Caro Lami, - PoliticaMente
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Carta intestata del Seminario di studi<br />
“Giovanni Gentile a sessant’anni dalla morte”<br />
Roma, 18 aprile 2006<br />
<strong>Caro</strong> Roberto,<br />
Ti ringrazio per il pensiero che hai avuto, spedendomi la copia dei due ritagli che m’interessavano.<br />
Ti confermo la prossima uscita del volume curato da Donà, che T’invierò non appena sarà nelle mie<br />
disponibilità. Per ora, come promesso, unisco a questa mia il testo dell’intervista che mi è stata fatta<br />
da Iacona e che dovrebbe uscire in un libro a più mani. Ti sarei grato delle Tue preziose<br />
osservazioni, delle quali terrei conto, prima della versione definitiva. Mi spiace che non sarai con<br />
noi il 13 e 14 maggio, nel convegno evoliano di cui già si parla. Vedremo di fare del nostro meglio,<br />
anche senza la Tua presenza. Non mancare, tuttavia, di tenermi aggiornato sui Tuoi lavori. Sai bene<br />
che tengo molto a confrontarmi con Te e con la Tua esperienza.<br />
Per ora Ti saluto, con la consueta cordialità.<br />
Gian Franco <strong>Lami</strong><br />
(lettera manoscritta e autografa)<br />
________________________________________________________________________________<br />
Carta semplice e testo dattiloscritto<br />
<strong>Caro</strong> <strong>Lami</strong>,<br />
ti prego innanzitutto di perdonare il lungo ritardo. In quest’ultimo torno di tempo sono stato<br />
del tutto preso da urgenze e travagli familiari e domestici. Ti ringrazio delle parole di stima e di<br />
amicizia. Ti ringrazio di avermi così generosamente citato nella risposta n. 4. Ho letto con<br />
attenzione domande e risposte. Devo subito ammettere che alcune di esse mi hanno sorpreso. Devo<br />
altresì confessare che una grossa fetta di quanto è accaduto negli ultimissimi anni a Roma, in<br />
ambito accademico e non, riguardo al tema “Evola”, mi è sfuggito (o non memorizzato). Pertanto<br />
mi sono sentito talvolta lettore disinformato e forse non in grado di penetrare come avrei dovuto<br />
tutto ciò che intervistante e intervistato sono andati dicendo. Vi sono passi che vorrebbero una<br />
buona informazione su quanto tu hai maturato e scritto negli ultimi tempi. Non sapevo della tua<br />
lunga frequentazione di Evola proprio negli ultimissimi anni della sua vita. Sono, queste, pagine<br />
interessanti e importanti che rimarranno. ( Sei certo che sia stato proprio Zolla ─ lo stesso che<br />
maniacalmente ha evitato di citare Evola nei suoi lavori e, se non sbaglio, anche nella rivista<br />
“Conoscenza religiosa” vissuta 15 anni ─ a richiamare l’attenzione di Del Noce su di lui?). Può<br />
darsi che tanto nelle “risposte” quanto nelle “domande” certe cose io abbia frainteso.<br />
Condivido la tua preoccupazione nel volere assumere davanti a Evola la giusta posizione<br />
scientifica, per te tanto più doverosa in quanto uomo d’università. E questa ideale oggettività ti<br />
dovrebbe distinguere tanto dagli accademici misconoscenti quanto dai simpatizzanti, evoliani o<br />
evolomani che siano. Ma la scientifica oggettività in tali materie non può mai prescindere da ciò che<br />
Evola chiamava “equazione personale”, la quale è, insieme, dato di nascita e scelta volontaria,<br />
consapevole o meno.<br />
Inoltre il tema Evola è di tale fattispecie da esigere, proprio per il rispetto che si deve al “valore”<br />
scientifico, la chiamata in causa di un elemento di regola superfluo nelle discussioni puramente<br />
teoretiche, la verifica nell’ordine pratico, di prassi interiore s’intende: ovvero passaggio<br />
all’immediatezza, anzi auto-immediatezza, e con il tempo, a quell’“agire-non agire” o volere-non<br />
volere che il Nostro probabilmente già conosceva prima di imbattersi in Lao-Tze. Questa vocazione<br />
1
all’autopenetrazione, all’auto movimentazione in interiore homine è in Evola [è] evidentissima sin<br />
dal tempo Dada. Giochi insensati, illusionismi, superfluità, errori ecc.? può darsi, ma capire Evola<br />
─ se è questo che interessa ─ capirlo per quello che fu e volle essere e dire, esige l’adozione di<br />
questo parametro da lui adottato e indicato mille volte nei suoi testi. Il dire di Evola o trova un’eco<br />
sonante e creativa nel lettore o è poco più di nulla, l’ennesimo castello di parole e concetti, sulla cui<br />
validità e solidità si può parlare quanti si vuole ma sempre eludendo ciò che per l’autore è<br />
l’essenziale, ossia, ripeto, praticare, ampliare, ravvivare lo spazio che è dentro di noi, di<br />
quell’“altro” mondo che ciascuno ha in sé e che lui stesso è, il mondo dell’“Individuo”: questa mi<br />
sembra la condizione imprescindibile per non fraintendere. Non è atto di cieca fede, è tutt’altro,<br />
prova, sperimentazione. O il dire di Evola trova un’eco sonante nel lettore in forza di un<br />
“supplemento d’anima”, come si diceva un tempo, o esso rimane discorso, nozione, dialettica:<br />
pensiero non entrato a far parte del circolo vivo dell’Io.<br />
Anche quel “trascendentale” di cui tu parli non rende la cosa se ci si ferma al senso dato dalle<br />
definizioni (diverse) apprese a scuola. Anzi io ho avuto sempre il sospetto che in ambito<br />
universitario sia stato sempre difficile arrivare anche alla comprensione partecipante dell’“Io<br />
trascendentale” di Gentile e del suo “atto puro”. Dell’“atto”, più articolato e complesso, richiesto<br />
dalla “filosofia” di Evola, forse non si intravede nemmeno l’ombra.<br />
Niente e nessuno obbliga ad andare oltre la soglia d’uso comune, non c’è “necessità” di nessun<br />
genere, e non c’è ragionamento che valga a questo fine. Lo si fa o si cerca di farlo se così piace in<br />
presunta perfetta libertà. Torniamo a dire pure Dada. Non sono discorsi da università, quanto meno<br />
nell’ordinario insegnare e imparare. La richiesta di mobilitazione della vista interiore ─<br />
dell’immaginare in luogo del sillogizzare, del volere-non volere ecc. [─] è condizione essenziale<br />
perché questo pensiero sia accolto per quello che dice di essere. Tradurlo in filosofia al modo usuale<br />
è falsificante. Nemmeno mi sembra, a rigore, un procedere “scientifico”, rispettoso del valore<br />
verità. Trovo interessante che degli universitari abbiano visto in lui, come mi dici, più un “poeta”<br />
che un filosofo. Calasso confidò di aver letto La tradizione ermetica come un’opera di poesia.<br />
Poiesis è giusto un “fare”. In Fenomenologia la “coscienza” inspirata all’“arte pura” è, come sai,<br />
stato ulteriore alla “coscienza filosofica” e persino ala “coscienza mistica”, ma non ancora<br />
pervenuta allo stato dell’“individuale”, che apre lo sguardo interno sulla terza “epoca”, il tempo<br />
dello spirito propriamente soprasensibile. Coloro che espellono Evola dalla filosofia per catalogarlo<br />
tra gli ideologi ─ dell’antimodernismo, dello storicismo invertito, della “tradizione” ─ non sanno<br />
nulla della prassi “trascendentale” dell’Individuo che si allarga sino all’assoluto.<br />
Sono ad ogni modo in tutto d’accordo con te quando escludi che qualcosa di autentico e concreto<br />
possa nascere attraverso la semplice adesione e frequentazione di “collettivi”, comunità, circoli,<br />
associazioni politiche e metapolitiche che ad Evola si richiamino. Essi possono dire qualcosa in un<br />
primissimo tempo all’adolescente, ben disposto, in via formativa. (A Firenze mi sembra che oggi<br />
non esistano nemmeno queste scuole elementari).<br />
Tra le cose che mi sono sfuggite sta anche l’importanza che mi sembra tu attribuisca ai testi<br />
giornalistici e rivistaioli di Evola, necessariamente volti per lo più al contingente. Per me<br />
l’essenziale imprescindibile sta nei libri, a partire da quelli giovanili, che vanno ─ dopo la<br />
significati[vi]ssima attività Dada ─ dal volumetto su Lao-Tze a Fenomenologia pubblicata nel 1930<br />
ma concepita in uno con Teoria sin dagli anni della guerra. Tutta la produzione seguente ─ sia in<br />
materia ancora di prassi “trascendentale”, sia in materia di prassi (lato senso) etico-politica ─ ha<br />
ovviamente la sua importanza e la sua ragione di essere (non è certo soltanto divulgazione,<br />
aggiornamento, agonismo, ecc.) ma non può essere staccata dal tronco “trascendentale” originario e<br />
fondante, se vogliamo rendere giustizia alle intenzioni dell’autore, se cioè siamo capaci di cogliere<br />
il messaggio “trascendentale”che da lì partiva.<br />
Per tutto questo non sono d’accordo con te quando dici che Evola è autore “minore” (e chi<br />
sarebbero i maggiori del Novecento italiano?). Lo è minore, forse, se appunto non si coglie<br />
l’insieme ovvero il nucleo fondante dell’insieme, e si sminuzza il suo pensiero lungo il tempo,<br />
magari assegnando più importanza a quanto pensato e pubblicato negli anni successivi, valutandolo<br />
2
più “avanzato” o maturo o “attuale”. È quello che fa l’intervistatore con le sue domande che<br />
tendono ad ottenere un chiarimento e nuova informazione partendo da momenti e situazioni che già<br />
di per sé possono costituire un limite o un problema per una comprensione unitaria che voglia<br />
andare all’essenziale. A mio parere l’Evola che si è interessato di politica rivolgendosi ad un<br />
pubblico ampio va raccordato, anzi sottomesso, all’Evola indagatore dello spirito: questa è la<br />
condizione, a mio avviso, per una autentica comprensione e catalogazione anche dell’Evola scrittore<br />
di cose politiche. Le scorciatoie sono equivoche e pericolose, come anche tu mi sembra abbia<br />
ripetutamente sottolineato nelle tue “risposte”.<br />
Difficile rispondere ─ in breve e facendosi capire ─ a domande come quelle, ad esempio, che<br />
vertono sul posto che Evola possa occupare in un manuale di “storia delle dottrine politiche” o in un<br />
testo di “filosofia della politica”, dal momento che egli non nasce intellettualmente come dottrinario<br />
o filosofo della politica, tantomeno come politico, e che il cuore del suo “pensiero” già di per sé<br />
costituisce un problema, se non proprio il problema, dal cui scioglimento dipende la chiave di<br />
lettura adatta per questo pensatore nato Dada. A quale categoria “professionale” possiamo<br />
assegnare Evola, teorico della prassi “trascendentale” e pure teorico della prassi politica? Nemmeno<br />
la disciplina apparentemente più comprensiva, la filosofia, sembra calzarlo a dovere, come sopra ho<br />
insinuato.<br />
Se mi è permessa l’arrischiata e forse banale e certamente enfatica comparazione, mi sembra che<br />
egli possa fare da pendant moderno a quei filosofi cui attribuiamo l’avvio di questa disciplina ma<br />
che in realtà propriamente filosofi non erano: filosofi, al modo moderno, li fecero gli allievi e<br />
soprattutto gli allievi degli allievi, i posteri tardi (non so se hai visto il bel libretto, uscito di recente,<br />
del francese Hadot Esercizi spirituali e filosofia antica, ed. Einaudi, ove però non si parla del<br />
pensiero presocratico ma addirittura dell’ellenistico: la nuova scienza, ancora per un certo tempo,<br />
avrebbe avuto bisogno, per essere capita in modo pieno e vivo, non astratto, di una prassi che<br />
accompagnasse la mediazione del pensiero logico). La filosofia è storia di equivoci, a partire dai<br />
presocratici. Pendant moderno, ho detto, perché Evola con la sua opera filosofica svolge in termini<br />
invertiti il ruolo attribuito al pensiero presocratico. Se a questo attribuiamo il merito di aver<br />
inventato la filosofia come ciò che “supera” l’“ingenuo”, “primitivo” intuire proprio del tempo prestorico,<br />
avviando il mondo alle felici sorti progressive della Tecnica moderna, Evola con la sua<br />
Teoria-Fenomenologia mostra che il pacco può essere restituito al mittente con lo stesso postino. La<br />
filosofia, con i suoi peculiari strumenti d’indagine, di elaborazione, di comunicazione, può anche<br />
aiutare a compiere il percorso inverso. La spada che ferisce può anche essere quella che, non tanto<br />
guarisca (troppa grazia, sant’Antonio), quanto aprire la mente allucinata del moderno alla<br />
possibilità della guarigione. La filosofia, come propriamente tale, non è mai esauriente sul tema del<br />
“trascendentale”, rimanda ad altra esperienza e ad altre fonti: ed Evola questo rinvio lo fa<br />
abbondantemente, negli stessi anni in cui filosofa e negli anni immediatamente successivi,<br />
esplicitamente richiamandosi a specifici saperi prefilosofici: Tantra, Ermete, Buddha, Pitagora, ecc.<br />
Il discorso filosofico non è sufficiente, né essenziale al fine conoscitivo essenziale, e tuttavia è<br />
avvertito come uno strumento utile in generale, anche perché capace di fornire la prova “scientifica”<br />
della propria insufficienza conoscitiva. Le si può far fare un bell’auto-goal. E poi, certamente,<br />
anche perché nel nostro tempo è una buona arma affilata da brandire nella battaglia delle idee che<br />
accompagna la polis di oggi non meno di quella greca (Colli). E accanto e al di là dell’umano<br />
agonismo, possiamo anche considerare quanto dal singolo può essere avvertito come un dovere<br />
espositivo, l’etico bisogno di andare in aiuto del prossimo e di lottare per influire positivamente (a<br />
suo parere) sul possibile divenire storico della polis.<br />
Noi moderni avvertiamo il bisogno di essere confortati dalla logica anche quando sappiamo che in<br />
realtà non è essa a decidere sull’essenziale, e che è anzi talvolta, per sua congenita arroganza,<br />
disperdente o traviante. E tuttavia, in mancanza di altre garanzie “oggettive” non possiamo<br />
(nemmeno di fronte a noi stessi) non utilizzarla. La razionalità, tenuta al guinzaglio, è<br />
indubbiamente un bene.<br />
3
Evola insomma avvertì il bisogno di filosofare anche per dare ordine e senso logico al<br />
“trascendentale” di cui già sapeva (e che è e rimane inconosciuto alla filosofia che si ferma in sé<br />
stessa). Ne possedeva le capacità specifiche richieste per farlo bene, come dimostra Teoria-<br />
Fenomenologia dell’Individuo assoluto, opera superba, oggi assolutamente sottostimata, a mio<br />
parere, che acquista il suo senso proprio ─ e anche pieno valore propriamente filosofico ─ se la<br />
affrontiamo assieme ai suoi lavori non filosofici. (Si infrange il principio di non-contraddizione?<br />
Davanti all’Immediato “trascendentale” questo principio conta zero e il paradosso assurge a<br />
Valore). Non so chi in Europa nei nostri tempi abbia saputo gettare con eguale determinazione un<br />
ponte tra il pensare moderno e l’intuire “trascendentale” antico (tendo ad evitare la parola<br />
“tradizione” perché la trovo inflazionata, spesso resa equivoca, quasi sempre svilita in smorta<br />
“ideologia”. Per Guénon poi ha un significato ben preciso, sul quale io non sono in grado di avere<br />
conoscenza diretta, per cui preferisco astenermi. L’uso che ne fa Evola mi sembra più di ordine<br />
storico, constativo, empirico e perciò meglio condivisibile dall’ignaro “profano”).<br />
Insomma, chiudendo la chiacchierata, Evola non mi sembra affatto un minore. Per l’insieme<br />
dell’attività da lui svolta mi sembra invece una figura originale da mettere tra i grandi.<br />
Mi accorgo di non aver risposto a dovere alla tua richiesta, e di ciò mi scuso. Del convegno su<br />
Evola non sono riuscito a trovare nessuna notizia sui giornali (pochissimi) che ora scorro.<br />
Contingenze varie mi fanno sentire un po’ fuori del mondo. Mi complimento per la tua attività,<br />
tanto universitaria che extra, e ti auguro ogni bene.<br />
Cordialmente<br />
Roberto Melchionda<br />
23 Maggio 06, Fi<br />
(firma e data autografe)<br />
________________________________________________________________________________<br />
Carta semplice<br />
Porto S, Stefano, 2.6.06<br />
<strong>Caro</strong> Melchionda,<br />
Ti scrivo, rigorosamente a mano, in un momento alquanto raro: davanti a un mare davvero<br />
affascinante, con un sole che non accenna a tramontare, mentre il resto della Penisola è battuto dalla<br />
pioggia. E rispondo alla Tua bella lettera, bella e ampia, come non ne leggevo da molti anni.<br />
Evidentemente apparteniamo, anche per questo, a un’altra generazione…<br />
Della vicinanza di Zolla e Del Noce posso confermarti ogni cosa. Fu proprio Z. a permettere<br />
l’arrivo di Del Noce a Roma da Trieste, una “chiamata” accademica ostacolata da Gregory e<br />
assecondata da D’Addario, su pressione (anche) di Z. E fu sempre Z. che indirizzò Del Noce a<br />
Evola: ci sono testimonianze epistolari. Perché su Conoscenza Religiosa non ci sia traccia di Evola,<br />
mi sfugge del tutto. Sull’“incontro mancato” tra Evola e Del Noce, posso dirTi che, ancora oggi,<br />
avverto la sensazione di esserne la causa. Era troppo chiaro che dovevo essere io a organizzarlo,<br />
ma, in parte, non pensavo che Evola potesse andarsene così presto, in parte, non ricordo di avere<br />
dato il peso che meritava all’insistenza di Del Noce. Comunque, le cose sono andate così, e posso<br />
dire solo questo: al funerale di Evola non c’era Del Noce. Forse, si trattava solo di curiosità, oppure,<br />
con quell’appuntamento Del Noce intendeva dare un’ulteriore soddisfazione a Z. Ormai, non lo<br />
sapremo più.<br />
4
Mi parli di “oggettività scientifica” e gentilmente me ne fai attributo, intendo dire, ne fai attributo<br />
della mia indagine evoliana. E mi raccomandi di non dimenticare l’equazione personale di Evola.<br />
Sta di fatto che, per quanto mi riguarda, una indagine su qualsiasi soggetto non sarebbe<br />
sufficientemente “oggettiva”, né “scientifica”, se non partisse proprio dalla sua “equazione<br />
personale”. Così sto provando a fare, in risposta a quell’esigenza analitica, ma non meno filologica,<br />
che mi muove. Del resto, credo di avere dimostrato in ogni luogo che di Evola non si possa parlare<br />
senza giungere alla conclusione che collega strettissimamente il suo pensiero all’azione, la sua<br />
costruzione dottrinaria alla pratica individuale e politica. Condivido, quindi, la Tua opinione che<br />
allontana, almeno in questo, la filosofia evoliana da quella di Gentile. Si tratta di un genere di<br />
filosofia ─ quella di Evola ─ che nasce solo per dare un supporto “corretto” alla sua attuazione, alla<br />
sua realizzazione: filosofia di vita, e di vita “eroica”, nel senso di partecipante alla “divina<br />
creazione” del mondo. L’altra ─ quella gentiliana ─ non mi sembra avere questa caratteristica:<br />
nasce nella dimensione puramente speculativa e, seppure ha raggiunto cifre di grande<br />
chiarificazione epocale, non si allontana dalla dimensione del comprendere, e resta una lezione di<br />
vita distaccata dal suo artefice; per quanto anche Gentile, a mio parere, abbia tenuto alcuni<br />
comportamenti esistenziali esemplari.<br />
Inutile dire, dunque, che sono del tutto in accordo con Te, sulla centralità della coscienza in<br />
Evola: una coscienza che si fa progressivamente “ascetica” e “iniziatica”, come è naturale che<br />
avvenga in ogni “metafisica immanente”. E ancora poco si è detto dell’ispirazione che a Evola<br />
proviene da Tilgher, dal suo “pragmatismo trascendentale”, dalla sua “filosofia delle morali”, dalla<br />
sua “moralità”, che si trasforma in “stili di vita”. L’individuo evoliano è debitore di Tilgher, forse,<br />
anche per quello che Tu chiami lo “storicismo invertito”, e che io mi limito a definire<br />
antistoricismo. Come fare, del resto, a passare in silenzio la “filosofia della storia” di Evola, il suo<br />
violento anti-progressismo, da cui mi sembra provenire la sua critica a Croce e … il suo ritorno a<br />
Platone!? No è forse su questo stesso filone del suo pensare (e agire) che egli scopre il valore<br />
autentico della tradizione?<br />
Sono ben consapevole che l’Evola più importante e completo consiste nei suoi libri. Nessuno può<br />
ridurre l’importanza di Fenomenologia, o di Rivolta, e così via. Ma io insisto sull’utilità dell’Evola<br />
articolista e saggista, perché vedo in lui il motore consapevole di un’azione culturale, che egli<br />
intendeva condurre nel suo mondo e in quel preciso momento. Giornali e riviste erano lo strumento<br />
al quale Evola affidava la diffusione delle sue idee, ed erano l’unico strumento di una propaganda<br />
efficace. L’attenzione evoliana per questo argomento è provata dal fatto che egli ne fa un nodo<br />
centrale per l’educazione della nuova generazione dirigente: la materia del giornalismo è presente<br />
persino nel suo progetto di scuola del partito. E non escludo che lui si avvertisse come standard di<br />
riferimento in tal senso. A ogni buon conto, dal mio punto di vista, la lettura dell’Evola<br />
“quotidiano” ajuta di più a seguirlo in quell’impegno pratico, che alla composizione più “astratta” e<br />
composta del volume può sfuggire.<br />
Quello che Tu dici, a proposito della necessità di tenere ben in evidenza l’aggancio spirituale<br />
dell’Evola pratico e politico, è verissimo. Ritengo di avere speso tutti gli anni che mi separano dalla<br />
mia tesi, per questo, e penso di avervi insistito a sufficienza in ognuna delle introduzioni<br />
antologiche che vado predisponendo da ormai dodici anni a questa parte. Se non si capisce il<br />
significato di questo richiamo “alto” della filosofia evoliana, non si potrà mai capire appieno il<br />
significato del suo anti-cristianesimo e del suo cattolicismo, del suo anti-razzismo e del suo<br />
principio razziale, su tutto. E ci tengo a dire che Evola mi sembra cattolico, pur non essendo<br />
cristiano, ed è filosofo della razza, della individualità, della personalità e della idealità, senza essere<br />
razzista, individualista, personalista e idealista.<br />
Ciò è reso possibile, tuttavia, caro Melchionda, poiché ci si affida al sensore filosofico. Se non fai<br />
filosofia, e se non misuri con il metro filosofico, non credo sia possibile arrivare a tanto. La Tua<br />
sensibilità, quella stessa che Ti consente di arrivare a conclusioni così raffinate, non è altro che<br />
filosofia, intesa, è vero, come la intendevano gli antichi, ma non diversamente da come la intendeva<br />
Evola e, vorrei poter dire, da come la intendo io stesso. Qui, però, il discorso si farebbe troppo<br />
5
lungo e complesso, rischiando di farsi dottrinario. Mi preme solo dire che non si potrebbe sostenere<br />
la classicità di Evola, né, in ultima analisi, il suo “platonismo” (o “socratismo”), se non si potesse<br />
far conto sul suo taglio filosofico, sulla sua natura di uomo-filosofo, che lo accomuna a tanto<br />
precedente, e che lo accomuna a chiunque intenda la filosofia come il percorso della conoscenza,<br />
cui il sapere apparterrà solo come sfida all’auto-superamento. Perciò, nulla a che vedere con i<br />
sistemi di logica filosofica, e nulla a che vedere con la pura contemplazione di verità dogmatiche.<br />
Ma, sempre e soltanto, qualità “disvelativa” di un pensiero del dis-inganno e della dis-illusione, per<br />
un’azione “corretta” e “giusta”, “al servizio del dio”. In questo senso, è esatta l’osservazione che “la<br />
filosofia è storia di equivoci”, anzi, come vado dicendo da tempo, è “cronaca dei naufragi<br />
dell’umanità”. Ma sarebbe sbagliato imputare alla filosofia tali “equivoci”, dal momento che è<br />
proprio per merito suo, se svengono “svelati”. Ora, non si può contestare che la conoscenza<br />
filosofica abbia deviato, nel tempo, su un binario “sapienziale”, di presunzioni sistematiche e<br />
categoriali del tipo razionalistico-astratto, ovvero, su un binario “agnostico”, del tipo relativistico,<br />
scettico e nichilistico. Ma è altrettanto incontestabile che esiste una filosofia mirante a tener fermo il<br />
collegamento con la gnosi originaria, alla quale ─ mi sembra ─ può essere ricondotto il pensiero<br />
evoliano e, forse, il nostro comune pensare.<br />
Da questo punto di vista, non ho motivo per dubitare che la filosofia “non è mai esauriente sul<br />
tema del «trascendentale»”. Non ho motivo da opporre alla insufficienza del discorso filosofico,<br />
anche se non provo grande soddisfazione nel fargli “fare un bell’auto-goal”. Intendiamoci bene, non<br />
voglio dire che il mio spirito prevalente sia quello conservatore, ma, anche in questo caso, mi<br />
rimetto all’insegnamento platonico: “Meglio la persistenza di un vecchio mito, che niente”. E la<br />
filosofia ─ come dice Eric Voegelin ─ non è altro che un simbolo ordinante, uno dei tanti, forse più<br />
resistente di altri, nella lunga “cronaca dei naufragi dell’umanità”. Del suo funerale possiamo dare<br />
l’annuncio senza rammarico e senza rimpianti. Ma, quale altro simbolo ordinante avrebbe preso il<br />
suo posto? O davvero credi che l’uomo possa farne, intimamente, a meno? E la filosofia, di<br />
risorgere, dalle sue stesse ceneri?<br />
La “lotta”, di cui Tu parli, perché sia data dignità alla storia, a me sembra essere proprio il<br />
tentativo, che si consuma, ogni volta, tutte le volte, che l’uomo assegna la sua firma al senso del suo<br />
agire nel mondo. E l’etica, che traspare dal gruppo di cui facciamo parte, dallo Stato che<br />
convenzionalmente ci comprende, a me sembra essere proprio la linea del significato, che proviene<br />
da questi tentativi, ove confluisce la tensione morale di ognuno di noi, in quanto individuo, persona<br />
e cittadino.<br />
In questo processo complesso, che dalla coscienza individuale, attraverso la società, la storiamondo,<br />
arriva fino a dio, cosa ci sia di “razionale” e di “logico”, dobbiamo lasciarlo ai miliardi di<br />
suoi interpreti, i quali si sono succeduti e si succederanno nelle generazioni degli abitanti di questo<br />
pianeta. Per quanto mi riguarda, Ti dirò che ─ benché dovresti già averlo capito ─ di razionale, così<br />
come di logico, ci sta ben poco. C’è poco di “razionale”, perché il procedere dell’umanità non<br />
penso possa “dipendere” dalla ragione-volontà del singolo, e nemmeno possa entrare nella sua<br />
comprensione. C’è poco di “logico”, perché ─ per quanto ci si sforzi di dare una motivazione<br />
all’accidente umano ─ non c’è nulla che possa essere totalmente giustificato (nel senso di collegato,<br />
da effetto, alla sua causa, e viceversa), in maniera condivisa, da tutti e da ciascuno. [Questa<br />
dovrebbe essere la ragione, per cui Evola insisteva tanto sulla in-comunicabilità dell’esperienza<br />
personale. La medesima ragione che faceva dire a Platone di nutrire seri dubbi sulla “insegnabilità”<br />
delle tecniche politiche.]<br />
Ciò non di meno, non hai torto, quando affermi che “noi moderni avvertiamo il bisogno di essere<br />
confortati dalla logica anche quando sappiamo che in realtà non è essa a decidere<br />
sull’essenziale…”, tanto da apparire dipendenti da qualcosa d’inaffidabile.<br />
Per questo stesso motivo, è vero che Evola “avvertì il bisogno di filosofare anche per dare ordine e<br />
senso logico al «trascendentale» (…) che è e rimane inconosciuto alla filosofia che si ferma in sé<br />
stessa”, ma ritengo che, di tale “ordine” e di tale “senso logico”, Evola stesso sapesse ─ molto o<br />
poco ─ in maniera nient’affatto esaustiva. Direi addirittura che l’aspetto migliore del “modello”<br />
6
evoliano consiste nell’aver contribuito a minimizzare il principio di non-contraddizione, e<br />
nell’avere collaudato personalmente (quindi, confortato in altrui) che si può tranquillamente<br />
convivere con il paradosso assurto a valore.<br />
Non sta certo a me, a questo punto, dare “pagelle” di alcun tipo. So troppo bene, e ne faccio un<br />
elemento di consolazione, prima di tutti, proprio per me, che la lepre e la tartaruga, non possono<br />
essere chiamate a competere, riguardo a una partenza e a un arrivo “convenzionali”. Resta il fatto<br />
che parlare di “maggiori” e di “minori”, anche nel mondo filosofico, può essere significativo, a<br />
seconda delle prospettive di osservazione. Per come la penso io, un Evola, inserito nel panorama<br />
della filosofia contemporanea è un “minore”. Diversamente potrebbe apparire se la prospettiva si<br />
allarga, fino a retrocedere di molto nel tempo ─ e a certe condizioni di analisi comparativa! Su<br />
questa circostanza non credo si debba essere in disaccordo.<br />
Mi sembra invece sconveniente che Tu non assuma un ruolo di maggior rilievo nel dibattito in<br />
corso. Per quel che mi riguarda, non mancherò di tenerTi informato, ma Tu cerca di essere più<br />
vicino anche all’attività della Fondazione. E cerca di essere anche meno severo con chi ─ da<br />
tartaruga ─ cerca di raggiungere il suo traguardo, con gli scarsi strumenti che possiede. La filosofia,<br />
in genere, e la filosofia politica, in specie, non riusciranno a fornire un ritratto compiuto di Evola,<br />
forse nemmeno preciso, ma possiedono una qualità eccezionale, anzi due: 1) obbligano a far bene il<br />
lavoro di interprete, quanto meno, impongono una forma mentis rigorosa e disciplinata al confronto,<br />
non prevaricano mai e motivano sempre le loro prese di posizione; 2) non consentono a chiunque di<br />
dire la sua, senza adeguata preparazione, senza spirito di tolleranza, senza capacità di ragionare e<br />
coerentemente agire. E Tu, in tutto questo, non puoi non essere dello stesso avviso.<br />
Con grande cordialità<br />
Gianfranco <strong>Lami</strong><br />
P.S. Che ne dici se pubblicassimo questa nostra corrispondenza?<br />
(lettera manoscritta e autografa)<br />
________________________________________________________________________________<br />
Carta semplice e testo dattiloscritto<br />
<strong>Caro</strong> <strong>Lami</strong>,<br />
Porto S. Stefano ha davanti a sé lo scoglio ventoso di Talamone dove in tempi ormai lontani<br />
io trascorsi bellissime vacanze mare-cielo che nel ricordo si legano sempre alle letture nel contempo<br />
fatte. Talamone mi ricorda in particolare Hara. Il centro vitale dell’uomo secondo lo Zen, del<br />
tedesco Graf von Durckheim, tradotto, annotato e presentato (nel retrocopertina) dal barone italiano<br />
Carlo d’Altavilla. Un testo che per me fu in certo modo importante, filosoficamente povero ma<br />
apritore di sia pur piccole breccie psichiche nella muraglia dell’ordinaria esperienza. In seguito lo<br />
avvicinai infatti ad opere altrettanto prive di grandi pretese “scientifiche” e pur tuttavia eloquenti,<br />
del genere, ad esempio, Lo Yoga cristiano. La preghiera esicasta, del francescano fiorentino<br />
Giovanni Vannucci, Il libro del Te, del giapponese Okakura Kakuzo, Il Tao della filosofia, di<br />
7
Giangiorgio Pasqualotto, scolaro di Giuseppe Faggin, professore di filosofia nei licei con un debole<br />
per la mistica, primo traduttore italiano delle Enneadi e studioso di personaggi quali Eckhart e<br />
Silesius, autore piuttosto trascurato ma che anni fa fu onorato dai suoi allievi con la raccolta di saggi<br />
Ars majeutica curata da Franco Volpi, non per caso uno dei pochissimi che non temono di citare il<br />
barone che tu mi confermi sia da porsi, sotto il profilo filosofico, tra i “minori”.<br />
Condivido gran parte delle meditate argomentazioni che svolgi nella tua lettera ma non riesco a<br />
fare mio questo bisogno di gerarchizzare, tanto più se il metro di valutazione è esso stesso un<br />
problema, se non il problema vero e proprio. Evola è “un minore”. Sta bene. Un maggiore<br />
certamente dovrebbe essere, ad esempio, Heidegger, il filosofo che a fine percorso, dopo aver<br />
scritto e riscritto Essere e Tempo, e pubblicato decine di suggestivi libri di filosofia tutti<br />
rigorosamente “scientifici”, “scopre” lo stesso Lao-Tze (o Tzu) che Evola aveva individuato,<br />
tradotto, commentato e fatto proprio agli inizii della sua attività intellettuale ovvero negli stessi<br />
anni in cui stendeva il suo “sistema” filosofico, presumendo con ciò di fare opera “scientifica”<br />
anche nel senso corrente (sennò perché fare filosofia?). Qui intanto è da notare che Teoria<br />
dell’Individuo Assoluto, opera pensata e organizzata in due parti inscindibili e in certo modo<br />
circolari ─ “Principi” e “Fenomenologia” ─ fu offerta ai lettori e alla critica, in tutte le edizioni<br />
succedute nel tempo, sempre smembrata in due distinti volumi pubblicati ogni volta a distanza di<br />
anni l’uno dall’altro: e ciò non ha certo agevolato l’accoglienza e soprattutto la comprensione del<br />
lavoro da parte della critica. (La taccagneria degli editori ha avuto sempre la meglio sul progetto<br />
dell’autore).<br />
Tornando a Lao-Tze, possiamo affermare che quanto Evola ebbe a scoprire all’inizio del suo<br />
filosofare e in questo trasfuse, Heidegger lo intravide alla fine? ciò che per l’italiano fu insieme il<br />
lievito e la sostanza stessa del suo pensare, per il tedesco fu l’ignoto da cercare per i tanti “sentieri<br />
erranti della selva” e alla fine forse intravisto sotto vesti “poetiche”? Possiamo dire che Evola sin<br />
dai suoi vent’anni si sforzò di tradurre in termini di filosofia quanto Heidegger, affidandosi in tutto<br />
a tale “scienza”, ricercò senza saper immaginare di cosa realmente si trattasse, e che infine forse<br />
individuò? Forse. Tra sacerdoti zenisti del Giappone e il grande filosofo corsero a suo tempo<br />
cerimoniosi riconoscimenti ma il dubbio che tra le pieghe dei reciproci omaggi ci siano stati anche<br />
dei fraintendimenti sostanziali, non meno reciproci, in qualche sospettoso osservatore è rimasto.<br />
Questo sarebbe stato impossibile, io credo, per Evola. Basta rievocare i titoli dei suoi lavori<br />
posteriori a Teoria per capire a che cosa egli aveva approdato grazie ─ anche ─ all’ausilio e alla<br />
“conferma” della filosofia: dopo L’uomo come potenza. I Tantra, abbiamo La tradizione ermetica,<br />
la Dottrina del Risveglio, i Versi d’oro pitagorei e ancora in edizione rinnovata Lao-Tze. Sono<br />
lavori che possono dirsi transfilosofici. Da mettere nel conto anche Cavalcare la tigre, dove in un<br />
discorso corsivo, scritto per essere capito anche dai non addetti ai lavori filosofici, muove la sua<br />
critica all’indubbiamente notevole pensatore tedesco, riconoscendogli, riconoscendogli (se non<br />
interpretai male quando lo lessi), l’approdo “mistico” ossia il conoscimento dello “spirituale” ma<br />
nel modo “passivo”, non in quello suo più proprio, come sarebbe nel buddhismo zen o<br />
nell’ermetismo alchemico, fondamentalmente marcati dall’approccio “attivo”: una distinzione<br />
originaria, non facile da cogliere e da sperimentare nella sua verità, ma che per Evola fu elemento<br />
importante e qualificante sin dall’inizio, già nella giovanile stagione artistica, da poeta e da pittore.<br />
Dada fu per lui premessa al Tao, fu stato psichico-spirituale sorto come per conto suo, da impulso o<br />
volere nativo, non procedente da argomentazione scientifico-filosofica (di per sé sola, ad ogni<br />
modo, del tutto impotente all’uopo), né da “iniziazione” del genere “tradizionale” e religioso.<br />
(Ribattendo scherzosamente a chi gli contestava l’assenza nel suo curriculum di questa<br />
fondamentale “formalità”, Evola disse una volta, forse rammemorando Reghini, che per i nativi di<br />
Roma essa non era necessaria. La sua idea di sapere “tradizionale” non fu esattamente quella<br />
bandita da Guenon e seguaci. E comunque qualcuno potrebbe sempre osservare ─ ad esempio il<br />
mio amico Gordini di Siena ─ che Evola alla sua nascita beneficiò del sacramento del “battesimo”.<br />
8
D’altra parte mi pare [che] per il cattolicesimo persino l’Evola giovane e pagano abbia avuto un<br />
occhio di riguardo).<br />
Tornando al tema ─ Evola filosofo minore? ─ si tratta di stabilire se in generale nel fare questa<br />
graduatoria, nel dare questo giudizio ─ sia da dirsi più importante, per il filo-sofo, la ricerca o la<br />
soluzione, la tecnica investigativa o la conoscenza effettiva, il mezzo o il fine ossia la verità,<br />
l’assoluto, il tutto, l’uno, ecc., insomma quel Valore che non può non lambire e coinvolgere, alla<br />
resa dei conti, in positivo o in negativo, la sfera del sacro. Se concepire “la vita come ricerca” (lo<br />
sostenne un coerente, non minore critico di Evola, Ugo Spirito), se optare per una ricerca in perenne<br />
divenire e come tale assumendola di fatto come l’unica possibilità data, oppure se conformarla ad<br />
un fine che in qualche modo debba essere già presente alla coscienza. Una ricerca che può andare<br />
oltre gli statuti iniziali, creativa, che già sa in qualche modo della causa finale e che ad essa via via<br />
si adegua, in una mutua crescita tra mezzo e fine.<br />
Si tratta insomma di scegliere tra un pensiero lasciato a sé, alla sua tendenza narcisistica,<br />
all’incognito volere che lo sospinge qua e là, oppure quel pensiero che via via sa adeguarsi in<br />
contenuto e forma al vero cui tende, l’ambita “verità” implicante un ignoto che corre tra profano e<br />
sacro. In altri termini: conta di più quanto è mediato dal pensiero raziocinante o l’immediato vivente<br />
in cui consistiamo, e che potremmo cogliere un attimo prima dell’intervento del pensiero che lo<br />
definisce e che lo inserisce dentro il quadro logico discorsivo? quell’immediato che ancor privo di<br />
nome e di significato, ma già carico di senso, può apparire all’occhio della coscienza, se su di esso<br />
ci si attiva (sul tema insistette Scaligero)? Un “in-sé e per-sé” che può illuminare e indirizzare anche<br />
il pensiero argomentante se si è in grado di tenerlo sotto buona briglia.<br />
Nello stesso ordine di interrogativi: conta di più la stringenza dell’argomentazione o il volere che<br />
gli sta dietro pressoché a nostra insaputa e che sarebbe “scientifico” portare alla luce e svelare: un<br />
attore, questo conato occulto, quasi sempre trascurato, e anzi oggi, dopo un Nietzsche mal inteso,<br />
circondato da cattiva fama. Quel “volere” sempre presente in ogni pensare e che sarebbe<br />
interessante conoscere per quello che è alla sua fonte, saperne apprezzare l’incidenza, saper<br />
distinguere le sue diverse modalità di essere. Quel “volere” ─ passami la metafora ─ che è tanto<br />
muscolo e corpo quanto fuoco e aria, e che alla fine può farsi capace anche di quel volere-non<br />
volere coincidente con il wu-wei-wu. Quando nella precedente lettera ho richiamato il concetto<br />
evoliano di “equazione personale” (v. Il Camm. Cin.), avevo in mente la diversa quantità e qualità,<br />
se così posso dire, delle diverse componenti che costituirebbero la composita struttura interiore di<br />
ciascuno di noi, in più luoghi richiamate da Evola, quel pensare, sentire, volere, che in ogni<br />
ordinaria esperienza s’intrecciano strettamente ma che possono essere anche colte ciascuna per sé,<br />
quasi come in tre diverse coscienze. Questo impasto interiore è mobile. È mutato, pare, nella storia<br />
dell’uomo, notiamo che muta nel tempo della nostra vita. Ciò che siamo, comprese le disposizioni<br />
personali, avvertite come native o acquisite che siano, è sempre assemblaggio di elementi diversi,<br />
giusto l’“equazione” che al momento siamo e diveniamo. Prenderne “coscienza” è già questo uscire<br />
dalla gabbia razionalistica della pretesa scientificità. È un sapere a me pare più comprensivo.<br />
Non assurdo ma semplicemente impossibile insediare sul trono, per esempio, la ragione senza il sì<br />
palese o occulto del volere e il via libera dato dal “sentimento”. Privilegiare la ragione (Hegel o<br />
Popper) rispetto al volere o viceversa (un certo Schopenhauer e un certo Nietzsche) è sconoscere la<br />
complessità che siamo, rinunciare alla percezione della variabile unità in cui consistiamo e che può<br />
rivelarsi, nell’aspetto che più conta, soltanto all’occhio interiore.<br />
Certo, questo occhio interiore può rimanere o diventare miope sino ad accecarsi, non vedere la<br />
struttura mobile in cui consistiamo, quel composto psichico e metapsichico che siamo. Il pensiero,<br />
ad esempio, può non essere in grado di registrare il momento di luce con cui diamo nome alle cose e<br />
portarci di colpo fuori di noi, al punto da fare esterno anche l’interno, così da finire di trattare il<br />
soggetto come un oggetto, e, colmo dei colmi, conoscere quell’Io che si scrive con la maiuscola,<br />
come un prodotto del pensiero discorsivo, invece che come immediatezza vivente ─ coincidente e<br />
distinta nel contempo dalla immediatezza dell’io con nome e cognome che ciascuno di noi è pure.<br />
9
La ricerca filosofica indicata da Evola richiede la conoscenza anche diretta dell’impasto che siamo,<br />
e di seguito l’adeguamento della “equazione personale” al fine conoscitivo che ci proponiamo.<br />
Si tratta innanzitutto di stabilire a quale funzione i debba ─ di fatto si voglia ─ riconoscere il<br />
ruolo primario. Si può eleggere a sovrano assoluto della struttura il principio di non-contraddizione<br />
─ come fa Severino, grande scienziato della filosofia ─ oppure l’ibrido principio poetante-mistico<br />
di Heidegger ─ oppure l’esperienza diretta della libertà (quel potere-volere che richiama lo stesso<br />
agire-non agire zenista) come fa Evola. Questi tre momenti mi sembra abbiano preciso riscontro<br />
nell’itinerario fenomenologico di Teoria, laddove incontriamo la sequela “coscienza filosofica”,<br />
“coscienza mistica” e ─ dopo l’esperienza nichilistica dell’“arte pura” ─ la coscienza<br />
dell’“Individualità” o della “persuasione”, che troverà piena consapevolezza e forza nella<br />
successiva “Esperienza del Fuoco”, con la quale si apre la terza “epoca” della fenomenologia,<br />
“epoca” detta “Dominazione”, una parola che ai più fa storcere la bocca anche perché non<br />
considerano il momento categoriale appena successivo intitolato “Sofferenza e amore”: un luogo<br />
nevralgico dove l’autolibertà già variamente evocata ed affermata nel succedersi delle categorie in<br />
tante diverse modalità, ora è chiamata ad una prova che sembra ergersi contro se medesima, contro<br />
la stessa “opzione attiva”, motore dell’intero processo.<br />
Qui ci si imbatte nella realtà del dolore, ciò a cui, secondo ordinaria logica, si cerca<br />
ordinariamente di sottrarsi oppure lenire o rassegnarsi ─ o sotto specie mistica di offrire in dono a<br />
Dio. Ma il protagonista di questa fenomenologia, animata dall’autolibertà dell’Individuo volto<br />
all’assoluto, non ha, non beneficia di un Dio “altro” cui appellarsi, un Assoluto che pur posto fuori<br />
di sé quasi come oggetto può venirgli in soccorso: questo soggetto non può né semplicemente<br />
subire la sofferenza, né tanto meno mettersi contro. Anzi deve esserle grata, se così si può dire, per<br />
questa prova che le concede, grata al punto di appropriarsene, unificarla a sé, amarla. Il volere qui<br />
ha la magica fluidità dell’amore in sé. La vicinanza, l’analogia con l’esperienza di certa mistica<br />
estrema è evidente.<br />
Chiaro che questo amore non è semplice sentimento, appartiene alla stesa sfera del Fuoco che<br />
Evola ha chiamato in causa per fortificare e purificare l’“individuale”, è potenza, cakti, è lo spirito<br />
del volere. L’amore qui è quell’agire-non agire già adombrato che ora si rivela sotto la luce più<br />
intensa. L’amore è il motore della metamorfosi. Non so se è stato osservato. Qui il filosofo<br />
sospettato o accusato di superbo volontarismo e tracotante magismo, assegna all’esperienza del<br />
dolore ─ sofferto accolto voluto sublimato in amore ─ un ruolo decisivo nel momento del<br />
potenziale transito allo spirituale trascendente. Potenziale perché non è detto che così debba<br />
succedere.<br />
Evola è un filo-sofo che sembra aver portato a termine il suo compito. Altri ancora filosofano. Il<br />
ritardo o la miopia non li fa “maggiori”. Il Valore si trova alla fine e fuori della philosophia. Evola<br />
ha probabilmente attraversato il confine. Altri grandi filosofi danno l’impressione di non esserci<br />
arrivati, o di esservi giunti secondo un modulo che secondo il Nostro può essere migliorato. Non sto<br />
a rammentare il probabile significato originario della parola filosofia. Il ricercante trova pace e<br />
soluzione non nell’aspirare alla sapienza ma nell’andarci a letto se possibile. Evola è probabilmente<br />
tra questi.<br />
Testo manoscritto con firma autografa (unito al precedente)<br />
30 maggio [ma, giugno(2006)]<br />
<strong>Caro</strong> <strong>Lami</strong>,<br />
avrei voluto aggiungere dell’altro ma l’imponderabile domestico non me lo ha per ora<br />
concesso. Domani parto per il mare (purtroppo non più Talamone) e se tutto va secondo i piani<br />
dovrei restarvi per due mesi. Ti invio quanto avevo scritto all’arrivo della tua del 2 giugno. Al<br />
piacere di leggerti nuovamente (l’indirizzo rimane quello di Firenze).<br />
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Ciao, tanta cordialità e auguri per il tuo lavoro<br />
Roberto Melchionda<br />
_______________________________________________________________________________<br />
Carta semplice<br />
Roma, 20 luglio 2006<br />
<strong>Caro</strong> Melchionda,<br />
rispondo solo ora alla tua ultima, poiché il fatto che tu l’abbia indirizzata alla libreria di Cipriano, in<br />
epoca di “Mondiali”, l’ha fatta giacere per qualche tempo, in attesa che il buon Carlo Gambescia ─<br />
il quale abita nel mio stesso palazzo ─ si premurasse di recapitarmela. Sono lieto che la nostra<br />
“amicizia di penna” continui, a conforto obbiettivo, quasi a testimonianza, di quella condizione di<br />
amici (hetairoi, direbbe Platone), che non mi sembra ci sia mai mancata. E Ti ringrazio di avere,<br />
pur senza volerlo, confermato una certa mia opinione su Franco Volpi, del quale ho appena scritto<br />
qualcosa, facendo la recensione ai “Saggi” evoliani delle Mediterranee, su richiesta di De Turris.<br />
Come ho detto in quell’occasione, credo che la linea di pensiero che va da Plotino a Heidegger,<br />
incarnata da Volpi, sia la più adatta a fare luce sul significato filosofico del caso-Evola. Intendo dire<br />
che, data per scontata la complessità del tema e l’impossibilità di vederlo risolto in una<br />
chiacchierata epistolare, si può sostenere la maggiore fedeltà interpretativa di Evola in quel filone<br />
“platonico”, sopravvissuto all’hegelismo idealista (italiano), anche in virtù del forte tonico<br />
heideggeriano. Questo non significa certo che Evola possa dirsi l’Heidegger italiano! Ma certo, dal<br />
punto di vista del lettore di Heidegger, Evola diventa molto più comprensibile, e non soltanto per la<br />
più o meno tarda comunanza di studi dei due.<br />
E allora, torniamo ad affrontare la questione dei “minori” e dei “maggiori”.<br />
Mi sembra che Tu non abbia dubbi nel voler collocare Heidegger tra questi ultimi. In questo caso,<br />
penso di condividere la tua scelta. Ma Ti rigiro subito la domanda: «Ai Tuoi occhi, Evola è<br />
“maggiore” o “minore” di Heidegger?». Il problema può apparire sciocco, la domanda banale e, in<br />
parte almeno, addirittura improponibile. Tuttavia insisto. E Ti fornisco subito la mia versione. Lo<br />
stesso Heidegger stenta ad acquisire, in maniera universalmente condivisa, una veste filosofica<br />
piena ─ forse proprio per quella componente “poetica”, di cui Tu pure vai parlando. Sta di fatto che,<br />
a un esame “epocale” (ripeto: “epocale”), è fuori polemica che il suo nome si sia ormai consolidato<br />
in Occidente, tra i più rappresentativi di una mentalità speculativa “caratterizzante”. L’opera sua<br />
non ha più nulla della “sistematica” filosofica del XIX secolo. Si presenta piuttosto come un<br />
“tassello”, come un assaggio metodologico, condotto in profondità nella storia dello spirito del XX<br />
secolo. Non che la filosofia di Hegel non avesse metodo ─ ci mancherebbe altro! Solo, quel metodo<br />
(hegeliano) aveva perduto, già alla fine dell’‘800, buona parte del suo significato, lasciando a bocca<br />
aperta ─ e giustamente! ─ solo i “professori di filosofia”. Mentre la “ricerca” (come la chiami<br />
anche Tu), aveva sospinto il filosofo altrove, sulla via che individuava nuovi equilibri, nuovi<br />
“simboli ordinanti” (direbbe il mio Voegelin).<br />
Dunque, date queste sommarie premesse, tra Hegel e Heidegger, quale dovrebbe dirsi “maggiore”?<br />
e tra Heidegger e Evola?<br />
Quando il problema cessa di essere “epocale”, entra in ballo, a mio modo di vedere, un altro genere<br />
di considerazioni: quel genere di considerazioni, che non consente di stabilire quale sia il più veloce<br />
tra la “lepre” e la “tartaruga”. Mi spiego meglio. Dalla mai prospettiva, Heidegger ed Evola (Popper<br />
e Voegelin, Gentile e Tilgher, …), diventano incomparabili. A meno di non voler restringere il<br />
campo della comparazione nei termini stretti di un confronto “condizionato”: se per filosofo<br />
s’intende questo, quest’altro e quest’altro ancora, allora possiamo dire che il personaggio A è<br />
maggiore del personaggio B, o viceversa. Attualmente, tuttavia, si ragione proprio in questo modo.<br />
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E, rispetto ai canoni correnti dell’esperienza filosofica, Heidegger ha certamente acquistato<br />
credibilità, guadagnando, se così si potesse dire, qualche punto nello scompenso a favore di Hegel,<br />
ma Evola deve ritenersi un “minore”, rispetto a entrambi. Sul piano di un confronto<br />
“incondizionato”, o “condizionato” in maniera diversa dall’attuale, potrebbe invece darsi un<br />
risultato differente.<br />
Cosa vuol dire tutto questo? Vuol dire che, ciascuno per il suo verso, tutti quelli che finora ho<br />
nominato hanno fatto filosofia: Popper, confidando sulla scientificità del metodo; Voegelin,<br />
curando di centrare la sua indagine sulla natura (e la coscienza) dell’uomo; Gentile, scongiurando la<br />
confusione tra io-pensante e io-pensato; Tilgher, rinvenendo (o pensando di rinvenire) una nuova<br />
classe-media, che si facesse ragionevolmente carico delle responsabilità politiche del momento.<br />
Tutti hanno dato il massimo nel loro specifico. Ed è obbiettivamente difficile poterli mettere in una<br />
graduatoria generale; a meno di non voler fare tante graduatorie, quante sono le diverse specificità.<br />
Ecco, io credo che noi siamo al punto di renderci conto che la filosofia, nel suo modello<br />
enciclopedico-illuministico, è entrata in crisi irreversibile. Essa resiste nella fedeltà dei “professori<br />
di filosofia” che, a vario titolo, si dispongono a epigoni dell’hegelismo (in Italia, crociani o<br />
gentiliani, a fronte di presunti avversari, di analoga preparazione). Ma quest’ultima categoria, pure<br />
in via d’estinzione, costringe la logica filosofica entro canoni “epocali” (per l’appunto, dell’epoca<br />
“enciclopedico-illuministica” – e “romantica”), che sono lenti a passare. Quando questo processo<br />
sarà completato, e si sarà perduto l’ottimistico affidamento nei riguardi di una preminenza della<br />
Ragione e di una universalità della Ragione, allora potranno cominciare a rivalutarsi certi “Minori”,<br />
che oggi sono sottoposti al dogma del razionalismo “cartesiano”, e si potrà anche riabilitare una<br />
certa “pratica” filosofica, di cui si è sentita per lungo tempo la mancanza.<br />
Quanto poi ci sarà utile, in questa fase “riabilitativa”, il pensiero di Evola, non è facilmente<br />
prevedibile. A me sembra che talune sue risposte giovanili, come quella “volontaristica”, come<br />
quella “anti”-trascendentale, siano piuttosto legate al clima dell’avanguardia intellettuale del ‘900.<br />
Come tali, le ritengo un po’ “datate”, anche se inespungibili dall’equazione personale che, a mio<br />
parere, si perfeziona nel momento d’incontro della tradizione (non subito, dunque, né in modo<br />
diretto, perché necessita al fine dello scontro con Guénon). A questo punto, bisognerebbe aprire il<br />
capitolo sul concetto di tradizione evoliana, ma, come capirai, è meglio soprassedere. Quel che<br />
invece mi sento di aggiungere e precisare, perché ne faccio questione basilare a riguardo della<br />
filosofia di Evola. È certa sua approssimazione circa il pensiero antico, classico, cristiano e precristiano,<br />
soprattutto socratico platonico aristotelico. Evola sentenzia volentieri, con dotti richiami,<br />
specie nei primi lavori, ma non mi dà l’impressione di conoscere a fondo né le opere che cita, né lo<br />
“spirito” con cui furono scritte. Questo vale in particolare per Platone, cui mi pare venga preferito<br />
Aristotele, si potrebbe dire, alla maniera hegeliana…<br />
Giunti a questo punto del nostro discorso, e senza voler anticipare affermazioni conclusive che<br />
spettano a Te, ho tuttavia la pretesa di dire che non ci dovrebbero essere dissensi tra noi sulla<br />
questione dei “Minori” e dei “Maggiori”.<br />
Non so se invece se potremo mai intenderci sull’altra questione che pure mi sembri introdurre:<br />
quella sul cristianesimo, per quanto “cattolico”, di Evola. Al tuo amico Gordini si potrebbe<br />
rispondere molto semplicemente che il “beneficio” del battesimo costituisce un effetto di quella<br />
mistica “passiva”, da cui Evola tentò di prendere distanza con decisione. D’altra parte, che il suo<br />
“cattolicismo” possa definirsi cristiano (nel senso evangelico) ho serissimi dubbi, a meno di non<br />
operare una serie di riserve tali da snaturare la stessa premessa.<br />
Potrei continuare, osservando che, a prescindere da Evola, bisognerebbe sentire anche l’altra<br />
campana. E mi verrebbe da dire che non conta che qualche cattolico, o qualche cristiano, si senta<br />
vicino alla filosofia evoliana, per dire che le due visioni del mondo sono compatibili. Dal canto mio<br />
direi invece che quel cattolico, o quel cristiano, ha ben poco da vedere con la religione cui fa<br />
riferimento, potendosene misurare la distanza, per quanto si avvicina alla dottrina di Evola.<br />
Ribadisco che, nel primo Evola, è presente un elemento “antropocentrico”, mutuato dall’idealismo,<br />
da cui è possibile mettere allo scoperto un anello di congiunzione con il momento rivoluzionario del<br />
12
cristianesimo nascente. Ma il prevalere della motivazione tradizionale, in lui, alla fine costringe<br />
anche l’interprete più benevolo a concepire il suo individuo in un cosmo di natura immanente,<br />
tutt’al più, con una metafisica del tipo parmenideo, quindi platonico, che tende a ricongiungere<br />
nell’unico “logico” le idealità di molteplici esperienze. Mai, comunque, trascendenza ─ e correlata<br />
perfezione divina ─ separata da immanenza mondana.<br />
In tal senso, cioè, con tale concezione alle spalle, mi pare più facile rispondere alla domanda Tua<br />
sulla funzione “immediata” o “mediata” dell’uomo, nel mondo. Il problema è tipicamente<br />
hegeliano: il punto di partenza è l’“immediato”, l’astratto, il non-pensato e solo in seguito si giunge<br />
al concreto, che è mediazione dell’io pensante (:così, nelle Vorlesungen, Hegel anticipa di un secolo<br />
la “scoperta” di Gentile). Ma, quello che è più interessante, nello stesso passo (43. 216-43), la<br />
tracotanza “enciclopedico-illuministica” di Hegel (abbondantemente alimentata<br />
dall’antropocentrismo cristiano ─ e non vale nemmeno la pena di aggiungere che si tratta di un<br />
cristianesimo ormai tutto “protestante”) se la prende con la Naivität, con la semplicità un po’<br />
“primitiva”, di quel poveretto di Platone, che ─ guarda il caso! ─ si era permesso di dire il<br />
contrario, affermando che si deve partire dal “corpo” per giungere alla regalità e alla predominanza<br />
dell’“anima”. Dal “concreto”, insomma, “mediato”, all’astratto. Fatto è che il mondo “esterno” non<br />
ha certo bisogno del nostro pensiero per esistere. Esso è tutto lì, fonte della nostra meraviglia, delle<br />
nostre paure e del nostro amore, sempre diverso e sempre uguale a se stesso, capace di sopravvivere<br />
anche alla nostra scomparsa ─ per quanto ce ne possa importare. Di fronte a questo mondo, Platone<br />
si muove con fare reverenziale, nel panico per la sacralità del suo mistero, e conquista, passo dopo<br />
passo, l’immortalità della sua anima, scoprendosi connaturato all’esistenza di tutto ciò che vive,<br />
percorrendo il sentiero che gli fa aprire gli occhi sulla divinità e sulla perfezione di ogni momento<br />
di vita (Goethe). Non molto diversa è la condizione di Hegel. Solo che la mediazione è tutta nel<br />
denken, nel pensare, e l’immortalità non viene più colta all’apice di una condotta di vita corretta (“al<br />
servizio del dio”), ma nelle sintonie di un “sistema”.<br />
Anche se la dimostrazione potrebbe dilungarsi all’infinito, avrai già capito, caro Melchionda, a chi<br />
vanno le mie simpatie. Ma, guai a credere che Hegel sia la causa dei nostri guai! Forse la sua<br />
filosofia potrebbe esserne, almeno in parte, all’origine. Ma la causa, mai! La filosofia hegeliana,<br />
oltre a essere una filosofia coraggiosa e sensibile, rappresenta, nella maniera più fedele e completa,<br />
la mentalità dell’uomo liberale settecentesco e della società-etica ottocentesca.<br />
Quanto il suo modello umano e sociale sia ancora valido oggi, dopo i naufragi del totalitarismo, sta<br />
proprio a noi dimostrarlo, in senso positivo, o negativo.<br />
A mio modo di vedere, tuttavia, gli eccessi del razionalismo non si combattono col volontarismo.<br />
In tal senso, mi sembra troppo ottimistico e “imprudente” l’Evola giovanile, il quale, forse animato<br />
da semplice ri-sentimento, si affida alla volontà, per uscire, come fai Tu, “dalla gabbia razionalistica<br />
della pretesa scientificità”. Anche, perché occorre predisporre una serie di cautele, che siano in<br />
grado di evitare che la volontà, al pari della ragione, si ammali di “ismo”.<br />
Su questo impasse, Evola non c’è di grande ajuto. E mi verrebbe di affermare che il motivo è la sua<br />
scarsa conoscenza del pensiero antico. Tutto sommato, il suo recupero della tradizione, di quel<br />
flusso spirituale ove anche il cristianesimo ha il suo significato, insieme con le mille altre<br />
esperienze dello spirito umano, avviene in maniera repentina e poco meditata. Il suo è un tuffo nel<br />
confortevole fiume della storia perenne (un leap in being, direbbe ancora il mio amico Voegelin),<br />
nel quale Evola si è trovato costretto a nuotare per negationem, per non aver ricevuto pari conforto<br />
dalla condizione di vita della sua Polis. Non che la sua utopia sia poco valida, o inefficace.<br />
Tutt’altro! Ma di lui, dico, essersi trattato del “ripiego” di un deluso, di un abbraccio “immediato”,<br />
o non “mediato”, abbastanza, da quelle virtù dianoetiche, che ne avrebbero messo in chiaro la<br />
validità assoluta. (E proprio in questo, ritengo che il contributo di Heidegger sia andato oltre.) Forse<br />
sarà una mia impressione sbagliata, forse sarà quell’insistere evoliano sui percorsi “iniziatici” di<br />
tradizioni lontane dalla nostra, ma, alla fine, l’apertura del suo “occhio interiore” la vedo come un<br />
processo poco “medi(t)ato”.<br />
13
In definitiva, non sono sicuro che Evola sia capace di dare risposte importanti a quell’io-vita, come<br />
lo chiami Tu “immediatezza vivente”, aggiungendo “coincidente e distinto nel contempo dalla<br />
immediatezza dell’io con nome e cognome che ciascuno di noi è pure” ─ ed io direi: “soprattutto”.<br />
È vero che, nell’ultima parte della sua Teoria, Evola arriva a scoprire le nervature sensibili della<br />
Potenza (della δυναμις ) personale, ma ─ sofferenza, a parte ─ non mi dice perché questo gesto è un<br />
gesto d’amore, come qualsiasi altro gesto io intraprendo “in coscienza”. Non mi dice perché questa<br />
sua filosofia della liberazione e questo suo Individuo volto all’assoluto debbano, senza dubbi,<br />
volgersi al “bene”, il suo volere debba farsi “magica fluidità dell’amore in sé”. Tanto che, Tu stesso,<br />
vedi in queste risoluzioni [il rischio (:dico io) di] una “mistica estrema”. Insomma, non basta dire<br />
che la potenza è la shakti, quest’ultima è lo spirito del volere, per giungere all’amore “motore della<br />
metamorfosi”.<br />
Evidentemente c’è qualche passaggio intermedio che mi sfugge, o poco chiaro, o trascurato. Ma su<br />
questo, potremmo attardarci in una successiva riflessione… a patto che, “naturalmente”, si vada<br />
avanti nella nostra esperienza “un passo per la vita e un passo per il pensiero”.<br />
Con la consueta stima e grande affetto<br />
Tuo<br />
Gian Franco <strong>Lami</strong><br />
V. Otranto, 36<br />
00192-Roma<br />
(lettera manoscritta e autografa)<br />
________________________________________________________________________________<br />
Carta semplice e testo dattiloscritto<br />
<strong>Caro</strong> <strong>Lami</strong>,<br />
non sono morto. Mi dispiace di tanto ritardo ma ad una certa età la vita è piena di imprevisti e di<br />
urgenze. Ti ringrazio delle gentili amicali parole. Provo a riprendere la conversazione che in<br />
qualche parte, permettimi, mi sembra un parlare tra sordi. E il primo sordo, involontario, sono forse<br />
io, a causa probabilmente di quel Voegelin che ogni tanto improvvisamente evochi e che io da<br />
lunga pezza ho abbandonato e direi dimenticato. Ma anche tu non scherzi. Vedo che per te è cosa<br />
prioritaria sistemare sotto profilo scientifico i diversi protagonisti del pensiero speculativo entro<br />
linee storiche, scuole, interessi specifici, e poi, va da sé, gerarchizzarli secondo il valore individuale<br />
entro il comparto loro assegnato. Mi sembra operazione più che legittima, necessaria e doverosa da<br />
parte dello storico della filosofia o del filosofo della storia, tanto più se impegnato<br />
nell’insegnamento. Non è però propriamente questo il problema di chi pensa anzitutto per sé<br />
medesimo, del semplice viandante anzi del dilettante che affronta l’interrogativo filosofico per uso e<br />
consumo personale, pur tenendo bene in conto, ovviamente, anche le buone ragioni formali della<br />
scienza filosofica. Ma per soddisfare questa elementare esigenza non è indispensabile ─ anzi é forse<br />
distraente e alla lunga fuorviante ─ sistemare l’intero mondo dei maestri di pensiero secondo la<br />
gerarchia “maggiore-minore”. <strong>Caro</strong> <strong>Lami</strong>, non mettermi tra gli uomini di scienza. Il mio è sempre<br />
stato l’interesse di chi cerca anzitutto per sé stesso (egoicamente? o universalizzando l’interesse<br />
soggettivo?) nel rispetto, s’intende, delle regole generali ma pure non disprezzando le buone<br />
scorciatoie quando ci sono e puntano all’essenziale. Vero tuttavia che quando si pretende di parlare,<br />
oltre che a sé, anche al prossimo, e addirittura di influire in qualche modo sia pur minimissimo sugli<br />
eventi che riguardano tutti ─ come lo è automaticamente per chi scrive e pubblica e si impegna<br />
14
nella polis (fu anche il mio caso) ─ vero è, dicevo, che allora la visuale deve allargarsi e l’impegno<br />
scientifico deve essere assunto e reso manifesto quanto più e meglio si possa: ma anche senza<br />
nascondersi che esso, lasciato a sé, è discorso senza fine, inconclusivo, una beffa degli dei, e che a<br />
noi intanto tocca vivere e scegliere e procedere nel cammino personale, che rimane in ogni caso<br />
l’impegno assolutamente primario, il doveroso pensiero dominante. È con questo metro che il<br />
dilettante sarebbe portato a rispondere al quesito “maggiore-minore”: anzi per lui non si tratta tanto<br />
di maggiore o di minore quanto di autore che sappia o non sappia approssimarlo a ciò che<br />
massimamente importa e che forse sta addirittura prima di ogni pensiero, di qua e di là di ogni<br />
formalità razionale e definizione scientifica. Per lui il Valore non è tanto questione di scienza<br />
quanto, detto senz’enfasi, problema di vita, cosa “pratica”: è la scelta che ogni uomo, dotto o<br />
indòtto, si trova comunque di fronte, e che, a ben vedere, coinvolge ogni sua facoltà, non soltanto la<br />
ragione induttiva-deduttiva della scienza, ma pure, immancabile, la regale volontà e, volendo o non<br />
volendo, anche le ragioni del cuore assieme alla sensibilità (visiva, uditiva, tattile) capace di<br />
volgersi anche all’interno in parallelo e a supporto dell’intus-ire intellettuale. Il sapere che vien da<br />
sàpere non è riducibile al moderno cogito e al suo ergo. La filosofia che ne discende tradisce (per<br />
l’ennesima volta) l’impegno originario, come già da molti è stato osservato. L’amore di sophia si è<br />
presto distratto disseccandosi.<br />
Ora io non ho nessuna difficoltà ad ammettere che ─ qualora si prescinda da tale (per me)<br />
primaria vitale esigenza, e si sposi invece la prospettiva monodimensionale dell’uomo di scienza<br />
(anche qui comunque una scelta, un volere) ─ il giudizio dei più, dotti e indòtti, consista nel<br />
dichiarare Heidegger un grande ed Evola un piccino, anzi filosoficamente un inesistente. Ma<br />
converrai che non è una scoperta. Prima bisognerebbe esaminare ─ ripeto ─ il criterio di<br />
valutazione che sta dietro la classifica, questione non piccola che alla fin fine rimanda, anche per<br />
noi del 2000, al sempiterno tema dell’archè telòs, pensiero dominante, quello che non può eludere le<br />
solite prepotenti parolette che pretendono, in un modo o in un altro, di affondare le proprie radici<br />
appunto sotto la storia e la stessa logica, e (…) che [sono] fuori da tempo e da spazio, ossia,<br />
appunto, il Vero, il Bene, il Valore, l’Assoluto che diciamo anche Dio, anche Spirito, e anche Sé,<br />
perché non altrove se non in sé medesimi può trovarsi in concreto quel Fondo dell’anima che sfugge<br />
tanto ai cinque sensi rivolti al mondo esterno quanto al pensiero che di questi si nutre: quel Grund<br />
che non può mai essere espresso e trasmesso in modo esaustivo, e che ciascuno deve cercare e<br />
trovare per conto suo in casa propria, se vi ha interesse: o, detto in altro modo, se a tale possibilità<br />
egli non si opponga né (…) rimanga inerte davanti alla libertà in ipotesi disponibile: libertà che non<br />
può escludersi a priori ed è comunque da mettere alla prova, e dunque da farne contenuto del<br />
volere, ovvero a questo sposarla così da pervenire quasi ad una sola identità. Questo volere-potere<br />
non è del genere egoico, non coinvolge il psico-fisico, non ha niente della “volontà di potenza”<br />
quale è intesa dai più ma, molto diversamente, appare di tal fatta da poter anticipare in certo modo<br />
l’identità aerea autoluminosa autoessente con cui avvertiamo abbia a che fare, appunto, il già<br />
richiamato Sé o Io o l’“Individuo” famigerato dell’Evola. “Sé” che, colto nella sua viva realtà, è<br />
tanto atto quanto dato, un trovato e un provocato, un essere e un poter essere, l’essere del non essere<br />
e il volere del non-volere, giusto come l’esotico e universale wei-wu-wei, parente stretto dell’Eros<br />
dei dialoghi platonici, ma anche dell’Amore che nella Fenomenologia di Evola, balza in primo<br />
piano, si rivela solarmente nelle prime stanze della terza “epoca” detta “dominazione” all’incontro<br />
con la Sofferenza (eroicamente) accolta-voluta (un nutrimento necessario) e fatta propria. L’opzione<br />
positiva ─ il modo attivo del porsi davanti allo spirito, leit motiv del pensiero evoliano ─ qui,<br />
nell’imbattersi con il negativo in se, nel contraddittorio puro, affronta la prova decisiva.<br />
Questo “amore” ─ di cui tu chiedi la ragione ─ anzitutto non viene da un di fuori, non è deus ex<br />
machina, né si lascia esaurire dal suo concetto, se non ancora irrigidendolo in una formula,<br />
pietrificato e impotente ─ pensiero che, lasciato al cerebro, riconferma la sua impotenza<br />
comunicativa. Né questo “amore” appartiene alla categoria delle emozioni sensoriali, né tanto meno<br />
è metafora letteraria, superfluo dirlo. Latente e con nomi diversi esso pervade l’intera<br />
Fenomenologia, sin dalla sua prima “categoria”, ma solo ad un certo momento assume questo nome<br />
15
perché solo allora si rende riconoscibile come tale, soltanto qui viene a una prima luce. Chiederne la<br />
spiegazione in termini argomentativi e qui arrestarsi, significa mettersi subito fuori strada, eludere<br />
l’essenziale. Il sillogizzare può essere d’aiuto ma mai, da solo, in questa materia può bastare.<br />
Proprio questa impossibilità sollecita l’intervento di altro rispetto al già logicamente ricevuto e<br />
appreso e rimuginato. Questo “amore” è nominabile e declinabile in tanti modi. Si potrebbe anche<br />
dire semplicemente Spirito ma dovremmo poi saperlo distinguere dai diversi significati assegnati a<br />
questo termine dalle varie filosofie. Potremmo anche restaurare la Ratio del discorso filosofico con<br />
il richiamare in vita gl’ingredienti, oggi dimenticati, che l’accompagnavano in origine quando si<br />
chiamava Logos. Una poietica suggestione potrebbe venire perfino da quell’X Amore che il grande<br />
Fedele d’Amore pone al termine del poema, “l’Amor che move il sole e l’altre stelle”. L’ipotesi è<br />
che tale fondativa creativa illuminante Energia abbia qualcosa in comune proprio con quel Fondo in<br />
cui avvertiamo noi stessi di consistere sotto specie interioritatis. Concepirla (darle vita?) come pura<br />
astratta ipostasi, sia pure circonfusa di letteraria emozione, è in realtà ucciderla al suo nascere, è<br />
semplicemente voltarsi dall’altra parte, impedirle che sia ciò che può essere, è accontentarsi della<br />
spoglia poietica e logica. Tu lamenti che Evola non abbia saputo “spiegare” la ragione del<br />
movimento fenomenologico che descrive nel secondo volume di Teoria, tu giudichi insufficienti<br />
anche le ragioni da lui esposte nel libro primo. È filosofo insufficiente, aporetico. Ma con ciò stesso<br />
tu confermi quanto lui teoreticamente e fenomenologicamente espone, mostra: se il suo sistema<br />
avesse convinto come convincono Cartesio e i suoi figlioli avrebbe mostrato la nullità, la retorica<br />
del suo dire. Evola non può (né ovviamente lo vuole) convincere. Egli semmai cerca di persuadere,<br />
e il persuaso è colui che si fa da sé.<br />
Forse il momento Sofferenza-Amore di Evola può dare più vero senso all’“amor fati” del pazzo<br />
Nietzsche. Accogliere, volere, amare il dolore è uscire dalla soggettività individualità portata al suo<br />
diàpason e confermare sul suo piano l’opzione spirituale nel modo attivo e autogeno quale si era<br />
venuta costituendo: un vissuto non un asserto discorsivo. Il discorso lo spiega, per quanto può, ex<br />
post.<br />
Tornando ad Heidegger, la sua poiesis può aiutarci ad uscire dalla paralizzante malattia panrazionalistica?<br />
Il lascito speculativo del maggiore filosofo dell’esistenzialismo è certamente<br />
grandioso e affascinante ma agli occhi del lettore sospettoso e pretenzioso può anche apparire<br />
spesso sibillino e alla fine forse insoddisfacente. Come sai, in Cavalcare la Tigre (siamo nel 1961)<br />
Evola espresse su questo pensiero giudizi piuttosto negativi, poi confermati e con nuovi passi<br />
ribaditi nell’edizione riveduta del 1971 (uscita in ristampa l’anno prima della sua morte). Certo<br />
preferiremmo che del grande filosofo egli si fosse occupato più a lungo e più analiticamente ma<br />
quel poco di cui disponiamo è forse bastante perché, limitatamente ai miei interessi, si possa<br />
accoglierne le conclusioni. Confesso ad ogni modo che il giudizio di Evola in tale speciale materia<br />
ha per me il valore che può avere il referto dell’orefice chiamato ad esaminare la qualità e la<br />
quantità di oro presente in un oggetto sul quale si nutrano dei dubbi. Non presumo infatti di<br />
conoscere come si dovrebbe l’enorme opera del tedesco, per lo più, a suo modo, rigorosamente<br />
scientifico-filosofica e “d’epoca”, e dunque non mi permetto di sentenziare giudizi ripuliti da dubbi<br />
(il mio tedesco d’altra parte non mi permetterebbe di cogliere come sarebbe necessario le tante<br />
sottili sfumature del suo eloquio: vedi la revisione di Volpi su Chiodi). L’impressione è che egli<br />
abbia imboccato una strada volta alla destinazione buona ma senza poi averla percorsa sin dove<br />
avrebbe potuto condurlo. Qualcosa lo ha trattenuto, lo ha indotto a “segnare il passo”. Pure<br />
dall’ultimo libro uscito su Heidegger in Italia (a cura di Volpi e Gnoli), L’ultimo sciamano ─ che<br />
raccoglie diverse interessanti testimonianze dirette ─ mi pare esca la figura di un maestro fascinoso,<br />
anche perché difficilmente decifrabile, riguardo al quale però si possa spesso legittimamente nutrire<br />
il dubbio che, dopo aver messo sul tavolo intriganti e fondamentali quesiti, alla fine egli non li abbia<br />
saputo sciogliere in modo esaustivo. Permettimi di riportare un passo dell’Introduzione ─ un passo<br />
che venendo da due conoscitori di Heidegger come pochi in Italia, mi ha particolarmente colpito.<br />
“La verità, l’Essere, era per lui qualcosa che ‘ama nascondersi’, qualcosa per sua natura ‘segreto’,<br />
che non può essere raggiunto mediante il pensiero logico-discorsivo ma tutt’al più ‘intravisto’ e<br />
16
‘intuito’. Ciò che il poeta o il pensatore possono compiere nei suoi confronti è, semmai, un piccolo<br />
furto prometeico” (p. 9). Io leggo: la filosofia che si tiene ferma al pensiero logico-discorsivo non<br />
può cogliere quanto cerca, può provare con il pensiero arricchito di poiesis ma in ogni caso l’esito<br />
non risulterà sufficiente, così da dover essere tentato alla fine un atto fuori legge, tra il ribelle e<br />
l’eroico, mimando, pur nella sua timidezza costituzionale, il furto del Titano amico degli uomini.<br />
Per Heidegger, secondo questa lettura, l’uomo non dispone del “fuoco” fatto per il cielo, può<br />
tuttavia tentare di procurarselo mediante poiesis, che è però mezzo piccolo e probabilmente molto<br />
inadeguato al fine. Il massimo connesso all’uomo che aspira al sapere rimane la filosofia poetante,<br />
un dolce e malinconico vagare senza fine nella penombra delle tante sale misteriose di un<br />
monumentale castello gotico, e in qualche ala anche barocco. Tutto ciò ben si combinerebbe con<br />
l’interpretazione corsiva che di Heidegger diede Evola. Possiamo concludere ─ mi domando ─ che<br />
il geniale figlio del sagrestano apra sì una interessante breccia ma che ─ per sovrabbondante acume<br />
analitico, per indugio razionalistico, per carenza o timore del Sé, forse anche per formazione<br />
religiosa del genere “devozionale” ─ non sia passato oltre, si sia negato la possibilità di sophia? Se<br />
il parametro di raffronto e di giudizio consistesse in quel pensiero che, nel riconoscere il limite<br />
conoscitivo della attività concettualizzante e argomentante, si mostrasse anche capace di indicare,<br />
di là dal pensiero schiavo del volere logico-scientifico, quanto sta oltre l’ontico e l’ontologico,<br />
Evola, uno che ci ha provato, sarebbe tutt’altro che un “minore” al cospetto di Heidegger. La<br />
filosofia poietica dell’esistenzialista non avrebbe molto da chiarire e da aggiungere in merito, se<br />
non “conferme” ─ parziali nella loro timidezza ─ e tutto sommato forse, per il lettore, più<br />
problematizzanti e fuorvianti che capaci di toglierlo dalla schiera di coloro che continuano a<br />
confondere il dito con la luna. Ma il mio ─ ripeto ─ non è che il parere di un lettore impaziente che<br />
non si sente informato a sufficienza e, soprattutto, che prima del tedesco ha conosciuto l’italiano, e<br />
che comunque alla fine confessa di non essere riuscito a farsi un giudizio certo in merito, senza per<br />
questo sentirsi in peccato mortale.<br />
Che poi l’esistenzialismo di Heidegger possa facilitare la comprensione dell’Evola filosofo, come<br />
tu dici, ho i miei dubbi, ma potrebbe anche darsi, in certi casi. Si tratterebbe di saper compiere un<br />
furto prometeico non piccolo se del fuoco non si è già fruitori. Certo è che Heidegger non è di<br />
grande aiuto a chi di Evola conosca, oltre a Teoria-Fenomenologia, anche il suo lavoro anteriore e<br />
posteriore. Questo non dovrebbe essere disconosciuto: la sua produzione filosofica, come non è<br />
isolabile dalla sua attività anteriore, così non lo è da quella successiva. Mi ripeto. Senza la “pratica”<br />
la sua filosofia è monca. Giudicarla isolata dal suo particolarissimo contesto come fosse filosofia<br />
universitaria è tradirla. (Sebbene non si possa nemmeno escludere che a una mente molto dotata e<br />
già alquanto predisposta possa essere sufficiente, per comprenderla nel verso giusto, il solo studio di<br />
Teoria-Fenom. E in tal caso egli non avrebbe avuto il bisogno di compiere il furto prometeico, né<br />
piccolo né grande). Cade di nuovo a fagiolo qui il francese Hadot del quale Einaudi ha ora<br />
pubblicato, dopo Esercizi spirituali ecc., altri due suoi lavori in cui ribatte sul dimenticato ruolo<br />
anche pratico svolto in antico da questa disciplina: Che cosa è la filosofia antica e Manuale di<br />
Epiteto (quest’ultimo, per la verità, non molto eloquente, dal momento che il discorso sulla<br />
“pratica” sembra arrestarsi alla sfera morale). Non è insomma novità estravagante accompagnare la<br />
riflessione filosofica con pratiche che impegnino, accanto alla mente speculativa, altre facoltà non<br />
meno importanti ai fini dell’essenziale conoscere. La sottovalutazione e la dimenticanza nel corso<br />
dei secoli di talune fondamentali risorse interiori (oggi atrofizzate, incoltivate, male-intese,<br />
calunniate) preludono la visione del mondo del tutto extravertita ─ sostanzialmente tanto astratta<br />
quanto materialistica ─ propria del nostro tempo. Se così stessero le cose, l’Evola filosofo<br />
suggeritore di esercizi spirituali a preparazione e realizzazione di quanto esposto in sede teorica, lui<br />
stesso sperimentatore di pratiche sia occidentali che orientali, tanto antiche che dei nostri tempi,<br />
risulterebbe un interprete del pensiero pre-moderno ─ della filosofia non ancora monopolizzata dal<br />
cerebrale (non ancora schiava e paga della spiegazione logica) ─ più perspicace di tanti specialisti.<br />
Se la tesi rivoluzionaria del professore francese rispondesse al vero anche solo in parte, tante nostre<br />
autorevolissime storie della filosofia dovrebbero essere mandate al macero.<br />
17
Riguardo poi alla da te supposta insufficiente conoscenza della filosofia greca da parte di Evola, ti<br />
rispondo: può darsi, ancora una volta non mi sento competente in una materia su cui comunque il<br />
dibattito mi sembra sia da sempre aperto, e che nei nostri decenni è stato particolarmente ricco e<br />
vivace. Certo l’Evola – filosofo degli anni Venti con revisione in quelli Quaranta ─ non poteva<br />
conoscere la lettura che dei presocratici sarebbe stata data dal grande Colli, né le sconvolgenti<br />
novità di Semerano, e nemmeno le ricerche dello stesso Heidegger, Severino, Ruggiu, Reale e della<br />
scuola di Tubingia. Idem degli studi su Platone e il platonismo, del lavoro filologico e interpretativo<br />
dei Merlan, Gaiser, Beierwaltes, Kraemer, ancora Reale, Mathieu, ecc. Ma il fatto che Evola abbia<br />
adottato per teorizzare secondo disciplina filosofica il linguaggio dell’idealismo ─ la filosofia<br />
dominante in Italia nel primo novecento ─ e che da Hegel abbia preso l’idea di fornire anche una<br />
esposizione fenomenologica ─ non significa in nessun modo estraneità e tanto meno ostilità nei<br />
confronti della linea platonico-plotiniana. Egli insiste sull’aspetto “attivo” dell’opzione spirituale<br />
(concetto essenziale che richiede la controparte esperienziale per essere inteso) ma ciò non mi<br />
sembra costituisca una separazione dal filone platonico, tanto più se lo agganciamo a quello<br />
plotiniano.<br />
Ciò appare chiaro anche esaminando il suo rapporto con il cattolicesimo. E a questo proposito ti<br />
faccio notare che il battesimo in quanto “sacramento” opera a prescindere dalla volontà del<br />
battezzante. Ha potere oggettivo, è del genere della spregiata “magia”. (Anche Ev. ne parla, tra altro<br />
in Maschera). Dichiarare poi Evola “anti-mistico” mi pare fuorviante. Nella sua fenomenologia la<br />
mistica è lo stato di coscienza oltrepassabile ma non per questo può dirsi ad essa ostile, “anti”. Lo<br />
stato mistico segue ─ se segue ─ quello filosofico, è un conoscere-essere in cui può sboccare<br />
l’esigenza filosofica portata al suo termine: non è poco! Per Evola la mistica è lo stato conoscitivo a<br />
cui può condurre il discorso della filosofia quando giunge a distinguere tra il concetto dell’Io<br />
trascendentale e quanto dell’Io può cogliersi in un in sé che invia al Dio che è Altro. Vero è<br />
piuttosto che alla parola “mistica” qui egli assegna un campo semantico più ristretto di quello<br />
attribuitole in genere dagli studiosi. Ad esempio, nella sua antologia I mistici (del solo Occidente)<br />
E. Zolla non si perita di includere accanto ai Vangeli, Sant’Agostino, San Bonaventura, Jacopone,<br />
Sant’Ignazio ecc. anche Pitagora, Orfeo, Ermete Trismegisto, l’autore del Mondo Magico degli<br />
Heroi, Pico, ecc. Il maggior studioso italiano di mistica, Vannini, allargando l’interesse all’Oriente<br />
lontano, ha di recente preso in considerazione anche l’induismo, il buddismo, ecc. (la mistica,<br />
insomma, non è scoperta e monopolio della Cristianità). Al termine “mistica” Evola attribuisce un<br />
senso più ristretto e determinato, non ne ha fatto il momento fenomenologico conclusivo. Nello<br />
stesso tempo però include tra coloro che a suo giudizio sono andati oltre la mistica personaggi che i<br />
sucitati studiosi pongono senza problema tra i mistici. L’esempio più eloquente è dato dal grande<br />
Eckhart.<br />
Insomma per l’Evola fenomenologo “la coscienza mistica” è da un lato il fiore della “coscienza<br />
filosofica” (!) e dall’altro è levatrice di stati coscienziali caratterizzati da una supplementare<br />
presenza a sé e da una componente attiva, che potrebbe anche dirsi, se non si temessero facili e<br />
volgari fraintendimenti, da una spiccata virilizzazione della vis o eros, che si è detto motore del<br />
processo. (Non per caso Evola ha sentito il bisogno di scrivere una metafisica del sesso). Questa<br />
autodeterminazione o scelta porta allo stato che lascia albeggiare l’“Individuale”, l’Indivisibile,<br />
l’Uno. Ogni passo avanti non è dettato da altro che dalla libera opzione del soggetto e questa<br />
“libertà”può dirsi una faccia del Feuer di cui parla il renano. Il compiuto stato mistico apre sullo<br />
stato che Evola, usando una parola molto deteriorata dal cattivo uso, non si vergogna (con Novalis,<br />
Hoelderlin, ecc.) di riferire anche a “magia”. Il cattolico Vannini ha mandato in questi giorni in<br />
libreria un volumetto, da lui curato, dall’incredibile titolo “Divenire Dio”: l’autore non è Nietzsche,<br />
né Evola ma (si suppone) Katrei, mistica sorella di Eckhart. (Di Vannini ti segnalo anche, nel caso ti<br />
fosse sfuggito, il recentissimo rivoluzionario Tesi per una riforma religiosa, “in cui oriente e<br />
occidente armonicamente si incontrano”. Il primo capitolo apre con il motto dell’Apollo delphico,<br />
così messo: “conosci te stesso e conoscerai te stesso e Dio”. Evola non potrebbe che sottoscrivere).<br />
18
La fama dell’Evola mangia cristiani ─ che anche tu cavalchi ─ non mi sembra corrisponda ad una<br />
realtà storica significativa. È vero, da adolescente e da giovane il suo pensare è percorso da venature<br />
nicciane titanizzanti, ma è anche vero che di queste si spoglia molto presto. In certi frangenti amò<br />
anche fare l’anticristiano d’assalto, ma furono momenti polemici legati a determinate circostanze<br />
(Imperialismo pagano, lui vivente, non andò oltre l’edizione del 1928). Non c’è dubbio che al<br />
filone biblico-cristiano egli preferì altri saperi spirituali ma ciò non gli impedì di includere il<br />
cattolicesimo nell’aureo filone che con Guénon chiamò “tradizionale”. Che tutto ciò non stia bene o<br />
non basti ai cattolici di stretta osservanza o di corta vista è comprensibile ma ciò non è un buon<br />
argomento per dichiarare Evola anticattolico. Cattolici con buoni occhi ─ quando non con tre, come<br />
ad esempio Silvano Panunzio ─ sono di ben diverso parere (vedilo nella seconda ediz.<br />
Testimonianze su Evola). Nei confronti di questo cristianesimo formatosi a Roma sotto l’ala della<br />
cultura latino-greca Evola ebbe sempre un occhio di riguardo. Già dall’inizio degli anni Trenta (con<br />
la prima edizione di Maschera ecc.) giudicò positivamente i ritorni alla tradizione cattolica quando<br />
fossero stati seri, e alla Chiesa riconobbe la funzione meritoria di difendere in un contesto di crisi<br />
profonda della civiltà occidentale il valore della “personalità” e l’ideale della trascendenza. Nella III<br />
edizione di Maschera (’71) passò a parlare di “cattolicesimo esoterico” e lungamente si intrattenne<br />
sulla possibilità che la Chiesa fosse più presente nella difesa dello spirituale tradito o negato dal<br />
pensiero contemporaneo. Ti consiglio di riandare a quelle pagine che sono tra le ultime da lui<br />
scritte. Non mi sembra esagerato affermare che nel cattolicesimo egli vide, data la situazione, un<br />
naturale possibile grande alleato contro il nichilismo (passivo) inesorabilmente avanzante. Forse si<br />
può anche dire che nel ’71 egli vide nella Chiesa di Roma l’unico possibile baluardo religiosomistico<br />
disponibile in Europa: mi sembra posizione molto significativa, indice di un animo libero,<br />
non settario, posizione più che mai da prendere in considerazione oggi, a globalizzazione<br />
materializzante sempre più pervasiva, e cessata che è (per il momento) la serie dei Papi<br />
modernizzatori. Che il suo pensiero sia radicalmente inconciliabile con quello cattolico romano può<br />
essere vero per il cristiano tutto d’un pezzo, non per lui. Che nell’opera di Evola si riscontrino forti<br />
simpatie per la religiosità pre-cristiana ─ ossia “pagana” ─ è evidente ma esse sono da leggere<br />
soprattutto in chiave appunto storiografica. I veraci saperi “tradizionali” non sono ideologie e<br />
nemmeno filosofie che possono nascere o rinascere a piacimento, e d’altro canto il rifugio nella<br />
memoria storica non è certo mezzo sufficiente per sopravvivere al greve fagocitante materialismo<br />
della modernità inesorabilmente trionfante in tutto il mondo. Davanti a tale mostro, sarebbe suicida<br />
allo stato attuale trascurare gli argini, a grande rischio, che ancora sussistono. Tutto ciò non<br />
contraddice il suo forte, mai venuto meno interesse per altri saperi “tradizionali”.<br />
Tu affermi inoltre che Evola non seppe uscire dall’immanentismo, non conobbe la trascendenza.<br />
Il filosofo che per tutta la vita si è occupato di “sovrasensibile” in realtà non avrebbe mai incontrato<br />
altro che sé stesso (J. E.) assieme al cosmo fisico e psichico in cui visse immerso. Non capisco.<br />
Evidentemente assegniamo alle parole significati diversi. Per Evola il trascendente è una possibilità<br />
gnoseologica dell’uomo, per altri dichiarare ciò non è che immanentizzare il presunto trascendente.<br />
Devo poi riconoscere che altre questioni che poni sfuggono ai miei interessi attuali (che sono quelli<br />
di chi, avendo già parecchio vissuto, ora più che mai cerca di stare all’essenziale) e altre forse non<br />
vi sono mai veramente entrate (per quanto rammenti). Devo infatti mettere in conto di non capire a<br />
dovere quanto mi dici, e di ciò la causa principale è forse di quel Voegelin che ogni tanto<br />
improvvisamente evochi ─ mi verrebbe da dire: estrai dal “cilindro” argomentativo ─ e che dichiari<br />
“amico”, e che forse hai eletto a maestro. È autore piuttosto distante da Evola. Io di Voegelin ho<br />
ricordi lontani e sbiaditi. In un primo momento ─ negli anni di Del Noce ─ lo accolsi con favore<br />
come un nuovo alleato nella campagna contro il dominante pensiero modernistico di sinistra e di<br />
destra, ma poi, e molto presto, lo abbandonai perché sullo sfondo intravidi, se non ricordo male, uno<br />
scenario storicistico che mi parve molto, troppo costruito, insomma artefatto e sofistico. Che è<br />
tendenza piuttosto frequente in chi, dotato da madre natura di molta energia razionale, non sa poi<br />
tenerla a briglia, e la lascia straripare sottraendo ossigeno alle altre potenze del composto umano,<br />
19
così negandosi a vedute, secondo me, più complete e profonde, ancorché poco frequentate o (a<br />
volte) mal frequentate.<br />
In particolare non mi convinse, se non ricordo male, il suo approccio: invece di fare perno<br />
sull’uomo, da assumere anzitutto nella sua quintessenza interiore, mi parve scegliesse a luogo<br />
privilegiato di osservazione la politologia e la filosofia-della-storia, così mettendosi sullo stesso<br />
piano dei cosiddetti gnosticismi contro i quali pur si ergeva, e dunque sfuggendo o oscurando, a mio<br />
giudizio, il vero problema (per lui forse risolto in altra sede). Il suo mi parve un vedere estravertito e<br />
predeterminato, più ideologico che propriamente filosofico, filosofia comunque al servizio di una<br />
scienza della politica già orientata: insomma un discutibile strumento di lotta al materialismo<br />
trionfante, non un suo reale superamento, né nell’ordine teorico, né, alla fine, nell’ordine dei fatti.<br />
Evola, (e prima di lui Nietzsche) mi aveva aperto nuovi orizzonti, stuzzicato alternative ignorate,<br />
aveva soprattutto messo in moto nuovi motori interni. Le indicazioni di Voegelin mi parvero<br />
inadeguate alla radicalità della situazione cui far fronte. Il ritorno alla routine, all’ingannevole<br />
astrazione e alla mera devozione di sempre, mi sembrò una troppo comoda via di fuga. Ma che le<br />
cose fossero veramente in questi termini non sono affatto certo, posso anche essermi sbagliato<br />
giacché non indagai più di tanto. Alla fine, sulla base di uno o due libri tra i quali, confesso, non<br />
quello tuo che uscì da Giuffrè (?) dopo il mio precoce addio ─ mi convinsi fosse un intraprendente<br />
ragionatore, non privo di genialità ma mancante dell’essenziale per apparire prsuasivo al mio sentire<br />
e pensare. Il successo che egli ottenne in seguito negli Usa ─ Bibbia Denaro Tecnica, nave<br />
ammiraglia della Modernità ─ mi confermò in questa opinione. Fu un addio affrettato? non lo so.<br />
Ad ogni modo forse è a queste mie lacune informative se certe espressioni e certi passaggi<br />
nevralgici del tuo discorso mi sono risultati ora piuttosto criptici. D’altro canto devo notare che tu<br />
hai sorvolato sul metro valoriale che, molto alla buona, ho accennato nelle mie precedenti lettere. Ti<br />
sembra ininfluente sul giudizio conclusivo? Ci sarebbero altri temi da (mal)trattare ma la<br />
chiacchierata si è già fatta troppo lunga. Ti saluto e scusami dei toni troppo assertori che posso aver<br />
assunto qua e là.<br />
Testo manoscritto con firma autografa (unito al precedente)<br />
<strong>Caro</strong> <strong>Lami</strong>,<br />
ecco la lettera, a risposta dell’ultima tua (20 luglio!), dormiente nel mio computer in attesa di<br />
rilettura.<br />
Piacere di averti sentito e di avermi svegliato. A Salerno telefonerò nei prossimi giorni.<br />
Viva cordialità<br />
Roberto Melchionda<br />
Firenze 10 gennaio 07<br />
________________________________________________________________________________<br />
Carta intestata del Seminario di studi<br />
“Giovanni Gentile a sessant’anni dalla morte”<br />
Roma, 20 gennaio 2007<br />
Mio caro Amico,<br />
inizio oggi la risposta alla Tua del 10.1 scorso. Prevedo un lungo lavoro, perché tanti, forse<br />
troppi per le mie poche forze, sono gli argomenti che affronti, in un numero di pagine che mi<br />
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sembra crescere, ogni volta di più. Innanzi tutto, vorrei chiarire, una volta per tutte, che non sono e<br />
non mi sento uno “scientista”, così come nego con tutto me stesso di essere un “contemplativo”.<br />
Anch’io, come Tu stesso dici di Te, amo risolvere ─ quanto meno affrontare ─ problemi di vita<br />
“pratica”. A maggior ragione, tuttavia, il comportamento che andiamo ricercando (e non solo la<br />
scrittura, che si fa carico di ridurlo a logica “comunicabile”) deve rispondere a un metodo, che ci<br />
renda adatti alla comprensione: a comprendere, e a farsi comprendere ─ il che mi pare già un<br />
bell’atto di amore! Proprio questo “disporsi all’ascolto”, del resto, allontana il rischio, da Te<br />
paventato, di “parlare tra sordi”. Ma un metodo è pur sempre necessario, come Tu medesimo<br />
avverti; e questo metodo ─ sono d’accordo con Te ─ deve armonizzare “ragione induttivadeduttiva”<br />
e “regale volontà”, mente e cuore, intuizione e sensazione, per evitare che la tensione al<br />
sapere “dissecchi” la tensione alla vita, e l’amore di Dio distolga dall’amore degli uomini. È ovvio<br />
che il vizio può nascere anche all’opposto, prevalendo la tensione alla vita, ma certamente non<br />
stiamo parlando di questo. Non mi sembra che, né in me, né in Te, si cada nel “vitalismo”! Giunti a<br />
questo punto, credo si tratti di capire se la strada che Tu proponi ─ quella secondo cui “ciascuno<br />
deve cercare e trovare per conto suo in casa propria” ─ sia l’unica disponibile. La frase che adoperi<br />
non mi sembra felice. È chiaro che ogni ricerca ha nel “ricercatore” il primo referente, responsabile<br />
primario del successo o del naufragio delle iniziative attivate per indagare al proprio interno, o al<br />
proprio esterno. Ma non sono affatto sicuro che la Tua espressione renda giustizia all’altro,<br />
ancorché ridotto a “oggetto” del nostro “amore” ─ e forse semplicemente ridotto a “cosa” del nostro<br />
“dominio”. Direi che la “sofferenza” e l’eroismo, cui Evola si appella, per risolvere l’impasse di un<br />
rapporto strumentale tra uomo e uomo, ma anche tra uomo e qualsiasi altra esistenza, insomma, tra<br />
il suo “individuo assoluto” e la natura (nella quale pure si configura), non mi convincono a<br />
sufficienza. E vuoi sapere perché? Perché non sono supportati da un’idea adeguata di bene<br />
(comune), che ritengo sia l’unica capace di fornire ragione alla sofferenza e all’eroismo, oltre che<br />
fornire ragione al rapporto tra uomo e uomo, omologare la natura umana a quella divina, e così via.<br />
È inutile che Ti dica, dunque, della conseguente impossibilità di conciliare la dottrina evoliana con<br />
la dottrina cristiana, ma, ancor prima, con quella socratica e platonico-aristotelica.<br />
Tu puoi permetterti di avvicinare Evola e di inseguirlo su terreni pericolosi, perché mi sembra che<br />
fai affidamento su un discreto retroterra, quello conservato dalla tradizione cristiana e cattolica. Ma<br />
Evola, l’esperto di spiritualismo orientale e occidentale, l’autore di tante passeggiate nel mondo<br />
dell’eroismo e dell’ermetismo, il glossatore dell’esperienza romana, platonica, yogica, confuciana,<br />
aria, eccetera, dove fa consistere infine il realissimum della sua concezione tradizionale?<br />
Insistere su tale questione ─ come faccio io ─ non ha niente a che vedere con la richiesta di una<br />
“spiegazione in termini argomentativi” e non significa affatto “eludere l’essenziale”. Vero è il<br />
contrario. In mancanza di una motivazione, proveniente dall’idea di bene (comune) e di natura<br />
(consustanziale), la costruzione evoliana consiste in semplici suggestioni, si arresta troppo presto e<br />
minaccia di cedere alla base. Il suo appiglio “tradizionale” diventa poco più di un escamotage per<br />
evitare la deriva. Non ho dubbi che la si possa guardare con benevolenza. Paradossalmente, ciò<br />
avviene dalla prospettiva cristiana, ove prevale un sostrato fideistico (oltre che teistico), che<br />
consente di supplire (con massicce dosi di retaggio culturale ecclesiastico) alle carenze spirituali<br />
dell’Individuo assoluto. Il problema si presenta in tutta la sua gravità a chi non si pone dalla<br />
prospettiva di una religione cattolica.<br />
Allora, il percorso “erotico”, che Tu tracci a pag. 3 della Tua lettera, quello che passa per i “Fedeli<br />
d’Amore”, per il “noli foras ire” agostiniano, per il “Logos” socratico-platonico-aristotelico, dove<br />
avrebbe a consistere? Dopo avere scongiurato, grazie anche a Vico e alla sua “Provvidenza”, la<br />
retorica cartesiana e dei “suoi figlioli”, su cosa consisterebbe la persuasione di “colui che si fa da<br />
sé”?<br />
A me sembra che lo sforzo di “sofferenza” e di “amore” del nostro Evola si traduca in una resa<br />
all’insufficienza, proprio per l’incapacità sua di “uscire dalla soggettiva individualità”, dal suo<br />
essere “autogeno” alla maniera del Selbst-bewusstsein hegeliano e dell’Io-pensante gentiliano.<br />
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Evola non incontra Heidegger, perché la sua (di Evola) opzione spirituale in “modo attivo” lo<br />
rende estraneo all’azione dell’alto (di Heidegger), pazientemente diretta a disgregare la struttura<br />
concettuale del mondo moderno, nel progetto infinito di rifondazione esistenziale: non semplice<br />
“esistenzialismo”, dunque, ma “filosofia dell’esistenza”, volta a rivalutare l’esperienza pratica e la<br />
“sensazione”, a fondo di qualsiasi processo, ancorché proveniente da illuminazione “alta” (un po’,<br />
mi richiama Platone, che cerca il vero piacere nella pratica di una vita επι το ορθον). È chiaro che<br />
questo percorso non possa mai dirsi conchiuso! La palese insoddisfazione con cui congedi<br />
Heidegger, mio caro Melchionda, è quella di chi pretenderebbe dal filosofo la confezione di un<br />
“sistema”, che vada ben oltre la proposta di un metodo di ricerca. La Tua personalità, invece, è<br />
libera di esprimersi secondo il suo livello di “equazione”, senza che la ποιησις filosofica che la<br />
caratterizza finisca per ridursi a μιμησις del comportamento (anche intellettuale) altrui.<br />
Per questo, condivido totalmente il corsivo che riporti a fine pagina 4. Infatti, non ho mai negato<br />
che Evola sia “uno che ci ha provato” a dare il suo contributo “disvelativo”. Ma, anche lui, come<br />
tutti, ha i suoi limiti! E credo che una certa lettura di Heidegger, con un certo stato d’animo, magari<br />
ajutato da certe suggestioni presenti in Evola, possa costituire un buon indirizzo filosofico di<br />
ricerca: proprio per ridurre il vasto patrimonio d’immagini evoliane a “pratica” attuale, in un<br />
quotidiano che altrimenti potrebbe respingerle in quanto in-attuali. Insomma, credo che Heidegger,<br />
per taluni, sia in grado di rivelare qualche sentiero interessante, per raggiungere il “fuoco” di cui Tu<br />
parli.<br />
Ma, intendiamoci bene! Non dico questo, da heideggeriano! Lo dico, come un “universitario”, che<br />
apprezza le sue chiavi ermeneutiche, come apprezza quelle evoliane, delnociane, tilgheriane,<br />
voegeliniane, e molte altre, al solo scopo di procedere: “un passo per la vita e un passo per il<br />
pensiero”.<br />
Non conosco Hadot, al quale riservi tanta attenzione, e provvederò a documentarmi. Tuttavia, non<br />
capisco l’appunto che Tu gli vuoi fare, a proposito del suo discorso sulla “pratica”, che “sembra<br />
arrestarsi alla sfera morale”. Dove vorresti che andasse a parare un discorso sulla “pratica”?<br />
Vorresti, forse, che si trasformasse in una sorta di dottrina (alla maniera catechistica), tutta infarcita<br />
di precetti sul “fare” o “non-fare”? per ridursi a confortevole viatico dell’uomo, che così saprebbe<br />
se è “buono” o “cattivo”? da qualche altro, che non sia lui stesso?<br />
È a livello “morale”, che l’individuo prende le sue decisioni, in libertà, con la coscienza di<br />
scegliere, anche in contrasto con la dimensione “etica” del suo gruppo!<br />
È a livello di “morale” individuale, che l’etica del dovere e della legge si trasforma in sostanziale<br />
persuasione e consenso partecipativo! Ma, tale persuasione e tale consenso possono essere solo in<br />
libertà (non solo “spontaneità”, ma consapevolezza, di pensiero e azione)!<br />
Per questo, mi sento assolutamente d’accordo con Te, quando evochi tutte le possibili energie<br />
interiori “ai fini dell’essenziale conoscere” (p. 5), e sono profondamente convinto che una “visione<br />
del mondo”, priva di quelle che Tu chiami le “risorse interiori”, si disperderebbe nello<br />
spontaneismo-naturalismo delle pratiche etero-dirette (a norma di una qualsivoglia “dottrina” di<br />
vita). Di conseguenza, a meno di un fraintendimento, non vedo grande originalità nella versione del<br />
“professore francese”.<br />
Nemmeno ho difficoltà a dirmi d’accordo con Te, nell’accenno che fai a Hegel. Mi sembra,<br />
tuttavia, che proprio il (neo)platonismo della filosofia hegeliana (abbondantemente assunto da<br />
Tennemann), per altro rielaborato a uso del cristianesimo (protestante), allontani le sorti<br />
dell’idealismo tedesco (e italiano) da… Platone. Ma su questo, ci si potrebbe scrivere a lungo!<br />
Torniamo invece a Evola, e alla sua eventuale compatibilità con il messaggio cristiano. Il tema<br />
coincide, solo in parte, con quello ─ più angoloso ─ della “mistica”.<br />
Lo spazio disponibile non mi concede di scendere sul piano delle innumerevoli allusioni<br />
contenute nelle righe della Tua lettera, a rischio di essere altrettanto “allusivo” e poco chiaro.<br />
In primo luogo: la mistica ─ cosa del tutto diversa da misticismo!<br />
Sulle etimologie del termine, faccio grazia sia a Te che a me (μυω – μυσαττομαι – μυστη), ma non<br />
posso non precisare ─ come, in fondo, fa lo stesso Evola ─ che lo stato mistico fa seguito a una<br />
22
fase preparatoria, di contenuto filo-sofico. Che tale condizione ottimale (così ben descritta nel mito<br />
platonico dell’auriga) possa “aprirsi” ─ come Tu dici ─ a uno stato “magico”, non voglio<br />
escluderlo. Certo, bisogna intendersi su cosa significa il termine “magia”! E, per quanto mi<br />
riguarda, mi sento molto poco “mago”, almeno quanto poco mi sento di poter fare la conoscenza di<br />
Dio!<br />
Tornando a Evola, farò come Tu mi consigli e non starò troppo a sottilizzare su certe sue<br />
affermazioni a punta, né sul contenuto di taluni saggi, non-solo giovanili, e nemmeno prenderò per<br />
valide le compromettenti considerazioni della sua dottrina imperiale e della sua dottrina razziale,<br />
arrivando a cancellare le conclusioni di molti suoi volumi. Ma cosa dovrebbe restare, allora?<br />
L’ammirazione evoliana per la mistica contemplazione della divinità?!<br />
Ecco, devo dirTi semplicemente che non credo sia questo l’Evola essenziale, e comunque, non è<br />
questo l’Evola che m’interessa. Non credo che il suo “cattolicesimo esoterico” sia compatibile con<br />
il cristianesimo. E non credo che la circostanza di un Evola, intrattenutosi “sulla possibilità che la<br />
Chiesa fosse più presente nella difesa dello spirituale tradito o negato dal pensiero contemporaneo”,<br />
arrivi mai a convincere la stessa Chiesa a concedergli un posto diverso da quello che lungamente<br />
occupò nelle pagine dell’ Osservatore Romano, sotto il titolo di “Spropositi e aberrazioni”!<br />
È vero che, in talune occasioni, specie durante la guerra, Evola si è trovato a lodare qualche<br />
aspetto emergente della religione cristiana (penso all’apologo sulla “Certosa”, penso a Ignazio di<br />
Loyola), tuttavia non posso ritenere questo atteggiamento svincolato dal momento e dalle…<br />
necessità contingenti di rinsaldare il fronte patriottico. A mio parere, occorre distinguere<br />
decisamente tra cattolicesimo e cristianesimo: nella dottrina evoliana c’è posto per il primo, ma non<br />
per il secondo. E questo, solo a condizione che il primo riveli il suo autentico carattere “esoterico”,<br />
cioè salvifico, al termine di un percorso di ascesi (nulla a che vedere con la mistica), che possa<br />
qualificarsi come davvero iniziatico e disvelatore. Comprendi, naturalmente, che a tal punto, non<br />
c’entra nulla né l’ideologia, né la filosofia dei sistemi, dato che siamo negli spazi dell’esperienza<br />
spirituale-individuale-personale dell’uomo e della sua comunità etica. Come vedi, siamo nel pieno<br />
della filosofia pratica, nel pieno di una “prova del fuoco”, che non può non avvenire in questo<br />
mondo, nella dimensione immanente: qui e ora! Parlo di immanenza, mio caro Amico, non<br />
d’immanentismo, proprio perché un’esperienza del genere è costretta a fare i conti con la pratica del<br />
quotidiano, anche se la forza (δυναμις) che la sollecita è (nel bene) rivolta alla trascendenza, quindi,<br />
rivela la sua carica trascendentale (: ascetica), non già “trascendente” (: mistica). Il modello<br />
evoliano, insomma, ritengo sia quello dell’ eroe (termine connesso a ερως), del costruttore di ponti<br />
(e di città), non quello del santo, in fuga dall’esistenza, nella mal contenuta ansia di un amplesso<br />
divino.<br />
Su Voegelin e sulle insoddisfazioni Tue (e mie) al suo riguardo, sarà meglio che si rimandi ad<br />
altra lettera. Sto giusto mettendo a punto qualche considerazione conclusiva sulla sua filosofia, che<br />
potrebbe trovarmi d’accordo con Te. E ciò non mi meraviglia affatto! Ma la nostra diatriba non è<br />
ancora finita…<br />
Tuo<br />
Gian Franco <strong>Lami</strong><br />
________________________________________________________________________________<br />
Carta semplice e testo dattiloscritto<br />
(IV lettera <strong>Lami</strong> – marzo 07)<br />
<strong>Caro</strong> <strong>Lami</strong>,<br />
23
emergenze e fastidi varii non mi hanno concesso di risponderti prima. Sono in procinto di<br />
trasferirmi per un paio di mesi al mare ma prima vorrei dirti qualcosa su quanto mi hai scritto e<br />
ringraziarti di cuore dell’impegno critico e lessicale con cui hai posto le questioni. Introducendo poi<br />
l’espressione (a me un po’ sibillina) di “bene (comune)” lasci trasparire ─ così mi sembra ─ un<br />
genuino dispiacere per chi a tale valore non sappia, non possa parteciparvi nel modo e nella misura<br />
giusti. Ora presumo di aver messo meglio a fuoco il tuo punto di vista. A ciò ha concorso anche la<br />
preoccupazione di aggettivare il cattolicesimo con la parola in apparenza pleonastica di “cristiano”<br />
(l’ho visto anche sul “Secolo”): una insistenza che mi svela, assieme alla rigorosa radicalità della<br />
tua specifica scelta religioso-filosofica, una profonda, intima certezza di stare nel vero. Ora mi<br />
appari, se consenti, meno filosofo di università e molto più uomo di “fede” e di “carità” (un dono<br />
cui ha certamente concorso ─ concedimi la notazione non disinteressata ─ anche la tua buona<br />
volontà), e tutto ciò in fondo mi conforta e rassicura, e assieme mi sembra possa rendere un po’ più<br />
chiaro o meno scuro il nostro scambio di idee. Devi convenire che non era facile per un lettore,<br />
magari un po’ frettoloso e smemorato quale io troppo spesso sono, supporre ─ lo dico senza malizia<br />
─ che il curatore e il chiosatore di tante opere del “pagano” Evola nutrisse nei suoi confronti<br />
obiezioni così radicali quali tu hai manifestato nella tua ultima lettera. (Non conosco gli articoli<br />
dell’“Osservatore Romano” che tu richiami e credo sarebbe interessante, se di una certa<br />
consistenza, ripubblicarli, accompagnati naturalmente da nota che storicizzi per bene la polemica).<br />
Non posso che essere in tutto d’accordo con te quando dici che il prototipo ideale per Evola non è<br />
il mistico ─ colui che, predisposto, dall’amplesso divino si lascia rapire ─ bensì l’eroe, figura che al<br />
divino pure aspira e che per approssimarvisi, si dà da fare con le forze di cui dispone, ossia con<br />
l’Eros che appunto lo potrà fare eroe, già avendo saputo riconoscere in sé il divino dono che Pico<br />
chiamò “la dignità dell’uomo”, e che in Evola è il vivo fondo dell’individuo resosi capace di<br />
autoscrutarsi sperimentalmente e, si presume, liberamente. Saper volgersi a questo Grund fuori, per<br />
quanto possibile, da precostituite sovrastrutture, e indi metterlo alla prova e a frutto quanto meglio<br />
si possa, sarebbe il compito numero uno.<br />
Ciò che tu chiami “bene (comune)”, il valore per eccellenza, in Evola mi sembra si presenti in<br />
prima istanza nella veste della “libertà”, la libertà che non nasce come idea ma, appunto, come<br />
vissuto interiore, come evidenza di coscienza, la quale, anche qualora nell’ambito del pensiero non<br />
fosse sorta temporalmente per prima, al primo posto comunque, per suo intrinseco valore e<br />
significato, andrebbe subito a collocarsi. Come convenne Pareyson alla fine del suo percorso<br />
ermeneutico, la libertà è insieme “inizio e scelta”. Questa originaria libertà o dignità è intrisa di<br />
eros, trova in questo la sua fonte e il suo fine, ne è il motore (la sua “potenza”, se mi concedi la<br />
mala parola), in punto del suo cammino introspettivo, avverte tale divina dignità ─ sorgiva come<br />
sorgiva è nel devoto l’immagine e la potenza di Dio. (Mi devi scusare se tratto temi di tale fatta con<br />
scorciatoie e linguaggio approssimativo, non consono al tema. Ma questa non è che una lettera tra<br />
“amici”.)<br />
Ratzinger nelle prime righe della sua enciclica ci ricorda questo circolo ─ Io-Dio ─ citando le<br />
parole di Giovanni. “Dio è Amore; chi sta nell’Amore dimora in Dio e Dio dimora in lui”. Stare in<br />
sé stessi, tenere alla propria interiorità, riconoscerla come il luogo dove io e Dio possono<br />
incontrarsi, avvertire in essa, tramite essa, la potenzialità dell’apertura all’assoluto, individuarla<br />
come il bene per eccellenza, sentirla come il valore irrinunciabile da parte dell’uomo che sappia di<br />
sé, che sappia intercettare, insieme alla sua miseria, anche la sua originaria dignità è affermare alla<br />
fine che il rapporto Dio-Io, Dio-Individuo è circolare. Senza l’animale uomo che, unico<br />
nell’universo, è anche “persona”, Dio è impensabile, ossia come “inesistente”. Senza la sua creatura<br />
Dio è come non fosse. Anche gli animali, la natura tutta vive dell’amore di Dio ma solo l’uomo può<br />
anche saperlo.<br />
<strong>Caro</strong> <strong>Lami</strong>, io credo che abbia il suo peso nell’interpretazione di Evola anche il back-ground<br />
culturale formativo personale con cui lo si è affrontato la prima volta. Tu appartieni ad una<br />
generazione successiva alla mia, formatasi in un clima culturale molto diverso da quello in cui mi<br />
24
sono invece trovato io. Di più, ad Evola io mi sono accostato nel periodo formativo e di ricerca, tu a<br />
formazione di fondo già conclusa, presumo, formazione di matrice cristiana. Tu Evola lo hai<br />
incontrato da cristiano persuaso. Di me c’è da dire che, pur avendo frequentato per diversi anni i<br />
filippini (dei quali serbo un buon e grato ricordo), sono cresciuto (si fa per dire) alla scuola<br />
gentiliana, dalla quale con il tempo ho appreso il senso profondo dell’“atto” che può introdurre ad<br />
Evola. Ha avuto il suo peso poi anche il clima fascista. Il figlio della lupa, il balilla, l’avanguardista,<br />
e dopo l’otto settembre, l’imberbe volontario cupido di guerra. Io credo che gli anni del preguerra e<br />
della guerra, e poi del primo crudele dopo-guerra abbiano lasciato in me, come in altri della mia<br />
generazione, un segno condizionante. I primi libri da adulti che ho acquistato (tra il ’43 e il ’45)<br />
furono Un uomo finito di Papini, l’Aurora di Nietzsche e Il tempo di Icaro (Mondadori) di uno<br />
scrittore tedesco di cui mi sfugge ora il nome. Mi piaceva inoltre il poeta-pensatore Leopardi e<br />
insieme il D’Annunzio ditirambico. Come vedi, la mia adolescenza, a differenza di quanto<br />
certamente è stato per te, era già in certo modo preparata a ricevere il messaggio inusuale di Evola<br />
nel quale mi imbattei la prima volta, se non sbaglio, sulle pagine del settimanale “Rivolta Ideale” al<br />
quale collaborava. Dapprima non riuscii a catalogarlo ma presto passai ai libri e ricordo che al<br />
primo sfoglio (in una biblioteca pubblica), Rivolta c. il mondo moderno mi lasciò molto perplesso:<br />
mi sembrò lavoro troppo assertorio, e in certo modo enfatico, un poco al modo di Rivolta ideale<br />
dell’Oriani, e che faceva a pugni per logica e stile con la mia lettura coeva di La vita come ricerca<br />
dello Spirito (’49). Insomma mi ci volle non poco tempo perché io ritenessi di averlo compreso<br />
nella misura minima necessaria e accoglierlo in qualche modo.<br />
Assieme a tanti interrogativi, all’inizio ci fu anche un atto di fiducia e di simpatia che crebbe<br />
allorché ebbi modo di conoscerlo di persona (nelle pause del processo Far).<br />
Evola come sai è autore esigente, chiama in causa la capacità immaginativa accanto alle facoltà<br />
logiche, chiede una certa sperimentazione, invita ad una introspezione che va oltre la sfera morale<br />
sulla quale l’educazione religiosa ci aveva abituato, esige qualche esame di coscienza<br />
supplementare (anzi un supplemento di coscienza), prospetta insomma scenari del tutto nuovi,<br />
prima impensati. Tutto ciò racconto per mostrarti come per me, e certamente anche per altri della<br />
mia generazione para-nichilistica, l’incontro con Evola abbia significato l’approdo o meglio il<br />
compito che si andava in fondo cercando. E tra coloro della mia generazione che para-nichilisti non<br />
erano ─ ad esempio Gianfranceschi, cattolico professante ─ Evola fu accolto senza che ciò abbia<br />
dovuto significare una rottura con la religione. Da qualche parte G. ha scritto, se non ricordo male,<br />
che l’incontro con Evola non tolse ma anzi portò nuova linfa alla fede originaria [: nel suo<br />
contributo a Testimonianze su Evola, 1985, intitolato “L’influenza di Evola sulla generazione che<br />
non ha fatto in tempo a perdere la guerra”, pag. 132, ndc]. Tu, da cristiano, formatosi in altro clima,<br />
hai invece la tendenza a vedere in lui un avversario tout court.<br />
Non vorrei mitizzare il passato ma devo confessare di nutrire la convinzione che coloro che hanno<br />
vissuto il tempo fascista anche soltanto nei suoi ultimissimi anni si siano imbattuti in una concreta<br />
aspettativa di rinascita spirituale pubblica, cosa del tutto ignota a coloro che sono venuti dopo. Il<br />
fascismo, come moto metapolitico in controtendenza rispetto al processo storico che andava<br />
consegnando l’umanità al dominio dell’economia e della tecnica, poteva nutrire tali speranze. È nel<br />
suo tempo che, in prospettive diverse si levarono gli annunciatori della decadenza del mondo<br />
moderno avviato alla materializzazione integrale (Spengler, Huizinga, Weit, Keyserling, Pound,<br />
Guénon, il cristiano Mounier, se non ricordo male, ecc.), e il fascismo poteva essere inteso come<br />
forza epocale sorta per far fronte ad un mondo avviato alla materializzazione integrale.<br />
Testo manoscritto e autografo (a seguire)<br />
<strong>Caro</strong> <strong>Lami</strong>,<br />
mi dispiacerebbe se mal interpretassi questo mio lungo silenzio. Alla tua ultima lettera ─<br />
densa, accurata, paziente, nella quale mi parve di aver colto anche uno schietto, cristiano dispiacere<br />
25
per la mia ostinazione… paganeggiante – avevo cercato di rispondere in giugno, poco prima di<br />
fuggire dal forno cittadino, con uno scritto che però è rimasto dormiente nel computer, in attesa di<br />
un completamento mai poi venuto. Ora però non mi sento di tornare sul tema. Prendi dunque queste<br />
pagine per ciò che sono.<br />
Tengo invece a dirti che ultimamente più circostanze (tra le quali certamente anche questo nostro<br />
scambio di idee), mi hanno spinto a guardare con animo più aperto temi e questioni da me prima, se<br />
non trascurati, certamente non partecipati nella misura necessaria. Ad esempio, il tema dell’“amore”<br />
─ complice qui Ratzinger e letture contigue (l’amico senese Gorini (???) ha la bontà di aggiornarmi<br />
con la produzione Cantagalli) ─ ha acquistato ai miei occhi un più ampio spazio semantico, un più<br />
esteso contenuto spirituale. In grossa sintesi: anche “la preghiera” del cosiddetto cristiano della<br />
domenica, anche “la fede” abitudinaria dell’orante per educazione ricevuta, ecc. possono talvolta<br />
spingersi oltre la sfera della formale devozione, della mera sentimentalità, ecc. Giorni fa mi ha<br />
colpito il cartello posto alla porta di una chiesa (la millenaria Badia fiorentina, ora frequentata dalle<br />
“Fratellanze monastiche di Gerusalemme”) su cui si legge:<br />
« Entra nel silenzio<br />
Entra nella chiesa<br />
Entra nel tuo cuore<br />
Entra nel cuore di Dio».<br />
Parole, mi pare, da leggersi sottilmente. Traccia di un itinerario che potremmo anche dire, con il<br />
nostro Evola, “esoterico”.<br />
Con viva cordialità<br />
Roberto Melchionda<br />
Firenze, 5 novembre 07<br />
________________________________________________________________________________<br />
Università degli studi di Teramo<br />
Dipartimento di Storia e Critica della Politica<br />
Roma, 1.II.2008<br />
Carissimo Melchionda,<br />
inizio oggi, dopo attenta e reiterata lettura, la risposta alla Tua lettera del novembre scorso. Ho<br />
dovuto meditare a lungo, per essere certo di averne colto lo spirito autentico e per poter procedere<br />
nella direzione corretta, in un percorso che abbiamo iniziato oltre diciotto mesi fa. E si tratta, per<br />
me, di un nuovo “cominciamento”, più approfondito, forse anche più circostanziato, ma non fuori<br />
dal tracciato originario. La natura del nostro discorso non muta, nonostante apparenti variazioni<br />
superficiali, perché non muta la natura umana che è al centro della nostra ricerca. Per questo, non<br />
mi meraviglia che Tu finisca per parlarmi (positivamente) di Ratzinger, dal momento che trovo la<br />
sua filosofia colma delle nostre stesse preoccupazioni e impegnata nel nostro stesso tentativo.<br />
Apprezzo molto questo Papa e credo davvero che sia quello adatto al tempo attuale. So che mi<br />
comprenderai se Ti dico che il suo lavoro pastorale è utilissimo, anche per chi professa laicità<br />
d’intenti. E non solo perché ricerca nell’uomo quella “buona volontà”, di cui ogni città (non<br />
soltanto quella “celeste”) ha bisogno, ma anche, e forse più, perché dimostra intransigenza e<br />
chiarezza, a costo di sollevare qualche risentimento. È la prima volta, tuttavia, e me ne compiaccio,<br />
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che sento nuovamente la Chiesa proclamarsi custode e garante della “conservazione della specie<br />
umana”: finalità ultima, e tale da racchiudere tutte le altre al suo interno. Con le più ovvie e coerenti<br />
conseguenze che ne possono derivare.<br />
Affermo ciò, in apertura di conversazione, e non credo che leggerai altro di lusinghiero sul<br />
Cristianesimo e sui suoi Ministri, che non hanno di sicuro brillato di fermezza negli ultimi decenni,<br />
a difesa della tradizione che li ospita da due millenni! E sì! mio caro Melchionda, perché il mio<br />
insistere sul “cattolicesimo cristiano” nasconde, in realtà, non già l’orgoglio di una appartenenza di<br />
fede, e di fede cristiana, bensì la delusione provata nei confronti di una religione ( il Cristianesimo,<br />
per l’appunto), che, dell’aspirazione cattolica dei primi secoli e dello schietto ecumenismo che<br />
l’ispirò, conserva davvero ben poco!<br />
In conclusione, se ancora oggi si può parlare di una tradizione cristiana, non lo dobbiamo al<br />
Cristianesimo, ma all’idea di ecumene tradizionalmente confluita nella Chiesa cattolica.<br />
Paradossalmente, si potrebbe sostenere che il Cattolicesimo ha un contenuto universale<br />
(ecumenico), quanto meno è cristiano e più si può ridurlo al filone tradizionale che lo precede.<br />
Ritengo che questa sia la posizione evoliana, perfettamente in accordo con la massima parte di<br />
filosofie della religione e della politica, che si trovino a interpretare la crisi dell’anno “zero”.<br />
Intendo dire, con quelle filosofie della religione e della politica, che osservano l’evento cristiano<br />
come la più grande rivoluzione del suo tempo: una rivoluzione religiosa e politica, all’unisono,<br />
come poteva essere il sollevamento di una gente dell’epoca. Ecco: ribadita la straordinaria forza<br />
dirompente, contenuta nel gesto rivoluzionario che assegnava a ognuno un’anima propria e<br />
immortale, penso che sia più facile tornare sull’espressione che a Te sembra “sibillina”, di bene<br />
comune.<br />
È vero che, intorno a tale “valore” (del bene comune), si crea la selezione dei “giusti”, di coloro che,<br />
del loro comportamento, riescono a fare un beneficio debordante sul restante corpo sociale. Ed è<br />
vero che, per pensarla in questo modo, è necessaria la certezza di stare nel vero, caritativamente e<br />
fiduciosamente in cammino sul sentiero di una conoscenza “disvelativa”, al modo socratico. Ma, se<br />
“carità” è in primo luogo vocazione ascetica, e se “fiducia” è il contenuto amicale (potremmo dire<br />
cameratesco?), su cui si fonda la nostra città terrena, comprendi bene che rimane poco spazio per il<br />
dogma veritiero e per la fede di mistico trascinamento. Ascesi e mistica non vanno molto d’accordo.<br />
Come fede e fiducia. L’ascesi è un faticoso percorso in salita: il risultato di una scommessa<br />
trascendentale. La mistica è un salto istantaneo nella luce della trascendenza: vale per sé stessi e<br />
non è “esemplare”, come tutto ciò che collega a Dio immediatamente.<br />
Le due esperienze spirituali possono perfino contrastare tra loro, come la figura del santo e quella<br />
dell’eroe. È sicuro che la via di Evola sia quella dell’eroe ed è sicuro che si tratti di una via<br />
liberatoria. Tuttavia, la libertà non è uno stato, una condizione, che possa acquisirsi una volta per<br />
tutte. Essa è un processo che non finisce mai. Si dovrebbe dire “liberazione”, dall’inganno,<br />
dall’illusione, dall’errore, venendo così a coincidere con la qualità “disvelativa” (o veritevole) della<br />
nostra conoscenza. Cosa, che ci fa subito fare i conti con il mondo circostante, e non chiude la<br />
nostra coscienza al confronto quotidiano tra il nostro “buon senso” e il “senso comune”.<br />
Mio caro e tardivo amico di penna, il problema del bene comune è tutto qui! Quanto sia centrale<br />
alla “dignità dell’uomo”, è facile intuirlo. Quanto sia naturale la sua dinamica in ciascuno, è detto in<br />
modo eccellente nell’opera evoliana, che si propone ─ è vero! ─ come narrazione di un’esperienza<br />
“auto-salvifica” personalissima, ciò non di meno configura abilmente la costituzione di una<br />
“comunità degli uguali”, tra gli “individui assoluti” impegnati nel medesimo compito di<br />
preservazione della città virtuosa. E guai a chi non comprende che anche Evola, al pari di tanti altri<br />
più o meno virtuosi anarchi(ci), ha lavorato per una città utopica, capace di radunare su questa terra<br />
i molti chiamati all’impegno del “differenziato”.<br />
Ora, chiamare in causa Pareyson, per avallare l’autorità di una definizione della libertà, come<br />
“inizio e scelta”, non ci fa fare passi avanti. Al contrario, ci riporta al piano dell’individualismo, di<br />
una dottrina che, scardinata dall’unità di origine e di natura come opportunità di reale<br />
identificazione nelle differenze soggettive, parte dal dato della diversificazione e a questo non può<br />
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che riapprodare, nel vano tentativo di dare unità alle intenzioni. L’anima individuale non può che<br />
essere destinata alla solitudine, come aveva già intuito Marco Aurelio. E qui consiste la<br />
responsabilità del Cristianesimo che, per vincere la sua battaglia con la “imperialità” romana, ha<br />
dovuto fare piazza pulita dell’ecumene terreno, cacciare il “demone” (socratico) all’Inferno e<br />
inventare una perfezione solo divina, cui all’uomo è inibito accedere, con allegato senso di<br />
mortificazione, frustrazione e alienazione perenne.<br />
In questa condizione, amico mio, c’è ben poco di “erotico”: non rimane spazio alcuno all’antico<br />
eros, che alimentava la potenza dell’intelletto classico e ne castigava la pretesa solitaria, per<br />
risolversi in socialità. Lo slancio erotico, che Platone descrive così bene, svela il segreto della nostra<br />
natura, intelligente, e perciò di una semplicità essenziale. Questo deve farci riflettere ulteriormente<br />
sul fatto che non è nel sapiente, ma nel saggio, il modello da seguire. E soprattutto, non è amando sé<br />
stessi, ma amando la comunità che ci ha prodotto, che potremo dare un senso autentico alla nostra<br />
esistenza. È cosa vecchia, è saputa. Non c’è bisogno di scomodare né Giovanni evangelista, né il<br />
nostro Ratzinger! Nemmeno c’è bisogno di “aperture assolute” verso la divinità. È così, e basta! La<br />
natura umana è fatta in questo modo: o te ne fai carico, o non sei un uomo! La questione ─ come<br />
vedi ─ è delle più semplici. Aristotele se n’era reso conto benissimo, quando volle distinguere ─ e<br />
tenere distinti ─ gli uomini “virtuosi” dagli uomini-bestie (quelli che non vivono, ma “campano”, e<br />
non parlano, ma “blaterano”). Anche su questo, il Cristianesimo, con le sue dotte disquisizioni<br />
teologiche, fatte di “circolarità” emotive e di “personalità” egualitativamente distribuite a tutti gli<br />
enti umani, non ha fatto che creare confusione e più danno che altro!<br />
Se tale mio modo di vedere e di pensare è dovuto alla mia epoca, alla mia educazione e a ciò che<br />
ha formato la mia generazione, o ad altro, davvero non so dirTelo. Così, non so dirTi se, al<br />
momento in cui Evola mi parlò, per la prima volta, fossi un “cristiano persuaso”. Sono sicuro però<br />
di cosa sono adesso. E certamente posso rassicurarTi di conoscere Evola molto più ora, di quanto<br />
mi capitò nel farlo a diciotto anni. È tuttavia fuori discussione che fosse cristiano il contorno<br />
religioso, educativo, etico e mentale della nostra società: allora, come ora! Non capisco, perciò,<br />
quale dovrebbe essere la diversità di prospettiva iniziale, tra Te e me, o quella finale, nel leggere le<br />
sue (di Evola) opere e nell’interpretarne il pensiero.<br />
È vero: non sono mai stato fascista (figlio della lupa, balilla, avanguardista), non ho fatto la guerra e<br />
non ho letto Nietzsche o Papini “tra il ’43 e il ‘45”. Per questioni di età, essendo nato (io) nel 1946,<br />
il Tuo bagaglio personale di esperienze iniziali mi è stato precluso. Ma, questo cosa vuol dire?<br />
Forse è possibile che, per ciò, il nostro Evola ci appaja differentemente? Una tale ipotesi, la trovo<br />
semplicemente assurda. Sarebbe come dire che la natura dell’uomo muta nel tempo, o nello spazio.<br />
E certo tu convieni che non può essere! E allora? Pensa: le Tue identiche letture (Papini, Nietzsche,<br />
con un po’ di Eliade e di Merejkowski), io le feci a distanza di una ventina d’anni da te. Persino la<br />
Rivolta ideale di Oriani, e Spirito, furono gli stessi miei compagni di riflessione. Tutto questo può<br />
avere contribuito ad avvicinare le nostre considerazioni su Evola, davvero non ad allontanarle,<br />
nonostante il nostro modestissimo gap di età. Così, ritengo fondamentale la nostra conoscenza<br />
diretta dell’autore, poiché in pochi altri casi, come per Evola, credo sia opportuno avere potuto<br />
confrontare il personaggio con le sue affermazioni, poterne attestare la congruenza di pensiero e<br />
azione.<br />
Ora: data una tale, generalissima premessa, proverò a tirare delle conclusioni alla nostra<br />
conversazione, che sento arrestarsi davanti a un bivio, carico di tragica perplessità! Si può pensare<br />
e, soprattutto, si può continuare a pensare Evola da cristiano? Si può pensare a una conciliazione<br />
profonda del pensiero evoliano con il Cristianesimo?<br />
È chiaro che qui non stiamo parlando né di letture superficiali di Evola, né di sussidi occasionali,<br />
che questo, o quel libro può aver recato, in un momento ben preciso della nostra particolarissima<br />
esperienza esistenziale. Stiamo parlando di una conoscenza profonda e motivata dell’opera<br />
evoliana, quindi, della sua compatibilità con la dottrina del Cristianesimo. Occorre, insomma,<br />
superare una specie di giudizio di congruità dei reciproci fini e dei reciproci strumenti, a sostegno<br />
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delle rispettive tesi, cioè, occorre vedere se i fini e gli strumenti delle due filosofie (quella evoliana<br />
e quella cristiana) sono interscambiabili, nella giustezza delle intenzioni di fondo.<br />
Ecco: a me, questo progetto di osmosi dottrinaria risulta una “aberrazione”, poiché ne proverrebbe<br />
un vero e proprio “sproposito”. E tuttavia non sta certo a me dare una sentenza definitiva al nostro<br />
caso. Ci tengo però a chiarire qualche punto ancora, prima di chiudere quest’altra tornata di sana<br />
polemica intellettuale.<br />
Conosco Gianfranceschi e lo stimo molto. So di lui, della sua gioventù coraggiosa (al pari della<br />
Tua), del suo impegno trascorso da uomo di fede e di tradizione. Ovviamente, non discuto il suo<br />
cattolicesimo. Posso dirTi invece del mio cristianesimo, dell’ambiente nel quale sono cresciuto e<br />
sono stato educato; posso dirti dell’Azione cattolica, del Vittorioso, della Cresima e della Prima<br />
Comunione, che ancora rappresentano altrettante tappe della mia maturazione d’individuo e<br />
cittadino. Ebbene, da questa prospettiva, dalla prospettiva di una crescita civica, che ha segnato la<br />
mia esistenza fino al presente, nel senso di una educazione che non si può dire non cristiana, per<br />
quanto mi riguarda, io non solo non vedo Evola come un “avversario”, ma anzi lo considero un<br />
discreto alleato di battaglie. Ripeto ─ però ─ che la questione riguarda me, e me solamente, senza<br />
generalizzare. Perché, se dovessi generalizzare, dovrei dire che, a un certo punto della nostra vita, si<br />
abbandona la fase di crescita nel Cristianesimo e si continua a diventare “grandi” altrove, dato che,<br />
la nostra vita spirituale, all’interno del Cristianesimo, è come quella di un monaco nel suo<br />
monastero: bella, anzi bellissima, finché si rimane all’interno delle sue logiche, in estatica<br />
contemplazione della sua “regola”.<br />
Ma, basta di questo, dato che vi si affrontano problemi troppo complessi per essere liquidati con<br />
poche chiacchiere.<br />
Sta di fatto che non esiste possibilità di conciliazione tra la filosofia evoliana e il Cristianesimo, tra<br />
il cattolicismo di Evola e il cattolicesimo cristiano, che perseguono due itinerari contrastanti. Non si<br />
tratta, dunque, di trovare composizione tra Evola e la mia qualità di cristiano, quanto tra dottrina<br />
evoliana e dottrina cristiana!<br />
Insomma, tutte le esperienze personali, (la Tua, la mia, quella di Gianfranceschi) hanno ragioni da<br />
vendere a sapersi così e così determinate, anche in rapporto con il dato evoliano. Ma, non per<br />
questo, il dato evoliano può perdere le sue qualifiche di fondo, che lo caratterizzano per quello che<br />
è: di certo, non un avallo al Cristianesimo. E penso che la stessa cosa sia da dirsi con riguardo al<br />
Fascismo, che ognuno di noi avverte secondo la sua sensibilità particolare. Ebbene, chi può negare<br />
che, non appena richiesto, Evola abbia sempre mantenuto a distanza la politica fascista, considerata<br />
massificante e totalizzante, pur non negando simpatia per certi suoi esponenti?<br />
La cosa, a me, sembra abbastanza naturale. Non lo è, per altri interpreti evoliani, che si ostinano a<br />
farne un “razzista” (quando non addirittura un nazista), malgrado lo stesso Evola e ignorando le<br />
pesanti condizioni preposte dalla sua filosofia a occasionali accostamenti. Questo vale, tornando per<br />
un solo istante al suo rapporto col Cristianesimo, anche per la simpatia dimostrata nei riguardi dei<br />
Certosini, o di don Ignazio di Loyola.<br />
Un’ultima parola, a proposito della “concreta aspettativa di rinascita spirituale pubblica”, da Te<br />
vissuta al margine estremo dell’evento fascista. Se ne potrà parlare più diffusamente in una<br />
prossima conversazione, ma credo che Evola non sbagliasse nel vedervi la coerente evoluzione del<br />
fenomeno social-democratico. Specie nel momento finale, della RSI. A ogni buon conto, Tu parli di<br />
un’aspettativa, che dura tuttora. Non credo che sia cambiato gran che. E non credo nemmeno che,<br />
con il Fascismo, l’umanità potesse nutrire speranze diverse (e migliori) delle attuali.<br />
Dovremmo imparare a fare la pace con il nostro tempo!<br />
Per questo, la vita è tanto lunga!<br />
Un caro abbraccio dal Tuo “amico di penna”<br />
Gian Franco <strong>Lami</strong> Roma, 1.III.2008<br />
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Testo e firma autografi<br />
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