Contenti per la rielezione di Lo Bello ma le forzature restano e ...

La rubrica di Strummer questa settimana
non va in onda. Non si possono scrivere
sempre idiozie. Ci sono volte in cui il dolore
merita rispetto. Ospitiamo al suo posto
un articolo di Toi Bianca che ricorda
Saretto Leotta, un grande del giornalismo
siracusano recentemente scomparso.
Caro Saretto,
eri già grande quando t‟ho conosciuto. Non
eri grande anzi, era “un grande”. Avevi meno
dell‟età che io ho adesso, credo, ma a me,
ventenne, sembravi adulto, ti guardavo da
lontano nello stanzone della redazione, in
via Maria Politi Laudien. Eri Leotta, il giornalista
per eccellenza, la firma di punta che
aveva lasciato la comoda placenta della
“Sicilia”, giornale unico, allora, della città,
per giocarsi tutto nella sfida del “Diario di
Siracusa” con quell‟avventuriero geniale di
Giancarlo Parretti.
Ma questa è oleografia del rimpianto, a te
non piacerebbe e a me nemmeno stamattina,
dopo che una telefonata m‟ha informato che
non ci sei più, che sei è morto. Non ci credevo,
speravo in uno scherzo, di quelli che allungano
la vita. Ho chiamato un altro collega,
amico tuo e mio, per avere conferma.
Ed è maledettamente difficile, anche per me
che scrivo per mestiere ormai da più di
trent‟anni, evitare di graffiarmi sugli scogli
bassi della retorica, perché tu eri il giornalista
più antiretorico che ho conosciuto, quello
che indulgeva meno nell‟abito mentale e
dialettico di noi che ci sentiamo sempre un
cazzo e mezzo perché l‟indomani la sorte ed
il buon nome della gente dipende da quello
che scriveremo. E non te la tiravi, mai; eri
indulgente con noi ragazzi, che pure di fesserie
ne facevamo, ci proteggevi in qualche
modo. Ci consideravi “colleghi” non
“biondini”. Eri diverso da tanti altri.
Eppure tu, diversamente da tanti altri, avresti
avuto di che vantarti, avevi una “storia”
professionale, e quelle rare volte che indulgevi
nei ricordi, raccontavi di quella cronaca
ruvida precaria che oggi si vede solo in
certi film di un tempo, che uno pensa che
siano storie romanzate ed invece no, era
così davvero, tu c‟eri passato, attraversando
50 anni di cronaca con il tuo passo lento,
le tue sigarette e quel bicchierino di
whisky che un tempo, prima che la salute ti
desse i primi avvertimenti, a volte ti portavamo
dal bar dello Zio Giovanni in via Torino,
dove in polverose processioni noi cro-
nisti del Diario andavamo a prendere il
caffè attraversando quello che un tempo
era il campo Maiolino.
E vorrei raccontarlo e raccontarti a quelli
che oggi fanno il nostro mestiere, soprattutto
il “tuo” mestiere, Saretto, quello di
cronista. Che ai miei occhi tu hai avuto
una dote e un dono, quello di restare sempre,
sempre, un cronista, di quelli che
prendono le notizie e le scrivono, di quelli
che si sporcano le mani e le scarpe andando
sul posto, di quelli che fanno notte nelle
anticamere della questura o al pronto
soccorso per avere una conferma, un nome,
di quelli che raccontano la vita, quella
vera, aspra, antipatica, violenta e crudele,
non la rappresentazione della vita, la sua
commedia, che è la politica.
All‟inizio, quando ero davvero stupido e
non capivo niente di giornalismo e di scrittura,
non mi piacevano i tuoi pezzi. Erano
secchi, nervosi, con frasi spezzate, nette. A
me, piccolo intellettuale del cavolo, piaceva
la scrittura rotonda, i periodi lunghi, gli
incisi, le metafore, le parentesi. Tutto il
contrario della cronaca. Per fortuna poi ho
capito che il giornalismo vero, la cronaca
come si deve, era la tua, non la mia. Ho
capito che contavano le notizie, e i tuoi
pezzi grondavano di notizie, contava il
ritmo, la leggibilità. I tuoi pezzi erano rap
professionali, travolgenti, precisi, i miei
erano noiosa musica da camera. Nel tempo
ho imparato. Spero.
E ti ho ammirato, senza mai dirtelo, per
aver schivato sempre onori di capo, di direttore,
che pure ti sono stati offerti tante
volte. Tu no. Tu amavi la strada, la vita,
gli appuntamenti imprevedibili di notte
con Pippo Saraceno per andare sul “luogo
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Domenica 28 settembre 2008
Il ricordo di un giornalista e di un amico
Non è più con noi il grande Saretto Leotta
Il governatore Lombardo
è uno che probabilmente
non crede
nelle qualità dei
siracusani al punto di
potersene fidare pienamente,
anche se
ben tre li ha voluti
con apparente sovranità
limitata nella sua
giunta regionale. Se
li avesse utilizzati
come insegnanti del
politichese applicato,
probabilmente avrebbe
evitato al suo uomo
di punta la più
sonora brutta figura
( d a i t e m p i
d e l l ‟ a s s e s s o r e
all‟Agricoltura Iano
Spoto Puleo e di una
sua mega trasferta promozionale all‟estero sul finire degli
anni ‟80 ndr) che mai sia stata fatta. L‟assessore numero uno
della Regione Sicilia, quello alla Presidenza, non ha proprio
intenzione di rassegnare le dimissioni, forse per sottolineare
che anche quando sbaglia, un giudice deve rifiutarsi di ammettere
e pagare. Però un minimo d‟imbarazzo, se non di
vergogna, Giovanni Ilarda, sommessamente, potrebbe ammettere
di provarli, se non altro perché ancora non è passato
alla categoria del professionismo politico. In questi giorni la
delusione, di gran parte dei siciliani disposti a credere che il
cambiamento era a portata di mano, è stata grande, proprio
per una leggerezza, impossibile da credere, commessa
dall‟assessore Giovanni Ilarda, permettendo alla figlia di 26
anni (laureata al Dams), di farsi assumere per chiamata diretta
come dirigente del gabinetto dell‟assessorato ai beni culturali.
Ilarda padre, magistrato prestato al Governatore Raffaele
Lombardo, aveva intrapreso un'eccellente campagna contro
i “fannulloni” della Regione, naturalmente esponendosi
alle “vendette sindacali” e ad altre. L‟assessore emulo del
ministro Brunetta non ha saputo spiegare a nessuno perché
proprio sua figlia aveva avuto la fortuna di essere chiamata a
prestare la sua “professionalità” arricchendo le fila dei 2320
dirigenti regionali che si trovano nei gabinetti degli assessori
– com‟è risaputo - si rompono la schiena ammazzandosi di
lavoro per somme quasi mai inferiori a 40.000 euro l‟anno.
Vero è che la dottoressa Ilarda si è dimessa non appena letta
Caro Ilarda,
qui da noi…
la notizia della denuncia dei sindacati autonomi della Regione,
ma dal momento che il padre non ha potuto dire di
essere all‟oscuro del fatto di famiglia non cambia proprio
niente nella sostanza. Il dottor Ilarda non potrà essere considerato
da nessuno – neanche dal Presidente – il vigilantes
degli sprechi e del malcostume corrente mostrato dai
politici regionali. Se qualcosa di simile fosse accaduto in
ambito nazionale le dimissioni sarebbero state già accolte
prima della presentazione, ma qui siamo in Sicilia dove
queste figuracce sono all‟ordine del giorno e non scandalizzano
nessuno. E‟ stato affermato che si è trattato di un
atto regolare: la signorina Giuliana Ilarda ha fatto domanda
e l‟assessore Antonello Antinoro l‟ha subito immessa
tra i suoi 379 dirigenti, avendo capito dal curriculum presentato
che la dottoressa Giuliana Ilardo era di notevole
professionalità. Il fatto di avere poi assunto nel suo gabinetto
un ex deputato dell‟Udc senza nessuna plausibile
spiegazione tecnica, è ora al vaglio della Corte dei Conti,
alla faccia degli sprechi da combattere. In poche settimane
da quando Ilarda aveva annunciato necessari tagli e ristrettezze,
sangue e sudore, per coloro che si facevano il mazzo
"lavorando" alle dipendenze della Regione si è ridicolizzato
con più di un autogol. Insomma, l‟assessore Ilarda, con
tutto il rispetto possibile, dopo la leggerezza
dell‟assunzione della figlia, non potrà essere considerato
un moralizzatore della cosa pubblica, quindi ad ogni iniziativa,
per quanto giusta potrà essere, ci sarà sempre quel
qualcuno a fare la battuta: “da quale pulpito arriva la predica”.
Le tentazioni…tentano, ma i credenti e uomini di
Chiesa hanno l‟obbligo morale e religioso di resistere, resistere,
resistere. Lombardo dovrà recitare la parte del difensore
d‟ufficio del suo assessore fino a quando, lo stesso
non prenderà coscienza della sua nuova posizione indifendibile.
Per fortuna nella nostra Provincia di Siracusa il pro-
del delitto” e portare al giornale pezzo e foto,
che quelle sono le cose che contano alla fine:
le notizie e la fotografia del morto che la
gente la vede sul giornale e dice “ma quello
io lo conoscevo”.
E solo chi ha dentro la passione ti può capire,
solo chi fa questo mestiere per se stesso e
non per gli onori che ti può dare, perché la
vita, l‟adrenalina di quelli come, te non
s‟alimenta di poltrone e medaglie, ma di storie
da raccontare, di tragedie, di partite di
pallone, di passioni e terremoti. E ti ho ammirato
di più quando io ho mollato, ho preferito
gli stucchi ministeriali romani alla stropicciata
vita di redazione a Siracusa, che mi
manca e tu capisci quanto.
E‟ un vuoto la tua morte, Saretto. Un peso
per il cuore di chi ti ha voluto bene e una fatica
per la nostra anima professionale di cinquantenni
che di credevamo ancora ragazzi
perché c‟erano sempre “i grandi” sulla piazza,
ancora in corsa, come ai tempi del Diario,
sul finire degli anni ‟70, in quello stanzone
che ho davanti agli occhi con Umberto Bassi
in fondo, tu, Aldo Formosa, Pippo Di Silvestro
e Franco Antonuccio, Paolo Catania,
Enzo Argante, e Turi Maiorca ed io che dividevamo
lo stesso telefono, con le tastieriste
che lavoravano alle “texas”, con Saraceno
che arrivava la sera con le foto e i tavoli luminosi
degli impaginatori che rischiaravano
le lunghe notti di chiusura e Parretti che
s‟affacciava ogni tanto da Villa Politi sbraitando
e sfoggiando improbabili abbigliamenti.
Lo so, lo so che questo sentimentalismo non
ti piace. Ma volevo dirti che sei stato speciale
per tutti quelli che amano il nostro antipatico
mestiere.
Ciao Saretto.
blema non ci sfiora neanche e “incidenti” del tipo descritto
non potrebbero accadere in considerazione della qualità della
politica e della prudenza che le fa escogitare tutte. Ad esempio
dalle nostre parti se uno è amministratore di un comune,
il parente da sistemare lo fa assumere in un altro comune, in
un ente lontano da occhi indiscreti e magari nel solito Consorzio
o nella solita partecipata. Ovviamente attua uno scambio
accollando al proprio ente il parente dell‟amministratore
che lo ha favorito, quindi, nessuno potrà lamentare atti di
nepotismo. Nella fattispecie per molti componenti dell‟Ars,
l‟assessore Ilarda avrebbe peccato d‟ingenuità e forse anche
della sicurezza indotta dall‟appartenenza alla casta. Nell'usanza
aretusea vige il principio di non alimentare fatti che
portano inimicizie e di non combattere contro quei mulini a
vento dell‟eliminazione degli sprechi del pubblico danaro o
del malcostume che l‟accompagna. Se ci si accorge che qualcosa
non va per il verso giusto, al massimo, si adegua chiedendo
di entrare nel club dei cattivi: quelli che vincono puntualmente
contro la maggioranza cretina, senza alcuna furbizia,
nata perdente e per servire. Ogni tanto c‟è qualcuno che
straparla al bar o passeggiando per le vie del centro, c‟è anche
chi si prende la briga di denunciare qualche volta alla
Procura cose senza senso che non meritano attenzioni investigative.
Ci sono poi i nostalgici del romanticismo politico,
coloro che pensano spetti alla sinistra indignarsi se uno, senza
arte ne parte, s‟arricchisce facendo zuppetta nel pubblico
denaro. Per fortuna la sinistra siracusana è da tempo diventata
maestra di furbizie portando a tavola, senza farsi pregare,
una soffice “brioscia cu zucchuru” da inzuppare nella granita
rappresentata dagli enti pubblici superaffollati di incarichi,
bende e prebende. Da qualche decennio la città di Siracusa è
oggetto di spartizioni bipartisan, più o meno, velate, che
coinvolgono tutti coloro che per un verso o per l‟altro hanno
un posto alla guida del vapore: i politici e quelle organizzazioni
sindacali che si reggono per benedire con il silenzio le
operazioni politiche meno nobili, realizzate o da realizzare.
Probabilmente anche nel sindacato si “tiene famiglia” e non
disdegna fare zuppetta. L‟indignazione è sempre proforma e
nella patria d'Archimede emerge, spesso, in coloro che non
sono stati invitati a prendere la… granita. Si tratta correntemente
d'arrabbiature che durano qualche giorno accompagnate
da sparate “intimidatorie”sui giornali. E‟ una strategia
tramandata ai siracusani dai tempi della Magna Grecia, si
spiegherebbe così la costruzione di un teatro Greco voluto
forse per insegnare a mettere in scena “ tragedie“ agli attori
della società locale che sarebbero diventati i rappresentanti
del popolo a vario titolo che oggi ci amministrano. Sono cose
che a Palermo, stranamente, nessuno conosce?