven vergogna,<br />
e tu in grande orranza non ne sali.<br />
CANTO XXVI<br />
128<br />
Ma se presso al mattin del ver si sogna,<br />
tu sentirai, di qua da picciol tempo,<br />
di quel che Prato, non ch'altri, t'agogna.<br />
E se già fosse, non saria per tempo.<br />
Così foss' ei, da che pur esser dee!<br />
ché più mi graverà, com' più m'attempo.<br />
Il canto XXVI inizia con una manifestazione di sdegno e vergogna da parte di<br />
Dante per il fatto che i cinque dannati (oltre a Vanni Fucci) che lui ha visto nella<br />
bolgia dei ladri sono tutti suoi concittadini.<br />
13-48<br />
Noi ci partimmo, e su per le scalee<br />
che n'avea fatto iborni a scender pria,<br />
rimontò 'l duca mio e trasse mee;<br />
e proseguendo la solinga via,<br />
tra le schegge e tra ' rocchi de lo scoglio<br />
lo piè sanza la man non si spedia.<br />
Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio<br />
quando drizzo la mente a ciò ch'io vidi,<br />
e più lo 'ngegno affreno ch'i' non soglio,<br />
perché non corra che virtù nol guidi;<br />
sì che, se stella bona o miglior cosa<br />
m'ha dato 'l ben, ch'io stessi nol m'invidi.<br />
Quante 'l villan ch'al poggio si riposa,<br />
nel tempo che colui che 'l mondo schiara<br />
la faccia sua a noi tien meno ascosa,<br />
come la mosca cede a la zanzara,<br />
vede lucciole giù per la vallea,<br />
forse colà dov' e' vendemmia e ara:<br />
di tante fiamme tutta risplendea<br />
l'ottava bolgia, sì com' io m'accorsi<br />
tosto che fui là 've 'l fondo parea.<br />
E qual colui che si vengiò con li orsi<br />
vide 'l carro d'Elia al dipartire,<br />
quando i cavalli al cielo erti levorsi,<br />
che nol potea sì con li occhi seguire,<br />
ch'el vedesse altro che la fiamma sola,<br />
sì come nuvoletta, in sù salire:<br />
tal si move ciascuna per la gola<br />
del fosso, ché nessuna mostra 'l furto,<br />
e ogne fiamma un peccatore invola.<br />
Io stava sovra 'l ponte a veder surto,<br />
sì che s'io non avessi un ronchion preso,<br />
caduto sarei giù sanz' esser urto.<br />
E 'l duca che mi vide tanto atteso,<br />
disse: «Dentro dai fuochi son li spirti;<br />
catun si fascia di quel ch'elli è inceso».<br />
I due poeti si allontanano dal punto del ponte su cui si erano fermati per osservare<br />
la bolgia dei ladri, e Virgilio risale i gradini, traendo a sé il discepolo per aiutarlo.<br />
<strong>La</strong> salita si rivela molto impegnativa, tant’è che è necessario aiutarsi con le mani<br />
aggrappandosi alle sporgenze delle rocce. Raggiunta la sommità dell’argine, Dante<br />
vede sotto di sé la valle dell’ottava bolgia, dove sono puniti i consiglieri di frodi, la<br />
quale è disseminata di tante fiamme che si spostano. Ogni fiamma avvolge<br />
completamente un dannato.<br />
Contrappasso: come in vita i consiglieri di frodi agirono per vie sotterranee, così ora<br />
sono irriconoscibili nella lingua di fuoco.
49-63<br />
«Maestro mio», rispuos' io, «per udirti<br />
son io più certo; ma già m'era avviso<br />
che così fosse, e già voleva dirti:<br />
chi è 'n quel foco che vien sì diviso<br />
di sopra, che par surger de la pira<br />
dov' Eteòcle col fratel fu miso?»<br />
Rispuose a me: «Là dentro si martira<br />
Ulisse e Dïomede, e così insieme<br />
a la vendetta vanno come a l'ira;<br />
129<br />
e dentro da la lor fiamma si geme<br />
l'agguato del caval che fé la porta<br />
onde uscì de' Romani il gentil seme.<br />
Piangevisi entro l'arte per che, morta,<br />
Deïdamìa ancor si duol d'Achille,<br />
e del Palladio pena vi si porta».<br />
Il poeta si accorge che tra le fiamme ce n’è una suddivisa in due parti, e incuriosito<br />
domanda al maestro chi ci sta dentro. Virgilio gli risponde che dentro quella<br />
fiamma biforcuta stanno Ulisse e Diomede, guerrieri greci, i quali sono puniti<br />
insieme, come in vita erano uniti nell’ordire tranelli e frodi. Le colpe che essi<br />
scontano sono tre: 1) l’ideazione dell’inganno del cavallo di legno, per mezzo del<br />
quale i Greci penetrarono in Troia, distruggendola; 2) l’invenzione dello<br />
stratagemma per mezzo del quale Achille fu smascherato nell’isola di Sciro (in<br />
Grecia), dove la madre lo aveva nascosto vestito da donna per non farlo partire per<br />
la guerra di Troia; 3) il rapimento col quale, travestiti da mendicanti, portarono<br />
fuori dalla città di Troia il Palladio, che era la statua raffigurante la dea Pallade<br />
Atena (nome greco di Minerva), la quale finché era tra le mura della città la rendeva<br />
inespugnabile.<br />
Dante punisce le frodi messe in atto da Ulisse e Diomede, non le giustifica perché,<br />
secondo la concezione medievale, il male quando è male non si può cancellare<br />
neanche se commesso per amor di patria o per ragioni di guerra. Inoltre bisogna<br />
considerare che Dante (come egli stesso afferma nel De Monarchia) fu un grande<br />
estimatore della civiltà romana; e siccome Roma fu fondata dal troiano Enea, e<br />
Troia fu distrutta per opera soprattutto di Ulisse, non c’è da meravigliarsi se,<br />
malgrado quest’ultimo sia comunemente visto come un eroe, il poeta lo pone<br />
nell’Inferno.<br />
64-117<br />
«S'ei posson dentro da quelle faville<br />
parlar», diss' io, «maestro, assai ten priego<br />
e ripriego, che 'l priego vaglia mille,<br />
che non mi facci de l'attender niego<br />
fin che la fiamma cornuta qua vegna;<br />
vedi che del disio ver' lei mi piego!»<br />
Ed elli a me: «<strong>La</strong> tua preghiera è degna<br />
di molta loda, e io però l'accetto;<br />
ma fa che la tua lingua si sostegna.<br />
<strong>La</strong>scia parlare a me, ch'i' ho concetto<br />
ciò che tu vuoi; ch'ei sarebbero schivi,<br />
perch' e' fuor greci, forse del tuo detto».<br />
Poi che la fiamma fu venuta quivi<br />
dove parve al mio duca tempo e loco,<br />
in questa forma lui parlare audivi:<br />
«O voi che siete due dentro ad un foco,<br />
s'io meritai di voi mentre ch'io vissi,<br />
s'io meritai di voi assai o poco
quando nel mondo li alti versi scrissi,<br />
non vi movete; ma l'un di voi dica<br />
dove, per lui, perduto a morir gissi».<br />
Lo maggior corno de la fiamma antica<br />
cominciò a crollarsi mormorando,<br />
pur come quella cui vento affatica;<br />
indi la cima qua e là menando,<br />
come fosse la lingua che parlasse,<br />
gittò voce di fuori e disse: «Quando<br />
mi diparti' da Circe, che sottrasse<br />
me più d'un anno là presso a Gaeta,<br />
prima che sì Enëa la nomasse,<br />
né dolcezza di figlio, né la pieta<br />
del vecchio padre, né 'l debito amore<br />
lo qual dovea Penelopè far lieta,<br />
vincer potero dentro a me l'ardore<br />
ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto<br />
e de li vizi umani e del valore;<br />
130<br />
ma misi me per l'alto mare aperto<br />
sol con un legno e con quella compagna<br />
picciola da la qual non fui diserto.<br />
L'un lito e l'altro vidi infin la Spagna,<br />
fin nel Morrocco, e l'isola d'i Sardi,<br />
e l'altre che quel mare intorno bagna.<br />
Io e ' compagni eravam vecchi e tardi<br />
quando venimmo a quella foce stretta<br />
dov' Ercule segnò li suoi riguardi<br />
acciò che l'uom più oltre non si metta;<br />
da la man destra mi lasciai Sibilia,<br />
da l'altra già m'avea lasciata Setta.<br />
"O frati", dissi, "che per cento milia<br />
perigli siete giunti a l'occidente,<br />
a questa tanto picciola vigilia<br />
d'i nostri sensi ch'è del rimanente<br />
non vogliate negar l'esperïenza,<br />
di retro al sol, del mondo sanza gente.<br />
Su richiesta di Dante, Virgilio si rivolge ai due dannati e domanda chi dei due<br />
voglia raccontare la propria morte. Alla domanda di Virgilio, si comincia ad agitare<br />
una delle due parti della fiamma, quella maggiore, dando l’impressione che la cima<br />
della fiamma si muova come una lingua che parla. Dante qui pone in risalto la<br />
lingua associata al fuoco: questi peccatori infatti si servirono della propria<br />
eloquenza per un fine sbagliato.<br />
<strong>La</strong> parte maggiore della fiamma è quella che avvolge Ulisse; la differenza di<br />
grandezza tra le due parti della fiamma indica la preminenza delle qualità del re di<br />
Itaca (Ulisse) su quelle di Diomede.<br />
Ulisse comincia il suo racconto dal giorno in cui si allontanò, dopo esservi stato per<br />
oltre un anno, dalla maga Circe, che abitava nell’isola Eèa, che si volle poi<br />
identificare con un promontorio del <strong>La</strong>zio, e che da lei prese il nome di Circello<br />
(l’odierno Circeo). Ciò che spinse Ulisse ad abbandonare l’isola fu l’ardore di<br />
conoscere il mondo, di fare esperienza, di scoprire i pregi e i difetti umani; e nulla<br />
riuscì a trattenerlo dal suo proposito, nemmeno il tenero affetto per il figlio<br />
Telemaco, il religioso sentimento di venerazione per il padre <strong>La</strong>erte e l’amore per la<br />
sposa Penelope. Così egli salpò con una sola nave e con la compagnia di pochi ma<br />
fedelissimi uomini, toccando i lidi di Europa e Africa. Il viaggio in mare durò tanti<br />
anni, tant’è che quando giunsero davanti alle colonne d’Ercole (in corrispondenza<br />
dell’attuale stretto di Gibilterra) lui e gli altri erano già alquanto invecchiati. Le<br />
colonne d’Ercole erano due colonne o rupi che Ercole aveva posto come confini del<br />
mondo, che era proibito agli uomini superare. Giunti qui, Ulisse fece un discorso ai<br />
suoi uomini, incitandoli ad affrontare un’impresa mai tentata da altri, quella<br />
appunto di oltrepassare le colonne e continuare la navigazione nell’Oceano.<br />
118-120
Considerate la vostra semenza:<br />
fatti non foste a viver come bruti,<br />
ma per seguir virtute e canoscenza».<br />
In questa celebre terzina, Ulisse, nel suo discorso di incitamento fatto ai suoi<br />
uomini, li spinge a riflettere sull’origine e la dignità della natura umana,<br />
rimarcando il fatto che l’uomo non è stato creato per vivere come le bestie, ma per<br />
praticare il bene morale e quello dell’intelletto.<br />
121-142<br />
Li miei compagni fec' io sì aguti,<br />
con questa orazion picciola, al cammino,<br />
che a pena poscia li avrei ritenuti;<br />
e volta nostra poppa nel mattino,<br />
de' remi facemmo ali al folle volo,<br />
sempre acquistando dal lato mancino.<br />
Tutte le stelle già de l'altro polo<br />
vedea la notte, e 'l nostro tanto basso,<br />
che non surgëa fuor del marin suolo.<br />
Cinque volte racceso e tante casso<br />
lo lume era di sotto da la luna,<br />
poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo,<br />
131<br />
quando n'apparve una montagna, bruna<br />
per la distanza, e parvemi alta tanto<br />
quanto veduta non avëa alcuna.<br />
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;<br />
ché de la nova terra un turbo nacque<br />
e percosse del legno il primo canto.<br />
Tre volte il fé girar con tutte l'acque;<br />
a la quarta levar la poppa in suso<br />
e la prora ire in giù, com' altrui piacque,<br />
infin che 'l mar fu sovra noi richiuso».<br />
Il breve ma intenso discorso di Ulisse rese i suoi compagni fortemente desiderosi di<br />
continuare il viaggio verso Occidente, al di là delle colonne d’Ercole. Dopo cinque<br />
mesi di viaggio, essi si rallegrarono per essere loro apparsa una montagna altissima<br />
(quella dove Dante colloca il Purgatorio); ma la gioia si tramutò subito in dramma,<br />
poiché da quella montagna si originò un turbine che provocò un naufragio nel<br />
quale Ulisse e compagni persero la vita.<br />
Il turbine, secondo quanto lascia intendere Dante, fu determinato dalla volontà<br />
divina (com‟altrui piacque). Infatti la temeraria impresa tentata da Ulisse e compagni<br />
di oltrepassare le colonne d’Ercole simboleggia la presunzione di coloro che per<br />
mezzo della sola ragione vorrebbero abbattere i limiti della conoscenza umana, i<br />
quali possono essere superati solo con l’aiuto della grazia divina.
1-15<br />
Già era dritta in sù la fiamma e queta<br />
per non dir più, e già da noi sen gia<br />
con la licenza del dolce poeta,<br />
quand' un'altra, che dietro a lei venìa,<br />
ne fece volger li occhi a la sua cima<br />
per un confuso suon che fuor n'uscia.<br />
Come 'l bue cicilian che mugghiò prima<br />
col pianto di colui, e ciò fu dritto,<br />
che l'avea temperato con sua lima,<br />
CANTO XXVII<br />
132<br />
mugghiava con la voce de l'afflitto,<br />
sì che, con tutto che fosse di rame,<br />
pur el pareva dal dolor trafitto;<br />
così, per non aver via né forame<br />
dal principio nel foco, in suo linguaggio<br />
si convertïan le parole grame.<br />
<strong>La</strong> fiamma in cui bruciano Ulisse e Diomede si allontana e se ne avvicina un’altra,<br />
dalla quale esce un suono di parole confuse e soffocate, che ricordano il lamento<br />
proveniente dal toro che fece costruire Falaride, tiranno di Agrigento, per i<br />
condannati di lesa maestà. Questo toro era di rame e al suo interno, che era vuoto,<br />
vi si introduceva il condannato, che poi veniva chiuso dentro; dopo di che si<br />
accendeva il fuoco sotto il toro. Quest’ultimo, divenuto rovente, sembrava che<br />
muggisse per le urla di dolore provenienti dal condannato. Ma il primo a<br />
sperimentare il funzionamento dell’ordigno di morte fu proprio il suo inventore,<br />
l’ateniese Perillo.<br />
16-129<br />
Ma poscia ch'ebber colto lor vïaggio<br />
su per la punta, dandole quel guizzo<br />
che dato avea la lingua in lor passaggio,<br />
udimmo dire: «O tu a cu' io drizzo<br />
la voce e che parlavi mo lombardo,<br />
dicendo "Istra ten va, più non t'adizzo",<br />
perch' io sia giunto forse alquanto tardo,<br />
non t'incresca restare a parlar meco;<br />
vedi che non incresce a me, e ardo!<br />
Se tu pur mo in questo mondo cieco<br />
caduto se' di quella dolce terra<br />
latina ond' io mia colpa tutta reco,<br />
dimmi se Romagnuoli han pace o guerra;<br />
ch'io fui d'i monti là intra Orbino<br />
e 'l giogo di che Tever si diserra».<br />
Io era in giuso ancora attento e chino,<br />
quando il mio duca mi tentò di costa,<br />
dicendo: «Parla tu; questi è latino».<br />
E io, ch'avea già pronta la risposta,<br />
sanza indugio a parlare incominciai:<br />
«O anima che se' là giù nascosta,<br />
Romagna tua non è, e non fu mai,<br />
sanza guerra ne' cuor de' suoi tiranni;<br />
ma 'n palese nessuna or vi lasciai.<br />
Ravenna sta come stata è molt' anni:<br />
l'aguglia da Polenta la si cova,<br />
sì che Cervia ricuopre co' suoi vanni.<br />
<strong>La</strong> terra che fé già la lunga prova<br />
e di Franceschi sanguinoso mucchio,<br />
sotto le branche verdi si ritrova.<br />
E 'l mastin vecchio e 'l nuovo da Verrucchio,<br />
che fecer di Montagna il mal governo,<br />
là dove soglion fan d'i denti succhio.<br />
Le città di <strong>La</strong>mone e di Santerno<br />
conduce il lïoncel dal nido bianco,<br />
che muta parte da la state al verno.<br />
E quella cu' il Savio bagna il fianco,<br />
così com' ella sie' tra 'l piano e 'l monte,<br />
tra tirannia si vive e stato franco.<br />
Ora chi se', ti priego che ne conte;<br />
non esser duro più ch'altri sia stato,<br />
se 'l nome tuo nel mondo tegna fronte».
Poscia che 'l foco alquanto ebbe rugghiato<br />
al modo suo, l'aguta punta mosse<br />
di qua, di là, e poi diè cotal fiato:<br />
«S'i' credesse che mia risposta fosse<br />
a persona che mai tornasse al mondo,<br />
questa fiamma staria sanza più scosse;<br />
ma però che già mai di questo fondo<br />
non tornò vivo alcun, s'i' odo il vero,<br />
sanza tema d'infamia ti rispondo.<br />
Io fui uom d'arme, e poi fui cordigliero,<br />
credendomi, sì cinto, fare ammenda;<br />
e certo il creder mio venìa intero,<br />
se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!,<br />
che mi rimise ne le prime colpe;<br />
e come e quare, voglio che m'intenda.<br />
Mentre ch'io forma fui d'ossa e di polpe<br />
che la madre mi diè, l'opere mie<br />
non furon leonine, ma di volpe.<br />
Li accorgimenti e le coperte vie<br />
io seppi tutte, e sì menai lor arte,<br />
ch'al fine de la terra il suono uscie.<br />
Quando mi vidi giunto in quella parte<br />
di mia etade ove ciascun dovrebbe<br />
calar le vele e raccoglier le sarte,<br />
ciò che pria mi piacëa, allor m'increbbe,<br />
e pentuto e confesso mi rendei;<br />
ahi miser lasso! e giovato sarebbe.<br />
Lo principe d'i novi Farisei,<br />
avendo guerra presso a <strong>La</strong>terano,<br />
e non con Saracin né con Giudei,<br />
ché ciascun suo nimico era Cristiano,<br />
e nessun era stato a vincer Acri<br />
né mercatante in terra di Soldano,<br />
né sommo officio né ordini sacri<br />
guardò in sé, né in me quel capestro<br />
che solea fare i suoi cinti più macri.<br />
133<br />
Ma come Costantin chiese Silvestro<br />
d'entro Siratti a guerir de la lebbre,<br />
così mi chiese questi per maestro<br />
a guerir de la sua superba febbre;<br />
domandommi consiglio, e io tacetti<br />
perché le sue parole parver ebbre.<br />
E' poi ridisse: "Tuo cuor non sospetti;<br />
finor t'assolvo, e tu m'insegna fare<br />
sì come Penestrino in terra getti.<br />
Lo ciel poss' io serrare e diserrare,<br />
come tu sai; però son due le chiavi<br />
che 'l mio antecessor non ebbe care".<br />
Allor mi pinser li argomenti gravi<br />
là 've 'l tacer mi fu avviso 'l peggio,<br />
e dissi: "Padre, da che tu mi lavi<br />
di quel peccato ov' io mo cader deggio,<br />
lunga promessa con l'attender corto<br />
ti farà trïunfar ne l'alto seggio".<br />
Francesco venne poi, com' io fu' morto,<br />
per me; ma un d'i neri cherubini<br />
li disse: "Non portar: non mi far torto.<br />
Venir se ne dee giù tra ' miei meschini<br />
perché diede 'l consiglio frodolente,<br />
dal quale in qua stato li sono a' crini;<br />
ch'assolver non si può chi non si pente,<br />
né pentere e volere insieme puossi<br />
per la contradizion che nol consente".<br />
Oh me dolente! come mi riscossi<br />
quando mi prese dicendomi: "Forse<br />
tu non pensavi ch'io löico fossi!".<br />
A Minòs mi portò; e quelli attorse<br />
otto volte la coda al dosso duro;<br />
e poi che per gran rabbia la si morse,<br />
disse: "Questi è d'i rei del foco furo";<br />
per ch'io là dove vedi son perduto,<br />
e sì vestito, andando, mi rancuro».<br />
Ma non appena le parole si aprono bene la via per uscire chiare e comprensibili<br />
attraverso la cima della fiamma, il dannato che vi arde dentro domanda a Virgilio<br />
notizie sulla propria terra, la Romagna. Virgilio incarica di dare la risposta Dante, il<br />
quale riferisce al dannato che quella regione non è mai stata in pace; tuttavia in<br />
questo momento (siamo nel 1300) nessuna guerra vi è manifestamente in corso.<br />
Infine il poeta chiede al dannato di rivelare il proprio nome. Il dannato accetta di<br />
rispondere solo perché crede di rivolgersi a un’anima, e non a una persona viva; il<br />
suo timore infatti è quello, rispondendo, di procurarsi infamia sulla terra, ed è<br />
convinto che le notizie che sta per rivelare resteranno racchiuse nella bolgia dei<br />
consiglieri fraudolenti. Chi parla è Guido da Montefeltro, prode guerriero e uomo<br />
di stato scaltrissimo, il quale dice che se non fosse stato per colpa di papa Bonifacio
VIII, adesso lui non sarebbe condannato alle pene dell’Inferno; e gli spiega in che<br />
modo e per quale motivo. Guido dice di se stesso che in vita si comportò non come<br />
un leone, ma come una volpe: ciò significa che non affrontò i pericoli apertamente,<br />
confidando sulla propria forza, ma per raggiri e inganni, confidando sulla propria<br />
astuzia. All’età di settantaquattro anni egli provò rimorso e rincrescimento della<br />
propria vita passata, e decise di entrare nell’ordine fracescano, nella speranza di<br />
ottenere la redenzione dei peccati commessi. Ma papa Bonifacio VIII lo indusse a<br />
ricommettere i vecchi peccati, chiedendogli di elaborare un piano per abbattere la<br />
città di Palestrina (RM), dove la famiglia dei Colonna, suoi nemici, avevano la<br />
propria roccaforte. Chiedendogli questo consiglio, Bonifacio VIII lo rassicurò di non<br />
temere alcunché, in quanto lui, con la propria autorità papale, lo avrebbe assolto<br />
dal peccato che stava per compiere (cioè quello di dare un consiglio fraudolento);<br />
ma il Papa non mantenne la promessa. Alla morte di Guido, venne san Francesco<br />
per portarlo in Paradiso; ma intervenne un demonio, il quale lo ghermì e lo portò<br />
davanti a Minosse, nell’Inferno, perché non è ammesso, nello stesso tempo, pentirsi<br />
e peccare, come aveva fatto Guido.<br />
130-136<br />
Quand' elli ebbe 'l suo dir così compiuto,<br />
la fiamma dolorando si partio,<br />
torcendo e dibattendo 'l corno aguto.<br />
134<br />
Noi passamm' oltre, e io e 'l duca mio,<br />
su per lo scoglio infino in su l'altr' arco<br />
che cuopre 'l fosso in che si paga il fio<br />
a quei che scommettendo acquistan carco.<br />
Dopo aver finito di raccontare la propria storia, la fiamma in cui arde Guido da<br />
Montefeltro si allontana, addolorata, dai poeti, ed essi salgono sull’argine che<br />
sovrasta la nona bolgia, dove sono puniti i seminatori di discordie.
1-63<br />
Chi poria mai pur con parole sciolte<br />
dicer del sangue e de le piaghe a pieno<br />
ch'i' ora vidi, per narrar più volte?<br />
Ogne lingua per certo verria meno<br />
per lo nostro sermone e per la mente<br />
c'hanno a tanto comprender poco seno.<br />
S'el s'aunasse ancor tutta la gente<br />
che già, in su la fortunata terra<br />
di Puglia, fu del suo sangue dolente<br />
per li Troiani e per la lunga guerra<br />
che de l'anella fé sì alte spoglie,<br />
come Livïo scrive, che non erra,<br />
con quella che sentio di colpi doglie<br />
per contastare a Ruberto Guiscardo;<br />
e l'altra il cui ossame ancor s'accoglie<br />
a Ceperan, là dove fu bugiardo<br />
ciascun Pugliese, e là da Tagliacozzo,<br />
dove sanz' arme vinse il vecchio Alardo;<br />
e qual forato suo membro e qual mozzo<br />
mostrasse, d'aequar sarebbe nulla<br />
il modo de la nona bolgia sozzo.<br />
Già veggia, per mezzul perdere o lulla,<br />
com' io vidi un, così non si pertugia,<br />
rotto dal mento infin dove si trulla.<br />
Tra le gambe pendevan le minugia;<br />
la corata pareva e 'l tristo sacco<br />
che merda fa di quel che si trangugia.<br />
Mentre che tutto in lui veder m'attacco,<br />
guardommi e con le man s'aperse il petto,<br />
dicendo: «Or vedi com' io mi dilacco!<br />
vedi come storpiato è Mäometto!<br />
Dinanzi a me sen va piangendo Alì,<br />
fesso nel volto dal mento al ciuffetto.<br />
CANTO XXVIII<br />
135<br />
E tutti li altri che tu vedi qui,<br />
seminator di scandalo e di scisma<br />
fuor vivi, e però son fessi così.<br />
Un diavolo è qua dietro che n'accisma<br />
sì crudelmente, al taglio de la spada<br />
rimettendo ciascun di questa risma,<br />
quand' avem volta la dolente strada;<br />
però che le ferite son richiuse<br />
prima ch'altri dinanzi li rivada.<br />
Ma tu chi se' che 'n su lo scoglio muse,<br />
forse per indugiar d'ire a la pena<br />
ch'è giudicata in su le tue accuse?»<br />
«Né morte 'l giunse ancor, né colpa 'l mena»,<br />
rispuose 'l mio maestro, «a tormentarlo;<br />
ma per dar lui esperïenza piena,<br />
a me, che morto son, convien menarlo<br />
per lo 'nferno qua giù di giro in giro;<br />
e quest' è ver così com' io ti parlo».<br />
Più fuor di cento che, quando l'udiro,<br />
s'arrestaron nel fosso a riguardarmi<br />
per maraviglia, oblïando il martiro.<br />
«Or dì a fra Dolcin dunque che s'armi,<br />
tu che forse vedra' il sole in breve,<br />
s'ello non vuol qui tosto seguitarmi,<br />
sì di vivanda, che stretta di neve<br />
non rechi la vittoria al Noarese,<br />
ch'altrimenti acquistar non saria leve».<br />
Poi che l'un piè per girsene sospese,<br />
Mäometto mi disse esta parola;<br />
indi a partirsi in terra lo distese.<br />
Dalla sommità del ponte i due poeti osservano, sotto di loro, la valle che ospita la<br />
nona bolgia dell’ottavo cerchio, in cui sono puniti i seminatori di discordie e di<br />
scismi. Un diavolo armato di spada squarcia e mutila orrendamente questi dannati,<br />
i quali devono fare il giro completo della bolgia; durante il percorso le piaghe si<br />
rimarginano e, ogni volta che passano davanti al diavolo, essi vengono nuovamente<br />
squarciati e mutilati crudelmente dalla sua spada.<br />
Contrappasso: così come in vita adoperarono la loro intelligenza per dividere gli<br />
uomini, ora il loro corpo è squartato in più parti.
Dante vede un dannato squarciato dal mento all’ano, con il cuore, lo stomaco,<br />
l’intestino e gli altri visceri che gli pendono tra le gambe. Sentendosi osservato, il<br />
dannato pronuncia spontaneamente il proprio nome: si tratta di Maometto, il<br />
fondatore della religione islamica, nato a <strong>La</strong> Mecca tra il 570 e il 580 e morto a<br />
Medina nel 632. Il dannato aggiunge che davanti a lui c’è suo genero Alì, fondatore<br />
di una setta distinta in seno all’Islamismo, il quale ha uno squarcio dal mento alla<br />
fronte.<br />
Maometto non può definirsi scismatico, rispetto alla Chiesa, non avendone mai<br />
fatto parte; tuttavia Dante lo considera tale per l’effetto deleterio che la diffusione<br />
dell’Islamismo rappresentò nei confronti del Cristianesimo.<br />
Poi Maometto, vedendo che Dante è ancora vivo, lo incarica, quando sarà tornato<br />
sulla terra, di dire a fra Dolcino che, se non vuole raggiungerlo presto in questa<br />
bolgia, è necessario che si rifornisca di viveri prima che i soldati novaresi lo<br />
stringano di assedio; questi soldati facevano parte della crociata bandita contro di<br />
lui da papa Clemente V; nel mese di marzo 1307 fra Dolcino si arrese, e tre mesi<br />
dopo fu mandato al rogo. Il motivo per cui il Papa aveva bandito una crociata<br />
contro fra Dolcino è che questi, essendosi posto a capo della setta dei Fratelli<br />
Apostolici (fondata da Gherardo Segarelli, che fu bruciato vivo nel 1296), aveva<br />
creato uno scisma in seno alla Chiesa.<br />
64-142<br />
Un altro, che forata avea la gola<br />
e tronco 'l naso infin sotto le ciglia,<br />
e non avea mai ch'una orecchia sola,<br />
ristato a riguardar per maraviglia<br />
con li altri, innanzi a li altri aprì la canna,<br />
ch'era di fuor d'ogne parte vermiglia,<br />
e disse: «O tu cui colpa non condanna<br />
e cu' io vidi su in terra latina,<br />
se troppa simiglianza non m'inganna,<br />
rimembriti di Pier da Medicina,<br />
se mai torni a veder lo dolce piano<br />
che da Vercelli a Marcabò dichina.<br />
E fa saper a' due miglior da Fano,<br />
a messer Guido e anco ad Angiolello,<br />
che, se l'antiveder qui non è vano,<br />
gittati saran fuor di lor vasello<br />
e mazzerati presso a la Cattolica<br />
per tradimento d'un tiranno fello.<br />
Tra l'isola di Cipri e di Maiolica<br />
non vide mai sì gran fallo Nettuno,<br />
non da pirate, non da gente argolica.<br />
Quel traditor che vede pur con l'uno,<br />
e tien la terra che tale qui meco<br />
vorrebbe di vedere esser digiuno,<br />
136<br />
farà venirli a parlamento seco;<br />
poi farà sì, ch'al vento di Focara<br />
non sarà lor mestier voto né preco».<br />
E io a lui: «Dimostrami e dichiara,<br />
se vuo' ch'i' porti sù di te novella,<br />
chi è colui da la veduta amara».<br />
Allor puose la mano a la mascella<br />
d'un suo compagno e la bocca li aperse,<br />
gridando: «Questi è desso, e non favella.<br />
Questi, scacciato, il dubitar sommerse<br />
in Cesare, affermando che 'l fornito<br />
sempre con danno l'attender sofferse».<br />
Oh quanto mi pareva sbigottito<br />
con la lingua tagliata ne la strozza<br />
Curïo, ch'a dir fu così ardito!<br />
E un ch'avea l'una e l'altra man mozza,<br />
levando i moncherin per l'aura fosca,<br />
sì che 'l sangue facea la faccia sozza,<br />
gridò: «Ricordera'ti anche del Mosca,<br />
che disse, lasso!, "Capo ha cosa fatta",<br />
che fu mal seme per la gente tosca».<br />
E io li aggiunsi: «E morte di tua schiatta»;<br />
per ch'elli, accumulando duol con duolo,<br />
sen gio come persona trista e matta.
Ma io rimasi a riguardar lo stuolo,<br />
e vidi cosa ch'io avrei paura,<br />
sanza più prova, di contarla solo;<br />
se non che coscïenza m'assicura,<br />
la buona compagnia che l'uom francheggia<br />
sotto l'asbergo del sentirsi pura.<br />
Io vidi certo, e ancor par ch'io 'l veggia,<br />
un busto sanza capo andar sì come<br />
andavan li altri de la trista greggia;<br />
e 'l capo tronco tenea per le chiome,<br />
pesol con mano a guisa di lanterna:<br />
e quel mirava noi e dicea: «Oh me!»<br />
Di sé facea a sé stesso lucerna,<br />
ed eran due in uno e uno in due;<br />
com' esser può, quei sa che sì governa.<br />
137<br />
Quando diritto al piè del ponte fue,<br />
levò 'l braccio alto con tutta la testa<br />
per appressarne le parole sue,<br />
che fuoro: «Or vedi la pena molesta,<br />
tu che, spirando, vai veggendo i morti:<br />
vedi s'alcuna è grande come questa.<br />
E perché tu di me novella porti,<br />
sappi ch'i' son Bertram dal Bornio, quelli<br />
che diedi al re giovane i ma' conforti.<br />
Io feci il padre e 'l figlio in sé ribelli;<br />
Achitofèl non fé più d'Absalone<br />
e di Davìd coi malvagi punzelli.<br />
Perch' io parti' così giunte persone,<br />
partito porto il mio cerebro, lasso!,<br />
dal suo principio ch'è in questo troncone.<br />
Così s'osserva in me lo contrapasso».<br />
Nella rimanente parte del canto, Dante cita altri dannati variamente mutilati di<br />
questa bolgia: Pier da Medicina, che gettò discordia fra i signori di Romagna; il<br />
tribuno romano Caio Curione, che incitando Cesare a passare il Rubicone favorì la<br />
guerra civile tra lui e Pompeo; Mosca dei <strong>La</strong>mberti, che esortò la famiglia Amidei a<br />
vendicare l’offesa di Buondelmonte, che aveva mancato alla promessa di sposare<br />
una giovane della loro casa.<br />
Infine il poeta guarda un dannato che porta in mano per i capelli la propria testa<br />
tagliata: è il visconte Bertram dal Bormio, il quale istigò il giovane Enrico III a<br />
usurpare a suo padre, Enrico II, il regno d’Inghilterra. È il dannato stesso che spiega<br />
a Dante il contrappasso che pesa su di sé: «Come io divisi due persone strette da<br />
vincoli di natura e di sangue, così adesso porto la mia testa separata dal midollo<br />
spinale».
1-36<br />
<strong>La</strong> molta gente e le diverse piaghe<br />
avean le luci mie sì inebrïate,<br />
che de lo stare a piangere eran vaghe.<br />
Ma Virgilio mi disse: «Che pur guate?<br />
perché la vista tua pur si soffolge<br />
là giù tra l'ombre triste smozzicate?<br />
Tu non hai fatto sì a l'altre bolge;<br />
pensa, se tu annoverar le credi,<br />
che miglia ventidue la valle volge.<br />
E già la luna è sotto i nostri piedi;<br />
lo tempo è poco omai che n'è concesso,<br />
e altro è da veder che tu non vedi».<br />
«Se tu avessi», rispuos' io appresso,<br />
«atteso a la cagion per ch'io guardava,<br />
forse m'avresti ancor lo star dimesso».<br />
Parte sen giva, e io retro li andava,<br />
lo duca, già faccendo la risposta,<br />
e soggiugnendo: «Dentro a quella cava<br />
CANTO XXIX<br />
138<br />
dov' io tenea or li occhi sì a posta,<br />
credo ch'un spirto del mio sangue pianga<br />
la colpa che là giù cotanto costa».<br />
Allor disse 'l maestro: «Non si franga<br />
lo tuo pensier da qui innanzi sovr' ello.<br />
Attendi ad altro, ed ei là si rimanga;<br />
ch'io vidi lui a piè del ponticello<br />
mostrarti e minacciar forte col dito,<br />
e udi' 'l nominar Geri del Bello.<br />
Tu eri allor sì del tutto impedito<br />
sovra colui che già tenne Altaforte,<br />
che non guardasti in là, sì fu partito».<br />
«O duca mio, la vïolenta morte<br />
che non li è vendicata ancor», diss' io,<br />
«per alcun che de l'onta sia consorte,<br />
fece lui disdegnoso; ond' el sen gio<br />
sanza parlarmi, sì com' ïo estimo:<br />
e in ciò m'ha el fatto a sé più pio».<br />
Sono le tredici, e Virgilio mette fretta a Dante, facendogli presente che il loro tempo<br />
a disposizione è poco e le cose da vedere sono ancora tante.<br />
Il discepolo risponde al maestro che la ragione del suo indugio è dovuta al<br />
presentimento che in questa bolgia vi sia condannato un proprio consanguineo. Ma<br />
Virgilio avverte Dante che il dannato di cui parla non merita la sua pietà, e gliene<br />
spiega il motivo: mentre Dante parlava con Bertram dal Bormio, non si era accorto<br />
che il suo consanguineo agitava con ira il dito, in segno di minaccia, contro Dante.<br />
Virgilio conosce anche il nome di questo dannato, per averlo sentito chiamare dagli<br />
altri dannati: è Geri del Bello, cugino del padre di Dante. Questi fu seminatore di<br />
discordie e uccisore di uno della famiglia Sacchetti; per tale uccisione Geri fu a sua<br />
volta ucciso per vendetta da un appartenente alla famiglia Sacchetti. Geri del Bello<br />
è sdegnato perché nessuno dei parenti lo ha ancora vendicato.<br />
37-72<br />
Così parlammo infino al loco primo<br />
che de lo scoglio l'altra valle mostra,<br />
se più lume vi fosse, tutto ad imo.<br />
Quando noi fummo sor l'ultima chiostra<br />
di Malebolge, sì che i suoi conversi<br />
potean parere a la veduta nostra,<br />
lamenti saettaron me diversi,<br />
che di pietà ferrati avean li strali;<br />
ond' io li orecchi con le man copersi.<br />
Qual dolor fora, se de li spedali<br />
di Valdichiana tra 'l luglio e 'l settembre<br />
e di Maremma e di Sardigna i mali<br />
fossero in una fossa tutti 'nsembre,<br />
tal era quivi, e tal puzzo n'usciva<br />
qual suol venir de le marcite membre.<br />
Noi discendemmo in su l'ultima riva<br />
del lungo scoglio, pur da man sinistra;<br />
e allor fu la mia vista più viva
giù ver' lo fondo, la 've la ministra<br />
de l'alto Sire infallibil giustizia<br />
punisce i falsador che qui registra.<br />
Non credo ch'a veder maggior tristizia<br />
fosse in Egina il popol tutto infermo,<br />
quando fu l'aere sì pien di malizia,<br />
che li animali, infino al picciol vermo,<br />
cascaron tutti, e poi le genti antiche,<br />
secondo che i poeti hanno per fermo,<br />
139<br />
si ristorar di seme di formiche;<br />
ch'era a veder per quella oscura valle<br />
languir li spirti per diverse biche.<br />
Qual sovra 'l ventre e qual sovra le spalle<br />
l'un de l'altro giacea, e qual carpone<br />
si trasmutava per lo tristo calle.<br />
Passo passo andavam sanza sermone,<br />
guardando e ascoltando li ammalati,<br />
che non potean levar le lor persone.<br />
Così parlando, i due poeti giungono al ponte che scavalca la decima e ultima bolgia<br />
dell’ottavo cerchio, dove sono puniti i falsari, dalla quale proviene un assordante<br />
lamento dei dannati e un insopportabile puzzo di membra putrefatte.<br />
I poeti scendono alla bolgia e vedono da vicino questi dannati, i quali giacciono<br />
ammucchiati l’uno sull’altro colpiti da varie malattie.<br />
Contrappasso: i falsari meritano più il disprezzo che la condanna. <strong>La</strong> pena è, così,<br />
adeguata alla meschinità della colpa: le malattie che colpiscono i dannati di questa<br />
bolgia sono ripugnanti e deformanti, ma non distruttive.<br />
Questi dannati sono divisi in quattro gruppi: falsari di metalli, falsari di persone,<br />
falsari di moneta, falsari di parola.<br />
73-139<br />
Io vidi due sedere a sé poggiati,<br />
com' a scaldar si poggia tegghia a tegghia,<br />
dal capo al piè di schianze macolati;<br />
e non vidi già mai menare stregghia<br />
a ragazzo aspettato dal segnorso,<br />
né a colui che mal volontier vegghia,<br />
come ciascun menava spesso il morso<br />
de l'unghie sopra sé per la gran rabbia<br />
del pizzicor, che non ha più soccorso;<br />
e sì traevan giù l'unghie la scabbia,<br />
come coltel di scardova le scaglie<br />
o d'altro pesce che più larghe l'abbia.<br />
«O tu che con le dita ti dismaglie»,<br />
cominciò 'l duca mio a l'un di loro,<br />
«e che fai d'esse talvolta tanaglie,<br />
dinne s'alcun <strong>La</strong>tino è tra costoro<br />
che son quinc' entro, se l'unghia ti basti<br />
etternalmente a cotesto lavoro».<br />
«<strong>La</strong>tin siam noi, che tu vedi sì guasti<br />
qui ambedue», rispuose l'un piangendo;<br />
«ma tu chi se' che di noi dimandasti?»<br />
E 'l duca disse: «I' son un che discendo<br />
con questo vivo giù di balzo in balzo,<br />
e di mostrar lo 'nferno a lui intendo».<br />
Allor si ruppe lo comun rincalzo;<br />
e tremando ciascuno a me si volse<br />
con altri che l'udiron di rimbalzo.<br />
Lo buon maestro a me tutto s'accolse,<br />
dicendo: «Dì a lor ciò che tu vuoli»;<br />
e io incominciai, poscia ch'ei volse:<br />
«Se la vostra memoria non s'imboli<br />
nel primo mondo da l'umane menti,<br />
ma s'ella viva sotto molti soli,<br />
ditemi chi voi siete e di che genti;<br />
la vostra sconcia e fastidiosa pena<br />
di palesarvi a me non vi spaventi».<br />
«Io fui d'Arezzo, e Albero da Siena»,<br />
rispuose l'un, «mi fé mettere al foco;<br />
ma quel per ch'io mori' qui non mi mena.<br />
Vero è ch'i' dissi lui, parlando a gioco:<br />
"I' mi saprei levar per l'aere a volo";<br />
e quei, ch'avea vaghezza e senno poco,<br />
volle ch'i' li mostrassi l'arte; e solo<br />
perch' io nol feci Dedalo, mi fece<br />
ardere a tal che l'avea per figliuolo.<br />
Ma ne l'ultima bolgia de le diece<br />
me per l'alchìmia che nel mondo usai<br />
dannò Minòs, a cui fallar non lece».
E io dissi al poeta: «Or fu già mai<br />
gente sì vana come la sanese?<br />
Certo non la francesca sì d'assai!»<br />
Onde l'altro lebbroso, che m'intese,<br />
rispuose al detto mio: «Tra'mene Stricca<br />
che seppe far le temperate spese,<br />
e Niccolò che la costuma ricca<br />
del garofano prima discoverse<br />
ne l'orto dove tal seme s'appicca;<br />
140<br />
e tra'ne la brigata in che disperse<br />
Caccia d'Ascian la vigna e la gran fonda,<br />
e l'Abbagliato suo senno proferse.<br />
Ma perché sappi chi sì ti seconda<br />
contra i Sanesi, aguzza ver' me l'occhio,<br />
sì che la faccia mia ben ti risponda:<br />
sì vedrai ch'io son l'ombra di Capocchio,<br />
che falsai li metalli con l'alchìmia;<br />
e te dee ricordar, se ben t'adocchio,<br />
com' io fui di natura buona scimia».<br />
Il primo gruppo di dannati che Dante incontra in questa bolgia è quello dei falsari<br />
di metalli, ossia gli alchimisti. L’alchimia era una scienza medievale, spesso di<br />
carattere magico, rivolta alla scoperta del principio attraverso cui trasformare i<br />
metalli in oro o argento per mezzo della cosiddetta “pietra filosofale”.<br />
I falsari di metalli sono colpiti dalla scabbia o lebbra (malattie analoghe per la<br />
medicina medievale); la loro pelle è piena di croste pruriginose che li costringono a<br />
grattarsi continuamente.<br />
Dante scorge due di questi falsari, appoggiati dorso a dorso. Uno di questi dichiara<br />
di essere Griffolino d’Arezzo, e dice che morì sul rogo per le accuse mossegli da un<br />
insensato senese di nome Albero. Tali accuse si riferivano non al peccato per cui<br />
Griffolino è ora condannato nella bolgia dei falsari, ma a quello di eresia. Le cose<br />
erano andate così: Albero aveva stupidamente creduto alle parole che Griffolino gli<br />
aveva detto per scherzo, secondo le quali egli era in grado di volare; allora il<br />
credulone Albero gli chiese di far volare anche lui, e quando Griffolino gli disse la<br />
verità, e cioè che non era possibile far volare un uomo, l’altro ci rimase così male<br />
(un po’ per la delusione, un po’ perché si sentiva preso in giro) che lo denunciò al<br />
vescovo di Siena, che era proprio amico, e lo fece ardere vivo con l’accusa di eresia.<br />
Il poeta trae spunto dal racconto del dannato per rivolgere a Virgilio una domanda<br />
maliziosa, che contiene già la risposta: «Ci fu mai al mondo gente vuota e frivola<br />
come la senese? Di certo la gente di Francia, che pure ha fama di essere molto<br />
frivola, lo è molto meno di quella di Siena».<br />
L’altro dannato, il fiorentino Capocchio, si dichiara d’accordo con Dante nell’accusa<br />
contro i Senesi, e aggiunge tre esempi, l’uno più evidente dell’altro, sulla frivolezza<br />
della gente di Siena.
1-45<br />
Nel tempo che Iunone era crucciata<br />
per Semelè contra 'l sangue tebano,<br />
come mostrò una e altra fïata,<br />
Atamante divenne tanto insano,<br />
che veggendo la moglie con due figli<br />
andar carcata da ciascuna mano,<br />
gridò: «Tendiam le reti, sì ch'io pigli<br />
la leonessa e ' leoncini al varco»;<br />
e poi distese i dispietati artigli,<br />
prendendo l'un ch'avea nome Learco,<br />
e rotollo e percosselo ad un sasso;<br />
e quella s'annegò con l'altro carco.<br />
E quando la fortuna volse in basso<br />
l'altezza de' Troian che tutto ardiva,<br />
sì che 'nsieme col regno il re fu casso,<br />
Ecuba trista, misera e cattiva,<br />
poscia che vide Polissena morta,<br />
e del suo Polidoro in su la riva<br />
del mar si fu la dolorosa accorta,<br />
forsennata latrò sì come cane;<br />
tanto il dolor le fé la mente torta.<br />
Ma né di Tebe furie né troiane<br />
si vider mäi in alcun tanto crude,<br />
non punger bestie, nonché membra umane,<br />
CANTO XXX<br />
141<br />
quant' io vidi in due ombre smorte e nude,<br />
che mordendo correvan di quel modo<br />
che 'l porco quando del porcil si schiude.<br />
L'una giunse a Capocchio, e in sul nodo<br />
del collo l'assannò, sì che, tirando,<br />
grattar li fece il ventre al fondo sodo.<br />
E l'Aretin che rimase, tremando<br />
mi disse: «Quel folletto è Gianni Schicchi,<br />
e va rabbioso altrui così conciando».<br />
«Oh», diss' io lui, «se l'altro non ti ficchi<br />
li denti a dosso, non ti sia fatica<br />
a dir chi è, pria che di qui si spicchi».<br />
Ed elli a me: «Quell' è l'anima antica<br />
di Mirra scellerata, che divenne<br />
al padre, fuor del dritto amore, amica.<br />
Questa a peccar con esso così venne,<br />
falsificando sé in altrui forma,<br />
come l'altro che là sen va, sostenne,<br />
per guadagnar la donna de la torma,<br />
falsificare in sé Buoso Donati,<br />
testando e dando al testamento norma».<br />
Sempre nella decima bolgia dell’ottavo cerchio Dante vede due dannati<br />
appartenenti al gruppo dei falsari di persone, cioè coloro che si finsero un’altra<br />
persona per ingannare il prossimo. <strong>La</strong> pena di questi dannati è quella di correre in<br />
continuazione colpiti dalla rabbia, mordendo chiunque incontrino.<br />
Griffolino d’Arezzo (v. canto precedente) riferisce al poeta l’identità dei due<br />
dannati che egli ha visto, che sono uno di sesso maschile e uno di sesso femminile:<br />
uno è il fiorentino Gianni Schicchi, il quale in vita era abile nel contraffare<br />
voci e gesti delle persone. Essendo morto Buoso Donati senza lasciare<br />
testamento, il figlio di lui Simone chiese consiglio a Gianni. Quest’ultimo gli<br />
espose il suo piano: non dire a nessuno che il padre era morto, chiamare il<br />
notaio per il testamento, mentre Gianni si sarebbe introdotto nel letto di<br />
Buoso camuffato da bende e cappello; dopo di che, essendo molto bravo a<br />
imitarne la voce, avrebbe pronunciato il testamento a piacimento di Simone.<br />
Quest’ultimo fu naturalmente d’accordo, ma all’atto pratico Gianni ingannò<br />
Simone, perché gli assegnò ben poco del patrimonio paterno, ed invece<br />
assegnò a Gianni Schicchi (cioè a se stesso) una elevata somma di denaro e la<br />
migliore mula dell’armento di Buoso;
l’altra è Mirra, figlia del re di Cipro. Accesa d’insano amore per il padre, si<br />
finse un’altra donna per entrare nel letto con lui. Questo episodio è narrato<br />
nelle Metamorfosi di Ovidio.<br />
46-90<br />
E poi che i due rabbiosi fuor passati<br />
sovra cu' io avea l'occhio tenuto,<br />
rivolsilo a guardar li altri mal nati.<br />
Io vidi un, fatto a guisa di lëuto,<br />
pur ch'elli avesse avuta l'anguinaia<br />
tronca da l'altro che l'uomo ha forcuto.<br />
<strong>La</strong> grave idropesì, che sì dispaia<br />
le membra con l'omor che mal converte,<br />
che 'l viso non risponde a la ventraia,<br />
faceva lui tener le labbra aperte<br />
come l'etico fa, che per la sete<br />
l'un verso 'l mento e l'altro in sù rinverte.<br />
«O voi che sanz' alcuna pena siete,<br />
e non so io perché, nel mondo gramo»,<br />
diss' elli a noi, «guardate e attendete<br />
a la miseria del maestro Adamo;<br />
io ebbi, vivo, assai di quel ch'i' volli,<br />
e ora, lasso!, un gocciol d'acqua bramo.<br />
Li ruscelletti che d'i verdi colli<br />
del Casentin discendon giuso in Arno,<br />
faccendo i lor canali freddi e molli,<br />
sempre mi stanno innanzi, e non indarno,<br />
ché l'imagine lor vie più m'asciuga<br />
che 'l male ond' io nel volto mi discarno.<br />
142<br />
<strong>La</strong> rigida giustizia che mi fruga<br />
tragge cagion del loco ov' io peccai<br />
a metter più li miei sospiri in fuga.<br />
Ivi è Romena, là dov' io falsai<br />
la lega suggellata del Batista;<br />
per ch'io il corpo sù arso lasciai.<br />
Ma s'io vedessi qui l'anima trista<br />
di Guido o d'Alessandro o di lor frate,<br />
per Fonte Branda non darei la vista.<br />
Dentro c'è l'una già, se l'arrabbiate<br />
ombre che vanno intorno dicon vero;<br />
ma che mi val, c'ho le membra legate?<br />
S'io fossi pur di tanto ancor leggero<br />
ch'i' potessi in cent' anni andare un'oncia,<br />
io sarei messo già per lo sentiero,<br />
cercando lui tra questa gente sconcia,<br />
con tutto ch'ella volge undici miglia,<br />
e men d'un mezzo di traverso non ci ha.<br />
Io son per lor tra sì fatta famiglia;<br />
e' m'indussero a batter li fiorini<br />
ch'avevan tre carati di mondiglia».<br />
Poi Dante osserva un dannato che appartiene al gruppo dei falsari di moneta, i<br />
quali sono condannati a un’eterna sete, che essi desiderano ardentemente<br />
soddisfare, ma non è loro consentito di bere neanche minimamente. Questo<br />
fortissimo desiderio insoddisfatto di bere che li tormenta fa sì che essi abbiano le<br />
labbra sempre aperte, come i malati di tubercolosi. Inoltre essi hanno il ventre<br />
enormemente gonfio e il viso magrissimo, come i malati di idropisia: questa<br />
sproporzione immiserisce sino al ridicolo questi colpevoli, che destano ripugnanza<br />
più che compassione. Il loro ventre è talmente grosso che arriva a terra, impedendo<br />
loro persino di fare un passo.<br />
Contrappasso: come in vita questi falsari ebbero, grazie alla loro illecita arte, tutte le<br />
monete che vollero, così ora essi non possono neanche avere una goccia d’acqua per<br />
dissetarsi almeno un po’.<br />
Il dannato che il poeta osserva è mastro Adamo da Brescia, il quale falsificò il<br />
fiorino di Firenze aggiungendo all’oro puro una maggior quantità di metallo vile di<br />
quello permesso. Per questa colpa egli fu arso vivo nel 1281.
91-99<br />
E io a lui: «Chi son li due tapini<br />
che fumman come man bagnate 'l verno,<br />
giacendo stretti a' tuoi destri confini?»<br />
«Qui li trovai - e poi volta non dierno - »,<br />
rispuose, «quando piovvi in questo greppo,<br />
e non credo che dieno in sempiterno.<br />
143<br />
L'una è la falsa ch'accusò Gioseppo;<br />
l'altr' è 'l falso Sinon greco di Troia:<br />
per febbre aguta gittan tanto leppo».<br />
Il poeta nota due dannati che emanano fumo, i quali appartengono al gruppo dei<br />
falsari di parola. <strong>La</strong> loro pena è un tremendo mal di testa e una febbre altissima,<br />
simbolo di quella follia che in vita fece loro mischiare parole false alle vere.<br />
Dante domanda a mastro Adamo chi siano quei due dannati, e lui risponde che una<br />
è la moglie dell’egiziano Putifarre, consigliere del faraone e comandante delle<br />
guardie (cfr. Genesi, 39). Giacobbe amava Giuseppe più di tutti i suoi figli, perché<br />
era il figlio avuto in vecchiaia. I suoi fratelli, vedendo che il loro padre amava lui<br />
più di tutti i suoi figli, lo invidiavano e odiavano a tal punto che lo vendettero a dei<br />
mercanti, i quali a loro volta lo vendettero a Putifarre come servo. Giuseppe era un<br />
bell’uomo e la moglie di Putifarre gli fece più volte la proposta di unirsi a lei. Ma<br />
Giuseppe rifiutò sempre per rispetto del suo padrone. Un giorno la donna avanzò<br />
l’ennesima proposta di unirsi a lei, e lo afferrò per la veste; ma lui fuggì fuori<br />
lasciandole la propria veste in mano. Allora lei chiamò i suoi domestici e disse loro,<br />
falsamente, che Giuseppe aveva tentato di unirsi a lei, ma lei aveva gridato e lui,<br />
appena aveva sentito che lei aveva alzato la voce, aveva lasciato la propria veste<br />
accanto a lei ed era fuggito. Quando Putifarre tornò a casa, la moglie gli riferì le<br />
stesse cose che aveva già detto ai domestici, ed egli, in preda all’ira, fece<br />
imprigionare Giuseppe.<br />
Poi mastro Adamo dice che l’altro dannato è il soldato greco Sinone. Questi si era<br />
consegnato prigioniero ai Troiani per convincerli, con le proprie menzogne, a<br />
introdurre il cavallo di legno nella città. Fingendosi traditore dei Greci, Sinone si<br />
rivolse a Priamo, re di Troia, e inventò una splendida e abile storia che convinse e<br />
impietosì il re, il quale lo fece liberare e gli domandò quale fosse la finalità della<br />
costruzione del cavallo. Sinone, aggiungendo menzogna a menzogna, spiegò che il<br />
cavallo rappresentava il voto riparatore della profanazione del tempio di Minerva<br />
avvenuta con il furto del Palladio compiuto da Ulisse e Diomede.<br />
100-132<br />
E l'un di lor, che si recò a noia<br />
forse d'esser nomato sì oscuro,<br />
col pugno li percosse l'epa croia.<br />
Quella sonò come fosse un tamburo;<br />
e mastro Adamo li percosse il volto<br />
col braccio suo, che non parve men duro,<br />
dicendo a lui: «Ancor che mi sia tolto<br />
lo muover per le membra che son gravi,<br />
ho io il braccio a tal mestiere sciolto».<br />
Ond' ei rispuose: «Quando tu andavi<br />
al fuoco, non l'avei tu così presto;<br />
ma sì e più l'avei quando coniavi».
E l'idropico: «Tu di' ver di questo:<br />
ma tu non fosti sì ver testimonio<br />
là 've del ver fosti a Troia richesto».<br />
«S'io dissi falso, e tu falsasti il conio»,<br />
disse Sinon; «e son qui per un fallo,<br />
e tu per più ch'alcun altro demonio!»<br />
«Ricorditi, spergiuro, del cavallo»,<br />
rispuose quel ch'avëa infiata l'epa;<br />
«e sieti reo che tutto il mondo sallo!»<br />
«E te sia rea la sete onde ti crepa»,<br />
disse 'l Greco, «la lingua, e l'acqua marcia<br />
che 'l ventre innanzi a li occhi sì t'assiepa!»<br />
144<br />
Allora il monetier: «Così si squarcia<br />
la bocca tua per tuo mal come suole;<br />
ché, s'i' ho sete e omor mi rinfarcia,<br />
tu hai l'arsura e 'l capo che ti duole,<br />
e per leccar lo specchio di Narcisso,<br />
non vorresti a 'nvitar molte parole».<br />
Ad ascoltarli er' io del tutto fisso,<br />
quando 'l maestro mi disse: «Or pur mira,<br />
che per poco che teco non mi risso!»<br />
Sinone, risentito per essere stato nominato, inizia un’aspra lite con mastro Adamo.<br />
Virgilio rimprovera Dante per essersi soffermato a osservare con interesse una<br />
contesa così volgare.<br />
133-135<br />
Quand‟io „l senti‟ a me parlar con ira,<br />
volsimi verso lui con tal vergogna,<br />
ch‟ancor per la memoria mi si gira.<br />
Appena Dante si sente rimproverato dal maestro, si volge verso di lui con una<br />
vergogna tale che ancora ne è scottato nella memoria.<br />
136-141<br />
Qual è colui che suo dannaggio sogna,<br />
che sognando desidera sognare,<br />
sì che quel ch‟è, come non fosse, agogna,<br />
tal mi fec‟io, non possendo parlare,<br />
che disiava scusarmi, e scusava<br />
me tuttavia, e nol mi credea fare.<br />
Al rimprovero del maestro, Dante crede di sognare: come colui che sogna una cosa<br />
spiacevole, il quale nel sogno stesso spera che ciò che sta sognando sia un sogno e<br />
non realtà, cosicché desidera ciò che è veramente (un sogno e non un fatto reale),<br />
così Dante nel sogno in cui crede di trovarsi spera che il rimprovero di Virgilio sia<br />
solo frutto di un sogno, e non un fatto reale. Nel sogno apparente Dante si scusa col<br />
maestro. Credendo di trovarsi in un sogno, Dante non esprime a parole le proprie<br />
scuse; tuttavia il turbamento che lui prova dimostra che si è reso conto dell’errore<br />
che ha commesso ascoltando la lite tra i due dannati. Perciò Dante col suo
turbamento si sta scusando con Virgilio, pur non credendo di farlo (perché non sta<br />
parlando).<br />
142-148<br />
«Maggior difetto men vergogna lava»,<br />
disse „l maestro, «che „l tuo non è stato;<br />
però d‟ogne trestizia ti disgrava.<br />
E fa ragion ch‟io ti sia sempre allato,<br />
se più avvien che fortuna t‟accoglia<br />
dove sien genti in simigliante piato:<br />
chè voler ciò udire è bassa voglia».<br />
Virgilio risponde al discepolo che un rimorso (vergogna) minore di quello che lui ha<br />
provato basta a cancellare una colpa (difetto) più grande di quanto sia stata la sua;<br />
quindi lo tranquillizza e lo invita a liberarsi da qualunque rimorso. Il maestro<br />
aggiunge che se dovesse in futuro accadere che Dante si trovi ad assistere a una<br />
simile contesa, lui gli sarà accanto per guidarlo e ammonirlo, in quanto voler<br />
ascoltare le liti di gente volgare significa abbassarsi a un basso livello.<br />
145
CANTO XXXI<br />
1-3<br />
Una medesma lingua pria mi morse,<br />
sì che mi tinse l'una e l'altra guancia,<br />
e poi la medicina mi riporse;<br />
<strong>La</strong> medesima lingua (quella di Virgilio) dapprima mi rimproverò (v. versi 133-135 del<br />
canto predente), in modo da farmi arrossire, e poi mi ridiede conforto (v. versi 142-<br />
148 del canto precedente);<br />
4-45<br />
così od' io che solea far la lancia<br />
d'Achille e del suo padre esser cagione<br />
prima di trista e poi di buona mancia.<br />
Noi demmo il dosso al misero vallone<br />
su per la ripa che 'l cinge dintorno,<br />
attraversando sanza alcun sermone.<br />
Quiv' era men che notte e men che giorno,<br />
sì che 'l viso m'andava innanzi poco;<br />
ma io senti' sonare un alto corno,<br />
tanto ch'avrebbe ogne tuon fatto fioco,<br />
che, contra sé la sua via seguitando,<br />
dirizzò li occhi miei tutti ad un loco.<br />
Dopo la dolorosa rotta, quando<br />
Carlo Magno perdé la santa gesta,<br />
non sonò sì terribilmente Orlando.<br />
Poco portäi in là volta la testa,<br />
che me parve veder molte alte torri;<br />
ond' io: «Maestro, dì, che terra è questa?»<br />
Ed elli a me: «Però che tu trascorri<br />
per le tenebre troppo da la lungi,<br />
avvien che poi nel maginare abborri.<br />
146<br />
Tu vedrai ben, se tu là ti congiungi,<br />
quanto 'l senso s'inganna di lontano;<br />
però alquanto più te stesso pungi».<br />
Poi caramente mi prese per mano<br />
e disse: «Pria che noi siam più avanti,<br />
acciò che 'l fatto men ti paia strano,<br />
sappi che non son torri, ma giganti,<br />
e son nel pozzo intorno da la ripa<br />
da l'umbilico in giuso tutti quanti».<br />
Come quando la nebbia si dissipa,<br />
lo sguardo a poco a poco raffigura<br />
ciò che cela 'l vapor che l'aere stipa,<br />
così forando l'aura grossa e scura,<br />
più e più appressando ver' la sponda,<br />
fuggiemi errore e crescémi paura;<br />
però che, come su la cerchia tonda<br />
Montereggion di torri si corona,<br />
così la proda che 'l pozzo circonda<br />
torreggiavan di mezza la persona<br />
li orribili giganti, cui minaccia<br />
Giove del cielo ancora quando tuona.<br />
In silenzio i due poeti lasciano la decima bolgia dell’ottavo cerchio e si dirigono<br />
verso il nono cerchio, che ha la forma di un grande pozzo. Nella zona di confine tra<br />
i due cerchi la luce poco intensa consente di vedere solo le cose più vicine.<br />
Ad un tratto si sente un fortissimo suono di corno. Dante volge lo sguardo verso la<br />
zona da cui proviene il suono, e lungo la sponda che gira tutt’intorno al pozzo gli<br />
pare di scorgere delle torri che sovrastano nettamente in altezza le pareti del pozzo<br />
stesso; quindi domanda al maestro che cosa siano quelle torri. Virgilio gli risponde<br />
che non sono torri ma giganti, i quali sono visibili solo dalla cintola in su, perché la<br />
parte inferiore del loro corpo è confitta nel terreno.
Nella mitologia classica il termine “giganti” è molto generico; ma i Giganti per<br />
antonomasia sono degli uomini enormi, dall’aspetto terrificante e dalla forza<br />
invincibile, con ispide capigliature e gambe a forma di serpente, nati dalle gocce di<br />
sangue di Urano (il cielo) cadute su Gea (la terra) in seguito alla sua evirazione ad<br />
opera di suo figlio Crono. Nelle Metamorfosi Ovidio racconta che i Giganti<br />
cercarono di conquistare il regno celeste, ma sconfitti da Zeus furono da lui<br />
seppelliti sotto le macerie delle montagne che col suo fulmine fece crollare. E nelle<br />
viscere della terra essi sono tuttora relegati. <strong>La</strong> lotta cui fa riferimento Ovidio è<br />
chiamata Gigantomachia, e fu voluta da Gea, che aveva chiesto aiuto ai Giganti (che<br />
come detto erano suoi figli) per punire Zeus, che aveva inabissato i Titani (tra cui<br />
suo padre Crono), figli anche questi di Gea. A fianco di Zeus anche gli altri dèi<br />
dell’Olimpo (la montagna su cui essi risiedevano) intervennero nella lotta, che si<br />
concluse con la sconfitta dei Giganti.<br />
Oltre che avere la parte inferiore del corpo confitta nel terreno, tutti i Giganti<br />
(tranne Anteo, di cui parleremo tra poco) hanno collo e braccia legati, sicché non<br />
possono muovere neanche la parte superiore. Dante è terrorizzato, perché ogni<br />
volta che ciascuno di questi Giganti si scuote per cercare di liberarsi accade un<br />
movimento del terreno più violento di un terremoto.<br />
Non esiste peccato più grave di quello che consiste nell’usare la ragione o le altre<br />
facoltà mentali o fisiche per tentare di appropriarsi della maestà che spetta solo a<br />
Dio; e perciò i Giganti, che confidarono nella loro forza fisica per cercare di vincere<br />
la più alta delle potenze, quella divina, sono posti da Dante a guardia del cerchio<br />
più basso dell’Inferno con le gambe, le braccia ed il collo immobilizzati per<br />
l’eternità.<br />
46-81<br />
E io scorgeva già d'alcun la faccia,<br />
le spalle e 'l petto e del ventre gran parte,<br />
e per le coste giù ambo le braccia.<br />
Natura certo, quando lasciò l'arte<br />
di sì fatti animali, assai fé bene<br />
per tòrre tali essecutori a Marte.<br />
E s'ella d'elefanti e di balene<br />
non si pente, chi guarda sottilmente,<br />
più giusta e più discreta la ne tene;<br />
ché dove l'argomento de la mente<br />
s'aggiugne al mal volere e a la possa,<br />
nessun riparo vi può far la gente.<br />
<strong>La</strong> faccia sua mi parea lunga e grossa<br />
come la pina di San Pietro a Roma,<br />
e a sua proporzione eran l'altre ossa;<br />
sì che la ripa, ch'era perizoma<br />
dal mezzo in giù, ne mostrava ben tanto<br />
di sovra, che di giugnere a la chioma<br />
147<br />
tre Frison s'averien dato mal vanto;<br />
però ch'i' ne vedea trenta gran palmi<br />
dal loco in giù dov' omo affibbia 'l manto.<br />
«Raphèl maì amècche zabì almi»,<br />
cominciò a gridar la fiera bocca,<br />
cui non si convenia più dolci salmi.<br />
E 'l duca mio ver' lui: «Anima sciocca,<br />
tienti col corno, e con quel ti disfoga<br />
quand' ira o altra passïon ti tocca!<br />
Cércati al collo, e troverai la soga<br />
che 'l tien legato, o anima confusa,<br />
e vedi lui che 'l gran petto ti doga».<br />
Poi disse a me: «Elli stessi s'accusa;<br />
questi è Nembrotto per lo cui mal coto<br />
pur un linguaggio nel mondo non s'usa.<br />
<strong>La</strong>sciànlo stare e non parliamo a vòto;<br />
ché così è a lui ciascun linguaggio<br />
come 'l suo ad altrui, ch'a nullo è noto».
Il primo gigante che Dante vede, tuttavia, non è preso in prestito dalla mitologia,<br />
bensì dalla Bibbia (Genesi, X, 8-10; XI, 1-9): si tratta di Nembròt (in ebraico<br />
Nimrodh), primo re di Babilonia. Questi era un grande cacciatore (di qui il corno a<br />
significare tanto la caccia quanto la guerra), e fu l’ideatore della torre di Babele, da<br />
cui ebbe origine la confusione delle lingue. Nel De Vulgari Eloquentia il poeta scrive<br />
che “istigato dal gigante Nembrot, l’uomo ebbe la presunzione di superare con<br />
l’arte sua non solo la natura ma anche lo stesso autore della natura, che è Dio, e<br />
cominciò a costruire a Sennaar (in Mesopotamia) una torre che poi fu chiamata<br />
Babele, cioè confusione, con la quale sperava di salire fino al cielo, proponendosi<br />
nella sua ignoranza non di eguagliare, ma di superare il suo Fattore […] Per punire<br />
quest’affronto, Dio fece sì che tutti gli addetti alla costruzione della torre (architetti,<br />
muratori, ecc.) non parlassero più la stessa lingua, ma lingue diverse l’uno<br />
dall’altro, con la conseguenza che essi non poterono proseguire i lavori, perché tra<br />
di loro non si capivano più […] ”<br />
Interviene Virgilio, dicendo al discepolo di non provare ad avere un colloquio con<br />
questo gigante, perché il suo dire è incomprensibile agli uomini ed egli non<br />
comprende alcun linguaggio umano.<br />
82-96<br />
Facemmo adunque più lungo vïaggio,<br />
vòlti a sinistra; e al trar d'un balestro<br />
trovammo l'altro assai più fero e maggio.<br />
A cigner lui qual che fosse 'l maestro,<br />
non so io dir, ma el tenea soccinto<br />
dinanzi l'altro e dietro il braccio destro<br />
d'una catena che 'l tenea avvinto<br />
dal collo in giù, sì che 'n su lo scoperto<br />
si ravvolgëa infino al giro quinto.<br />
148<br />
«Questo superbo volle esser esperto<br />
di sua potenza contra 'l sommo Giove»,<br />
disse 'l mio duca, «ond' elli ha cotal merto.<br />
Fïalte ha nome, e fece le gran prove<br />
quando i giganti fer paura a' dèi;<br />
le braccia ch'el menò, già mai non move».<br />
Così i due poeti proseguono il cammino e raggiungono il secondo gigante, il quale<br />
ha le braccia incatenate al busto: si tratta di Efialte (o Fialte), figlio del dio del mare<br />
Poseidone e della ninfa del mare Ifimedea (o Efimedea). Fu proprio Efialte che,<br />
assieme al fratello Oto (anche lui gigante), causò la Gigantomachia (v. sopra),<br />
sovrapponendo due monti uno sull’altro allo scopo di tentare la scalata all’Olimpo<br />
(la montagna sulla quale, come detto, risiedevano gli dèi).<br />
97-111<br />
E io a lui: «S'esser puote, io vorrei<br />
che de lo smisurato Brïareo<br />
esperïenza avesser li occhi mei».<br />
Ond' ei rispuose: «Tu vedrai Anteo<br />
presso di qui che parla ed è disciolto,<br />
che ne porrà nel fondo d'ogne reo.<br />
Quel che tu vuo' veder, più là è molto<br />
ed è legato e fatto come questo,<br />
salvo che più feroce par nel volto».<br />
Non fu tremoto già tanto rubesto,<br />
che scotesse una torre così forte,<br />
come Fïalte a scuotersi fu presto.
Allor temett' io più che mai la morte,<br />
e non v'era mestier più che la dotta,<br />
149<br />
s'io non avessi viste le ritorte.<br />
Dante esprime al maestro il desiderio di vedere Brianeo, che è uno dei tre<br />
Ecatonchiri. Questi erano degli esseri enormi, ciascuno dotato di cento braccia e<br />
cinquanta teste, nati anch’essi da Urano e Gaia.<br />
Ma Virgilio gli risponde che adesso lui vedrà Anteo il quale, non essendo, come<br />
Efialte, incatenato, avrà le mani libere per deporre loro due sul fondo del pozzo.<br />
Anteo era un gigante molto aggressivo, figlio di Poseidone e di Gaia. Costringeva<br />
tutti coloro che attraversavano la sua terra – la Libia – a lottare contro di lui. Era<br />
invulnerabile finché toccava con i piedi la madre Terra (Gaia), che gli infondeva<br />
rinnovato vigore; ma Eracle (nome greco di Ercole), durante il suo passaggio in<br />
Libia, riuscì ad averne la meglio, tenendolo sollevato a lungo sulle proprie spalle.<br />
Anteo ha le mani libere perché non partecipò alla Gigantomachia (v. sopra).<br />
Virgilio aggiunge che Brianeo si trova ancora più avanti, che assomiglia ad Efialte,<br />
e che è come lui legato, ma ha l’aspetto ancora più feroce.<br />
112-145<br />
Noi procedemmo più avante allotta,<br />
e venimmo ad Anteo, che ben cinque alle,<br />
sanza la testa, uscia fuor de la grotta.<br />
«O tu che ne la fortunata valle<br />
che fece Scipïon di gloria reda,<br />
quand' Anibàl co' suoi diede le spalle,<br />
recasti già mille leon per preda,<br />
e che, se fossi stato a l'alta guerra<br />
de' tuoi fratelli, ancor par che si creda<br />
ch'avrebber vinto i figli de la terra:<br />
mettine giù, e non ten vegna schifo,<br />
dove Cocito la freddura serra.<br />
Non ci fare ire a Tizio né a Tifo:<br />
questi può dar di quel che qui si brama;<br />
però ti china e non torcer lo grifo.<br />
Ancor ti può nel mondo render fama,<br />
ch'el vive, e lunga vita ancor aspetta<br />
se 'nnanzi tempo grazia a sé nol chiama».<br />
Così disse 'l maestro; e quelli in fretta<br />
le man distese, e prese 'l duca mio,<br />
ond' Ercule sentì già grande stretta.<br />
Virgilio, quando prender si sentio,<br />
disse a me: «Fatti qua, sì ch'io ti prenda»;<br />
poi fece sì ch'un fascio era elli e io.<br />
Qual pare a riguardar la Carisenda<br />
sotto 'l chinato, quando un nuvol vada<br />
sovr' essa sì, ched ella incontro penda:<br />
tal parve Antëo a me che stava a bada<br />
di vederlo chinare, e fu tal ora<br />
ch'i' avrei voluto ir per altra strada.<br />
Ma lievemente al fondo che divora<br />
Lucifero con Giuda, ci sposò;<br />
né, sì chinato, lì fece dimora,<br />
e come albero in nave si levò.<br />
Quindi i due poeti riprendono il cammino e giungono vicino ad Anteo. Virgilio<br />
prega il gigante di deporre lui e Dante sul fondo del pozzo, e cerca di allettarlo<br />
dicendogli che Dante, che è vivo, quando tornerà sulla terra potrà rendergli una<br />
buona fama.<br />
Anteo, acconsentendo all’allettante proposta di Virgilio, depone i due poeti sul<br />
fondo del pozzo ghiacciato, sede del nono cerchio.
1-12<br />
S'ïo avessi le rime aspre e chiocce,<br />
come si converrebbe al tristo buco<br />
sovra 'l qual pontan tutte l'altre rocce,<br />
io premerei di mio concetto il suco<br />
più pienamente; ma perch' io non l'abbo,<br />
non sanza tema a dicer mi conduco;<br />
CANTO XXXII<br />
150<br />
ché non è impresa da pigliare a gabbo<br />
discriver fondo a tutto l'universo,<br />
né da lingua che chiami mamma o babbo.<br />
Ma quelle donne aiutino il mio verso<br />
ch'aiutaro Anfïone a chiuder Tebe,<br />
sì che dal fatto il dir non sia diverso.<br />
Giunto nel nono cerchio, Dante non trova subito i versi adatti a descrivere bene<br />
quel luogo così orrendo e raccapricciante. Quindi invoca le Muse, affinché ciò che<br />
egli sta per scrivere corrisponda esattamente a ciò che sta vedendo (sì che dal fatto il<br />
dir non sia diverso, v. 12).<br />
13-39<br />
Oh sovra tutte mal creata plebe<br />
che stai nel loco onde parlare è duro,<br />
mei foste state qui pecore o zebe!<br />
Come noi fummo giù nel pozzo scuro<br />
sotto i piè del gigante assai più bassi,<br />
e io mirava ancora a l'alto muro,<br />
dicere udi'mi: «Guarda come passi:<br />
va sì, che tu non calchi con le piante<br />
le teste de' fratei miseri lassi».<br />
Per ch'io mi volsi, e vidimi davante<br />
e sotto i piedi un lago che per gelo<br />
avea di vetro e non d'acqua sembiante.<br />
Non fece al corso suo sì grosso velo<br />
di verno la Danoia in Osterlicchi,<br />
né Tanaï là sotto 'l freddo cielo,<br />
com' era quivi; che se Tambernicchi<br />
vi fosse sù caduto, o Pietrapana,<br />
non avria pur da l'orlo fatto cricchi.<br />
E come a gracidar si sta la rana<br />
col muso fuor de l'acqua, quando sogna<br />
di spigolar sovente la villana,<br />
livide, insin là dove appar vergogna<br />
eran l'ombre dolenti ne la ghiaccia,<br />
mettendo i denti in nota di cicogna.<br />
Ognuna in giù tenea volta la faccia;<br />
da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo<br />
tra lor testimonianza si procaccia.<br />
Nel nono cerchio sono puniti i fraudolenti verso chi si fida, cioè i traditori. Questo<br />
cerchio è costituito da un pozzo profondo formato da un lago ghiacciato (Cocito) in<br />
lieve declivio verso il centro, dove è confitto Lucifero.<br />
Il nono cerchio è diviso in quattro zone, a seconda del tipo di tradimento punito. A<br />
differenza dell’ottavo cerchio (Malebolge) non c’è divisione fisica fra le zone, ma la<br />
differenza è evidenziata dalla diversa posizione dei dannati confitti nel ghiaccio.<br />
Contrappasso: la superficie ghiacciata di Cocito, che blocca i dannati nella<br />
posizione della loro pena, riflette la loro totale immobilità spirituale nella vita<br />
terrena e la loro estrema freddezza d’animo.<br />
<strong>La</strong> prima zona del nono cerchio è detta Caina. Essa prende il nome da Caino, il noto<br />
personaggio biblico che uccise il fratello minore Abele per invidia (Genesi, IV, 1-16).<br />
In questa zona si trovano i traditori dei propri parenti. Questi dannati sono confitti
nel ghiaccio fino al collo, battono violentemente i denti per il freddo e tengono il<br />
viso rivolto in basso (per la vergogna di aver commesso il più turpe dei tradimenti).<br />
40-69<br />
Quand' io m'ebbi dintorno alquanto visto,<br />
volsimi a' piedi, e vidi due sì stretti,<br />
che 'l pel del capo avieno insieme misto.<br />
«Ditemi, voi che sì strignete i petti»,<br />
diss' io, «chi siete?». E quei piegaro i colli;<br />
e poi ch'ebber li visi a me eretti,<br />
li occhi lor, ch'eran pria pur dentro molli,<br />
gocciar su per le labbra, e 'l gelo strinse<br />
le lagrime tra essi e riserrolli.<br />
Con legno legno spranga mai non cinse<br />
forte così; ond' ei come due becchi<br />
cozzaro insieme, tanta ira li vinse.<br />
E un ch'avea perduti ambo li orecchi<br />
per la freddura, pur col viso in giùe,<br />
disse: «Perché cotanto in noi ti specchi?<br />
151<br />
Se vuoi saper chi son cotesti due,<br />
la valle onde Bisenzo si dichina<br />
del padre loro Alberto e di lor fue.<br />
D'un corpo usciro; e tutta la Caina<br />
potrai cercare, e non troverai ombra<br />
degna più d'esser fitta in gelatina:<br />
non quelli a cui fu rotto il petto e l'ombra<br />
con esso un colpo per la man d'Artù;<br />
non Focaccia; non questi che m'ingombra<br />
col capo sì, ch'i' non veggio oltre più,<br />
e fu nomato Sassol Mascheroni;<br />
se tosco se', ben sai omai chi fu.<br />
E perché non mi metti in più sermoni,<br />
sappi ch'i' fu' il Camiscion de' Pazzi;<br />
e aspetto Carlin che mi scagioni».<br />
Nella Caina Dante vede due dannati che, pur odiandosi, sono costretti a stare a<br />
contatto perché confitti nella stessa buca. Essi si cozzano le teste reciprocamente<br />
come quando due caproni si scornano tra di loro. Un dannato dice al poeta i loro<br />
nomi: sono i fratelli Alessandro e Napoleone degli Alberti, conti di Mangona<br />
(località in provincia di Firenze) i quali, accesi di odio fra di loro, si uccisero a<br />
vicenda. Il dannato nomina poi altre anime punite in questa zona; tra queste, Sassol<br />
Mascheroni, che uccise, per avere l’eredità, l’unico figlio di un suo zio, che gli era<br />
stato affidato in tutela. Il dannato che parla è Alberto Camicione dei Pazzi di<br />
Valdarno, il quale uccise a tradimento un suo congiunto, e aggiunge che sta<br />
aspettando Carlino dei Pazzi, il quale commetterà un peccato così enorme che a<br />
confronto quello suo è poca cosa: tradirà gli esuli Fiorentini Bianchi, vendendo ai<br />
Neri il castello di Piantravigne, dove i Bianchi si erano rifugiati.<br />
70-123<br />
Poscia vid' io mille visi cagnazzi<br />
fatti per freddo; onde mi vien riprezzo,<br />
e verrà sempre, de' gelati guazzi.<br />
E mentre ch'andavamo inver' lo mezzo<br />
al quale ogne gravezza si rauna,<br />
e io tremava ne l'etterno rezzo;<br />
se voler fu o destino o fortuna,<br />
non so; ma, passeggiando tra le teste,<br />
forte percossi 'l piè nel viso ad una.<br />
Piangendo mi sgridò: «Perché mi peste?<br />
se tu non vieni a crescer la vendetta<br />
di Montaperti, perché mi moleste?»<br />
E io: «Maestro mio, or qui m'aspetta,<br />
sì ch'io esca d'un dubbio per costui;<br />
poi mi farai, quantunque vorrai, fretta».<br />
Lo duca stette, e io dissi a colui<br />
che bestemmiava duramente ancora:<br />
«Qual se' tu che così rampogni altrui?»
«Or tu chi se' che vai per l'Antenora,<br />
percotendo», rispuose, «altrui le gote,<br />
sì che, se fossi vivo, troppo fora?»<br />
«Vivo son io, e caro esser ti puote»,<br />
fu mia risposta, «se dimandi fama,<br />
ch'io metta il nome tuo tra l'altre note».<br />
Ed elli a me: «Del contrario ho io brama.<br />
Lèvati quinci e non mi dar più lagna,<br />
ché mal sai lusingar per questa lama!»<br />
Allor lo presi per la cuticagna<br />
e dissi: «El converrà che tu ti nomi,<br />
o che capel qui sù non ti rimagna».<br />
Ond' elli a me: «Perché tu mi dischiomi,<br />
né ti dirò ch'io sia, né mosterrolti<br />
se mille fiate in sul capo mi tomi».<br />
Io avea già i capelli in mano avvolti,<br />
e tratti glien' avea più d'una ciocca,<br />
latrando lui con li occhi in giù raccolti,<br />
152<br />
quando un altro gridò: «Che hai tu, Bocca?<br />
non ti basta sonar con le mascelle,<br />
se tu non latri? qual diavol ti tocca?»<br />
«Omai», diss' io, «non vo' che più favelle,<br />
malvagio traditor; ch'a la tua onta<br />
io porterò di te vere novelle».<br />
«Va via», rispuose, «e ciò che tu vuoi conta;<br />
ma non tacer, se tu di qua entro eschi,<br />
di quel ch'ebbe or così la lingua pronta.<br />
El piange qui l'argento de' Franceschi:<br />
"Io vidi", potrai dir, "quel da Duera<br />
là dove i peccatori stanno freschi".<br />
Se fossi domandato "Altri chi v'era?",<br />
tu hai dallato quel di Beccheria<br />
di cui segò Fiorenza la gorgiera.<br />
Gianni de' Soldanier credo che sia<br />
più là con Ganellone e Tebaldello,<br />
ch'aprì Faenza quando si dormia».<br />
I due poeti, procedendo verso il centro del pozzo, raggiungono la seconda zona del<br />
nono cerchio, chiamata Antenora, dove sono puniti i traditori della patria o del<br />
proprio partito. Questa zona prende il nome da Antenore, un principe troiano<br />
accusato di aver tradito la sua città ospitando segretamente Ulisse (che come si sa<br />
era eroe greco) e concordando con lui come salvare i propri beni dopo la<br />
distruzione di Troia. I dannati della seconda zona sono confitti nel ghiaccio fino al<br />
collo, ma, a differenza dei primi, non tengono il viso in basso.<br />
Dante dà un calcio, non si sa se accidentalmente o di proposito, alla testa di un<br />
dannato, il quale per reazione gli grida: «Perché mi percuoti? Se non vieni ad<br />
accrescere la punizione che mi è stata inflitta a causa di Montaperti, perché mi<br />
molesti?» Il dannato si riferisce alla battaglia (già menzionata nel X canto) che in<br />
tale località (in provincia di Siena) fu combattuta il 4 settembre 1260 tra Fiorentini e<br />
Senesi. All’udire di tale battaglia, Dante chiede il permesso al maestro di fermarsi<br />
un poco a parlare col dannato. Il poeta vorrebbe sapere il suo nome, ma costui<br />
rifiuta di rivelarglielo, anche quando prende a strappargli i capelli per costringerlo<br />
a parlare. Un altro dannato, udito il battibecco, chiama il dannato per nome: è Bocca<br />
degli Alberti, fiorentino guelfo che alla vista del contrattacco senese tradì i suoi<br />
compagni nella battaglia suddetta, tranciando di netto la mano del portastendardo<br />
fiorentino.<br />
Dante, soddisfatto, si allontana dichiarando che farà conoscere a tutti sulla terra chi<br />
sia stato il traditore della parte guelfa. Bocca allora rivela il nome del dannato che<br />
ha fatto il suo nome: Buoso da Druera, il quale nel 1265 tradì i Ghibellini e, per<br />
denaro, nei pressi di Parma, non si oppose al passaggio dell’esercito francese di<br />
Carlo I d’Angiò.<br />
Poi Bocca rivela i nomi di altri traditori: come si può notare, anche nell’Inferno,<br />
come già in vita, i traditori continuano a tradire.
124-139<br />
Noi eravam partiti già da ello,<br />
ch'io vidi due ghiacciati in una buca,<br />
sì che l'un capo a l'altro era cappello;<br />
e come 'l pan per fame si manduca,<br />
così 'l sovran li denti a l'altro pose<br />
là 've 'l cervel s'aggiugne con la nuca:<br />
non altrimenti Tidëo si rose<br />
le tempie a Menalippo per disdegno,<br />
che quei faceva il teschio e l'altre cose.<br />
153<br />
«O tu che mostri per sì bestial segno<br />
odio sovra colui che tu ti mangi,<br />
dimmi 'l perché», diss' io, «per tal convegno,<br />
che se tu a ragion di lui ti piangi,<br />
sappiendo chi voi siete e la sua pecca,<br />
nel mondo suso ancora io te ne cangi,<br />
se quella con ch'io parlo non si secca».<br />
Poco più avanti il poeta scorge due dannati, uno sopra l’altro, confitti insieme nel<br />
ghiaccio. Il dannato che sta sopra sta mangiando con avidità la parte posteriore<br />
della testa dell’altro. Il poeta, colpito dalla crudele scena, domanda all’aggressore il<br />
motivo di tale ferocia.
CANTO XXXIII<br />
Il canto XXXIII inizia riprendendo la scena la cui descrizione è iniziata alla fine del<br />
canto precedente.<br />
1-3<br />
<strong>La</strong> bocca sollevò dal fiero pasto<br />
quel peccator, forbendola a‟ capelli<br />
del capo ch‟elli avea di retro guasto.<br />
Il dannato allontana la bocca dalla nuca dell‟altro dannato, e se la pulisce con i capelli<br />
della testa che sta mangiando.<br />
4-6<br />
Poi cominciò: «Tu vuo‟ ch‟io rinovelli<br />
disperato dolor che „l cor mi preme<br />
già pur pensando, pria ch‟io ne favelli.<br />
Quindi il dannato risponde a Dante: «Tu mi chiedi di ricordare la profonda angoscia<br />
che, già sola a pensarla, mi addolora prima ancora che io cominci a parlarne.<br />
7-9<br />
Ma se le mie parole esser dien seme<br />
che frutti infamia al traditor ch‟i‟ rodo,<br />
parlare e lagrimar vedrai insieme.<br />
Ma se il racconto che sto per farti può servire a procurare infamia al traditore di cui<br />
sto mangiando la testa, esaudisco la tua richiesta, anche se il racconto mi procurerà<br />
inevitabilmente una grande sofferenza nel cuore.<br />
10-12<br />
Io non so chi tu se‟ né per che modo<br />
venuto se‟ qua giù; ma fiorentino<br />
mi sembri veramente quand‟io t‟odo.<br />
Io non so chi sei né per quale motivo ti trovi qui nell‟Inferno, ma dall‟accento mi<br />
sembri fiorentino.<br />
154
13-15<br />
Tu dei saper ch‟i‟ fui conte Ugolino,<br />
e questi è l‟arcivescovo Ruggieri:<br />
or ti dirò perché i son tal vicino.<br />
Devi sapere che in vita fui il conte Ugolino, e costui è l‟arcivescovo Ruggieri: adesso<br />
ti dico perché sono per lui un vicino così molesto.<br />
Ugolino, conte della Gherardesca, nato nella prima metà del XIII secolo, fu signore<br />
di molte terre nel Pisano e in Sardegna. Di famiglia ghibellina, parteggiò per i<br />
Guelfi e li aiutò nel 1274-75 a impadronirsi della Repubblica pisana (tentativo che<br />
peraltro fallì).<br />
Ruggieri degli Ubaldini, arcivescovo di Pisa dal 1278, di parte ghibellina, approfittò<br />
delle discordie interne dei Guelfi per favorire l’avvento dei Ghibellini al potere. Il<br />
conte Ugolino, che era fuori Pisa, fu richiamato dall’arcivescovo col pretesto di<br />
concludere la pace, ma, da lui tradito, fu accusato di avere ceduto per denaro i<br />
castelli ai nemici, e nel luglio del 1288 fu rinchiuso nella torre dei Gualandi (a Pisa)<br />
con i figli Gaddo e Uguccione e coi nipoti Nino, detto Brigata, e Anselmuccio. Dopo<br />
otto mesi di prigionia furono tutti lasciati morire di fame.<br />
Dante condanna nel nono cerchio sia il conte Ugolino, come traditore della parte<br />
ghibellina, sia l’arcivescovo Ruggieri, per aver tradito il conte, vilmente<br />
imprigionato dopo averlo invitato in città con la scusa di stipulare un accordo.<br />
16-48<br />
Che per l'effetto de' suo' mai pensieri,<br />
fidandomi di lui, io fossi preso<br />
e poscia morto, dir non è mestieri;<br />
però quel che non puoi avere inteso,<br />
cioè come la morte mia fu cruda,<br />
udirai, e saprai s'e' m'ha offeso.<br />
Breve pertugio dentro da la Muda,<br />
la qual per me ha 'l titol de la fame,<br />
e che conviene ancor ch'altrui si chiuda,<br />
m'avea mostrato per lo suo forame<br />
più lune già, quand' io feci 'l mal sonno<br />
che del futuro mi squarciò 'l velame.<br />
Questi pareva a me maestro e donno,<br />
cacciando il lupo e ' lupicini al monte<br />
per che i Pisan veder Lucca non ponno.<br />
Con cagne magre, studïose e conte<br />
Gualandi con Sismondi e con <strong>La</strong>nfranchi<br />
s'avea messi dinanzi da la fronte.<br />
155<br />
In picciol corso mi parieno stanchi<br />
lo padre e ' figli, e con l'agute scane<br />
mi parea lor veder fender li fianchi.<br />
Quando fui desto innanzi la dimane,<br />
pianger senti' fra 'l sonno i miei figliuoli<br />
ch'eran con meco, e dimandar del pane.<br />
Ben se' crudel, se tu già non ti duoli<br />
pensando ciò che 'l mio cor s'annunziava;<br />
e se non piangi, di che pianger suoli?<br />
Già eran desti, e l'ora s'appressava<br />
che 'l cibo ne solëa essere addotto,<br />
e per suo sogno ciascun dubitava;<br />
e io senti' chiavar l'uscio di sotto<br />
a l'orribile torre; ond' io guardai<br />
nel viso a' mie' figliuoi sanza far motto.
Il conte Ugolino comincia il suo racconto:<br />
«Dopo alcuni mesi che ero imprigionato assieme ai miei figli e ai miei nipoti, feci un<br />
cattivo sogno premonitore. <strong>La</strong> mattina seguente, nell’ora in cui di solito ci veniva<br />
portato il cibo, sentii inchiodare la porta di ingresso della torre.<br />
49-51<br />
Io non piangea, sì dentro impetrai:<br />
piangevan elli; e Anselmuccio mio<br />
disse: “Tu guardi sì, padre! che hai?”<br />
Io non piansi, per non mostrare il mio sgomento ai bambini; ma il cuore per<br />
l‟angoscia mi diventò duro come la pietra: loro invece piangevano; e Anselmuccio<br />
disse: “Tu guardi in modo diverso dal solito, padre (lo chiama padre, ma in realtà è<br />
lo zio)! Che hai?”<br />
52-57<br />
Perciò non lagrimai né rispuos' io<br />
tutto quel giorno né la notte appresso,<br />
infin che l'altro sol nel mondo uscìo.<br />
156<br />
Come un poco di raggio si fu messo<br />
nel doloroso carcere, e io scorsi<br />
per quattro visi il mio aspetto stesso,<br />
Ciononostante non piansi né quel giorno né la notte seguente, finché con le prime<br />
luce dell’alba del giorno successivo vidi l’aspetto emaciato e sfinito dei bambini.<br />
58-63<br />
ambo le man per lo dolor mi morsi;<br />
ed ei, pensando ch‟io „l fessi per voglia<br />
di manicar, di sùbito levorsi<br />
e disser: “Padre, assai ci fia men doglia<br />
se tu mangi di noi: tu ne vestisti<br />
queste misere carni, e tu le spoglia.”<br />
Tutte e due le mani per il dolore morale e per la fame mi morsi; i bambini,<br />
pensando che lo facessi solo per la fame, subito si alzarono e dissero: “Padre, sarà<br />
molto meno doloroso per noi se mangi noi: tu ci hai dato questo corpo e tu hai il<br />
diritto di togliercelo.”<br />
64-66<br />
Queta‟mi allor per non farli più tristi;
lo dì e l‟altro stemmo tutti muti;<br />
ahi dura terra, perché non t‟apristi?<br />
Allora cercai di mostrarmi calmo e sereno, per non rendere i bambini più tristi di<br />
quanto già fossero; così scelsi di non parlare e non parlarono nemmeno loro né quel<br />
giorno né il successivo; perché, oh terra, con le tue forze, non intervenisti a<br />
spalancare una voragine per inghiottire tutti e cinque, onde porre fine a questa<br />
agonia?<br />
67-69<br />
Poscia che fummo al quarto dì venuti,<br />
Gaddo mi si gittò disteso a‟ piedi,<br />
dicendo: “Padre, chè non m‟aiuti?”<br />
Quando arrivammo al quarto giorno dall‟inizio del digiuno, Gaddo si gettò disteso ai<br />
miei piedi, dicendo: “Padre mio, perché non mi aiuti?”<br />
70-75<br />
Quivi morì; e come tu mi vedi,<br />
vid‟io cascar li tre ad uno ad uno<br />
tra „l quinto e „l sesto; ond‟io mi diedi,<br />
già cieco, a brancolar sovra ciascuno,<br />
e due dì li chiamai, poi che fur morti.<br />
Poscia, più che „l dolor potè „l digiuno».<br />
In quel momento morì; e come tu puoi vedere me, così con questi occhi vidi cascare gli<br />
altri tre bambini a uno a uno tra il quinto e il sesto giorno; poi, già cieco a causa del<br />
digiuno, cercai di riconoscere i miei figli e nipoti tastandoli con le mani, continuando<br />
a chiamarli per altri due giorni. Infine morii anch‟io a causa della fame».<br />
76-78<br />
Quand' ebbe detto ciò, con li occhi torti<br />
riprese 'l teschio misero co' denti,<br />
che furo a l'osso, come d'un can, forti.<br />
Finito il suo racconto, il conte Ugolino riprende a mordere il teschio<br />
dell’arcivescovo Ruggieri con la stessa ferocia con cui un cane morde un osso.<br />
157
79-90<br />
Ahi Pisa, vituperio de le genti<br />
del bel paese là dove 'l sì suona,<br />
poi che i vicini a te punir son lenti,<br />
muovasi la Capraia e la Gorgona,<br />
e faccian siepe ad Arno in su la foce,<br />
sì ch'elli annieghi in te ogne persona!<br />
158<br />
Che se 'l conte Ugolino aveva voce<br />
d'aver tradita te de le castella,<br />
non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.<br />
Innocenti facea l'età novella,<br />
novella Tebe, Uguiccione e 'l Brigata<br />
e li altri due che 'l canto suso appella.<br />
Dante, indignato per la orribile fine degli incolpevoli figli e nipoti del conte<br />
Ugolino, pronuncia un’aspra invettiva contro la città di Pisa.<br />
91-108<br />
Noi passammo oltre, là 've la gelata<br />
ruvidamente un'altra gente fascia,<br />
non volta in giù, ma tutta riversata.<br />
Lo pianto stesso lì pianger non lascia,<br />
e 'l duol che truova in su li occhi rintoppo,<br />
si volge in entro a far crescer l'ambascia;<br />
ché le lagrime prime fanno groppo,<br />
e sì come visiere di cristallo,<br />
rïempion sotto 'l ciglio tutto il coppo.<br />
E avvegna che, sì come d'un callo,<br />
per la freddura ciascun sentimento<br />
cessato avesse del mio viso stallo,<br />
già mi parea sentire alquanto vento;<br />
per ch'io: «Maestro mio, questo chi move?<br />
non è qua giù ogne vapore spento?»<br />
Ond' elli a me: «Avaccio sarai dove<br />
di ciò ti farà l'occhio la risposta,<br />
veggendo la cagion che 'l fiato piove».<br />
I poeti proseguono e raggiungono la terza zona, detta Tolomea, dove sono puniti i<br />
traditori degli ospiti. Tale zona prende il nome, secondo alcuni, da Tolomeo re<br />
d’Egitto, che uccise l’amico Pompeo, che si era rifugiato nella sua città; secondo<br />
altri, da Tolomeo governatore di Gerico (una città dell’attuale Cisgiordania), che<br />
uccise a tradimento il suocero e i suoi figli, che aveva invitati a banchetto nella sua<br />
casa (Primo libro dei Maccabei, XVI, 11-16). I dannati di questa zona non sono<br />
confitti verticalmente come gli altri, ma distesi supini (e quindi con la faccia all’in<br />
su) orizzontalmente, con solamente la testa che affiora dalla superficie gelata,<br />
cosicché le lacrime che sgorgano dagli occhi non scivolano via ma si accumulano<br />
sugli occhi e sul viso, e congelandosi per il freddo formano una maschera di<br />
cristallo che ostacola la fuoriuscita delle altre lacrime, aumentando così il dolore del<br />
dannato, che non può trovare sfogo nel pianto.<br />
Intanto Dante, nonostante la sua pelle sia insensibile per il freddo, avverte un forte<br />
vento e se ne meraviglia, perché nel Medioevo si riteneva che il vento fosse<br />
originato dal calore del sole che solleva i vapori, e nell’Inferno non c’è il sole; il<br />
maestro replica che presto scoprirà da solo la risposta.<br />
109-150<br />
E un de' tristi de la fredda crosta<br />
gridò a noi: «O anime crudeli<br />
tanto che data v'è l'ultima posta,<br />
levatemi dal viso i duri veli,<br />
sì ch'ïo sfoghi 'l duol che 'l cor m'impregna,<br />
un poco, pria che 'l pianto si raggeli».
Per ch'io a lui: «Se vuo' ch'i' ti sovvegna,<br />
dimmi chi se', e s'io non ti disbrigo,<br />
al fondo de la ghiaccia ir mi convegna».<br />
Rispuose adunque: «I' son frate Alberigo;<br />
i' son quel da le frutta del mal orto,<br />
che qui riprendo dattero per figo».<br />
«Oh», diss' io lui, «or se' tu ancor morto?»<br />
Ed elli a me: «Come 'l mio corpo stea<br />
nel mondo sù, nulla scïenza porto.<br />
Cotal vantaggio ha questa Tolomea,<br />
che spesse volte l'anima ci cade<br />
innanzi ch'Atropòs mossa le dea.<br />
E perché tu più volentier mi rade<br />
le 'nvetrïate lagrime dal volto,<br />
sappie che, tosto che l'anima trade<br />
come fec' ïo, il corpo suo l'è tolto<br />
da un demonio, che poscia il governa<br />
mentre che 'l tempo suo tutto sia vòlto.<br />
159<br />
Ella ruina in sì fatta cisterna;<br />
e forse pare ancor lo corpo suso<br />
de l'ombra che di qua dietro mi verna.<br />
Tu 'l dei saper, se tu vien pur mo giuso:<br />
elli è ser Branca Doria, e son più anni<br />
poscia passati ch'el fu sì racchiuso».<br />
«Io credo», diss' io lui, «che tu m'inganni;<br />
ché Branca Doria non morì unquanche,<br />
e mangia e bee e dorme e veste panni».<br />
«Nel fosso sù», diss' el, «de' Malebranche,<br />
là dove bolle la tenace pece,<br />
non era ancora giunto Michel Zanche,<br />
che questi lasciò il diavolo in sua vece<br />
nel corpo suo, ed un suo prossimano<br />
che 'l tradimento insieme con lui fece.<br />
Ma distendi oggimai in qua la mano;<br />
aprimi li occhi». E io non gliel' apersi;<br />
e cortesia fu lui esser villano.<br />
Un dannato si rivolge ai due poeti chiedendo loro di togliergli le lacrime ghiacciate<br />
dal volto, affinché possa alleviare il proprio dolore. Dante promette che lo farà se<br />
lui gli rivelerà il proprio nome. Il dannato afferma allora di essere Alberigo dei<br />
Manfredi, appartenente all’ordine dei Frati gaudenti (di quest’ordine si è già<br />
parlato nel canto XXIII, vv. 76-108). Costui invitò a pranzo nella sua villa due suoi<br />
parenti, coi quali era stato in discordia, fingendo di voler riappacificarsi con loro;<br />
ma alla fine del pranzo, al segnale convenuto, li fece assassinare dai sicari.<br />
Sentito il nome del dannato, Dante si stupisce, perché gli risulta che tale frate sia<br />
ancora vivo sulla terra. Il dannato gli spiega che le anime dei traditori degli ospiti<br />
piombano nell’Inferno subito dopo il tradimento, mentre un diavolo prende<br />
possesso del loro corpo per tutti gli anni che restano loro di vita.<br />
Frate Alberigo fa il nome di un altro dannato della terza zona del nono cerchio: il<br />
genovese Branca Doria il quale, volendo impossessarsi della signoria di Logudoro,<br />
in Sardegna, tenuta da suo suocero Michele Zanche (personaggio già citato nel<br />
canto XXII), lo invitò a banchetto e a tradimento lo fece uccidere.<br />
Al termine del suo discorso, frate Alberigo richiede a Dante di esaudire la sua<br />
promessa di liberargli gli occhi dalle lacrime ghiacciate. Ma il poeta non mantiene<br />
fede alla parola, in quanto l’essere villano con lui è un trattamento che si merita un<br />
simile traditore ; tanto più che liberargli gli occhi significherebbe operare contro la<br />
giustizia di Dio.<br />
151-157<br />
Ahi Genovesi, uomini diversi<br />
d'ogne costume e pien d'ogne magagna,<br />
perché non siete voi del mondo spersi?<br />
Ché col peggiore spirto di Romagna<br />
trovai di voi un tal, che per sua opra<br />
in anima in Cocito già si bagna,<br />
e in corpo par vivo ancor di sopra.
Il poeta conclude il canto con un’invettiva contro i Genovesi.<br />
160
1-15<br />
«Vexilla regis prodeunt inferni<br />
verso di noi; però dinanzi mira»,<br />
disse 'l maestro mio, «se tu 'l discerni».<br />
Come quando una grossa nebbia spira,<br />
o quando l'emisperio nostro annotta,<br />
par di lungi un molin che 'l vento gira,<br />
veder mi parve un tal dificio allotta;<br />
poi per lo vento mi ristrinsi retro<br />
al duca mio, ché non lì era altra grotta.<br />
CANTO XXXIV<br />
161<br />
Già era, e con paura il metto in metro,<br />
là dove l'ombre tutte eran coperte,<br />
e trasparien come festuca in vetro.<br />
Altre sono a giacere; altre stanno erte,<br />
quella col capo e quella con le piante;<br />
altra, com' arco, il volto a' piè rinverte.<br />
Dante ha l’impressione di vedere, da lontano, un gran mulino a vento. In realtà esso<br />
è il corpo di Lucifero, e il luogo in cui si trovano è la quarta zona del nono cerchio,<br />
la Giudecca, dove sono puniti i traditori dei benefattori. Questa zona prende il<br />
nome da Iudiaica, termine con cui, nel Medioevo, si indicava il ghetto ebraico; esso<br />
a sua volta deriva da Giuda, il traditore di Cristo. I dannati si trovano<br />
completamente immersi nel ghiaccio in quattro diverse posizioni (alcuni sdraiati,<br />
altri diritti, altri capovolti, altri curvi ad arco) che corrispondono al loro grado di<br />
tradimento verso i benefattori.<br />
16-21<br />
Quando noi fummo fatti tanto avante,<br />
ch‟al mio maestro piacque di mostrarmi<br />
la creatura ch‟ebbe il bel sembiante,<br />
d‟innanzi mi si tolse e fè restarmi,<br />
«Ecco Dite», dicendo, «ed ecco il loco<br />
ove convien che di fortezza t‟armi».<br />
Appena i due poeti arrivano abbastanza vicino per poter osservare Lucifero,<br />
Virgilio blocca Dante e gli dice: «Ecco Dite (Lucifero). Ed ecco il luogo dove è<br />
necessario che ti armi di coraggio». Lucifero è chiamato qui “la creatura ch‟ebbe il bel<br />
sembiante”, perché prima di ribellarsi a Dio era il più bello degli angeli.<br />
22-24<br />
Com‟io divenni allor gelato e fioco,<br />
nol dimandar, lettor, ch‟i‟ non lo scrivo,<br />
però ch‟ogne parlar sarebbe poco.
Dante si rivolge ai lettori della <strong>Divina</strong> <strong>Commedia</strong>, comunicando loro l’impossibilità<br />
di descrivere il suo stato di blocco mentale e di debolezza spirituale di fronte alla<br />
vista terrificante di Lucifero; infatti qualunque espressione non renderebbe l’idea di<br />
tale stato.<br />
25-27<br />
Io non morì e non rimasi vivo;<br />
pensa oggimai per te, s‟hai fior d‟ingegno,<br />
qual io divenni, d‟uno e d‟altro privo.<br />
Dante continua il suo ipotetico colloquio con i lettori, ma solo a quelli che hanno<br />
abbastanza ingegno da capirlo, per dire loro che alla vista di Lucifero lui si sente di<br />
essere tra la vita e la morte, tant’è che si sente privo sia della vita sia della morte.<br />
28-67<br />
Lo 'mperador del doloroso regno<br />
da mezzo 'l petto uscia fuor de la ghiaccia;<br />
e più con un gigante io mi convegno,<br />
che i giganti non fan con le sue braccia:<br />
vedi oggimai quant' esser dee quel tutto<br />
ch'a così fatta parte si confaccia.<br />
S'el fu sì bel com' elli è ora brutto,<br />
e contra 'l suo fattore alzò le ciglia,<br />
ben dee da lui procedere ogne lutto.<br />
Oh quanto parve a me gran maraviglia<br />
quand' io vidi tre facce a la sua testa!<br />
L'una dinanzi, e quella era vermiglia;<br />
l'altr' eran due, che s'aggiugnieno a questa<br />
sovresso 'l mezzo di ciascuna spalla,<br />
e sé giugnieno al loco de la cresta:<br />
e la destra parea tra bianca e gialla;<br />
la sinistra a vedere era tal, quali<br />
vegnon di là onde 'l Nilo s'avvalla.<br />
Sotto ciascuna uscivan due grand' ali,<br />
quanto si convenia a tanto uccello:<br />
vele di mar non vid' io mai cotali.<br />
162<br />
Non avean penne, ma di vispistrello<br />
era lor modo; e quelle svolazzava,<br />
sì che tre venti si movean da ello:<br />
quindi Cocito tutto s'aggelava.<br />
Con sei occhi piangëa, e per tre menti<br />
gocciava 'l pianto e sanguinosa bava.<br />
Da ogne bocca dirompea co' denti<br />
un peccatore, a guisa di maciulla,<br />
sì che tre ne facea così dolenti.<br />
A quel dinanzi il mordere era nulla<br />
verso 'l graffiar, che talvolta la schiena<br />
rimanea de la pelle tutta brulla.<br />
«Quell' anima là sù c'ha maggior pena»,<br />
disse 'l maestro, «è Giuda Scarïotto,<br />
che 'l capo ha dentro e fuor le gambe mena.<br />
De li altri due c'hanno il capo di sotto,<br />
quel che pende dal nero ceffo è Bruto:<br />
vedi come si storce, e non fa motto!;<br />
e l'altro è Cassio, che par sì membruto.<br />
Lucifero piange conficcato nel ghiaccio al centro della terra, nel punto più basso<br />
dell’Inferno. Le sue dimensioni sono smisurate: vari commentatori calcolano la sua<br />
altezza in circa mille metri. Ha tre facce (l’antitesi della Trinità) di colore diverso:<br />
una è rossa (simbolo dell’odio, contrapposto all’amore dello Spirito Santo), una è<br />
bianca e gialla (simbolo dell’impotenza, e dell’invidia e dell’accidia che ad essa<br />
conseguono, contrapposte alla Somma Potenza del Padre), una è nera (simbolo<br />
dell’ignoranza, contrapposta alla luce della sapienza del Figlio). Sotto ciascuna testa
sporgono un paio di brutte ali membranose, come quelle dei pipistrelli: in totale<br />
quindi ha sei ali. Ogni coppia di ali genera un vento che congela il lago Cocito: così<br />
Dante ha la risposta al suo dubbio su quale sia l’origine del vento che soffia nel<br />
nono cerchio (cfr. canto precedente, vv. 91-108).<br />
Dalle tre bocche di Lucifero esce bava mista alle sue lacrime e al sangue dei tre<br />
peccatori che maciulla: il dannato le cui gambe sporgono e si agitano dalla bocca<br />
centrale (mentre la testa e il busto sono nella bocca di Lucifero) è tormentato più<br />
duramente, perché oltre ad essere maciullato con i denti è anche graffiato sulla<br />
schiena, ed è Giuda, il traditore di Cristo, e quindi traditore della Chiesa; gli altri<br />
due dannati, i cui corpi pendono e si dimenano fuori dalle bocche laterali (mentre le<br />
gambe sono all’interno delle bocche), sono Bruto e Cassio, gli uccisori di Giulio<br />
Cesare, e quindi traditori dell’Imperatore. Dante, come già detto, considera la<br />
Chiesa e l’Imperatore come le podestà supreme che Dio ha preposto per l’ordinata<br />
convivenza umana; pertanto tradire tali istituzioni costituisce il peccato più grave<br />
in assoluto.<br />
68-139<br />
Ma la notte risurge, e oramai<br />
è da partir, ché tutto avem veduto».<br />
Com' a lui piacque, il collo li avvinghiai;<br />
ed el prese di tempo e loco poste,<br />
e quando l'ali fuoro aperte assai,<br />
appigliò sé a le vellute coste;<br />
di vello in vello giù discese poscia<br />
tra 'l folto pelo e le gelate croste.<br />
Quando noi fummo là dove la coscia<br />
si volge, a punto in sul grosso de l'anche,<br />
lo duca, con fatica e con angoscia,<br />
volse la testa ov' elli avea le zanche,<br />
e aggrappossi al pel com' om che sale,<br />
sì che 'n inferno i' credea tornar anche.<br />
«Attienti ben, ché per cotali scale»,<br />
disse 'l maestro, ansando com' uom lasso,<br />
«conviensi dipartir da tanto male».<br />
Poi uscì fuor per lo fóro d'un sasso<br />
e puose me in su l'orlo a sedere;<br />
appresso porse a me l'accorto passo.<br />
Io levai li occhi e credetti vedere<br />
Lucifero com' io l'avea lasciato,<br />
e vidili le gambe in sù tenere;<br />
e s'io divenni allora travagliato,<br />
la gente grossa il pensi, che non vede<br />
qual è quel punto ch'io avea passato.<br />
«Lèvati sù», disse 'l maestro, «in piede:<br />
la via è lunga e 'l cammino è malvagio,<br />
e già il sole a mezza terza riede».<br />
163<br />
Non era camminata di palagio<br />
là 'v' eravam, ma natural burella<br />
ch'avea mal suolo e di lume disagio.<br />
«Prima ch'io de l'abisso mi divella,<br />
maestro mio», diss' io quando fui dritto,<br />
«a trarmi d'erro un poco mi favella:<br />
ov' è la ghiaccia? e questi com' è fitto<br />
sì sottosopra? e come, in sì poc' ora,<br />
da sera a mane ha fatto il sol tragitto?»<br />
Ed elli a me: «Tu imagini ancora<br />
d'esser di là dal centro, ov' io mi presi<br />
al pel del vermo reo che 'l mondo fóra.<br />
Di là fosti cotanto quant' io scesi;<br />
quand' io mi volsi, tu passasti 'l punto<br />
al qual si traggon d'ogne parte i pesi.<br />
E se' or sotto l'emisperio giunto<br />
ch'è contraposto a quel che la gran secca<br />
coverchia, e sotto 'l cui colmo consunto<br />
fu l'uom che nacque e visse sanza pecca;<br />
tu haï i piedi in su picciola spera<br />
che l'altra faccia fa de la Giudecca.<br />
Qui è da man, quando di là è sera;<br />
e questi, che ne fé scala col pelo,<br />
fitto è ancora sì come prim' era.<br />
Da questa parte cadde giù dal cielo;<br />
e la terra, che pria di qua si sporse,<br />
per paura di lui fé del mar velo,
e venne a l'emisperio nostro; e forse<br />
per fuggir lui lasciò qui loco vòto<br />
quella ch'appar di qua, e sù ricorse».<br />
Luogo è là giù da Belzebù remoto<br />
tanto quanto la tomba si distende,<br />
che non per vista, ma per suono è noto<br />
d'un ruscelletto che quivi discende<br />
per la buca d'un sasso, ch'elli ha roso,<br />
col corso ch'elli avvolge, e poco pende.<br />
164<br />
Lo duca e io per quel cammino ascoso<br />
intrammo a ritornar nel chiaro mondo;<br />
e sanza cura aver d'alcun riposo,<br />
salimmo sù, el primo e io secondo,<br />
tanto ch'i' vidi de le cose belle<br />
che porta 'l ciel, per un pertugio tondo.<br />
E quindi uscimmo a riveder le stelle.<br />
Virgilio comunica a Dante che il viaggio nell’Inferno è terminato; esso è durato, dal<br />
momento in cui hanno varcato la porta infernale, ventiquattr’ore: dalla sera dell’8<br />
aprile (che come detto nel canto XXI era un Venerdì Santo) a quella del 9 aprile<br />
1300. Perciò il maestro dice che è tempo di ripartire. Così Dante si aggrappa al collo<br />
di Virgilio, e questi si appiglia ai fianchi di Lucifero e scende giù tra il suo folto<br />
pelame e le pareti ghiacciate del pozzo. I due poeti, attraverso una fessura della<br />
roccia, durante la notte passano il centro della Terra e intraprendono il cammino<br />
nelle sue viscere attraverso un sentiero in salita che fiancheggia il corso di un<br />
ruscelletto (il Letè) che si sente per il rumore, ma che non si vede per l’oscurità.<br />
Quindi i due poeti affiorano sulla superficie terrestre, nell’emisfero opposto a<br />
quello di partenza, dove cambia l’ora: qui sono le sette e mezza circa del mattino.<br />
All’inizio del loro viaggio nell’Inferno essi erano partiti dall’emisfero boreale<br />
(quello compreso tra l’equatore e il polo nord), mentre adesso si trovano<br />
nell’emisfero australe (quello compreso tra l’equatore e il polo sud).<br />
Tornando sulla superficie terrestre, i due poeti, dopo tanto aspro cammino nei bui<br />
abissi infernali, possono finalmente rivedere il cielo.
165
166
INDICE<br />
Presentazione, bibliografia e avvertenze per la consultazione 3<br />
Biografia di Dante e introduzione alla <strong>Divina</strong> <strong>Commedia</strong> 7<br />
Introduzione all’Inferno 13<br />
Canto I 21<br />
Canto II 32<br />
Canto III 38<br />
Canto IV 42<br />
Canto V 46<br />
Canto VI 53<br />
Canto VII 56<br />
Canto VIII 61<br />
Canto IX 64<br />
Canto X 68<br />
Canto XI 73<br />
Canto XII 77<br />
Canto XIII 81<br />
Canto XIV 85<br />
Canto XV 89<br />
Canto XVI 93<br />
Canto XVII 95<br />
Canto XVIII 99<br />
Canto XIX 103<br />
Canto XX 107<br />
167
Canto XXI 110<br />
Canto XXII 114<br />
Canto XXIII 117<br />
Canto XXIV 121<br />
Canto XXV 125<br />
Canto XXVI 128<br />
Canto XXVII 132<br />
Canto XXVIII 135<br />
Canto XXIX 138<br />
Canto XXX 141<br />
Canto XXXI 146<br />
Canto XXXII 150<br />
Canto XXXIII 154<br />
Canto XXXIV 161<br />
Schema dell’Inferno dantesco 165<br />
168