periodico quadrimestrale di cultura della montagna anno 15 n. 2 ...

PARCO
ANNO 15 N. 2 AGOSTO 2011
PERIODICO QUADRIMESTRALE DI CULTURA DELLA MONTAGNA

“...Scopo dei parchi è la tutela delle caratteristiche
naturali e ambientali, la promozione dello
studio scientifi co e l’uso sociale dei beni ambientali...”
(art. 1 legge Prov.le n° 18/1988 e ss. m.)
1
3
5
8
12
14
17
21
22
24
26
29
32
34
36
38
39
40
44
47
48
Sommario n. 2 - Agosto 2011
Parco Adamello Brenta
Sede dell’Ente e Redazione - Via Nazionale, 24
Strembo (TN) - tel. 0465.806666 - fax 0465.806699
www.pnab.it - info@pnab.it
Come ricevere questa rivista
Il periodico è inviato gratuitamente
a tutte le famiglie dei Comuni del Parco,
agli enti, alle associazioni e ai collaboratori.
Sottoscrivendo un abbonamento
di Euro 8,00 da versare sul c.c. postale
n. 15351380 (specifi cando la causale
del versamento) intestato a:
Parco Naturale Adamello Brenta
via Nazionale, 24
38080 Strembo (Trento)
I primi mesi alla guida del Parco
di Roberto Zoanetti - Direttore Pnab
Verso il nuovo Piano di Parco
di Matteo Viviani e Valentina Maestranzi - Uff. Ambiente Pnab
I cento anni delle Guide Alpine di Madonna di Campiglio
di Matteo Ciaghi
Cent’anni fa: Paul Preuss e la est del Campanil Basso
a cura di Andrea Mustoni - Uff. Faunistico Pnab
Un patto per l’Adamello
di Ilaria Rigatti - Uff. Comunicazione Pnab
Carlo Magno tra storia e leggenda
di Luciano Imperadori
Una Villa tra le “Montagne”
di Ennio Lappi
Storia di un paesaggio
di Alberta Voltolini
L’indipendenza energetica del Rifugio San Giuliano
di Emilio Mosca
Tecnologia al servizio della natura
di Giulia Benatti
La pernice bianca. La signora delle nevi
a cura Uff. Faunistico Pnab
Il progetto “Frame”
di Daniel Spitale
La valorizzazione della Val Meledrio
a cura dell’Associazione culturale “Quei del Filò” di Dimaro
“Foglia sull’acqua”
a cura dell’Azienda Consorziale Terme di Comano
L’antico mercato di San Pangrazio
di Vittorio Nardon
L’esperienza di giovani guardie ecologiche in Val Genova
di Elio Caola
Correva l’anno… 1975
di Gianluigi Guerra
Milindy Costa Ghedina, signora della Val d’Algone
di Chiara Grassi - Uff. Comunicazione Pnab
Alla scoperta di un mistero
a cura di Chiara Grassi - Uff. Comunicazione Pnab
“Qualità Parco” un Progetto di alleanza con il territorio
di Catia Hvala - Uff. Comunicazione Pnab
Con la ParcoCard, le chiavi del parco
di Catia Hvala - Uff. Comunicazione Pnab
Adamello Brenta Parco
quadrimestrale
del Parco Adamello Brenta
Autorizzazione del Tribunale di Trento
n. 670 Aprile 1997
Edizioni
Direttore responsabile
Alberta Voltolini
Comitato di Redazione
Roberto Bombarda, Egidio Bonapace
Clara Campestrini, Antonio Caola
Matteo Ciaghi, Chiara Grassi
Rosanna Pezzi, Alberta Voltolini
Roberto Zoanetti
Hanno collaborato a questo numero
Associazione culturale “Quei del Filò”,
Azienda Consorziale Terme di Comano,
Elio Caola, Giulia Benatti, Festival Mistero
dei Monti, Chiara Grassi, Gianluigi Guerra,
Catia Havala, Luciano Imperadori,
Ennio Lappi, Valentina Maestranzi,
Emilio Mosca, Andrea Mustoni,
Vittorio Nardon, Ilaria Rigatti, Daniel Spitale,
Ufficio Comunicazione del Pnab,
Ufficio Faunistico del Pnab, Matteo Viviani,
Giacobbe Zortea
Fotografie di:
Arch. Pnab, pagg. 1, 12, 18, 19, 31;
F. Maestri, pag. 2; T. Martini, pag. 4;
A. Campanile, pag. 6; Michele Zeni, pag. 7, 26;
G. Alberti, pagg. 9, 12, 13;
D. Dogu, pag. 10; Mirco Viviani, pagg. 17, 20;
L. Imperadori, pagg. 14, 15, 16
E. Mosca, pag. 22; A. Mustoni, pag. 27;
G. Benatti, pagg. 24, 25; D. Spitale, pagg. 29, 30
Associazione culturale “Quei del Filò”, pagg. 32, 33
Terme di Comano, pagg. 34, 35
G. Guerra, pag. 39
Famiglia Ghedina, pagg. 40, 42, 43;
Uff. Faunistico Pnab, pag. 28
La foto di copertina:
Omaggio ai 100 anni
delle Guide Alpine di Madonna di Campiglio
Sotto il Campanil Basso (Archivio Storico della Sat)
Progetto grafico
Studio Grassi&Associati - Alberto Marangoni
Impaginazione e stampa:
Litografica Editrice Saturnia
azienda certificata FSC SA-COC-002406
Il marchio FSC ® identifica i prodotti contenenti
legno proveniente da foreste gestite in maniera
corretta e responsabile secondo rigorosi standard
ambientali, sociali ed economici.

Sono passati più di sei mesi da
quando, lo scorso mese di
dicembre, su incarico della
Giunta del Parco Naturale Adamello
Brenta, ho assunto l’incarico
a tempo parziale di Direttore
sostituto dell’Ente Parco fino
all’espletamento delle procedure
necessarie per la nomina del
nuovo Direttore.
Quest’ultima è avvenuta a metà
giugno, quando il Comitato di
gestione mi ha affidato il compito
di dirigere il Parco per la
durata di cinque anni, fino al
2016. Professionalmente provengo
dal mondo forestale trentino,
nell’ambito del quale ho
maturato il percorso lavorativo
che mi ha condotto a Strembo.
Dal 1989, prima al Servizio Parchi
e successivamente all’Ufficio
Distrettuale delle Foreste di
Tione della Provincia Autonoma
di Trento, ho contribuito, per le
competenze riconosciute al
ruolo che ho ricoperto, alla
gestione di quell’immenso patrimonio
ambientale costituito
dalle nostre foreste e dai nostri
ambienti montani.
Dal mondo forestale molto ho
imparato: a livello istituzionale
il rispetto per le nostre organizzazioni
democratiche e per tutte
le loro espressioni territoriali; a
livello professionale, dal collega
più anziano, i fondamenti “naturalistici”
della selvicoltura trentina,
dal collega più giovane le
potenzialità e l’utilità del web,
dall’esperto operaio la nascosta
tessitura del “muro a secco”;
ADAMELLO BRENTA
I PRIMI MESI
ALLA GUIDA DEL PARCO
di Roberto Zoanetti - Direttore Pnab
Roberto Zoanetti, nuovo direttore del Parco.
infine, a livello umano, l’importanza
assoluta di sentirsi parte di
un gruppo e di un progetto.
L’esperienza di lavoro ha sicuramente
completato e dato un
senso vivo alla preparazione
precedentemente derivata dagli
studi universitari.
E per il prossimo futuro lavorerò
e mi impegnerò per il “Progetto
Parco”.
Le responsabilità tecniche e
1
amministrative legate al ruolo di
Direttore del Parco, che necessariamente
coinvolgono aspetti
e settori per me nuovi, non
potranno che essere portate
avanti, così è fatto l’uomo, nel
solco di una continuità di atteggiamenti.
L’istituzione Parco è una realtà
complessa che declina tutta una
serie di competenze – amministrative,
urbanistiche, legate

all’educazione ambientale, promozionali
del territorio e dello
sviluppo sociale, legate alla
qualità – che si concretizzano in
una molteplicità di attività che
devono avere un comune denominatore:
il rispetto dell’ambiente
e la promozione a 360°
delle tematiche ambientali.
Se è vero che dal 1988, anno
d’istituzione dell’Ente, fino ad
oggi, molto è stato fatto e che
in particolare negli ultimi anni,
grazie anche al lavoro e alla
spinta di chi mi ha preceduto, il
Parco si è dotato di un macchina
amministrativa efficiente, con
taluni settori di intervento riconosciuti
di eccellenza nel panorama
delle aree protette italiane,
è altrettanto vero che molto
resta da fare, soprattutto nel
campo del riconoscimento, “in
patria”, del ruolo dell’Ente da
parte degli altri attori del territorio
e in riferimento all’importanza,
se non all’orgoglio, di
essere Parco.
È un processo necessariamente
lungo che conosce momenti di
avanzamento e momenti di stasi
(se non riflusso), ma verso cui si
deve tendere.
L’obiettivo finale, rispetto al
quale, se non fosse raggiunto, il
Parco potrebbe essere conside-
Carè Alto, laghetto dei Pozzoni di Lares.
ADAMELLO BRENTA
rato un semplice strumento
amministrativo, coincide con la
diffusione e la condivisione
piena dell’etica della sostenibilità
e dell’uso consapevole
delle risorse naturali.
Dal riconoscimento europeo del
valore naturalistico del nostro
territorio, inserito nella grande
Rete Natura 2000 scaturisce,
quasi inaspettatamente, la conferma
che la vera Conservazione
non può essere affidata solo a
norme, piani e delibere, ma si
concretizza veramente nel
momento in cui viene garantita
la perpetuazione delle attività
tradizionali legate al territorio e
la crescita di quelle iniziative,
vedi il turismo sostenibile, che
affiancano alla fruizione del territorio
la crescita della consapevolezza
ambientale e culturale
del fruitore medesimo.
Proseguendo in questa direzione
le potenzialità dell’Ente troveranno
piena attuazione:
il Parco sarà allora vera opportunità
che, grazie ai finanziamenti
specifici dell’Ente Provinciale
e alle capacità di autofinanziamento,
offrirà risposte
anche alle attese sociali ed economiche
degli attori del territorio;
sarà vero laboratorio dove
sperimentare nuove iniziative
2
che potrebbero essere replicate
nella restante parte del territorio.
Nel medio periodo il programmato
completamento della revisione
del Piano del Parco costituirà
un importante banco di
prova e di concretizzazione di
quanto sopra illustrato.
Nei primi sei mesi dell’anno, i
numerosi incontri avuti con le
altre realtà amministrative
hanno permesso di verificare
come nella generalità dei casi i
principi legati alla consapevolezza
ambientale siano ormai un
bagaglio culturale che va ben
oltre l’esistenza del Parco. La
stessa diffusa percezione del
grande valore dei nostri paesaggi
consentirà di legare i paesaggi
stessi, e le attività connesse al
loro mantenimento o miglioramento,
ai meno immediati concetti
riferiti biodiversità.
Dovremmo così riuscire a costruire
un nuovo Piano nel quale
puntuali e ben definite e giustificate,
per motivi faunistici o floristici,
“zone di protezione” si
troveranno inserite in un quadro
territoriale più generalmente
caratterizzato da vaste “aree di
conservazione” che non escludano,
ma anzi richiedano il perpetuarsi
della attività dell’uomo.
■

È passato attraverso la concertazione
con i 39 consigli comunali
dell’area protetta e i direttivi
delle Asuc e della Comunità
delle Regole di Spinale Manez,
la Revisione del Piano del Parco
(Pdp) Naturale Adamello Brenta
attualmente in corso di definizione.
La proposta tecnica del
Piano è stata infatti presentata in
incontri specifici con le amministrazioni
locali e proprietarie, al
fine di raccogliere eventuali
contributi preliminari.
Il presidente del Parco Antonio
Caola, il direttore Roberto Zoanetti
e gli assessori di Giunta
competenti per la zona, hanno
incontrato i vari consigli comunali.
Presenti agli incontri anche
i tecnici del Parco Matteo Viviani
e Valentina Maestranzi che
hanno illustrato i contenuti del
Piano territoriale e del Piano del
paesaggio.
Il Piano Territoriale è il documento
che stabilisce le misure
di conservazione e di tutela attiva
degli habitat, le norme di
attuazione e la conseguente
zonizzazione, cioè i confini
delle riserve integrali, controllate
e guidate oltre che le riserve
speciali. A seconda delle emergenze
ambientali, le misure di
tutela attiva e passiva sono elaborate
in specifici Piani d’azione.
Il Piano del paesaggio si propone,
invece, di avviare un processo
di conoscenza e valorizzazione
del patrimonio paesaggistico
del Parco stabilendone anche il
ADAMELLO BRENTA
VERSO IL NUOVO
PIANO DI PARCO
di Matteo Viviani e Valentina Maestranzi - Uff. Ambientale Pnab
L’incontro con il consiglio comunale di Pinzolo.
valore economico dei paesaggi
dell’Adamello-Brenta.
Recependo e anticipando il dettato
dell’art. 43 della Legge provinciale
23 maggio 2007 n. 11
“Governo del territorio forestale
e montano, dei corsi d’acqua e
delle aree protette”, che stabilisce
nel dettaglio i contenuti del
Piano e ne consente l’approvazione
anche per stralci, il processo
di revisione è stato interpretato
come successione articolata
di passaggi, tra loro distinti
e autonomi, ma coerenti e saldamente
convergenti alla medesima
meta.
Un passo indietro per capire
meglio. Il primo Piano del Parco
Naturale Adamello Brenta è
stato approvato nel 1999. Poi,
nel corso dell’ultimo decennio,
tre Varianti, datate 2004, 2007 e
3
2009, hanno introdotto alcune
modifiche tecniche e cartografiche
e sincronizzato il Piano del
Parco con il modificato Piano
urbanistico provinciale (Pup)
del 2008. Oggi, passati più di
dieci anni, la norma stessa del
Pdp impone la Revisione del
Piano che deve recepire le novità
della Direttiva europea “Habitat”
e della Legge provinciale
23 maggio 2007 n. 11 “Governo
del territorio forestale e montano,
dei corsi d’acqua e delle
aree protette”. Soprattutto, a
distanza di dieci anni dal primo
Piano, c’è l’esigenza di verificare
lo stato di salute del Parco, di
capire se le problematiche
ambientali sono mutate e se, di
conseguenza, le attuali misure
di conservazione sono appropriate.
In particolare, attraverso

il Piano territoriale, si intende
riorganizzare, in un quadro
organico, i numerosi elementi
conoscitivi, i monitoraggi e gli
studi elaborati negli ultimi anni,
riesaminando le scelte fatte nel
1999 e introducendo, ove ritenuto
necessario, modifiche e
cambiamenti.
Adottato, a dicembre 2009 dal
Comitato di Gestione del Pnab,
il Piano strategico, documentopreliminare
che definisce ruolo
e obiettivi del Parco per i prossimi
10 anni, la Revisione del
Piano di Parco proseguirà nel
2011 con la conclusione degli
elaborati del Piano territoriale,
del Piano del paesaggio e del
Piano socio-economico e l’inizio
dei rispettivi iter di approvazione.
Il Piano Fauna si inserisce
in questa struttura alla luce
della sua recente revisione ultimata
nel 2007.
Si proseguirà, poi, con i successivi
piani d’azione, divisi per
settori (ad esempio il Piano
malghe) e aree omogenee
(Riserve Speciali ed Ambiti di
Particolare Interesse) con
l’obiettivo di individuare specifiche
misure di valorizzazione e
conservazione.
Il passaggio in tutti i consigli
comunali è la promessa mantenuta
del presidente Antonio
Caola di voler coinvolgere la
gente del Parco e di voler dare
attuazione ad un percorso di riavvicinamento
tra l’Ente con
sede a Strembo e le comunità di
riferimento. “La Revisione sarà
il frutto di un percorso partecipato
– ha affermato Caola a
Caderzone Terme al primo
incontro tenuto il 31 gennaio –
che vorremmo portasse ad una
comprensione definitiva del
Parco come valore aggiunto per
il territorio”.
La decisione di passare in rasse-
ADAMELLO BRENTA
gna tutti i 39 comuni del Parco
ha caricato di impegno Presidente,
Direttore, membri di
Giunta e tecnici, ma lo sforzo
ha portato grande soddisfazione.
Si sono tenuti ben 23 riunioni
durante le quali sono stati incontrati
36 comuni, 11 Asuc, la
Comunità delle Regole di Spinale
e Manez, e le 4 Comunità
di valle coinvolte.
Ovunque le intenzioni del Parco
di stimolare un confronto sono
state molto apprezzate e i presenti
hanno avuto modo di sciogliere
eventuali dubbi.
Le riunioni hanno quindi permesso
di aumentare la consapevolezza
degli amministratori
4
locali di vivere in un’area protetta.
“La partecipazione della popolazione
è un elemento fondamentale
di questo Piano che,
non a caso, è stato denominato
“Piano del Parco e della sua
Gente,” ha affermato Caola,
aggiungendo che “in particolare
in un territorio che presenta una
ricettività turistica e agrituristica
spiccata e un legame strettissimo
con le risorse naturali ci si
deve rendere conto di quanto la
presenza di un’area protetta
possa essere un’opportunità da
sfruttare anche dal punto di
vista socio-economico”.
■

«La formazione della ''Società
Soccorso'' con sede in Campiglio,
in conformità al presente
statuto in base al §7 della legge
sulle associazioni del 15 Novembre
1867, non viene vietata».
Innsbruck, li 24 ottobre 1911.
È con questa certificazione che
la “Società Soccorso” tra le
guide e portatori di Madonna di
Campiglio viene legittimata,
dalla Luogotenenza pel Tirolo e
Vorarlberg, a svolgere la propria
attività con lo scopo «di aiutare
con sussidi in caso di malattia e
infortunio, di mantenere ed
accrescere lo spirito collegiale,
l'ordine e l'armonia fra le guide,
di promuovere l'istruzione delle
stesse e di migliorare il servizio».
A firmare il sodalizio
risultano le guide Angelo Alimonta,
Ernesto Alimonta,
Antonio Dallagiacoma senior,
Antonio Dallagiacoma junior,
Remigio Gasperi, Romedio
Polla, Gustavo Vidi, Rinaldo
Vidi; e i portatori: Giovanni
Caola, Quintilio Dallagiacoma,
Angelo Rigoni.
I promotori dell'iniziativa
associativa cercano, in questo
modo, di ritrovare quella
“armonia tra le guide”, scemata
dopo i litigi nati nella antecedente
Società “La Fratellanza”
tra le guide e i portatori
di Rendena, fondata a
Pinzolo nel 1903, e dalla quale
i Dallagiacoma, Remigio
Gasperi e Angelo Spalla ave-
ADAMELLO BRENTA
I CENTO ANNI DELLE
GUIDE ALPINE DI
MADONNA DI CAMPIGLIO
di Matteo Ciaghi
Le prime Guide Alpine di Madonna di Campiglio.
Ritratto di Antonio Dallagiacoma “Lusion”.
vano dato le dimissioni già nel
1905. Ma se oggi è importante
festeggiare il Centenario della
nascita della “Società Soccorso”,
non va dimenticato che il
5
mestiere di guida alpina ha
origini ben più remote. Infatti,
ancora nel 1821, a Chamonix,
era stata costituita ufficialmente
la prima società di guide alpine
al mondo. Ma questa professione,
già assunta allora nel suo
moderno significato, ebbe inizio
ancora qualche anno prima,
ossia del 1786: anno in cui era
stato conquistato il Monte Bianco.
La conquista del “Tetto
d’Europa” richiamò sulle Alpi e
sulle Dolomiti scienziati, esploratori
e molti curiosi. I più
erano nobili e ricchi, provenienti
dalla Germania, dall’Inghilterra
e dall’Italia; erano carichi
di entusiasmo e di coraggio, ma
non sempre conoscevano le
insidie delle montagne che
volevano esplorare.

I primi esploratori, arrivati
anche nelle nostre vallate trentine,
e particolarmente in Giudicarie,
scelsero i cacciatori più
esperti e più coraggiosi perché
conoscevano ogni sentiero, ogni
anfratto, ogni canalone, ogni
aspetto delle montagne: queste
loro doti divennero l’unico
punto di riferimento al quale
affidarsi con sicurezza. Questi
montanari – “agili come camosci,
forti come gli orsi e liberi
come le aquile” – furono ingaggiati
soprattutto come portatori
di zaini e provvigioni, nonché
per farsi indicare la strada più
agevole e per avere un punto di
appoggio per conquistare le
vette inviolate. Ma la straordinaria
conoscenza dei luoghi di
questi valligiani si perdeva laddove
vi era un ghiacciaio o una
parete verticale, ed in quel
tempo l’uso della corda e della
piccozza non era dai più contemplato.
Così John Ball nel 1864 si fa
accompagnare da Bonifacio
Nicolussi per attraversare da est
a ovest, primo tra tutti, il gruppo
delle dolomiti superando Bocca
di Brenta. Julius Payer, nello
stesso anno, costretto a soggiornare
a Pinzolo all’albergo
Aquila Nera per alcuni giorni
per riprendersi da una distorsione
al piede, nel settembre
del 1864 trova in Luigi Fantoma,
Giovanni Catturani e
Gerolamo Botteri i suoi “validi”
compagni per conquistare
l’Adamello; mentre Douglas
William Freshfield con Walker,
Beachcroft e Devouassoud
arruola Bortolo Delpero per
espugnare la Presanella.
Di fatto possiamo, quindi,
ritenere che il mestiere di
guida fosse già nato anche
nelle nostre terre con queste
prime esplorazioni; ma biso-
ADAMELLO BRENTA
gna aspettare il “Regolamento
per le Guide di Montagna”,
emanato nel 1871 dalla Luogotenenza
di Innsbruck, per
vedere regolarizzata la professione
della “Guida Alpina”.
“Tredici nel 1875, sedici nel
1877, trentotto nel 1881, cinquantaquattro
nel 1886. È
un’escalation inarrestabile,
quella del numero delle guide
alpine patentate del Trentino”
si legge nell'annuario Sat del
1886. Una crescita costante,
accompagnata e assistita, anno
dopo anno, dalla SAT – (Società
Alpina del Trentino divenuta
nel luglio 1877 Società degli
6
Silvio Agostini.
Le rocce del Brenta e il Campanil
Basso.
Il Crozzon di Brenta da Malga Brenta
Alta.
Alpinisti Tridentini) – nata a
Madonna di Campiglio il 2 settembte1872
grazie alla felice
intuizione di Nepomuceno
Bolognini e di Prospero Marchetti.
Fin dai suoi primi anni di attività
la Sat aiuta i protagonisti della
montagna con un’assicurazione
contro gli infortuni, con l’acquisto
delle attrezzature, con la promozione
di incontri, di congressi
e di corsi, nonché con la stesura
delle “tariffe”: documento
importantissimo, che disciplina
il rapporto tra guida e alpinista.
Nel 1885 fornisce loro il “Prontuario
per le guide alpine in caso
di infortunio’’, curato dal dott.
Gerloni. Singolare lo spirito che
anima l’associazione alpinistica;
infatti, l’appartenere alle Guide
Alpine impone di mantenere un
comportamento irreprensibile:
chi si rende indegno viene pubblicamente
censurato nei congressi
estivi e, nei casi più gravi,

privato del distintivo. Tra le primissime
“integerrime Guide
Alpine che davano lustro alla
Sat” molte provenivano dalla
Rendena: Gerolamo Botteri da
Strembo; Antonio Dallagiacoma
Lusion da Caderzone;
Angelo Ferrari Spalla da
Borzago; Angelo Alimonta da
Mortaso; Felice, Liberio e
Amanzio Collini di Pinzolo;
Anselmo Sauda di Villa Rendena;
tutte “legittimate” a
svolgere il mestiere di guida
dall’imperial regio Capitanato
di Tione. A queste vi si
aggiunsero, in pochi
anni, molti dei figli
delle prime guide
“patentate” e divenne di
dominio pubblico la
meritata fama delle
Guide dei Caola, dei
Bonapace, dei Ferrari
Caosi, dei Vidi, dei
Gasperi, dei Rigoni, dei
Pedri e dei Lorenzetti
che accompagnarono
moltissimi alpinisti,
provenienti da tutta
Europa, dalla fine
dell’Ottocento agli inizi
del Novecento.
Per tutti – anche se
come scrisse la celebre guida
di Cormayeur Emile Rey verso
la metà dell’Ottocento “… non
è il guadagno che spinge sulle
vette, ma la grande passione
per la montagn” – fu un’occasione
per dar da mangiare alle
proprie famiglie e a taluni concesse
il privilegio di non dover
migrare a cercar fortuna oltre
confine. È per rendere un servizio
migliore all’alpinista, e
per far fronte ad un periodo
difficile dove solo l’unione di
intenti poteva risolvere una
situazione ingarbugliata, che
le guide sentirono la necessità
di fare gruppo e darsi dei
ADAMELLO BRENTA
regolamenti, dando vita alle
Società tra guide e portatori,
prima fondando “La Fratellanza”
a Pinzolo, poi la “Società
Soccorso” a Madonna di Campiglio.
La prima guerra mondiale
(1914-18) scardinò gli equilibri
instaurati non senza difficoltà
nei primi anni del Novecento, e
la miseria favorì il ricongiungimento
dei gruppi di Campiglio
e di Pinzolo in un’unica “Società
delle Guide e Portatori di
Rendena”. E mentre, fra il 1920
ed il 1940, Bruno Detassis,
Decimo Serafini, Alfredo Chesi,
Silvio Agostini diedero lustro e
notorietà alla nuova associazione,
prima come alpinisti poi
come guide, soprattutto con le
loro rimaste famose “scalate”
nella scena alpinistica del Brenta,
ecco che la seconda guerra
mondiale (1939-1945) rallenta
le frequentazioni della montagna
e fa piazza pulita della
“Società guide” che si ricostituisce
con nuove forze e rinnovato
vigore nel 1948.
Proprio per non dimenticare
questo straordinario patrimonio
di ricordi e di cultura delle
nostre vallate ove giganteggia-
7
no i tre Gruppi dell’Adamello,
della Presanella e del Brenta,
per dare visibilità alle gesta
epiche dei pionieri, nonché
per collegare la professione di
“Guida Alpina” di ieri a quella
di oggi ancora ben presente e
radicata, è nato a Madonna di
Campiglio il “Museo delle
Guide”.
Ad occuparsi del Museo, con
gli altri volontari, è soprattutto
Cesare Maestri, che sintetizza
così cosa abbia significato per
lui “essere e sentirsi Guida
Alpina”: “La possibilità di
espletarmi in seno a questa
società, permettendomi
di vivere una vita
dignitosa, intensa, carica
di emozioni e di grandi
responsabilità, dove la
montagna ha assunto
l’importanza che ha il
banco di lavoro per
l’operaio, la tela per il
pittore, uno strumento
per un musicista e un
teatro per un artista.
Essere guida alpina
significa sapere che
nostre saranno le fatiche
più pesanti, i sacrifici più
duri, i rischi più gravi,
come nostra sarà la responsabilità
di dover prendere in un attimo
drastiche decisioni assumendosene,
fino in fondo, le
responsabilità conseguenti.
Essere guida significa, ancora,
avere nel proprio DNA un profondo
senso di sacralità verso
la vita di chi, con estrema fiducia,
si affiderà a noi; soprattutto
significa avere il più grande
rispetto di quell’impegno morale
e giuridico, preso insieme al
“libretto di Guida” che impone
il rispetto assoluto della incolumità
e della sicurezza del proprio
compagno”.
■

Paul Preuss, alpinista nato in
Austria nel 1886 e morto in
montagna a soli 27 anni, è stato
una delle figure più carismatiche,
ammirate e discusse della
storia dell’alpinismo.
La sua figura si discosta molto
dall’archetipo del montanaro
cresciuto sulle montagne “suo
malgrado”. Al contrario, per lui,
nato sì sulle Alpi ma in una
ampia vallata lontana dalle vette
e dai massicci più importanti, la
montagna era stata una scelta
che lo aveva portato ad una sua
visione a 360°.
Preuss era infatti una persona
poliedrica: grande arrampicatore,
scialpinista, conferenziere,
scrittore, esploratore e altro
ancora. Dicono di lui che amasse
allo stesso modo salire una
montagna e fare una passeggiata
nei boschi. Per certo una persona
di cultura che aveva deciso
di vivere “di montagna” e per la
montagna. Una cosa che oggi
può sembrare quasi normale,
ma che all’inizio del 1900 non
lo era.
Nell’estate del 1911 Preuss
scelse il gruppo del Brenta per
iniziare una stagione dolomitica
ricca di imprese, molte delle
quali restano ancora oggi scritte
nella pietra e impresse nella
memoria. Con la sua consueta
energia psicofisica, tra la fine di
ADAMELLO BRENTA
CENT’ANNI FA:
PAUL PREUSS E LA EST
DEL CAMPANIL BASSO
di Andrea Mustoni - Uff. Faunistico Pnab
“Le rocce gli appartenevano. Era il signore delle montagne”
luglio e i primi di settembre
effettuò 52 ascensioni arrampicando,
oltre che sul massiccio
del Brenta, anche in Val di
Fassa, sulle torri di Lavaredo e
nelle Dolomiti di Sesto.
In Brenta effettuò una decina di
salite, tra le quali spiccano la
nord-est della grande parete
Crozzon di Brenta e la est del
Campanil Basso, forse la sua
ascensione più famosa.
Proprio quest’ultima impresa ha
lasciato un’impronta indelebile
sull’alpinismo dolomitico,
segnando di fatto una pietra
miliare, un termine di paragone
con tutto quanto effettuato nei
decenni successivi.
Ad arricchire la storia della salita
al Campanil Basso, numerosi
libri ricordano come Paul fosse
arrivato in treno da Salisburgo
8
insieme alla sorella Mina e
all’amico Paul Relly, bravo
alpinista di Vienna. I tre, dopo
un viaggio lungo e pesante,
erano saliti al rifugio Tosa partendo
a piedi da Madonna di
Campiglio. Sembra che, già la
sera stessa Preuss avesse fatto
una breve ricognizione per dare
uno sguardo al Campanil Basso,
già allora ovviamente la cima
più ambita del Brenta.
Fu forse proprio quella sera
che, guardando la parete est del
Campanile, prese vita in lui
l’idea di provarne l’ascensione.
Il giorno dopo, la mattina del
28 luglio del 1911, dopo aver
percorso un tratto della via Solita
(come un tempo venivano
chiamate le “normali”), lasciò
la sorella e l’amico ad aspettarlo
sullo stradone provinciale, la
larga cengia che caratterizza il
Campanil Basso sul versante
est, nord-est.
Da lì Preuss si avventurò verso
la cima percorrendo 120 metri
di grande verticalità ed esposizione,
lungo una parete meravigliosa
che da allora viene ricordata
con il suo nome.
Arrivato sulla cima scrisse sul
libro di vetta “Paul Preuss
und…”; un piccolo mistero che
aggiunge un’ulteriore nota di
colore all’impresa.
Non pago Preuss, piuttosto che

Paul Preuss.
Il Campanil Basso.
scendere lungo la via “solita”,
ripercorse l’itinerario appena
salito, arrampicando, ancora una
volta senza chiodi e corda, fino
a raggiungere la sorella e l’amico
che, nell’attesa…, si erano
fidanzati!
Da un punto di vista strettamente
tecnico, la salita di Paul
Preuss alla cuspide del Campanil
Basso è un’ascensione di
IV+ con alcuni passaggi di V-,
decritta come “oltremodo esposta
ed estremamente difficile”
dalla prima guida del Brenta
redatta da Prati nel 1926 e come
“arrampicata di eccezionale
eleganza e della massima esposizione,
su roccia ideale, che
percorre quella stretta parete
grigia, stupenda muraglia alta
110 m, che si alza verticale
sopra la cengia dello stradone
provinciale” da quella “firmata”
Buscaini - Castiglioni nel 1977.
Ma ancor più delle difficoltà
oggettive che la salita propone,
va sottolineato l’aspetto simbolico
che le si può attribuire. Sul
Campanil Basso, Preuss ha
infatti messo in pratica le sue
teorie radicali su come, secondo
lui, dovesse essere affrontata la
montagna. A tal proposito vale
la pena di ricordare quanto da
lui scritto: “Secondo il mio
punto di vista un’assicurazione
mediante chiodi e in molti casi
qualsiasi mezzo di sicurezza,
nonché le discese a corda doppia
e tutti gli altri sistemi per
assicurarsi con la corda, che
tanto spesso rendono possibile
una salita o comunque vengono
usati durante la stessa, sono
ADAMELLO BRENTA
mezzi artificiali e perciò per il
vero alpinista sono inaccettabili,
mentre l’arrampicatore in
artificiale li trova giustificatissimi”.
La parete est del Campanil
Basso è quindi ancora lì a dimostrare
la credibilità di un uomo e
la coerenza tra i suoi pensieri e
le sue azioni; forse, usando
l’episodio alpinistico come una
metafora, si potrebbe azzardare
che si tratti di un monito all’agire
dell’uomo...
Ma per certo il capolavoro di
Preuss è una dimostrazione pratica
di teorie che in caso diverso
sarebbero rimaste solo tali.
Va peraltro evidenziato che il
suo agire era fortemente criticato
dalla quasi totalità degli alpinisti
suoi contemporanei che,
nelle idee “pure” e “coraggiose”
di Preuss, vedevano ovvi rischi
per la vita degli arrampicatori.
A triste conferma di questo, lo
stesso Preuss cadde in montagna
solo due anni più tardi e fu
trovato morto alla base del
Mandlkogel, sulle Alpi Austriache.
Il ricordo che ci ha lasciato
è quello di un alpinista eccezionale,
capace di proporre, nelle
parole e nei fatti, un criterio
alpinistico difficile da accettare.
Allo stesso tempo, dai numerosi
9
scritti lasciati e dal racconto di
chi lo ha conosciuto, emerge
una figura capace di non criticare
mai apertamente chi aveva
scelto un altro modo di vivere la
montagna, limitandosi a fare
proposte e invitando all’autocritica,
un atteggiamento forse
troppo spesso scordato nell’alpinismo
odierno.
Sembra che Preuss non fosse
per nulla serioso e sempre portato
al dialogo e all’ironia.
Ma per certo, come tutte le persone
di personalità forte, aveva
anche inimicizie e chi dileggiava
le sue parole e i suoi modi.
Nonostante questo, chi aveva la
possibilità di vivere vicino a lui,
ne apprezzava la cortesia, l’ironia,
la cultura e l’intelligenza.
Le descrizioni che sono arrivate
fino a noi della sua figura lo
dipingono come un oratore
impareggiabile nelle conferenze
alpinistiche che teneva frequentemente,
capace di comunicare
entusiasmo e idee forti, mai
come diktat, ma come una possibile
e auspicabile via dell’alpinismo.
I suoi scritti sanno essere ancora
oggi incisivi, chiari al limite
della durezza insita nelle teorie.
Ma in alcuni casi Preuss è stato
capace di scrivere brani ironici e

delicati allo stesso tempo, dimostrazione
di un animo tanto
temprato quanto dolce e disponibile.
In questo si trova l’interpretazione
di alcune amicizie
profonde che caratterizzarono la
sua vita, come quella con Tita
Piaz, il diavolo delle Dolomiti,
una persona apparentemente
molto diversa da lui con la
quale era nata una totale sintonia
di spirito. Forse gli uomini
nobili si cercano…
La descrizione di Preuss come
uomo è probabilmente utile per
comprendere meglio anche le
ragioni del suo agire. A tal proposito
è bello ricordare anche
ADAMELLO BRENTA
Ferrate nel Brenta.
I REGOLAMENTI SPORTIVI NEL PARCO: IL CASO DELL’ARRAMPICATA
(Norme di attuazione del Piano di Parco ai sensi dell’ art. 32.1.4)
Con riferimento a quanto previsto dal proprio Piano, il Parco Naturale Adamello Brenta ha inteso
regolamentare alcune attività sportive ritenute potenzialmente impattanti da un punto di vista storico,
ambientale o paesaggistico.
Tra queste anche l’arrampicata, intesa nelle sue diverse forme quali l’alpinismo, l’arrampicata sportiva
e il sassismo, ormai conosciuto più con il termine anglosassone di bouldering. Lo spirito dei “regolamenti”
non è evidentemente quello di porre inutili vincoli ma di dare un contributo per conservare il
patrimonio delle nostre valli e valorizzarne le molteplici meraviglie, nel rispetto dell’ambiente e
dell’uomo.
Qui di seguito, a contorno della storia di Paul Preuss e della sua magnifica via sul Campanil Basso,
viene riportato lo stralcio dei regolamenti inerenti la scalata su roccia nelle sue diverse forme. Sempre
con riferimento a Preuss è probabilmente doveroso evidenziare l’articolo 4.1.3.3 che esplicita il fatto
che gli itinerari alpinistici come la sua via sulla est del “campanile più bello del mondo” sono riconosciuti
come un patrimonio della collettività.
4.1 Scalata (o arrampicata) alpinistica
4.3.1.1 Nel rispetto delle tradizioni alpinistiche dell’area, all’interno del Parco l’arrampicata alpinistica
è normalmente consentita senza alcun limite temporale o spaziale.
4.1.3.2 L’esercizio di questa attività può essere localmente e temporaneamente regolamentato dal
Parco nel caso in cui lo richiedano contingenti ed eccezionali emergenze naturalistiche, con particolare
attenzione a eventuali problematiche connesse alla nidificazione dell’avifauna. In questo contesto
sarà cura del Parco dare la massima divulgazione alla nuova regolamentazione.
4.1.3.3 Per salvaguardare il patrimonio storico degli itinerari alpinistici tracciati sulle
montagne del Parco è fatto l’obbligo di:
a) non sovrapporre nuovi tracciati di arrampicata (vie) a quelli già esistenti, rispettando le vie già
esistenti. In tal senso i nuovi tracciati dovranno mantenere da queste una distanza tale da non modificarne
la natura;
b) non procedere alla richiodatura degli itinerari esistenti, per i quali è possibile solo la sostituzione
dei punti di protezione presenti con ancoraggi della stessa natura di quelli precedentemente esistenti.
10

quello che Tita Piaz, la grande
Guida fassana, ha lasciato detto
di Preuss, con il quale, insieme
ad una profonda amicizia, non
erano mancati gli scontri dialettici
legati ai criteri dell’“andare
in montagna”: “La mia ammirazione
per Preuss era anche
stima per la sua persona, perché
in definitiva è sempre l’uomo
che mi interessa…”.
Preuss non ha indicato la via
successivamente seguita dall’alpinismo
e tanto meno dall’arrampicata.
L’evoluzione è stata
diversa. La superlibera come
alcuni la chiamano (progressione
in solitaria, senza chiodi,
ADAMELLO BRENTA
senza corda e mezzi di assicurazione)
è un criterio poco seguito.
Si preferiscono metodi di
progressione in parete diversi,
forse meno corretti nei confronti
della montagna, ma più
rispettosi dell’uomo.
Preuss ha indicato una via possibile
e soprattutto ha lasciato
un ricordo indelebile, un gesto
da artista che ancora oggi, dopo
cento anni, ci riempie di calore.
Come un quadro importante,
come una sinfonia… perché
l’alpinismo è una parte importante
della cultura delle nostre
montagne.
■
11
BIBLIOGRAFIA
AA.VV., Campanile Basso
1899-1999, ApT Madonna di
Campiglio Pinzolo Val Rendena
e ApT Dolomiti di Brenta, 1999
Buscaini G., Castiglioni E.,
Club Alpino Italiano e Touring
Club Italiano, 1977
Messner R., L’arrampicata
libera di Paul Preuss, Ed. Gorlich,
1987
Prati P., Dolomiti di Brenta,
Arti Grafiche Tridentum, 1926
Stenico M., Callini G., Il campanile
Basso. Storia di una
montagna, Ed. Manfrini, 1975
4.1.3.4 Eventuali deroghe rispetto al punto precedente potranno essere eccezionalmente previste
nell’ambito del Programma annuale di gestione.
4.1.3.5 Per valutare quanto riportato nei punti precedenti, il Parco si potrà avvalere del parere delle
Guide Alpine che operano nell’area.
4.2 Scalata (o arrampicata) sportiva
4.2.3.1 La chiodatura di nuove palestre deve essere preventivamente autorizzata dal Parco, specificando
luogo e caratteristiche salienti (chiodatura, lunghezza degli itinerari ecc.). In questo contesto, con
lo scopo di rappresentare la situazione attuale, si deve far riferimento alla cartografia allegata al presente
Regolamento.
4.2.3.2 Per valutare la possibilità di concedere l’autorizzazione per la chiodatura di nuove palestre, il
Parco potrà avvalersi anche del parere delle Guide Alpine che operano nell’area.
4.2.3.3 È fatto divieto di:
a) scrivere i nomi delle vie alla base della parete se non con caratteri di piccole dimensioni (indicativamente
2-3 cm) senza l’utilizzo di targhette metalliche o sfondi colorati;
b) lasciare corde, catene, placche o altro materiale che non sia strettamente necessario all’attrezzatura
della progressione in parete per un tempo superiore a quello necessario all’attrezzatura stessa.
4.2.3.4 L’esercizio di queste attività può essere localmente e temporaneamente regolamentato dal
Parco nel caso in cui lo richiedano contingenti ed eccezionali emergenze naturalistiche, con particolare
attenzione a eventuali problematiche connesse alla nidificazione dell’avifauna. In questo contesto
sarà cura del Parco dare la massima divulgazione alla nuova regolamentazione.
4.3 Sassismo (bouldering)
4.3.3.1 È fatto divieto di:
a) scrivere i nomi delle vie alla base della parete se non con caratteri di piccole dimensioni (indicativamente
2-3 cm) senza l’utilizzo di targhette metalliche o sfondi colorati;
b) procedere ad una sistematica pulizia dei massi, dai quali non potranno essere rimossi muschi e
licheni. Rimane al contrario la possibilità di pulire appigli e appoggi sporchi di sabbia o terriccio.
4.3.3.2 L’esercizio di queste attività può essere localmente e temporaneamente regolamentato dal
Parco nel caso in cui lo richiedano contingenti ed eccezionali emergenze naturalistiche, con particolare
attenzione a eventuali problematiche connesse alla nidificazione dell’avifauna. In questo contesto
sarà cura del Parco dare la massima divulgazione alla nuova regolamentazione.

“Parco naturale Adamello Brenta
e Parco regionale dell’Adamello:
due Aree protette per
un’unica montagna”. Parte proprio
dalla “con-divisone” dello
stesso massiccio montuoso,
l’idea del Protocollo d’intesa
trentino-lombardo firmato, lo
scorso aprile a Villa Santi, dai
presidenti dei due parchi Antonio
Caola e Corrado Tomasi e
dai direttori Roberto Zoanetti e
Dario Furlanetto. L’accordo lancia
una politica comune di tutela
e valorizzazione di un territorio
contiguo “diviso” solo dal confine
regionale e darà vita a tutta
una serie di attività volte a promuovere
e valorizzare i rispettivi
territori. Il Patto rappresenta la
volontà, da parte dei due parchi,
di riprendere attivamente i positivi
rapporti di collaborazione
già avviati a metà degli anni
Novanta in occasione del progetto
di reintroduzione dello stambecco
e a cui sono seguite altre
ADAMELLO BRENTA
UN PATTO
PER L’ADAMELLO
di Ilaria Rigatti - Uff. Comunicazione Pnab
iniziative, seppur più sporadiche,
caratterizzate dal comune
impegno nella tutela e nello sviluppo
sostenibile. A questo si
unisce un’esigenza di “fare
rete”, quale elemento imprescindibile
anche in un’ottica di reciproco
risparmio di risorse umane
e di economie, oltre alla consapevolezza
di essere parte del
sistema di aree protette contigue
12
più vasto delle Alpi (“nel cuore
delle Alpi”). I due parchi
dell’Adamello costituiscono,
infatti, insieme ai parchi nazionali
dello Stelvio e dell’Engadina,
un’area protetta di oltre
2.600 kmq, elemento sicuramente
distintivo sia in termini d’immagine
che per la realizzazione,
insieme, di iniziative di conservazione
e promozione. Non ultimo,
il medesimo impegno
nell’adesione alla Carta Europea
del turismo sostenibile, traguardo
raggiunto nel 2006 dal Parco
trentino e nel 2008 dal Parco
camuno. Tale progetto ha aiutato
le due aree protette ad indirizzare
le proprie politiche di sviluppo
turistico sostenibile, permettendo
ai due territori di raggiungere
un buon livello di gestione
turistica.
Numerosi sono i punti che articolano
il “Patto adamellino”. Si
spazia da attività inerenti la
riserva e la tutela ad altre finaliz-

L’incontro per la firma del Protocollo
d’intesa.
Il ghiacciaio dell’Adamello.
zate al sostegno e alla promozione
congiunta di aspetti culturali,
turistici e didattico-ricreativi.
Entrando nello specifico dell’accordo,
nell’ambito di una promozione
coordinata, i due parchi
ospiteranno nei propri centri
informativi il materiale promozionale
del parco gemello. Verranno
quindi organizzati degli
educational e dei momenti collettivi
di aggiornamento per il
personale dei due enti, finalizzati
a trasferire conoscenze e informazioni
relative alle due aree
protette: dalle peculiarità
ambientali, paesaggistiche e storiche
alle strutture di accoglienza
e alla rete escursionistica.
Proseguirà, inoltre, l’impegno
nell’organizzazione del “campus
esperienziale”, giunto alla sua 4ª
edizione, momento di formazione
itinerante rivolto specificatamente
agli educatori ambientali.
In occasione della partecipazione
alle fiere, sarà realizzato un
ADAMELLO BRENTA
unico desk tra i due parchi per
promuove le rispettive aree protette,
coordinandosi con l’attuale
organizzazione del Servizio
Conservazione della natura e
Valorizzazione ambientale della
Provincia autonoma di Trento al
quale il Pnab fa riferimento.
Si attiveranno, poi, nuove collaborazioni
nell’ambito dei monitoraggi
faunistici e andrà comunemente
valorizzato il ghiacciaio
dell’Adamello, insieme
all’uso delle acque da esso derivate,
anche in riferimento ai
cambiamenti climatici in corso;
ciò avverrà, ad esempio, attraverso
l’organizzazione coordinata
di serate a tema e di mostre
che potranno svolgersi in
entrambi i versanti dell’Adamello.
In previsione delle celebrazioni
per i cento anni dallo scoppio
della prima guerra mondiale,
si prevede la reciproca partecipazione
ad un eventuale “Comitato
promotore” che, con la partecipazione
e il raccordo di altri
enti e istituzioni preposti a questo
anniversario, si occuperà
dell’organizzazione di azioni ed
eventi, sempre in un’ottica sinergica
e collaborativa.
Saranno previste collaborazioni
tra i numerosi progetti inseriti
nei due “Programmi d’azione”
13
della Carta Europea del turismo
sostenibile delle due aree protette,
a consolidamento dell’impegno
comune di una valorizzazione
sostenibile complessiva del
territorio. Il Parco lombardo si
impegnerà a coordinarsi con il
Parco trentino al fine di addivenire
anch’esso all’assunzione del
riconoscimento di “Geoparco”
(il Pnab è entrato nella Rete dei
geoparchi europei e mondiali nel
2008); a tal fine si prevede
anche la realizzazione di una
“carta geoturistica” comune e di
un depliant comune a scopo
divulgativo. Sulla base della
positiva esperienza de “L’Anello
del Brenta”, sarà valutata la realizzabilità
di un progetto denominato
“Il grande anello
dell’Adamello”, prevedendo collegamento
e segnaletica comune
tra le alte vie a nord e a sud.
Fitto e articolato è, dunque, il
programma di lavoro per i prossimi
anni. Gli obiettivi fissati
saranno perseguiti attraverso la
costituzione di un “Tavolo tecnico”
formato dai direttori Roberto
Zoanetti e Dario Furlanetto e dai
rispettivi collaboratori, coinvolti
di volta in volta a seconda delle
specifiche competenze e degli
argomenti da sviluppare.
■

All’imbocco della Val di Genova,
nella splendida cornice del
Parco Naturale Adamello Brenta
si trova l’antica chiesetta di
Santo Stefano di Carisolo.
Dall’alto di uno sperone roccioso,
a picco sul fiume Sarca, essa
domina tutta l’alta Val Rendena.
Qui troviamo numerosi affreschi,
visibili anche da lontano,
che sono opera, per lo più, di
Simone II Baschenis di Averara
che operò in questi luoghi nei
primi anni del 1500. La sua
opera, da un lato, aveva lo
scopo di illustrare al popolo il
mistero della Salvezza, presentando
le Sacre Scritture e la vita
dei Santi e, dall’altro, di richiamare
l’uguaglianza degli uomini
di fronte alla morte, attraverso
le famose “danze macabre”.
La prima si trova proprio a
Santo Stefano e la seconda a
Pinzolo nella chiesa cimiteriale
di San Vigilio.
All’interno della chiesa, accanto
alle immagini del Cristo,
degli Apostoli e della Vergine,
figura un mirabile affresco, che
apparentemente non ha nulla a
che spartire con il resto delle
composizioni pittoriche, ma che
suscita fascino e curiosità.
Si tratta della rappresentazione
dell’antico “Privilegio di Santo
Stefano di Rendena”, che
descrive il leggendario passaggio
di Carlo Magno attraverso
queste montagne. Il famoso
condottiero franco è accompagnato
dal Papa, da sette vesco-
ADAMELLO BRENTA
CARLO MAGNO
TRA STORIA E LEGGENDA
Nella chiesa di Santo Stefano di Carisolo
di Luciano Imperadori
vi, nobili, monaci e guerrieri,
alla testa di un esercito di ben
“quattromila lance”.
La lunga scritta murale, proprio
alla base del grande affresco, è
unica in Europa e risale a tempi
molto antichi. Essa descrive
minuziosamente la spedizione
del re di Francia da Bergamo, in
14
Valle Camonica, in Val di Sole
e Val Rendena.
Alcune copie del Privilegio fermano
il percorso carolingio in
territorio bresciano, in cima alla
Valle Camonica, presso la chiesa
della Santissima Trinità. Il
testo di Carisolo invece fa proseguire
la spedizione anche nel

L’affresco nella sua interezza.
Particolare dell’affresco che raffigura il
leggendario passaggio di Carlo Magno
in Val Rendena.
La crocifissione.
ADAMELLO BRENTA
Trentino, passando per il Tonale,
“monte Toni”, per raggiungere
Pellizzano. Anche qui si trovavano
l’antico scritto e un
affresco della leggenda di Carlo
Magno che purtroppo fu distrutto,
a seguito di un incendio.
Presso la chiesa di Santa Maria,
il vescovo Turpino, uno dei
paladini di Carlo Magno, come
il prode Orlando, piantò il suo
vessillo che fu trovato miracolosamente
fiorito e il papa diede
15
alla chiesa tante indulgenze
quanti erano i granelli di sabbia
contenuti nel suo guanto.
Poi il viaggio proseguì verso il
passo chiamato “della Moschera”
che oggi viene denominato
Campo di Carlo Magno proprio
a seguito del leggendario passaggio.
Anche se il parere degli storici
è controverso il documento è
ripetutamente certificato da
molti notai, in epoche diverse,
fin dal 1446.
Storia e leggenda si intrecciano
e si sovrappongono.
È storicamente appurato che
Carlo Magno e la moglie
Ermengarda, nel 774, lasciarono
ai monaci della grande abbazia
francese di Tours le rendite
dei possedimenti italiani, tra cui
appunto i territori della Valle
Camonica, Sirmione, Pavia, e
Solero, «causa vestimentorum»,
cioè per confezionare gli abiti
degli ecclesiastici. Diversi
imperatori del Sacro Romano
Impero, successori del re franco,
confermarono a loro volta le
donazioni di proprietà italiane

L’ingresso della Val Genova con il
campanile di Santo Stefano.
Il sito archeologico di San Martino a
Lundo.
comprendendo anche i paesi di
Vadaione, Bondo, Breguzzo e
Bolbeno.
La cosa molto interessante è
che Solero viene citato anche
nel Privilegio di Santo Stefano
dove “Antonius de Solerio
habuit gratiam de mile et quingentis
annis indulgentie pro
eclesia Sancti Stefani de Randena”
perché fu per sette anni al
servizio dell’imperatore. A
Solero, piccolo paese in provincia
di Alessandria, si trovano le
reliquie di San Perpetuo, ottavo
vescovo di Tours, reliquie portate
in questa chiesa per sfuggire
alle scorrerie dei Normanni.
Poiché all’epoca le reliquie
erano considerate tesori particolarmente
preziosi, vuol dire che
Solero era considerato un luogo
molto sicuro da parte dei monaci
del capitolo di Tours.
I santi della grande abbazia
francese, come San Martino e
San Brizio, costellano tutto il
percorso carolingio sia in valle
Camonica sia nel Trentino e si
trovano rappresentati anche al
castello di Stenico.
ADAMELLO BRENTA
Dalla Val Rendena, presumibilmente,
il viaggio continuò verso
le Giudicarie esteriori, nel Bleggio,
«ivit in Blaviam», da dove
si può scendere verso il lago di
Garda e forse verso Verona
dove si era rifugiato Adelchi,
speranza dei Longobardi.
Ad avvalorare questa ipotesi in
anni recenti è stato individuato
un sito molto interessante: San
Martino di Lundo nelle Giudicarie
esteriori, sulla strada che
dal Bleggio, Lomaso sale a
passo di San Giovanni per poi
scendere ad Arco. Qui, sulla
16
cima di una roccia a strapiombo
sulla valle sottostante, un tempo
insediamento preistorico, gli
archeologi hanno ritrovato i
resti di una grande fortezza
quasi certamente costruita dai
romani, poi passata ai longobardi
e infine ai franchi.
Un significato più profondo,
contenuto nel Privilegio di
Santo Stefano, è la lotta contro
le eresie che negavano la divinità
di Cristo per affermare l’ortodossia
trinitaria come Carlo
Magno aveva sostenuto nel
concilio di Aachen del 799.
Anche nel 1500 la necessità di
riportare l’ordine dopo la rivolta
dei contadini e di contrastare
l’eresia protestante che si andava
diffondendo in Europa, probabilmente
spinsero i governati
dell’epoca, tra cui il cardinale
Bernardo Clesio, a riproporre la
figura di Carlo Magno come
paladino dell’ortodossia e
dell’ordine costituito.
■

Daone di Montagne, piccola
valle lunga non più di un paio di
chilometri, rappresenta il valico
più meridionale della dorsale
Toff-Amolo, il versante orientale
della Val Rendena, tra Tione e
Bocenago.
Sembrerebbe uno dei tanti luoghi
di alpeggio così frequenti nel
nostro Trentino, se non fosse per
il fatto che il Parco Naturale
Adamello Brenta lo ha scelto per
insediarvi il proprio Centro di
Educazione ambientale, sagacemente
collocato in una delle
case da monte, la più adatta per
dimensioni e posizione. La scelta
dell’edificio appare oggi
quanto mai indovinata e, se
all’esterno si è doverosamente
mantenuto l’aspetto originale,
compreso il nome “Villa Santi”,
la ristrutturazione interna ha
rigorosamente rispettato ogni
peculiarità di interesse storico e
costruttivo.
Daone appare oggi un luogo
tranquillo, ma per molti secoli,
se non per millenni, fu importante
valico sulla via per i Grigioni
e Coira e non appare improbabile
che fosse praticato già nel 118
a.C.. La tradizione popolare ci
tramanda, inoltre, le vicende del
viaggio che il vescovo Vigilio
avrebbe compiuto agli albori del
‘400 allo scopo di evangelizzare
le terre giudicariesi, portandosi
quindi, per il Passo di Daone o
Prà da l’Ásan, in Rendena dove
avrebbe subito il martirio.
Per inquadrare convenientemente
la storia di questo edificio, ora
ADAMELLO BRENTA
UNA VILLA
TRA LE "MONTAGNE"
di Ennio Lappi
tornato agli antichi fasti, dobbiamo
retrocedere di qualche secolo.
La famiglia Serafini da Favrio
La famiglia Serafini, una delle
più illustri delle Giudicarie, ebbe
origini molto addietro nei secoli
tanto che il primo esponente lo
17
troviamo nella villa di Favrio
ancora nel 1441. Verso la metà
del XVII secolo nella piccola
villa preorina visse Serafino fu
Antonio Serafini, un facoltoso
possidente che nella sua lunga
vita aveva ben amministrato i
già consistenti beni di famiglia
tanto da giungere a possedere
fondi in gran parte del territorio
della comunità, comprese due
ampie prative in Daone.
Ebbe tre mogli e cinque figli:
Antonio, Bartolomeo, Pietro,
Domenico e Giovanni Battista;
di questi, il quartogenito Domenico
volle intraprendere la via
ecclesiastica e a tal fine il padre
gli assegnò la prescritta dotazione
di beni. Dopo la morte del
padre e le successive divisioni
ereditarie, i prati in Daone rimasero
in proprietà di Domenico
che nel frattempo era stato ordinato
sacerdote e nominato Curato
di Montagne.

Don Domenico si dimostrò ben
predisposto agli affari tanto che,
sullo scorcio del XVII secolo,
risultò possedere una buona
parte della pianura prativa al
centro della Valle di Daone che
oggi si identifica nel Pian dai
Sanc, in italiano Piano dei Santi;
certamente, data la destinazione
del luogo, in quei prati vi era
almeno una casa da monte destinata
al ricovero del bestiame e
all’alloggio dei contadini, nonché
un capace fienile separato
dalla casa.
La Mansioneria Serafini
Giunto in età avanzata, don
Domenico Serafini fece testamento
destinando ai famigliari il
suo cospicuo patrimonio. Il buon
curato aveva però nel cuore il
desiderio che, in futuro, nella
propria famiglia ci fosse sempre
almeno un sacerdote e a questo
scopo destinò una parte dei suoi
beni per la fondazione di un
legato che aveva lo scopo di
costituire la dote necessaria per
il mantenimento di un membro
della propria famiglia che fosse
entrato in religione, la cosiddetta
Mansioneria Serafini. Il primo a
godere di questo beneficio fu il
pronipote Domenico Serafini,
suo omonimo, che ottenne così
in usufrutto parecchi stabili in
varie località della zona e tra
questi l’area in cui oggi sorge
Villa Santi.
Don Domenico Serafini juniore,
morì il 30 agosto 1766 e così i
beni della Mansioneria Serafini
sarebbero dovuti passare a Giacomo
Antonio di Serafino Serafini
il quale però aveva preso i
voti dell’Ordine Francescano dei
Frati Minori Cappuccini la cui
Regola impediva ogni possesso
terreno. Per questo il beneficio
passò a suo fratello Serafino che
ADAMELLO BRENTA
così poté entrare in seminario e
nel 1774 fu ordinato sacerdote.
Don Serafino fu primissario a
Saone e, come i suoi predecessori
fu un buon amministratore del
proprio patrimonio, accrescendolo
con l’acquisizione di nuove
proprietà.
L’invasione napoleonica decretò
la fine di legati, fedecommessi e
seniorati o maggiorascati e questo
fu per lui una fortuna dal
momento che, in tal modo, la
Mansioneria Serafini fu abolita e
la sua consistenza andò ad accrescere
il suo patrimonio personale.
Alla morte di don Serafino
avvenuta nel gennaio del 1824 i
suoi beni passarono ai nipoti, i
fratelli dott. Antonio e dott.
Francesco, all’epoca entrambi
consiglieri aulici del tribunale di
Tione e con la conseguente divisione
dell’eredità, la proprietà ai
Santi di Daone toccò all’avvocato
dott. Antonio Serafini.
Questi era un alto magistrato del
governo austriaco che in quel
tempo viveva e lavorava a Venezia,
dove era consigliere di Corte
d’Appello. Nel settembre 1835,
ricevuta una buona offerta, il
magistrato cedette il fondo ai
18
Santi a Giovanni, fu altro Giovanni,
Giovanella da Larzana di
Montagne.
I Giovanella da Larzana,
della famiglia dei Prozzi
Giovanni Giovanella da Larzana,
dei Prozzi, soprannome dato
alla famiglia per distinguerla
dalle molte omonime, nacque
nel 1778 e ancor giovane, come
altri suoi coetanei, emigrò nel
Lombardo Veneto, lavorando
stagionalmente nelle filande
lombarde. Sposatosi con Maria
Bertolini dei Benetti di Binio si
stabilì a Vigevano nel Regno di
Sardegna dove, secondo la voce
popolare, fece una discreta fortuna
lavorando nell’industria
serica.
I Giovanella ebbero quattro figli:
Giovanni iuniore, Regina, Alessio
e Gaetano, tutti dimoranti
stabilmente a Vigevano. Però
l’attaccamento alla propria terra
era molto forte tanto che i guadagni
che non erano reimpiegati
nella loro attività venivano investiti
in terreni al loro paese natale.
Giovanni seniore, dopo aver
acquistato una parte del maso al

Ceresino di Daone, sul finire
dell’estate del 1835 acquisì la
bella proprietà ai Santi progettando
di ammodernare ed innalzare
la casa rustica in essa situata.
Questa casa era una semplice
costruzione con piano terra in
muratura nel quale erano ricavati
una stalla per il bestiame ed un
paio di locali destinati ad alloggio;
la parte superiore, coperta a
scandole, era costruita in legno e
serviva da fienile con accesso
dal retro, mentre ai due lati
dell’edificio erano appoggiati
due casinelli, sempre in muratura,
destinati alle necessità agricole.
Nella primavera successiva
il Giovanella fece iniziare i lavori
di sopraelevazione ed ampliamento
della casa, ma l’opera fu
fermata su intervento dei vicini
che avanzarono diverse obiezioni
circa alcune servitù. Il Giudizio
di Tione ordinò subito la
sospensione di ogni opera disponendo
l’invio sul posto di un’apposita
commissione mediante la
quale le questioni pendenti vennero
pacificamente risolte e i
lavori poterono così riprendere e
terminare in quello stesso autunno.
Giovanni Giovanella seniore
ADAMELLO BRENTA
morì a Vigevano nel maggio
1842 e, assegnata alla figlia
Regina la quota legittima, lasciò
tutto il resto ai figli: Giovanni
iuniore, Alessio e Gaetano. I fratelli
Giovanella erano molto
uniti tanto che non si divisero
l’eredità paterna, preferendo
goderne assieme gli utili. Gaetano
Giovanella non ebbe fortuna
perché, trasferitosi a Mestre, vi
morì nel 1846 a soli 27 anni e,
per disposizione testamentaria,
tra l’altro, lasciò la sua terza
parte dei beni paterni situati al
paese di origine al fratello Giovanni
iuniore il quale, a riprova
delle sue buone condizioni
finanziarie, continuò a comprare
beni stabili a Montagne e in particolare
a Daone.
A questo punto si può ragionevolmente
pensare che Giovanni
abbia lasciato Vigevano per
vivere stabilmente a Montagne
dove poteva seguire meglio i
suoi interessi in zona, diventati
davvero consistenti. Certamente
era innamorato della piccola ed
incantevole valle dove aveva
messo assieme una proprietà che
arrivava a superare i 30 ettari di
superficie e così decise di mettervi
radici ampliando ed abbel-
19
lendo il maso dei Santi che fu
trasformato in una vera casa
padronale. Alla piccola e graziosa
casa, ormai non più da monte,
ma una vera villetta, fatta costruire
dal padre nel 1836, Giovanni
fece aggiungere sul lato nord
un’ampia stalla per il bestiame
grosso e una più piccola per
quello minuto, oltre a un locale
da adibire a cantina e magazzino.
Questa parte era sovrastata
da due ampi locali adibiti a fienile
con accesso direttamente
dall’esterno, mentre il primo
piano della villetta, in precedenza
adibito a fienile, fu trasformato
in abitazione. L’edificio fu
quindi alzato di un altro piano,
con stanze nella parte sud e ampi
solai nella parte a settentrione e
fu convenientemente dipinto
all’esterno con l’aggiunta di due
belle meridiane, una sul lato
meridionale e una sulla facciata
principale rivolta verso sera, in
modo tale da poter aver nozione
del passare delle ore durante
tutto l’arco del giorno. Negli
anziani è ancor presente il ricordo
del Prozzi, tramandato dai
loro genitori e dai loro nonni, e
qualcuno, ancora qualche decennio
addietro, raccontava che la
casa ai Sanc in Daone era contornata
da un grande giardino
con un bel viale d’accesso con
varie statue ai lati ed era la più
bella del Comune.
Qui il nostro Prozzi prese residenza
abituale, almeno quando
le nevi lo permettevano, assieme
alla servitù e a quello che lui
definiva il “suo Cacciatore”, un
personaggio che lo accompagnava
nelle cacce alle quali si dedicava
con passione.
Intanto, lo spiccato senso degli
affari che lo aveva portato ad
essere il più facoltoso tra gli abitanti
di Montagne, era sempre
vivo in lui tanto che ingrandì

ancora la proprietà ai Santi incamerando
altre proprietà confinanti.
Progettò anche di trasformare
l’ampia pianura prativa
prospiciente la sua nuova casa
dei Santi in una piscicoltura,
ossia, come si diceva al tempo,
in una peschiera.
L’idea era quella di creare uno
sbarramento al corso del torrentello
tra la strada ed il bosco,
nella zona delle Brozzere, sottostante
al Toni Mat. La diga
avrebbe creato un piccolo lago
artificiale adattissimo all’ittiogenesi
ed alla piscicoltura, attività
assolutamente nuove tanto in
Tirolo che nella penisola italiana.
La richiesta di autorizzazione
all’autorità pretorile, girata da
questa a quella comunale, sollevò
le prevedibili proteste dei
confinanti e dei censiti di Larzana
e Cort che temevano le conseguenze
di eventuali rotture
della diga e possibili inquinamenti
dell’acqua delle fontane
dei paesi sottostanti.
Giovanni Giovanella iuniore
morì nel settembre del 1864, a
52 anni, nel suo maso dei Santi
che aveva a poco a poco ingrandito.
Non avendo figli, tutti i
suoi averi passarono al fratello
Alessio, ma nemmeno questo
visse a lungo perché morì a
Vigevano nel dicembre del 1867
lasciando tutta la propria sostanza
alle due figlie Maria (Marietta)
e Margherita e qui la famiglia
Giovanella Prozzi si estinse.
Le ultime vicende della villa
Nella divisione dei beni che
seguì, il fondo ai Sanc, con il
“palazzo”, fu assegnato a Maria
che di lì a poco ingrandì ancora
la proprietà acquisendo il confinante
fondo del Toni Mat, con
case, prato e bosco.
ADAMELLO BRENTA
Tutta la proprietà dei Sanc venne
così gestita da coloni mezzadri
per diversi decenni finché nel
1907, alla morte di Maria Giovanella,
dopo complesse operazioni
di spartizioni ereditarie, pervenne
ad Alessio Noè figlio
della sorella Margherita che
divenne unico proprietario di
tutti i beni stabili appartenuti ai
Prozzi. Alessio Noè era un affermato
assicuratore di Vigevano e
non poteva certo seguire convenientemente
le sue proprietà in
Giudicarie e per questo decise di
tenere il “palazzo” ai Sanc, probabilmente
per usufruirne nel
periodo estivo e per le cacce, e
di alienare tutti i rimanenti stabili
che furono acquistati a corpo
da una, oggi si direbbe “cordata”,
di nove montagnoli.
Alessio Noè mantenne la proprietà
fino all’autunno del 1920,
quando la cedette a Giacomo di
Salvatore Simoni e consorti.
Proseguendo nella cronistoria
degli avvicendamenti dei proprietari,
troviamo che nel
novembre del 1931 l’edificio fu
20
acquistato dai fratelli Luigi ed
Adriano Maffei detti Gueret di
Pinzolo ai quali, nel dicembre
1945, per linea ereditaria subentrarono
il figlio di Adriano, Clemente
Maffei, il famoso conquistatore
del Sarmiento, e la zia di
questo, Alice, vedova di Luigi
Maffei.
Per terminare la lunga storia di
quella che oggi è Villa Santi,
non rimane da aggiungere che,
nel 1950, Clemente Maffei
cedette la sua parte della tenuta
ai cugini figli dello zio paterno
Luigi i quali la mantennero fino
al 1955, alienandola poi alla
famiglia Bertolini. Erano i figli
di Teodoro Bertolini, Marino,
Espedito e Rodolfo, emigrati in
Germania, che ne conservarono
il possesso fino al 30 marzo
2005, data della cessione al
Parco Naturale Adamello Brenta.
Nel 1965, in occasione di un suo
viaggio in Germania, un intraprendente
“montagnol”, Modesto
Simoni si accordò con Espedito
Bertolini per la locazione
della Villa Santi nella quale
aveva intenzione di aprire un
piccolo luogo di ristoro per i
mesi estivi. L’estate successiva,
Simoni, coadiuvato dalla moglie
Aurilia e dall’amica Pina Simoni,
nei locali a pianterreno della
villa aprì un esercizio pubblico
che in un primo tempo si limitò
al servizio di bar, ma che, successivamente,
assecondando le
numerose richieste, venne
ampliato come piccolo ristorante.
L’attività del ristorante-bar proseguì
fino al 1979 quando l’intero
stabile fu affittato alla parrocchia
di Mattarello di Trento che
la usò fino al 2005 per il campeggio
di ragazzi e giovani parrocchiani.
■

La collana “Percorsi” dei
prodotti editoriali del Parco si
è recentemente arricchita di
un nuovo volume – “Pian
della Nana-Monte Peller. Storia
di un paesaggio” – dedicata
alla scoperta del Pian della
Nana e del Monte Peller,
rispettivamente sito numero
27 e numero 43 dell’Adamel-
«Per mio conto
la lo posizione Brenta del rifugio Geopark. Peller La piccola
la pace guida della montagna. è un omaggio a uno
dei territori più suggestivi ma
e lo ho imparato ad amare...»
nello stesso tempo meno noti
PIAN DELLA NANA - MONTE PELLER
Storia di un paesaggio
è una delle visioni che più fanno sentire
Ci sono venuto poi di frequente
Carlo Garbari
e meno Annuario frequentati SAT 1930 del Parco.
Quella del Pian della Nana e
del Monte Peller è, infatti,
una zona di grande pregio
naturalistico contraddistinta
da un paesaggio dolce e
ondulato, alquanto singolare
e atipico per forme e colori
rispetto ai più classici scenari
PIAN DELLA NANA - MONTE PELLER - Storia di un paesaggio
dolomitici a guglie e pinnacoli
del Gruppo di Brenta.
La guida approfondisce gli
aspetti ambientali e geologici del
paesaggio tema della pubblicazione
e illustra il sentiero guidato
che il Parco ha allestito in
questi luoghi.
L’itinerario proposto, arricchito
con pannelli esplicativi, si snoda
lungo le carrarecce e i sentieri
escursionistici che circondano il
Monte Peller; passo dopo passo
la montagna si svela e l’escursione
da semplice passeggiata si
trasforma nel racconto dell’affascinante
storia di questo territorio
che ha per protagonisti gli
ampi panorami, le curiose forme
del paesaggio, le rocce e i fossi-
3
ADAMELLO BRENTA
STORIA
DI UN PAESAGGIO
di Alberta Voltolini
PIAN DELLA NANA - MONTE PELLER
Storia di un paesaggio
li, testimoni e narratori delle
vicende geologiche degli ultimi
200 milioni di anni.
I temi affrontati lungo il percorso
sono: “Sguardo sulle Dolomiti”,
“Sculture nella roccia”,
“Gli antichi abitanti”, “Gli ospiti
di oggi”, “L’armonia delle
forme”, “Antiche spiagge”,
“Fondali inquieti”, “Effimere
sculture”, “Geodiversità e biodiversità”,
“L’impronta dell’uomo”,
“Uno sguardo a ovest”,
“Una presenza silenziosa”, “Un
circo al Peller”.
Autore del prezioso volumetto è
il geologo Riccardo Tomasoni
che, attraverso testi semplici, ma
nello stesso tempo esaustivi e
accattivanti, accompagna
21
P E R C O R S I
l’escursionista-lettore alla
scoperta delle antiche spiagge
del Pian della Nana, in un
viaggio nella storia di un paesaggio
noto fin dal ‘500 per
le sue singolari caratteristiche
botaniche e da metà ‘800 frequentato
e studiato dagli studiosi
delle Scienze della Terra
che ne hanno compreso l’importante
valore geologico. A
catturare l’attenzione dei geologi
sono stati la particolarità
delle rocce calcaree di
quest’area e i numerosi fossili
in esse custoditi. Rocce
formatesi per l’indurimento
dei fanghi calcarei e dei frammenti
di gusci di organismi
marini accumulatisi sui fondali
dell’antico mare tropicale
che si estendeva sul Trentino
di allora: un ambiente
brulicante di vita, popolato da
spugne e coralli, un ambiente
simile a quello delle attuali isole
Bahamas.
■
Titolo:
Storia di un paesaggio
Collana:
Percorsi
Autore:
Riccardo Tomasoni
Coordinamento editoriale:
Vajolet Masè
Editore:
Parco Naturale Adamello
Brenta
Prezzo di copertina: 5 euro

Il rifugio San Giuliano, nel territorio
di Caderzone Terme, si
trova nel Parco Naturale Adamello
Brenta, in una splendida
conca alpina con vista sulla Presanella.
Prende il nome da uno
dei due laghetti alpini che contribuiscono,
assieme ai radi boschi
di larice e ad una piccola chiesetta,
a rendere l’ambiente indimenticabile.
L’unico elemento
dolente di quest’oasi di serenità
è la presenza di un generatore a
gasolio che fornisce al rifugio
l’energia elettrica necessaria a
garantire l’accoglienza degli
ospiti che vi giungono, dopo
poco più di un’ora di cammino,
per ristorarsi o soggiornarvi.
Così qualche tempo fa iniziai ad
analizzare le potenziali fonti
energetiche alternative che si
sarebbero potute sfruttare per
eliminare inquinamento e rumore
prodotti in fase di funzionamento,
ma anche di approvvigionamento
tramite elicottero,
del generatore a gasolio e rende-
ADAMELLO BRENTA
L’INDIPENDENZA
ENERGETICA DEL
RIFUGIO SAN GIULIANO
Ricerca ed innovazione a tutela del territorio
di Emilio Mosca*
Il lago di San Giuliano.
re il rifugio “fossil free”. Scartato
il ricorso esclusivo all’eolico
per l’incostanza del vento e al
fotovoltaico per il ridotto periodo
d’insolazione della zona, ci si
orientava allo sfruttamento idroelettrico
dell’emissario del lago
di San Giuliano, escludendo
quello del rivo tra i due laghi per
il salto ridotto.
22
Non permettendo il regolamento
del Parco un prelievo diretto dal
lago e venendo richiesto il rilascio
di un DMV (deflusso minimo
vitale), nonostante lo scorrimento
ipogeo del corso d’acqua,
si pensava di trasformare una
serie di difficoltà e limitazioni
nell’opportunità di realizzare un
progetto dimostrativo che prevedesse,
oltre ad un utilizzo sostenibile
della risorsa idrica, lo
sfruttamento di una pluralità di
fonti e l’impiego di componenti
tecnologici all’avanguardia.
L’idea, che è valsa il 29 aprile
2011 il primo premio nel pubblico
concorso nazionale Federbim-Valsecchi,
avente quest’anno
per tema “Le energie rinnovabili
e la Green economy attraverso
le finanze di progetto”, si

può riassumere brevemente
come segue.
Una micro centralina idroelettrica,
posizionata al termine di una
condotta forzata con salto idrico
di circa 45 m e costituita da una
girante di tipo Pelton ed un
alternatore, fornisce una quantità
costante di energia elettrica, che
può essere integrata, nelle ore di
insolazione, da quella prodotta
da un impianto fotovoltaico realizzato
sulla falda sud del tetto
del rifugio. La produzione prevista,
poco più di 5 kW idroelettrici
e 1,5 kW fotovoltaici, risulta
sovrabbondante in gran parte
della giornata, in particolare
nelle ore notturne, ma non riesce
a coprire i picchi di consumo in
corrispondenza dei pasti.
Indirizzando l’esubero di corrente
ad un elettrolizzatore a
membrana è possibile scindere
dell’acqua demineralizzata nei
suoi componenti chimici ed
accumulare idrogeno gassoso in
pressione in appositi serbatoi.
Quest’ultimo può esser ricombinato
con l’ossigeno atmosferico
in una cella a combustibile, con
produzione dell’energia elettrica
necessaria alla copertura dei picchi
di consumo.
ADAMELLO BRENTA
La simultanea cogenerazione di
energia termica, veicolata
dall’acqua di raffreddamento
della cella a circa 70°C, può
venir sfruttata per scaldare l’acqua
sanitaria o gli ambienti.
Il sistema, che qui è descritto in
maniera estremamente semplificata,
suggerisce un utilizzo
sostenibile della risorsa idrica in
quanto propone un prelievo
costante che, se contenuto nelle
effettive capacità del bacino,
potrebbe in altre realtà evitarne
deleterie oscillazioni giornaliere
di livello e temperatura. Diversi
sono gli elementi innovativi,
quali il vettore di accumulo, il
tipo di elettrolizzatore, l’integrazione
di più sorgenti e l’utilizzo
23
di una micro centralina idroelettrica
modulante a comando
remoto che permette di diminuire
ulteriormente il prelievo in
caso di ridotta necessità.
Il sistema di controllo e gestione,
al contempo versatile e robusto,
deve permettere monitoraggio
dei parametri di funzionamento
ed intervento da remoto,
in modo da poter essere utilizzato
dall’Università per fare didattica
in aula da un lato, evitare la
necessità di un presidio continuo
in loco dall’altro. È invero,
comunque, che la realizzazione
del progetto in un luogo così
accessibile, ancorché unicamente
a piedi, renderebbe lo stesso
meta privilegiata di viaggi
d’istruzione, considerate anche
la ricchezza naturale dell’ambiente
e la presenza di un
impianto di depurazione delle
acque reflue a filtro coclea e
percolatore. Ottenuta dal servizio
acque pubbliche la concessione
d’uso dell’acqua e concluso
l’iter autorizzativo è intenzione
dell’Amministrazione comunale
di Caderzone Terme, da
sempre attenta alle tematiche
ambientali, promuovere a breve
la realizzazione del progetto.
* Emilio Mosca, laureato in fisica, è
ricercatore, insegnante e sindaco di
Caderzone Terme. ■

L’autosostentamento energetico
può essere un problema se ci si
trova ad oltre 3.000 m slm, dove
l’unica fonte rinnovabile disponibile
è quella solare, ma gli
spazi sono limitati.
Ecco allora che la tecnologia si
mette al servizio della natura,
ecco che le problematiche del
ADAMELLO BRENTA
TECNOLOGIA
AL SERVIZIO
DELLA NATURA
L’esempio del Rifugio “Ai Caduti dell’Adamello”
di Giulia Benatti*
luogo si trasformano in opportunità.
Questo è quello che accade “Ai
Caduti dell’Adamello”, il rifugio
affacciato sul ghiacciaio della
Lobbia Alta, dove la sinergia tra
l’omonima Fondazione proprietaria
dell’immobile, il Dipartimento
di Fisica dell’Università
24
di Trento e l’Agenzia Provinciale
per l’Energia hanno dato vita
al primo impianto sperimentale
che sfrutta l’energia solare in
connessione con il vettore idrogeno
per produrre ed accumulare
l’energia elettrica necessaria
al sostentamento del Rifugio
stesso.

Prima di tale sperimentazione, il
rifugio, dotato di un impianto
fotovoltaico da 12kW, accumulava
il surplus di energia elettrica
con batterie al piombo, altamente
inquinanti e problematiche
da smaltire. Ora, il surplus
viene utilizzato per produrre
idrogeno, partendo dalla molecola
dell’acqua, e accumulandolo
allo stato gassoso in serbatoi
ad alta pressione. Tale processo,
invece, si inverte nel momento
in cui il fabbisogno di energia
elettrica supera la produzione
dell’impianto fotovoltaico e l’acqua
ritorna di nuovo al principio,
in un ciclo chiuso che evita gli
sprechi idrici in un contesto di
estrema penuria di risorse idriche:
l’acqua può essere prelevata
dal ghiaccio solo in pochi mesi
all’anno, utilizzando serbatoi di
accumulo per i restanti mesi
dell’anno.
Nei mesi in cui il rifugio rimane
chiuso, vengono riempiti i serbatoi,
immagazzinando così quasi
2.000kWh di energia, pari a
quasi 1.000 litri di gasolio. Se si
pensa che il consumo giornaliero
medio del rifugio si attesta sui
40-60kWh, si capisce come tale
accumulo, sommato alla produzione
continua di energia
dall’impianto fotovoltaico, possa
rendere energeticamente autonoma
la struttura. Lo stesso
impianto fotovoltaico ha rese
maggiori rispetto ad un analogo
impianto installato a livello del
mare, quasi il 30% in più, per la
radiazione solare maggiore, per
l’aria più tersa e per le temperature
più basse.
Una riflessione. Questo sistema,
che non inquina e non sfrutta
riserve idriche, fa aumentare il
sistema di accumulo dell’energia
da 130kWh delle batterie al
piombo a 2.000kWh, 14 volte
maggiore.
ADAMELLO BRENTA
L’impianto, unico nel suo genere,
sconta un ulteriore problematica:
la possibilità di telegestire
completamente l’intero impianto
(fotovoltaico ed idrogeno) dalla
sede del Dipartimento di Fisica,
in modo da sopperire alle difficoltà
derivanti dall’inaccessibilità
delle strutture nei periodi
invernali e primaverili. Il proget-
25
to ha previsto anche questo, elaborando
un software e una programmazione
che, grazie al
nuovo ponte radio installato,
consentono di controllare il
sistema da remoto.
L’intero progetto è stato reso
possibile grazie al finanziamento
dell’Agenzia Provinciale
dell’Energia, alle conoscenze e
agli studi del Dipartimento di
Fisica dell’Università di Trento e
grazie alla disponibilità della
Fondazione “Ai Caduti
dell’Adamello”.
Il rifugio, che già in passato si
era distinto per aver ospitato
Papa Giovanni Paolo II e il Presidente
Sandro Pertini, punta a
diventare un modello da replicare
negli altri rifugi in quota
dove non siano presenti altre
fonti rinnovabili da sfruttare,
come l’idroelettrico, l’eolico o il
geotermico.
■
* Ingegnere di Stea Progetto srl.

La pernice bianca rappresenta
per l’ambiente alpino un elemento
di notevole importanza
naturalistica. Meraviglioso tetraonide,
eccezionalmente ambientato
al duro clima dell’alta montagna,
vive oltre il limite della
vegetazione arborea, dove iniziano
i ghiacciai, tra ghiaioni e
rocce.
La specie deve il suo nome
scientifico - Lagopus mutus -
alla somiglianza delle sue
zampe a quelle della lepre, dal
greco lagos = lepre e pous =
piede e al fatto che il suo piumaggio
è apparentemente in
costante muta (mutus) nel corso
dell’anno.
Le dita delle sue zampe in
inverno sono fittamente ricoperte
da piume che aumentano la
superficie portante, esattamente
ADAMELLO BRENTA
LA PERNICE BIANCA
La signora delle nevi
a cura Uffi. Faunistico Pnab
come una racchetta da neve che
facilita la progressione nella
neve.
Sempre come adattamento al
clima rigido, il piumaggio è particolarmente
fitto e le penne
sono gonfie d’aria per mantenere
a lungo il calore del corpo.
Come già accennato, la pernice
bianca mostra anche una costante
muta del piumaggio, tanto
che il suo aspetto cambia durante
il corso dell’anno, adeguandosi,
oltre che alle modificazioni
stagionali del clima, anche al
colore dell’ambiente circostante.
È evidente che tale fenomeno
sia strettamente correlato alla
ricerca del mimetismo, principale
arma di difesa nei confronti
della predazione.
D’inverno il suo aspetto è bianco
candido, per poi assumere
26
colorazioni brune o bruno grigiastre
durante il periodo estivo,
quando solo parte delle ali
rimangono chiare, in netto contrasto
con il resto del corpo.
Il becco è nero brillante e, nel
maschio, è collegato all’occhio
da una sottile striscia nera. Sempre
nel maschio, durante il
periodo degli amori (maggio e
giugno), nella porzione superiore
del capo spiccano due caruncole
(rigonfiamenti) rosse, meno
evidenti durante il resto dell’anno.
Il peso oscilla generalmente tra i
350 e i 600 grammi e sembra
essere maggiore durante il
periodo invernale rispetto a
quello della stagione più mite,
forse in risposta alla necessità di
protezione dal freddo. La lunghezza
del corpo è intorno a

30-40 cm e l’apertura alare massima
di 60 cm.
La pernice bianca canta volentieri,
specialmente nel periodo
degli amori e prima del cambiamento
del tempo. Il richiamo
del maschio è profondo e rauco;
suona come un “grroo-groh”
ripetuto, più o meno frequentemente,
a ritmo diverso e assomiglia
al rumore di un bastone che
passa su una fila di lattine.
La pernice è anche un’ottima
volatrice e, se disturbata, è capace
di spostamenti rapidi che il
più delle volte la portano a
posarsi su rocce distanti, sulle
quali probabilmente si sente
protetta.
Come habitat, la pernice frequenta
l’orizzonte alto alpino,
tra i 2000 e i 3500 m s.l.m.. I
suoi tipici ambienti di vita sono
quindi i ghiaioni con vegetazione
scarsissima, gli avvallamenti
ombrosi e i canaloni nei quali la
neve rimane a lungo oppure i
pendii sassosi e rocciosi, che
offrono buona visuale ma anche
copertura (protezione).
Da un punto di vista alimentare,
la specie è ben adattata al consumo
di piante resistenti al freddo
dell’inverno, probabilmente
originarie del nord, relitti
dell’era glaciale proprio come lo
è la stessa pernice bianca.
DISTRIBUZIONE
La presenza della pernice bianca
sulle Alpi è stata interessata
negli ultimi decenni da una forte
contrazione numerica e di areale.
Più in particolare, in Italia
nel 1986 erano stimate presenti
7.000-10.000 coppie concentrate
soprattutto nel settore alpino
centro-orientale. Nel 2003 la
stima è scesa a circa 5.000-
8.000 coppie nidificanti (Piano
Faunistico Provinciale – Provincia
Autonoma di Trento, 2010),
ADAMELLO BRENTA
distribuite dalle Alpi Marittime
alla Alpi Giulie. Considerando il
trend della popolazione, in via
cautelativa è possibile ipotizzare
che il numero sia ad oggi diminuito
ulteriormente. Purtroppo
va inoltre evidenziato che in Italia,
a differenza della parte più
centrale delle Alpi, sono spesso
presenti popolazioni piccole,
apparentemente isolate tra loro e
caratterizzate da una dinamica
di popolazione negativa.
In Trentino la pernice bianca è
monitorata dal Servizio Foreste
e Fauna grazie a censimenti primaverili
pre-riproduttivi ed estivi
post-riproduttivi effettuati su
18 aree campione.
Considerando i dati ottenuti dai
censimenti primaverili condotti
tra 1998 e il 2007 il valore di
densità pre-riproduttiva appare
27
in netto e costante decremento.
Oltre a questo la specie non
sembra più essere presente in
zone storicamente conosciute
per la sua frequentazione. L’insieme
dei dati a disposizione
deve quindi far riflettere attentamente
sul difficile futuro del
tetraonide in provincia.
Da un punto di vista legale la
specie è considerata cacciabile
in base alla LN 157/92 (art 18) e
alla LP 24/91 (Art. 29) e soggetta
a prelievo venatorio contingentato
dal 1989; è inoltre inserita
nell’Allegato III della Convenzione
di Berna e nell’Allegato
I della Direttiva CEE 79/409
(Direttiva Uccelli). La pernice
bianca è peraltro considerata
una specie ornitica vulnerabile
secondo la Lista Rossa degli
Uccelli italiani e “a rischio” in

quella degli Uccelli trentini. Nel
2003, con delibera della Giunta
provinciale n.1987/2003, di
approvazione del Piano Faunistico
Provinciale, sulla base
della Valutazione di Incidenza
disposta dal Servizio Faunistico
e del parere espresso dal Servizio
Parchi e Conservazione
della Natura, è stata sospesa la
caccia alla pernice bianca nei
SIC compresi all’interno di aree
protette.
Con la prima revisione del
Piano Faunistico Provinciale
approvata nel dicembre del
2010, la caccia alla specie è
stata sospesa in attesa che l’esito
dei monitoraggi porti a confermare
per i prossimi anni una
auspicabile ripresa numerica e
di estensione degli areali.
IL PROGETTO
PERNICE BIANCA
DEL PARCO
Nonostante sia evidente il drastico
calo che ha caratterizzato
le popolazioni di pernice bianca
nella parte meridionale delle
Alpi, gli studi volti a comprenderne
lo status sono ancora
carenti e frammentari.
Va peraltro considerato che le
indagini sul tetraonide sono particolarmente
complesse e difficili
da realizzare in considerazione
sia della sua elusività sia
delle difficoltà oggettive derivanti
dai pericoli insiti nel lavorare
in alta quota.
In questo contesto il Parco Adamello
Brenta ha deciso di avviare
una fase pluriennale di studio
volta principalmente a verificare
la bontà di tre diverse metodologie
di monitoraggio tradizionalmente
utilizzate nei confronti
della specie: i transetti
con e senza l’utilizzo del richiamo
acustico e i punti fissi di
ascolto.
ADAMELLO BRENTA
Senza scendere nel dettaglio
tecnico delle differenze tra le
diverse metodologie citate, per
comprendere la reale portata del
lavoro, condotto con il supporto
del Servizio Foreste e Fauna
della Provincia di Trento, deve
essere compresa l’importanza di
avere a disposizione un metodo
di conteggio che, pur tenendo
conto della limitatezza delle
risorse a disposizione, sia il più
possibile efficace per interpretare
il trend delle popolazioni presenti.
Tale necessità è evidente soprattutto
nelle porzioni più periferiche
dell’areale occupato e in
quelle aree in cui sono presenti
nuclei apparentemente isolati
che potrebbero essere ancor più
a rischio di estinzione nell’immediato
futuro. L’idea progettuale
è quindi quella di individuare
il metodo ideale per il
territorio provinciale e utilizzarlo
su zone campione poste
anche al di fuori dell’area protetta,
che in questo senso si propone
attualmente come una
zona di studio al servizio
28
dell’intera provincia. Sulla base
di questi presupposti, nella primavera
del 2011 sono iniziate le
attività di campo all’interno di
una vasta area campione collocata
nelle Dolomiti di Brenta, in
prossimità del Massiccio di
Cima Grostè.
I dati preliminari sembrano confermare
che il metodo più efficace
per contattare le pernici sia
l’effettuazione di transetti (percorsi)
lungo i quali effettuare
delle soste cercando di stimolare
i maschi territoriali utilizzando
come richiamo una registrazione
del canto.
Il lavoro dovrà proseguire anche
nel 2012 nel tentativo di raccogliere
una mole sufficiente di
dati per poter effettuare test statistici
che diano riposte chiare
alle domande poste alla base del
progetto, nella convinzione che
solo attraverso una maggiore
conoscenza della specie e della
sua distribuzione si possano
ipotizzare ulteriori importanti
passi per facilitarne la sopravvivenza
sulle nostre montagne.
■

Con l’entrata a far parte della
Rete Europea dei Geoparchi, il
Parco Naturale Adamello Brenta
sta promuovendo delle azioni
mirate alla valorizzazione e
divulgazione del patrimonio
geologico. Il patrimonio geologico,
inteso in tutte le sue caratteristiche,
ha un valore scientifico
e culturale in grado di promuovere
il turismo e lo sviluppo
economico locale (si pensi alle
Dolomiti patrimonio dell’Unesco).
L’opportunità di far conoscere
al pubblico la ricchezza
geologica ha creato l’occasione
anche per approfondire degli
ambiti meno conosciuti, come la
relazione tra geodiversità e biodiversità.
La caratterizzazione
della diversità geologica
mediante gli organismi potrebbe
costituire un valore aggiunto in
grado di creare sinergie con
altre iniziative di divulgazione.
Comunque, non tutti gli organismi
si prestano egualmente bene
a questo genere di approfondimento,
dato che le rocce sono
ADAMELLO BRENTA
IL PROGETTO “FRAME”
Le relazioni tra geodiversità e biodiversità
di Daniel Spitale
ambienti piuttosto inospitali.
Grazie ad adattamenti particolari,
muschi e licheni sono in
grado di colonizzare la nuda
roccia prima di qualsiasi altro
organismo (sono per questo
detti organismi pionieri). Gli
elementi chimici della roccia e
la sua conformazione (fessure,
pori, scaglie etc) influenzano
fortemente la presenza di questi
29
organismi. A differenza delle
piante superiori, muschi e licheni
sono in grado di assorbire
l’acqua e i sali minerali da tutto
il corpo (fusto, foglie, rizoidi). È
sufficiente la rugiada del mattino
per risvegliare il loro metabolismo,
mentre in condizioni
più secche rallentano o interrompono
l’attività fisiologica
(un po’ come fanno gli animali
in letargo). Queste caratteristi-

che permettono a muschi e
licheni di colonizzare ambienti
apparentemente molto sfavorevoli,
come sono appunto le
rocce assolate. La loro capacità
di colonizzare questi ambienti li
rende molto adatti nello studio
delle relazioni tra geodiversità e
biodiversità.
Nel 2010 il Parco Naturale Adamello
Brenta ha sostenuto un
progetto di ricerca e divulgazione
su una tematica poco esplorata,
la “flora minore”, briofite
e licheni. Data la scarsa consapevolezza
del grande pubblico
sull’argomento, il lavoro è stato
affrontato cercando di bilanciare
gli aspetti scientifici con quelli
divulgativi. È nato così il Progetto
Frame. Il frame, dall’inglese
“cornice”, è un semplice
rettangolo utilizzato per stimare
l’abbondanza delle diverse specie
di muschi e licheni. Il frame
viene appoggiato sull’area da
rilevare e l’abbondanza delle
specie viene espressa come percentuale
di copertura dentro il
frame. Ma il frame può anche
rimanere una semplice cornice,
un punto di vista insolito su
delle piante poco conosciute.
Ecco che allora lo strumento
“scientifico” può diventare l’occhio
che appoggia lo sguardo su
dei particolari poco conosciuti,
e funzionare anche da sistema di
riferimento per confrontare il
microscopico con il macroscopico.
La cornice è stata posizionata
cercando di far conoscere
al pubblico la ricchezza sconosciuta
di forme e colori di
muschi e licheni. L’intento era
anche di promuovere l’attenzione
nei confronti dei piccoli particolari,
primo passo della consapevolezza
e quindi del rispetto
della natura in tutte le sue componenti.
Le fotografie, ne sono
ADAMELLO BRENTA
qui riportate alcune, sono state
scattate lungo l’itinerario ad
anello del Monte Peller - Alpe
Nana (Malga Tassulla, Passo
della Forcola, Malga Clesera, e
ritorno). Le fotografie saranno
prossimamente pubblicate in un
libretto.
L’aspetto scientifico
L’area compresa tra il monte
Peller e il Pian della Nana è
costituita da diverse tipologie
rocciose a matrice calcarea, tra i
quali i Calcari Grigi, il Rosso
Ammonitico e la Scaglia Rossa.
Lo studio intendeva verificare
se e quali specie di briofite e
licheni erano caratteristiche di
queste diverse rocce. I principali
interessi di questa ricerca comprendevano
l’esame delle relazioni
tra geodiversità e biodiversità,
la valorizzazione dei geositi
(ben 5 in quest’area) e non ulti-
Didymodon johansenii.
30
mo lo studio di aspetti floristici
molto poco noti nell’area del
Parco. Tra il Peller e il Pian
della Nana sono state individuate
ben 70 specie diverse (44
licheni e 26 muschi). Una buona
parte di queste specie si trova
indifferentemente su tutte e tre
le rocce studiate, ma altre tendono
a mostrare delle precise preferenze.
Infine, ve ne è una frazione che
colonizza esclusivamente un
tipo di roccia. Tra le tre tipologie
di calcari, la Scaglia Rossa è
la roccia che ospita il numero
maggiore di specie caratteristiche,
mentre i Calcari Grigi e il
Rosso Ammonitico sono colonizzate
pressoché dalle stesse
specie.
La Scaglia Rossa è caratterizzata,
oltre che da tenori maggiori
di ferro e silicati, anche dalla
tipica conformazione a scaglie.
Le scaglie sono molto importanti
per l’insediamento delle specie,
sia perché offrono delle nicchie
protette, sia perché tra le
scaglie si accumula detrito. La
presenza di detrito favorisce la
colonizzazione di specie cosiddette
terricole, cioè specie che
preferiscono ambienti terrosi
piuttosto che rocciosi.

Una specie nuova
per l’Italia
su Scaglia Rossa
Nell’area del Peller, e solo su
roccia Scaglia Rossa, è stata rinvenuta
anche una specie di
muschio mai trovata prima d’ora
in Italia e nota in Europa solo
per alcune località di Svizzera,
Austria e Slovacchia.
La specie, Didymodon johansenii,
forma dei ciuffi brunastri
alti non più di 1 cm e ha una
caratteristica davvero peculiare.
La nervatura delle foglie si prolunga
oltre la lamina e assume
la forma di una mazza da baseball.
Questa grossolana punta una
volta staccatasi è in grado di
dare origine ad un altro individuo
completo. Si ritiene che
questa specie sia un relitto glaciale,
cioè una specie di provenienza
artica che si è spostata
verso Sud durante le glaciazioni
per sfuggire all’avanzata delle
calotte glaciali.
Quando circa 18.000 anni fa la
temperatura media terreste
cominciò a risalire e i ghiacci
iniziarono a ritirarsi, questa specie
iniziò una nuova migrazione
in senso contrario, trovando
rifugio oltre che nell’area artica
anche nelle zone d’alta quota in
Europa.
Didymodon johansenii è una
specie davvero molto rara, si
pensi che nell’intero arco alpino
è nota solo in cinque località.
Tra le probabili cause di questa
rarità vi è una difficoltà nella
riproduzione (non produce spore
che potrebbero essere disperse
più facilmente dal vento), e la
necessità di particolari rocce
calcaree come appunto la Scaglia
Rossa.
■
ADAMELLO BRENTA
PRIMI PENSIONAMENTI
AL PARCO NATURALE
ADAMELLO BRENTA
Pur essendo considerato un Ente tutto sommato giovane, a 23
anni dalla sua costituzione il Parco naturale Adamello Brenta
è cresciuto e maturato nel tempo insieme ai suoi collaboratori
e ora inizia a registrare i pensionamenti dei primi assunti.
Due degli operai più esperti, nei mesi scorsi, hanno lasciato
spazio alle nuove leve.
Dopo 26 anni di onorato servizio, il 1° luglio è andato in pensione
Celso Maffei di Pinzolo, classe 1954, caposquadra fin
dall’assunzione il 1° aprile 1995 grazie all’esperienza già sviluppata
nell’ambito della manutenzione della sentieristica e
della viabilità in Val Genova. Una persona mite che con la sua
serenità e il suo sguardo buono si è fatto voler bene da tutti.
Celso si è fatto apprezzare per la sua ottima manualità, riconoscibile
in raffinate realizzazioni tra cui le passerelle sul
sentiero Amolacqua in Val Nambrone e i punti fuoco di granito
lì vicino.
Celso segue a ruota Vito Binelli, anche lui di Pinzolo, classe
1951, silenzioso ma grande lavoratore, operaio stagionale dal
2003, esattamente fino al compimento del sessantesimo compleanno.
I due neo pensionati hanno voluto festeggiare con i colleghi
con una cena presso l’Agritur La Trisa di Giustino dove il
Presidente Antonio Caola e il geometra Bruno Battocchi
dell’Ufficio Tecnico – Ambientale hanno consegnato loro un
segno per ringraziarli del lavoro svolto e congedarli con merito:
una spilla d’oro al primo e d’argento al secondo.
Vito Binelli e Celso Maffei con il presidente Antonio Caola e Bruno Battocchi.
31

Fin dal 2006 l’Amministrazione
comunale di Dimaro, l’Asuc di
Dimaro, l’Associazione culturale
“Quei del Filò” e il Parco
Adamello Brenta hanno condiviso
un’idea: valorizzare la Val del
Meledri, ritenendo fondamentale
la riscoperta di quei luoghi ricchi
di cultura e tradizioni importanti
per la comunità residente, che
possano essere apprezzati anche
dal turista interessato agli aspetti
etnografici del luogo di vacanza
e a una conoscenza del territorio
sotto il profilo ambientale e
naturalistico.
In tale prospettiva il primo lavoro
intrapreso dall’Associazione
culturale “Quei del Filò”, in collaborazione
con l’Asuc di Dimaro
e l’Ispettore Forestale dott.
Fabio Angeli, è stata la realizzazione
del percorso “Trementina”,
passeggiata didattica corredata
di cartellonistica esplicati-
ADAMELLO BRENTA
LA VALORIZZAZIONE
DELLA VAL MELEDRIO
a cura dell’Associazione culturale “Quei del Filò” di Dimaro
va, situata alle porte della Val del
Meledri, ove l’Associazione
organizza delle visite guidate
avvalendosi dell’ultimo resinatore
solandro.
Nel frattempo, l’Amministrazione
comunale di Dimaro ha progettato
e sta per appaltare i lavori
di restauro della vecchia
segheria veneziana, che sarà resa
funzionante ed aperta al pubblico
e nella quale verrà anche realizzato
un punto informativo del
Parco Naturale Adamello Brenta.
Inoltrandoci quindi nella Val del
L’antica sede del maglio.
32
Meledri giungiamo alle Fosinace,
luogo di interesse storico ove
un tempo venivano realizzati
utensili di uso contadino attraverso
la forgiatura e battitura del
ferro con il maglio idraulico.
Tale luogo è stato recentemente
ristrutturato dall’Asuc con la
realizzazione di un nuovo
maglio, recuperando i supporti
esistenti (le ciocare) e ridando
così vita ad un’attività ferma da
secoli, per la quale sono in progetto
un’adeguata cartellonistica
e l’acquisto di attrezzature specifiche
per future rappresentazioni
dell’attività originaria.
Proseguendo poi sulla strada che
costeggia il Meledrio troviamo
la Calcara, antica fornace per la
produzione di calce viva da utilizzare
in edilizia, attiva fino alla
metà del ‘900. Per questa struttura
l’Associazione culturale
“Quei del Filò”, in collaborazio-

Il contenitore, la sgòrbia, la trivella e la
paletta per estrarre la trementina.
La nuova fucina per far funzionare il
maglio.
Il nuovo maglio.
ne con l’Asuc di Dimaro, sta
predisponendo la cartellonistica
e l’organizzazione di alcuni
eventi che la valorizzino.
Procedendo sull’antica strada di
collegamento con la Val Rendena,
oltrepassato il Ponte della
Calcara, saliamo verso la malga
del Dos, costruita nelle vicinanze
del sedime dell’antico ospizio
di cui sono note le leggende. In
tale sede l’Amministrazione
comunale di Dimaro, in collaborazione
con la Provincia autonoma
di Trento, ha preliminarmente
eseguito, nel 2010, una sessione
di scavi archeologici, che
hanno portato alla luce i muri
perimetrali dell’antica chiesa e
alcuni scheletri umani databili
intorno al 1600, ed ha in progetto
per il 2011 il restauro della
struttura.
Riferiti a questo luogo numerosi
sono gli studi realizzati dal dott.
Udalrico Fantelli, che sono stati
di spunto all’Associazione culturale
“Quei del Filò” per ripristinare
l’antica consuetudine di S.
Brigida, che viene celebrata la
seconda domenica di ottobre con
una processione che segue la
pala della Santa, una cena frugale
e il filò sulle leggende e le
storie del Dos e dell’ospizio.
La processione parte dalla cappella
votiva della Madonnina del
Dos, luogo caro alla comunità di
Dimaro, da cui si può proseguire
verso Madonna di Campiglio,
con una bellissima visuale sulla
cascata del Pisòn dal caratteristico
ponte coperto. Consapevoli
ADAMELLO BRENTA
delle grandi potenzialità naturalistiche,
culturali e turistiche
insite nelle Val del Meledri
auspichiamo che tutti gli attori
33
coinvolti in questo grande progetto
continuino a crederci e a
collaborarvi attivamente.
■

Le Terme di Comano, con la
loro acqua oligominerale e ipotermale,
che sgorga dalla sorgente
ad una temperatura di 27° C,
rappresentano una realtà unica in
Italia per la cura delle principali
patologie dermatologiche; l’acqua
bicarbonato calcio magnesiaca,
con Ph vicino alla neutralità,
viene impiegata soprattutto
nei bambini nella cura della dermatite
atopica e negli adulti per
la psoriasi.
Numerose ricerche mediche e
studi scientifici, pubblicati su
importanti riviste di dermatologia,
hanno evidenziato le proprietà
curative dell’acqua; i
segni clinici dell’efficacia terapeutica
in campo dermatologico
si osservano principalmente per
l’azione anti infiammatoria su
eritema e prurito, l’azione altamente
idratante e il potere cheratolitico
in presenza di ispessimenti
cutanei.
I bagni termali, effettuabili in
convenzione con il Servizio
Sanitario Nazionale, abbinati
alla cura idropinica, cioè l’assunzione
dell’ acqua come bibita,
rappresentano la principale
terapia proposta alle Terme di
Comano per la cura di dermatiti
di vario genere, eczemi, acne,
psoriasi; un periodo di terapia
termale, sono consigliate circa 2
settimane, consente di effettuare
una pausa dall’assunzione di far-
ADAMELLO BRENTA
“FOGLIA SULL’ACQUA”
Il progetto del nuovo centro benessere
delle Terme di Comano
a cura dell’Azienda Consorziale Terme di Comano
Il progetto “Foglia sull’acqua”.
maci e ridurne le quantità tra un
ciclo curativo e l’altro.
L’acqua termale di Comano non
è solamente impiegata a livello
curativo, le sue proprietà la rendono
un ottimo coadiuvante nei
trattamenti estetici e di bellezza;
ad oggi il reparto dedicato al
benessere, presso lo stabilimento
termale, offre una vasta gamma
di massaggi e trattamenti che
utilizzano l’ acqua termale nella
sua forma pura, per impacchi e
bendaggi, o all’interno dei prodotti
cosmetici della linea Salus
per Aquam.
L’acqua, quindi, rappresenta per
le Terme di Comano l’elemento
naturale per eccellenza; è da
quest’ ottica che nasce e si sviluppa
l’ambizioso ed innovativo
34
piano di sviluppo che interesserà
l’Azienda nei prossimi anni.
All’interno del progetto che prevede
tra le altre cose la riqualificazione
dello stabilimento termale,
del Vecchio Albergo
Terme e della struttura Sibilla
Cumana ricopre un ruolo fondamentale
la costruzione del nuovo
centro benessere.
La progettazione e la realizzazione
del nuovo centro benessere
“Foglia sull’acqua” è stata
basata sull’idea di benessere
totale della persona i cui cardini
principali vogliono essere la
cura naturale, l’ambiente eco
compatibile e l’uso di prodotti
cosmetici e per la ristorazione a
chilometri zero.
Il nuovo edificio sarà una strut-

tura poco impattante sia a livello
estetico che ecologico; l’architetto
giapponese Atshusi Kitagawara,
che ha diretto il raggruppamento
vincitore del bando di
progettazione, ha elaborato un
progetto che affonda le proprie
radici nella territorialità trentina
e giapponese. La “Foglia sull’acqua”
sarà un edificio le cui basi,
ricoperte di pietra, daranno
l’idea della struttura solida e
massiccia che nel suo svilupparsi
verso l’alto diventerà leggera
ed evanescente grazie al massiccio
impiego di legno e vetro.
Dal punto di vista ecologico il
nuovo centro benessere punterà
su fonti energetiche rinnovabili
come l’utilizzo di un impianto
geotermico, è di poco tempo fa
l’avvio dei lavori di trivellazione
per la realizzazione del nuovo
pozzo, dell’ energia solare e di
cicli termici legati all’acqua termale
con importanti recuperi
termici.
Il valore della strategia Neraly
Zero Carbon, adottata nella progettazione
di questa struttura, è
stato recentemente riconosciuto
nell’ambito del concorso indetto
dalla provincia, faregreen.
■
L’architetto Atshusi Kitagawara.
ADAMELLO BRENTA
L’ACQUA DI COMANO
È un’acqua ipotermale con una temperatura costante di 27° C,
un contenuto di sali che la caratterizzano come un’acqua “bicarbonato-calcio-magnesiaca”
con presenza rilevante di fluoro, un
ph vicino alla neutralità, un esiguo potere tampone e una debole
radioattività.
È batteriologicamente pura ed ha una temperatura più elevata
rispetto a tutte le acque oligominerali presenti in Italia: esse
sono infatti di regola fredde e la loro temperatura varia tra i 5 e i
10°. La temperatura dell’acqua è quindi da considerarsi eccezionale
e ciò, evidentemente, ha implicazioni importanti sulla presenza
degli oligoelementi disciolti.
Le acque oligometalliche, in considerazione della loro azione
diuretica, sono utilizzate soprattutto per le cure idropiniche. Nel
caso di Comano, invece, da sempre (dal momento cioè in cui si
ha notizie dell’effettuazione delle cure termali) si è associato
all’idropinoterapia il trattamento balneotermale con risultati
particolarmente favorevoli nelle malattie della pelle.
Le problematiche che maggiormente beneficiano delle cure
balneo-termali di Comano sono le dermatiti (eczematose e atopiche)
e la psoriasi.
Numerose ricerche attribuiscono all’acqua di Comano un’azione
detersiva, calmante ed antiflogistica sulla cute, evidenziando
miglioramenti, anche notevoli, in assenza della terapia tradizionale
farmacologica, nelle varie dermatiti.
35

Come nel Medioevo, l’eremo di
San Pancrazio, il dodici maggio
di ogni anno, si ripopola per
ricordare l’antico mercato che lì
si svolgeva proprio quel giorno,
anniversario del martirio del
santo. Dal dosso sul quale sorge
l’eremo, si domina il territorio di
Campodenno e si gode uno
splendido panorama sulla valle
di Non. Un colle carico di storia,
di testimonianze legate al passato
e situato in una zona strategica.
Sul doss del Droneg, ora di
San Pancrazio, è stata individuata
infatti la presenza di un castelliere
che rappresenta uno dei
primi nuclei abitati.
In occasione della festa, Marco
Zeni ha ricordato come un
tempo quel luogo non fosse
impervio come può sembrare
ora, ma facilmente accessibile e
congiunto con i paesi della Bassa
Valle “da una strada romana che,
passando da Andalo, menava al
ADAMELLO BRENTA
L’ANTICO MERCATO
DI SAN PANCRAZIO
di Vittorio Nardon
contado di Flavon”. L’attuale
isolamento del colle di San Pancrazio,
è dipeso dallo spostamento
dell’asse viario principale,
con l’abbandono della strada
romana che per secoli ha rappresentato
una delle principali vie
di percorrenza tra Nord e Sud.
L’attuale strada statale che da
36
Mezzolombardo porta a Cles,
passando per la Rocchetta e percorrendo
la sinistra orografica
del Noce, è stata costruita solo
alla fine dell’Ottocento.
Quest’anno la celebrazione della
festa di San Pancrazio è stata
particolarmente significativa con
la presenza del vescovo di Trento,
monsignor Luigi Bressan,
salito lassù per celebrare la
messa e benedire la Via Crucis.
“Una via Crucis – spiega Ottorino
Angeli, presidente del Comitato
– che proviene dal Tirolo e
che è stata acquistata per essere
esposta nella chiesetta che prima
era spoglia.” Si tratta di quattordici
quadri risalenti al 1800, di
scuola austriaca che si trovavano
nella cappella di un castello nei
dintorni di Innsbruck.
San Pancrazio, che subì il martirio
sotto l’imperatore Diocleziano,
è patrono contro le calamità
naturali e le pestilenze, assieme

a San Rocco e a San Sebastiano.
L’eremo, anteriore al 1300, è
stato punto di ritrovo e di incontro
delle popolazioni, non solo
della valle di Non, ma anche
dell’Altopiano della Paganella,
della Rotaliana e perfino della
Valtellina.
Un appuntamento dunque che si
ripete, anno dopo anno, e che ha
lo scopo di far rivivere una tradizione
che ha profonde radici
storico – culturali. Un luogo di
culto ma anche di fascino antico.
“I boschi – scriveva Simone
Weber – che circondano il dosso,
le frigide scaturigini di limpidissime
fonti, i silenzi di quella
solitudine, la magnifica vista che
da esso si gode, tutto giustificava
la scelta di quell’alpestre
recesso a soggiorno di eremiti”.
L’eremita abitava nella casupola
adiacente la chiesetta e viveva
coltivando i campi circostanti.
Nella memoria storica il più
significativo è Giovanni Paolo
Robustelli che nel 1666 ottenne
il permesso dal nobile Oliva di
poter abitare in una porzione
dell’edifico.
Era figlio di un ricco notaio
della Valtellina e dopo aver frequentato
le facoltà teologiche e
filosofiche di Innsbruck e Graz
“decise di abbandonare tutto
scegliendo la vita errabonda ed
eremitica che lo porterà a vagare
per tutta l’Europa”.
Dunque se San Pangrazio è
giunto fino a noi, lo si deve proprio
alla cura che gli eremiti
hanno avuto per quel luogo.
Infatti dopo la morte dell’ultimo,
sul finire del ‘700, la chiesa
rischiò di andare completamente
in rovina. Fu poi il “nobile Alessandro
Oliva a curarne il restauro
come fa fede l’iscrizione
posta sopra la porta.” Correva
l’anno 1831.
Una festa dunque quella che si
ADAMELLO BRENTA
celebra sul dosso che sovrasta
Campodenno che richiama un
numero sempre maggiore di persone.
Oltre trecento quest’anno.
E il vescovo nella sua omelia ha
voluto ricordare il significato e il
valore dell’eremitaggio. “È una
vocazione difficile, noi siamo
fatti – ha soggiunto – per intessere
relazioni con le altre persone”.
Ed è per questo che la vocazione
alla vita anacoretica è sempre
più rara e in Trentino gli eremiti
37
sono scomparsi del tutto. Ma
l’eremo di San Pancrazio è lì a
testimoniare del tempo che fu.
“E questo ha ribadito nella sua
relazione storica il direttore di
Vita Trentina, Marco Zeni – grazie
all’impegno del Comitato
presieduto da Ottorino Angeli
che ha evitato il completo decadimento
del luogo e la perdita
della sua memoria storica, delle
tradizioni e della cultura ad esso
legate”.
■
San Pancrazio (289 – Roma, 12 maggio 304) è stato un giovane
cristiano martirizzato all'età di quattordici anni, a Roma sulla
via Aurelia, sotto l'impero di Diocleziano; è venerato come
santo dalla Chiesa cattolica e da quella ortodossa.
San Pancrazio è uno dei cosiddetti Santi di ghiaccio, con San
Servazio, San Mamerto e San Bonifacio di Tarso.
Sul luogo del suo martirio leggiamo ancora oggi: Hic decollatus
fuit Sanctus Pancratius (Qui fu decapitato san Pancrazio).
“San Pancrazio, martire, che, si dice sia morto ancora adolescente
per la fede in Cristo a Roma al secondo miglio della via
Aurelia; presso il suo sepolcro il papa san Simmaco innalzò
una celebre basilica e il papa Gregorio Magno vi convocò frequentemente
il popolo, perché da quel luogo ricevesse testimonianza
del vero amore cristiano. In questo giorno si celebra la
sua deposizione”.
Il culto di San Pancrazio si diffuse molto anche in Germania e
la sua immagine si trova spesso nei castelli dell'Ordine dei
Cavalieri Teutonici dei quali è co-patrono.

Nel 1975, quando l’Ente Parco
Naturale Adamello Brenta non
era ancora provvisto di un organico
e di un Piano di gestione
definitivo, l’Ufficio Parchi della
Provincia autonoma di Trento, in
collaborazione con la rivista
“Oggi”, organizzò un servizio di
controllo e di assistenza per i
frequentatori della Val Genova
impiegando giovani delle varie
regioni italiane che avevano aderito
all’invito di prestare la loro
opera a titolo gratuito.
Ospitati nella cascina della
malga Genova di Strembo, per
l’occasione adeguatamente
attrezzata per il soggiorno, venivano
forniti di vivande che loro
stessi provvedevano a cucinare.
Divisi in tre gruppi di 12 persone
si sono alternati per periodi
della durata di 15 giorni l’uno.
Il compito a loro affidato consisteva
nella distribuzione di opuscoli
illustrativi della valle con
indicate le regole per una sua
corretta frequentazione e, inoltre,
nella raccolta di immondizie
abbandonate nella valle.
L’iniziativa, che faceva parte
dell’articolato progetto “Difendo
il Trentino come fosse casa mia:
faccio ecologia”, risultò un
modo efficace per far conoscere
a livello nazionale l’esistenza
della Val Genova, che del Parco
costituisce una entità territoriale
di elevato valore naturalistico e
ADAMELLO BRENTA
L’ESPERIENZA
DI GIOVANI GUARDIE
ECOLOGICHE
IN VAL GENOVA
di Elio Caola
ambientale. Oltre ad essere stata
una soluzione simpatica e convincente,
l’iniziativa si dimostrò
anche educativa per gli stessi
giovani che svolsero l’inusitato
compito di ecologisti.
L’obiettivo sarebbe stato pienamente
raggiunto se non fosse
stato funestato da un gravissimo
incidente a un ragazzo abruzzese,
travolto dalle acque impetuose
del fiume Sarca. Il fatto rese
gli ultimi giorni del soggiorno
molto tristi.
Negli anni successivi l’esperienza
continuò avvalendosi di elementi
locali impegnati in compiti
analoghi, fatta salva l’impe-
38
gnativa raccolta delle immondizie.
I rifiuti costituivano infatti un
problema indifferibile, specie in
un ambiente naturale protetto
come è quello della Val Genova,
per cui si pensò di porre in atto
un sistema collaborativo, coinvolgendo
gli stessi frequentatori
della valle per i quali vennero
messi a disposizione dei sacchetti
di carta riportanti indicazioni
per l’uso e raccomandazioni di
tipo comportamentale. All’uscita
della valle il turista depositava il
sacchetto in una tramoggia posta
a bordo strada. A fine estate la
valle era pulita, mentre il fiume
non funzionava più come comodo
veicolo smaltitore di immondizie!
Per le giovani guardie ecologiche
fu un’esperienza del tutto
nuova, gratificante ed istruttiva
anche per coloro che la promossero.
La testimonianza del perugino
Gianluigi Guerra, ora medico e
padre di famiglia, qui di seguito
riportata, ancora molto viva
nonostante siano trascorsi 35
anni, dimostra l’importanza del
coinvolgimento dei giovani in
obiettivi culturali che possono
apparire secondari se non futili
mentre rimangono profondamente
incisi nell’animo dei protagonisti.
■

Entrare adesso in una scuola
materna e vedere le maestre
insegnare ai bambini piccoli
come differenziare i rifiuti
sembra una cosa del tutto
normale ma nel 1975, quando
auto sputazzanti facevano
più o meno dieci chilometri
con un litro, mentre esordivano
le pubblicità dei detersivi
biodegradabili e le petroliere
potevano lavare le
cisterne in mare, quando le
spedizioni himalayane iniziavano
a lasciare tonnellate di
spazzatura ai piedi delle ferrate,
il “rispetto dell’ambiente”
sembrava un argomento filosofico
piuttosto che uno stile di vita.
Fu in questo contesto che, grazie
all’opera di Elio Caola e alla
collaborazione tra la Provincia
Autonoma di Trento e la rivista
“Oggi Illustrato”, nacque il progetto
“Difendo il Trentino come
fosse casa mia: faccio ecologia”.
Con l’obiettivo un po’ generico
di fare qualcosa per la natura,
trentasei giovani provenienti da
tutta Italia, dalle diverse connotazioni
sociali ma accumunati
dalla volontà di lasciare il
mondo “...un po’ migliore di
come lo avevano trovato...”
giunsero in Val di Genova nel
Parco Naturale dell’Adamello
Brenta. Eravamo alloggiati in
una malga non lontana da un torrente
che, presto, conoscemmo
come la parte iniziale del fiume
Sarca, e distribuiti in gruppi di
dodici – tutti maschi o tutte femmine
– monasticamente suddivi-
ADAMELLO BRENTA
CORREVA L’ANNO…
1975
di Gianluigi Guerra
si, forse anche per evitare licenze
sessantottine. Il nostro compito
non era molto chiaro, ma
imparammo alla svelta che il
lavoro sarebbe stato a 360°:
guide ambientali, netturbini,
vigili urbani del Parco, nonché
cuochi, lavandai, infermieri e
interpreti ovvero, tutto quello
che serviva per stare senza famiglia
– alcuni per la prima volta –
per un paio di settimane. Sperando
che dipenda più dall’intensità
delle emozioni che dall’età, questi
vecchi ricordi sono nitidissimi:
gli spruzzi estivi della Nardis,
il presunto (non l’ho mai
vista neppure quella volta) volo
dell’aquila sopra la cava di granito,
l’Osteria “Fontana Bona”
dove si mangiava bene, la bruna
alpina che fa buon latte perché
“...la mungono tutti i giorni e le
danno il toro una volta l’anno”.
E poi Giovanni e Valentino
Masè che ci facevano la polenta
in giardino (lì era tutto un giardino!),
le arrampicate sul camion
39
dei rifiuti, l’uscita al ghiacciaio
con Elio capo cordata,
gli insulti urlati a quelli che
usavano la strada di fondovalle
come un autodromo
(equamente provenienti da
tutta Italia), la ragazzina che
ci veniva a trovare e che piaceva
molto a Mario, Andrea
che si faceva la barba con il
rasoio elettrico e che mi insegnava
a farmela – male – con
la lametta. Ma il fiume
inghiotte Donato e la memoria
è un mulinello: Carabinieri,
Guide Alpine, l’Enel, si
trova, non si trova, l’hanno trovato,
il padre ci abbraccia, il
prete, restiamo, ce ne andiamo,
restiamo? Restiamo ma non è
più la stessa cosa. Sono passati
36 anni e mi sento come un
reduce della Julia, con gli affetti
e la memoria divise tra la famiglia
e i compagni d’avventura;
non so neppure se sono tutti
vivi! Siamo stati degli apripista
che, senza note politiche e palcoscenici
pubblici, hanno anticipato
partiti e movimenti, sistemi
e nuove morali e ne sono molto
fiero. Quando ora seguo programmi
dedicati all’ecosistema e
allo studio dell’inquinamento
condotti da rambo-giornalisti
con piumini firmati e facce da
serata di gala, non posso che
sorridere pensando a quell’antico
manipolo di giovani sudati e
poco profumati, ignoranti ma
determinati, che volevano cambiare
il mondo.
■

Sullo scorso numero un articolo
dedicato a Orazio Ghedina e alla
Val d’Algone firmato da Ennio
Lappi riportava una frase non
del tutto corretta riguardo alla
fondazione del Rifugio Ghedina.
Anziché rettificare abbiamo preferito
approfondire la questione
e riportare come sono andati
veramente i fatti da quando nel
1946 la signora Milindy Costa
Ghedina, con grande intraprendenza,
coraggio e sacrificio, ha
ottenuto l’Autorizzazione provinciale
per l’apertura del Rifugio
Ghedina e la titolarità per
gestirlo.
Di seguito, quindi, potrete leggere
alcuni passaggi dell’intervista
alla signora Milindy, presente
ancora oggi, alla soglia dei 100
anni, al suo rifugio dove insegna
la buona ospitalità con sorriso e
precisione, insieme alle figlie,
Mariella e Daniela.
Signora Milindy, ci racconti di
quando è arrivata in Val d’Algone.
Sono arrivata nel ‘41 e sono
ancora qua. Sono 75 anni che
sono qua. Quando sono arrivata,
ho trovato Decio, mio marito,
che viveva qui solo, aiutato solo
da una famiglia della Rendena, e
per vivere aveva le bestie. Ero
una ragazza in gamba allora e
dopo poco ho cominciato a pensare
“Qua bisogna muoversi un
po’ fuori! Qua dobbiamo aiutar-
ADAMELLO BRENTA
MILINDY COSTA GHEDINA,
SIGNORA DELLA
VAL D’ALGONE
di Chiara Grassi - Uff. Comunicazione Pnab
Milindy Costa Ghedina con le figlie.
ci!” perché solo con le bestie
non si viveva bene così ho deciso
di aprire il rifugio.
Come vi siete conosciuti Lei e
Decio?
Io sono di Lombardore, vicino a
Torino. Ultimo, il fratello di
Decio, faceva il militare giù, e
40
veniva a mangiare da mio papà
che aveva un piccolo albergo.
Decio veniva a trovarlo e così ci
siamo conosciuti e poi innamorati.
Mi ha portata diretta qua in
Val d’Algone. Mi sono sposata
come oggi e l’indomani mi ha
portata qua e sono ancora qua.

Come è stato l’impatto con la
Val d’Algone? Le è piaciuto?
Quando ho conosciuto Decio lui
mi ha detto “Vieni su in montagna
che c’è tranquillità e la vita
è semplice”. Mi sono detta
“Vado!” ma se, arrivata a Verona,
fossi tornata indietro forse
sarebbe stato meglio: ho passato
momenti belli e brutti qua!
(Ride)
Dove ora c’è il rifugio era una
casa privata. Quando sono arrivata
non c’era l’acqua in casa,
era una casa un po’ cupa, c’era
solo un finestrino. Decio curava
le bestie e aveva i campi. Quando
ho deciso di aprire il rifugio e
l’ho detto a mio marito, lui mi
ha risposto “Io non posso aiutarti!”
e io mi sono detta “Eh, mi
aggiusto da sola!”. E ho lavorato
tanto. Lavoravo sempre, tutto il
giorno. Se c’era bisogno anche
la notte.
Un rifugio. Come mai? Non
era una valle turistica.
Non ancora, ma, nonostante
fosse una valle piccola, all’epoca
c’erano tanti operai che lavoravano
a metà valle e poi era
frequentata da quelli che venivano
a fare la legna. In quegli anni
si svolgevano i lavori per l’energia
idroelettrica, c’erano i carbonai,
venivano a prendere il
legname e quelle forme di produzione
tipiche della zona. Era
poi una zona di collegamento e
di scambi di merce tra la Rendena
e Stenico. A Stenico c’erano i
mulini dove macinavano la farina.
Le donne passavano di qua
per andare a prendere la farina e
poi quando tornavano su io facevo
loro il caffè di orzo prima di
tornare in Rendena.
Quindi è nata l’esigenza di avere
un servizio perché l’unica famiglia
che rimaneva in valle tutto
l’anno era qua, dalla signora
Milindy. A me quindi è venuta
ADAMELLO BRENTA
l’idea di aprire il rifugio, ho fatto
domanda e me l’han concesso.
L’attività è iniziata nel ’41 e nel
’46 dal Servizio Turismo della
PAT è stato riconosciuto ufficialmente
il rifugio ed è stato affiliato
al CAI fino alla fine degli
anni ’50 quando è passato privato.
Attualmente è l’unico qui in
valle che è ancora rifugio escursionistico.
È stata intraprendente all’epoca…
Sì sì. Diciamo che dopo aver
aperto il rifugio qui c’è stata una
svolta. Qui si è formata una
famiglia, il rifugio è diventato
un agglomerato, un centro di
ritrovo. Tra l’altro poi anche un
altro fratello di Decio, Orazio, è
venuto ad abitare qua con la
famiglia nel ‘44, e due figlie
sono nate qua. Il rifugio ha
cominciato ad animarsi. Soprattutto
d’estate, quando la gente
dei paesi veniva a falciare i prati
e si creavano qui le grandi compagnie
oppure con gli escursionisti
che partivano da Ponte
Arche per andare ai XII Apostoli
e facevano tappa qui nei fienili.
Poi, dopo il lavoro, il rifugio era
un punto di ritrovo per il divertimento.
All’epoca giocavano alla
mora, ballavano, suonavano la
fisarmonica. Avevamo anche il
verticale sulla terrazza, uno strumento
con rullo che, girando la
maniglia, emetteva la musica.
Aprendo il rifugio, la sussistenza
della famiglia è cambiata e
anche per mio marito è stata
l’occasione per uscire dal ristretto
mondo contadino e conoscere
altri modi di vita. Quindi il rifugio
è stato un beneficio da diversi
punti di vista.
Quando è iniziato il turismo?
Le prime forme di turismo risalgono
al ’55 quando i camion
della cava Gadotti, portando giù
41
il materiale, han cominciato a
portare in valle un po’ di movimento.
C’erano i villeggianti a
Stenico e con il camion salivano
qui, facevano un giretto e poi
tornavano giù.
Poi anche i campeggi hanno
contribuito. I campeggi in Val
d’Algone ci sono sempre stati.
Sono proprio una tradizione.
All’epoca erano curati dai preti.
In modo particolare nel 1955 il
campeggio SAT di Trento a
Malga Stabli è stato importante
per lo sviluppo turistico ed economico
della valle. Il campeggio
organizzava le feste sociali coinvolgendo
la piccola popolazione
locale, poi loro hanno anche partecipato
all’elettrificazione e alla
costruzione dell’acquedotto
comunale. In quegli anni, è
venuto su anche quello che è
diventato Papa Paolo VI perché
sua cognata era la direttrice del
campeggio di Padre Marcolini di
Brescia ed è venuto a trovarla.
Poi negli anni ’60 hanno cominciato
i villeggianti milanesi a
venire per la sagra di Ferragosto
del campeggio, poi piano piano
il periodo turistico si è esteso ai
15 giorni a cavallo di Ferragosto
e il cambiamento vero c’è stato
negli anni ’70, con il boom economico
e l’esplosione del turismo.
Come sono cambiati gli anni
da allora ad oggi?
Era più bello una volta! Adesso
corrono tutti con le macchine.
Vuol mettere gli anni belli del
passato? Si volevano tutti più
bene. Invece allora si fermavano,
c’erano squadre che stavano
insieme, lavoravano tutto il giorno
e poi chi dormiva qua in valle
si fermava qua al Rifugio. Era
tutto un altro lavoro. Io ero sempre
fiduciosa in tutto. C’erano
dei perugini, per esempio, che
prendevano la paga a metà mese.

Metà paga la mandavano alle
famiglie, venivano qua e mi
dicevano che non potevano
pagarmi subito e io li tranquillizzavo.
Dicevo loro che potevano
pagarmi quando volevano, che
era lo stesso. M’han sempre
voluto tanto bene tutti tutti tutti.
Anche nei paesi qua
intorno mi vogliono
bene perché io la vita
l’ho vissuta qua in Val
d’Algone.
Ma all’epoca c’erano
più sacrifici da fare!
E’ più comoda la vita
oggi. Si facevano
volentieri?
Eh sì! Era una vita di
sacrificio eccome!
Adesso con le macchine
vanno e vengono.
Per esempio, per andare
a fare la spesa,
Decio aveva un cavallo
che si chiamava Ronchi,
era un bianconero
piccolino, bello. Andava
solo due volte alle
Arche o a Tione e
quando non poteva
mandava un ragazzo,
Attilio. Mi ricordo che
lui mi portava ogni
tanto un pacchetto di
sigarette, si chiamavano le
“Mentola”. Era l’unico vizio che
avevo.
Interviene Daniela: E’ stata dura
fino al ’55 e poi c’è stato lo sviluppo
economico e la situazione
è migliorata. Per mia mamma
sono stati anni duri. Non brutti,
perché noi abbiamo avuto un’infanzia
felice. Eravamo fuori dal
mondo ma comunque in un
ambiente pubblico e siamo sempre
state in mezzo alla gente.
Questo ci ha arricchito molto. Il
rifugio per noi era il paese.
Poi, allora, l’unico locale caldo
era la cucina e chi veniva si met-
ADAMELLO BRENTA
teva in cucina quindi eravamo
sempre tutti intorno al tavolo e si
stava qua ore a raccontare, a
ridere. Noi eravamo coinvolte ed
ascoltavamo, partecipavamo.
Siamo proprio cresciute qui.
Abbiamo anche frequentato la
scuola qui. I primi anni la scuola
era in una stanza della casa di
Orazietto, fratello di Decio, poi è
passata in una cameretta del
rifugio al piano terra. Inizialmente
in classe eravamo in cinque
con le cugine poi, siccome
loro erano più grandi di noi,
siamo rimaste solo noi tre sorelle.
La maestra alloggiava qui da
noi e veniva il lunedì fino al
venerdì. Di solito erano sempre
ragazze giovani, appena diplomate
che insegnavano nelle
scuole cosiddette O.N.A.I.R.,
quelle che garantivano nei posti
isolati per evitare l’analfabetismo,
perché prendevano alti
42
punteggi.
Dovevamo metterci il grembiulino
e il colletto bianco e guai se
non stavamo in fila!
E due o tre volte all’anno veniva
il direttore Forti da Trento, con
la cravatta e gli scarponi e i pantaloni
arrotolati, a interrogarci.
Me lo ricordo come se
fosse oggi.
Mentre il prete non è
mai venuto. Infatti noi
le prime comunioni le
abbiamo fatte con i
preti dei campeggi nei
periodi estivi. Io e
Mariella alla chiesetta e
Mirta sotto il faggio a
Malga Stabli.
Era una vita più semplice.
Era un laboratorio
di umanità.
Eh questa è una bella
espressione!
Sì sì. “Umanità” perché
mia mamma e mio
papà hanno dato tanto
ma hanno anche ricevuto
tanto!
Milindy: Pensi che se
qualcuno si faceva
male qui in montagna,
veniva dalla signora
Milindy a farsi curare.
Ero un punto di riferimento.
Ero una brava infermiera
e li curavo bene, tanto che poi
quando andavano all’ospedale, i
dottori chiedevano “Chi è che ha
fatto queste fasciature così
bene?” e mi venivano a raccontare
che i dottori erano stupiti. Si
sono fatti male in tutti i modi e li
ho sempre curati tutti. E tanti si
ricordano ancora adesso.
Ma aveva esperienza?
No, ero autodidatta. A quell’epoca
bisognava arrangiarsi in tutto
e anche Decio sapeva fare un po’
di tutto.
Chissà quante ne ha viste in
questi anni, signora Milindy?

Il Rifugio Ghedina.
La famiglia Ghedina qualche decennio
fa.
La signora Milindy con l’attore Leo
Gullotta.
Sì, tante. Per esempio, ho vissuto
il periodo dei partigiani.
Quando è finita la seconda guerra
mondiale, qua vicino, alla
Credata c’era un rifugio di partigiani,
gente del posto, di Tione,
di Riva, di Preore e venivano
qua al rifugio perché io preparavo
loro il pane alle 2 di notte.
Facevo la torta di riso al forno
così durava per tre giorni e poi
altro pane e loro venivano, prendevano
e poi scappavano. Poi
venivano qua a chiedere i vestiti
per travestirsi. Una volta qualcuno
di Ponte Arche ha fatto la
spia e sono venuti i gendarmi a
fare i controlli. Per fortuna c’era
mia cognata, Rosetta, che sapeva
parlare tedesco! Prima han controllato
dappertutto in casa e poi
Rosetta ha spiegato che qua non
c’era nessuno e son riusciti a salvarsi.
Questa è una zona frequentata
dall’orso. Come convivete con
questa presenza?
Noi siamo dalla parte dell’orso.
La gente viene qua e non mi
chiede se ci sono caprioli qua.
No!!! Mi chiedono se c’è l’orso!
Questo prima ancora che il
Parco facesse la reintroduzione.
Da sempre.
Nel maggio del ‘44 nel prato qua
davanti al rifugio Decio e due
fratelli, Pierino e Cesarino,
hanno trovato un orsetto, allora
l’hanno raccolto e io l’ho accudito
per otto giorni. Su certi libri
c’è scritto che lo hanno ucciso
ma non è vero. Lo mettevo sulla
finestra e se si alzava in piedi
ADAMELLO BRENTA
occupava tutta la finestra. Aveva
le unghie lunghe. Per nutrirlo gli
davo zucchero e miele. Poi sono
venuti a prenderlo i gendarmi e
lo hanno portato in Val Genova.
Da allora il Conte Gallarati
Scotti, che ha fondato l’Ordine
di San Romedio, è venuto qua in
valle diverse volte e ha inserito
nell’ordine Decio come protettore
dell’orso. Tra di loro si è
istaurato un rapporto, anche perché
Decio gli mandava le segnalazioni
degli spostamenti degli
orsi, i ritrovamenti delle orme e
le fatte.
L’orso era proprio una presenza
in Val d’Algone ma era difficilissimo
vederlo all’epoca. Non
lo vedevano come adesso. Episodi
particolari vicino alle case
non ce ne sono mai stati ma l’orso
c’è sempre stato. Sembra
impossibile, ma gli orsi che ci
sono adesso fanno gli stessi percorsi
dell’orso autoctono.
Il rifugio ora è portato avanti
dalle Sue figlie. Ne ha avute
solo due?
Interviene la figlia Daniela. Mia
mamma ha avuto cinque figli,
ma siamo rimaste solo tre sorelle.
Due siamo qua fisse, io e
Mariella che ha la gestione del
rifugio, e l’altra sorella, Mirta, è
sposata e vive a Rovereto. Lei
viene sempre ad aiutarci la
domenica.
Noi siamo nate qua, siamo cresciute
qua, abbiamo fatto la
scuola elementare qua e della
43
Val d’Algone abbiamo il DNA
nel corpo.
Adesso la situazione è cambiata
ma per quanto riguarda la gestione
noi manteniamo quello che ci
ha insegnato la mamma e continua
a insegnare. Cerchiamo di
avere un rapporto con la gente,
di instaurare un ambiente familiare.
La mamma ci chiede sempre:
“E’ aperta la porta?” Perché
il rifugio deve essere sempre
aperto!
La signora Milindy è stata una
capace protagonista dello sviluppo
dei nostri luoghi e noi abbiamo
avuto il privilegio di ricordare
insieme a lei i fatti di una
vicenda familiare dal valore storico
e umano irripetibile, iniziata
nel ‘900 con il nonno Orazio e
vissuta fino ad oggi dai Ghedina,
nati e cresciuti in Val d’Algone,
dove oggi, da più di un secolo,
contribuiscono a mantenere
vivo, pulsante e allegro questo
angolo di montagna vera!
Per trasmettere lo stato d’animo
che ci appartiene al termine
dell’intervista, concludiamo
citando una frase riportata sul
numero del Bollettino della SAT
di Trento del 1955 dopo uno dei
primi campeggi in Val’Algone:
“Tutti quelli che sono partiti ci
hanno detto: ritorneremo un
altr’anno per fermarci di più,
sperando che passi presto il
tempo; e tutti hanno portato con
loro il ricordo delle ore liete trascorse
al piccolo grazioso Rifugio
Ghedina accolti sempre a
qualunque momento dalla cara
signora Milindi che è stata per
noi così premurosa. Vada a Lei
un profondo ringraziamento.”
Arrivederci, dunque, all’anno
prossimo, Signora Milindy, per
festeggiare insieme i Suoi 100
anni!
■

Venerdì 13 maggio. Questa data
non sarà certo ricordata come un
venerdì funesto dagli alunni
della 3ª e 4ª elementare di Carisolo!
Proprio quel giorno, i
ragazzi, in gita in Val di Tovel
nell’ambito dell’attività
didattica“Alla scoperta di un
mistero” con il Parco e il Museo
delle Scienze di Trento, hanno
fatto un incontro del tutto eccezionale!
Ma vediamo come si
sono svolti i fatti attraverso le
parole stesse dei bambini.
Come ogni anno, in occasione
della fine dell’anno scolastico
vengono organizzate dalla scuola
varie gite ed uscite. Venerdì
13 maggio, siamo andati al lago
di Tovel che si trova in Val di
Non con le classi III e IV di
Carisolo, il mio paese Giorgia
4ª
Siamo arrivati a scuola, ma non
con una semplice cartella, ma
con uno zaino colmo di cose
buone Cristian 3ª
Alle 8.30 circa è arrivato un pullman.
Eravamo tutti agitati Lisa
3ª
ADAMELLO BRENTA
ALLA SCOPERTA
DI UN MISTERO
a cura di Chiara Grassi - Uff. Comunicazione Pnab
Samanta
Quel giorno ero molto agitata
perché era la prima volta che
andavo al Lago di Tovel. Oltretutto,
siamo stati molto fortunati
con il tempo: sembrava proprio
che piovesse però dopo c’è stato
sole tutto il giorno Michelle 3ª
Io durante il viaggio guardavo
lo splendido paesaggio Chiara
4ª
Poco prima di parcheggiare il
pullman, una massa gigantesca
ci ha attraversato la strada
Samanta 3ª
Io e i miei amici eravamo in
fondo al pullman ad ascoltare
musica quando dei bambini che
erano nei primi posti hanno
Thomas Jhennifer
44
urlato che c’era l’orso Federico
4ª
Abbiamo sentito urlare la maestra
Loreta “Guardate l’orso,
guardate l’orso”, tutti erano
agitati, era un cucciolo con il
pelo molto folto, le zampe lunghe,
grosse e robuste, il corpo
abbastanza cicciottello, due
occhi grandi, il naso lungo e
stretto e la coda invisibile perché
era troppo piccola Filippo
4ª
La mia amica Saba ha urlato
“L’orso, l’orso!”. Abbiamo
guardato tutti dal finestrino:
c’era un cucciolo impaurito con
un sedere molto grosso e penzolante
Tamara 3ª
All’improvviso Federico disse
“C’è l’orso, c’è l’orso” allora
mi girai ma vidi forse soltanto
un pezzo di coda. Mi feci raccontare
com’era e mi dissero
che era un cucciolo con tanta
pelliccia, soprattutto sulla schiena.
Mi sono molto eccitato, perché
non si vede tutti i giorni
l’orso Giovanni 4ª
Le maestre non ci credevano ma
invece c’era veramente; era un

Tamara
cucciolo d’orso tutto spaventato
e marrone che zampettava muovendo
in maniera buffa il suo
sedere, dirigendosi verso il
bosco Saba 3ª
All’inizio era sulla strada, ma
alla vista di quel diabolico
mostro a motore si impaurì e
corse giù per il bosco Cristian 3ª
Era una massa di pelo che rotolava
impaurita nel bosco Jhennifer
3ª
Era molto impaurito e correva a
più non posso Teresa 3ª
Era un batuffolo di pelo marrone
ed era anche carino. Quando
ho visto l’orso ho detto “Wow
che bello!” Martina 4ª
Era la prima volta che vedevo
un orso nel suo habitat naturale
e non mi ha spaventato più di
tanto, forse perché mi trovavo al
ADAMELLO BRENTA
Saba
sicuro sul pullman. Non so che
reazione avrei se mi trovassi faccia
a faccia con lui mentre passeggio
per il bosco, credo che
me ne andrei di corsa a gambe
levate Giorgia 4ª
Eravamo emozionati perché è
raro (per noi) vedere l’orso libero
ed anche per le maestre è
stato molto emozionante! Federico
P. 4ª
L’orso era piccolo e cicciotto ed
è corso giù nel bosco Benedetta
3ª
Era un cucciolo grosso, mi sembrava
un adulto per la grandezza,
con del pelo marrone (sembrava
un sasso). Quando avevo
sentito la parola “orso” mi sono
emozionato come la maestra
Milena e avevo chiesto subito
dov’era ma purtroppo era tardi
Simone Teresa
45
e non l’ho potuto ammirare bene
e con calma. Ero così emozionato
che volevo tornare indietro e
rivederlo ma ormai era già
andato via Leonardo 4ª
C’erano le maestre Nicoletta,
Loreta e Milena. Loro erano
emozionate e tutti sono rimasti a
bocca aperta ma certi non lo
hanno visto e anche io non l’ho
visto Andrea 4ª
Io non l’ho visto, ma anche se
l’avessi visto non avrei provato
una grande emozione perché ne
ho già visto uno l’anno scorso a
Spormaggiore e anche un’orsa
con tre cuccioli a Mavignola
sotto la casa di mio nonno Albino
4ª
Purtroppo, pur essendo vicino al
finestrino, ero sul lato opposto
così non l’ho visto. Mi sono agi-

tata tantissimo anche se non
l’ho visto e avrei voluto vederlo
Gabriella 4ª
L’animale non era molto grande
ed era pacioccone, il suo viso
era tenero e paffuto. Anche i
bambini di terza elementare che
erano con noi sono rimasti entusiasti
Chiara 4ª
Alla vista di quell’enorme palla
di pelo traballante, tutti siamo
rimasti a bocca aperta Lisa 3ª
Quando siamo arrivati ci siamo
incamminati lungo un sentiero,
poco dopo ci siamo ritrovati
davanti a questo meraviglioso
laghetto circondato dal bosco
Thomas 3ª
Abbiamo visto gli esperti del
Parco e gli abbiamo raccontato
tutto e loro sono rimasti a bocca
aperta Davide 4ª
Valentina ed Alessia ci hanno
accolti, abbiamo fatto un cerchio
e ci hanno spiegato delle
cose. Siamo andati in un prato e
Valentina ci ha raccontato la
leggenda del Lago che parlava
della regina Tresenga e del suo
popolo Benedetta 4ª
La maestra Valentina, dopo una
passeggiata durata 10 minuti, ci
ha raccontato una leggenda che
spiegava perché il lago una
volta diventava rosso Jhennifer
4ª
Arrivati al lago ci aspettavano
le operatrici del Parco che ci
hanno portato in una piccola
spiaggetta in riva al lago. Più
tardi abbiamo visto il museo di
ADAMELLO BRENTA
limnologia, lì c’era Max, uno
scienziato che studia le acque
del lago e i suoi abitanti. Abbiamo
fatto anche un giro in barca
Simone 4ª
L’acqua del lago era calda e
limpida. Più tardi siamo andati
a fare un meraviglioso gioco;
c’erano degli indovinelli da
risolvere e a risolverli ci ha aiutato
Valentina, un’operatrice del
Parco. I protagonisti di questo
gioco erano Max e Jack Black
Teresa 3ª
Ho trascorso una giornata stupenda
Giovanni 4ª
Sia le insegnanti che i bambini
erano emozionatissimi: vedere
un orso libero dal vivo è una
vera fortuna! Questa gita resterà
veramente un ricordo indimenticabile
Federico 4ª
È stato come un sogno dal quale
non volevo svegliarmi. Per tutta
la giornata non feci altro che
pensare all’orso. E’ stato bellissimo
Ariana 4ª
È stata una bellissima gita, interessante
e istruttiva nel mondo
della natura scoprendo un luogo
bellissimo del nostro Trentino
Simone 3ª
È stata una bellissima gita, ho
imparato tantissime cose sul
lago di Tovel, mi piacerebbe
ritornare con la mia famiglia
Benedetta 3ª
Per me questa è stata la realizzazione
di un sogno, Maestra
Milena
Cristian Lisa
46
Benedetta
Michelle
Le impressioni dei piccoli sono
a tratti un po’ contraddittorie, per
qualcuno l’orso era una massa di
pelo piccola, per qualcuno
gigantesca, c’è chi dice che era
un cucciolo e chi un adulto, che
dice che passeggiava tranquillamente
nel bosco e chi che scappava
a più non posso. Di sicuro
c’è solo che questi fortunati
bambini si sono molto emozionati
nell’incontrare l’orso e che
la gita al Lago di Tovel ha portato
certamente “Alla scoperta di
un mistero”! Si ringraziano per
la collaborazione le maestre
Milena, Nicoletta e Loreta.
■

Tre nuove strutture per l’ospitalità
dei turisti e tre nuove aziende
produttrici di miele hanno
fatto il loro ingresso nella famiglia
“Qualità Parco”, il progetto
che premia gli operatori del settore
ricettivo turistico (hotel,
campeggi, affittacamere, agritur,
bed & breakfast e rifugi escursionistici)
e del settore agroalimentare
(aziende produttrici di
miele e formaggio di malga) che
dimostrano, nella gestione aziendale,
una concreta attenzione nei
confronti dell’ambiente.
Le strutture – 2 hotel e 1 struttura
tipica – e le aziende apistiche
hanno superato tutte le verifiche
imposte dal progetto e dimostrato
di rispettare i requisiti ambientali
stabiliti dai protocolli per la
concessione del marchio.
Le strutture ricettive certificate
sono state: Beverly Hotel (Pinzolo),
Hotel Chalet del Brenta
(M. di Campiglio), Agritur Sandro
(Sporminore).
Sono state inoltre marchiate tre
aziende produttrici di miele:
Azienda Agricola Bergamo
Nicola (Nanno), Apicoltura “Il
Regno delle Api” (Flavon) e
Apicoltura “Villi” (Spiazzo).
Oggi sono 44 le strutture ricettive
certificate “Qualità Parco”, di
cui 31 alberghi, 3 garnì, 3 campeggi
e 7 strutture tipiche. Sono
ADAMELLO BRENTA
“QUALITà PARCO”
UN PROGETTO
DI ALLEANZA
CON IL TERRITORIO
di Valentina Maestranzi - Uff. Ambientale Pnab
invece 6 le aziende produttrici di
miele certificate “Qualità
Parco”.
Alla consegna degli attestati, il 5
luglio, hanno partecipato il Presidente
del Parco Naturale Adamello
Brenta Antonio Caola e la
referente del progetto Valentina
Maestranzi. “Sono molto onorato
come presidente – ha dichiarato
Antonio Caola – di poter
accogliere nel mondo Qualità
Parco strutture e aziende che
provengono da due diversi setto-
47
ri del progetto “Qualità Parco”:
quello ricettivo turistico e quello
agroalimentare. L’intento del
Parco è infatti quello di creare
una simbiosi fra questi due settori,
affinchè possano attivarsi
per creare collaborazioni reciproche.
Grazie agli operatori turistici e
alle aziende agroalimentari questo
progetto è strategico per diffondere
la cultura del Parco e le
buone pratiche sul territorio.
■

Nel corso di questa estate 2011,
il Parco Naturale Adamello
Brenta sta proponendo, per il
settimo anno consecutivo, la
ParcoCard, carta elettronica prepagata,
grazie alla quale si può
accedere gratuitamente ad un
ricco ventaglio di proposte per
vivere la natura del Parco, la
cultura e i sapori del territorio.
Con la card si accede una volta
gratuitamente a tutti i seguenti
servizi:
• escursioni tematiche con l’accompagnamento
degli operatori
del Parco;
• parcheggi in Val Genova, Val
di Tovel, Vallesinella, Patascoss,
Val d’Algone e Malga
Bissina;
• bus navetta in Val Genova, Val
di Tovel e Vallesinella;
• parco Avventura in Val Genova
e Val di Tovel e Ursus
Adventure Park in Val di Breguzzo;
• ingresso alle Case del Parco di
Daone, San Lorenzo in Banale,
Stenico, Spormaggiore e
Tovel;
• ingresso ai Centri visitatori del
Parco Naturale Paneveggio
Pale di San Martino e Parco
Nazionale dello Stelvio;
• ingresso a Musei e Castelli
Provinciali: Castello del Buonconsiglio,
Castel Thun, Castello
di Stenico, Castel Beseno,
Mart di Rovereto e Trento,
Casa d’Arte Futurista Depero,
Museo Civico di Rovereto,
Museo Tridentino di Scienze
Naturali, Museo degli Usi e
ADAMELLO BRENTA
CON LA PARCOCARD,
LE CHIAVI DEL PARCO
di Catia Hvala - Uff. Comunicazione Pnab
Costumi della Gente Trentina,
Museo della Malga di Caderzone,
Sentiero Etnografico Rio
Caino di Cimego, Giardino
Botanico Alpino Viote del
Monte Bondone;
• degustazioni gratuite e possibilità
di acquisto a prezzi sconta-
48
ti di prodotti con Marchio
Qualità Parco e “Selezionati
dal Parco” presso numerosi
punti vendita convenzionati.
Per i residenti nei Comuni del
Parco la card stagionale è proposta
al prezzo speciale di 20,00
€ (valida per 1 adulto e 1 bambino
fino ai 12 anni) e il vantaggio
è concreto: ammortizzi il
costo con un parcheggio,
un’escursione e un ingresso a un
museo/castello! La card è valida
da metà giugno a metà settembre
e si può acquistare presso la
sede del Parco a Strembo, tutte
le Case del Parco, il Punto info
di Mavignola e gli uffici turistici
del territorio (qui si può ritirare
anche il depliant specifico per
conoscere nei dettagli i contenuti
e le altre tipologie di card).
■
URSUS ADVENTURE PARK
VAL DI BREGUZZO
Con oltre 80 entusiasmanti attività suddivise in
6 percorsi di diversa difficoltà. Situato alle
porte del Parco Naturale Adamello Brenta nel
cuore della Val di Breguzzo, in un ampio prato
con spazi attrezzati per pic-nic, è in grado di offrire
emozioni e grande divertimento in tutta sicurezza.
Completamente immersi nella natura sarà possibile affrontare
percorsi di abilità pensati per tutta la famiglia sospesi nell'aria tra
tronchi, teleferiche mozzafiato, passerelle e ponti tibetani che collegano
un albero all'altro, seguiti da istruttori specializzati. Sarà
uno dei primi parchi in Italia ad adottare il sistema di sicurezza
100% Bornack che permetterà di affrontare ogni genere di passaggio
con estrema garanzia ma senza perdere l'ebrezza del brivido.
URSUS ADVENTURE PARK VAL DI BREGUZZO sarà la
scelta ideale per trascorrere una giornata divertente ed emozionante
a contatto con la natura in compagnia di amici e famigliari.

Una foto al mese, naturalmente Parco Continua il concorso Le Foto più belle
Thomas Martini
Il silenzio nel Parco
(1° class. – gennaio 2011)
Federico Arnoldi
Il cielo, le stelle, la luna
(1° class. – marzo 2011)
Thomas Martini
Notturno nel Parco
(1° class. – maggio 2011)
La partecipazione è gratuita e aperta a tutti.
Sul sito internet il regolamento e le modalità di partecipazione.
Mario Benigni
Inverno d’alta quota
(1° class – febbraio 2011)
Andrea Inzani
Lavorare in montagna
(1° class. – aprile 2011)
Thomas Martini
Le malghe del Parco, malga Tuena
(1° class. giugno 2011)

INVOLUCRO RICICLABILE
ADAMELLO BRENTA
Il Coordinamento delle Aree protette:
per mettere in rete esperienze e fare sistema
Il Coordinamento delle Aree protette è il luogo dove promuovere
un metodo di lavoro fortemente integrato, finalizzato a
far emergere in Trentino un “sistema delle aree protette”.
Dove, nel concreto, sia possibile mettere in rete conoscenze
ed esperienze, puntando ad una valorizzazione del territorio,
tenendo conto delle risorse naturali e culturali ma anche delle
specifiche realtà.
In questa prospettiva dovrà essere possibile realizzare uno
scambio intenso tra parchi e reti di riserve.
Alcuni specifici capitoli di lavoro dei parchi richiedono,
infatti, una forte azione di coordinamento.
L’inserimento delle Dolomiti nell’elenco dei siti Unesco
costituisce un fattore primario nella prospettiva del coordinamento
dei progetti, con particolare attenzione all’ambito della
conservazione e della comunicazione.
I parchi della Provincia, dentro al “Coordinamento”, potranno essere soggetti di riferimento
per lo sviluppo di esperienze di eccellenza che possano portare a valorizzare il patrimonio
Dolomiti.
Ma anche nell’ambito dell’educazione ambientale si dovranno potenziare le sinergie fra i soggetti
che presidiano il territorio.
Ambiti, poi, come la ricerca e la conservazione potranno trovare nel coordinamento un
momento importante sul piano della diffusione e dello scambio di esperienze.
La stessa comunicazione dovrà tendere a fare “sistema” con l’obiettivo principale di avvicinare
i cittadini al contesto e all’azione dei parchi e alla comprensione corretta degli aspetti legati
alle aree protette, soffermandosi sull’importanza dei biotopi o delle aree di riserva o della Rete
europea Natura 2000.
Sul piano delle prospettive del “Coordinamento”, l’obiettivo è sicuramente quello di sviluppare
un piano di collaborazione, istituzionale ed operativa, per giungere all’individuazione di
specifiche azioni che coinvolgano i vari territori.
Infatti le aree protette – dentro le normative europee come Rete Natura 2000 – costituiscono i
nodi e, dunque, i facilitatori per mettere in connessione i territori.
Nel contempo i medesimi parchi rappresentano una risorsa fondamentale nell’ambito delle
aree protette, configurandosi come “laboratori” in ambito naturalistico e culturale, ma anche
nell’ambito della green economy. E, sotto questo aspetto, essere anche attori della costruzione
di “Distretti territoriali dell’economia” che guardino con attenzione alle tematiche ambientali.
Giacobbe Zortea
Presidente del Coordinamento delle Aree Protette del Trentino
Presidente del Parco Paneveggio Pale di San Martino
Stampato su carta fornita da Cartiere del Garda Spa, azienda specializzata nella produzione di carte patinate senza legno. Certificata ISO 14001,
Registrazione EMAS (30 giugno 2005). Cartiere del Garda pone molta attenzione alla scelta delle materie prime e impiega prevalentemente cellulose
selezionate provenienti da fornitori che attuano una buona gestione delle risorse forestali. Tutte le carte sono prodotte in ambiente neutro senza acidi
(acidfree). Interno: GardaPat 13 KIARA 100 g/m² - Copertina: GardaPat 13 KIARA 150 g/m² OBA-free.