VITA D'UN UOMO - VIAGGI E LEZIONI - Città Nuova Editrice
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LIBRI <strong>Nuova</strong> Umanità<br />
XXIV (2002/6) 144, pp. 817-824<br />
GIUSEPPE UNGARETTI,<br />
“<strong>VITA</strong> D’UN <strong>UOMO</strong> - <strong>VIAGGI</strong> E <strong>LEZIONI</strong>” *<br />
Ungaretti non ha avuto in Italia tutti i riconoscimenti adeguati,<br />
mentre all’estero, anche senza premio Nobel, è stata sempre<br />
percepita la sua primaria grandezza. In Italia ha giocato certo la<br />
contrapposizione ideologica (non dichiarata ma schierata) della<br />
critica filomontaliana. Anche Montale è stato poeta grande in alcuni<br />
testi, ma non c’è paragone di parità possibile tra le due opere<br />
complessive; eppure la critica ideologica lo ha considerato “il”<br />
poeta italiano del secolo, mentre è, tra l’altro, ben più ottocentesco<br />
di Ungaretti; che invece, dai deserti e dai fermenti della sua vita<br />
e vicenda culturale – l’Egitto in cui nacque, la Francia fecondissima<br />
di novità del primo Novecento, la situazione “carsica” (materialmente<br />
e spiritualmente) della guerra, la vita inquieta e nomade<br />
in Europa e in America, l’infinito sperimentalismo metrico-linguistico,<br />
le sventure familiari, l’insegnamento universitario in Brasile<br />
e poi a Roma, l’incessante dolorosa-gioiosa giovinezza fino agli 82<br />
anni – si pone come esemplare navigatore novecentesco nelle tempeste<br />
della modernità in crisi, e come non rifiutabile compagno di<br />
viaggio di ogni uomo ilare o disperato, scettico o credente, appartenente<br />
a quest’epoca tormentata che viviamo e siamo.<br />
Quando perciò c’è un suo ritorno, tanto più in questo bel<br />
Meridiano Mondadori che unisce le prose di viaggio da tempo introvabili<br />
alle lezioni universitarie inedite, e praticamente completa,<br />
sotto il medesimo titolo Vita d’un uomo, l’intera opera (dopo<br />
le Poesie e i Saggi e interventi), non si può che esultare, e poi leg-<br />
* G. Ungaretti, Vita d’un uomo - Viaggi e lezioni, Mondadori, Milano 2000.
818<br />
Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo - Viaggi e lezioni<br />
gere e meditare con calma l’opera, non secondaria ma complementare,<br />
del più grande poeta italiano del secolo.<br />
Dalla cura amorosa di Paola Montefoschi abbiamo più di<br />
1.100 pagine di testo, circa 650 di introduzione e di apparati critici;<br />
senza dimenticare la bibliografia stesa dal giovane ricercatore<br />
Andrea Cortellessa, che contemporaneamente pubblica da Einaudi<br />
un bel saggio narrativo-critico sulla vita e l’opera del poeta (con<br />
qualche punto discutibile, com’è di ogni saggio vivo), unito a una<br />
preziosa videocassetta di materiali televisivi – Ungaretti racconta<br />
Ungaretti – che a sua volta si raccomanda per la nobile intensità<br />
del volto, delle parole, della verità umana del poeta, e per la rara<br />
discrezione degli autori che si limitano a didascalie, senza aggiungere<br />
una loro parola.<br />
Anche qui la “magia” di Ungaretti, al di là degli stereotipi da<br />
manuale scolastico, è di pronunciare «un grido unanime», come disse,<br />
e cioè di farsi tutto a tutti per vocazione irresistibile di essere<br />
poeticamente tutto: questa innocenza e quella straziante memoria<br />
(«innocenza» e «memoria», è lui a dircelo, sono i poli della sua poesia),<br />
questa esultante sensualità trillante come in un riso infantile e<br />
quell’ascetica e arida essenzialità che sfiora l’eterno senz’ombra di<br />
sentimentalismo e di “letteratura”; questa fede dura e ingenua e<br />
quello sgomento buio e quasi disincarnato di antica sibilla risuonante<br />
nel suo antro; questa letizia prodigiosamente festosa e quel dolore<br />
purissimo e insostenibile in cui si apre spazio per ogni desolazione e<br />
fin quasi alla negazione, echeggiata come tonfo d’anima e però non<br />
pronunciata, non ammessa all’altare delle labbra impietrite.<br />
Anima grande e vasta, sorprendente nelle sue pieghe ora tenui<br />
e sottili ora abissali, Ungaretti ci racconta terre e uomini e donne<br />
e atmosfere e viaggi nel mondo, e, nei suoi tanti viaggi, il viaggio<br />
essenziale attraverso il linguaggio, avventura primaria e decisiva e<br />
mai compiuta (questo è il suo sigillo di autenticità) della sua vitapoesia.<br />
Ed è doveroso notare che al poeta innovatore e al letterato<br />
squisito, di profonda e diramata cultura, si unisce sempre il filosofo,<br />
non di professione ma acutamente dotato, che illumina intellettualmente<br />
ciò che sente da artista, ami in posa professorale, e anche<br />
in questo modo affianca il cammino accidentato di ogni possibile,<br />
fraterno o estraneo, compagno di esistenza: sul Carso dove si sta
Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo - Viaggi e lezioni 819<br />
con le foglie autunnali e dovunque si condivide, volere o no, l’enorme<br />
pena e meraviglia e impresa del vivere, fino ad affidarsi, in<br />
estremo, alle «mani molto dolci» (ultima intervista) della morte.<br />
Per capire questa attitudine dialogante e contemplativa al tempo<br />
stesso, della prosa come della poesia, bisogna ricordare che per<br />
Ungaretti tutta la sua vita, come la poesia, è «un modo platonico di<br />
sentire le cose»; di sentirle cioè nella tensione altissima e necessariamente<br />
perdente (ove la sconfitta presente è garanzia di vittoria ora<br />
inapparente, ma flagrante nell’ultimo dell’anima) tra effimero ed<br />
eterno; scacco più necessario di ogni guadagno. Trasferendosi alla<br />
prosa, dopo il miracolo poetico del Porto sepolto e dell’Allegria,<br />
questa attitudine che è anche scommessa e scopo si distende nei<br />
modi composti del contemporaneo «ritorno all’ordine» aleggiante<br />
anche in letteratura dopo i furori avanguardistici del primo Novecento,<br />
ma continuando a vivere intimamente di accensioni, trasalimenti,<br />
fondi ascolti interiori; quel procedere non formalmente ma<br />
intimamente, essenzialmente, per frammenti e “schegge” e naufragi<br />
e relitti e rovine che Ungaretti unicamente assegna tanto a se stesso<br />
quanto al destino necessitato del poeta moderno, disperso e simultaneamente<br />
superstite del suo oceanico secolo (come il «lupo di mare»<br />
dell’Allegria di naufragi); anche perché «nella prosa – dice –, sta<br />
appollaiato il verso». Prosa e verso, dunque, si distinguono per occasione<br />
e clima d’anima, non per origine e destinazione, tantomeno<br />
per le paratie dei “generi letterari” ormai consunti e tramontati.<br />
Le prose di viaggio si collocano in quegli anni Trenta che, avverte<br />
la Montefoschi, sono il «periodo della profonda crisi europea<br />
tra le due guerre, in un presente che va incrinando nell’uomo<br />
occidentale la coscienza della propria individualità e appartenenza,<br />
del proprio rapporto con il mondo, con la tradizione, con il<br />
passato». In esso il girovago-nomade poeta del deserto e della<br />
realtà carsica dell’esistenza cerca nei frammenti la realtà unitaria<br />
ma non monolitica dell’Europa, che appunto è «un’unità, e lo è<br />
per il fatto stesso delle sue divisioni, perché, se la vita cessasse di<br />
essere drammatica non sarebbe più vita, non avrebbe più quella<br />
fecondità che stupisce i secoli».<br />
In questa «allegria di naufrago» culturale Ungaretti è sostenuto<br />
da una sua concezione utilmente estremistica della storia, che da
820<br />
Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo - Viaggi e lezioni<br />
una parte si presenta drasticamente come pura dissolvenza di tutto,<br />
dall’altra come autotrascendenza nella memoria e nella parola; in<br />
cui ritornano i due poli, del nulla originario ed essenziale, cui corrisponde<br />
umanamente l’«innocenza», e del qualcosa che si distilla e<br />
si perpetua nei secoli come «memoria». La ricerca di un «paese innocente»,<br />
come aveva detto nei suoi primi versi, induce Ungaretti<br />
continuamente tanto a contemplare la purezza dell’origine (essendo<br />
la poesia «quel mestiere perduto che ogni generazione ha da riimparare<br />
frugando la memoria di un lontanissimo Eden») quanto a<br />
fissare nel buio lo sguardo, come dirà, sull’«arido fiume» della<br />
morte. Una tale ampiezza culturale-spirituale è, nel Novecento, di<br />
pochissimi. Per convincersene basta leggere, ad esempio, non una<br />
frase ma una folgore – scoccata tra natura e storia – come questa:<br />
«Nel fondo di quale smemoratezza mi getta, quel ricordo?».<br />
Il viaggio dei viaggi, in ogni suo itinerario fisico e culturale e<br />
spirituale, è dunque quello dentro e attraverso il linguaggio. Ungaretti<br />
ne è consapevole fino al parossismo della tensione più dolorosa,<br />
ma anche fino alla luce e all’esultanza. Il rimbaudiano<br />
«trouver une langue» è sua bandiera, nella mediazione dei maestri<br />
Mallarmé e Apollinaire, e sventola nelle righe di prosa come<br />
un alito che non consente solidificazione; che ispira a vedere nell’ora<br />
più infuocata «l’ora di notte del deserto» perché in essa tutto<br />
svanisce nella «luce che sottrae ogni cosa a se stessa», o ad<br />
esclamare: «Alta, fresca mattina, dondolante come una palma»; e<br />
ad ammonire che «l’uomo oggi non è più all’altezza della natura,<br />
e gli va gridato di tornare alla sua dignità. E che vale prolungarsi<br />
e moltiplicarsi all’infinito le dita, mettersi le ali, vedere e udire come<br />
gli spiriti impalpabili, se tutti i progressi fatali del sapere tendono<br />
temerariamente a separarci dall’anima?»; e a trovare in<br />
Elea, culla della filosofia, «la coscienza d’una forma perfetta della<br />
materia guarita» (alludendo a Parmenide); a patire in Paestum la<br />
forza dei templi «che vediamo crescere, dominare, farsi arida, tremenda,<br />
disumana, e farsi pura idea via via che ci avviciniamo».<br />
Questa sua intera mobilità d’anima e di parola lo conduce a<br />
una libertà «da uomo a uomo» anche davanti ai grandissimi, come<br />
in queste mirabili occhiate su Rembrandt: «Aveva accumulato nella<br />
sua casa ogni specie di materia. Codici miniati, e abracadabra male-
Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo - Viaggi e lezioni 821<br />
detti, pietre, conchiglie, armi dei paesi lontani dove andavano i suoi<br />
concittadini colonizzatori; aveva con sé corazze, provviste di aringhe<br />
affumicate che con le loro squame gli riaccendevano nella memoria<br />
il più vario screpolarsi d’ori solari, piume, velluti, sete, legni<br />
rari. E quando dipingeva, in quel suo modo che gradua da un punto,<br />
un sovrapporsi di luci dentro un roteare dell’ombra – i tesori e<br />
il bricabrac accatastati nella sua casa, li consultava prima di fare la<br />
sintesi della sua disperazione. Anche quando glieli ebbero dispersi<br />
nella vendita all’asta, le mani si tuffavano per effetto di memoria<br />
nelle casse, si colmavano della loro memoria».<br />
E poi il Brasile dell’insegnamento universitario, e, molto<br />
più, di esperienze drammatiche essenziali (culminate nella morte<br />
straziante del figlio Antonietto poi evocata ne Il dolore): «Ho capito<br />
in Brasile chiaramente il valore di urto che era nel Barocco, e<br />
perché tra innocenza e memoria e tra natura e ragione l’incontro<br />
dovesse sempre manifestarsi violento, e l’ho capito, devo riconoscerlo,<br />
più contemplandone il cielo e il paesaggio, viaggiandoci e<br />
leggendone gli scrittori, più conoscendovi, in quei luoghi, in quel<br />
quadro, faccia a faccia la Morte mentre infuriava inesorabile sulla<br />
creatura umana che mi era più cara, che ammirandone le chiese<br />
(…) nella sua terra è sepolta la parte più pura di me».<br />
Le 600 pagine di lezioni universitarie, brasiliane e italiane, ci<br />
offrono un’altra peripezia, anch’essa sotto il segno del viaggio supremo<br />
e quintessenziale, come s’è detto, nel linguaggio; l’itinerario<br />
storico-poetico dell’uomo Ungaretti alla ricerca mite e ostinata<br />
del “canto”, da non confondersi ovviamente con nessuna cantabilità<br />
o musicalità estrinseca o virtuosistica del fare letterariopoetico<br />
(pur con tutta la squisita dottrina metrica sciorinata); da<br />
cercare invece nella profondità affiorante del linguaggio stesso<br />
quando si compone il meglio possibile nella «pura forma avversa<br />
al nulla», soprattutto degli amatissimi Petrarca e Leopardi, sulla<br />
cui onda lunga si sente anche lui navigare. Ma dobbiamo tener<br />
presente che il poeta e dunque anche il critico Ungaretti ha sempre<br />
l’esatta consapevolezza della frammentarietà necessaria della<br />
poesia moderna («Noi che non percepiamo le mutazioni della<br />
realtà, per la fretta eccessiva nella quale esse oggi avvengono fuori<br />
e dentro di noi, se non per minime particole di frammenti, non
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Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo - Viaggi e lezioni<br />
possiamo, se osiamo ancora scrivere poesia, se non ricorrere a<br />
espressioni mutile»); e che perciò la sua lettura dei grandi all’origine<br />
(Petrarca) o al punto critico della modernità (Leopardi) non<br />
può che essere la lettura di un moderno, anzi di un ulteriore, quasi<br />
di un postero rispetto all’arco della loro intera parabola; uno<br />
che legge, cioè, dopo il naufragio della coscienza europea.<br />
Ciò lo rende sensibilissimo alle radici remote e prossime della<br />
modernità stessa, e infatti sia su Petrarca che sul Seicento («Secolo<br />
del nulla del mondo») e sul Barocco, incubatori del Romanticismo,<br />
le sue intuizioni sono penetranti e fecondissime per la capacità di<br />
connettere il presente alle sue matrici storiche; e persino esistenziali-storiche,<br />
quando confessa di aver capito il Barocco in Brasile, come<br />
già detto, dopo averlo drammaticamente incontrato e poi riscontrato<br />
nella sua seconda stagione poetica a Roma. Il Barocco è<br />
l’altro polo rispetto al deserto, lo nega e lo imita a rovescio nella<br />
sua pienezza nullificante. Così pure il Decadentismo perde per lui<br />
la sua orgogliosa autonomia (pericolosamente sporta nel vuoto) per<br />
rivelarsi, più dolorosamente ma anche più concretamente, «tappa<br />
dell’agonia» del Romanticismo; e permettere perciò, a posteriori,<br />
una comprensione di Leopardi di grande apertura e ampiezza novecentesca.<br />
Dice infatti Ungaretti che Leopardi «era un Romantico,<br />
come lo siamo ancora noi» e che «la novità del suo discorso è d’una<br />
misura così vasta perché tocca le radici stesse non dico d’una civiltà,<br />
ma della civiltà»: ecco reciprocamente illuminati il grande Recanatese<br />
e la crisi della modernità, richiamata oltretutto alla sua radice<br />
religiosa: «Certo egli era un cristiano, come, lo vogliamo o no,<br />
tutti gli uomini da duemil’anni lo sono, poiché tanta rivelazione<br />
non può avere folgorato invano la carne più segreta e nobile dello<br />
spirito umano: era un cristiano, ma non osava convincersi che le<br />
sue aspirazioni miravano a quella bellezza intatta dell’era edenica,<br />
prima che tutta la natura dell’universo decadesse, per disgraziata<br />
volontà umana, e divenisse inferma, corrotta e moritura».<br />
Meno convincente e più legato alle proprie costanti, non<br />
tanto culturali quanto esistenziali e di inclinazione e affinità poetica,<br />
Ungaretti diventa quando parla di Medioevo, di Jacopone, di<br />
Dante, di Manzoni, temi nei quali la sua indole e la sua storia di<br />
artista fanno involontariamente prepotenza su differenze sentite
Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo - Viaggi e lezioni 823<br />
spesso come distanze; e però non posso non notare che la poesia<br />
di Ungaretti, specie quella “carsica”, e quanto le assomiglia poi<br />
nel prosieguo, fino alle ultime pagine, ha spesso una facies interiore,<br />
segnalata dall’asciutta e tagliente emergenza verbale, ben più<br />
“dantesca” che “petrarchiana”, al di là, ovviamente, di superficiali<br />
confronti sui modelli espressivi. Ma anche questo fa parte di<br />
quel segreto del poeta tante volte richiamato da Ungaretti, che,<br />
perché veramente tale, è e deve restare ignoto a lui stesso.<br />
Uno splendido Ungaretti critico e didatta lo troviamo – oltre<br />
che nelle grandi lezioni di Petrarca e specialmente, come detto, su<br />
Leopardi – all’ascolto (perché è lì la prima e fondante grandezza di<br />
Ungaretti, nell’ampiezza dell’ascolto) della lingua come storia della<br />
poesia e poesia essa stessa; e in particolare di quella italiana da lui ritenuta,<br />
e non per nazionalismo, specialmente poetica. Conviene citare.<br />
Dice il professore “brasiliano” in una Definizione dell’Umanesimo<br />
(1937): «Quando uno di noi voglia affrontare lo studio d’una<br />
letteratura, sa che tutti i problemi che egli avrà da risolvere, si riassumono<br />
in uno: quello della lingua». Ed è folgorante. La lingua, come<br />
già diceva il suo contemporaneo T.S. Eliot, ha un’indole, un genio,<br />
e Ungaretti dice «uno spirito», che necessariamente ha una storia,<br />
una vicenda universale-particolare nell’opera dei poeti; e che,<br />
parlando un linguaggio estremamente “sintetico”, «raccoglie tante<br />
cose che sono nell’aria», del passato, del presente, di se stessa come<br />
creazione o invenzione, e perciò non può non essere, tanto più nella<br />
crisi-agonia, “ermetica”, cioè da interpretare.<br />
Il lettore perciò ha un compito tanto diverso quanto anch’esso<br />
impegnativo, rispetto allo scrittore; è chiamato dentro la<br />
vicenda linguistico-poetica a interpretarla, a farsene quindi attore<br />
e responsabile. Ciò in modo tutto speciale e particolare avviene<br />
nella lingua italiana, che Ungaretti sente supremamente plastica e<br />
libera («l’italiano si muove perché s’è costruito e perché ha da ricostruirsi»),<br />
più del francese che è “specchio” quasi intemporale;<br />
«c’è dunque nell’italiano una libertà che porta ogni suo scrittore a<br />
doversi costruire daccapo la propria lingua, ed è dunque lingua la<br />
sua, d’una tradizione che per ciascuno scrittore dovrà per essere,<br />
essere sostanziale». Essendo fin dalle origini lingua della «memoria»,<br />
carica di passato e mossa dall’energia della trasformazione
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Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo - Viaggi e lezioni<br />
culturale, l’italiano vide fallire anche il tentativo generoso ma ingenuo<br />
e molto “francese” di Manzoni, di creare un modello linguistico<br />
definitivo. «Dopo il Manzoni, quando uno scrittore italiano<br />
ha voluto essere grande, ha dovuto fare come i suoi predecessori,<br />
sentirsi cioè antico, antico perché discendente d’un illustre<br />
popolo; e nuovo – come non pensare, noi, allo stesso Ungaretti<br />
e, per fare un esempio diversissimo ma di paragonabile altezza,<br />
a Gadda? –; e questa necessità per lo scrittore italiano di sentirsi<br />
nuovo è tale che se non la provasse, la sua eredità non gli servirebbe<br />
a nulla, e anzi di più, non ne sarebbe nemmeno l’erede».<br />
Qui c’è una freschezza critica che equivale l’invenzione linguistica<br />
del poeta: Ungaretti si muove sulla cresta dell’onda come<br />
il perenne naufrago che è, senza fingere la sicurezza della nave e<br />
senza d’altra parte affondare. «Petrarca – insiste – ha scoperto<br />
che la lingua italiana era platonica, che la sua forza era nella forma,<br />
ch’era una lingua che poteva dare corpo, bellezza immortale<br />
al mondo diventato memoria». Siamo ai vertici dell’acume ungarettiano,<br />
nutrito, come sempre, di presenza poetica; e, più che<br />
continuare noi ad analizzare pagine e riflessioni e intuizioni, mi<br />
sembra che convenga lasciare all’autore stesso l’onore di presentarsi<br />
a chiudere questa recensione adornandola con un inno alla<br />
nostra lingua, che, se pure impugnabile e discutibile per l’intransigenza<br />
dell’amore da cui nasce, ha il merito onorevole di combattere<br />
una battaglia che oggi sembra perduta, e quello certamente<br />
non scaduto di gettare luce vivissima sulla poesia di Ungaretti,<br />
vista come canto della lingua, linguaggio storico-individuale che<br />
rivela nel suo crocevia storico un’occasione spirituale ineludibile<br />
e preziosa: «Ogni lingua immedesima la memoria: qui sta anzi l’origine<br />
stessa del linguaggio. Ma nessuna lingua, salvo l’italiano, è<br />
nata con questo crisma poetico: che cioè solo le forme della parola<br />
erano realtà, ch’esse erano la sola realtà concreta nel mondo<br />
poiché esse solo erano realtà umana, erano corpo vero dello spirito<br />
umano, poiché creato interamente dall’uomo: esse sole potevano<br />
dare all’uomo l’illusione di creare come Dio. L’italiano ha dato<br />
questo valore d’assoluto alla forma poetica, e solo l’italiano».<br />
GIOVANNI CASOLI