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A. Panatta, Quanti sacrifici! - Fabbri Editori

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TEMI<br />

1<br />

1. CONI: sigla di Comitato<br />

Olimpico Nazionale<br />

Italiano.<br />

2. pallettaro: chi gioca<br />

a tennis limitandosi<br />

alla difesa e preferendo<br />

i palleggi da fondo<br />

campo lenti e prolungati.<br />

3. Pievepelago: località<br />

in provincia di<br />

Modena.<br />

4. servizio: nel tennis<br />

è il lancio della<br />

palla nella metà campo<br />

avversaria da parte<br />

del battitore.<br />

5. Formia: comune in<br />

provincia di Latina, sul<br />

golfo di Gaeta.<br />

S PORT E ALIMENTAZIONE<br />

Adriano <strong>Panatta</strong><br />

<strong>Quanti</strong> sacrifi ci!<br />

In queste pagine che ti proponiamo, il «ragazzo dal braccio d’oro» (così<br />

veniva chiamato <strong>Panatta</strong>) racconta gli inizi della sua carriera tennistica,<br />

soff ermandosi in particolare sui sacrifi ci aff rontati per sei lunghi anni<br />

nella scuola di preparazione atletica di Formia.<br />

A nove-dieci anni cominciai la mia «carriera» tennistica.<br />

La prima vittoria non si dimentica: fu quella al torneo «Cerbiatti»<br />

del CONI 1 , al Foro Italico.<br />

Non ho mai dimenticato nemmeno la prima, grande sconfi tta, in semifi<br />

nale nella Coppa Lambertenghi. Avevo tredici anni, a quel tempo,<br />

ed ero considerato il superfavorito. E, invece, persi contro un<br />

certo Antonio Bon.<br />

Era un pallettaro 2 bestiale. Aveva un gioco che innervosiva chiunque.<br />

Io provai veramente una grossa delusione. Alla fi ne dell’incontro,<br />

beccai anche uno schiaffone da mio padre. Non perché avevo perso.<br />

Perché piangevo!<br />

«Credo che sia stato l’unico schiaffo che ho dato ad Adriano» spiega<br />

Ascenzio <strong>Panatta</strong>. «Non ne ha mai meritati, in verità. Ma, quel giorno,<br />

ho capito che uno, almeno, glielo dovevo dare, perché si ricordasse<br />

per sempre che un campione, anche se “in erba”, deve saper perdere<br />

con dignità. Può piangere, semmai, dopo una vittoria sofferta. Ma<br />

non perché un altro è riuscito a superarlo. Credo che quella lezione<br />

sia servita a qualcosa. Ogni tanto, io e Adriano ne parliamo, ancora a<br />

distanza di anni, con molta tenerezza.»<br />

A tredici anni, potevo considerarmi una speranza del tennis italiano.<br />

D’inverno al Centro Coni e d’estate, ogni anno, a Pievepelago 3 sotto<br />

l’attenta cura e guida di un grande maestro della racchetta, Simon<br />

Giordano, cercavo di migliorare i miei colpi e, in particolare, il mio<br />

servizio 4 che, avevo capito, sarebbe diventato il mio cavallo di battaglia.<br />

Ero, però, abbastanza cosciente da non nascondermi la realtà e da<br />

non cullarmi nelle illusioni. Essere considerati «speranze», nel tennis,<br />

come in ogni altro sport, non signifi ca possedere la bacchetta<br />

magica per potere diventare con certezza matematica un campione.<br />

Ero consapevole dei miei limiti fi sici e atletici. Me lo ripetevano spesso<br />

i miei maestri: «Adriano, tu devi prima vincere il tuo fi sico e poi<br />

gli incontri».<br />

Mi cadevano le braccia, ero sfi duciato... Ed eccomi, a quindici anni,<br />

nel «tempio» della preparazione atletica, a Formia 5 . Avevo accettato<br />

la sfi da con me stesso e con la mia pigrizia.<br />

Frequentare i corsi di addestramento del Coni a Roma (dove si va due<br />

o tre volte la settimana, per qualche ora) o, d’estate, a Pievepelago<br />

Rosetta Zordan, Il Narratore, <strong>Fabbri</strong> <strong>Editori</strong> © 2008 RCS Libri S.p.A. - Divisione Education


TEMI<br />

2<br />

6. passare ... sotto<br />

le «forche caudine»:<br />

espressione fi gurata che<br />

signifi ca «sottoporsi a pesanti<br />

sacrifi ci». Da Forche<br />

Caudine, località in<br />

cui gli antichi Romani,<br />

vinti dai Sanniti, subirono<br />

la vergogna di passare<br />

sotto una specie di<br />

giogo.<br />

7. Mario Belardinelli:<br />

l’allenatore.<br />

S PORT E ALIMENTAZIONE<br />

(dove si vive per una quindicina di giorni o, al massimo, un mese<br />

l’anno), tutti insieme, in compagnia di centinaia di ragazzi e ragazze,<br />

può essere piacevole e divertente. Lo avevo potuto verifi care anch’io<br />

per qualche anno di seguito. A Formia, il discorso cambia. Formia è<br />

sacrifi cio. È isolamento. È disciplina. È lavoro duro, metodico, quotidiano.<br />

Formia è lontananza forzata da casa, dalle abitudini, dai parenti,<br />

dagli amici.<br />

I primi giorni furono un vero disastro, sia dal punto di vista atletico<br />

che per l’ambientamento. Oggi è facile dire: «<strong>Panatta</strong> è un campione»,<br />

ma la gente non deve dimenticare che per entrare nell’Olimpo<br />

tennistico bisogna passare assolutamente sotto le «forche caudine» 6<br />

di Formia, una vera e propria Università del tennis. Io ho vissuto a<br />

Formia sei anni della mia giovinezza.<br />

Ogni giorno, andare a scuola, tornare al Centro, giocare a tennis, fare<br />

sedute atletiche, chiudersi nella propria stanza e studiare, poi riparlare<br />

di tennis con l’allenatore, infi ne, di sera, andare a dormire per poi<br />

ricominciare il giorno dopo daccapo. Devo riconoscere, però, che i<br />

sacrifi ci vissuti a Formia cominciarono a dare i primi frutti.<br />

A Formia, sono stato costruito, sia dal punto di vista atletico sia dal<br />

punto di vista umano. Il merito, in senso assoluto, va a Mario Belardinelli<br />

7 , accanto al quale ho avuto la fortuna di vivere quegli anni<br />

così importanti e determinanti della mia vita. Mario, al di là di ogni<br />

valutazione tecnica o sportiva, ritengo che sia un grande educatore,<br />

un uomo di grande carattere.<br />

Quante volte, nella mia fragilità di ragazzo, quasi piangendo, gli gridavo<br />

in faccia: «Basta! Basta! Basta con Formia. Io voglio tornare a<br />

casa, voglio tornare a Roma, voglio andare a ballare con le ragazzine<br />

come fanno tutti i ragazzi della mia età, voglio far tardi la sera».<br />

Belardinelli rispondeva soltanto, con quel suo mezzo sorriso sulle<br />

labbra: «Va bene. Se te ne vuoi tornare a casa, vattene pure. Se ti<br />

vuoi arrendere, arrenditi. Se ti comporti così, se vuoi arrenderti perché<br />

non hai la forza di vincere, nemmeno te stesso, allora è meglio<br />

sul serio che te ne vada perché signifi ca che non hai dentro di te le<br />

qualità umane e morali per essere un vero campione. Perciò non mi<br />

interessi».<br />

Bastava per farmi continuare.<br />

(da Io e il tennis. La mia vita raccontata a Luca Liguori, SEI, Torino, 1997, rid.)<br />

Rosetta Zordan, Il Narratore, <strong>Fabbri</strong> <strong>Editori</strong> © 2008 RCS Libri S.p.A. - Divisione Education

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