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6 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2009 sopravvalutavo. Egli era più giovane di me, non aveva partecipato alla guerra, e perciò era molto più freddo, più sereno, più obiettivo di fronte al dramma della guerra. Era anche molto più libero nei suoi giudizi, poiché non era impacciato e appesantito dalla retorica patriottica di noi reduci. La guerra per me era una mia tradizione personale, la mia prima fondamentale esperienza di vita. Non potevo, perciò, essere obiettivo, né libero di fronte alla guerra. Ed è appunto il fatto “guerra” che mi ha impedito di essere un antifascista, allora». Il “fatto guerra” sarà sempre centrale nella vita dello scrittore (decorato con medaglia di bronzo e croci di guerra italiane e francesi e che a Bligny respirò l’iprite tedesca), che in un passo del postumo Diario di uno straniero a Parigi [Vallecchi, 1966], ricordando un comizio di protesta per l’aumento del costo della vita, organizzato in Place de la Concorde dai veterani della Prima guerra mondiale e disperso brutalmente dai poliziotti con manganelli e calci, scrive: «Quell’immenso, invincibile esercito di veterani, fuggì, si disperse; sul selciato della sterminata piazza rimasero abbandonati, tristi e lugubri, berretti, grucce, bandiere. Addossato ad una colonna, frenavo a stento le lacrime. Fu quel giorno che sentii oscuramente che la mia generazione aveva perso la guerra». In un altro punto del suo Memoriale scrive: «Io ero più compromesso con la letteratura classica, con i vecchi schemi della letteratura latina e italiana; egli era meno nutrito di classici, più teoricamente esperto di problemi sociali moderni; io possedevo un’esperienza, sia pur modesta, di azione politica e sociale, che egli non possedeva (ma a cui aspirò sempre, ma vanamente, in tutta la sua breve vita). […] Serbavamo entrambi un’assoluta libertà di critica reciproca: spesso eravamo dissenzienti su questo o quel problema, spesso abbiamo polemizzato garbatamente. Ma la nostra amicizia non ebbe incrinature». Malaparte inizia a collaborare a La Rivoluzione Liberale, anche se il suo primo articolo, Il dramma della modernità [4 giugno 1922], non trova il plauso di tutti i lettori; Maffeo Pantaleoni scrive al direttore della rivista per protestare e aggiunge: «Le accludo L. 20 a patto di non ricevere più La Rivoluzione Liberale e le interdico nel modo più formale di spacciarmi presso altri come sostenitore, aderente o collaboratore». Nell’articolo Malaparte parla della crisi morale che attraversa l’Italia, che però non è crisi di una nazione ben- sì di un’intera civiltà. «Il contrasto, irriducibile, non è più nella concezione dell’al di là, ma dell’al di qua: il “mondo”, la mala bestia nemica di Cristo, che il cattolicismo ha combattuto con la rinunzia e con l’espiazione, con l’amore del sacrificio e del dolore, oggi trionfa, non più in aspetto di bellissime femmine tentatrici, o di monaci grassi predicatori di eresie, ma nelle varie e innumerevoli forme della modernità». Il dramma della modernità per l’Italia, paese refrattario alle categorie culturali e sociali che vanno affermandosi nel mondo, si rivela come «una forma culturale regressiva anziché progressiva». Nell’ottobre del 1922, Malaparte scrive a Gobetti ringraziando per un articolo di Sapegno su di lui e scrive: «Aspetto che ella risponda subito a questa mia. Voglio sapere quanto ella si è meravigliato di conoscermi, oltre che come letterato, come organizzatore sindacalista. Più che Daniele e i leoni, più che Orfeo e le pietre, mi par d’essere Ulisse e Proteo: – Regardez bien le Prothée, pendant que je le tiens!, caro Gobetti». Per arrivare al tu, nello scambio abbastanza fitto di missive, bisogna aspettare il luglio del ’23. Parlando di un libro di Malaparte, Viaggio verso l’inferno, che poi non uscirà, Gobetti scrive: «Caro Suckert, va bene 10 lire ai prenotatori? Mandami la scheda compilata come ti pare più opportuno: io te ne posso stampare e mandare subito 200 copie. Organizzerò réclame fortissima: sarai contento di me […] Credimi affettuosamente tuo Piero Gobetti. Mi è venuto il tu: ma non ti pare meglio, dati i nostri rapporti di collaborazione?». Il 17 gennaio dell’anno successivo, Gobetti recensisce sul Lavoro la nuova edizione de La rivolta dei santi maledetti [Roma, Rassegna Internazionale, 1923]. L’articolo s’intitola Profili di contemporanei: L’eroe di corte; il giudizio nei confronti di Suckert Malaparte è duro ma, allo stesso tempo, affettuoso. In sostanza, non ne capisce o, meglio, non ne concepisce il fascismo. Teme che l’amico abbia venduto la sua penna prodigiosa, che abbia trovato posto alla corte di Mussolini come tanti stavano facendo. Non capisce che il suo entusiasmo di essere il primo letterato a capo di «un’organizzazione economica sindacalista, forte di 68 corporazioni e di 7400 iscritti» nasce dal fatto di intravedere in ciò il compimento della rivoluzione che prima di essere fascista è e deve, per lui, essere italiana. Il suo pensiero in merito sarà esplicito nelle pagine della sua rivista La Conquista dello Stato.

ottobre 2009 – la Biblioteca di via Senato Milano 7 Gobetti chiude l’articolo con queste frasi: «Dopo lo sforzo penoso di un secolo di civiltà laica e democratica l’Italia ritorna ai suoi istinti cattolici e ricostruisce la corte, e assolda i cortigiani. Lasciate che tra questa genìa noi ci compiacciamo di ritrovare in Suckert un bel tipo di scrittore aulico, eroico e ortodosso, anche dove si abbandoni agli scherzi poetici che sono in uso nelle regge». La replica di Malaparte non si fa attendere. Il 21 gennaio gli scrive: «Tu sai bene che io non stupisco di nulla […] Sai bene che ti sono amico, che ti ammiro e che non potrei in nessun modo arrabbiarmi con te: preferisco arrabbiarmi con i filosofi ginevrini, inglesi etc., moderni, protestanti etc., filosemiti, anticristiani, etc. etc., che tanto hanno influito a far di te un curiosissimo e simpaticissimo esemplare di eretico. Mi arrabbio con il tuo mondo, non con te». Dopo aver ribattuto puntualmente ad alcuni suoi passi polemici, continua: «Sono rimasto quello che ero, libero e squattrinato. Dal fascismo non ho mai preso e non prendo un soldo, e seguito la mia vita di bohème, quantunque mi trovi nella condizione di poter agevolmente trarre guadagno dal mio lavoro politico. Non temo gli infortuni e non temo perciò nemmeno gli attacchi. Ma preferirei che venissero da altri, non da te. Tu capisci che anch’io avrei potuto attaccarti, non l’ho fatto; anzi ti ho difeso sempre. E poi perché vuoi dipingermi come un Malaparte al confino a Lipari (1933) dilettante? Io sono tutto, fuorché un dilettante. […] Deduco che tu non mi conosci, non mi conosci affatto. Hai parlato troppo poco con me. Praticami e vedrai che sono diverso da quello che credi. Ti assicuro che se io credessi veramente alla sincerità e alla esattezza del tuo articolo, abbandonerei immediatamente le lettere. Che diavolo! La prospettiva di diventare una specie di buffone di corte, è tale da avvilirmi profondamente. Mussolini è troppo istintivamente intelligente per desiderare di abbassarmi nel suo concetto, al livello di un cortigiano. Egli sa chi sono e mi stima. Sa che io non ho la stoffa del buffone; i buffoni sono traditori ed io non ho mai tradito e non tradirò mai nessuno, fuorché me stesso. Un consiglio, caro Gobetti, se vuoi occuparti di me per l’avvenire, occupati di me seriamente. Ti assicuro, e tu lo sai, che lo merito». Nel frattempo, Gobetti, in una cartolina che gli spedisce qualche giorno prima dell’uscita dell’articolo (ma che verosimilmente Suckert leggerà dopo), terrà a precisare: «Ti ho recensito Santi Maledetti sul Lavoro. Temo che la cosa ti spiacerà. Sono stato sincero fino alla brutalità: ma tu non sei l’ultimo venuto e vi leggerai dentro tutto il mio affetto per te e la fiducia nella tua arte». L’ami-

ottobre 2009 – la <strong>Biblioteca</strong> <strong>di</strong> <strong>via</strong> <strong>Senato</strong> Milano 7<br />

Gobetti chiude l’articolo con queste frasi: «Dopo lo<br />

sforzo penoso <strong>di</strong> un secolo <strong>di</strong> civiltà laica e democratica<br />

l’Italia ritorna ai suoi istinti cattolici e ricostruisce la corte,<br />

e assolda i cortigiani. Lasciate che tra questa genìa noi<br />

ci compiacciamo <strong>di</strong> ritrovare in Suckert un bel tipo <strong>di</strong><br />

scrittore aulico, eroico e ortodosso, anche dove si abbandoni<br />

agli scherzi poetici che sono in uso nelle regge».<br />

La replica <strong>di</strong> Malaparte non si fa attendere. Il 21<br />

gennaio gli scrive: «Tu sai bene che io non stupisco <strong>di</strong> nulla<br />

[…] Sai bene che ti sono amico, che ti ammiro e che non<br />

potrei in nessun modo arrabbiarmi con te: preferisco arrabbiarmi<br />

con i filosofi ginevrini, inglesi etc., moderni,<br />

protestanti etc., filosemiti, anticristiani, etc. etc., che tanto<br />

hanno influito a far <strong>di</strong> te un curiosissimo e simpaticissimo<br />

esemplare <strong>di</strong> eretico. Mi arrabbio con il tuo mondo,<br />

non con te». Dopo aver ribattuto puntualmente ad alcuni<br />

suoi passi polemici, continua: «Sono rimasto quello che<br />

ero, libero e squattrinato. Dal fascismo non ho mai preso<br />

e non prendo un soldo, e seguito la mia vita <strong>di</strong> bohème,<br />

quantunque mi trovi nella con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> poter agevolmente<br />

trarre guadagno dal mio lavoro politico. Non temo<br />

gli infortuni e non temo perciò nemmeno gli attacchi.<br />

Ma preferirei che venissero da altri, non da te. Tu capisci<br />

che anch’io avrei potuto attaccarti, non l’ho fatto; anzi ti<br />

ho <strong>di</strong>feso sempre. E poi perché vuoi <strong>di</strong>pingermi come un<br />

Malaparte al confino a Lipari (1933)<br />

<strong>di</strong>lettante? Io sono tutto, fuorché un <strong>di</strong>lettante. […] Deduco<br />

che tu non mi conosci, non mi conosci affatto. Hai<br />

parlato troppo poco con me. Praticami e vedrai che sono<br />

<strong>di</strong>verso da quello che cre<strong>di</strong>. Ti assicuro che se io credessi<br />

veramente alla sincerità e alla esattezza del tuo articolo,<br />

abbandonerei imme<strong>di</strong>atamente le lettere. Che <strong>di</strong>avolo!<br />

La prospettiva <strong>di</strong> <strong>di</strong>ventare una specie <strong>di</strong> buffone <strong>di</strong> corte,<br />

è tale da avvilirmi profondamente. Mussolini è troppo<br />

istintivamente intelligente per desiderare <strong>di</strong> abbassarmi<br />

nel suo concetto, al livello <strong>di</strong> un cortigiano. Egli sa chi sono<br />

e mi stima. Sa che io non ho la stoffa del buffone; i buffoni<br />

sono tra<strong>di</strong>tori ed io non ho mai tra<strong>di</strong>to e non tra<strong>di</strong>rò<br />

mai nessuno, fuorché me stesso. Un consiglio, caro Gobetti,<br />

se vuoi occuparti <strong>di</strong> me per l’avvenire, occupati <strong>di</strong><br />

me seriamente. Ti assicuro, e tu lo sai, che lo merito».<br />

Nel frattempo, Gobetti, in una cartolina che gli<br />

spe<strong>di</strong>sce qualche giorno prima dell’uscita dell’articolo<br />

(ma che verosimilmente Suckert leggerà dopo), terrà a<br />

precisare: «Ti ho recensito Santi Maledetti sul Lavoro. Temo<br />

che la cosa ti spiacerà. Sono stato sincero fino alla brutalità:<br />

ma tu non sei l’ultimo venuto e vi leggerai dentro<br />

tutto il mio affetto per te e la fiducia nella tua arte». L’ami-

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